Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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ANNO 2020

 

LA GIUSTIZIA

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Processo sulla Morte.

Processo sul Depistaggio.

Federico Aldrovandi: "Non lo dimenticate".

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Condanne scontate.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Bossetti è innocente?

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Famiglia Sfortunata.

Solita Amanda.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tso: Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Il Cerchio Magico degli Amministratori giudiziari. La Bibbiano degli anziani.

Il punto su Bibbiano.

La Tratta dei Minori.

Tra moglie e marito non mettere…lo Stato.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Era Abuso…

Non era abuso…

Minorenni scomparsi o in fuga.

Ipocrisia e Pedofilia.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Giustizia Giusta.

Comunisti per Costituzione.

Magistratura: Ordine o Potere?

Il Potere degli “Dei”.

“Li Camburristi”. La devono vincere loro: l’accanimento giudiziario.

L’accusa conta più della difesa.

«I magistrati onorari? Dipendenti».

Il Codice Vassalli.

Lo "Stato" della Giustizia.

La "scena del crimine".

Diritto e Giustizia. I tanti gradi di Giudizio e l’Istituto dell’Insabbiamento.

Testimoni pre-istruiti dal pm.

Le Sentenze “Copia e Incolla”.

Il Male minore. Condanna, spesso, senza colpa. Gli effetti del Patteggiamento.

Il lusso di difendersi.

Il Processo telematico.

Giustizia stravagante.

Giustizia lumaca.

Diffamazione: sì o no?

La Vittimologia.

A proposito di Garantismo.

A proposito di Prescrizione.

Prescrizione e toghe inoperose.

Un terzo dei detenuti in attesa di giudizio.

Salute e carcere. 

Le Mie Prigioni.

L’ergastolo ostativo: il carcere per i Vecchi.

La Prigione dei Bambini.

Le Class Action carcerarie.

Gli scrivani del carcere.

A Proposito di Riabilitazione…

Le mie Evasioni.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Oltre ogni ragionevole dubbio.

La Giornata per le vittime di errori giudiziari.

La Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo. La Cedu, il carrozzone inutile che costa 71 milioni all'anno.

L’Italia dei Ricorsi alla Corte dei diritti dell’Uomo.

Quelli che...sono Ministro della Giustizia: “Gli innocenti non finiscono in carcere”.

Invece gli innocenti finiscono in carcere. Ma guai a dirlo!

Le Confessioni e le Dichiarazioni estorte.

Storie di Ordinaria Ingiustizia.

Ingiustizia. Il caso dei Marò spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Vallanzasca spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Mesina spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Johnny lo Zingaro spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Manduca spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Luttazzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gulotta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ligresti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Carminati spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Rocchelli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Occhionero spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gino Girolimoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Formigoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso De Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cuffaro spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Armando Veneto spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso di Vincenzo Stranieri spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del delitto di Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del Delitto di Carmela “Melania” Rea spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso del Delitto di Erba spiegato bene.

Nascita di un processo mediatico.

Processo Eni e Consip. Dove osano i manettari.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Intercettazioni, spionaggio di Stato per controllare la vita dei cittadini.

La spazzacorrotti. Una norma giustizialista che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia.

I Garantisti.      

I Giustizialisti.

Gli Odiatori.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Concorso truccato per i magistrati.

Togopoli. La cupola dei Magistrati.

E’ scoppiata Magistratopoli.

Magistrati alla sbarra.

Gli intoccabili toccati.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caso Mattei.

Attentato alla sinagoga di Roma, una nuova pista trentotto anni dopo.

Il misterioso caso di Davide Cervia.

Il Mistero di Pier Paolo Pasolini.

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il Mistero di Ettore Majorana.

Il Mistero della Circe della Versilia.

Il Mistero di Gigliola Guerinoni: la Mantide di Cairo Montenotte.

Il mistero del delitto della Milano da bere.

L’Omicidio del Circeo.

Il Caso Claps.

Il Caso Vassallo.

Il Caso di Eleonora e Daniele: i fidanzati di Lecce.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Denise Pipitone.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero della morte di Sissy Trovato Mazza.

Vermicino: la morte di Alfredino Rampi.

Il mistero di Maddie McCann.

Il giallo della morte di Edoardo Miotti.

La morte di Emanuele Scieri.

La morte di Giulio Regeni.

Storia di Antonio Ciacciofera, il Regeni dimenticato tornato morto da Cuba.

I Ciontoli e l’omicidio Vannini.

Il Giallo di Alessio Vinci.

Il Giallo Bergamini.

L’omicidio di Willy Branchi.

L’Omicidio di Serena Mollicone.

Il Mistero di Rino Gaetano.

Il Mistero Pantani.

Il Mistero della morte di Marco Cestaro.

Il mistero della morte in auto di Mario Tchou. 

La morte sospetta del giornalista Catalano.

Il caso Wilma Montesi.

Miranda Ferrante, morte e misteri di una ballerina della Dolce vita.

Christa, delitto-scandalo della Dolce vita.

L'assassinio di Khashoggi.

Dal mare tre sub morti e cento chili di hashish.

L’Omicidio di Walter Tobagi.

Il Caso della Uno Bianca.

La Strage palestinese di Fiumicino.

Quante vie partirono da piazza Fontana…

Il Caso Pinelli – Calabresi.

L'omicidio di Mino Pecorelli.

I misteri della Strage di Ustica.

I misteri della Strage di Bologna.

I Misteri della Strage di Piazza della Loggia a Brescia.

Dubbi e bugie sulla morte di Mario Biondo.

Boulder, Colorado: il mistero della baby miss strangolata.

Racale, il mistero di Mauro Romano.

La Morte di Rosanna Sapori.

Il mistero di Fabio e Enzo spariti nel mare.

Il mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Lesotho e l’Affare di Stato. L’Omicidio di Lipolelo.

Marocco e l’Affare di Stato. Lalla Salma.

Ted Kennedy poteva essere assassinato da un piano ordito da un satanista?

La Storia di Robert Durst.

Il giallo della baronessa Rothschild.

Il caso Bebawi: il delitto di Farouk Chourbagi.

Storia del rapimento di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi.

L’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre e la Verità a portata di mano.

La Morte di Marco Prato.

David Rossi: suicidio o omicidio?

Le Navi dei veleni. Il mistero della morte del capitano De Grazia.

Moby Prince, dopo 30 anni.

Il caso di Emanuela Orlandi.

Renatino De Pedis fu ucciso 30 anni fa.

I Suicidi di Carmagnola. Le tre sorelle Ferrero.

Il mistero dell’Eremita. La tragica fine di Mauro «Lupo grigio».

Massimo Carlotto e il delitto di Margherita.

Antonio De Falchi, morte a San Siro.

Il caso del sequestro Bulgari.

Il mistero irrisolto dell'uomo di Somerton.

Il Mistero del massacro di Columbine.

Il Mistero del jet malese MH370 scomparso.

Il Mistero Viceconte.

Il killer dell’alfabeto.

La banda di mostri, omicidio a Bargagli.

Antonietta Longo, la decapitata del lago.

Il mistero del naufragio del Ferry Estonia.

Il mistero della Norman Atlantic.

James Brown potrebbe non essere morto per infarto.

La saponificatrice di Correggio: una storia tra verità e leggende.

Delitto Casati Stampa, triangolo di sesso e morte.

Luciano Luberti il boia di Albenga.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

 

PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Il Processo sulla Morte.

Francesco Salvatore per "la Repubblica - Edizione Roma" il 27 novembre 2020. Undici anni fa Ilaria Cucchi pensava che «la giustizia avrebbe fatto naturalmente il suo corso». Ma da allora ha dovuto lottare per dimostrare che il fratello non era «un tossicodipendente e non era morto di suo » , né «per una caduta», «per responsabilità dei medici» , «per epilessia» e «tra le cose più assurde ho sentito parlare di fratture da bara, nel primo processo: mio fratello quindi la schiena se l' era rotta da morto?». Oltre cinque ore di testimonianza ieri per Ilaria Cucchi in tribunale dove è in corso il processo per 8 carabinieri accusati di presunti depistaggi nell' inchiesta sull' omicidio del fratello. «Dopo l' arresto Stefano è stato ricoverato al Pertini - ha ricordato Ilaria - ma non ce lo hanno fatto visitare. Solo in obitorio l' ho visto, era agghiacciante. I segni sul volto erano chiari segni di un pestaggio. Quell' immagine mi ricorda sempre la solitudine di Stefano. Non perdonerò mai il fatto che mio fratello sia morto tra dolori atroci, solo come un cane, pensando che la sua famiglia, che sempre c' era stata, lo avesse abbandonato». Ilaria ha proseguito la testimonianza mostrando la gigantografia del cadavere del fratello: «Viste tutte le chiacchere, sentivo l' esigenza di mostrare come era stato ridotto. La sera dell' arresto era stato a cena da noi e 7 giorni dopo lo ritrovo in quelle condizioni? Eppure sin da subito si è detto che Stefano è morto di suo. All' indomani del fatto il ministro Ignazio La Russa disse di "non sapere nulla ma di non aver dubbio dell'innocenza dei carabinieri". Il consulente della procura Paolo Arbarello diceva che era un caso di responsabilità medica. Quando incontrai al Senato il ministro Angelino Alfano che rispondeva al Question time gli dissi di aiutarci, rispose "che era morto per una caduta": la giudicai una non risposta». Ilaria ha parlato anche di altri incontri istituzionali: «Nel 2017 incontrai il generale Tullio Del Sette che mi disse che l' Arma "era una famiglia e se un figlio sbaglia, che facciamo?". Dopo incontrai anche il comandante generale dell' Arma Giovanni Nistri due volte. Venivo insultata su Facebook da uno degli imputati, il maresciallo Roberto Mandolini e volevo esprimere solidarietà a Casamassima che era stato trasferito, dopo che le sue dichiarazioni avevano riaperto il caso: "Ognuno ha i suoi scheletri nell' armadio" mi disse facendo cenno a suoi illeciti. La seconda volta ero con il mio avvocato Fabio Anselmo e rimasi intimidita: esordì dicendo, 'alle donne perdono tutto, agli uomini no". All' incontro c' era anche il ministro Elisabetta Trenta. Nistri parlò dei tre carabinieri che avevano fatto riaprire il caso (Casamassima, Rosati e Tedesco): diceva che gli faceva onore il fatto di aver denunciato ma che avevano dei procedimenti disciplinari. Uno sproloquio sugli unici che avevano rotto il muro di omertà». Quanto ad oggi, Ilaria ha ripercorso ogni aspetto: «Subisco attacchi in quantità industriale, insulti e minacce social. Ho spesso temuto per l' incolumità mia e della mia famiglia. Economicamente non è rimasto nulla del milione e 3 di risarcimento. La mia situazione è devastante. Papà sta vendendo un appartamento, rischiamo di non pagare il mutuo. Lo studio è naufragato. I miei genitori si sono ammalati gravemente».

Carabinieri o bucanieri? Dopo il caso Cucchi la caserma degli orrori di Piacenza. Alberto Cisterna su Il Riformista il 23 Luglio 2020. La Nazione non può fare a meno dell’Arma dei Carabinieri e nessuno ha mai neppure pensato di dover metter mano al più glorioso dei corpi di polizia, eletto finanche a Forza armata due decenni or sono accanto a Esercito, Marina e Aviazione. Un unicum al mondo, ritenuto un modello da imitare e una risorsa insostituibile nelle missioni internazionali. Ciò posto sarebbe ingiusto negare che la retata disposta dalla procura della Repubblica di Piacenza lasci tutti attoniti e sbigottiti. Al di là delle responsabilità dei singoli indagati, il coinvolgimento nell’inchiesta di un’intera struttura dell’Arma è un fatto grave che segnala, a questo punto in modo quasi irreversibile, l’emergere di un problema che deve essere risolto perché attinge alle radici della legittimazione democratica di una forza di polizia, ancor di più se si tratta di una forza armata vocata alla difesa della Nazione. Il ripetersi di episodi che hanno visto appartenenti dell’Arma chiamati a rispondere di gravi reati nell’esercizio delle proprie funzioni (per citare l’affaire Cucchi o la violenza sulle studentesse americane a Firenze o gli sviluppi ancora del tutto imprevedibili dell’omicidio del povero Cerciello Rega) interroga in profondità la coscienza dei cittadini e lascia cicatrici che devono essere rimarginate con rapidità e decisione. La straordinaria lettera di scuse indirizzata dal Comandante generale ai familiari di Stefano Cucchi contiene considerazioni che devono essere richiamate all’attenzione di queste ore in cui una caserma intera è stata messa sotto sequestro come fosse un covo di bucanieri e sopraffattori. Scriveva il generale Nistri: «Io per primo, e con me i tanti colleghi, oltre centomila, che ogni giorno rischiano la vita soffriamo nel pensare che la nostra uniforme sia indossata da chi commette atti con essa inconciliabili e nell’essere accostati a comportamenti che non ci appartengono». Parole importanti che, a questo punto, esigono anche rimedi altrettanto decisi e decisivi. Ritenere che l’Arma potesse mantenersi esente da fenomeni degenerativi che, purtroppo, riguardano anche altre primarie istituzioni pubbliche sarebbe stato illusorio e nessuno si deve lamentare di uno sfilacciamento della coesione etica in qualche segmento dell’apparato. Ma mentre la corruzione o il malaffare negli uffici pubblici provocano le sperpero di risorse collettive e distruggono l’efficacia dell’azione amministrativa, le devianze dei corpi di polizia minacciano beni assolutamente primari e inviolabili del cittadino, tra cui in primo luogo la sua libertà personale e la sua incolumità fisica. La sola idea che qualcuno possa sentirsi a rischio o anche solo a disagio nell’entrare in contatto con un carabiniere o un poliziotto segna ovunque il discrimine tra una nazione democratica e un enclave sudamericana senza regole. E non serve richiamare l’ampio dibattito, in corso da decenni negli Usa, o le recenti, pesanti reazioni al caso di George Floyd per comprendere quali siano i parametri secondo cui si misura il rating di legalità dell’azione di polizia in una nazione. Il dovere dell’assoluta intangibilità fisica e morale dell’uomo in vincoli (Habeas corpus), il rispetto della sua indifesa soggezione alla potestà pubblica sono le colonne d’Ercole oltre le quali nessuno può spingersi. La relazione fiduciaria tra cittadini e forze di polizia non si manifesta solo – e com’è giusto – nella richiesta di un aiuto o di un intervento (che non mancano mai), ma soprattutto nella serenità e tranquillità con cui ciascuno affida sé stesso – anche contro la propria volontà se in custodia – alle mani di chi esercita su di lui una potestà limitatrice. Mantenere indenne questa sottile linea rossa che separa la forza legittima e l’arbitrio, impedire che la corruzione o l’abuso possano impadronirsi anche solo a macchia di leopardo delle strutture di polizia, evitare il formarsi di circuiti investigativi opachi in cui pubblici ministeri e operatori di polizia rafforzano legami extralegali al riparo o con la malcelata sopportazione dei vertici, contenere un carrierismo esasperato che induce a privilegiare i contatti con l’establishment gerarchico piuttosto che a dedicarsi all’antica, paziente cura degli uomini al proprio comando, sono obiettivi probabilmente imprescindibili per ogni forza di polizia in questo momento storico. E a maggior ragione per l’Arma dei carabinieri che ha un posto speciale e unico nella considerazione dei cittadini. Per farlo sono necessari, corpo per corpo e apparato per apparato, approcci diversi e soluzioni differenti. Troppo profonde le differenze strutturali e operative tra le tre principali forze di polizia perché possano immaginarsi rimedi omogenei. Certo, genera acuta attenzione il concentrarsi di episodi sul versante della Benemerita e il moltiplicarsi di casi mediaticamente dirompenti. Aveva ragione il generale Nistri quando scriveva alla famiglia Cucchi «…il rispetto assoluto della legge ci costringe ad attendere la definizione della vicenda penale. Come vuole la Costituzione, la responsabilità penale è personale. Abbiamo bisogno che sia accertato esattamente, dai giudici, “chi” ha fatto “ che cosa”». E malgrado ciò si staglia con una certa chiarezza, in queste parole, anche una fragilità e un limite oggettivo che l’attività di prevenzione interna degli abusi e dei reati incontra in una struttura che annovera oltre 4.500 stazioni e un centinaio di altri comandi. Un’articolazione pulviscolare pressoché unica e nella quale, drammaticamente, la lacerazione deontologica e l’aberrazione comportamentale sono più difficili da rilevare e da reprimere con rapidità. La lunga catena di comando che ha storicamente connotato l’organizzazione dell’Arma (che in oltre 3.700 comuni rappresenta l’unica forza di polizia presente) evidenzia cedevolezze e mostra crepe che vanno affrontate da chi di dovere. Con molta approssimazione e in punta di piedi può, forse, dirsi che la formazione dei quadri intermedi sia lo snodo nevralgico di questa sfida, come tutte le vicende recenti hanno mostrato. Sembra che occorra rafforzare la vicinanza dei comandi locali alle più piccole strutture periferiche affinché avvertano, a un tempo, la presenza e anche il controllo dei protocolli in cui sono inseriti. Protocolli in cui è sempre immanente il rischio che la burocrazia si sostituisca alla gerarchia. Probabilmente per nessuna altra articolazione dello Stato-amministrazione si avvertono così forti il coinvolgimento e l’aspettativa dei cittadini che hanno un preciso interesse all’onore e alla disciplina (art.54 Cost.) di tutta l’Arma solo perchè ne vanno orgogliosi.

Da corriere.it il 23 luglio 2020. «Un fatto enorme e gravissimo che ricorda la vicenda di mio fratello Stefano». Così Ilaria Cucchi commenta l’indagine della Procura di Piacenza che coinvolge alcuni carabinieri accusati, tra l’altro, di traffico di droga, estorsioni e tortura. «Bisogna andare fino in fondo - ha aggiunto Cucchi - non si facciano sconti a nessuno come hanno dimostrato magistrati coraggiosi nell’indagine sulla morte di Stefano- ricorda la sorella del geometra morto a una settimana dall’arresto per le conseguenze delle percosse subite dai carabinieri in caserma - Basta parlare di singole mele marce, i casi stanno diventando troppi.  Il problema è nel sistema: mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell’Arma subito dopo la testimonianza come nel caso del loro collega Casamassima», conclude Ilaria Cucchi, che per anni si è battuta per stabilire la verità sulla morte del fratello. Come si è battuta la mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti: anche lei ha dimostrato che il suo ragazzo, all'epoca diciottenne, è morto nel 2005 durante un controllo di polizia. Nella condanna dei 4 agenti, del 2012, si legge che fu esercitata un'azione «sproporzionatamente violenta e repressiva». La morte fu causata dalla pressione esercitata dai poliziotti che nel tentativo di immobilizzare Federico, durante un controllo, gli erano montati sulla schiena. Inoltre, i giudici stigmatizzano il tentativo di manipolare le testimonianze e sminuire le colpe degli imputati. Oggi Moretti scrive su Twitter: «Quanti cesti di mele marce abbiamo accumulato?».

Il processo. A novembre scorso, al termine di due anni di udienze e otto ore di camera di consiglio, è arrivato invece il verdetto di primo grado contro gli imputati nel caso Cucchi, autori dell’arresto e responsabili delle percosse inflitte al trentunenne spacciatore di marijuana e cocaina, fermato la sera del 15 ottobre 2009. Da lì cominciò il calvario del detenuto, picchiato in caserma (così ha stabilito la sentenza), poi portato in tribunale, trasferito a Regina Coeli, due volte al pronto soccorso e infine ricoverato all’ospedale Pertini dove è morto a una settimana dall’arresto, senza che i familiari riuscissero a sapere nulla delle sue condizioni. I carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sono stati condannati a 12 anni di carcere. Poi è stato aperto il cosiddetto «Cucchi ter», per ricostruire le responsabilità di chi cercò di coprire il pestaggio del geometra. Otto i militari sotto accusa. Il ministero di Giustizia si è costituito parte civile.

Ilaria Cucchi: “Basta parlare di mele marce: a Piacenza un sistema, ora niente sconti a nessuno”. Il Dubbio il 23 luglio 2020. Per la sorella di Stefano Cucchi, il ragazzo morto dopo il pestaggio da parte di due carabinieri, le violenze di Piacenza mettono in evidenza un “sistema”. “La vicenda di Piacenza e’ un fatto enorme e gravissimo che ricorda il caso di mio fratello”. Lo ha detto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, commentando l’inchiesta della procura di Piacenza che coinvolge alcuni carabinieri accusati di diversi reati dal traffico di droga alla tortura. “Bisogna andare fino in fondo e non fare sconti a nessuno, come hanno dimostrato magistrati coraggiosi nell’inchiesta sulla morte di mio fratello e anche in questa indagine. Basta parlare di singole mele marce, i casi – ha proseguito Ilaria Cucchi – stanno diventando davvero troppi. Il problema e’ nel sistema. Mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell’Arma come subito dopo la testimonianza del loro collega Casamassima”. “Io barro, non voglio fare un falso ideologico!”. Dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Piacenza, emerge la figura di un neo carabiniere “dall’atteggiamento solitario, che non fa gruppo”, così lo definiscono due degli arrestati, che si oppone, quanto meno non partecipandovi, a quello che per gli inquirenti sarebbe stato un andazzo criminale, caratterizzato da pestaggi, arresti illegali, spaccio di droga, festini con escort dentro la caserma sequestrata. R.B., queste le iniziali del ragazzo che appare la "mela sana" in un contesto buio, confida al telefono i suoi dubbi sull’operato dei colleghi al padre, carabiniere in pensione. – Da questi colloqui, scrive il giudice Luca Milani, si evince “tutta la delusione del giovane militare dell’Arma per essere finito a lavorare in un ambiente in cui vengono costantemente calpestati i doveri delle forze dell’ordine, dove tutto e’ tollerato a condizione che vengano garantiti i risultati in termini di arresti”. Per il magistrato, il ragazzo manifesta “una scarsa propensione a seguire i colleghi dovuta al suo forte disagio nel constatare le continue violazioni e gli abusi commessi all’interno della caserma di via Caccialupi”. “Molte cose le fanno le cose a umma a umma, non mi piacciono”, ripete più volte al genitore, riferendosi ai colleghi poi arrestati, e spiegando al padre di non voler attestare falsamente “di avere fatto in una tot data un qualcosa che poi non e’ neanche vero”, commettendo quindi un falso.

Carabinieri della caserma degli orrori non sono male marce, la tortura di Stato è la norma. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 24 Luglio 2020. Dopo aver appreso dal Corriere della Sera che nella caserma di Piacenza si infieriva su «spacciatori, immigrati ma anche semplici cittadini innocenti» (l’immigrato è notoriamente colpevole), potremmo adottare la retorica comune a destra e a manca secondo cui quando si discute di giustizia ci si dimentica sempre delle vittime. Sarebbe una retorica buona, per una volta: anche solo perché, guarda caso, non risuona mai quando a subire violenza sono quelli sottoposti alle cure di giustizia e quando a perpetrarla è l’ordinamento che semmai dovrebbe proteggerli. Di queste altre vittime, chissà perché (chissà perché per modo di dire, ovviamente), non si occupa mai nessuno, eppure lo stato di afflizione in cui versano è conclamato. A fronte della sperabilmente episodica vergogna piacentina c’è la tolleratissima normalità di un sistema che sottopone a tortura decine di migliaia di cittadini, perlopiù appartenenti ai ranghi infimi della società: e se ora fa scandalo la sopraffazione di cui sono stati destinatari i poveracci finiti nelle grinfie di quei criminali in divisa, nulla, ma proprio nulla si fa per mettere fine all’ordinaria ignominia di un’organizzazione pubblica che con il sigillo di Stato sequestra la vita delle persone e la consegna alla malattia, alla schiavitù sessuale, alla disperazione dell’isolamento, alla privazione di qualsiasi diritto riconosciuto persino alle bestie. E sono tutti innocenti, tutti: perché potranno anche aver commesso un illecito (molti non ne hanno commesso nessuno), ma non c’è colpa che giustifichi la sottomissione a quel dispositivo di multiforme degradazione. Ordini di carcerazione e condanne irrogate con sentenze emesse in nome del popolo italiano sono lo strumento con cui la società, ogni giorno, infligge a degli esseri umani una somma di sanzioni che non hanno nulla a che fare con la pena già gravissima costituita dalla privazione della libertà: e così quei provvedimenti di giustizia diventano il tramite indifferente di un’illegalità sostanziale, il mezzo formalmente impeccabile con cui si realizza il crimine di Stato, il lasciapassare della pubblica impunità. Non servono indagini e denunce per fare emergere la realtà del nostro sistema carcerario, perché è una realtà conosciuta. E non servono condanne, che dal pulpito della giustizia europea continuano a fioccare senza che cambi mai nulla e senza che lo Stato italiano, questo delinquente abituale, ritenga di adeguarvisi. Serve una classe dirigente per opporsi a questo schifo senza curarsi del consenso a rischio.

Casamassima, testimone nel processo Cucchi: "Così sono stato punito dall'Arma". L'appuntato racconta la lunga serie di procedimenti disciplinari subiti: 15 in tutto, cominciati dopo la testimonianza. Francesco Salvatore il 10 giugno 2020 su La Repubblica. È stato il testimone che con la sua rivelazione ha permesso la riapertura dell'indagine sull'omicidio di Stefano Cucchi. Riccardo Casamassima, appuntato dei carabinieri in servizio nell'ottobre 2009 alla caserma di Tor Vergata, è tornato nuovamente in aula anche nel processo Cucchi ter, quello che riguarda i presunti depistaggi compiuti da otto carabinieri - comandanti di gruppo e di stazione oltre a marescialli e appuntati - per indirizzare l'inchiesta Cucchi su un binario morto. "Ho parlato con l'avvocato Fabio Anselmo, difensore della famiglia Cucchi, solo nel 2015, a distanza di anni dal fatto, per paura di ritorsioni" ha esordito il militare. Per poi snocciolare una lunga serie di procedimenti disciplinari subiti, "sono 15, cominciati tutti dopo la testimonianza", oltre a raccontare nel dettaglio tre trasferimenti non voluti. Casamassima ha fatto nomi e cognomi, arrivando ad affermare di essere stato messo all'angolo su pressione del comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri: "Un superiore, in una conversazione, evidenziò la volontà di Nistri di fare pressioni su di me", ha spiegato in aula davanti al giudice Roberto Nespeca. Il super testimone ha raccontato dieci anni di vita, ma è sull'ultimo periodo che si è maggiormente focalizzato. Da dopo la sua deposizione al processo Cucchi bis, nel maggio 2018: "C'è stata la testimonianza e poi è partita la pratica del trasferimento. Subito subito - ha spiegato al pm Giovanni Musarò - sono finito sempre a Roma, ma a 7 chilometri di distanza più lontano rispetto a casa mia. Dalla caserma Tor di Quinto a quella in via Giulio Cesare, alla Scuola allievi. Ho perso tutto: indennità e straordinari. Sono minimo 400 euro al mese (da 2000 a 1600 euro circa ndr). Mi hanno voluto punire". A distanza di qualche mese la situazione non è migliorata: "Nel 2019, a giugno - ha proseguito Casamassima - mi hanno messo in ufficio dove non facevo nulla. Mi tenevano sei ore fermo. Era imbarazzante. Lo scrissi sui social e venni contattato dalla ministra della Difesa Trenta, che incontrai". Una spiegazione sulle cause l'ha fornita lui stesso poco dopo: "Un maresciallo, in una conversazione, mi ha detto che era volere del comandante Nistri, di fare pressioni su di me". Contro il vertice dei Carabinieri, lo stesso appuntato ha sporto due denunce: "Una per diffamazione e una per rivelazione del segreto d'ufficio". Entrambe le querele sono state archiviate dal gip lo scorso settembre. Quanto alle presunte pressioni riportate da Casamassima da parte di Nistri, l'Anac non ha ravvisato responsabilità. A spiegarlo è il comando generali dei carabinieri in una nota: "L'Anac ha espressamente evidenziato che si tratta di una conversazione decontestualizzata alla quale possono essere attribuiti significati completamente differenti da quelli prospettati dal Casamassima e che non risulta idonea a dimostrare intenti ritorsivi nei confronti del graduato". Quanto ai procedimenti disciplinari subiti, riferiti in aula dal testimone, la stessa Anac aveva aperto un procedimento in capo a 6 ufficiali, non rilevando vizi di legittimità: "L'Anac ha riconosciuto - riporta la nota - con delibera del 1 aprile 2020, la piena legittimità dei provvedimenti adottati nei confronti di Casamassima ed ha escluso sia qualsiasi carattere ritorsivo o discriminatorio o persecutorio e sia qualsiasi demansionamento".

Le motivazioni della sentenza: «Cucchi stava bene, morì per le lesioni». Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Ilaria Sacchettoni. Né la droga né l’epilessia: solo il violento pestaggio al quale fu sottoposto Stefano Cucchi la notte del suo arresto (il 15 ottobre 2009) può spiegare la sua morte sopraggiunta una settimana dopo. È questa la certezza raggiunta dalla I Corte d’Assise di Roma, presieduta da Vincenzo Capozza: «Se (Cucchi, ndr) non avesse subito un evento traumatico non avrebbe sofferto di molteplici e gravi lesioni con l’instaurarsi di accertate patologie che hanno portato al suo ricovero e da lì a quel progressivo aggravarsi delle sue condizioni che lo hanno condotto a morte». Le lesioni ricevute hanno innescato «una serie di eventi (patologici, ndr) terminati con la morte». L’inchiesta bis sulla morte di Cucchi, coordinata dal pubblico ministero Giovanni Musarò, ha raggiunto un primo punto fermo nell’accertamento delle cause del decesso del ragazzo. Ma poi, sempre stando alle argomentazioni con le quali i giudici hanno motivato le condanne per omicidio nei confronti dei carabinieri Raffaele D’Alessandro (12 anni) e Alessio Di Bernardo (12 anni), anche sul fronte della ricostruzione di quanto avvenuto la notte dell’arresto di Cucchi si sono compiuti passi avanti. Fondamentale e attendibile la testimonianza del carabiniere, inizialmente imputato di omicidio con gli altri, Francesco Tedesco, presente al momento delle percosse: «L’istruttoria dibattimentale ha consentito di acquisire una molteplicità di univoci riscontri alla ricostruzione dei fatti operata da Tedesco e per altro aspetto questi ha offerto una spiegazione del suo pregresso silenzio assolutamente comprensibile e ragionevole». Tedesco è stato poi condannato per il solo falso relativamente al confezionamento del verbale di arresto di Cucchi. Ma è la sua testimonianza, accanto a quella di alcuni detenuti (fra cui Luigi Lainà), che ha permesso di accertare la verità. «Le lesioni accertate sul corpo di Cucchi, poi, sono state tutte tali da risultare perfettamente compatibili con l’azione lesiva descritta da Tedesco» scrivono i giudici. La notte del suo arresto Cucchi entrò in un silenzioso contrasto con i carabinieri che lo avevano arrestato fino a provocare uno di loro al momento del fotosegnalamento. La reazione fu «illecita e ingiustificabile»: «È indiscutibile che la reazione tenuta da Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo sia stata illecita e ingiustificabile. Un’azione violenta nel corso dello svolgimento del servizio d’istituto, per un verso facendo un uso distorto dei poteri di coercizione inerenti il loro servizio, per altro aspetto violando il dovere di tutelare l’incolumità fisica della persona sottoposta al loro controllo». Motivata anche la condanna per falso ideologico di Roberto Mandolini (3 anni e 8 mesi) relativamente al verbale di arresto: «Il verbale di arresto di Stefano Cucchi appare già, ad una prima lettura, un concentrato di anomalie, errori ed inesattezze». Commenta Ilaria Cucchi: «È esattamente tutta la verità così come l’abbiamo sostenuta e urlata invano per tanti anni».

Morte Cucchi, “Stefano prima del pestaggio era in buone condizioni fisiche”. Il Dubbio il 7 febbraio 2020. Depositate le motivazioni della sentenza di condanna di primo grado dei carabinieri. Inflitti 12 anni a Raffaele d’Alessandro e Alessio di Bernardo per omicidio preterintenzionale 3 anni e 8 mesi a roberto mandolini e 2 anni a Francesco Tedesco per falso. “È indiscutibile che Stefano Cucchi la sera dell’arresto versava in condizioni fisiche assolutamente normali e che non presentava né manifestava alcun segno di lesioni fisiche’, così scrive nero su bianco la Corte d’assise di Roma nelle motivazioni depositate ieri della sentenza per la quale sono stati condannati 4 carabinieri di cui due per omicidio preterintenzionale per il pestaggio avvenuto nella caserma Casilina. “Va escluso – scrive la Corte – che fossero intervenute cause sopravvenute da sole sufficienti a cagionare l’evento morte. Non possono considerarsi tali né un atteggiamento di scarsa compliance del paziente con gli interventi terapeutici proposti né la possibilità/ probabilità di negligenze nel trattamento medico e/ o infermieristico inerenti scarsi controlli sul paziente e, in particolare, sull’andamento della diuresi e sull’efficienza del cateterismo’. Secondo la Corte c’era stata una catena causale che parte “da un’azione palesemente dolosa e illecita che ha costituito la causa prima di un’evoluzione patologica alla fine letale”. Secondo i giudici si tratta di "uno schema che, così, corrisponde perfettamente alla previsione normativa in tema di nesso di causalità tra condotta illecita ed evento e che, d’altra parte, rende chiara la differenza tra la mera causalità biologica, secondo cui nessuna delle singole lesioni subite da Cucchi sarebbe stata idonea a cagionare la morte, e la causalità giuridico penale, nel rispetto della quale il nesso di causalità sussiste se quelle lesioni, conseguenza di condotta delittuosa, siano state tali da innescare una serie di eventi terminati con la morte". Senza quel pestaggio, quindi, Cucchi non sarebbe morto. Questa è l’amara verità accertata processualmente in primo grado e che ha visto la condanna a 12 anni nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro per il pestaggio. Oltre a loro, sono stati condannati – per falso – anche altri due militari: Roberto Mandolini e Francesco Tedesco. Un processo, ricordiamo, che si era aperto proprio dopo le dichiarazioni di quest’ultimo, Tedesco, che raccontò del pestaggio subito da Stefano in caserma. La vicenda di Stefano Cucchi inizia nella serata del 15 ottobre 2009, quando viene arrestato perché trovato in possesso di droga. Stefano è un geometra 31enne di Roma e viene fermato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti: trovato in possesso di 20 grammi di hashish, di cocaina e di alcune pastiglie per l’epilessia di cui soffriva. Il giorno dopo il fermo viene convalidato l’arresto e il 31enne viene processato per direttissima. Il giudice dispone che Cucchi rimanga in custodia cautelare nel carcere di Regina Coeli, in attesa di un’udienza che si sarebbe dovuta tenere il mese successivo. Già alla fine dell’udienza per la convalida dell’arresto le condizioni di salute di Cucchi sono abbastanza preoccupanti e per questo viene fatto visitare dal medico del tribunale. Dopo l’ingresso in carcere viene visitato nell’infermeria di Regina Coeli, che dispone un immediato trasferimento al pronto soccorso del Fatebenefratelli per degli accertamenti. Cucchi rifiuta però il ricovero e torna in carcere. Il giorno dopo, le sue condizioni di salute sono sempre più preoccupanti e viene sottoposto ad altre visite, fino al ricovero nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Al momento del decesso pesa 37 chili. In sei giorni la famiglia non riesce mai a vederlo. È l’inizio di una complessa vicenda giudiziaria e di una lunga ricerca della verità, portata avanti soprattutto dalla sorella di Stefano, Ilaria Cucchi. Il 14 novembre 2019, la Corte d’Assise di Roma ha condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale due carabinieri. Nello stesso giorno, è arrivata la sentenza d’appello che ha visto quattro medici prescritti e uno assolto.

Cucchi, le motivazioni della sentenza: “Stava bene, fatali le lesioni subite nel pestaggio”. Redazione de Il Riformista il — 7 Febbraio 2020. Il pestaggio subito da Stefano Cucchi la notte dell’arresto è “la causa prima della patogenesi che si è rapidamente conclusa con la morte” ed è “indiscutibile” che il giovane la sera in cui fu fermato, “fino all’esecuzione della perquisizione domiciliare, versasse in condizioni fisiche assolutamente normali” senza “alcun segno di lesioni”. È quanto si legge nelle motivazioni della Corte d’Assise di Roma che il 14 novembre scorso ha condannato quattro carabinieri. Non esiste “nessuna possibilità di dubbio”, sostengono i giudici, sul fatto che Stefano abbia subito “un evento traumatico in prossimità del suo arresto e, più precisamente, nel corso del suo passaggio presso la caserma Casilina per il fotosegnalamento”. Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, aggredendolo con tanta violenza hanno avuto una condotta “assolutamente ingiustificabile”: Cucchi è morto, per “una concatenazione polifattoriale”, la cui causa “essenziale, se non unica”, è “il riflesso vagale connesso alla vescica neurogenica originata dalla lesione in S4”. È stata dunque la lesione alla vertebra provocata dal calcio di uno dei due militari a provocare, sei giorni dopo, un decesso che, sostengono i giudici, non può esser stata in alcun modo una conseguenza dell’epilessia di cui aveva sofferto. Di Bernardo e D’Alessandro, sono ritenuti i responsabili del pestaggio, mentre la Corte ha anche inflitto tre anni e otto mesi al maresciallo Roberto Mandolini, l’ufficiale condannato per falso che avrebbe coperto quanto accaduto, e due anni e sei mesi per falso a Francesco Tedesco, il militare che nel corso del procedimento ha accusato Di Bernardo e D’Alessandro ed è stato assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Altri otto carabinieri sono a processo perché accusati, a vario titolo, di reati che vanno dal falso, all’omessa denuncia, la calunnia e il favoreggiamento: si tratta del generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del Reparto operativo della capitale, Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi venne portato dopo il pestaggio, Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio quando arrivò il geometra, Francesco Cavallo all’epoca dei fatti capo ufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Ciani.

ILARIA: “GRAZIE A CHI LOTTATO CON ME” – “Leggo le 130 pagine delle motivazioni della sentenza per la morte di Stefano e ogni tanto devo smuovermi per capire che non sto sognando. Anni ed anni trascorsi nelle aule di tribunale a sentir dire da dei gran professoroni che mio fratello era morto di suo o comunque di qualcosa di bizzarro. Anni ed anni a combattere contro l’ipocrisia e l’arroganza del potere. Non ero sola per fortuna, perché da sola non avrei potuto fare nulla. Ma proprio nulla”. Lo scrive su Facebook Ilaria Cucchi. “In tutti questi anni ho visto delle persone lottare per un’idea. Ed il mio ringraziamento ogg va a loro. Quelle persone sono Fabio, il mio avvocato, ed i miei consulenti medico legali. Avevano ragione loro. Su tutto! E sarò loro per sempre grata per non essersi arresi”, aggiunge.

·         Processo sul Depistaggio.

Andrea Galli per il Corriere della Sera il 17 dicembre 2020. Sono dodici passi, come da titolo e focalizzano altrettante tappe temporali, geografiche ed esistenziali, ma in realtà se ne portano dietro migliaia, milioni di milioni e anche più. A cominciare dalle marce di un eroe dimenticato, non dall' autore che ce lo ricorda nella sua grandiosità, l' astigiano Cosma Manera, maggiore dei carabinieri, protagonista di una missione ai limiti dell' impossibile: tra il 1916 e il 1920, attraversando gli inverni siberiani, salvò oltre diecimila soldati di lingua austriaca, presi prigionieri dall' esercito zarista. Manera è uno dei protagonisti del volume «Dodici passi nell' Arma dei carabinieri» (Cairo editore) scritto dal generale di Corpo d' Armata Gaetano Angelo Maruccia, vicecomandante dell' Arma, che ha voluto non già limitarsi all' agiografia di un' istituzione, e men che meno ribadirne la longeva vita e le infinite fatiche quotidiane spinto da recenti fatti, come la caserma di Piacenza. I comportamenti di rari singoli non possono certo inquinare un cammino centrale nella storia del Paese, debitore nei confronti dei carabinieri della loro fedeltà. Fedeltà. Dice il generale: «Questa è la cifra distintiva, al punto da ispirare il motto araldico "Nei Secoli Fedele", concesso ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 10 novembre 1933, e che racchiude in tre parole vicende semplici ma insieme di grande, grandissima umanità, manifestata nella capacità di far fronte alle numerose calamità naturali che hanno colpito il popolo italiano». Con un linguaggio accessibile, senza indugiare in inutili dogmatismi, volendo al contrario regalare anche alle nuove generazioni uno strumento di studio e accompagnamento, fra gloriosi esempi, Fanfare e missioni all' estero, Maruccia interpreta un viaggio che ci restituisce le contaminazioni di genere, poiché, come ogni simbolo, l'Arma si è via via interfacciata, e viceversa, con la letteratura, l' arte, il disegno e la televisione, in una dimensione intrinsecamente popolare, valga l' iconico Gigi Proietti, il maresciallo Rocca degli schermi.  Il generale Maruccia s' allontana anche dal proscenio lasciando voce ad altri. Una delle più intense è quella di Emanuela Piantadosi, figlia del maresciallo capo Stefano, assassinato nel 1980 da un killer latitante. Piantadosi comandava la stazione di Locate Triulzi, hinterland di Milano. I suoi funerali, esequie di un uomo semplice, ordinato, puntuale, duro coi duri e abile a interpretare le infinite pieghe della commedia umana, insomma portatore delle coordinate del perfetto maresciallo di paese, furono celebrati dal cardinal Carlo Maria Martini, alla presenza del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Emanuela Piantadosi è presidentessa dell' Associazione vittime del dovere. Dunque il ricordo, la memoria, l' obbligo d' individuare le tracce, portarle alla luce, percorrerle con pazienza e decisione. I diritti d' autore saranno devoluti all' Onaomac, l' Opera nazionale di assistenza per gli orfani dell' Arma, creata nell' immediato secondo dopoguerra grazie alla donazione di una giornata di lavoro d' ogni singolo carabiniere. Quello di Maruccia, come esplicitato dal sottotitolo, è un «percorso tra storia, tradizione, letteratura e testimonianze» che poggia anche sui passi del generale stesso nelle differenti sedi di comando. Ma chi sono, i carabinieri? «Devono saper realizzare il difficile equilibrio tra i compiti repressivi e di tutela. Da sempre e per sempre le prescrizioni etiche costituiscono le radici».

Il giallo di Emanuel Scalabrin: manette, botte e morte in caserma proprio come Stefano Cucchi…Angela Stella su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. È ancora troppo presto per dire se siamo in presenza di uno nuovo caso Stefano Cucchi, ma certamente la morte di Emanuel Scalabrin merita attenzione e approfondimento investigativo. Emanuel è morto tra la notte del 4 e 5 dicembre nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga, in provincia di Savona, dopo essere stato arrestato durante un blitz antidroga durante il quale è stato trovato in possesso di 40 grammi di cocaina. «La dinamica di quanto accaduto in quelle ore – ci dice l’avvocato Giovanni Sanna che assiste la famiglia insieme alla collega Lucrezia Novaro – ci lascia molto perplessi. Alcuni aspetti sono ancora da chiarire ma è comunque singolare che una persona muoia mentre è sotto la custodia dello Stato». L’autopsia sul corpo del ragazzo non è ancora terminata, anche se i primi accertamenti del medico legale Francesca Fragiolini sembrano ricondurre il decesso a un problema cardiaco. Intanto però la Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Proprio per scongiurare un nuovo caso Cucchi, inoltre, il pubblico ministero Chiara Venturi, appena giunta sul posto, ha prontamente chiesto non solo una ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto. Ma vediamo quali sono le circostanze che potrebbero far pensare che dietro la morte di Emanuel, bracciante agricolo di 33 anni con problemi di dipendenza, ci possa essere qualche forma di responsabilità di terzi. Partiamo dall’arresto: secondo i racconti dei familiari, pubblicati dalla Comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, «Emanuel verso le 12.30 del 4 dicembre si trova nella sua casa di Ceriale insieme alla compagna Giulia, mentre il loro figlio minore di 9 anni si trova presso una famiglia di amici. Ad un certo punto mentre si apprestano a pranzare viene a mancare la corrente elettrica ed Emanuel esce dalla porta di casa per verificare se si tratta di un’interruzione o altro. Improvvisamente viene spintonato all’interno dell’alloggio da alcuni agenti in borghese che erano lì appostati per l’irruzione, lui viene trascinato all’interno della casa fino alla camera da letto e qui gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità. Emanuel urla e chiede aiuto, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi». Le fasi dell’arresto dureranno circa 30 minuti: un tempo forse troppo lungo, durante il quale la Procura dovrà accertare cosa sia veramente successo. Il ragazzo viene poi tradotto nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga. Intorno alle 21 viene chiamata la guardia medica perché Emanuel non si sente bene e presenta sintomi patologici. La Guardia Medica lo visita per circa un’ora e chiede ai carabinieri che l’uomo venga trasferito al pronto soccorso di Pietra Ligure per ulteriori accertamenti, avendo riscontrato pressione alta e tachicardia. E qui arriviamo alla seconda questione da chiarire: da quello che si sa al momento, Emanuel viene portato al Pronto Soccorso con l’auto di servizio dei carabinieri, la sua permanenza dura solo 5 minuti, e non gli sarebbe stato fatto un elettrocardiogramma, né alcun altro accertamento. Gli viene dato solo del metadone ipotizzando una crisi di astinenza per essere rispedito subito in caserma. Emanuel torna nella cella di sicurezza prima di mezzanotte. Da quel momento in poi un cono d’ombra avvolge le sue ultime ore di vita. Solamente alle 11:00 del 5 dicembre i carabinieri si accorgeranno che il giovane padre non respira più, è morto. Dalle prime ricostruzioni sembrerebbe che i militari di turno abbiano tenuto sotto controllo Emanuel tramite le telecamere di videosorveglianza presenti nella cella. Peccato però che, come riferito dal portavoce nazionale di Sinistra Italiana, l’onorevole Nicola Fratoianni, nell’annunciare una interrogazione parlamentare sul caso, «non esiste la registrazione del video controllo di sorveglianza, perché l’hard disk non c’è più». Dunque si tratta di una storia con ancora molti interrogativi. Cosa è successo durante l’arresto? Perché i sanitari non hanno approfondito il suo stato clinico? Cosa è successo nella notte in cui è morto? Forse si è lamentato e qualcuno ha cercato di zittirlo con la violenza? La morte di un ragazzo di 33 anni poteva essere evitata?

Ilaria Cucchi, rabbia a 11 anni dalla morte di Stefano: “Indifferenza e omertà”. Notizia.it il 21/10/2020. La rabbia di Ilaria Cucchi a undici anni dalla morte di Stefano: "Nessuno ha avuto il coraggio di parlare". Giovedì 22 ottobre sarà l’anniversario della morte di Stefano Cucchi. Undici anni fa, infatti, il trentaduenne romano morì una settimana dopo dall’avere subito delle percosse in caserma mentre era in custodia cautelare poiché trovato in possesso di droga.

Ad oggi le cause della morte sono ancora sotto processo. Con la sentenza emessa il 14 novembre 2019, nel corso del processo bis, la Corte di assise di Roma ha dichiarato infatti i carabinieri scelti Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro colpevoli di omicidio preterintenzionale. Da due anni, tuttavia, è in corso il processo per depistaggio. I cinque militari coinvolti nell’episodio di violenza sono imputati con l’accusa di falso per un inquinamento probatorio che aveva ottenuto di sviare i processi verso persone che non avevano alcuna responsabilità. A battersi, da più di un decennio, per avere giustizia, la sorella della vittima Ilaria Cucchi.

Il post di Ilaria Cucchi. Ilaria Cucchi ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post in ricordo di Stefano. Tra le righe un velo di rabbia data dal fatto che, a undici anni dalla morte del fratello, non si ha completa verità su come andarono i fatti. “Mentre i Generali sfilano in udienza nel tentativo di giustificare, oltre ogni evidenza, il loro operato io non posso non pensare che 11 anni fa queste erano le ultime ore di vita di mio fratello. Domani all’alba, di 11 anni fa, Stefano è morto, nell’indifferenza generale di tutti coloro che lo hanno visto nei giorni del suo calvario. E nel quieto vivere di chi sapeva e non ha avuto il coraggio di parlare allora finché si era in tempo, forse, per poterlo salvare“, ha scritto Ilaria.

La sorella della vittima, inoltre, ha risposto ai tanti commenti arrivati sotto al post. In uno di questi ha parlato, in particolare, del ruolo nella vicenda di Riccardo Casamassima, appuntato dei carabinieri in servizio nell’ottobre 2009 alla caserma di Tor Vergata, il quale diede una svolta al processo nel 2015 rivelando al pm Giovanni Musarò di avere sentito da un superiore che un ragazzo arrestato era stato “massacrato di botte”. “Denunciare è un dovere soprattutto per un pubblico ufficiale. Io ringrazio per quello che ha fatto Riccardo Casamassima. Ma, soprattutto in questi giorni, non posso non pensare che se avesse fatto il suo dovere per tempo mio fratello, forse, sarebbe ancora vivo. Le omertà e gli insabbiamenti sono costati alla mia famiglia anni ed anni di battaglie legali a vuoto. Ci siamo devastati. Entrambi i miei genitori si sono ammalati gravemente“, ha concluso Ilaria.

La testimonianza chiave. Caso Cucchi, il mistero della relazione sparita. Fu insabbiata dai Carabinieri? Paolo Comi su Il Riformista il 29 Settembre 2020. I carabinieri “insabbiarono” fin da subito le indagini sulla morte di Stefano Cucchi? La risposta, ad undici anni dai fatti, arriverà questa mattina dalla testimonianza dell’appuntato Gianluca Colicchio in programma al Tribunale di Roma nell’ambito del processo “Cucchi ter”. Colicchio è il teste chiave sugli eventuali depistaggi messi in atto dai vertici della scala gerarchica dell’Arma allora in servizio nella Capitale, nessuno dei quali, seppur imputato, mai sospeso cautelarmente dal Comando generale. Anzi, in questi anni tutti hanno fatto carriera, ricoprendo attualmente posti di grande prestigio. Colicchio era di piantone alla caserma di Roma Tor Sapienza quando Cucchi vi venne portato, la sera del 15 settembre del 2009, dopo essere stato arrestato dai colleghi della stazione Roma Appia con l’accusa di spaccio di stupefacenti. L’appuntato si accorse subito che qualcosa non tornava nello stato di salute del geometra romano e decise di chiamare l’ambulanza, redigendo poi una relazione di servizio sull’accaduto. Tale relazione, su ordine del colonnello Alessandro Casarsa, comandante del Gruppo di Roma, sarebbe quindi stata modificata, omettendo le effettive condizioni di salute di Cucchi. Ad aiutare Casarsa ci sarebbe stato il suo più stretto collaboratore, il colonnello Francesco Cavallo, ed il maggiore Luciano Soligo, comandante della compagnia Roma Monte Sacro. Il motivo? «Procurare l’impunità dei carabinieri della stazione Appia» responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che il successivo 22 settembre ne determinarono il decesso. E, probabilmente, anche evitare un altro danno d’immagine all’Arma dal momento che poche ore dopo la morte di Cucchi venivano arrestati i carabinieri autori del ricatto al presidente della Regione Lazio, Pietro Marrazzo. Colicchio, però, si rifiutò di firmare la relazione “corretta”. Sul banco degli imputati ci sono anche il colonnello Lorenzo Sabatino, ex comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Roma, ed il capitano Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del dipendente Nucleo investigativo. Entrambi incaricati dal pm romano Giovanni Musarò di svolgere accertamenti su quanto accaduto, sarebbero stati a conoscenza che le annotazioni di servizio, quella appunto di Colicchio e quella del carabiniere Francesco Di Sano, che gli aveva dato il cambio come piantone alla stazione di Roma Tor Sapienza, erano false. Sabatino, in particolare, dopo l’acquisizione degli atti si sarebbe limitato ad elencare la documentazione prelevata presso i vari comandi, «omettendo di denunciare la sussistenza del reato e omettendo di evidenziare che esistevano due versioni per ciascuna annotazione e che una delle due era falsa». Tale aspetto è stato oggetto di un duro scontro in aula durante una delle ultime udienze. Il Colonnello Lorenzo D’Aloia, comandante del Nucleo investigativo, aveva ricostruito cosa avvenne quando la Procura delegò gli stessi carabinieri, e non la Polizia che aveva svolto le indagini sul decesso di Cucchi, ad effettuare gli approfondimenti del caso. I militari avrebbero tradito la fiducia dei pm nascondendo una serie di responsabilità: documenti sfuggiti, sbianchettamenti sospetti, un’annotazione di servizio che dava conto della sparizione della relazione di servizio sulla vicenda Cucchi mai entrata a far parte nell’elenco degli atti trasmessi all’attenzione della magistratura. La modalità con cui erano stati acquisiti i documenti lasciò poi “perplesso” D’Aloia, benché decisa dal suo superiore diretto, il colonnello Sabatino. Invece di acquisire gli atti, venne chiesto ai comandi di “consegnarli”. All’ultima udienza Musarò si è irrigidito: «Siamo stanchi di questi inquinamenti probatori che vanno avanti da 11 anni».

Testarmata, per confutare quanto affermato da D’Aloia, aveva prodotto poco prima dei documenti che descrivevano modalità analoghe di acquisizione atti. Documenti che Testarmata non avrebbe potuto avere, secondo il pm. Normale esercizio di difesa, aveva ricordato l’avvocato del capitano, mettendo anche in luce i differenti profili di carriera degli ufficiali implicati in questa vicenda e le conseguenze ai fini della carriera.

Processo Cucchi, i pm in aula: "Tra i carabinieri qualcuno passa ancora atti agli imputati". Pubblicato venerdì, 25 settembre 2020 da La Repubblica.it. "Ancora oggi nel 2020 nel Reparto operativo dei carabinieri c'è qualcuno che passa gli atti a qualche imputato. Siamo stanchi di questi inquinamenti probatori che vanno avanti da 11 anni e vogliamo identificare gli autori". A dirlo in aula oggi il pm Giovanni Musarò nel processo sui depistaggi, che si svolge a porte chiuse, seguiti alla morte di Stefano Cucchi in cui sono imputati 8 militari dell'Arma accusati di falso. Il riferimento è ad alcuni documenti depositati la scorsa udienza dal difensore di uno degli imputati che non erano stati formalmente richiesti. "Il pm Musarò si alza e denuncia depistaggi in atto e documenti in possesso all'imputato Testarmata che non poteva avere. 'C'è un Giuda, un cavallo di Troia che speriamo di identificare che fornisce atti e documenti per una verità parziale e fuorviante'. Come dire: non abbiamo finito e non finiremo mai di subire interferenze illecite", scrive sul suo profilo Facebook l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi, in riferimento alle parole espresse in aula dal pm Musarò.

Cucchi, processo depistaggi: "Lettere di apprezzamento ai carabinieri che arrestarono Stefano". Francesco Giovannetti su La Repubblica il 13 luglio 2020. "Siamo basiti e stanchi". Così Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, legale della famiglia di Stefano Cucchi, il 31enne romano morto nell'ottobre del 2009 in seguito al pestaggio subito durante un arresto da parte dei carabinieri, al termine dell'ultima udienza del processo sui presunti depistaggi perpetrati da alcuni alti ufficiali dell'Arma. "E' terribile dover sentir ancora una volta che nei giorni in cui Stefano era ancora vivo già venivano messi in piedi depistaggi per mettere in cassaforte un eventuale processo", ha detto Ilaria Cucchi. Durante la testimonianza del luogotenente Giancarlo Silvia, del Nucleo comando della compagnia Roma-Casilina, sarebbe emerso come le condizioni fisiche di Cucchi avessero già destato attenzione. E tuttavia, negli stessi giorni, i responsabili dell'arresto avrebbero ricevuto lettere di plauso da parte dei loro superiori. "Per questo ci piacerebbe vedere le parti civili che rappresentano lo Stato (l'Arma si è costituita parte civile, ndr) più attive, perché finora sono rimaste nella totale inerzia", ha concluso Anselmo.

Caso Cucchi, "noi vittime, costretti a eseguire gli ordini": due imputati processo depistaggio chiedono di costituirsi parte civile. Si tratta di Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano. Sono 8 i militari alla sbarra con l'accusa di aver tentato di insabbiare l'inchiesta sul pestaggio sul giovane morto una settimana dopo l'arresto. "Non sapevamo del pestaggio". La Repubblica il 16 dicembre 2019. "Non sapevamo del pestaggio. Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi. C'è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all'epoca non capivamo. Oggi sappiamo tutto e per questo abbiamo deciso di costituirci parte civile. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l'abbiamo subita, erano ordini". Queste le parole, riferite dall'avvocato Giorgio Carta, di  Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano, i carabinieri imputati che hanno annunciato l'intenzione di costituirsi parte civile contro i superiori coimputati Francesco Cavallo e Luciano Soligo. Si consuma così un nuovo colpo di scena al processo a carico degli otto carabinieri accusati dalla procura di aver "depistato" l'inchiesta sul pestaggio in caserma di Stefano Cucchi. La motivazione, hanno spiegato i legali dei due carabinieri, sarebbe da ricercare nell'obbligo come militari di eseguire ordini arrivati dai superiori: il tenente colonnello, Cavallo e il tenente colonnello, Soligo. Per questo la decisione di costituirsi parte civile contro i due superiori gerarchici, anche loro imputati nel processo. "L'ordine fu dato da chi insistendo sulla modifica sapeva qualcosa di più. - ha spiegato uno dei legali - Labriola e Di Sano hanno subito un danno di immagine, da questo punto di vista siamo nella stessa posizione degli agenti di polizia penitenziaria". "Fu bloccata la partenza già programmata e con biglietto già acquistato di Francesco Di Sano per la Sicilia, per firmare l'annotazione di servizio già modificata". Aggiunge l'avvocato  Carta, in riferimento alle parole che sarebbero state pronunciate dal tenente colonnello Luciano Soligo allo stesso Di Sano che avrebbe dovuto rinunciare alla partenza per firmare l'annotazione. A Labriola fu invece chiesto, dal tenente colonnello Francesco Cavallo, di inviare i due file word delle annotazioni modificate Per i depistaggi sono imputati il generale Alessandro Casarsa all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto carabinieri sono accusati a vario titolo e a seconda delle posizioni di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, all'epoca dei fatti maggiore dell'Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, all'epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all'epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunni. Presenti all'udienza di questa mattina quattro degli otto imputati: Colombo Labriola, Sabatino, Testarmata e Di Sano. "Chiediamo di poter citare come responsabile civile il ministero della Difesa in quanto organo di riferimento dell'Arma dei carabinieri". Lo ha detto in aula  l'avvocato Diego Perugini, legale di uno dei tre agenti della penitenziaria assolti in via definitiva al primo processo sulla morte di Stefano Cucchi. Alla richiesta si sono associati i legali degli altri agenti della penitenziaria. Il ministero della Difesa è anche parte civile bello stesso processo.

Caso Cucchi, i due carabinieri: «costretti a eseguire ordini». Simona Musco il 17 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Di Sano e Labriola, a processo per I presunti depistaggi, accusano I superiori coimputati: «non sapevamo nulla del pestaggio, ci hanno obbligati a modificare le relazioni». «Non sapevamo del pestaggio di Stefano e non abbiamo potuto rifiutarci di modificare le relazioni sul suo stato di salute. Erano ordini superiori. Vogliamo costituirci parte civile». Colpo di scena al processo sui presunti depistaggi seguiti alla tragica fine di Stefano Cucchi, il 31enne romano arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di droga e morto sei giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Ieri due degli imputati – Francesco Di Sano e Massimiliano Colombo Labriola – hanno chiesto al giudice Giulia Cavallone di costituirsi parte civile contro i due superiori co- imputati, i tenenti colonnello Luciano Soligo e Francesco Cavallo. «C’è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo, ma oggi sappiamo tutto. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l’abbiamo subita, erano ordini», hanno spiegato i due attraverso il loro legale, Giorgio Carta. Secondo cui il reato di falso, per i suoi assistiti, non si sarebbe verificato. Alla sbarra ci sono otto carabinieri, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del Gruppo Roma, e altre sette carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo, Francesco Cavallo, capo ufficio del comando del Gruppo Roma, Luciano Soligo, comandante della compagnia Roma Montesacro, Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, in servizio alla stessa stazione, Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni. Tutto sarebbe accaduto il 27 ottobre 2009, cinque giorni dopo la morte di Cucchi, nella stazione di Tor Sapienza, dove il geometra era stato condotto dopo l’arresto, dopo aver già subito il pestaggio ad opera, secondo la sentenza emessa a novembre scorso, dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 12 anni. Il giorno successivo all’arresto, Di Sano, allora piantone alla stazione di Tor Sapienza, dopo aver dato il cambio al collega, vide Cucchi in camera di sicurezza attraverso lo spioncino. Ed è proprio per questo motivo che venne coinvolto nella redazione della relazione di servizio richiesta dopo la sua morte. Il 27 ottobre, dunque, Soligo chiese a Labriola di inviare via mail il file con la relazione a Cavallo, che lo stesso rispedì via mail con delle modifiche specifiche sulla salute di Cucchi e l’annotazione «meglio così». Labriola stampò dunque il file consegnandolo a Soligo. L’atto necessitava, però, della firma di Di Sano, quel giorno fuori servizio e in procinto di partire per la Sicilia. Soligo lo avrebbe dunque fermato: «Prima di partire – gli avrebbe detto – devi firmare l’annotazione». E dopo essersi intrattenuto a lungo con Soligo, Di Sano avrebbe firmato il documento, attardandosi tanto da perdere l’aereo. «Quel biglietto aereo l’ho perso, tanto che ricordo di essere dovuto poi scendere in Sicilia in macchina», ha spiegato. Insomma, i due «non avevano nessun potere decisionale – ha sottolineato Carta -. Dovevano ubbidire». «Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi», hanno sostenuto i due. Per il legale, dunque, «non c’è alcun falso», anche perché «Labriola non hai mai incrociato Cucchi, non fu neppure informato quando fu portato nella sua stazione». E se i due non avessero eseguito quell’ordine, «sarebbero incorsi in un reato militare». Avendo subito «un danno di immagine – ha aggiunto – sono nella stessa condizione degli agenti penitenziari». Che ieri hanno chiesto di poter citare come responsabile civile il ministero della Difesa.

Da ilfattoquotidiano.it il 16 dicembre 2019. I carabinieri Massimiliano Colombo Labriola e Francesco Di Sano, imputati nel processo sui presunti depistaggi che sarebbero seguiti alla morte di Stefano Cucchi, hanno chiesto di costituirsi parte civile contro i colleghi Luciano Soligo e Francesco Cavallo. Secondo i legali, infatti, i due militari dell’Arma avrebbero eseguito un ordine arrivato dai superiori: “L’ordine fu dato – hanno spiegato i difensori – da chi insistendo sulla modifica sapeva qualcosa di più. Loro hanno subito un danno di immagine, da questo punto di vista sono nella stessa condizione degli agenti penitenziari”. Il loro avvocato ha riferito il pensiero dei due imputati: “Non sapevamo del pestaggio. Dopo i Cucchi, le vittime siamo noi. C’è stata una strana insistenza nel chiederci di eseguire quelle modifiche che all’epoca non capivamo. Oggi sappiamo tutto e per questo abbiamo deciso di costituirci parte civile. Non siamo nella stessa linea gerarchica, l’abbiamo subita, erano ordini”. Per i depistaggi che sarebbero seguiti alla morte di Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e deceduto sette giorni dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma, sono imputati il generale Alessandro Casarsa – all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma – e altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto carabinieri sono accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Il dibattimento si svolgerà davanti alla giudice Giulia Cavallone che ha deciso di vietare le riprese video del processo perché “il diritto di cronaca viene già garantito dalla presenza dei giornalisti in aula”. Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, allora maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei carabinieri e il carabiniere Luca De Cianni, accusato di falso e di calunnia. Colombo Labriola e Di Sano, invece, erano rispettivamente comandante della stazione di Tor Sapienza e carabiniere scelto in servizio nella stessa stazione. Secondo quanto riferito dall’avvocato di Di Sano, Soligo gli disse: “Adesso non parti e modifichi l’annotazione di servizio”. Di Sano avrebbe spiegato che “quel giorno in cui eseguì la modifica era in partenza per la Sicilia, ma fu contattato da Soligo affinché prima eseguisse la modifica richiesta”. “Non c’è alcun falso – ha proseguito l’avvocato – Labriola e Di Sano non sapevano niente del pestaggio e Colombo Labriola non ha mai incrociato Cucchi. Inoltre, se non avessero eseguito gli ordini sarebbero stati puniti con reato militare che prevede la reclusione, per disobbedienza militare”. Secondo la ricostruzione dell’accusa, Cavallo “rapportandosi direttamente sia con Casarsa che con Soligo chiedeva a quest’ultimo che il contenuto di quella prima annotazione fosse modificato”. Soligo, invece, “veicolando una disposizione proveniente dal Gruppo Roma ordinava a Di Sano, anche per il tramite di Colombo Labriola, di redigere una seconda annotazione di servizio, con data falsa del 26 ottobre 2009 nella quale si attestava falsamente che “Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura fredda/umida che per la rigidità della tavola del letto ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata per la sua accentuata magrezza omettendo ogni riferimento alle difficoltà di deambulare accusate da Cucchi”. Per la morte di Cucchi, nel filone principale dell’inchiesta che ha squarciato un silenzio durato quasi 10 anni, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di aver pestato il geometra di 31 anni dopo averlo arrestato, sono stati condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale. I giudici della Corte d’assise di Roma hanno assolto da questa accusa l’imputato diventato teste dell’accusa Francesco Tedesco, che nel 2018 decise di parlare e di raccontare quanto aveva visto nella caserma Casilina, dove avvenne il pestaggio. A lui sono stati inflitti 2 anni e sei mesi per falso. Il maresciallo Roberto Mandolini, il comandante della Stazione Appia dove fu portato Stefano, è stato condannato a 3 anni e 8 mesi per la falsificazione del verbale di arresto. Assolto Vincenzo Nicolardi che rispondeva di calunnia, poi riqualificata in falsa testimonianza.

·         Federico Aldrovandi: "Non lo dimenticate".

A 15 anni dalla morte di Federico Aldrovandi: "Non lo dimenticate". Pubblicato venerdì, 25 settembre 2020 da La Repubblica.it. Quindici anni fa moriva Federico Aldrovandi, 18enne ucciso a Ferrara durante un controllo della polizia e divenuto un simbolo con la battaglia dei suoi genitori per avere giustizia. "Il 25 settembre di ogni anno, giunta l'alba, si ripete quello che per me rimarrà per sempre un incubo, o peggio, il ricordo orribile dell'uccisione di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggergli la vita", scrive oggi su Facebook il padre del giovane, Lino, mentre la madre, Patrizia Moretti, su Twitter invita a "non dimenticare" e posta un video-omaggio della curva ovest della Spal, la squadra di Federico. Lino Aldrovandi ricorda la storia del figlio: "Nato a Ferrara il 17 luglio 1987, terminò forzatamente la sua breve vita ad appena diciotto anni, alle ore 6.04 di un assurdo 25 settembre 2005, sull'asfalto grigio e freddo di via Ippodromo, di fronte all'entrata dell'ippodromo, in Ferrara, in un luogo forse troppo silenzioso, ucciso senza una ragione all'alba di una domenica mattina da 4 persone con una divisa addosso. I loro nomi: Monica Segatto, Paolo Forlani, Luca Pollastri ed Enzo Pontani", i poliziotti che vennero condannati per eccesso colposo in omicidio colposo, a tre anni e sei mesi (pena ridotta a 6 mesi per via dell’indulto). Nel lungo post in memoria di Federico, il dolore del padre: "Quello che non mi darà mai pace sono le urla di Federico con quelle sue parole di basta e aiuto sentite anche a centinaia di metri, ma non da quegli agenti (atti processuali). Anzi, il quarto, quello proteso in piedi a telefonare col cellulare di un collega, mentre Federico è a terra bloccato, a tempestarlo di calci (testimonianza in incidente probatorio del 16 giugno 2006). Un’immagine ai miei occhi di padre non diversa, anzi peggiore, considerandone gli autori di quel massacro (54 lesioni Federico aveva addosso, la distruzione dello scroto, buchi sulla testa e per finire il suo cuore compresso o colpito da un forte colpo gli si spezzò o meglio gli fu spezzato) rispetto ad altri casi orribili in cui la violenza l’ha fatta da padrona. Perchè?". Nel pomeriggio a Ospital Monacale, Comune di Argenta (Ferrara) a Federico viene intitolato un giardino pubblico. "L’idea di dare il nome di mio figlio ad un parco, sa di natura, di respiro, di voglia di correrci dentro a perdifiato. E solo i bimbi lo possono fare senza mai fermarsi, quello di correre a perdifiato, come faceva Federico", scrive il padre. All’intitolazione ci saranno i Modena City Ramblers che suoneranno poi in serata in piazza Marconi ad Argenta per un concerto insieme ai Nomadi. I Moden City Ramblers qualche anno fa dedicarono una canzone a Federico, dal titolo "La luna di Ferrara".

15 anni fa Aldrovandi fu soffocato dai poliziotti come George Floyd. Lanfranco Caminiti il 26 Settembre 2020 Il Dubbio il 26 Settembre 2020. «Licenziare i poliziotti che hanno ucciso Federico/Licenziare i poliziotti che hanno ucciso Federico». È l’urlo della Curva Ovest della Spal di Ferrara – ultras che in una coreografia impressionante e commovente ricordano sempre Federico Aldrovandi «perché non accada mai più» – che ne ha tratto il significato più politico, proprio come negli Usa: Defund the police/no justice no peace. Perché il nodo è quello: quattro agenti di polizia in servizio misero in moto una “macchina di violenza” di fronte una situazione difficile, che si fermò solo quando Aldro smise di respirare: 54 lacerazioni sul suo corpo, la distruzione dello scroto, buchi nella testa, due manganelli rotti, compressione toracica che portò alla morte. Basta, smettetela, basta, vi prego – sentì urlare una signora nella strada e vedeva un agente che continuava a dare calci alla testa di un corpo per terra. Non la smisero. Quelle urla lacerarono la notte, ma i poliziotti – dissero poi – non avevano sentito nulla. Per cinque ore il corpo restò lì – all’aria. I genitori di Aldro, allarmati perché non era rientrato, chiamavano in continuazione il suo cellulare. Finalmente uno dei poliziotti rispose. Non sappiamo nulla, disse. Abbiamo solo ritrovato il suo cellulare, disse. I genitori contattarono gli ospedali per avere un qualche riscontro. Niente. Alle undici li richiamarono – c’era il corpo del figlio da riconoscere. Qualcuno imbastì una storia – c’era la droga di mezzo, c’è sempre la droga di mezzo. Provarono a depistare tutto. I can’t breathe – sussurrava George Floyd mentre gli avevano messo un ginocchio sul collo, non riesco a respirare. «Non respiro più», scrisse la mamma di Aldro sul suo blog. Nessuno le dava retta, nessuno riusciva a credere a quella storia. I giornali si giravano dall’altra parte. Era arrivato Natale, da quel maledetto 25 settembre 2005, e nessuno faceva niente, non c’era stato nessun atto di indagine. Aldro continuava a non respirare, continuava a morire. Un amico le suggerì di aprire un blog – lei non sapeva neppure cosa fosse. Cominciò a scrivere: «Non respiro più», scrisse. Arrivò quasi un migliaio di commenti – divenne una delle pagine più lette. Nei commenti qualcuno suggeriva di rivolgersi a Indymedia, una piattaforma alternativa, visto che i media mainstream non ne parlavano. Indymedia fece circolare la storia. E Liberazione e il manifesto ne scrissero. Ci fu qualche interrogazione parlamentare. Le risposte del governo erano una ripetizione a pappagallo delle veline dei poliziotti. Fu a quel punto che la storia di Federico Aldrovandi divenne la storia che tutti conosciamo. Ieri l’altro dei tre poliziotti coinvolti nella morte di Breonna Taylor solo uno è stato condannato: “per negligenza”. Nello sparacchiare contro tutto ciò che si muoveva aveva tirato anche contro i vicini della casa in cui aveva fatto irruzione con i colleghi, convinti di trovare droga – per poi rovesciare i loro caricatori sul corpo di Breonna. Era marzo, a Louisville, Kentucky. Ma nessuno poteva credere a questa storia. i giornali non ne parlavano. È solo dalla morte di George Floyd che la morte di Breonna è diventata oggetto di indagine. Gli altri due poliziotti sono andati assolti “per autodifesa”. Però, almeno adesso i “no- knock warrants”, cioè il fatto che gli agenti potessero irrompere senza avvisare e farsi riconoscere in un qualunque appartamento sono diventati illegali in Louisiana. I quattro agenti di polizia nelle cui mani morì Federico vennero condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo ( la Cassazione li definì «sproporzionatamente violenti» ), pena poi ridotta a sei mesi per l’indulto. Scontarono altri sei mesi di sospensione disciplinare dal servizio. Ripresero il loro posto in polizia. Quasi dieci anni dopo, nel 2014, tre dei quattro partecipano a un congresso del sindacato di polizia Sap e ricevono cinque minuti di applausi dai colleghi. «Vergognatevi» – urla la madre di Aldro, che riceve la solidarietà del presidente Napolitano, di Renzi e del capo della polizia, Alessandro Pansa. E il padre, Lino: «Ucciso senza una ragione da quattro individui con una divisa addosso. Una divisa che forse non guarderò mai più con fiducia». Incalza Patrizia: «Servono provvedimenti concreti, perché la solidarietà fine a se stessa non basta. Si tolga la divisa agli agenti condannati e si introduca nel nostro ordinamento il reato di tortura». Non è accaduto niente. Erano le 6.04 del 25 settembre 2005, a Ferrara («Lailalaillà vola e va / la luna di Ferrara veglia la città?» – canteranno i Modena City Ramblers), quando Federico scese dall’auto con cui rientrava con i suoi amici da una serata di festa e si fece lasciare lì, per attraversare il parco e prendere un po’ di ossigeno, a via dell’Ippodromo. Non arriverà mai a casa. Era la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, a Varese, quando Giuseppe Uva in evidente stato di ebbrezza è fermato da due carabinieri e ammanettato e portato in caserma, poi trasferito all’ospedale per un TSO dove morirà per arresto cardiaco. Era il 15 ottobre del 2009, a Roma, quando Stefano Cucchi viene arrestato e portato in caserma. Sette giorni dopo, morirà. Era la notte del 3 marzo 2014, a Firenze, quando Riccardo Magherini, dopo una cena, corre per le strade in preda a un terrore incontrollabile. Viene bloccato a terra, ammanettato da due carabinieri, uno sta a cavalcioni su di lui, il torace schiacciato – «Aiuto, aiuto, sto morendo. Vi prego, ho un figlio». Morirà. No justice / no peace.

Quindici anni dalla morte di Federico Aldrovandi. Il padre: «Ogni anno si ripete l’incubo». Il Dubbio il 25 settembre 2020. Simbolo di una battaglia per la giustizia, il 18enne fu ucciso a Ferrara da quattro poliziotti in divisa durante un controllo. Sono passati quindici anni dalla morte di Federico Aldrovandi, il 18enne ucciso a Ferrara durante un controllo della Polizia e divenuto un simbolo con la battaglia dei suoi genitori per avere giustizia. Il suo corpo massacrato, pestato fino alla morte, fu abbandonato sull’asfalto: «54 lesioni addosso, la distruzione dello scroto, buchi sulla testa, il cuore compresso o colpito da un forte colpo». «Il 25 settembre di ogni anno, giunta l’alba, si ripete quello che per me rimarrà per sempre un incubo, o peggio, il ricordo orribile dell’uccisione di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggergli la vita», scrive oggi su Facebook il padre del giovane, Lino, mentre la madre, Patrizia Moretti, su Twitter invita a «non dimenticare» e posta un video-omaggio della curva ovest della Spal, la squadra di Federico. Lino Aldrovandi ricorda la storia del figlio: «Nato a Ferrara il 17 luglio 1987, terminò forzatamente la sua breve vita ad appena diciotto anni, alle ore 6.04 di un assurdo 25 settembre 2005, sull’asfalto grigio e freddo di via Ippodromo, di fronte all’entrata dell’ippodromo, in Ferrara, in un luogo forse troppo silenzioso, ucciso senza una ragione all’alba di una domenica mattina da 4 persone con una divisa addosso». E cita i nomi dei poliziotti che vennero condannati per eccesso colposo in omicidio colposo, a tre anni e sei mesi: Monica Segatto, Paolo Forlani, Luca Pollastri ed Enzo Pontani. «Ricordiamocelo sempre quando si abbia a parlare di questa orribile storia, per non correre il rischio di sminuire, annullare o resettare una verità che oltre a produrre inevitabilmente tanto dolore lacerante, sopratutto in chi l’ha subita, ha comunque aperto una strada anche se difficile da percorrere, verso quei luoghi chiamati rispetto, dignità, civiltà, democrazia, legalità, umanità, partecipazione, impunità», continua il padre di Federico, appigliandosi a «quel poco di giustizia» resa dalle parole scritte dai giudici negli atti processuali dei tre ordini di giudizio che portarono alla condanna definitiva degli agenti. Nel pomeriggio a Ospital Monacale, Comune di Argenta (Ferrara) a Federico viene intitolato un giardino pubblico. La celebrazione, alla presenza del sindaco, è accompagnata dalla musica dei Moden City Ramblers, il gruppo che qualche anno fa dedicò una canzone a Federico, dal titolo “La luna di Ferrara”. «L’idea di dare il nome di mio figlio ad un parco, sa di natura, di respiro, di voglia di correrci dentro a perdifiato. E solo i bimbi lo possono fare senza mai fermarsi, quello di correre a perdifiato, come faceva Federico», conclude Lino Aldrovandi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Le Condanne scontate.

Caso Scazzi, “Da Misseri false accuse a Galoppa e alla Bruzzone”. La Redazione di tarantobuonasera.it sabato 21 Novembre 2020. Michele Misseri dovrà essere nuovamente processato per calunnia ai danni dell’avvocato Galoppa e della criminologa Bruzzone. Il fatto che sua figlia Sabrina sia stata condannata per l’omicidio non cancella il peso calunnioso delle sue accuse. In 10 pagine la Cassazione spiega perché lo zio di Sarah Scazzi non può essere assolto. Come riferito nell’edizione dello scorso 31 ottobre, la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Taranto dal reato di calunnia aggravata e continuata nei confronti del suo ex difensore Daniele Galoppa e della sua ex consulente, la criminologa Roberta Bruzzone. Ad impugnare il verdetto favorevole col ricorso è stato il procuratore generale. In sintesi, Misseri ha sostenuto di essere stato indotto dal legale e dalla criminologa ad accusare falsamente la figlia Sabrina dell’omicidio di Sarah. Secondo la sua versione (l’ultima di una lunga serie) il 26 novembre 2010 sarebbe stato lui ad uccidere la nipote. Ma la sentenza definitiva di ergastolo, dopo tre gradi di giudizio, ha stabilito che l’omicidio è stato commesso dalla figlia Sabrina, in concorso con la madre Cosima. Pertanto, poiché il fatto, come è stato poi accertato dal processo, era vero, quella verso la figlia non era una falsa accusa. Quindi Misseri, secondo i giudici di secondo grado, non poteva essere condannato per calunnia. Di tutt’altro parere, invece, la Cassazione che, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha stabilito che lo zio di Avetrana non può essere assolto in quanto “non è rilevante se Sabrina avesse o meno commesso l’omicidio della cugina, ma se Galoppa e la Bruzzone avessero o meno formulato o concorso a formulare quella che al momento risultava la calunnia in danno della Misseri; se dunque, l’imputato, nell’accusare il suo difensore e la sua consulente di averlo indotto ad accusare la figlia, avesse riferito una circostanza vera o avesse alterato la verità dei fatti accaduti”. I giudici della Sesta Sezione (presidente Anna Petruzzellis, relatore Ercole Aprile) hanno disposto il rinvio alla Corte d’appello di Lecce “che, nel nuovo giudizio, si uniformerà all’indicato principio di diritto”, ossia alle motivazioni dell’annullamento. Inoltre hanno rigettato, in quanto inammissibili, i ricorsi degli imputati Misseri e l’ex difensore Fabrizio Gallo; quest’ultimo rispondeva di diffamazione. Misseri, difeso dall’avvocato Ennio Blasi di Statte, è detenuto in carcere a Lecce dove sta scontando la condanna a 8 anni di reclusione per aver occultato il corpo di Sarah in un pozzo. Moglie e figlia, invece, stanno scontando l’ergastolo.

Ma l'orrore non ha la bussola. Renato Moro Venerdì 2 Ottobre 2020 su quotidianodipuglia.it. Quando il giudice lesse la sentenza di condanna dei responsabili della morte di Renata Fonte, l'assessora uccisa a Nardò nella notte del 31 marzo di 36 anni fa, il faccendiere Antonio Spagnolo (mandante del delitto) sbottò in aula: «Ho capitato come Gesù!». Quelle parole fecero ridere giudici, avvocati e giornalisti, ma tutto finì lì perché la mancanza dei social e la scarsa attenzione dei telegiornali nazionali negarono un moltiplicatore a quello strafalcione. Oggi non sarebbe così. Oggi anche il mandante del delitto Fonte finirebbe nel parco degli insulti senza passare dal via. E soprattutto oggi il popolo dei social - o, meglio, quella parte di esso abituato a ragionare con i piedi - troverebbe il modo di legare quel verbo sbagliato alla latitudine che ha visto nascere e crescere l'imputato: ignorante, spietato, ambizioso fino a uccidere e figlio di un Sud che viaggia con una velocità tutta sua non solo nell'economia e nella sanità, ma anche nel bisogno di legalità e persino nella grammatica. È così. In questa Italia affetta da diplopia congenita c'è sempre una linea che divide tutto, anche l'indivisibile, ed è la linea immaginaria che separa un Sud liquido, e quindi espandibile al bisogno, da un Nord con i confini chiari e fissati col cemento. La tragica sorte di Eleonora Manta e Massimo De Santis e il conseguente arresto dell'assassino reo confesso offrono l'ennesimo esempio. Dalla sera di quel maledetto 21 settembre spesso ci si è avventurati un una lettura dei fatti che sa di vecchio, che puzza di umidità e muffa per quanto tempo quella lettura è rimasta - e sembra rimanerci ancora - nei cassetti della peggiore sociologia. Il principio, forzando un po' i concetti, sarebbe che se uccidi a Trezzano sul Naviglio o a Trento la colpa è in te, nella famiglia, nella scuola, nel prete che ti ha violentato a dieci anni o nello zio del cuginetto che ti baciava con troppa passione; se invece uccidi a Casarano o Rossano Calabro la colpa è in te, ma anche fuori da te e dal tuo mondo. Soprattutto colpa del Sud, forse delle «case bianche sferzate dallo scirocco sparse lungo poderi ticchiolati di ulivi e fichidindia» (Omar Di Monopoli ieri sul Fatto Quotidiano, c'è da chiedersi dove veda ancora degli ulivi), delle vecchie vestite di nero o magari della salsa fatta in casa, ma venuta acida. Così - tornando a ciò che scrive Di Monopoli -, la Casarano che è stata e sta tornando ad essere una capitale italiana del calzaturiero, che istruisce fino alla maturità i ragazzi di mezzo Salento e che si pone come centro commerciale e produttivo di un territorio vasto quasi quanto il Molise, diventa un «villaggio dimenticato da Dio»». Ciliegine sulla torta la doppia vita dell'assassino che ci ricorda «la polvere nascosta sotto l'ovattata quiete di certi luoghi del Sud»» (Marco Travaglio nel post che su Facebook presenta l'articolo di Omar Di Monopoli) e quella «Terra del male» con cui il redattore ha voluto titolare. Ora, sia chiaro che Di Monopoli è scrittore intelligente e leggibilissimo e che le sue letture non sono certo ferme al “Cristo fermatosi ad Eboli”, ma è pur vero che nell'interpretazione di questi fatti forse si sta un pochino esagerando. Antonio De Marco ha ucciso quei due poveri e innocenti fidanzati in un condominio di Lecce, ma avrebbe potuto farlo in un quartiere di Treviso o nel centro di Bologna. È quello che aveva e ha dentro che interessa. Il percorso che lo ha portato a uccidere che deve essere studiato, non se e perché Dio ha cancellato Casarano dalla sua agenda. Sta accadendo ciò che accadde con la famosa villetta dei Misseri ad Avetrana, dove fu uccisa Sarah Scazzi. Una casa di periferia come tante altre, col giardino davanti e il garage accanto, che potrebbe sorgere a Padova come ad Arezzo, ma quella - proprio quella - divenne il simbolo di un Sud assolato e sonnacchioso (era agosto) che chiude le imposte e gli occhi al passaggio di una ragazzina quindicenne e cerca di coprire i responsabili della sua morte. Non fu colpa di Avetrana, fu semplicemente colpa delle persone che Sarah incontrò il pomeriggio in cui scomparve. E Misseri, zio Michele, è solo un uomo senza scrupoli che ha nascosto il cadavere della nipote e coperto moglie e figlia assassine. Avrebbe potuto farlo a Genova, ma vuoi mettere quel dialetto e quella mattanza di congiuntivi che sembrano legarlo a doppio filo a un Sud ignorante, sgrammaticato e geneticamente delinquente? Siamo alla fiera dei luoghi comuni. Il fatto è che il degrado sociale, la fuga nell'illegalità e la scarsa disponibilità a collaborare con la Giustizia non sono connotazioni prettamente meridionali. Nell'omicidio di Yara Gambirasio, avvenuto a Bergamo, ci sono più tentativi di depistaggio di quanti possa averne messi in atto ad Avetrana la ditta Misseri. Erika e Omar uccisero la mamma e il fratellino di lei a Novi Ligure, in Piemonte. L'unica differenza con Casarano è che lì non si eccelle nella produzione delle scarpe, ma del cioccolato. Olindo e Rosa massacrarono quattro vicini di casa a Erba, nella ricca Lombardia. Prima ancora, 45 anni fa, i tre aguzzini che violentarono e seviziarono Donatella Colasanti e Rosaria Lopez (quest'ultima uccisa) venivano da uno dei più ricchi quartieri di Roma. L'elenco potrebbe continuare, ma sarebbe un esercizio inutile. Leggere dentro un assassino è diritto di tutti. Ma occorrerebbe partire da un punto fermo: per sprofondare negli abissi della mente non è richiesto il certificato di residenza.

Sarah Scazzi, mistero senza fine: Sabrina Misseri innocente o colpevole? A dieci anni dal ''delitto di Avetrana'', il legale di Sabrina Misseri, il professor Franco Coppi, non si dà pace: ''Sabrina è una vittima''. Ma la criminologa Bruzzone non ha dubbi: ''Nessun mistero sui colpevoli''. Rosa Scognamiglio, Sabato 26/09/2020 su Il Giornale. Intrighi, bugie e depistaggi. A dieci anni da quel tragico pomeriggio del 26 agosto 2010, in cui fu uccisa una ragazzina di appena 15 anni, Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana resta uno dei casi più controversi e macabri della cronaca nera italiana. Due processi e 11 condanne non sono bastati a chiarire le dinamiche di un crimine maturato in un contesto familiare claustrofobico, viziato da una presunta rivalità amorosa tra cugine e da un silenzioso omertoso che tace, forse, verità inenarrabili e ancor più dolorose. Chi ha ucciso davvero la giovane Sarah? ''Sono state Cosima e Sabrina, senza ombra di dubbio. Michele Misseri, invece, si è occupato della soppressione del cadavere. Non c'è alcun mistero sul delitto di Avetrana'', dice la criminologa Roberta Bruzzone a IlGiornale.it. "Sabrina Misseri è una vittima del delitto di Avetrana come, del resto, lo è anche la signora Cosima'' rivela alla nostra redazione, invece, il professore e avvocato penalista Franco Coppi.

Chi è Sarah Scazzi. Bionda, minuta e con un sorriso vagamente accennato sul volto. Nelle foto diffuse dai familiari dopo la presunta scomparsa, in un vano e disperato appello, Sarah Scazzi appare serena, fasciata in un miniabito scuro o in una maglia arancione che nasconde le sinuosità ancora acerbe. Cresciuta ad Avetrana, una cittadina con 6.700 abitanti, nell'estate del 2010, ha da poco terminato il secondo anno dell'istituto alberghiero di Maruggio. ''Da grande'' sogna di fare l'estetista o, in alternativa, la cuoca in un ristorante di Milano. Le sue ambizioni sono modeste, fin troppo per una ragazzina così giovane. Ma Sarah è cresciuta in una piccola realtà di paese e, probabilmente, le basta una fantasticheria misurata per fare voli pindarici. Nella ridente cittadina pugliese si conoscono tutti, e tutti sanno che la ragazzina trascorre gran parte delle sue giornate a casa Misseri, con zio Michele e zia Cosima, ma soprattutto in compagnia della cugina Sabrina, di sette anni più grande. Fa parte di una comitiva di ragazzi, tutti tra i 20 e i 27 anni, con i quali si raduna alla sera presso il pub 102 per una cola e quattro chiacchiere. Non ha grilli per la testa ma solo un immenso bisogno di ''coccole'' e una voglia smisurata di esplorare il mondo fuori dalla porta di casa. Mamma Concetta è una fervente testimone di Geova mentre papà Giacomo è impegnato per lavoro lontano da casa. Poi c'è Claudio, il fratello che vive a Milano, e al quale Sarah confida le emozioni di un'adolescente qualunque ma con l'ingenuità bonaria di una bambina, la stessa che la condannerà ad un morte crudele in un torrido pomeriggio d'estate.

Cosa succede il 26 agosto 2010. Quel giorno Sarah si organizza per andare al mare con la Sabrina Misseri e un'amica comune, Mariangela Spagnoletti. Costei avrebbe dovuto prelevare entrambe con l'auto davanti alla villetta dei Misseri, al civico 22 di via Deledda. L'incontro è concordato per le 14.30, ma la 15enne non si presenterà mai all'appuntamento. La madre, Concetta Serrano Spagnolo, racconta che la giovane, di rientro dalla spesa con il padre, pressapoco alle ore 13, si è ''chiusa in camera per 15 minuti'', dopodiché avrebbe mangiato un cordon bleu alla svelta e raccattato i teli da mare dalla cantina. A quel punto, si sarebbe allontanata dall'abitazione di Vico II G. Verdi, circa 3/4 d'ora prima dell'orario fissato per l'appuntamento con la cugina. Sabrina sostiene - e i tabulati telefonici lo confermano - di aver inviato due sms alla cugina alle 14.25: ''Metti il costume che andiamo al mare'' e poi un altro alle 14.28 ''Hai ricevuto il messaggio?''. Sarah avrebbe quindi fatto partire uno squillo di conferma per la ricezione del messaggio ma alle 14.42 il suo cellulare è già spento.

La prima ipotesi: "Sarah rapita da uno sconosciuto". ''La persona che ha rapito Sarah, se ha un minimo di coscienza, la lasci tornare a casa". Sono le parole che Sabrina Misseri pronuncia tra le lacrime nei giorni successivi alla presunta scomparsa della cugina 15enne, allorquando i media cominciano ad interessarsi alla vicenda di Avetrana. Gli appelli della giovane, al tempo 22enne, vengono rilanciati in molteplici programmi televisivi con interviste esclusive e collegamenti in diretta dalla villetta di via Deledda. "Sabrina ha una personalità fortemente narcisistica – spiega la criminologa Bruzzone –, mente senza mai tradirsi una sola volta, è sempre fedele al ruolo che recita. È lei a gestire i rapporti coi media, ad essere protagonista della scena. Questo è tipico di tutte le personalità manipolative''. Intanto, gli investigatori lavorano al caso seguendo la pista dell'allontanamento volontario o, in alternativa, quella del rapimento da parte di un malintenzionato che avrebbe adescato la ragazzina sui social. Ma la verità è ben altra e, dopo un mese di ricerche inconcludenti, salterà fuori in tutto l'orrore.

Michele Misseri diventa lo ''zio assassino''. Occhi azzurri, un cappello calato sulle orecchie e mani arse dal sole. Michele Misseri, 57 anni, è un agricoltore, lavora nei campi del Tarantino, tra distese di uliveti e fichi d'india. Appare piuttosto schivo davanti alle telecamere e alle domande incalzanti dei giornalisti sulla nipotina, quella che lui e la moglie Cosima hanno cresciuto come ''una terza figlia'', risponde quasi sempre tra le lacrime. Suscita sentimenti di tenerezza alle prime apparizioni televisive al punto che passerà alla cronaca, e al pubblico del delitto di Avetrana, come "zio Michele''. Ma la sera del 28 settembre qualcosa cambia. L'uomo fa ritrovare il cellulare di Sarah, semibruciato e provvisto della sola sim, in un campo poco distante dalla sua abitazione. Dice di averlo riconosciuto dalle ''linguette delle lattine di Coca Cola'' che Sarah collezionava. Da quel momento, la misteriosa scomparsa della giovane assume contorni delittuosi e tutti i sospetti degli investigatori ricadono proprio su quell'uomo taciturno che, fino a quel momento, era rimasto defilato. Tacciato di ipotizzabile colpevolezza, diventa adesso lo ''zio assassino''.

La confessione del delitto e il ritrovamento del corpo. Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, al termine di un interrogatorio durato 9 ore, Michele Misseri confessa l'assassinio della nipote. In estrema sintesi, il contenuto della prima confessione si sostanzia nella rivelazione di un'azione condotta da un raptus omicida, esploso allorquando la giovane ragazza era scesa nel garage della casa di via Deledda mentre il 57enne era intento nella riparazione di un trattore. Il movente, a suo dire, sarebbe quello sessuale. Dopo le dichiarazioni rese agli inquirenti, Michele conduce i carabinieri nel luogo in cui è stato riposto il cadavere di Sarah, in un pozzo cisterna ''a campana'' in località Contrada Mosca. Dopo complesse e articolate operazioni di recupero, la salma della 15enne viene sottoposta all'osservazione del medico legale. L'esito della autopsia, dopo qualche settimana, fuga ogni dubbio sulla dinamica del decesso: ''Asfissia meccanica da costrizione''. Un solco nella parte posteriore del collo, di circa 2,6 millimetri, induce a pensare che sia stata soffocata con una cintura o un oggetto nastriforme. Ma proprio quando la quadra del delitto sembra essere fissata, la vicenda assume tutta un'altra piega.

Le verità dello zio assassino e l'ombra sulla figlia Sabrina. Per ben 7 volte Michele Misseri viene ascoltato dagli inquirenti e, in tutte le circostanze, fornisce descrizioni ''altalenanti'', così come le definisce il professor Franco Coppi, sulla esecuzione del delitto. La confessione chiave, quella che segnerà in definitiva il caso, è quella del 15 ottobre 2010. Lo zio di Sarah chiama in correità la figlia Sabrina. ''Nello sviluppo dichiarativo successivo e, ancora, nel corso dell'incidente probatorio, - si legge a pagine 4 della sentenza della Cassazione emessa il 21 febbraio 2017 – attribuiva, di converso, alla figlia stessa la responsabilità esclusiva dell'omicidio. Ammetteva contra se la sola soppressione del cadavere". Dunque, non avrebbe ucciso Sarah ma si sarebbe occupato di occultarne il cadavere. Nel corso della udienza preliminare, rendendo dichiarazioni spontanee, e nel corso del dibattimento, alle udienze del 5 e 12 dicembre 2012, ritratterà le accuse nei confronti della figlia attribuendosi l'esclusività del delitto. ''Michele Misseri non è mai stato in grado di raccontare i fatti in maniera coerente col ruolo di assassino. Non ha mai saputo dire neanche come fosse stata uccisa Sarah – spiega la dottoressa Bruzzone –. È stato, invece, di una precisione chirurgica per quello che riguarda la soppressione del cadavere. Ricordo benissimo il frangente in cui ci indicò dove aveva nascosto le chiavi di casa di Sarah. Ci indicò l'incavo di un ulivo, uno uguale a tutti gli altri che c'erano nelle campagne di Nardò. Ed effettivamente le ritrovammo proprio lì. Invece, per quello che riguarda l'esecuzione del delitto è stato sempre molto impreciso fornendo versioni incompatibili con la realtà dei fatti. Lui sa chi ha ucciso Sarah ma non sa dire in che modo, non ha neanche un'idea dell'arma usata per uccidere Sarah''. E, forse, a quel punto ne hanno un'idea anche in procura. Il 15 ottobre 2010, sulla scorta di quanto affermato dal padre, viene infatti disposto il fermo di Sabrina: è accusata di concorso in omicidio. Il 21 ottobre il gip di Taranto decide la convalida del fermo, basandosi anche sulla testimonianza dell'amica Mariangela Spagnoletti, la quale riferisce che, vedendo la cugina in ritardo all'appuntamento, Sabrina Misseri "appariva agitata", ripetendo che la ragazzina era stata certamente rapita e che occorreva avvertire immediatamente i carabinieri. L'ennesimo, inatteso risvolto di un delitto che non smette mai di riservare colpi di scena.

Il ''gioco del cavalluccio'': Sabrina e Cosima alla sbarra. Nell'atto istruttorio, Michele Misseri conferma che Sabrina gli ha confidato la circostanza del ''gioco del cavalluccio''. Afferma che, dopo pranzo, è stato svegliato dalla figlia. La 22enne gli avrebbe detto che stavano giocando, per l'appunto, e che Sarah era caduta. Chiestole cosa doveva fare, egli avrebbe garantito alla figlia che si sarebbe assunto la colpa. Dunque, avrebbe tolto la cinta dal collo della nipote e successivamente avrebbe caricato il cadavere in auto per dirigersi a Contrada Mosca per disfarsene. Cambia dunque la posizione di Sabrina che, da complice del misfatto, diventa esecutore esclusivo dell'omicidio. A seguito di ulteriori indagini, l'accusa nei confronti di Sabrina diviene solo di omicidio, mentre cade quella di sequestro di persona. Successivamente, in data 26 maggio 2011 viene arrestata Cosima Serrano, madre di Sabrina, con l'accusa di concorso in omicidio e sequestro di persona. Dall'analisi dei tabulati risulta, infatti, che il suo telefono cellulare avrebbe effettuato una chiamata dal garage, mentre la donna dichiara che, quel pomeriggio, non si sarebbe mai recata nel garage, circostanza sulla quale i carabinieri del Ros in sede di deposizione all'udienza del 27 marzo, pur precisando di non poter esprimere alcuna certezza, si sono espressi in termini di "compatibilità". Ci sono le dichiarazioni del fioraio di Avetrana, Giovanni Buccoleri, che dichiara di aver visto le due donne rincorrere la giovane Sarah in via Deledda, nel primo pomeriggio del 26 agosto, costringendola a salire a bordo della Opel Astra di Cosima. Successivamente l'uomo ritratterà dicendo di averlo solo immaginato o sognato. Ma per la Corte territoriale il suo narrato è ''di naturale reale''. ''Nel corso del procedimento viene ritenuta attendibile la testimonianza del fioraio - spiega il professor Coppi - Ma quanto può essere credibile? Lui dice prima di averle viste e poi di aver sognato la circostanza. Se solo si decidesse a dire la verità...''.

L'orrore in 15 minuti. A quel punto però per la procura tutti i tasselli del puzzle si combinano in un disegno delittuoso progettato con fulminea lucidità. Per la fase esecutiva dell'omicidio, la Corte d'assise d'appello osserva che la morte di Sarah è avvenuta nell'arco temporale tra il momento in cui la 15enne viene condotta dalle due imputate nell'abitazione di via Deledda e l'arrivo della Spagnoletti, verosimilmentre tra le 14.00 e le 14.15. In quei pochi minuti sarebbe esplosa una lite violenta tra le due cugine che avrebbe costretto Sarah ad andar via. A quel punto, sarebbe intervenuta Cosima che avrebbe inseguito la ragazza in strada con l'Opel Astra e, dopo averla affiancata, l'avrebbe caricata con la forza a bordo. In auto con la donna ci sarebbe stata anche la figlia Sabrina. Rientrate nella villetta del civico 22, Sarah viene strangolata con una cintura salvo poi essere trasferita nel garage con un passaggio interno alla casa. Successivamente, entra in gioco Michele Misseri; a lui viene affidato il compito di far sparire il cadavere e gli effetti personali della ragazzina. ''È tutto finito'', assicurerà l'uomo nel corso di una telefonata alla moglie alle 15.25.

Il movente e le condanne: nel 2020 sono 11. Il movente del delitto è rinconducibile ad un sentimento di gelosia che Sabrina avrebbe nutrito nei confronti della 15enne per via di Ivano Russo, il cuoco 27enne di Avetrana che fa parte della comitiva di amici, con il quale la Misseri ha un flirt. Nello specifico, ''il corto circuito emotivo'' sarebbe scattato quando Sarah confida al fratello che la cugina sarebbe stata respinta dal giovane durante un approccio sessuale. Cosima, informata dei fatti, avrebbe progettato con la figlia, in maniera fulminea, il delitto per impedire che la fuga di notizie inguaiasse la reputazione della famiglia: Avetrana è un paese piccolo e la gente mormora in fretta, ''Si tratta di una invenzione bella e buona - commenta il legale di Sabrina, il professor Coppi - In aggiunta, trovo che sia di una banalità assurda. Senza contare che la relazione tra i due ragazzi si era già interrotta a fine agosto del 2010. E poi a Sabrina sarebbe bastato non portare la cugina con sé quando usciva con lui, non serviva molto. Eppure, non lo ha mai fatto: le voleva bene come fosse una sorella''. Fatto sta che, il 20 aprile del 2013 la Corte d'assise di Taranto condanna all'ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l'omicidio di Sarah Scazzi. Michele Misseri viene invece condannato a 8 anni per concorso in soppressione di cadavere. Il 27 aprile del 2015, al termine del procedimento appello, le pene inflitte per i reati ascritti agli imputati vengono rinconfermate. Il 21 febbraio 2017 la Corte di cassazione non retrocede sulle posizioni della Corte territoriale e, in via definitiva, attribuisce la paternità del delitto alle due donne; ''zio Michele'' si è occupato della soppressione del cadavere e, in aggiunta, ha inquinato le indagini. Il 22 gennaio del 2020, il giudice monocratico del tribunale di Taranto, Loredana Galasso, emette 11 sentenze nei confronti di altrettanti imputati nel processo bis per depistaggi nell'inchiesta. Tra questi, vi è anche Ivano Russo a cui vengono comminati 5 anni per le ipotesi di false informazioni ai pm e falsa testimonianza alla Corte d'Assise.

C'è davvero un'altra verità? Nonostante il caso sia concluso, i dubbi che alla vicenda possa sottendere una verità altra da quella trascritta agli atti permangono. Ma è davvero così? Insomma, chi sta mentendo? "Nessun mistero su Avetrana. – sostiene con tono perentorio la criminologa Bruzzone – Ad uccidere Sabrina sono state Cosima e Sabrina mentre Michele Misseri si è occupato della sola soppressione del cadavere. In quella famiglia comandava Cosima, è lei che dettava gli ordini e nessuno si sarebbe sognato mai di contraddirla. Michele aveva un ruolo subalterno, ha coperto la figlia e la moglie assumendosi la responsabilità del reato. E dopo dieci anni, escludo che possa avere un sussulto di coscienza''. Di tutt'altro avviso, invece, è l'avvocato Franco Coppi: ''Sabrina è innocente, così come lo è Cosima Serrano - dice - Il responsabile è Michele Misseri ed il movente del delitto è quello sessuale''. Non si dà pace il legale per la pena inflitta alla sua assistita: ''Vivo col terrore di morire senza aver potuto dimostrare l'innocenza di quella ragazza - conclude – Sabrina è un'altra vittima del delitto di Avetrana, è un peso che ormai mi porto nel cuore''.

Avetrana: a dieci anni dallo show dell’orrore. “Sarah Scazzi è rimasta imprigionata nella narrazione che di lei è stata fatta da giornali”. Felice Sblendorio 31 Agosto 2020 su bonculture.it. Per tutti, dopo Avetrana, c’è un prima e un dopo: soprattutto per la cronaca nera, che da quel fattaccio brutto si è rivelata definitivamente come una pratica crudele e indifferente al dolore. Tutto comincia il 26 agosto 2010 in un paesino che, nella Puglia delle bellezze e del turismo à la page, è un punto ignoto di una geografia conosciuta: Avetrana, quasi seimila anime tra il Salento e Taranto. Quella provincia marginale, dove la noia combatte contro il tempo e l’immobilismo, però, diventa presto nota come l’epicentro fisico e simbolico di uno dei fatti di sangue più spettacolari e narrati della storia recente nostro Paese. A distanza di dieci anni, infatti, l’omicidio di Sarah – una somma di avvenimenti che illumina l’incertezza umana e unisce la miseria all’ignoranza, le pulsioni animalesche a un ammasso di emozioni mal formate – torna a far parlare di sé grazie a un libro (e, prossimamente, a una serie televisiva diretta da Pippo Mezzapesa e un documentario di Chistian Letruria) scritto a quattro mani dalla scrittrice Flavia Piccinni e dal giornalista Carmine Gazzanni: “Sarah. La ragazza di Avetrana” (Fandando Libri, 320 pagine, 18.00 euro). bonculture ha intervistato gli autori.

Dopo dieci anni, ritornate sull’omicidio più discusso e controverso della storia recente del nostro Paese: perchè?

Flavia: Sono nata a cresciuta a Taranto, e mi sentivo finalmente pronta a confrontarmi con certi meccanismi arcaici e apparentemente lontani dal nostro tempo di cui si nutre questa storia. Raccontiamo una Puglia che non ha niente a che vedere con quella delle cartoline, con le feste salentine e con la retorica della bellezza. Raccontiamo una Puglia che esiste, anche se a volte si preferisce non guardare. Cercando, ci siamo imbattuti in tante cose. Quelle che mi hanno fatto più male sono state quelle che mi hanno sorpreso: la crudeltà, la ferocia, l’arroganza, la rabbia.

Carmine: Volevamo poi raccontare come due persone sono state condannate all’ergastolo ben oltre ogni ragionevole dubbio. Ci sono tre sentenze che le indicano colpevoli, ma anche molte zone oscure che volevamo mettere in evidenza.

La cronaca nera, a volte, è una radiografica esattissima della natura antropologica di alcuni luoghi. Un delitto burrascoso, che ha confuso emozioni e miseria, fantasmi e morte, solo in quel lembo di Puglia poteva maturare?

«A legami umani universali si sovrappongono letture tipicamente meridionali e ancestrali, che fanno del rispetto del nucleo famigliare un diktat etico fondante. Quello di Sarah Scazzi è un delitto famigliare, maturato in un ambiente complesso e segretamente, sotterraneamente, violento. Nel libro abbiamo provato a raccontare questo contesto crudele e quotidiano».

Cercate di donare l’umanità perduta ai protagonisti di questa tragedia: soprattutto a Sarah, una vittima in ombra per tutto questo tempo. Chi era la ragazza di Avetrana?

«Era una ragazza di 15 anni che sognava il futuro. È rimasta imprigionata nella narrazione che di lei è stata fatta dai giornali: da una parte la lolita che sogna di fare cose da grandi, dall’altra la bambina dal corpo infantile. Fra questi due estremi crediamo ci sia la verità. Sarah, leggendo integralmente i suoi diari, ma anche incontrando le persone che le hanno voluto bene e l’hanno protetta, appare nella disubbidienza che tutti abbiamo conosciuto a quindici anni: ha i suoi segreti, i suoi amori, i suoi sogni di ribellione e di autoaffermazione».

Le indagini e i processi, analizzati minuziosamente, conservano molte ombre che voi sottolineate. Quali sono dal vostro punto di vista, i principali buchi neri delle sentenze?

«Sono moltissimi, e non si possono sintetizzare. Il libro ha testimonianze inedite, documenti e una meticolosa ricostruzione dei buchi abissali che costellano le indagini e le sentenze. È stato un lavoro lungo, un’immersione nella parte oscura della nostra Italia e in qualche modo in noi stessi. Un esempio? Michele Misseri, dopo dieci anni, è tornato a professarsi colpevole e per la prima volta ha raccontato tutta la sua vita. A cominciare dalla sua infanzia di abusi e povertà».

Franco Coppi sulle colonne del Foglio ha dichiarato: «Sabrina Misseri è l’angoscia della mia vita. La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre. Ho la certezza assoluta della loro innocenza, sarei pronto a qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato». Anche secondo voi questi due ergastoli non sono oltre ogni ragionevole dubbio?

«Sì, ed è quello che raccontiamo dettagliatamente nel libro».

La storia di Sarah è entrata nell’immaginario collettivo del Paese grazie ai media. Il circo mediatico esplode ottobre 2013 a “Chi l’ha visto“. La mamma di Sarah viene a sapere in diretta della morte di sua figlia e della confessione di Michele Misseri. In quei minuti concitati, scanditi dalle agenzie che battono particolari confusi Federica Sciarelli comunica questa notizia a una donna pietrificata, quasi incapace di proferire parola. Questo è primo cortocircuito comunicativo di questa storia: l’informazione che mette alla prova estrema il dolore, senza mediazione; di fatto violentandolo.

«Avetrana è stato un cortocircuito fra le ambizioni degli avetranesi e delle persone coinvolte, che improvvisamente si sono ritrovati personaggi televisivi e da rotocalco. Uno scontro fra le capacità manipolative di una certa stampa scandalistica e l’innocente ricerca della verità. Un mix esplosivo che ha avuto per tutti esiti nefasti: ne hanno risentito le indagini, tutte le persone coinvolte, soprattutto Sarah. La sua morte è passata in secondo piano. E ha segnato la perdita completa dell’innocenza del telespettatore  che prende parte all’orrore dello show del dolore».

Questa esposizione massiccia come ha influenzato le indagini e i processi?

«Partiamo dal presupposto che i video delle varie interviste televisive sono stati acquisiti agli atti, e che una teste si è fatta mettere delle ricetrasmittenti addosso per registrare una presunta testimonianza per inchiodare Cosima e Sabrina. Questi, ovviamente sono solo due paradossali esempi. Se non fosse tutto vero, ci sarebbe da piangere».

Scrivete che ad Avetrana abbiamo perso l’innocenza. Quanto racconta di noi questa storia che ci ha visti spettatori curiosi, morbosi e, a volte, anche osceni e divertiti turisti di quei luoghi dell’orrore?

«Quel giorno, in via Deledda, non è morta solo Sarah Scazzi. La sua tragica scomparsa ha segnato in modo definitivo la perdita di ogni dignità della stampa italiana. La spettacolarizzazione del dolore ha toccato la sua vetta più alta, sdoganando la disumana crudeltà di taluni giornalisti e l’assoluto sadismo del pubblico. Siamo diventati tutti peggiori»

Sarah Scazzi e il buco nero della giustizia spettacolo. Simona Musco su Il Dubbio il 27 agosto 2020. Dieci anni dal delitto di Avetrana che tenne col fiato sospeso l’intero Paese. Avetrana è un fermo immagine, un posto dove tutto rimane sempre uguale. Un posto come un altro alla periferia delle periferie, fatto di campi cuciti insieme da strade che portano al mare, di cui nessuno, forse, conosceva il nome fino al 26 agosto di 10 anni fa, quando una ragazzina bionda di 15 anni, di nome Sarah Scazzi, scomparve per 42 giorni, per poi riapparire dal fondo di un pozzo senza vita, in diretta tv. Avetrana diventò un set cinematografico, esempio lampante di quel corto circuito ancora troppo spesso ignorato tra giustizia e spettacolo. Tant’è che 10 anni dopo è proprio la vittima di questa storia, Sarah, a rimanere sullo sfondo di una vicenda triste e ingarbugliata, che ha una sua verità processuale ma non una verità storica. La verità che viene fuori dai processi è che ad uccidere Sarah sono state Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina prediletta di Sarah. Lo avrebbero fatto nella loro casa, la stessa dove Sarah trovò l’affetto di cui sentiva disperato bisogno. E lo avrebbero fatto per la gelosia di Sabrina nei confronti della cuginetta, troppo vicina a quell’Ivano Russo per cui entrambe provavano qualcosa. Condannate all’ergastolo nonostante Michele Misseri, per tutti diventato “Zio Michele”, figura simbolo della vicenda ma anche della sua trasfigurazione in show da prima serata, continui a giurare di essere l’unico colpevole, dopo averlo affermato, negato e riaffermato, perché sopraffatto, confessò, dalla sua attrazione per quella ragazzina che stava diventando donna. Zio Michele, l’uomo col cappello da pescatore, imitato, trasformato in macchietta, fino a svuotare la tragedia di senso, invitato a parlare e raccontare sugli schermi e sui giornali di tutta Italia, con la semplicità ruvida di un uomo di campagna, un orrore tenuto nascosto sotto un sasso fino al giorno in cui indicò quel buco nero ai carabinieri. Il tutto mentre mamma Concetta, sua cognata e madre di Sarah, era appesa ai microfoni di “Chi l’ha visto?” a lanciare l’ennesimo appello per la figlia. Una figlia riconsegnata morta con la fredda lettura, in diretta, di un lancio d’agenzia, che annunciava il ritrovamento del suo corpo e la confessione dello zio. Le parole di Michele, per la giustizia italiana, non contano nulla. Troppe volte ha cambiato versione, troppe volte si è contraddetto e tutti, in paese, sanno che a comandare, a tirare le redini, a gestire i soldi e tutto ciò che c’era da gestire in casa era Cosima, la donna che incontrò a 23 anni e che gli cambiò la vita. Per i magistrati e i giudici, il remissivo Michele avrebbe solo provato maldestramente a coprire moglie e figlia, una «fredda pianificatrice» dicono i giudici di Cassazione, che come gli altri non hanno dubbi su chi abbia fatto cosa. E loro due, da 10 anni, si dicono innocenti e vittime di un tragico errore. Due donne inchiodate dalla testimonianza di un fioraio, Giovanni Buccolieri, che raccontò di averle viste inseguire Sarah in auto dopo una lite, afferrarla per i capelli e scaraventarla sul sedile, per riportarla in quella casa dove poi l’avrebbero uccisa con una cintura girata attorno al collo. Salvo poi affermare che si era trattato solo di un sogno. Ma le ritrattazioni, in questa storia, non valgono. E così Michele Misseri è stato condannato per soppressione di cadavere assieme al fratello, Carmine Misseri, e al nipote, Cosimo Cosma, morto di tumore due anni fa. Mentre Ivano Russo, l’oggetto del desiderio, il pomo della discordia alla base di un atroce delitto, che ancora oggi si chiede cosa c’entri, è stato condannato a cinque anni per aver depistato le indagini. Quasi tutti, ad Avetrana, hanno recitato un ruolo in questa tragedia. Tutti pronti a dire la loro versione dei fatti, a fare ipotesi, raccontare ricordi o anche sogni, concedendosi a microfoni e taccuini come in un reality show di dubbio gusto, inquinando il racconto con particolari a volte utili, a volte meno, talora anche dannosi. Ed è per questo che ad Avetrana, tra le campagne incrostate di polvere e i giorni tutti uguali, sono piombati due scrittori, Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, che mettendo mano a 20mila pagine di atti e parlando con i protagonisti hanno scritto “Sarah. La ragazza di Avetrana” ( Fandango). Un libro che scava in questa storia raccontandola in ogni sua sfaccettatura, esplorando l’abisso della giustizia che diventa spettacolo, del dubbio che rimane ragionevole, ma senza che ciò basti. Un libro che ora diventerà serie tv, quasi a conferma del tragico copione scritto apposta per questo angolo sperduto del Salento. Dalle pagine del libro Michele viene fuori come un uomo che porta con sé un’infanzia difficile, fatta di botte, abusi, povertà e analfabetismo. Cosima lo salva, è il motore della famiglia, ma è Valentina Misseri, la figlia maggiore, a mettere in guardia tutti: sembra uno sprovveduto, dice, ma è machiavellico. E lei è sicura: è stato papà, che ora tiene un altarino della 15enne nel garage dove è morta, ad uccidere Sarah. Quella ragazzina che da Avetrana sognava di scappare come tutti. Voleva essere amata, voleva amare. E Sabrina, che la chiamava “la principessa triste”, era la sua unica porta verso un mondo sì ristretto, qual è Avetrana, ma comunque più avventuroso del suo. Sarah usciva con lei, frequentava i suoi amici, era la mascotte di una comitiva fatta di giovani adulti. Tra di loro c’era anche Ivano, che tanto piaceva a Sabrina, ma piaceva anche a Sarah. E lui le dava affetto, quello che lei, incurante delle voci che corrono, si inseguono, marcano a fuoco, cercava ovunque. Concetta denunciò la scomparsa di Sarah alle quattro del pomeriggio del 26 agosto 2010. La ragazza doveva andare al mare con Sabrina e le sue amiche, ma in riva allo Ionio non arrivò mai. Le ricerche partirono subito, i diari di Sarah furono prelevati, tutti finirono sotto intercettazione. Sabrina faceva rumore, attirava i giornali, le tv, cercandola ovunque, in diretta e a riflettori spenti. Sarah diventò, all’improvviso, la figlia di tutti, l’amichetta di tutti, non più solo un nome su una lista di gente che è sparita dai radar. L’Italia intera conosceva il suo volto, il suo corpo esile, gli occhi sgranati di sua madre, ascoltando i fiumi di parole di Sabrina. Tutti avevano un avvistamento da riferire, un veggente da consultare, teorie da snocciolare. Le telecamere si avventarono su Avetrana, ogni angolo fu passato al setaccio e proiettato nelle case della gente. Sabrina veniva perseguitata dai giornalisti, ai quali si presentava spesso disordinata e vestita alla buona, impegnata com’era a cercare la cugina. E l’unica volta che osò truccarsi per apparire davanti alle telecamere venne coperta da insulti. Nessuna pausa al dolore può essere accettata in questo angolo del mondo che decide anche come sia giusto soffrire. Le indagini presero mille strade, fino a quando gli inquirenti non scoprirono che tra lei ed Ivano non c’era solo un’amicizia. C’era di più. E proprio il giorno prima della scomparsa, lei e Sarah litigarono per lui, per le attenzioni che il giovane riservava a quella ragazzina. Intanto Zio Michele rimaneva ai margini. E fu sentito solo 33 giorni dopo la scomparsa di Sarah, lasciando che fossero le donne di casa, intanto, a parlare. Ma da quel momento, dal primo faccia a faccia con le divise, cominciò a sentire il fiato degli investigatori sul collo. Il 29 settembre fu lui a “trovare”, in un terreno di famiglia, il cellulare di Sarah, poggiato su un cumulo di cenere. Michele lo consegnò ai carabinieri. Ma era lì solo da poco tempo: più volte lo aveva spostato, piazzandolo anche davanti alla caserma, senza però che venisse trovato. Gli inquirenti torchiarono l’uomo, che cominciò a contorcersi attorno alle sue stesse bugie. Per l’ora del delitto non aveva un alibi. E il 6 ottobre, incalzato dalle domande dei pm, confessò: il cadavere è «allu Mosca», dove è cresciuto. Gli era «salito un calore alla testa», disse, voleva violentarla ma lo fece solo dopo, violando il corpo della nipote già morta. Misseri condusse i carabinieri in contrada Mosca, vicino al ceppo utilizzato come punto di riferimento. Sarah riemerse finalmente dal pozzo. Michele si prese tutta la colpa, salvo, 11 giorni dopo, tirare in ballo la figlia e la sua gelosia. Sabrina fu arrestata, Cosima, poco dopo, pure. E a nulla valse il tentativo di Michele, durante il processo, di rimangiarsi tutto: nessuno gli credeva più. Nonostante continui a dire, ancora oggi, che la colpa è sua, solo sua. Com’è convinta anche la figlia Valentina, che ieri, in un’intervista al Fatto Quotidiano, lo ha ribadito. «Bella giustizia! Non solo per mia madre e Sabrina che sono innocenti, ma soprattutto per Sarah. Solo la gente è stata soddisfatta, ha avuto i suoi colpevoli», ha commentato. Michele potrebbe presto uscire dal carcere, visto che a settembre potrà chiedere misure alternative. E Valentina si mangia le mani, pensa alla madre e alla sorella, pensa che sarebbe potuto capitare anche a lei. «Ogni giorno penso a mia madre e mia sorella in carcere e alle loro giornate infinite. Con questa storia, oltre a essere stata spezzata una vita, sono state distrutte tante famiglie. Fu indagata mezza Avetrana, ma il solo colpevole è mio padre – dice -. La verità è che stavano antipatiche a tutti. A tutta Italia. L’opinione pubblica ha pesato sulla sentenza». Cosima e Sabrina oggi lavorano, cuciono mascherine in carcere. Della loro innocenza è convinto anche il loro avvocato, Franco Coppi. «Sabrina Misseri è l’angoscia della mia vita – ha raccontato al Foglio -. La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre. Ho la certezza assoluta della loro innocenza, sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento». Coppi ora spera nella Corte di Strasburgo – che ha giudicato il caso ammissibile – e in una revisione del processo. Il tutto mentre Avetrana rimane quel set che è diventato 10 anni fa. Con la terra sventrata quella notte luogo di pellegrinaggio e la casa dei Misseri monumento dell’orrore. Per calpestare le strade, respirare l’aria di quel luogo macchiato di sangue e godere, ancora una volta, dello spettacolo della morte.

Avetrana, sono passati 10 anni dall'omicidio di Sarah Scazzi: l’incubo nella casa degli orrori. La 15enne uccisa: anni di processi (anche mediatici), ribaltoni, verità. Vittorio Ricapito il 26 Agosto 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Avetrana - Dieci anni fa, nell’assolato primo pomeriggio del 26 agosto 2010, in una villetta di Avetrana veniva strangolata Sarah Scazzi, una studentessa di 15 anni. Per 42 giorni tutta Italia restò col fiato sospeso in attesa di conoscere il destino della ragazzina, scomparsa nel nulla. Gli appelli in tv della madre di Sarah, Concetta Serrano, si infransero in diretta tv, la sera del 6 ottobre. Michele Misseri, al termine di un interrogatorio durato circa nove ore, confessò l’omicidio della nipote e portò gli investigatori al pozzo di contrada Mosca, dove aveva gettato il cadavere. Concetta Serrano apprese del ritrovamento del corpo in diretta televisiva dalla trasmissione «Chi l’ha visto?». Per l’omicidio e il sequestro di persona, sono state condannate in via definitiva all’ergastolo la cugina Sabrina Misseri e la zia di Sarah, Cosima Serrano. Ad aprile 2013, la corte d’assise di Taranto (sentenza confermata in appello due anni dopo) ha condannato le due donne. Secondo i giudici Sabrina e Cosima il 26 agosto del 2010 inseguirono Sarah per strada, la riportarono in casa e la strangolarono al termine di un litigio. Motivo: un mix di gelosia e rancori. Lo zio Michele Misseri è stato condannato in via definitiva a 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove (a 4 anni e 11 mesi è stato condannato il fratello Carmine, accusato di averlo aiutato). La tesi confessoria di Misseri, più volte ribadita in svariate versioni e messa nero su bianco in alcuni memoriali, non è mai stata ritenuta dai credibile dai giudici in virtù delle diverse prove raccolte a fondamento della ricostruzione del delitto. Per i giudici, Misseri ha cercato di addossarsi ogni responsabilità nel tentativo di scagionare la figlia Sabrina. Michele Misseri è stato anche condannato a tre anni di reclusione per calunnia e diffamazione ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa, suo primo difensore e della criminologa Roberta Bruzzone, consulente del legale. Secondo l’accusa, il contadino di Avetrana in aula e in tv accusò ingiustamente i due professionisti di avergli suggerito di incolpare la figlia Sabrina dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi. Misseri. A processo è finito anche un fioraio di Avetrana, ritenuto dai giudici uno dei testimoni chiave del delitto. Giovanni Buccolieri raccontò ad alcune conoscenti di aver assistito all’insolita scena di Sarah Scazzi inseguita e caricata a bordo dell’auto di Cosima Serrano. Riferì tutto ai carabinieri ma il giorno dopo cambiò idea, ripresentandosi in caserma per precisare che si era trattato solo di un sogno. La sua ritrattazione gli è costata una condanna in primo e secondo grado a due anni e otto mesi. Al caso di Sarah Scazzi sono stati dedicati speciali tv, saggi, romanzi e ora anche un film per la tv di prossima uscita.

Sarah Scazzi, dieci anni fa la denuncia della sua scomparsa. La più intrigata, orrida e singolare vicenda di sangue che ha conquistato uno dei posti più alti nella scala degli orrori contemporanei. La Voce di Manduria mercoledì 26 agosto 2020. «Il giorno 26 agosto 2010, alle ore 17,20 in Avetrana, presso gli uffici della stazione Carabinieri … la signora Serrano Spagnolo Concetta denuncia quanto segue: “Verso le 14,30 odierne, mia figlia Scazzi Sarah è uscita di casa per recarsi presso l’abitazione di sua cugina Misseri Sabrina in via Deledda, 22, con cui si dovevano recare al mare. Tant’è che ha preso i suoi asciugamani e portandosi con sé uno zainetto colore nero è uscita da casa vestita con maglietta e pantaloncini colo rosa … Abbiamo sinora cercato invano ma senza avere sue notizie». E’ iniziata così, esattamente dieci anni fa come oggi, la turpe storia di Avetrana. La più intrigata, orrida e singolare vicenda di sangue che ha conquistato uno dei posti più alti nella scala degli orrori contemporanei. A recarsi in caserma quel pomeriggio, erano state le due sorelle, Concetta, mamma di Sarah e Cosima, mamma di Sabrina, entrambe interpreti principali del noir di Avetrana. Quel verbale di scomparsa resterà tale per 41 giorni. Sino al 6 ottobre successivo quando, con una drammatica confessione, lo zio della quindicenne, Michele Misseri, fa scoprire il corpo di Sarah in un pozzo in contrada Mosca dove lui stesso, il pomeriggio di quel 26 agosto, lo aveva gettato quando era ormai privo di vita. Ad ucciderla, diranno le tre sentenze che si sono succedute tutte con verdetto unanime, erano state la cugina Sabrina Misseri con la zia Cosima Serrano, figlia e moglie del contadino di Avetrana. Le due donne stanno scontando l’ergastolo rinchiuse nella stessa cella nel carcere di Taranto. Nella speranza che la Corte Europea per i diritti dell’uomo dica sì alla richiesta di riapertura del processo così come chiesto dai loro avvocati, Franco Coppi del foro di Roma e Nicola Marseglia del foro di Taranto. Lui è rinchiuso a Lecce con una condanna ad otto anni per soppressione di cadavere.

Dieci anni dopo, la morte di Sarah Scazzi è ancora una giungla in cui si perde ogni verità. Un libro analizza per la prima volta 20 mila pagine di documenti sul delitto di Avetrana. Rivelando un quadro complesso di omissioni, rancori, pressioni. E infinite zone d’ombra. Massimiliano Coccia il 25 agosto 2020 su L'Espresso. Fino a dieci anni fa ignoravamo dell’esistenza di Avetrana, un paese di seimila anime in Salento, ignoravamo l’esistenza di questo lembo di terra uguale a migliaia di altri paesi attraversati da strade statali, luoghi di noia, di terre lavorate fino allo stremo, di miseria e di dimenticanza. Lo abbiamo scoperto e non lo abbiamo più scordato, quel nome eufonico sa di un caso risolto contro troppe verità processuali strane da mandare giù. Avetrana, terra di campagna e di mare, fatta di emigranti di ritorno e di bar dello sport, dove il turismo del macabro rende cupo anche il sole d’agosto. «Vengono sempre a chiedere dove sta la casa dei Misseri e dove sta il pozzo dove buttarono la piccola Sarah e dove sta Michele. La gente ha brutte curiosità», mi dice una donna vicino l’edicola del paese. «Prima ad Avetrana non c’era niente ed era meglio, ora c’è questa storia infame, ma alla piccola Sarah, non ci pensa nessuno». Sarah Scazzi, la vittima troppo spesso dimenticata forse perché troppo ragazzina, troppo quindicenne, troppo innocente. Il marketing del circo mediatico giudiziario ha individuato Michele Misseri come figura di rappresentanza del caso, non solo perché fu il primo ad accusarsi dell’omicidio, ma perché la sua figura respingente, con un cappello da pescatore e il nomignolo famigliare di “Zio” lo hanno reso subito macchietta e caricatura, facendo dimenticare al grande pubblico che quell’uomo con le mani dinoccolate, la pelle ruvida e lo sguardo appuntito si è accusato di aver ucciso Sarah e di aver occultato il corpo della nipote perché ne provava attrazione, secondo la sua stessa ammissione. «Io sono forte, tutti mi sottovalutano», dice in un video realizzato da Nazareno Dinoi sul luogo dell’occultamento del cadavere due anni dopo l’omicidio. «Io sono forte», dice alzando le braccia per indicare il masso col quale coprì il cadavere esile di Sarah Scazzi dentro a un pozzo dove rimase per 42 giorni. Ma per la giustizia italiana le parole di Misseri sono carta straccia, sono state pronunciate per coprire le responsabilità di sua figlia, Sabrina Misseri e della moglie, Cosima Serrano, che sono state condannate in via definitiva per aver prima sequestrato Sarah Scazzi - secondo le sentenze, dopo essersi recata a casa dei Misseri, la 15enne sarebbe scappata e poi sarebbe stata «riacciuffata» dalle due donne in macchina - e poi l’avrebbero uccisa con una cintura, strangolandola. Testimone chiave di questa versione Giovanni Buccolieri, fioraio di Avetrana che avrebbe visto l’accaduto (ha cambiato più volte versione). A quel punto le due donne avrebbero «obbligato» Michele Misseri a occuparsi del cadavere. Da qui la condanna per soppressione di cadavere assieme al fratello, Carmine Misseri, e al nipote, Cosimo Cosma, che è morto di tumore dopo la condanna in primo grado. Movente di tutto: la gelosia per un ragazzo, Ivano Russo, condannato a cinque anni per aver depistato le indagini. Su di lui cade la colpa di essere l’oggetto della contesa tra le due cugine, di essere l’epicentro del pettegolezzo e dell’affronto. Una giungla di verità, di negazioni, di carte processuali, di sangue e fango, che a dieci anni di distanza prendono una vita diversa dentro un libro “Sarah. La ragazza di Avetrana” (Fandango) scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni. Mentre il sole ci stordisce nella piazza centrale di Avetrana, raccontano di quella che è diventata per loro una sorta di lucida ossessione: «Volevamo indagare un contesto sociale e culturale, quello della provincia meridionale, che ha portato a un atroce delitto maturato in ambito familiare. Ma volevamo anche comprendere le influenze del primo processo mediatico italiano sulle indagini, e analizzare i passaggi - dai primi atti fino alla sentenza - che hanno portato alla condanna all’ergastolo di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, che ancora oggi continuano a dichiararsi innocenti. Ci interessava anche comprendere come Michele Misseri, che da sempre si presenta come l’unico colpevole, sia invece stato accusato e condannato solo per soppressione di cadavere e non per il reato di cui dice da anni di essersi macchiato. Misseri è tornato a ribadire la sua colpevolezza nella lettera che ci ha inviato e che abbiamo pubblicato in esclusiva nel libro». Un delitto in cui il cortocircuito tra media e aule di giustizia è stato evidente, sotto la scorza di una provincia che agisce sempre allo stesso modo, si tratti di mafia o di mura domestiche. Una realtà immobile: gli inverni duri da passare, il lavoro della terra, i bar con le carte e i video poker, le partite alle domenica, i giovani che se ne vanno, il sindaco, il farmacista, il comandante dei carabinieri, la festa del santo, il sesso come vergogna pubblica e privata e infine, con l’avvento dei social, le chiacchiere di commento su una foto, su un like. È dura essere vivi da queste parti, la desolazione della provincia che si è evoluta senza valori, ma con le solite reticenze, ha invaso lo spazio minimo di respiro. Respiro che su questo territorio manca, come raccontano gli autori indicandomi la via che conduce a casa Misseri: «Questo territorio è la parte più periferica del Salento e qua abbiamo incontrato tutti i protagonisti che ci è stato possibile, approfondito tutte le piste rimaste inascoltate e soprattutto studiato tutti i documenti, che superavano le 20 mila pagine. Abbiamo lavorato sempre senza alcun tipo di pregiudizio. Ci siamo resi conto però di incredibili domande rimaste senza risposta». A colpire Piccinni e Gazzanini è stato «il mix esplosivo che ha travolto Avetrana dieci anni fa, trasformandola da paese della periferia meridionale in cuore pulsante di uno show dell’orrore. Tra voci di paese e pressione mediatica, tutto ha influito sulle indagini. Tutto ha schiacciato, fino a farlo scomparire, il ricordo stesso di Sarah. Le persone coinvolte sono state invece tramutate in personaggi da incasellare in categorie precostituite. E spesso gli stessi protagonisti, pur di nascondere piccoli segreti, hanno alimentato una sequenza interminabile di bugie che poi si sono trasformate in una valanga capace di travolgerli, forse portando via per sempre con sé la verità». Queste terre sono fatte per scappare, per tornare a piccole dosi, per prendere poco a poco il veleno che viene dalla morte e dai fantasmi.Una certa cronaca giudiziaria ha costruito contrapposizioni tra le cugine, gelosie pregresse, giocando sul corpo delle donne di questa storia disonesta ovunque la si guardi. La condanna a morte di Sarah sarebbe stata anche la sua bellezza, la sua grazia e la capacità di far innamorare un uomo, s’è detto, semplificando e incasellando tutto nella vicenda orrendamente definita «passionale», e rimuovendo invece l’attrazione che Michele Misseri ha più volte dichiarato di aver provato verso Sarah. Non fa impressione se a dirlo è un fattore di campagna, un uomo della terra. Nel circo italiano altri prima di lui ci hanno abituato a quell’orrore di «cose fuori posto». Tutto orrendo a vederlo dieci anni dopo, un contesto interamente sottovalutato quello dei Misseri, seppellito dalle voci del paese. Valentina Misseri, sorella di Sabrina, nel libro di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanini dice: «Ero una ragazzina, mi ero sviluppata da poco, eravamo in Germania. Dovevo fare la doccia e mi spogliai davanti a mio padre, come avevo fatto migliaia di volte prima. Ricordo come mi studiò. Avvertii i suoi occhi sulla mia pelle e mi vergognai. C’era qualcosa di strano e di inquietante, in quello sguardo. Con una voce dura mi disse: “Non ti devi far più vedere così da me”. Quella fu l’ultima volta che accadde». Valentina, che dice di essersi salvata dal carcere perché quel giorno non era ad Avetrana, dopo anni rompe il silenzio riservato alla stampa e parla con L’Espresso, chiedendomi di fare attenzione alle sue parole, di averne anche cura perché in tutta questa storia loro sono stati lacerati dalla stampa, dalla morbosità: «In questi anni è stato detto di tutto e di più sulla mia famiglia. Se io quel giorno non fossi stata a Roma, ma a casa mia ad Avetrana, probabilmente anche io adesso sarei in carcere. La triste morte di mia cugina è stata strumentalizzata brutalmente: hanno solo pensato all’audience televisiva, a vendere copie di giornale e a cercare lo scoop. Abbiamo conosciuto la parte brutta dei mass media. È completamente mancato il rispetto, quasi noi non fossimo persone. Ci hanno offeso, ci hanno strumentalizzato, ci hanno tolto la dignità. Hanno detto di tutto, anche cose non vere, pur di avere il consenso dell’opinione pubblica», continua Valentina, che aveva fatto il suo verdetto molto prima dei giudici. «Ed è così che mia madre e mia sorella, innocenti come si professano da sempre, sono state condannate all’ergastolo. Abbiamo conosciuto giornalisti che erano dalla nostra parte fino a che li abbiamo fatti entrare in casa e raccontato loro i nostri più intimi segreti; ma appena abbiamo deciso di perseguire il silenzio, appena abbiamo scelto di non far entrare nessuno, sono diventati colpevolisti e ci hanno perfino confidato che non potevano parlare male del tribunale perché le informazioni arrivavano da lì». Ad un certo punto la sua voce si fa velata di rabbia: «Non sopporto che mio padre sia diventato Zio Michele: lui è Michele Misseri, non è lo zio di nessuno. Oggi, a distanza di dieci anni, io so solo che ho un padre colpevole pronto a uscire dal carcere, e mia madre e mia sorella che sono innocenti e moriranno dietro le sbarre se la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non si accorge di quello che è accaduto a Taranto». Un caso che ha scosso profondamente anche l’avvocato di Sabrina e Cosima Misseri, Franco Coppi: «Non so darmi pace - dice – di come queste due donne possano essere state valutate colpevoli dalla Cassazione che, precedentemente, aveva annullato i provvedimenti cautelari per mancanza di indizi di colpevolezza. È stato un processo mediatico: non ha tenuto conto della vita quotidiana di Sarah, dell’affetto per la cugina che ne era custode e amica. Faccio appello al fioraio di Avetrana, Giovanni Buccoleri, affinché riveda, come ha già in parte fatto, la sua testimonianza. Gli chiedo di uscire dal tunnel della paura, perché Sarah merita una giustizia piena e vera». Non solo lessico giuridico: per Coppi, decano dei penalisti italiani, c’è anche un elemento personale: «Vorrei, prima della mia dipartita, dimostrare l’innocenza di queste due donne. Per settimane non ho dormito dopo la loro condanna».La stessa angoscia che viene dopo aver lasciato il paese, la provincia crudele che parla e dimentica il volto di Sarah, che sarà per sempre la ragazza di Avetrana.

Sarah Scazzi, dieci anni dopo: "Un dolore che non passerà mai". Claudio, il fratello della ragazza uccisa il 26 agosto del 2010, vive e lavora nell’Alto Milanese: "Per me è impossibile dimenticare quel che le hanno fatto". Gabriele Moroni su Il Giorno. San Vittore Olona (Milano), 25 agosto 2010 - Sono trascorsi dieci anni, ma quello entrato nell’iconografia popolare come il “delitto di Avetrana” appartiene al novero delle vicende consegnate a una specie di dimensione atemporale. Dieci anni da quel 26 agosto 2010, ad Avetrana, piccolo centro del Salento, quando Sarah Scazzi, 15 anni, studentessa dell’istituto alberghiero, esce di casa, attesa per un pomeriggio al mare. Viene inghiottita nel mistero fino al ritrovamento del corpo, il 6 ottobre, in un pozzo per irrigare i campi. Claudio Scazzi è il fratello maggiore di Sarah. Ha 35 anni e da quindici vive a San Vittore Olona. Lavora come autista all’Amga di Legnano.

Claudio, come ha vissuto questi dieci anni?

"In maniera altalenante. I primi anni sono stati i più intensi e anche i più difficili. Poi sono andato avanti a fase alterne".

La Cassazione ha reso definitive le condanne: ergastolo alla cugina Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano, otto anni di reclusione allo zio Michele Misseri per soppressione di cadavere. Ritiene che sua sorella abbia avuto giustizia?

"Secondo me, sì. Nelle indagini è stato fatto tutto quello che era possibile fare, senza tralasciare nulla. Anzi, voglio ringraziare ancora una volta gli inquirenti. Questo posso dire: non è stato trascurato nulla. Ne sono convinto. Dalle evidenze processuali emerge la responsabilità delle persone condannate".

Cosa prova nei confronti di queste persone?

"Ovviamente non possono essere sentimenti positivi. Anche qui: sono passato attraverso fasi diverse, con sentimenti uguali secondo la fase che mi trovavo a vivere. È un misto di sentimenti, senza che nessuno sia predominante sugli altri. Va avanti così da dieci anni. È logico che in un arco di tempo tanto lungo non si provi sempre la stessa cosa".

E oggi?

"Oggi è il momento più triste: quello della ricorrenza. Il momento più triste, più delicato. Ogni anno è lo stesso, a mano a mano che ci si avvicina alla data".

Cos’ha ucciso Sarah? Gelosia? Invidia? Odio?

"Dalle indagini sono emerse varie situazioni. Una serie di problemi concatenati all’interno di quella casa, fra madre e figlia, fra Sabrina e Ivano (Ivano Russo, il ragazzo che secondo l’accusa avrebbe fatto ingelosire Sabrina Misseri, tanto da uccidere la cugina Sarah - ndr)".

C’è stata anche omertà?

"Non penso. La procura ha messo in campo tutti i possibili strumenti di indagine. Se c’era omertà, è stata subito smantellata. Sulle condanne per gli altri reati non voglio esprimere opinioni. È giusto aspettare i tre gradi di giudizio".

I ricordi legati a Sarah?

"Sono soprattutto quelli dell’estate, quando scendevo per la vacanze. Il sole, il mare, la serenità. Ero maggiore di lei di dieci anni. Non eravamo molto distanti. Capivo, la capivo, anche perché certe cose le avevo passate prima. Avevamo l’età giusta per comprenderci a vicenda. Il nostro era un rapporto molto bello. Capivo quello che lei mi diceva e anche quello che non mi diceva".

Grande confidenza?

"Sì, assolutamente. Si parlava della giornata in corso e della giornata di domani, delle uscite, delle vacanze. Mi fermavo venti, venticinque giorni e lei era molto contenta perché con la mia presenza era anche più libera, poteva uscire di più, fare quello che poteva fare una ragazzina di 15 anni".

Quando vi siete visti per l’ultima volta?

"Qualche giorno prima del 26 agosto. Abbiamo trascorso insieme la mattinata. Ci siamo salutati in casa con la promessa di telefonarci. Il giorno dopo avrei ripreso il lavoro. Sono uscito di casa verso l’una, l’una e mezza del pomeriggio. La mamma mi ha accompagnato alla stazione dei pullman".

Processo da rifare per zio Michele. Tarantobuonasera.it mercoledì 28 Ottobre 2020. Processo di appello da rifare per Michele Misseri accusato di diffamazione nei confronti di uno dei suoi ex avvocati, Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone. La Cassazione ha annullato con rinvio la condanna ad un anno e mezzo di reclusione che la Corte di appello di Taranto gli aveva inflitto un anno fa riformando la sentenza del Tribunale di Taranto che lo aveva condannato a tre anni anche per calunnia. La vicenda risale agli anni 2011- 2012. Durante il processo sull’omicidio di Sarah Scazzi e in alcune trasmissioni televisive, Misseri, nel tentativo di scagionare la figlia Sabrina (e quindi anche la moglie Cosima Serrano) ha accusato Galoppa e Bruzzone di avergli suggerito di coinvolgere la ragazza nella consumazione del delitto. Una ricostruzione accusatoria costatagli in primo grado la condanna a tre anni di reclusione. A novembre 2019 la Corte d’Appello di Taranto ha ridimensionato la gravità delle accuse condannandolo soltanto per diffamazione. I giudici hanno ritenuto infamanti le accuse nei confronti del legale e della criminologa ma non hanno ravvisato il dolo e le hanno ritenute diffamatorie, non calunniose. Inoltre, concordando con quanto emerso nei tre gradi del processo principale sul delitto di Avetrana, hanno ritenuto Misseri inaffidabile per le diverse versioni fornite agli inquirenti. La Sesta Sezione penale della Cassazione ha annullato la condanna di secondo grado disponendo il rinvio alla Corte d’appello e riservandosi il deposito delle motivazioni. Serviranno anche per comprendere perché è stato respinto, in quanto ritenuto inammissibile, il ricorso dei due professionisti costituitisi parte civile. Il difensore di Misseri, avvocato Ennio Blasi di Statte, dinanzi alla Suprema Corte, ha sostenuto l’illogicità delle motivazioni della condanna di secondo grado, ritenendo insussistenti le offese e chiedendo l’annullamento della sentenza. Il processo di secondo grado è dunque da rifare e si celebrerà davanti ad un collegio diverso, in Corte di appello a Lecce. Ma sul procedimento incombe la prescrizione: il 6 giugno prossimo. Michele Misseri, quindi, potrebbe evitare una seconda condanna, almeno per questa vicenda. Sulla sua testa pende, infatti, un’altra spada di Damocle. Una pena di quattro anni di reclusione, per calunnia e autocalunnia, rimediata in primo grado insieme a Ivano Russo (cinque anni) e ad altri protagonisti del caso di Avetrana imputati e condannati per falsa testimonianza a pene meno pesant (dai due tre anni). Il procedimento è approdato in appello. Misseri attende l’esito del giudizio nel carcere di Lecce dove è detenuto per soppressione del cadavere della nipote.

A 42 GIORNI DALLA SCOMPARSA DI SARAH SCAZZI, ROBERTA BRUZZONE DEFINÌ MICHELE MISSERI UN PEDOFILO ASSASSINO. Da Domenico Leccese su lecronachelucane.it il 6 novembre 2020. Pochi giorni fa, la Suprema Corte ha annullato con rinvio, la condanna ad un anno e mezzo di reclusione che la Corte di appello di Taranto aveva inflitto a Michele Misseri. Misseri era stato denunciato dal suo ex avvocato Daniele Galoppa e dalla sua ex consulente, la psicologa Roberta Bruzzone. Come tutti sapete, per l’omicidio di Sarah Scazzi, sua cugina Sabrina Misseri e sua zia Cosima Serrano stanno scontando l’ergastolo nel carcere di Taranto. A Michele Misseri la procura ha attribuito l’occultamento del cadavere. Ma veniamo alla dichiarazione rilasciata da Roberta Bruzzone a La7 nel 2010, 42 giorni dopo la scomparsa di Sarah Scazzi: “Questa tipologia di soggetti sono spinti esclusivamente dalla volontà di soddisfare i propri impulsi per cui tutto diventa secondario la vittima è semplicemente uno strumento attraverso cui soddisfare appunto la propria pulsione sessuale, quindi ragionano, pianificano, metto in conto la possibilità di liberarsi della vittima quando diventa scomoda quando diventa pericoloso per loro lasciarla in vita per evitare la cattura in questo caso penso ci siano tutti gli ingredienti per manifestare una piena e assoluta lucidità da parte di questo tipo di soggetti nel portare a termine la propria azione criminale. E in questo caso addirittura poi è intervenuta la volontà di depistare. Io in tutto ciò che ha fatto Misseri dai giorni in cui ha scoperto il cellulare e in tutte le dichiarazioni successive vedo una grande volontà, un grande tentativo di portare lontano da sé e probabilmente diciamo lontano dalla cerchia che lo riguardava i sospetti di questa vicenda. C’è da riflettere sul fatto che nessuno conoscesse le reali pulsioni che albergavano in questo tipo di soggetto. Ritengo improbabile quantomeno che nessuno sapesse che questo tipo di persona avesse questo tipo di interesse e non credo francamente che questa vicenda sia nata 42 giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia stato l’unico momento in cui questa persona ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedolo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell’età ha il proprio ingresso nella vita criminale, per cui purtroppo c’è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest’uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancor più inquietanti. Io penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto. Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell’assassino, come effettivamente è avvenuto. In questo caso l’ergastolo penso che sia impossibile non comminarlo, c’è piena consapevolezza, c’è lucidità, probabilmente sentiremo parlare, forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest’uomo sia durante la fase omicidiaria, che poi durante la fase successiva nell’occultamento del cadavere e ahimè anche nella fase che ha riguardato come sembra anche la parte della violenza sessuale” In seguito, la psicologa Roberta Bruzzone ha dichiarato: “A mio avviso non esiste alcun dubbio, tantomeno ragionevole, sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano in relazione al delitto di Sarah Scazzi. E ci sono a oggi, considerando  l’intera inchiesta, almeno una trentina di magistrati che l’hanno pensata esattamente come me, compresi i giudici della Corte di Cassazione che hanno confermato entrambe le condanne all’ergastolo nel febbraio del 2017. Non ci sarà mai modo di arrivare a una conclusione diversa e nulla e nessuno potrà modificare quanto è stato sancito dai tre gradi di giudizio. Lui non ha avuto alcun ruolo nel delitto ed è questa la principale ragione per cui Misseri non è mai riuscito a fornire una versione coerente di quanto accaduto durante l’omicidio. Lui non c’era e nessuno gli ha mai raccontato no in fondo com’è andata”

Zio Michele, l’uomo dei misteri di Avetrana. Maria Corbi il 25 agosto 2020 su La Stampa. Misseri è il personaggio chiave dei processi che hanno portato alla condanna all’ergastolo della figlia Sabrina e della moglie Cosima per l’omicidio della nipote Sarah. Tra confessioni, ritrattazioni, ambiguità. E dieci versioni diverse.

Meno di 10 giorni dopo la sua piena confessione Misseri il 15 ottobre inizia a inanellare una serie di altre versioni del delitto, coinvolgendo la figlia Sabrina a cui affibbia diversi ruoli, da semplice testimone fino ad autonoma e unica responsabile. Un continuo fiorire di nuove ricostruzioni che secondo il buon senso dovrebbe portare alla inaffidabilità totale del teste, non solo quando accusa se stesso. Anche perché è la giurisprudenza a dirci che la ritrattazione di una confessione deve essere una smentita non equivoca del fatto falso. E nelle dichiarazioni di Michele Misseri di non equivoco c’è veramente poco. La prima chiamata in correità della figlia, come dicevamo, è del 15 ottobre quando ribadisce di averla uccisa «perché le ho buttato le mani e io pure volevo buttare la mano e lei si è girata». Ma dopo un’interruzione dell’interrogatorio cambia versione: Sabrina sarebbe scesa in garage e notando il corpo esanime di Sarah gli avrebbe chiesto: «papà cosa hai fatto?». A questo punto le versioni del delitto sono già tre.

La data del 15 ottobre è fondamentale per il destino di Sabrina. Michele viene interrogato nel garage di casa sua, ossia il luogo del delitto, e vi arriva stordito dai medicinali che prende su indicazione del medico del carcere. La paura è che compia dei gesti contro se stesso. Quel giorno appare appannato, si tiene a fatica sulle gambe. Ripete la sua versione tra il trattore e il compressore dove si sarebbe accasciato il corpicino della nipote, come dirà lui stesso in una delle tappe della sua verità: «Sarah cadendo è andata a sbattere con la testa tra il manico e il serbatoio del compressore». Ma gli inquirenti lo esortano ancora a dire la verità: «Michè vedi che qui stanno male le cose», dice un carabiniere. Ma anche il suo avvocato, intervenuto d’ufficio la notte della confessione, insiste perché ritratti «perché qui le cose si mettono male». L’avvocato di Michele è un civilista, con esperienza di beghe condominiali, ma non ritiene di dover fare un passo indietro lasciando il posto a  un collega specializzato in penale. E quel 15 ottobre la sua posizione è chiara, al fianco degli inquirenti tanto che esortando Michele a «dire la verità» usa un «noi»: «pure la violenza sessuale ti dobbiamo contestare noi». Bizzarro detto da un legale di fiducia. Ma Michele rimane sulla sua posizione fino a che l’avvocato chiede un time out per poter interloquire con il suo cliente. Altro time out lo chiederà poco dopo il pm Biuccoliero, 35 minuti di interruzione dopo i quali tutto cambia. Anzi tutto è cambiato in quella parentesi incomprensibile tanto che Buccoliero invitandolo a parlare fa capire che in quel lasso di tempo si sono dette delle cose:

P.M. Buccoliero: Allora si riprende l’ascolto di Michele Misseri alle ore nove e trenta. Allora signor Misseri che cosa succede nel garage quando lei ha già ucciso Sarah e l’ha coperta con il cartone e arriva Sabrina come ha detto, che cosa accade?

«Come ha detto», sottolinea il pm. Quindi questa prima ritrattazione avviene nella parentesi non verbalizzata dove non sappiamo come si è svolta la conversazione.  Michele comunque risponde, riferendo la reazione di Sabrina: «Papà cosa hai fatto?». La risposta che dice di aver dato Michele è incredibile: «Niente». Comunque in questa versione Sabrina fugge in lacrime e va fuori ad attendere l’amica Mariangela con cui deve andare al mare. Proprio lei che ama quella cugina come una sorella, alla vista del suo cadavere invece di disperarsi, mantiene la calma, fredda come una serial killer. Possibile? Probabile? Un dramma costellato di punti interrogativi.

Gli inquirenti vogliono altro. Perché se, come continua a insistere MIsseri,il cellulare della povera Sarah ha squillato mentre lui la stava strozzando per una chiamata di Sabrina, non sarebbe possibile arrivare al passaggio successivo, ossia alla complicità di Sabrina nella fase omicidiaria. Quello squillo per inchiodare Sabrina deve arrivare quando la ragazzina è già morta. Ma Michele insiste: «E’ caduto in terra, ce lo aveva in mano lei». Nega quindi che quello squillo, come invece pensano gli inquirenti, possa essere un tentativo di costruirsi un alibi della figlia. Ma l’interrogatorio continua su questo punto perché per il pm «qui non riusciamo a conciliare le cose». Ossia non si riesce a conciliare la verità di MIsseri nel puzzle costruito dall’accusa. E il legale di Misseri rimane sullo sfondo.

Alle 10,02 il verbale viene sospeso di nuovo e si riapre in un altro scenario, sotto l’albero di fico dove Misseri ha detto di avere portato la nipote. Poi si sospende di nuovo e si riapre alle 14,30 nella caserma di Manduria. Il pm Buccoliero chiede a bruciapelo:«chi l’ha portata nel garage Michè». E a questo punto ecco entrare in scena Sabrina che avrebbe trascinato Sarah nel garage «per verificare il fatto che io gli avevo messo la mano».  E  il pm insiste: «ti ha detto dagli una lezione?». «Può darsi di si». «C’è tanta confusione».

Misseri è sfinito e stordito. Risponde esausto alle esortazioni degli inquirenti e anche del suo avvocato. Ma il pm lo porta anche su un'altra strada come se non fosse soddisfatto di quella versione: «Sabrina era arrabbiata pure per il fatto del fidanzato, no?». Ecco il movente che da sempre ossessiona la Procura. La gelosia di Sabrina per il rapporto che Sarah aveva con Ivano. Che definiscono «fidanzato», anche se nessuno dei due ha mai definito «fidanzamento» la loro relazione.

Michele, dicevamo, è sfinito e cambia ancora versione tornando a quella dove è l’unico responsabile e Sabrina una involontaria testimone. Una lunga giornata questo 15 ottobre. Alle 15 si sospende ancora la verbalizzazione e venti minuti dopo, su richiesta del difensore Galoppa, si riapre. E emerge un’altra versione dei fatti: Michele e Sabrina volevano solo avvertire Sarah in modo che non andasse a raccontare delle avances sessuali alla moglie Cosima e la sua morte è stato solo un incidente. Sarah sarebbe scivolata per scappare da zio e cugina.

Tante versioni affastellate e poco spontanee. Ma non importa. Alla fine di questo 15 ottobre di 10 anni fa le porte del carcere di Taranto si chiudono dietro a Sabrina. E ancora non si sono riaperte.Nel primo provvedimento cautelare, scattato quel giorno  a carico di Sabrina Misseri era stata configurata la seguente imputazione:

a) 605, c.p. per avere privato Sarah Scazzi della libertà personale, trascinandola con la forza all’interno della cantina-garage della sua abitazione e, poi, trattenendola ivi contro la sua volontà, cinturandola con le braccia, mentre il padre le cingeva una corda intorno al collo;

b) 110-575-576, co. 1, n. 1), c.p.: perché, in concorso con il padre Misseri Michele Antonio, al fine di assicurare allo stesso l’impunità del delitto di violenza sessuale da questi commesso ai danni di Scazzi Sarah, nonché per motivi abietti e futili, consistiti nell’evitare che l’episodio di violenza di cui innanzi pervenisse a conoscenza di terzi, cagionava la morte della cugina, atteso che, mentre compiva il sequestro sub a), il genitore, dopo aver messo a quest’ultima la corda intorno al collo, la stringeva sino a soffocarla.

A questo punto dell’omicidio abbiamo già  5 versioni:E’ stato Michele per un raptus sessuale;È stato Michele perché era nervoso che il trattore non partiva;E’ stato Michele e Sabrina scendendo in garage si è accorta del cadavere della cugina; E’ stato Michele su esortazione della figlia Sabrina che voleva dare una lezione alla cugina che minacciava di andare a raccontare delle molestie ricevute dallo zio;E’ stato un incidente conseguente a che padre e figlia volevano impartire a Sarah sempre per la questione delle molestie. Ma c’è da notare che in carcere Michele continua a raccontare a tutti la stessa versione, ossia quella che lo vede unico colpevole. Lo dice ai secondini, ai medici, al cappellano e anche al medico legale della procura, il dottor Strada a cui da anche un altro macabro dettaglio: la nipote mentre stava morendo si è fatta la pipì addosso. Ma nulla cambia nelle convinzioni degli inquirenti.

Il 22 ottobre la moglie Cosima e la figlia maggiore Valentina vanno a trovare Michele in carcere. Vorrebbero trovargli un altro avvocato, ma lui rifiuta perché «lo paga lo stato».  Lui racconta che «loro (gli inquirenti, ndr) mi hanno detto che sto coprendo Sabrina e Ivano».  «Che loro sono colpevoli e io innocente».
«E’ così?», chiede Valentina. Misseri: «Io ho detto non posso far pagare il carcere agli innocenti. Ho fatto io e devo pagare io». Il 5 novembre Michele Misseri viene interrogato di nuovo. E si spoglia dagli scomodi abiti non solo di colpevole ma anche di complice e addirittura di spettatore.  Siamo alla sesta versione: lui quel 26 agosto dormiva placidamente sulla sua sdraio ormai divenuta famosa in tutta Italia quando viene chiamato da Sabrina che lo invita a scendere in garage «perché è successa una cosa».  Lui vede il corpo della nipote e ascolta la spiegazione della figlia: «Stavamo giocando, è scivolata ed è caduta, Sarah».  A questo punto, come nella migliore abitudine di questa vicenda, l’interrogatorio viene interrotto. Sono le 16,10.  E’ presente anche una consulente della difesa, una criminologa habituè dei salotti tv. Entra in gioco anche l’arma del delitto, che secondo una prima perizia non sarebbe compatibile con la corda menzionata da Misseri, ma piuttosto con una cinta.  E, come dicevamo, dopo le solite irrituali interruzioni, Michele cede: la corda potrebbe essere una cinta. E si arriva al 19 novembre, giorno dell’incidente probatorio in cui i pm vogliono cristallizzare le accuse di Michele alla figlia, anticipando così una prova del dibattimento. E abbiamo la settima versione. quella della «disgrazia»: alle due di pomeriggio di una giornata afosa di agosto le due cugine sarebbero scese nel garage infuocato di casa Misseri per giocare (una di 22 anni e l’altra di 15 anni) al gioco del cavalluccio, dove a fare da «cavallo» sarebbe stata l’esile Sarah e da «cavaliere» la massiccia Sabrina. E la corda usata a mo’ di «redini» sarebbe l’involontaria arma de delitto. «Michele Misseri, quindi, propone la tesi di una disgrazia che porrebbe Sabrina al riparo della sanzione maggiore che invece meriterebbe se fosse realmente colpevole di un omicidio volontario», rileverà la difesa. Nei colloqui in carcere con sua figlia Valentina che gli chiede conto delle accuse fatte alla sorella lui si giustifica dicendo di essere stato indotto a «dire la falsa». «O ci dici così, la Sabrina tra poco esce, se non dici non esce». Valentina non ci vede dalla rabbia: «come cazzo esce se hai detto che ha ucciso?». «Chi è che ti ha detto queste cose?», insiste Valentina. E qui Misseri indica tre persone che si sono occupate del caso (e i cui nomi non faccio per rispetto delle garanzie che spettano a tutti noi), due delle quali lo denunceranno per calunnia. Michele Misseri sarebbe stato convinto del fatto che coinvolgendo Sabrina la sua famiglia avrebbe minimizzato il danno del suo errore. Lui sarebbe finito nel convento di Grottaglie e la figlia sarebbe uscita dopo poco, meno di due anni.Misseri comunque continua a dire di essere solo lui il colpevole con tutte le persone con cui parla a iniziare, come dicevamo dallo psichiatra del carcere. Appare un uomo manovrabile, che cambia le sue versioni a seconda delle pressioni che riceve, e anche il gip di Taranto deve ammettere che Misseri «è uno tra i peggiori chiamanti in correità che un giudice si augurerebbe di trovarsi di fronte». E così si arriva alla ritrattazione della ritrattazione, l’ottava versione; quando Michele inizia, inascoltato, a dire di «avere fatto la falsa», ossia di avere detto il falso sulla colpevolezza di Sabrina perché indotto da chi gli aveva assicurato che in questo modo sia lui che Sabrina in pochi anni avrebbero ripreso una vita normale. E’ un secondino del carcere di Taranto dove è recluso a spiegargli che le cose non stanno così e che le accusa fatte alla figlia, anche nella versione edulcorata dell’incidente probatorio, sono un punto di non ritorno. Allora Michele chiede di essere riascoltato dagli inquirenti, ma ottiene solo dei no. I magistrati si rifiutano di ascoltarlo. L'avvocato Franco CoppiIn tanti si sono chiesti come abbia fatto Sabrina Misseri a ottenere la miglior difesa possibile, niente meno che il professor Franco Coppi, difensore dei potenti, da Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi.La verità è molto più semplice delle tante illazioni fatte e che qui vi risparmio.  Agli inizi di questa storia Sabrina era difesa da due avvocati di Taranto, marito e moglie, Vito Russo ed Emilia Velletri.  Poi, a inizio 2011, hanno dovuto rimettere il mandato perché indagati di falso lei e di favoreggiamento lui (Vito Russo avrebbe tentato di far dire ad Ivano che a essere infatuata di lui non era Sabrina ma l’amica Mariangela). Il padre della Velletri, un noto legale del foro pugliese, cassazionista come Coppi, preoccupato della piega che stava prendendo questa causa, si mise in contatto con il professor Coppi chiedendo di dare una mano per le istanze da presentare in Cassazione contro le ordinanze di custodia cautelare. Coppi si era incuriosito di questa vicenda di cui si parlava ormai in ogni luogo, sia nelle aule di Tribunale che nei salotti bene della città. Io stessa venivo «interrogata» regolarmente da amici, conoscenti e anche da estranei che mi vedevano nelle trasmissioni televisive dove andavo cercando inutilmente di tenere viva una cultura garantista rispetto a questa vicenda. Così, poco prima di Natale, ricevetti una telefonata del tutto inaspettata. Era un assistente del professor Coppi che mi chiedeva se potevo incontrarlo. «Si porti anche qualche materiale di Avetrana», mi dissero. E così andai a questa colazione dove mi chiese come mai in un coro colpevolista la mia voce suonasse invece di altro tono. Così, carte alla mano, gli dissi quello che non mi convinceva in questa inchiesta. Gli parlai dei personaggi, dl clima che si respirava ad Avetrana e del mio sconcerto per la reclusione preventiva di una ragazza che fino a quel momento non aveva mai fatto del male nemmeno a una mosca e su cui pendevano solo contraddittorie accuse del padre. Lasciai le carte che avevo e poco dopo seppi che il professor Coppi aveva preso la difesa di Sabrina. Quando gli chiesi il perché mi disse: «un avvocato ha il dovere di difendere la giustizia. E in questo caso credo proprio che ce ne sia bisogno. E poi dopo tanti casi di bancarotta sono felice di seguire una storia carica di umanità seppur dolorosa». Da quel momento il professor Coppi non ha mai abbandonato Sabrina, difendendola gratuitamente, una causa pro bono, con l’aiuto di un suo collega del foro di Taranto, uno dei più importanti penalisti pugliesi, Nicola Marseglia, ma anche dell’avvocato Roberto Borgogno, braccio destro del professore nello studio romano. Coppi dirà in diverse interviste che il pensiero di Sabrina dietro le spalle non gli da pace. La chiama affettuosamente «la sventurata» e da lei riceve regolarmente delle lettere con dei disegni colorati a pastello che di solito hanno per oggetto degli animali, cani e gatti, una passione comune. E quando lei si fa prendere dallo sconforto e rimane muta, senza la forza nemmeno di scrivere una lettera, lui la sprona e la rimprovera: devi combattere e continuare a scrivermi. «Io aspetto con ansia le tue lettere». Nel frattempo il professore ha iniziato il lungo iter del ricorso in Europa, che è stato ammesso e che dovrà essere discusso. Un disegno di Sabrina Misseri«Le cose sono andate così», ricorda Coppi. «Presto mi sono ritrovato solo a difendere Sabrina a seguito delle vicissitudini giudiziarie che hanno coinvolto diversi avvocati che si sono preoccupati di questo processo». «Non ho mai avuto dubbi sull’innocenza di Sabrina. Tutti i racconti di Sabrina sui suoi rapporti su Sarah hanno trovato riscontro, non mi ha mai detto una bugia. Basterebbe come prova della sua innocenza i fatti che seguono al ritrovamento del cellulare di Sarah.  E’ Sabrina che invece di farlo sparire come sarebbe stato suo interesse se fosse stata colpevole obbliga il padre a consegnarlo ai carabinieri. E commenta questo ritrovamento con il fratello di Sarah rappresentando la speranza che questo ritrovamento possa essere di aiuto nel ritrovamento di Sarah». Poi c’è la confessione di Misseri che l’accusa ha voluto sminuire perché ha cambiato versione molte volte. «Ma i cambiamenti di versioni di Michele sono tutti motivati. Una volta ha detto che gli era stato suggerito di comportarsi in un certo modo, un'altra volta ha spiegato che gli era stata fatta intravedere la possibilità di uscirne con pochi danni. Quindi non si possono liquidarle tutte e sue versioni dicendo “è inattendibile”. Tenendo conto che in dibattimento quando lo ho sottoposto a interrogatorio ho voluto usare l’espressione più brutale: è lei l’assassino>? E lui ha risposto sì».

Sabrina rimane in carcere nonostante anche la Cassazione sia stata chiara in occasione del primo ricorso contro il provvedimento di custodia cautelare, nell’affermare la debolezza dell’impianto accusatorio, annullando l’ordinanza addirittura per mancanza di indizi. Ma ogni volta che la Cassazione chiede al Tribunale di valutare di nuovo alla luce delle sue obiezioni la posizione di Sabrina quello che ottiene è solo un cambiamento delle carte in tavola, ossia un cambiamento dei capi di imputazione. Sabrina colpevole unica. Sabrina complice del padre. Sabrina complice della madre, come vedremo tra poco. Nel frattempo Michele Misseri visto che non viene ascoltato dagli inquirenti detta la sua ammissione - di avere «detto la falsa» su Sabrina – a lettere inviate alla figlia per «chiedere scusa». Lettere per cui la difesa ha chiesto di poter ascoltare Michele Misseri in carcere in modo che ripetesse anche davanti agli avvocati, nel quadro di una attività difensiva, di essere stato lui e solo lui il colpevole. Cosa che è avvenuta puntualmente nel carcere di Taranto con il primo incontro tra il professor Coppi e il contadino di Avetrana. Presente anche, irritualmente secondo Coppi, il procuratore capo di Taranto Sebastio e l’aggiunto Pietro Argentino E anche qui un’anomalia. Gli inquirenti si rifiutano di ascoltare Misseri ma pretendono di essere presenti quando parla con la difesa. «Non mi era mai capitato di svolgere indagini difensive alla presenza del pubblico ministero», dice Coppi. «Il contenuto di queste lettere corrisponde al tuo pensiero?», chiede Coppi. «Risponderò appena mi chiameranno i magistrati», dice Misseri che non verrà mai più ascoltato dai pm. Per ben due volte il gip dice no alla richiesta della difesa di un nuovo incidente probatorio vista l’evoluzione delle cose. E dice no anche a un confronto tra i protagonisti della storia, ossia Michele, Sabrina e Cosima, ormai anche lei nell’occhio dei magistrati. Ma c’è di più. Quando il nuovo legale di Misseri, il romano Francesco De Cristofaro , a marzo 2011, con una lettera fa sapere alla Procura che il suo assistito vuole parlare con loro per riferire «circostanze dallo stesso ritenute utili alle indagini», non solo ottiene un secco no ma viene lui stesso indagato per «infedele patrocinio». L’avvocatura insorge e le camere penali indicono uno sciopero, ma intanto De Cristofaro non può che rimettere il mandato. Misseri è di nuovo solo, in balia di se stesso e di avvocati attratti dal suo caso, ma soprattutto dalla ribalta mediatica.  Il 30 maggio, a sorpresa, verrà liberato. Ma ne parleremo tra poco.

Come ho accennato prima la sentenza della corte di Cassazione  sollecitata da un ricorso della difesa di Sabrina contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, il 18 maggio 2011, rimette tutto in gioco. Anzi avrebbe rimesso, visto che come vedremo verrà bellamente ignorata, con il solito modo: annullata un’ordinanza di custodia se ne fa un’altra. I supremi giudici fanno notare come la logica che guida l’accusa sia «tutta interna al racconto di MIsseri»,   non verificata fatti oggettivi. Ma anche che Misseri non può essere credibile solo quando accusa la figlia. E che il movente della gelosia non regge. Insomma non sussistono ne prove, ne indizi.  Le accuse a Sabrina non reggono, di fronte alle «prove», ossia alle ricostruzioni fatte in base agli orari dei messaggi e delle telefonate intercorsi tra Sabrina, la cugina e la amica Mariangela quel giorno in cui dovevano andare al mare. In base a quello scambio di messaggi o si ritiene Sabrina capace di inviare sms mentre sta uccidendo la cugina, a corpo ancora caldo, per costituirsi un alibi neanche fosse una navigata criminale, oppure si torna all’ipotesi di partenza: ad uccidere Sarah è stato Michele Misseri. Ipotesi a cui gli inquirenti non vogliono tornare anche se sanno che devono superare le obiezioni fatte dalla Cassazione. Una bocciatura della linea seguita fino a quel momento a cui la Procura risponde (il 26 maggio, solo 9 giorni dopo) con una nuova ordinanza di custodia cautelare per Sabrina, e un’ordinanza di custodia cautelare contro Cosima Serrano. Nessuna indicazione della Cassazione viene seguita. I principi garantisti che impongono controlli incrociati tra diversi gradi e magistrati riguardo a un’inchiesta in corso sembrano ignorati. E siamo alla versione numero 9 del delitto:Capo A) – 110 e 575., c.p.:  perché, in concorso fra loro, [Sabrina Misseri e Cosima Serrano] cagionavano la morte della minore SCAZZI Sarah, strangolandola a mezzo di una cintura; in Avetrana (TA), il 26 agosto 2010; Capo B) – 110 – 61, n. 2 – 411 c.p.: perché al fine di assicurarsi l’impunità di cui al capo che precede, in concorso fra loro e con MISSERI Michele Antonio, sopprimevano il cadavere di Sarah SCAZZI, ordinando e aiutando il predetto Misseri a trasferire, a mezzo della sua auto “SEAT Marbella”, fuori dalla propria abitazione il suddetto cadavere, per occultarlo in modo da non essere più ritrovato; in Avetrana (TA), il 26 agosto 2010”.

La posizione, di Cosima  scrive il gip è  «sempre in bilico tra concorso nel reato e favoreggiamento», «si è disvelata» quando è stato chiaro che il delitto è stato compiuto a casa. Cosima quindi poteva benissimo sentire quello che avveniva in casa e anche il citofono «sicuramente suonato da Sarah al suo arrivo». Un «sicuramente» che non è supportato da testimonianze ma solo dalla logica del gip. «Dunque nella migliore delle ipotesi per lei, Cosima Serrano», ... «non può non aver assistito, per lo meno, a un’ampia parte dell’azione omicidiaria protrattasi per vari minuti (che in quel contesto sono un’eternità) e, in una simile situazione, non ha fatto nulla per impedire che siffatta condotta giungesse a termine». Secondo il gip poi vi sarebbero «buone ragioni per sostenere che Cosima Serrano, in prima persona, non nutrisse sentimenti particolarmente benevoli verso la nipote Sarah». Il gip contesta sia a Sabrina che a Cosima il fatto che non abbiano saputo dire cosa abbiano fatto per quasi un’ora dalle 16,19 alle 17,15. In realtà le due donne hanno sempre detto di essere state in giro alla ricerca di Sarah.  Si conferma il movente (la gelosia per Ivano Russo) che sarebbe confermata da cinquemila messaggini. Anche se la gelosia, come ha ricordato la Cassazione, non è un movente e il movente in sé non può essere prova e neanche indizio. 

L’accusa è certa: Cosima era sul luogo de delitto, ossia in casa. Il gip lo evince da una perizia fatta dai Ros di Roma. Cosima alle 15,25 sarebbe scesa in garage, mentre lei ha sempre negato. Ed evince anche che Sarah era in casa Misseri perché il suo telefonino aggancia la cella che copre l’abitazione (diversa da quella del garage) alle 14,28, 14,23, 14,25, 14,28 e 13 secondi e 14 e 26 secondi. Prova del fatto, secondo il gip, che il delitto è stato consumato in casa da Sabrina. Ma il gip si dimentica di riportare che i Ros hanno spiegato chiaramente a pagina 3 della loro perizia che quella cella è compatibile «anche con il percorso compiuto dalla vittima tra la propria abitazione e quella Misseri, nonché con l’abitazione della stessa Scazzi Sarah».Insomma secondo i Ros è ampiamente possibile che in quei momenti Sarah stesse a casa o in marcia verso casa Misseri, ipotesi questa che smonta la colpevolezza di Sabrina che potrebbe essere inchiodata alla scena del crimine solo anticipando gli orari di uscita da casa e arrivo a casa Misseri di Sarah. Ancora una volta il giudice sceglie l’indizio più sfavorevole all’indagata e non quello favorevole alla sua difesa, come ha invece sollecitato a fare la Corte di Cassazione pochi giorni fa.

Cosima Serrano esce dalla sua casa di Avetrana il 21 ottobre 2010In carcere in questa storia finiscono anche il fratello di Michele, Carmine, e suo nipote Cosimino Cosma accusati di averlo aiutato a occultare nel pozzo il cadavere di Sarah. Accusa da cui i due contadini si sono sempre difesi: no abbiamo fatto nulla. Cosimino è morto «di colore» come dice chi lo conosce bene, per un tumore, prima della sentenza. definitva di Cassazione. Mentre Carmine ha avuto 4 anni e 11 mesi.  Da pochi mesi ha avuto il permesso di lavorare fuori dal carcere. Secondo gli inquirenti e i giudici, dunque,  quel maledetto pomeriggio si sarebbe non solo messa in scena una tragedia ma anche una commedia dell’assurdo dove in un ambiente di persone «normali» a seguito di un delitto, tutti in famiglia sono subito disponibile a collaborare per nascondere le tracce e farla franca. Come ha scritto nei motivi di appello Franco Coppi, non esiste logica nella tesi della colpevolezza di Cosima e Sabrina. Cinque persone vengono coinvolte in un delitto senza che nessuno abbia la minima esitazione? Dentro le due donne di casa Misseri, e fuori lui, il contadino di Avetrana, Michele, Misseri. Il mio giornale, «La Stampa» su cui sto scrivendo questa lunga cronaca, ha avuto lo scoop della prima intervista a Misseri uscito dal carcere. Una esclusiva nata «per caso», o «per tigna». In quei giorni si doveva discutere un’istanza di scarcerazione presentata dalla difesa per «zio Michele», come oramai lo andavano chiamando tutti affettuosamente. Perché questo era l’umore popolare indotto dalle tante trasmissioni televisive che guardano agli ascolti più che all’etica.  Il 30 maggio la mattina presto chiamai il professor Coppi e gli chiesi se secondo lui era plausibile una scarcerazione imminente. E lui mi disse «assolutamente no, non scenda ad Avetrana che si fa un viaggio inutile».  Lo stesso mi dissero dei colleghi del posto che avevano «sotto controllo» l’attività del Tribunale.  Ma io sentivo di dover scendere, anche per recuperare da casa Misseri i memoriali che Michele scriveva in carcere e che poi consegnava alla figlia Valentina. Così presi un aereo e con le stesse perplessità sulla necessità di farlo scese anche la mia collega Ilaria Cavo, di Mediaset. Mentre ero nella villetta di via Deledda insieme a Valentina Misseri che mi stava facendo visionare i memoriali, squillò il telefono. Era il carcere. La avvertiva che doveva quanto prima andare a recuperare suo padre, che era stato liberato. Quando Michele arrivò a casa io e Ilaria eravamo nel suo salotto, ad attenderlo. I carabinieri che lo accompagnavano si stupirono della nostra presenza, ma sapevano che non potevano buttarci fuori nonostante ci abbiano provato. Anche perché quella era casa di Michele Misseri che nel vederci ci aveva riconosciuto (per le tante volte che ci aveva visto in tv) ed era desideroso di poter dire finalmente la sua a qualcuno visto che i magistrati non volevano sentirlo. Così ci ha confessato di essere stato lui e solo lui il colpevole, non solo spiegandoci le diverse fasi omicidiarie (che corrispondevano alla sua prima confessione) ma anche mimandole. Prendendo il cavo dell’antenna della televisione e mostrando come barbaramente aveva girato la corda intorno al collo della nipote. Una scena che ha fatto molto discutere e per cui sia io sia la Cavo siamo state «accusate» di essere senza scrupoli, per avere permesso a Misseri questa sceneggiata. Ma ovviamente non sono d’accordo, visto che è dovere di un giornalista raccontare quello che vede, cercando di facilitare l’accertamento della verità in un caso in cui una vita era già stata sacrificata barbaramente, ma altre persone rischiavano la morte civile, o comunque una severa condanna, per un crimine che probabilmente non avevano commesso.

A «inchiodare» però Cosima e Sabrina, secondo i magistrati, sarebbe un «sogno». Ricordate Anna Pisanò di cui vi ho accennato nella precedente puntata? Potremmo definirla una persona molto curiosa, fan di Barbara D’Urso con cui scambiava le sue opinioni sul caso in tv, molto vicina anche alle forze dell’ordine, appassionata dei fatti. Del paese. Insomma il 5 aprile del 2011 Anna Pisanò si reca dai carabinieri per informazioni importanti. La figlia Vanessa Cerra,  gli ha raccontato che il fioraio, Giovanni Buccolieri, dove fa la commessa  avrebbe visto quel pomeriggio del 26 agosto 2010 Sarah correre in lacrime  inseguita da Cosima che poi, afferrandola per i capelli, le avrebbe intimato di salire in macchina dove ad attenderla c’era una persona non identificata ma dalla corporatura corpulenta  e i capelli legati che non si fa fatica a individuare in Sabrina.   Una circostanza che la Pisanò riferisce quasi 8 mesi dopo. Per spiegare questo enorme ritardo la super testimone inanella una serie di scuse banali, tra cui il fatto ce «il sognatore» era persona assai schiva che non voleva essere coinvolto in questa storia. Come se l’accertamento della verità fosse un optional. In ogni caso il fioraio, il 9 aprile,  viene chiamato in caserma qualche giorno più tardi insieme alla moglie Giuseppina Scredo che secondo la Pisanò sarebbe anche lei a conoscenza del racconto fatto dal marito. Come anche l’amico Michele Galasso a cui avrebbe detto, raccontando il fatto, «che non ero certo se si fosse trattato di un sogno o di un fatto reale».  Anche la moglie Giuseppina dice ai carabinieri che il marito raccontando l’episodio non era sicuro se so fosse trattato di un sogno o realtà.  E dice ce il marito quel giorno è uscito verso le 14. Mentre il fioraio aveva fissato le 13,20. Per fissare la ricostruzione l’11 aprile Buccolieri è chiamato ancora in caserma e conferma il racconto fatto precisando però «che si è trattato di un sogno», fatto oltre tutto dopo il ritrovamento del cadavere di Sarah.  E inizia il suo incubo. I magistrati lo indagano per false dichiarazioni. Come indagheranno, e poi rinvieranno per false dichiarazioni anche la moglie, l’amico Galasso, la suocera che nonostante nei giorni del delitto fosse a Parma si è permessa di dire di avere sempre saputo che quel racconto del genere fosse frutto di un sogno. L’ulteriore assurdità è che in questo modo, essendo imputato per un reato connesso all’omicidio di Sarah, Buccolieri si potrà rifiutare di deporre in aula durante il processo a Cosima e Sabrina. Nonostante la durissima sentenza si basi proprio, come si legge nelle motivazioni, sul «sogno» del fioraio.  Quindi vengono affibbiati due «fine pena mai» sulla base di un sogno senza che in aula sia mai apparso il sognatore. Un paradosso che mina in maniera profonda la giustizia, secondo la difesa, ma non solo. Mina sicuramente il sistema garantista e il principio che protegge ognuno di noi secondo cui le condanne devono andare «oltre ogni ragionevole dubbio». Ma non è la sola regola garantista sgretolata in questa inchiesta. Anche la regola del «dubbio pro reo», ossia il fatto che ogni indizio debba essere sempre letto a favore dell’indagato, è stata ignorata. Tutto in questo processo, dichiarazioni, orari, comportamenti, analisi, perizie, sono state lette in chiave colpevolista contro le imputate. Gli avvocati Franco De Iaco e Liiogi Rella, difensori di Cosima Serrano, inseriscono nel ricorso contro la custodia cautelare della loro assistita la trascrizione di una intercettazione in cui Buccolieri confida di avere subito «condizionamenti nell’esame testimoniale», quando la prima volta disse che quel ricordo era attinente a un fatto e non a un sogno. «. ..Mi hanno tartassato tanto per dire quello che loro volevano... praticamente mi hanno fatto raccontare il sogno come fosse realtà». Quel che si può facilmente supporre, al di la delle convinzioni della procura e delle dichiarazioni del fioraio è che questi in quei giorni in cui il caso di Avetrana monopolizzava l’attenzione dell’opinione pubblica, abbia in qualche modo voluto avere «una parte» da protagonista anche lui, tirando fuori la storia del sogno che magari non aveva nemmeno fatto. Un’altra ipotesi, certamente. Ma in questa folla di «possibilità», lo ripetiamo, si annida minaccioso «il dubbio» che quando ci sono due ergastoli di mezzo diventa una minaccia seria non solo alla libertà di due malcapitate ma anche di tutti noi. Il fioraio sognatore  comunque va a processo e viene condannato in primo grado a due anni per false dichiarazioni al pm. Pena e reato caduti da poco in prescrizione alla Cassazione. «Una storia incredibile», dice «La favola del sogno è servita a mantenere in carcere Sabrina visto che la Cassazione aveva di nuovo detto che l’impianto accusatorio era esile e a fare finire in cella Cosima». E proprio sul «sogno», che come abbiano detto rappresenta il cuore della sentenza di condanna Franco Cioppi e Nicola Marseglia hanno presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Richiesta che è stata ammessa. Si attenda la fissazione della data dell’udienza. La sentenza di condanna a due ergastoli. Come dicevamo, si basa sulle dichiarazioni del fioraio mai ripetute in aula (anche qui va a farsi benedire il principio processuale secondo cui la prova si forma in aula). E anche la ricostruzione che viene fatta del delitto è «nuova». Siamo, dunque alla decima versione: le due cugine  mentre attendono l’amica Mariangela per andare al mare litigano in modo così violento che Sarah scappa via sconvolta. E a questo punto mamma Cosima invece di cercare di riportare pace tra figlia e nipote si sarebbe alzata dal letto per rincorrere con la macchina Sarah e darle una lezione.  Una ricostruzione che potrebbe strappare un sorriso se non fosse calata in una realtà così drammatica. Perché l’immagine di Cosima una signora appesantita dai chili e dalla vita intenta a inseguire e anche ad acciuffare Sarah, una ragazzina esile come una gazzella, in un rovente primo pomeriggio di agosto, è veramente difficile da credere. Ma giudici ci hanno creduto, nonostante sia una ricostruzione basata su un sogno, o comunque su un racconto non supportato da altre conferme testimoniali. Come si può dire che si sia andati oltre ogni ragionevole dubbio? Anche perché tutte le persone a cui il fioraio avrebbe confidato la scena di cui sarebbe stato testimone, ossia l’inseguimento, hanno sempre detto di avere sempre saputo che si trattava di un sogno. Ma secondo i giudici la loro testimonianza è falsa. Mentre l’unica attendibile sarebbe Anna Pisanò, sempre lei, che non avrebbe saputo del sogno direttamente dal fioraio, ma «de relato» dalla figlia che a sua volta lo aveva appreso dal fioraio. E tra le altre cose la figlia, ascoltata di nuovo dai magistrati, ha negato di avere riferito un fatto vero, confermando la storia del sogno.

Per altro, va ricordato che si arriva alla sentenza di condanna nonostante rispetto all’ordine di custodia cautelate emesso per Sabrina e Cosima la Corte di Cassazione, (al cui esame esso venne sottoposto attraverso il ricorso contro la decisione del Tribunale del Riesame che lo aveva confermato) sottolineasse ancora una volta l’inconsistenza del provvedimento cautelare proprio sul punto relativo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza. Perché mentre la confessione di Michele Misseri era sostenuta da una pluralità di convergenti elementi obiettivi di riscontro (quali i dati ricavati dalle celle telefoniche, la conoscenza del luogo dove era stato nascosto il cadavere, il possesso del telefonino e di altri effetti personali della vittima, le tracce di unghiature rinvenute sulle sue braccia) chiaramente idonei, secondo criteri di  valutazione della prova comunemente e giornalmente adottati di fronte a qualsiasi Tribunale della Repubblica Italiana a condurre alla sua condanna per l’omicidio della minore Sarah Scazzi, l’ipotesi della responsabilità di Sabrina, ma anche di Cosima  trovava viceversa una radicale e insuperabile smentita in un alibi di ferro e in una pluralità di elementi favorevoli all’indagata. La corte di Cassazione inoltre nell’annullare l’ordinanza di custodia cautelare contro le due donne Misseri motiva in maniera netta, e ancora una volta bacchetta la Procura di Taranto. Prima di entrare nel merito della mancanza dei gravi indizi i giudici della Cassazione sottolineano con la penna rossa un errore grave avvertendo i pm che tenere in piedi due ordinanze di custodia cautelare (con due versioni alternative dell'esecuzione dello stesso delitto: prima Sabrina in concorso con il padre e poi con la madre) crea un problema di «tenuta logica», e contrasta con uno dei principi cardini del nostro ordinamento processuale. Quello che vieta - «ne bis in idem» - che ci siano due processi per lo stesso reato. «Si tratta di una regola - spiega la Cassazione - che permea l'intero ordinamento giuridico».Per la Cassazione comunque, e qui dovranno nuovamente far chiarezza i giudici di merito, gli indizi a carico di Cosima e Sabrina sono «insussistenti» per quanto riguarda l'accusa di omicidio e quella di sequestro di persona. Nel senso che, mentre è stato accuratamente ricostruito che cosa madre e figlia fecero nelle ore precedenti il delitto, manca invece «ogni riferimento a quanto accaduto tra le 14 e le 14,42 del 26 agosto, lasso di tempo fondamentale, perché in esso si colloca la consumazione dell'omicidio». Necessario, inoltre, anche stabilire dove è avvenuto: perchè - rileva la Cassazione accogliendo le obiezioni sollevate dalle difese - nelle diverse ordinanze emesse a carico di Sabrina, il soffocamento di Sarah avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima. E per Cosima, inoltre, «l'asserito contributo all'uccisione della nipote non è stato in alcun modo specificato, con intuitive carenze motivazionali in ordine al tipo di apporto, materiale o morale, fornito, e alla eventuale astratta configurabilità, in alternativa, di forme di favoreggiamento». Esistono invece, secondo la suprema Corte, indizi che potrebbero far pensare a un coinvolgimento di Cosima e Sabrina nella fase dell’occultamento del cadavere. Ed è questo sospetto a tenerle ancora in carcere. Ma sullo sfondo rimane sempre la stessa domanda: chi  o cosa ha, o avrebbe,  portato  Misseri a  tutto questo?  A questa giostra di versioni, con accuse auto ed etero dirette? Torna quindi l’ipotesi di un uomo manovrabile, che cambia le sue versioni a seconda delle pressioni che riceve, teoria che non convince la Procura anche se il gip ha ammesso che Misseri «è uno tra i peggiori chiamanti in correità che un giudice si augurerebbe di trovarsi di fronte». La difesa di  Sabrina, d’altronde ha sempre insistito sulla non credibilità del teste e della sua facile suggestione.  Nei motivi di appello sostiene «che la “persuasione” e la “induzione” di Michele Misseri sono la conseguenza di interrogatori condotti sicuramente in buona fede, ma in modo tale da generare nell’esaminato la convinzione circa la opportunità di rappresentare i fatti in termini corrispondenti a quanto lo stesso Michele Misseri pensava essere l’orientamento dell’Ufficio del Pubblico Ministero, del suo difensore e del suo consulente tecnico e nella certezza che la nuova rappresentazione dei fatti, che configurava la morte di Sarah come l’effetto di un mero incidente, lo salvasse senza pregiudicare in misura particolarmente grave la figlia».
Intanto Michele Misseri, dal giorno della scarcerazione fino al nuovo arresto dopo la condanna definitiva in Cassazione a 8 anni per occultamento di cadavere, dalla sua casa di Avetrana ha continuato sempre a ripetere di essere lui l’unico colpevole. «Non potrò mai perdonarmi di avere distrutto la vita a due donne innocenti. Non le posso più chiamare moglie e figlia dopo quello che ho fatto loro. I giudici devono credermi».  E nella sua ultima lettera inviata a me continua ad accusarsi: «sempre come prima i pesi che ho dentro di me….tengo tre innocenti  in carcere…io sono l’unico colpevole».

Caso Sarah Scazzi: quando la vita, la giustizia e la morte diventano show. Silvia Stucchi su Il Sussidiario l'8.11.2020. “Sarah. La ragazza di Avetrana” di Piccinni e Gazzanni ricostruisce con precisione il caso Sarah Scazzi, entrando in un labirinto di cronaca nera. Fa una certa impressione leggere Sarah. La ragazza di Avetrana, di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango Libri, 2020), non soltanto per il crimine, terribile, che tutti abbiamo imparato a conoscere dalle decine di ore di Tg, programmi di approfondimento, articoli di giornale; quello che colpisce il lettore è anche la ricostruzione dettagliata, con occhio antropologico, del tessuto sociale del paese: una comunità molto segnata dal fenomeno dell’emigrazione. Infatti, da queste pagine scopriamo una sorta di fil rouge nelle vite di Sarah Scazzi, della madre e di Sabrina Misseri, la cugina riconosciuta colpevole insieme alla madre Cosima Serrano, e ora in carcere. Sarah infatti ha vissuto lontana dal padre e dal fratello, emigrati al Nord per lavoro; ma anche sua madre Concetta è stata affidata da bambina ai parenti, e Sabrina pure ha passato un periodo della sua infanzia lontana dai genitori, emigrati in Germania per cercare di costruire un futuro migliore per la loro famiglia. L’altro elemento che colpisce, in questa ricostruzione accuratissima dei due autori, che già a quattro mani avevano firmato Nella setta (Fandango, 2018), è la mediaticità del caso, finito subito in prima pagina sui giornali, e oggetto di speciali e dirette, a partire da quel giorno di fine agosto 2010, quando nel primo pomeriggio Sarah, uscita per raggiungere la casa degli zii, distante poche centinaia di metri, per andare al mare con la cugina e un’amica, sparì nel nulla; e nessuno può dimenticare come il ritrovamento del cadavere venne comunicato alla famiglia stessa nel corso di una diretta televisiva: un momento emblematico della televisione italiana, che ricorderemo, nelle storie di questo mezzo di comunicazione, fra qualche anno, forse alla pari con il caso di Alfredino Rampi a Vermicino. La ricostruzione di Piccinni e Gazzanni, accuratissima, ci porta dentro il labirinto entro il quale gli inquirenti hanno cercato di districarsi, attraverso le varie versioni dei sospettati e dei testimoni; ma, soprattutto, ci dà il polso di tutto il corollario di processi originati dal “caso Scazzi”, esito di indagini satellite che hanno riguardato altri personaggi protagonisti della vicenda; protagonisti che da testimoni sono diventati indagati, imputati e, in qualche caso, anche condannati. Per l’omicidio, come è noto, sono state condannate in via definitiva Sabrina Misseri, la cugina di Sara, e sua madre, Cosima Serrano, zia della vittima: quest’ultima, per l’opinione pubblica, è da sempre stata associata alla figura della madre-padrona, della moglie capace di comandare marito e figli a bacchetta. Ma, probabilmente, nella memoria di tutti, il personaggio rimasto maggiormente rimasto impresso è Michele Misseri, lo zio di Sara, padre di Sabrina, che, dopo aver confessato il 6 ottobre 2010 il delitto, ha cambiato sei volte versione, arrivando a coinvolgere la figlia minore. Successivamente, ammise di avere coinvolto la ragazza perché mal consigliato, ma non fu più creduto; condannato per occultamento di cadavere, continua a professarsi colpevole dell’omicidio. Il processo a Cosima e Sabrina si è snodato per 52 udienze, svoltesi per quindici mesi, per un totale di 400 ore di dibattimento e 120 testimoni; quando, nell’agosto del 2016, il giudice relatore, Susanna De Felice, pubblicò le motivazioni della sentenza, ci si trovò davanti a 1.260 pagine, che si aggiungono alle 1.631 di primo grado per sostenere l’impalcatura delle condanne. A chiudere il cerchio del processo è poi la Corte di Cassazione, con la sentenza che conferma le condanne emessa il 21 febbraio 2017: a distanza di 2.371 giorni dalla morte della vittima, tutte le condanne vengono confermate, come confermate sono le ricostruzioni delle dinamiche dell’omicidio, i depistaggi, i ruoli dei personaggi chiamati in causa, le testimonianze. La Cassazione, nella condanna del 2017, sottolineò, fra le altre cose, la “fredda pianificazione d’una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell’impunità”. La Cassazione ha ribadito anche, come già aveva affermato la Corte di Taranto, che ci si sarebbe trovati, da parte della giovane accusata, di fronte a una consapevole strategia di strumentalizzazione dei media, volta a deviare le investigazioni verso piste di indagine fasulle. Tre parole, in sostanza, chiudono per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano un percorso tortuoso durato oltre cinque anni: fine pena mai. Almeno, fino ad ora. C’è da dire che difficilmente in Italia si arriva, sottolineano Piccinni e Gazzanni, a una tripla conforme: ovvero, in tutti e tre i gradi di giudizio, i magistrati chiamati a pronunciarsi sulla morte della giovanissima vittima pare non abbiano avuto dubbi nel riconoscere la colpevolezza delle imputate. A vagliare questa versione nel corso degli anni sono stati 21 magistrati: otto in primo grado, otto in Appello e cinque in Cassazione. Ventuno esperti del diritto che hanno esaminato e valutato il caso nelle sue diverse sfumature. Certo, oltre all’amarezza profonda per una vittima che oggi, a venticinque anni, sarebbe una giovane adulta, restano però anche l’amarezza e le perplessità per quello che è stato davvero il primo processo mediatico della storia italiana, una sorta, dicono gli autori, “di reality show ibrido fra il trash e la cronaca nera” in cui, ricordano Franco Coppi e Nicola Marseglia, “i mezzi di comunicazione si sono impadroniti della vicenda, e si sono scatenati senza alcun ritegno e senza alcuna preoccupazione di poter influire negativamente sull’accertamento della verità, procedendo ad autonome indagini, all’esame di coloro che sarebbero divenuti imputati fino a quando sono rimasti a piede libero, all’esame di testimoni, a sopralluoghi, a sondaggi di opinione, a dibattiti con la partecipazione di esperti, o sedicenti tali” (ibid.). Insomma, è come se accanto ai processi in tribunale se ne fosse svolto un altro, continuo e senza interruzione, sui giornali e i canali Tv: un’involuzione o un segno dei tempi ipermediatici in cui viviamo?

IL CASO SCAZZI -“Mio padre uscirà, bella giustizia. Solo lui può aver ucciso Sarah”. Mariateresa Totaro su Il Fatto Quotidiano il 25 Agosto 2020. Il 26 agosto 2010, nel profondo Sud Italia, veniva uccisa una ragazza di soli 15 anni. Il suo corpo verrà fatto ritrovare dopo 42 giorni dallo zio, Michele Misseri. Per il delitto di Avetrana (Taranto) finiranno in carcere, oltre allo “zio Michele”, condannato a otto anni per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove, anche sua moglie Cosima e sua figlia Sabrina, condannate all’ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione. E anche Carmine Misseri, fratello di Michele, condannato per concorso in occultamento di cadavere. Il caso Scazzi, con rivelazioni e documenti inediti, è adesso al centro del libro Sarah (Fandango Libri) scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, i cui diritti sono stati acquisiti da Groenlandia di Matteo Rovere, che è già al lavoro per una serie televisiva e un doc. Oggi l’intera famiglia è dietro le sbarre, a eccezione di Valentina, sorella di Sabrina, che quel giorno era a Roma, dove vive da tempo, e che oggi rievoca quel giorno.

Sono passati 10 anni da quell’estate infernale, cosa ricorda di quel 26 agosto?

«Se quel giorno in casa ci fossi stata anche io, sarei finita sicuramente in carcere. Anche se non avessi fatto nulla. Quel giorno lo ricordo bene, stavo aspettando la solita chiamata di mia madre, che però non arrivò. Così le mandai un messaggio e poco dopo mi telefonò dicendomi che era successa una cosa brutta. Non si trovava più Sarah. Ebbi subito la sensazione che fosse successo qualcosa di grave, un rapimento».

Come sta oggi?

«Tutto sommato bene, ma è dura. Ogni giorno penso a mia madre e mia sorella in carcere e alle loro giornate infinite. Con questa storia, oltre a essere stata spezzata una vita, sono state distrutte tante famiglie. Fu indagata mezza Avetrana, ma il solo colpevole è mio padre».

È convinta dell’innocenza di Cosima e Sabrina?

«Assolutamente sì. Anche rileggendo le carte processuali davvero non si riesce a capire come mia madre e mia sorella possano essere coinvolte nell’omicidio di Sarah. La verità è che stavano antipatiche a tutti».

A tutti chi?

«A tutta Italia. L’opinione pubblica ha pesato sulla sentenza. Hanno detto che Sabrina era brutta, cattiva e invidiosa. Ma non è così. Mia sorella è una bella ragazza, era anche molto corteggiata e mia madre era una grande lavoratrice».

Oggi come stanno sua madre e sua sorella?

«I primi anni nel carcere di Taranto sono stati i più duri. Oggi lavorano, cuciono mascherine e stanno meglio».

Le sente?

«Sì, quattro volte a settimana tra chiamate e video chiamate».

E suo padre?

«Sento anche lui. Non l’ho perdonato, ma non l’ho neppure abbandonato. Una famiglia è una famiglia nella buona e nella cattiva sorte».

Suo padre presto potrebbe uscire dal carcere, perché a settembre saranno maturi i tempi per fare richiesta di pene alternative. Cosa ne pensa?

«Eh… bella giustizia! Non solo per mia madre e Sabrina che sono innocenti, ma soprattutto per Sarah. Solo la gente è stata soddisfatta, ha avuto i suoi colpevoli».

Nel libro Sarah – La ragazza di Avetrana racconta di un particolare episodio inedito legato a suo padre…

«Ero una ragazzina e dovevo fare la doccia. Mi spogliai davanti a lui, ma non avevo nemmeno dieci anni. Una cosa normalissima. Ricordo come mi guardò e mi disse: "Non ti devi far più vedere così da me". A ripensarci, mi ha fatto riflettere».

È successo altre volte?

«Mai. È stato un padre perfetto con noi, certo con i suoi difetti, ma non ci ha mai maltrattate. Mia madre, invece, ha sofferto molto per lui».

Perché?

«Per le sue bugie e i suoi comportamenti violenti. Una volta le diede uno scappellotto, lei cadde e svenne. Lui non le ha mai chiesto scusa e quella non è stata l’unica volta».

E con Sarah, quel pomeriggio, cosa è accaduto secondo lei?

«Dai verbali ho letto una dichiarazione di mio padre che dice: ‘Non l’avevo mai vista con i pantaloncini così corti e il seno le stava sbocciando’. Una cosa che uno zio non dovrebbe neanche pensare di sua nipote. Credo che quel pomeriggio Sarah fosse scesa in garage per non suonare, perché sapeva che mamma a quell’ora dormiva, e che lui ci abbia provato. Lei lo ha respinto con un calcio e papà non ci ha visto più e l’ha uccisa».

Sempre nel libro di Piccinni e Gazzanni viene riportata una sua lettera a zia Concetta…

«Spero che la legga. Purtroppo con zia non ci siamo più viste né sentite, ma vorrei tanto che andasse a trovare mia madre e mia zia in carcere e che ascoltasse la loro versione. Capirebbe che non c’entrano nulla e che noi abbiamo sempre voluto bene a Sarah».

Ad Avetrana ci torna mai?

«Sì, per qualche settimana ogni anno, ma non esco mai. Se lo faccio è solo per fare delle commissioni e comunque non vado mai in giro da sola perché una volta sono stata anche minacciata».

E al cimitero ci è mai andata?

«No, mai. Non ci riesco».

Dopo 10 anni cosa le resta?

«Rabbia e delusione, ma anche speranza. Spero che vengano fuori nuovi elementi, che qualcuno che non ha parlato, parli. Per il resto ho rinunciato ad avere figli e vado avanti, sorrido ma non sono più quella di prima».

Perché questa scelta così forte?

«Perché se dovessi avere un figlio avrei paura, una volta grande, di quello che la gente potrebbe raccontargli. O che qualche esaltato possa fargli del male per vendicarsi».

E a Sarah ci pensa?

«Ogni giorno della mia vita. Guardo la sua foto e le do il buongiorno. Prima dicevo Dio aiutami, ora dico Sarah aiutami. Perché lei l’ho vista davvero e perduta davvero, Dio non l’ho mai visto».

L'omicidio di Sarah Scazzi diventa serie tv. L'autrice Flavia Piccini: "Una tragedia che ci obbliga a riflettere". Pubblicato martedì, 11 agosto 2020 da Gilda Camero su La Repubblica.it. La scrittrice pugliese con Carmine Gazzanni e autrice del libro Sarah La ragazza di Avetrana da cui sarà tratta la serie tv: "Una storia nera che sa anche di farsa. Proviamo a ridare voce a quella ragazzina". Il 26 agosto del 2010 Sarah Scazzi, quindicenne di Avetrana, esce di casa e scompare. Il suo corpo verrà ritrovato grazie alle indicazioni dello zio Michele Misseri, quarantadue giorni dopo, in un pozzo. La sua storia drammatica, che scosse profondamente l'Italia nell'estate di dieci anni fa, diventerà una serie televisiva diretta dal regista bitontino Pippo Mezzapesa e un documentario (firma la regia Christian Letruria) scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, autori del libro Sarah La ragazza di Avetrana, pubblicato due settimane fa da Fandango libri e già in ristampa, che rivela grazie a documenti inediti e nuove testimonianze come il caso potrebbe non essere chiuso. A produrli sarà Matteo Rovere che ne ha acquistato i diritti. 

Piccinni la storia di Sarah trova ora un'altra forma per raccontarsi. Che effetto le fa?  

"Siamo carichi di senso di responsabilità e di dovere. Abbiamo l'occasione di raccontare in modo profondo e lontano dalle strumentalizzazioni mediatiche uno dei casi di cronaca che ha rivelato l'animo nero del Mezzogiorno. La tragica morte di Sarah ci obbliga moralmente a riflettere su molte cose a partire dall'etica del mondo della comunicazione. Questa triste storia ha elementi di farsa e di commedia, su tutto si distende però la tragedia. Siamo orgogliosi che la regia sia stata affidata a un grande regista, Pippo Mezzapesa, che ha la capacità di raccontare sempre con delicatezza e lucidità il nostro tempo, e riesce a indagare l'animo umano in modo profondo e originale. La storia di Sarah ha toccato intimamente tutti gli italiani ed è ancora oggi molto presente nell'immaginario collettivo, come dimostrano le reazioni che hanno accompagnato l'annuncio della serie. Siamo convinti che abbia rappresentato un punto di non ritorno rispetto alla contaminazione tra cronaca nera e comunicazione. Tutti ricordiamo l'annuncio alla madre di Sarah, Concetta Serrano, in diretta televisiva della morte della figlia".

Quanto ha contato, a suo parere, il peso mediatico che il caso ha avuto? 

"Moltissimo. La scomparsa di Sarah Scazzi ha trasformato in modo unico e irripetibile Avetrana, e tutte le persone che dal tragico caso sono state toccate. Purtroppo la continua tendenza alla semplificazione ha operato sotto gli occhi del telespettatore una trasformazione di persone qualsiasi in personaggi, se non in macchiette. Ad Avetrana ognuno è stato chiamato a ricoprire un ruolo. Perfino lo spettatore che da casa, comodamente seduto sul divano, assisteva al dipanarsi di un fattaccio che per molti era divenuto un appuntamento quotidiano come una soap opera. Per cercare l'umanità seppellita dietro la pellicola con Carmine abbiamo deciso di andare a fondo". 

Dalla ricostruzione fatta del caso qual è l'immagine di Sarah che viene fuori?

"Sarah è stata raccontata in maniera stereotipata, in due modi completamente diversi, come una ragazzina che dimostrava più anni o, al contrario, come una bambina, una giovane più piccola della sua reale età. Sarah, come tutti noi, era uno, nessuno, centomila. Era una figlia ribelle, una ragazzina con tanti sogni. Come tutti noi, aveva soprattutto mille sfaccettature nel suo modo di essere. Averle sottolineate o, quantomeno, averci provato, credo sia stato il modo migliore per provare a ridarle voce e restituirle qualcosa. Sarah era una persona, non un personaggio. Oggi avrebbe compiuto 25 anni. Purtroppo è rimasta intrappolata in eterno nell'estate dei suoi quindici anni".  

Per realizzare il libro avete condotto un lavoro molto accurato, dalla lettura delle carte processuali all'ascolto di persone vicine alle famiglie. E, secondo la vostra analisi, ci sono ancora troppi buchi neri. Quali?  

"Nei quasi due anni di lavoro che hanno accompagnato la scrittura di Sarah abbiamo letto oltre ventimila pagine, parlato con decine di persone, consumandoci gli occhi sulle cronache dell'epoca. Analizzando i documenti, e senza mai dimenticare le tre sentenze di condanna, sono molti i dubbi che hanno accompagnato il nostro impegno. I repentini cambi di versione di Michele Misseri, le celle telefoniche, la testimonianza del fioraio sono solo alcuni degli elementi che analizziamo con grande attenzione. Proprio quest'ultima testimonianza si è rivelata fondamentale nell'intero processo ed è su questa che si fonda il ricorso presentato dai difensori di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all'ergastolo, alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Recentemente il ricorso è stato dichiarato ammissibile, adesso la questione è passata a Strasburgo che dovrà dare delle risposte e dissipare i tanti, troppi dubbi che punteggiano il caso". 

Carmine Misseri lascia il carcere. Semilibertà, per lavorare in una cava a Manduria. La Voce di Manduria sabato 29 febbraio 2020. Dopo tre anni di reclusione con l’accusa di aver occultato il cadavere di Sarah Scazzi in concorso con il fratello Michele, il manduriano Carmine Misseri lascerà il carcere per lavorare in una cava qui a Manduria. Il 63enne che è difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, tornerà in cella solo per dormire. Già beneficiario di due permessi brevi, il contadino di Manduria durante la detenzione ha mostrato una esemplare condotta in carcere dove ha conseguito la licenza elementare e dove frequenta il corso per la terza media. Nel penitenziario di Lecce conduce dei lavori ed ha avuto buoni rapporti con tutti ottenendo per questo un encomio dalla direzione carceraria. Inoltre ha già scontato più delle metà della pena dovendo lasciare definitivamente il carcere nell’estate del prossimo anno. Nonostante tutto questo, il Tribunale di sorveglianza di Lecce che ha emesso l’ordinanza, non ha accolto la richiesta della difesa che puntava sull’affidamento in prova ai servizi sociali o ai domiciliari, possibilità accordata anche dalla procura generale. Per i giudici di sorveglianza, invece, Misseri non è meritevole di tali benefici per il grave rato commesso e soprattutto perché non emergerebbe da parte sua alcun atto di «revisione critica». Il sessantatreenne, infatti, continua ad escludere di avere colpe attribuendo ogni responsabilità al fratello Michele non solo per il fatto commesso, ma anche per averlo coinvolto senza alcun motivo. Parzialmente soddisfatto il suo difensore. L’avvocato Bullo ha già annunciato un ricorso per Cassazione contro l’ordinanza del tribunale di Lecce. Il penalista si appellerà al principio, già sancito dalla Corte suprema, secondo cui «per la concessione di una misura alternativa alla detenzione non è necessaria la confessione, avendo il condannato il diritto di non ammettere le proprie responsabilità». Misseri, insiste il suo avvocato, «ha sempre dimostrato rammarico e sofferenza per la sorte della piccola Sarah Scazzi che neppure conosceva e inoltre prova profondo risentimento nei confronti del fratello e non riesce a comprendere la ragione per la quale lo ha coinvolto in questa vicenda». Contemporaneamente alla preparazione del ricorso in Cassazione, l’avvocato Bullo presenterà istanza per consentire al suo assistito il pernottamento nel carcere di Taranto e non in quello di Lecce dove è rinchiuso. Questo gli eviterà anche di incontrare suo fratello Michele che nello stesso penitenziario sta scontando la pena ad otto anni per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove (il furto del telefonino di Sarah).

Caso Scazzi: 11 condanne per false dichiarazioni agli inquirenti: 4 anni a Michele Misseri, 5 anni a Ivano Russo. Il Corriere del Giorno il 21 Gennaio 2020. 4 anni di reclusione sono stati inflitti dalla dottoressa Loredana Galasso giudice monocratico del Tribunale di Taranto allo zio di Sarah Michele Misseri, già condannato nel processo “madre” in via definitiva a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere, il quale rispondeva di autocalunnia essendosi autoaccusato dell’omicidio di Sarah Scazzi. La dottoressa Loredana Galasso giudice monocratico del Tribunale di Taranto  ha emesso una sentenza di condanna di primo grado nei confronti di 11 imputati nel processo bis per i depistaggi sull’inchiesta per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Un delitto questo per il quale stanno scontando l’ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente la  zia e la cugina di Sarah Scazzi,   oltre alla condanna ad  1 anno e mezzo subita due mesi fa per aver diffamato il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la nota criminologa Roberta Bruzzone. Accolte pressochè integralmente le richieste di condanne della pubblica accusa, rappresentata dal pm Mariano Buccoliero della Procura di Taranto, che aveva richiesto 12 condanne. Assolta soltanto  Antonietta Genovino l’ex fidanzata di Claudio Russo. 4 anni di reclusione sono stati inflitti allo zio di Sarah Michele Misseri, già condannato nel processo “madre” in via definitiva a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere, il quale rispondeva di autocalunnia essendosi autoaccusato dell’omicidio di Sarah Scazzi. E’ questa la terza condanna per  Michele Misseri presente in aula al momento della lettura della sentenza, dopo quella definitiva della Corte di Cassazione a 8 anni , per l’accusa di aver gettato in fondo a un pozzo di contrada Mosca il corpo senza vita della nipotina. Ivano Russo il giovane di Avetrana che sarebbe stato conteso da Sarah Scazzi e sua cugina Sabrina Misseri (condannata con sentenza passata in giudicato all’ergastolo per l’omicidio con sua madre Cosima Serrano) , è stato condannato a 5 anni di reclusione, accusato di aver reso false dichiarazioni al Pubblico Ministero e per falsa testimonianza alla Corte d’Assise. Queste le altre condanne emesse dal giudice Galasso : 3 anni e 6 mesi di reclusione comminati a Dora Serrano che rispondeva del reato di calunnia nei confronti dei Carabinieri in quanto, secondo l’accusa, si sarebbe inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne,  la stessa pena per  Giuseppe Serrano per calunnia contro i Carabinieri,  e nei confronti dei fratelli di Concetta e Cosima (rispettivamente la madre e la  zia di Sarah Scazzi);  3 anni e 2 mesi invece per Giuseppe Augusto Olivieri; 3 anni di reclusione per falsa testimonianza ad Alessio Pisello  amico di Ivano e Sabrina , Anna Scredo la cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, l’ autore del “sogno” sul sequestro di Sarah,  Maurizio Misseri   nipote di Michele Misseri e per sua madre Anna Lucia Pichierri, e per Elena Baldari ;   2 anni e mezzo a Claudio Russo, fratello di Ivano Russo.

“Scazzi bis”, le motivazioni della sentenza. Annalisa Latartara su tarantobuonasera.it il 5 settembre 2020. La sentenza di primo grado del processo “Scazzi bis” censura pesantemente la condotta degli imputati condannati per falsa testimonianza, calunnia e autocalunnia. Dai protagonisti principali del caso di Avetrana, Ivano Russo e Michele Misseri ai familiari di entrambi, a figure marginali il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Loredana Galasso non concede alcuna attenuante agli un­dici condannati, accusandoli senza mezzi termini di aver tenuto un atteggiamento omertoso nel tentativo di depistare le indagini: “Non si può non tenere conto di questa triste e grave vicenda – si legge a pagina 130 – nel considerare la con­dotta degli imputati che in maniera sfrontata e senza ritegno alcuno, quasi fossero d’accordo fra di loro, hanno mentito spudoratamente prima dinanzi agli inquirenti, complicando e allungando le indagini, e poi dinanzi alla Corte d’Assise, preoccupandosi da una parte di aiutare i colpevoli ad uscire indenni dal processo e dall’altra parte, in maniera ancora più incredibile e dunque più riprovevole, per non essere coinvolti nella vicenda o meglio per non essere disturbati e/o infastiditi dalle dinamiche processuali. Tipico atteggiamento omertoso”. In 132 pagine il giudice spiega le motivazioni alla base delle con­danne inflitte il 21 gennaio scorso a Ivano Russo (5 anni), a Michele Misseri (4 anni), ai cognati Giuseppe Serrano, Salvatore Serrano (3 anni e mezzo) e Anna Lucia Pichierri (moglie di Carmine), al nipote Maurizio Misseri (3 anni), alla mamma di Ivano, Elena Balda­ri (3 anni) al fratello Claudio Russo (2 anni e mezzo), all’amico Carlo Alessio Pisello, al commerciante di Avetrana Giuseppe Olivieri (3 anni e 2 mesi), alla cognata del fioraio famoso per il “sogno”, Anna Scre­do (3 anni). Quest’ultimo e i fratelli Serrano sono stati condannati an­che a risarcire i danni a un cara­biniere impegnato nelle indagini che si è costituito parte civile. Le censure più pesanti del giudice ri­guardano il comportamento tenuto da Ivano Russo sia durante le inda­gini sia durante il dibattimento. Da testimone a imputato, il ragazzo conteso da Sarah e Sabrina è tor­nato, suo malgrado, protagonista della vicenda giudiziaria. Quasi la metà delle pagine delle motiva­zioni sono incentrate sulle dichia­razioni rese da Ivano nelle diverse fasi del procedimento, costellate di bugie secondo la ricostruzione del pm Mariano Buccoliero accolta in toto dalla sentenza. Anche per il giudice Galasso Ivano è “colpevole ogni ragionevole dubbio” perché “mentiva spudora­tamente” su diversi aspetti e circostanze, dal rapporto con Sabri­na, all’interesse di Sarah nei suoi confronti, ai dissapori fra le due cugine, ai litigi avvenuti, alla rico­struzione dei suoi spostamenti il 26 agosto 2010, giorno dell’omicidio di Sarah. Dichiarazioni ritenute non veri­tiere, reticenze, contraddizioni in dibattimento e nei verbali di sommarie informazioni, ma anche, nel processo bis, la deposizione della sua ex fidanzata Virginia Coppola, “teste fondamentale dell’accusa”, come la definisce lo stesso giudi­ce Galasso, sono gli elementi che hanno portato alla condanna più pesante nei confronti di Ivano. Il giovane, anche negli anni scorsi, in qualità di testimone, ha sempre avuto addosso la spada di Damocle dei sospetti degli inquirenti, di colui che sapeva più di quello che aveva raccontato. Il primo grado di giu­dizio ha presentato un conto molto salato a lui ma anche a tutti coloro che, secondo l’accusa, avrebbero raccontato bugie e nascosto fatti dei quali erano a conoscenza. Fra questi è compreso Michele Misseri anche se rispondeva di autocalun­nia. Considerando la conclusione del processo madre, con l’ergastolo per Sabrina e Cosima ritenute re­sponsabili di sequestro di persona e omicidio, difficilmente il processo “Scazzi bis” avrebbe potuto avere un verdetto diverso per lui che si è autoaccusato dell’assassinio della nipote nel tentativo di scagionare figlia e moglie. Per il giudice Galasso la sentenza della Corte d’Assise, diventata defi­nitiva il 21 febbraio 2017, “costitu­isce la prova inattaccabile” poiché, come spiega nelle motivazioni, ha sancito la colpevolezza di Michele solo per il reato di soppressione di cadavere e anche la non attendi­bilità delle sue dichiarazioni. Nel processo sull’omicidio della nipo­te, Michele dava prova “di essere una persona tutt’altro che credibile: forniva diverse versioni, tutte a loro modo fantasiose”. Fra le varie ver­sioni fornite e le successive ritratta­zioni, il giudice ricorda la prima in cui sosteneva di aver ucciso Sarah perché nervoso in quanto non par­tiva il trattore. In questi giorni i difensori di Michele Misseri, gli avvocati Ennio Blasi di Statte e Luca La Tanza e degli altri imputati condannati im­pugneranno il verdetto di primo grado e depositeranno i ricorsi in Corte d’appello. La vicenda giudiziaria dovrebbe considerarsi conclusa per Antonietta Genovino, amica di Claudio Russo, assolta poiché, si legge sempre nelle motivazioni, il verbale della sua audizione come persona informata sui fatti non è stato pro­dotto durante il processo. E’ stata l’unica assoluzione decretata dal giudice.

Sarah Scazzi, 11 condanne per aver mentito agli investigatori: 4 anni a Michele Misseri, 5 anni a Ivano Russo. La decisione del tribunale di Taranto nel processo bis sui depistaggi nell'inchiesta per l'omicidio della 15enne di Avetrana, uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. La Repubblica il 21 gennaio 2020. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Loredana Galasso ha condannato 11 imputati nel processo bis per depistaggi legato all'inchiesta sull'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Sono stati inflitti 4 anni di reclusione a Michele Misseri (lo zio di Sarah, condannato nel processo principale in via definitiva a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere) che rispondeva di autocalunnia perché si autoaccusò dell'omicidio di Sarah. La pena più alta - 5 anni di reclusione - è stata comminata, per le ipotesi di false informazioni al pm e falsa testimonianza alla Corte d'Assise, a Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato conteso da Sabrina Misseri (condannata con sentenza passata in giudicato all'ergastolo per l'omicidio con sua madre Cosima Serrano) e la cugina Sarah. Queste le altre condanne: tre anni e sei mesi di reclusione a Dora Serrano (rispondeva di calunnia contro i carabinieri in quanto, secondo l'accusa, si sarebbe inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne) e Giuseppe Serrano (anche calunnia contro i carabinieri), fratelli di Concetta e Cosima (mamma e zia di Sarah); tre anni di reclusione per falsa testimonianza ad Alessio Pisello (amico di Ivano e Sabrina), Anna Scredo (cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, autore del 'sogno' sul sequestro di Sarah) Maurizio Misseri (un nipote di Michele) e sua madre Anna Lucia Pichierri; tre anni e due mesi invece per Giuseppe Augusto Olivieri; 3 anni a Elena Baldari e 2 anni e mezzo a Claudio Russo, la mamma e il fratello di Ivano Russo. Assolta, invece, l'ex fidanzata di Russo, Antonietta Genovino.

Depistaggi e bugie, 4 anni a zio Michele e 5 a Ivano. Concluso il processo sui silenzi e le falsità sull'uccisione nel 2010 della giovane Sarah Scazzi. Il Giornale il 22/01/2020. Un intreccio di bugie, calunnie, accuse lanciate e poi ritirate. A quasi dieci anni di distanza dal delitto della giovanissima Sarah Scazzi arriva un lungo elenco di condanne per tutti coloro che tentarono di confondere le acque durante le indagini. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto, Loredana Galasso, ha finalmente chiuso il processo-bis sui falsi testimoni dell'omicidio della studentessa 15enne, strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Su 12 imputati sono arrivate 11 condanne. Accolte quindi in gran parte le richieste della pubblica accusa, rappresentata dal pm Mariano Buccoliero. Per l'assassinio erano già state condannate all'ergastolo in via definitiva Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina di Sarah. Le pene più alte sono andate a Ivano Russo e Michele Misseri, condannati rispettivamente a 5 e 4 anni di reclusione. Ivano Russo ritenuto «il pomo della discordia» nella contesa tra Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, avrebbe mentito sugli avvenimenti del giorno del delitto, il 26 agosto 2010. Accuse sostenute tra l'altro dalla sua ex fidanzata, Antonietta Genovino unica assolta, che aveva negato che Ivano fosse a casa nelle ore durante le quali Sarah fu uccisa. Per i giudici, la morte di Sarah Scazzi sarebbe da ricondurre proprio alla rivalità che intercorreva tra la 15enne e la cugina attorno alla figura di Ivano. A quel tempo infatti le due cugine frequentavano la stessa comitiva in cui vi era anche il ragazzo. Più lievi le pene per tutti gli altri imputati ovvero la madre di Ivano, Elena Baldari, il fratello Claudio e un amico di famiglia, Alessio Pisello. Condannati anche Dora Serrano, sorella di Cosima (ma anche di Concetta, la madre di Sarah), il fratello Giuseppe Serrano, Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo, la cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, e Giuseppe Augusto Olivieri. Tutti accusati di falsa testimonianza perché avevano sostenuto che Ivano il giorno dell'omicidio era rimasto a casa tutto il giorno. Nel processo principale era stato invece prosciolto dall'accusa di omicidio Michele Misseri, marito e padre delle due condannate. L'uomo si era autoaccusato ma gli inquirenti non avevano mai creduto alla sua versione ritenendolo responsabile solo dell'occultamento del corpo di Sarah, fatto sparire nel pozzo di un fondo agricolo di Avetrana. L'uomo è stato condannato a 8 anni.

Caso Scazzi, 11 condanne per le bugie al processo: 5 anni a Ivano Russo, 4 anni a Michele Misseri. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2020. Bugie, false testimonianze, autocalunnie: il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Loredana Galasso ha messo la parola fine al processo-bis sui falsi testimoni dell’omicidio di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010 condannando 11 dei 12 imputati e assolvendo una sola persona. Accolto quasi integralmente la richiesta della pubblica accusa, rappresentata dal pm Mariano Buccoliero che aveva chiesto 12 condanne. Le pene più alte sono andate a Mariano Russo e Michele Misseri, condannati rispettivamente a 5 e 4 anni di reclusione. Ivano Russo, l’amico conteso intorno al quale sarebbe nata una rivalità tra Sarah e sua cugina Sabrina (rivalità ritenuta uno dei moventi più forti alla base del delitto) è stato condannato per false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise. Secondo il pm, in aula fu reticente, mentì per coprire Sabrina, cercando di sminuire l’intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l’estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah e infine i contrasti fra le due cugine per il comune interesse sentimentale. Per Michele Misseri - presente al momento della sentenza in aula - si tratta della terza condanna, dopo quella definitiva a 8 anni per aver gettato in fondo a un pozzo di contrada Mosca il corpo senza vita della nipotina (delitto per quale stanno scontando l'ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah) e dopo quella a un anno e mezzo inflittagli due mesi fa per aver diffamato il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone. I 4 anni di oggi riguardano l'accusa di autocalunnia per essersi incolpato ingiustamente dell’omicidio nel tentativo di scagionare moglie e figlia. La sua versione, tuttavia, non è mai stata creduta dai magistrati. Tre anni di reclusione per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza, per la mamma di Ivano, Elena Baldari (il pm aveva chiesto due anni e quattro mesi), 2 anni e 6 mesi per il il fratello Claudio Russo. Assolta l’ex fidanzata Antonietta Genovino. Tutti erano accusati di aver mentito sostenendo che il 26 agosto 2010, giorno dell’omicidio, Ivano era rimasto a casa, a letto per tutto il pomeriggio. Menzogne e calunnie, per l’accusa, sono anche quelle di Dora Serrano, sorella di Concetta (mamma di Sarah) e Cosima, che per dipingere il cognato Michele come un mostro, in aula ha raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale dal contadino. Per lei e per Giuseppe Serrano, in tribunale ha inflitto una condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Tre anni di reclusione per falsa testimonianza, a Maurizio Misseri (nipote di Michele), Anna Lucia Pichierri (moglie di Carmine Misseri), Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno), 3 anni e 2 mesi per Giuseppe Augusto Olivieri.

SARAH SCAZZI.  Il fratello: “Ivano? Non penso ci stesse provando. Michele Misseri…” Dario D'Angelo. Pubblicazione: 25.01.2020 su Il Sussiadiario. Claudio, fratello di Saraha Scazzi, intervistato a Quarto Grado ha parlato delle condanne per depistaggio a Michele Misseri e Ivano Russo. Michele Misseri e Ivano Russo tra i condannati in primo grado nel processo bis per depistaggi ad Avetrana, il caso di cronaca nera che sconvolse l’Italia culminato con la morte di Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto del 2010 dalla cugina Sabrina Misseri e della zia Cosima Serrano. Per parlare delle ultime notizie sul caso è intervenuto nello studio di Quarto Grado, su Rete 4, Claudio Scazzi, fratello di Sarah. Interpellato da Gianluigi Nuzzi su come avesse trovato lo zio Michele, cambiato nell’aspetto (senza baffi e invecchiato) e forse anche nel proprio intimo, Claudio ha detto: “Lo trovo sicuramente provato, è noto che il carcere è difficile, è un’esperienza forte. Non conosco nessuno che dopo il carcere è stato meglio. Queste sono le prime immagini che vedo di Michele: sicuramente la sua adesso è un’immagine di sofferenza”. Claudio Scazzi ha parlato anche di Ivano, condannato a 5 anni e definito da Nuzzi come il “vero custode del segreto di Avetrana”: “Io penso che all’inizio questa vicenda sia stata sottovalutata. Io stesso quando sono stato chiamato in caserma a Legnano: mi sono state fatte delle domande, in quel momento hai anche paura di tirare in ballo delle persone, perché magari hai solo dell’impressioni. Se Ivano ha detto tutto? Sicuramente sì, ma evidentemente gli inquirenti quando ti facevano delle domande sapevano già la risposta.”. Ad Avetrana in ogni caso manca ancora il movente dell’omicidio, ma Cosima andrà a parlare oppure no? Secondo Claudio: “Ora non penso abbia intenzione. Chissà, in futuro, un ravvedimento…”. Il fratello di Sarah ha commentato anche le parole di Michele Misseri, che ha detto di pregare per Sarah: “Se mi dà fastidio? La religione è libera…Io ho provato a mettermi nei loro panni e non penso sia affatto facile convivere con questo peso”. Claudio Scazzi ha poi aggiunto: “Io stavo a Milano e vedevo mia sorella una volta all’anno, avevamo 10 anni di differenza, io mi informavo telefonicamente. Non penso che Ivano ci stesse provando. Io l’ho conosciuto quell’anno lì, prima non sapevo chi fosse. Da fratello maggiore mi sono interessato di chi frequentasse”.

Sabrina Misseri pazza di gelosia per il “Dio Ivano”: le chat piccanti alla base del movente del delitto di Sarah Scazzi. Michela Becciu il 25 Gennaio 2020 su Urban Post. Sarah Scazzi processo bis: si è concluso con un undici condanne e una sola assoluzione il primo grado, che ha visto tra i principali imputati Ivano Russo – condannato a 5 anni di reclusione per false informazioni al pm e falsa testimonianza – e Michele Misseri, al quale sono stati comminati 4 anni per autocalunnia. Quarto Grado nella puntata di venerdì 24 gennaio è tornato sul caso, approfondendo la figura di Russo, il cuoco rubacuori di Avetrana conteso tra le cugine Sabrina Misseri e la piccola Sarah Scazzi. Sarah uccisa per gelosia, secondo quanto dicono tre sentenze, dalla cugina che lei considerava una vera e propria sorella. Il tribunale di Taranto nell’ambito del processo bis ha dunque accolto e confermato il capo d’accusa formulato dalla Procura: non è vero che Russo dormiva nei minuti in cui Sarah veniva uccisa. Ivano, movente involontario del delitto, che da mesi si lasciava corteggiare da Sabrina, perdutamente attratta da lui, e con la quale scambiava messaggi piccanti ad alto contenuto erotico, davanti al pm e come teste al processo ha sempre detto di avere dormito in casa – mentendo sapendo di farlo, secondo i giudici – nella fascia oraria in cui la piccola Sarah veniva uccisa dalla cugina e dalla zia. Non sentì le numerose telefonate che dalle 14:30 gli venivano fatte nei momenti concitati successivi alla sparizione della 15enne, quando tutti la davano per dispersa, perché il suo cellulare era rimasto appoggiato al cruscotto dell’auto. Questa la sua versione dei fatti. I giudici però non hanno mai creduto al suo racconto, giudicato lacunoso, né tanto meno al fatto che Russo si fosse svegliato tra le 16:30 e le 17:00. A corroborare i sospetti dei giudici le dichiarazioni spontanee rese ai carabinieri, nel gennaio 2014 (quattro anni dopo l’omicidio Scazzi), dalla ex compagna di Ivano, Virgina Coppola, nonché madre di suo figlio, che riferì di aver saputo dall’allora fidanzata del fratello di Ivano che nel pomeriggio del delitto lui non dormiva, ma che addirittura prima delle 14 uscì di casa per comprare le cartine per le sigarette, per poi rientrare, palesemente agitato, alle 14:15. Virginia, venuta a conoscenza di ciò, all’epoca chiese spiegazioni al compagno il quale in preda all’ira le rispose: “Quelle due stavano litigando”. Perché il giovane non lo riferì agli inquirenti quando fu sentito a sommarie informazioni? Ivano sa dunque di più di quanto riferito a processo? Per i giudici del primo grado evidentemente sì. Russo è il custode del segreto di Avetrana che ad oggi ancora non si conosce? Ricordiamo infatti che il movente del delitto è stato sempre ipotizzato ma non provato con elementi inconfutabili. Secondo la ricostruzione processuale, Sabrina andò su tutte le furie e perse il controllo perché la cuginetta Sarah aveva reso di dominio pubblico in paese una sua confidenza, ovvero che in un momento di intimità Ivano la rifiutò. A ciò si aggiunga la forte gelosia nutrita dalla Misseri nei confronti della giovane Sarah, la cui bellezza stava appena sbocciando, oggetto di attenzioni ed effusioni da parte di Ivano, di cui entrambe erano invaghite. Russo ha sempre bollato come “false” e non casualmente tardive le accuse da parte della ex. Ivano è vittima di una maldicenza o davvero qualcosa andrebbe riscritto su quel drammatico pomeriggio estivo di dieci anni fa? Sarà il processo d’Appello a fare – si spera – maggiore chiarezza al riguardo.

La fidanzata di Russo: «Ivano mi ha detto tutto: gli credo». Tonio Tondo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Gennaio 2012. Di lei aveva parlato anche Dagospia, il sito del gossip nazionale. «Ivano Russo, uno dei principali testimoni del caso Sarah Scazzi si è innamorato... ». E «lei», Virginia Coppola, la fidanzata che da quel momento non ha mai mollato il giovane ventisettenne del quale Sabrina si era innamorata, per tutta la giornata ha coccolato Ivano, con sms e con le telefonate: «Non ti preoccupare, stai sereno, io sto qui con te». Virginia, assicuratrice e catechista, qualche anno più di Ivano, ha pregato anche Angela Cimino, chiusa nella stanza dei testimoni, di sostenere il suo fidanzato: Angela, per favore, fortifica Ivano, digli che deve stare tranquillo. Doveva essere la giornata del confronto ravvicinato tra Sabrina e Ivano. La difesa della cugina di Sarah era stata abile nel convincere la Corte a consentire a lei e alla madre Cosima di poter uscire dalla gabbia e stare vicino agli avvocati, a ridosso dei testimoni. Tutto era stato preparato perché Sabrina potesse guardare negli occhi Ivano: forse per sfidarlo, oppure per scongiurarlo con lo sguardo. Invece, alle 17.20 la sorpresa: il presidente della Corte, Cesarina Trunfio, dopo aver consultato procura e difesa, ha deciso il rinvio. Per Ivano tutto è slittato al 31 gennaio. Sabrina ha potuto lanciargli solo uno sguardo fugace, mentre il giovane, entrato nell’aula e vicino alla gabbia, ascoltava le parole della Trunfio. Virginia conosce un po’ tutte le persone che si sono occupate della morte di Sarah, dagli avvocati ai giornalisti. E sa destreggiarsi bene tra di loro. Dalla mattina è seduta tra il pubblico insieme alla sorella Antonella. «Da quando stiamo insieme Ivano non ha mai più rilasciato interviste» dice sicura. Nel circo dei media il giovane, che secondo la procura è stato al centro di un conflitto di passioni tra Sabrina e Sarah, tanto da essere considerato la causa scatenante di una rabbia omicida, ci era finito in pieno. Lei, Virginia, è apparsa nel momento cruciale. «Io ho provato subito un sentimento profondo - rivela -, ma prima di decidere di stare con lui, l’ho messo sotto: gli ho chiesto tutto, di Sabrina, di Sarah, gli ho chiesto di essere sincero e la verità anche sui piccoli dettagli». Ivano ha rischiato grosso. Si era sparsa la voce di un suo possibile arresto, di risposte contraddittorie alle domande degli inquirenti, di lacune irrisolte. Poi pian piano ha acquistato credibilità. «Tradito», «deluso», «preso in giro» da Sabrina, erano le frasi ricorrenti sulla sua bocca. «Io Sarah l’ho cercata dal primo giorno - sottolinea Virginia -; insieme ai volontari ho setacciato la campagna, sono andata anche in contrada Mosca, ho visto il casolare, l’albero di fico, ma il pozzo non l’ho visto, era difficile scovarlo. Per Sarah abbiamo pianto e piangiamo ancora adesso, per questo a Ivano ho detto: tu devi dirmi tutto quello che sai, per me la legge viene prima di tutto». Virginia è un tipo che sa affrontare gli ostacoli. Si dice che sia lei a dettare la linea. E la linea è: «Dalla parte di Sarah», se è stata Sabrina a ucciderla, è bene che resti in carcere e che paghi, senza sconti. La vive come una sorta di missione, un impegno che si sente di dover portare avanti, fino in fondo; e se la sorte ha voluto che Ivano si rifugiasse tra le sue braccia, un motivo ci deve pur essere. Stefania De Luca, prima, e Angela Cimino poi, hanno aperto la danza dei testimoni. Virginia le ha seguite parola per parola, senza perdersi neanche un passaggio. Stefania ha raccontato nuovamente la tristezza di Sarah al pub la sera del 25 agosto 2010, la reazione di Sabrina dopo un litigio con Ivano («E’ finita, è finita, non ci stiamo più parlando... »). E poi i colloqui con la stessa Sabrina, ora evasivi ora misteriosi. Soprattutto, quando le testimonianze mettono a fuoco i rapporti tra Sabrina e Ivano, tra Ivano e le altre amiche, inclusa la stessa Angela, Virginia si fa più attenta, cerca di percepire fatti nuovi, piccoli elementi in grado di gettare nuova luce sulla catena dei fatti. Amori che muoiono, amori che nascono, innamoramenti veri o fasulli, parole che sembrano aprire storie di sesso e che si stemperano nel pudore: è u n’altra storia rispetto al processo, in disparte rispetto ai richiami del giudizio, ma inevitabile e rivelatrice per inquadrare i personaggi che affollano l’aula.

Avetrana bis, tutte le bugie del "dio Ivano" sull’omicidio di Sarah Scazzi. Ivano Russo ha mentito ai pm e depistato le indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne con cui aveva ingaggiato un tenero scambio di sms. Secondo la sentenza del processo bis per il delitto di Avetrana, il ‘dio Ivano’ come lo chiamava Sabrina Misseri, avrebbe visto Sabrina e Cosima litigare circa 30 minuti prima del delitto. Ivano, forse è stato l’ultima persona a vedere in vita Sarah prima che fosse assassinata. Angela Marino su Fan page il 27 gennaio 2020. Ivano Russo ha mentito ai giudici per dieci anni sul suo vero ruolo nel delitto di Avetrana. Ivano, secondo la sentenza che lo ha condannato a cinque anni di carcere per falsa testimonianza e depistaggio, avrebbe incontrato Sabrina Misseri e la cugina, Sarah Scazzi, 20 -30 minuti prima del delitto. È la verità che emerge dal secondo troncone del processo di Avetrana, ovvero il ‘processo ai silenzi' come lo ha chiamato la Procura. Quelli di Ivano, ma anche quelli della madre del cuoco e di suo fratello che si sono resi complici, entrambi, sempre secondo la sentenza, della falsa ricostruzione fornita dal Russo ai pm, su quanto accadde quel 26 agosto 2010, quando la quindicenne con cui aveva ingaggiato un tenero scambio di sms, veniva strozzata con una corda dalla zia e dalla cugina, la sua seconda famiglia, nella villetta di via Deledda.

Quel pettegolezzo di paese: Sabrina rifiutata da Ivano. Il "dio Ivano" infatti, come lo chiamava l'innamoratissima Sabrina, quel giorno sarebbe uscito intorno alle 13 e 50 per andare a comprare le cartine per le sigarette e sarebbe rientrato alle 14 e 15, turbato, dopo aver incontrato le due ragazze che discutevano. Litigavano per lui, o meglio per quel pettegolezzo messo in giro da Sarah sul suo conto, quello secondo il quale Ivano avrebbe rifiutato Sabrina dopo che lei si era già spogliata per consumare un rapporto sessuale, quello che aveva esposto Sabrina al pubblico ludibrio del paese. Ivano, sempre secondo la ricostruzione del ‘processo ai silenzi', avrebbe taciuto di aver visto le due ragazze e avrebbe anche volutamente scelto di non rispondere alle chiamate al cellulare quello stesso pomeriggio, quando la scomparsa della ragazzina fece il giro delle case e dei telefoni del paese.

Le menzogne dette da Ivano Russo per dieci anni. "Ero a casa a dormire", "non ho sentito il telefono", "quel giorno non ho visto Sarah" disse Ivano Russo agli inquirenti dieci anni fa, prima che le condanne cristallizzassero quanto accaduto quel giorno. Poi nel 2014, dalle confidenze dell'ex di Ivano alla ex cognata, allora fidanzata del fratello di Ivano, è nato il nuovo filone di indagine. A ‘inchiodare' l'ex cuoco di Avetrana, nel nuovo processo è stata la testimonianza di Virginia Coppola, ex e madre di suo figlio. "Questa persona è stata diversi anni al mio fianco – ha detto Ivano della supertestimone – poteva farlo prima perché l'ha fatto nel momento in cui ci sono state delle denunce riguardo a nostro figlio? Qualcuno avrebbe dovuto drizzare le antenne sulla tempistica e dire: c'è qualcosa che non va". Per Ivano Russo, il "dio Ivano" come soleva chiamarlo l'amica Sabrina Misseri, la testimonianza che lo ha incastrato facendolo condannare a cinque anni di carcere, sarebbe solo la vendetta di un'ex. Coppola, invece, è stata ritenuta credibile così come l'allora compagna del fratello di Ivano, finita anche lei sotto accusa e poi assolta. A mentire in questa tremenda storia sono stati gli uomini, dunque, Ivano Russo e Michele Misseri, che con il secondo troncone processuale si è visto comminare una seconda condanna oltre a quella per occultamento di cadavere (otto anni). Colui che per la parte civile è stato solo il ‘becchino' di Sarah, il macabro autista del suo ultimo viaggio dalla casa di via Deledda al pozzo nero dove poi è stato ritrovato il cadavere. Misseri, lo zio, ha mentito, continua a mentire nelle ormai numerose lettere che scrive ai giornali per ribadire l'ennesima una volta che le sue donne, Cosima Serrano (detta Mimina) e la figlia, Sabrina, sono innocenti. Lettere che non fanno neanche più notizia.

Ivano, zio Michele e gli altri: tutti i bugiardi di Avetrana. Misseri, che si trova in carcere dal 2017, quando la prima condanna è diventata definitiva, ha voluto essere presente alla lettura del dispositivo per il processo bis, uscendo per la prima dalle mura del penitenziario di Taranto. Completamente calvo, appesantito, con il bavero della giacca alzato sul collo si è presentato in aula per la prima volta dopo tre anni.  Si è alzato in piedi alla lettura della sentenza mentre Ivano, invece, ha preferito attendere il verdetto a casa, dove è stato avvertito della condanna da una giornalista di “Quarto Grado”. Insieme a loro altre dieci persone sono state condannate per aver mentito e taciuto sui fatti. Dieci abitanti di quello sparuto paesino in provincia di Taranto, seimila anime appena (compreso il fioraio che disse di aver ‘sognato' di aver visto Sabrina e Sarah litigare), hanno sviato le indagini sulla morte di una ragazzina di quindici anni, alzando la nebbia nella quale si sono fatti strada negli ultimi sei anni giudici e avvocati.

Michele Misseri scrive dal carcere: “L’unico colpevole sono io”. Giovanna Tedde il 23 gennaio 2020 su thesocialpost.it. A margine della condanna a 4 anni di carcere nel processo bis sui depistaggi nel caso Sarah Scazzi (che si somma a quella a 8 anni in via definitiva per occultamento del cadavere della 15enne), Michele Misseri torna ad autoaccusarsi del delitto con una lettera indirizzata a Barbara d’Urso. Lo zio della vittima, ritenuto responsabile del reato di autocalunnia nel procedimento-satellite appena concluso (in cui sono state condannate altre 10 persone, tra cui Ivano Russo), continua ad attribuirsi l’esecuzione materiale dell’omicidio. All’ergastolo, condannate in via definitiva, la moglie Cosima Serrano e la figlia, Sabrina Misseri. Fresco di una nuova condanna, dopo quella definitiva a 8 anni per occultamento di cadavere, Michele Misseri torna a parlare dal carcere, ancora una volta per autoaccusarsi dell’omicidio della nipote 15enne, Sarah Scazzi, il cui corpo fu fatto ritrovare dallo stesso nell’agosto 2010. Una lettera, indirizzata a Barbara d’Urso, per ribadire quanto lo ha condotto alla sentenza con cui il Tribunale di Taranto, nella giornata del 21 gennaio scorso, gli ha inflitto una pena di 4 anni di reclusione per autocalunnia: “Sono io il colpevole“. “Penso sempre alla mia famiglia, non ho mai smesso di scrivere a Sabrina e Cosima, ma non ho mai ricevuto risposta“, ha sottolineato il detenuto – attualmente recluso a Lecce – per poi aggiungere che “loro mi vogliono punire perché sono in carcere da innocenti“. Secondo zio Michele, i 3 gradi di giudizio conclusi con l’ergastolo a carico di moglie e figlia sarebbero un clamoroso errore giudiziario: “Nessuno mi vuole credere. Loro (Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ndr) sono innocenti.

L’unico vero colpevole sono io“. Michele Misseri sostiene di star bene e di aver concluso un anno di scuola in costanza di detenzione, ma nella sua testa albergherebbe il chiodo fisso di aver mandato dietro le sbarre, a suo dire, due persone estranee al delitto. “Ho strangolato io la bambina“, aveva detto dopo un tira e molla di versioni contrastanti che ne hanno minato la credibilità. Parole schiacciate dall’esito giudiziario che ha consegnato i nomi delle due donne di casa Misseri alla cornice di responsabili del delitto di Avetrana.

Burattini e Burattinai: condannati zio Michele ed Ivano Russo. Anna Vagli su lagazzettadilucca.it giovedì, 23 gennaio 2020. Venghino signori venghino! Sono tornati al centro della scena gli uomini di Avetrana. Il primo, zio Michele, che di professione fa lo zio, è stato condannato per autocalunnia a 4 anni di reclusione. Eh già, lo zio nazionale continua a scontare le bugie raccontate nel processo per la morte della nipote Sarah Scazzi. Preso di mira anche dall’opinione pubblica, per tutelare le donne di casa, si era addossato la colpa della morte della nipote azionando un vero e proprio circolo di confessioni e ritrattazioni che gli hanno fatto incassare la terza condanna. Un uomo dei campi Michele, abituato a dormire su una sdraio per non scomodare le matrone di casa, Cosima e Sabrina. Quelle stesse donne che per salvare la loro posizione lo hanno esposto alla gogna mediatica dimostrando all’Italia intera come lui, in quella casa, era considerato niente di più che l’ultima ruota del trattore. Zio Michele continua a non trovare pace nemmeno dopo la condanna per autocalunnia intervenuta e continua a proclamarsi l’unico vero colpevole della morte di Sarah Scazzi. E lo fa accollandosi tutte le responsabilità anche sfruttando la scia mediatica. Difatti, è notizia di ieri, come lo zio di Avetrana abbia scritto una lettera a Barbara D’urso, nella quale descrive tutto il proprio struggimento non soltanto perché moglie e figlia non vogliono più saperne di lui ma anche perché le due donne starebbero scontando una pena che non dovrebbero scontare. Insomma lo zio dei mis(t)eri non riesce a trovare pace neppure dopo aver incalzato la terza condanna nel processo bis per la morte della nipote Sarah. Michele Misseri non è però il solo ad essere nuovamente al centro della scena processuale e mediatica. Già, qualche giorno fa insieme a lui è stato giudicato colpevole anche Ivano Russo per false dichiarazioni al Pm. Ivano, il bello di Avetrana, colui che aveva fatto perdere la testa a tutte le donne di Paese. Il Russo, considerato nel primo troncone processuale l’ago della bilancia dell’intera vicenda, teneva sotto scacco Sabrina Misseri. L’aveva soggiogata al punto di farsi inviare niente meno che 4500 messaggi al giorno. Insomma, la cozza Sabrina (come lei stessa si definiva) le aveva tentate proprio tutte per cercare di meritarsi un briciolo di attenzione dal “Dio Ivano”, come era solita chiamarlo lei. La condanna inflitta al Russo nel processo bis è pesante: 5 anni per aver mentito agli inquirenti circa gli eventi occorsi il giorno in cui la quindicenne scomparve. Ivano, dicono i giudici, ha mentito per coprire la pseudo-relazione che lo legava a Sabrina. Secondo i primi giudici, infatti, la furia omicida di quest’ultima era stata scaturita dai racconti di Sarah circa la loro ultima “notte interrotta”. Sarah aveva infatti esposto la cugina al pettegolezzo di borgata raccontando, in giro, di come – proprio qualche sera prima dell’omicidio – Ivano avesse respinto Sabrina, nonostante questa si fosse già spogliata per consumare un rapporto sessuale. Insomma, le dicerie paesane unitamente all’umiliazione dell’ennesimo rifiuto da parte del Russo, avevano amplificato l’invidia che Sabrina nutriva nei confronti di Sarah. Quell’invidia che poi l’ha determinata nel senso di ucciderla. Il processo bis si è concluso con un totale di undici condanne. Verrebbe da dire che quasi tutto il Paese è chiamato a scontare la morte di Sarah. Graziosa, leggiadra e magra al punto di diventare un’ossessione per la cugina Sabrina.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Bossetti è innocente?

Anticipazione stampa da OGGI il 16 dicembre 2020. «Abbiamo promosso un’azione penale, inoltrata alla Procura generale di Brescia, nei confronti del Tribunale di Bergamo, per denunciare una ipotesi di reato di una gravità inaudita. Abbiamo scoperto che dopo aver sequestrato il Dna, l’hanno lasciato deteriorare. È il reperto più importante per il quale da anni chiediamo una superperizia». Così i difensori di Massimo Bossetti al settimanale OGGI. Nell’articolo pubblicato nell’edizione in edicola da domani. Si parla di 54 campioni di Dna di Ignoto 1 contenuti in altrettante provette a lungo custodite nei congelatori del San Raffaele di Milano. «Un anno fa questo materiale era stato consegnato dall’Istituto San Raffaele al Tribunale debitamente congelato mentre oggi, per mancanza di frigoriferi, viene conservato a temperatura ambiente», precisa l’avvocato Claudio Salvagni.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 26 novembre 2020. Yara è il film più atteso. Prodotto da Pietro Valsecchi, si vedrà su Netflix. Il regista è Marco Tullio Giordana, che ne parla per la prima volta.

Il film è la ricostruzione dell' omicidio?

«Più che la ricostruzione, è l' indagine che ha portato a trovare prima il profilo genetico dell' assassino, chiamato Ignoto 1, e poi l' inchiesta a tappeto con l' individuazione di Massimo Bossetti».

Una procedura scientifica irripetibile...

«Irripetibile anche per i costi, ma giustificata dall' interesse dell' opinione pubblica, interesse che fu cavalcato politicamente. Quando non si sapeva chi fosse si scatenò la caccia allo straniero».

Lei cosa doveva evitare?

«Il voyeurismo, implicito nei casi giudiziari, e il sensazionalismo per appagare questa specie di rito».

Che approccio ha avuto?

«Incontro i protagonisti della vicenda senza dover cambiare marciapiede per la vergogna. Io racconto quello che è agli atti, ho letto tutte le carte, non giudico».

I familiari di Yara...

«Non li ho visti, non voglio star lì a rievocare un dolore e una sofferenza che non finiscono mai. È la ricostruzione di un edificio tale e quale, è un falso fedele. I genitori di Yara sono Sandra Toffolatti e Mario Pirrello. Alessio Boni e Thomas Trabacchi sono un colonnello e un maresciallo dei carabinieri di finzione che riassumono tanti ruoli».

Perché è un caso unico?

«Trovarla tre mesi dopo fece toccare con mano l'orrore del delitto. Era agonizzante, morì di freddo. Una ragazza che esce dal centro sportivo, a 700 metri da casa, fa pensare che i figli non puoi proteggerli, sono così a rischio in un brevissimo lasso di tempo».

Come ha protetto Chiara Bono, che la impersona?

«Mi sono preoccupato che non fosse scossa, sono ruoli che spaventano. Ha talento, solarità, innocenza, voglia di vivere... Sono le caratteristiche che aveva Yara».

La Pm Letizia Ruggeri?

«Di Isabella Ragonese apprezzo che coraggiosamente non abbia voluto fare la simpatica. Un personaggio contropelo, all'inizio sola contro tutti. Fa di testa sua, brusca, impaziente, va in giro in moto, si allena alla boxe. All'epoca sua figlia aveva 8 anni, era più piccola di Yara. Il film è l'ossessione del pm che vuole acciuffare il colpevole».

E Bossetti, l'«orco»?

«L'orco è irrappresentabile come tale, a meno di non volerne fare una favola. Siccome solo Dio sa cos' è successo veramente, ho chiesto all' attore, Roberto Zibetti, ambiguità».

Avete girato nei luoghi reali della vicenda?

«Non era possibile quando si è aperto il set si minacciava il ritorno della pandemia. Abbiamo girato a Sud di Roma, Fiano Romano e Monterotondo, dove tra l'altro abbiamo ritrovato un' architettura simile a quella della Bergamasca».

I crimini possono raccontare un paese, seguono l'evoluzione di una società?

«Non ci ho mai pensato, ma d'istinto credo di sì. Oggi siamo ai delitti contro la proprietà morale, penso ai femminicidi, parola che non mi piace. Nel caso di Yara, l'unica spiegazione della ferocia è il mancato possesso. Non ci fu violenza. È un delitto di rabbia, per questo fu abbandonata in un campo, senza nemmeno dare il colpo di grazia».

Anticipazione stampa di OGGI il 30 settembre 2020. «Presto cambierò cognome, dopo quello che è successo è straziante portarlo, un macigno», annuncia Laura Bossetti, la sorella gemella di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, in un’intervista da domani in edicola sul settimanale OGGI, che giovedì verrà anche trasmessa su Telelombardia nella trasmissione «Iceberg». E racconta che da tre anni non vede più il fratello, che le nega il permesso di fargli visita in carcere: «Gli ho chiesto scusa per aver detto in passato che papà e mamma sono morti di dispiacere per il dolore di avere un figlio in carcere. Ho sbagliato, comunque è la verità», spiega Laura Bossetti. «Ora Massimo ha sua moglie Marita e sta bene così. Io gli auguro tutto il bene possibile. È stata una tragedia e solo chi è dentro sa cosa si prova e cosa si passa. Ho raggiunto la mia tranquillità ed è per questo che ho deciso di lasciarmi il passato alle spalle e cambiare cognome».

Il delitto Gambirasio. Caso Yara, la sorella di Massimo Bossetti cambia cognome dopo la gogna mediatica: “Vita impossibile”. Redazione su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. La gogna pubblica e l’esposizione mediatica alla fine l’hanno spinta a cambiare cognome. È la decisione clamorosa presa da Laura Letizia Bossetti, sorella gemella di quel Massimo Bossetti condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio il 26 novembre del 2010. La pratica è stata istruita dall’avvocato Benedetto Maria Bonomo e dovrà essere presentata in prefettura, come precisa il Corriere della Sera. “Questa scelta non va assolutamente letta come convinzione che il fratello Massimo sia colpevole per i fatti che gli sono stati contestati — commenta l’avvocato —. Su questo punto Laura Letizia Bossetti e tutti i suoi familiari mantengono il parere che hanno sempre avuto ed espresso pubblicamente: non ritengono possibile che Massimo Bossetti abbia fatto ciò di cui è stato accusato”. Una scelta quindi no per ‘scaricare’ il fratello, ma che dipende “in via esclusiva dalla situazione mediatica, che rende davvero difficile la vita della mia assistita. In molte situazioni, anche solo per il cognome, si viene identificati ed etichettati in un certo modo, e ci si ritrova costretti a rispondere a molte domande, con stress ulteriore rispetto alla vicenda processuale”. Laura Letizia ha sempre difeso il fratello Massimo dopo l’arresto avvenuto nel giugno 2014, anche con molteplici interviste in tv e sulla carta stampata, in quello che rapidamente è diventato un processo mediatico.

Anticipazione stampa da “OGGI” il 14 ottobre 2020. In una lettera a Marco Oliva, conduttore della trasmissione Iceberg di Telelombardia, che OGGI rende nota nel numero in edicola domani, Massimo Bossetti replica alla sorella Laura, che vuole cambiare cognome perché le pesa «come un macigno». È stato «un gesto pianificato e violento che merita indifferenza, in questo modo si è esclusa dalla famiglia Bossetti», scrive il muratore di Mapello condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, di cui continua a professarsi innocente. «Non credo», prosegue Bossetti, «di dover sperperare ai quattro venti come quella persona è abituata (a diffondere, ndr) le cose private e familiari solo per mettere in risalto la propria visibilità e notorietà. Quella persona ha preferito voler soffocare l’affetto, sostituendo il proprio cognome, cosa che non condivido affatto, per niente… Avendo lei stessa affermato più volte di volermi bene e di credere nell’assoluta mia innocenza, a maggior ragione, avrebbe dovuto ancor più lottare con le unghie a denti stretti e a spada tratta, con tutta la forza necessaria, tenendo ancor più alto e vivo il proprio cognome che tanto ci accomuna». E conclude con un appello: «Aiutatemi aiutatemi aiutatemi, sono disperato. Toglietemi di dosso sta cazzo di devastante etichetta o dentro di me non troverò la pace. Per favore statemi tutti vicini e aiutatemi seriamente a far sì che la disperazione non prenda il sopravvento».

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 2 agosto 2020. Il predatore prende ciò che desidera. Non è un uomo dal volto inquietante, occhi neri pesti di odio, arcigna fronte smisurata, come quegli assassini de "Atlante Criminale" di Cesare Lombroso. E' incensurato, iride azzurra incastonata in una pelle dai pigmenti chiarissimi sempre ultra abbronzata, un muratore bergamasco che lavora sodo. E' soprannominato "il favola", per la marea di balle che rifila a chiunque, con il cinismo di attribuirsi persino un tumore al cervello inesistente pur di saltare il lavoro, ma questo si scoprirà solo dopo, quando tutto è già finito. Il predatore il 26 novembre 2010 lascia Yara Gambirasio - 13 anni, studentessa della 3C dalle Orsoline, una passione per Laura Pausini, cuore rossonero, ambizioni da ginnasta -, nel campo incolto di Chignolo d' Isola, alle porte di Bergamo. Non è riuscito a lasciarla in vita, né a farla salvare ma nemmeno a ucciderla, nessun fendente risulterà mortale. Mai si saprà se ha abusato di lei, prima di voltarle le spalle, abbandonandola all' agonia tra lesioni e una crescente ipotermia. Dopo l' omicidio, ha parcheggiato il furgone Daily Iveco dell' imboscata sotto casa, è rientrato felpato nella tana, senza ricordare perché era rincasato più tardi del solito. «Ti amo Marita, ti amo», dice guardando la moglie che gli ha messo al mondo tre cuccioli per trovarsi ora devastata a ogni risveglio, schiacciata dall' impresentabile nome e cognome del marito: Massimo Bossetti, il predatore di Yara. Il predatore prende ciò che vede. E Yara gli passava davanti per strada nell' ingenua acerbità di un' adolescenza come tante, quando andava da sola dal dentista per l' apparecchio, a due isolati da "Oltre Oceano", il negozio di lampade abbronzanti a Brembate, frequentato ogni settimana dal suo imminente aguzzino. Per questo, dopo le manette, Bossetti ha negato goffamente la debolezza dell' abbronzatura agli inquirenti. In quell' incrocio di marciapiedi dev' esserci stato uno sguardo di troppo. Già, perché il predatore millanta a se stesso, si convince di essere desiderato ancor più di quanto si piaccia, deforma ogni interazione con l' altro. I due devono aver anche dialogo quando ha fatto salire Yara sul furgone in piena sera, mica Bossetti l' ha portata nella prima strada buia, facendo valere subito la sua predominanza fisica. Per lunghissimi minuti e chilometri e chilometri i due sono stati insieme. Lui al volante, lei a fianco. E parlavano, chissà di cosa. Non sappiamo com' era Yara, come si era sviluppata. Per noi tutti era e resterà sempre una bambina, aveva solo 13 anni, ancora doveva schiudersi al mondo. Anche se nessuna foto mostrata in tv era recente. Non sappiamo quanto si fosse sviluppata e questo sarebbe un elemento fastidioso, urticante certo ma importante per attribuire un movente a questo omicidio senza tormentarsi su quei dettagli bislacchi come il reggiseno trovato interamente slacciato, spostato verso l' alto, non tagliato. Una scena che farebbe immaginare delle avance sessuali respinte come movente di questo omicidio. Il predatore per anni contava di farla franca. Non temeva l' inchiesta. Nemmeno quando venne ritrovato il corpo, o meglio quello che ne rimaneva il 26 febbraio del 2011 con le sterpaglie afferrate nella mano destra trovata chiusa a pugno, che davano la misura della sofferenza patita. Sugli slip era stato individuato una traccia di dna da attribuire a un "Ignoto 1", da identificare. E così erano state censite migliaia e migliaia di persone. Una mappatura genetica di un pezzo d' Italia grazie a un brandello di verità afferrato quasi per caso, che porterà dritto al binario genetico dei parenti del predatore. Ma lui era convinto nella sua sicumera, mai sarebbero arrivati a lui. Non c' era alcun collegamento con quella ragazzina. Nessun contatto, nessuna telefonata, nessun conoscente comune, niente di niente. Del resto, il mondo di Yara era ancora disabitato: dieci persone in rubrica, nemmeno era iscritta ai social, una normalità svuotata in poche ore senza indizi dagli inquirenti. Invece la mappatura ha portato alle manette lì in cantiere sul ponteggio, a quasi quattro anni dalla notte assassina. Il predatore è stato braccato con la parola ergastolo ripetuta in ogni grado di giudizio fino alla Cassazione, il 18 ottobre 2018. Per santificare il decimo anniversario della scomparsa, il predatore sogna di porgere in memoria di Yara un macabro dono: l' annuncio della revisione del processo per ribaltare la condanna definitiva all' ergastolo e brindare alla riconquistata innocenza. Per centrare l' obiettivo il pool di difensori è raddoppiato e al lavoro dall' autunno scorso. A quelli tradizionali si è aggiunto un team selezionato da Marita, una compagnia di giro formata addirittura da 11 esperti. Spicca Carlo Infanti, professione regista. Hanno preso un indumento con tracce di dna (saliva, sangue e sperma), lasciandolo in un campo simile a quello dove è stata trovata Yara per capire se le tracce possano rimanervi per tre mesi senza degradarsi. Il risultato non è stato diffuso ufficialmente, ma sembra che il dna sia sparito. «Non significa niente - replicano dal tribunale - ogni caso fa storia a se». Alla trasmissione Quartogrado Marita aveva anche scritto di voler far analizzare cellulare, sim e computer dissequestrati al marito, così come il furgone, per delle comparazioni con quello che passava e ripassava in via Caduti dell' aviazione, fuori dalla palestra dove si allenava la giovane proprio il giorno della scomparsa. Tutto con eco mediatico, come quando il 6 novembre scorso il pacco dei reperti informatici venne consegnato non in gran segreto in un super laboratorio per chissà quali nuovi analisi, ma alla sede di Telelombardia con abile scoop di Marco Oliva. Gli avvocati storici di Bossetti puntano invece ai 98 reperti custoditi al primo piano del tribunale di Bergamo, quelli che comprendono i vestiti di Yara (pantaloni, scarpe da ginnastica, slip, reggiseno, felpa di colore nero), provette contenenti 54 campioni di dna ritrovati sugli slip e i leggins della ragazzina, fino alle fibre rinvenute sugli indumenti di Yara compatibili con quelle del tessuto dei sedili del furgone. Per la difesa, bisogna rianalizzarli per spiegare alcune presunte anomalie del processo a partire dalla famosa prova regina, il dna dell' assassino isolato sugli slip di Yara che avrebbe la componente nucleare di Bossetti ma non quella mitocondriale. In inverno su questi reperti si consuma una battaglia con il pubblico ministero Letizia Ruggeri, da una parte, Bossetti e i suoi avvocati dall' altra e in mezzo il presidente della corte d' Assiste Giovanni Petillo. Che alla fine confisca tutto e vieta anche una sommaria visione ai difensori dell' assassino. Così come il tribunale e la corte d' Assise, che bocciano altre istanze fino a qualche giorno fa, e con gli avvocati che dopo l' ennesima bocciatura decidono di fare ricorso in cassazione, di denunciare il Ris di Parma per "rifiuto di atti d' ufficio" e chiedere al guardasigilli Alfonso Bonafede l' intervento degli ispettori ministeriali. A dir loro, all' appello mancano 9.488 profili genetici analizzati: proprio qui ci sarebbe la chiave d' accesso alla revisione. Comparando i 9mila dna potrebbero dimostrare che Ignoto 1 non è Bossetti. Ora la Cassazione darà la risposta e da questa si capirà se il decimo anniversario della scomparsa sarà ricordato per la riapertura del processo o se il predatore all' ergastolo potrà cacciare solo se stesso.

Anticipazione stampa da OGGI il 15 luglio 2020. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, annuncia le nuove mosse della difesa di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per la morte di Yara Gambirasio: un ricorso in Cassazione, una denuncia penale per «rifiuto di atti d’ufficio» nei confronti del Ris di Parma e un’istanza al ministro di Grazia e Giustizia, Alfonso Bonafede, perché disponga una ispezione nel tribunale di Bergamo. Il ricorso in Cassazione è per sbloccare il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione, Giovanni Petillo, il 15 gennaio scorso ha messo sotto confisca i reperti dell’inchiesta sull’omicidio di Yara. La denuncia del Ris di Parma e del suo comandante, il colonnello Giampietro Lago è perché, malgrado l’autorizzazione firmata a fine novembre 2019 dal giudice Petillo, hanno «rifiutato, confermando peraltro l’atteggiamento ostile serbato durante l’intero procedimento/processo, il rilascio di quanto richiesto ed autorizzato dall’Autorità giudiziaria».

«Chi ha paura di riaprire il caso Bossetti?» I legali chiedono le analisi sui reperti: “Qualcuno sa di aver sbagliato e non vuole ammettere l’errore”. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 giugno 2020. Perché non si concede alla difesa di Massimo Bossetti la possibilità di effettuare per la prima volta le analisi sui reperti? L’uomo è stato condannato all’ergastolo in via definitiva per la morte di Yara Gambirasio. Ma la legge consente di rivedere i provvedimenti, anche se irrevocabili, in presenza di nuove evidenze. Bossetti dal carcere di Bollate continua a professarsi innocente. E a sostenerlo ci sono i suoi difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini che non smettono di criticare lo svolgimento del processo, caratterizzato da una formazione della prova al di fuori di ogni contraddittorio, in violazione dell’articolo 111 Cost. e di tutte le norme processuali ad esso ispirate: «Durante tutti i processi – ci dice Salvagni – non abbiamo mai neppure potuto vedere questi reperti, il nostro è stato un forzato atto di fede verso il lavoro degli inquirenti. Non è accettabile che la difesa non veda e non analizzi quella che viene dichiarata essere per tutti la prova regina. Si tratta a nostro parere di una violazione del diritto di difesa». E Camporini aggiunge: «I genetisti che abbiamo consultato ci hanno detto che a dieci anni dagli eventi le tecniche di analisi si sono evolute e noi crediamo che analizzando oggi quei reperti potremmo avere quelle risposte alle numerose anomalie accertate che le stesse sentenze hanno ammesso di non essere riuscite a dare, si pensi ad esempio al dato escludente del dna mitocondriale». In vista di una possibile revisione del processo, i due legali il 26 novembre 2019 hanno presentato una istanza alla Corte di Assise di Bergamo per avere accesso ai reperti. Riportiamo una cronologia dei fatti alquanto strana ed ondivaga. Il 27 novembre il giudice ha accolto la richiesta con un provvedimento sintetico, prosegue Salvagni: «” Visto, si autorizza tutto”; nessuno impugna e la decisione si stabilizza. Il 2 dicembre il presidente della Corte indirizza all’Ufficio Corpi di Reato un provvedimento in cui dichiara che l’autorizzazione concessa deve riferirsi alla ricognizione dei reperti, ossia alla mera osservazione». Il 9 dicembre i due legali avanzano un’altra istanza in cui chiedono in che modalità sarà concesso loro di effettuare l’osservazione dei reperti. Il 15 gennaio 2020 la Corte, a seguito di una richiesta del Pm, con cui chiedeva che fine faranno quei reperti, dispone la confisca degli stessi e la loro conservazione. Gli avvocati a quel punto hanno accesso all’elenco delle prove e, come precisa Camporini, «rispetto a quanto riportato nelle sentenze, che avevano negato ogni ulteriore accertamento per l’esaurimento del materiale probatorio, sono invece comparsi 54 campioni di Dna; inoltre mancano molti reperti presenti invece negli atti processuali, come ad esempio i guanti di Yara trovati nella tasca del giubbino sui quali erano state rinvenute tracce genetiche non appartenenti a Massimo Bossetti, i margini ungueali della vittima, sim, batteria, chiavi, portachiavi, lettore mp3, braccialetto, mancano moltissimi campioni relativi ai prelievi durante l’autopsia, molti campioni di formazioni pilifere, etc.». Inoltre, aggiunge Camporini, zabbiamo chiesto al Ris e alla Polizia Scientifica di fornirci le caratterizzazioni genetiche effettuate e il cd con le foto scattate ai reperti e, nonostante il giudice abbia concesso l’autorizzazione senza condizioni, loro si sono rifiutati. Perché, come in corso di processo, questo ostinato ostruzionismo di fronte a un possibile confronto in contraddittorio? Ci hanno accusato di essere diffidenti e sospettosi, ma ogni giorno le perplessità aumentano». Dopo il 15 gennaio i legali presentano altre due istanze, non avendo ricevuta alcuna risposta a quella del 9 dicembre, e incredibilmente la stessa Corte, che a fine novembre li aveva autorizzati, il 26 maggio fa un altro provvedimento in cui dichiara inammissibile la loro richiesta. «Abbiamo presentato ricorso in Cassazione» ci dice Salvagni perché «si tratta di una pervicace negazione dei diritti di Massimo Bossetti. Due anni fa parlai proprio da queste pagine di errore giudiziario ma oggi credo che qualcuno sa di aver sbagliato e non vuole ammettere l’errore. Se venisse fuori che lo Stato italiano ha tenuto per oltre 6 anni un innocente in carcere a partire da un dato scientifico sbagliato, sarebbe una vergogna a livello mondiale».

Caso Yara, Massimo Bossetti e le mail con Giovanni Terzi: "Pronto a morire per dimostrare la mia innocenza". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano l'8 giugno 2020. In questo periodo di quarantena ho scambiato mail e lettere con Massimo Bossetti, colui che secondo la legge e per ben tre gradi di giudizio, si è macchiato del terribile omicidio della povera Yara Gambirasio il 26 novembre del 2010. Avrei voluto che questa intervista, fatta attraverso uno scambio epistolare, rimanesse nell'alveo di un patrimonio mio di conoscenza personale, ma alla luce dei nuovi accadimenti processuali non posso più permettermi di tenerla riservata. Chi mi segue sa che ho sempre nutrito grandi perplessità sulla colpevolezza di Bossetti. Oggi non voglio soffermarmi su questo ma su un semplice principio giuridico che prevede all'imputato di poter esaminare e verificare le prove che l'accusa ha trovato contro di lui. Un principio giuridico sacrosanto che potrebbe riguardare ognuno di noi nel caso andassimo sotto processo e l'accusa non ci permettesse di verificare le prove trovate contro di noi. Un principio talmente semplice che sembra pleonastico doverlo spiegare. In questo caso si tratta della prova regina del Dna che a novembre del 2019 la Procura di Bergamo aveva consentito di replicare e che, improvvisamente, a maggio del 2020 ha negato. Tre sono state le conversazioni epistolari con Bossetti. Una datata il 25 marzo, una il 2 aprile ed una il 5 giugno. Le prime due erano speranzose di poter dimostrare che il Dna trovato sul corpo della piccola Yara non era il suo; nella terza c'è lo sgomento per, ancora una volta, la negazione di questa opportunità.

I FAMILIARI. «Bisogna trovare a tutti i costi la forza nel resistere e cercare di preservare quella poca dignità che ancora mi è rimasta e non mi è stata rubata». Perché resiste Signor Bossetti? A questa domanda il muratore di Mapello risponde scrivendo «fondamentalmente per i miei cari familiari che non hanno mai smesso di credere in me, per tutte le persone che mi stanno accanto e che mi vogliono bene e soprattutto perché dimostrare la mia innocenza è diventata fonte della mia ragione di vita». Ma Massimo Giuseppe Bossetti aggiunge un'altra frase: «Una persona innocente deve essere disposta a tutto, anche a morire, se dovrà essere necessario farlo... signor Terzi, che voglia crederci o no, la mia colpa è quella di essere innocente e il vero problema è di essere un cittadino assalito da un terribile errore giudiziario». Bossetti continua scrivendo, il 25 marzo, che «è molto difficile poter ammettere la realtà dei fatti con una semplice e banalissima ripetizione di un dato non graniticamente accertato al 100%. Signor Terzi, mi permetto di fare un paio di domande: secondo lei è questa la Giustizia Italiana che ogni cittadino italiano vorrebbe nell'essere sempre e più protetto e tutelato? È questa la Giustizia che calpesta ogni diritto di difesa offrendo benefici soltanto se mi dichiaravo colpevole? Come si può accettare ogni forma di benefici non avendo commesso il fatto? Quando riuscirete a rispondermi a queste domande capirete quanto di disumano ho subito e continuo purtroppo a dover subire». Alla lettera di Massimo Bossetti ho risposto con una mail dove facevo altre domande riferite al momento storico che stava vivendo, l'isolamento nelle carceri a causa del Covid. Una domanda era sull'ultimo libro che aveva letto. «Il segreto della libertà e del successo di Napoleon Hill. Questo libro è carico di suggestioni e può dare una mano per uscire dalla inerzia e dalla negatività per poter intraprendere la via di un futuro più roseo, migliore e molto più gratificante».

L'INTERVISTA. Il libro scritto nel 1938 da Napoleon Hill è pensato come un'intervista tra lo stesso Hill ed il diavolo che viene chiamato Sua Maestà, quest' opera mostra come superare gli ostacoli che si incontrano nella propria vita e suggerisce come raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge. Bossetti mi scrive: «In realtà a parte la cultura, in questo momento, mi piacerebbe poter scrivere una mail al mondo. Perché proprio al mondo mi chiederà lei dottor Terzi? Per chiedere che ci fosse meno cattiveria e meno disumanità nel genere umano e avere più comprensione e più cuore per le ingiustizie che ci vengono inflitte senza concentrarsi sul perché tutto questo debba avvenire». Come si sente in questo momento? «Signor Terzi sono avvolto all'inferno; sono disperato perché mi manca tutto l'amore di chi fuori mi vuole bene e mi chiedo quando smetterò di soffrire così tanto e soprattutto quando riuscirò di smettere di vedere trasparire dagli occhi dei miei figli tanta ingiusta sofferenza. Sono certo che riuscirò a dimostrare la mia più totale estraneità, ma non so quando». Il 5 giugno mi arriva un'altra mail da parte di Massimo Bossetti. È di qualche giorno prima la notizia in cui la Corte d'Assise di Bergamo aveva risposto negativamente alla revisione da parte della difesa del Dna dopo che la stessa Corte a Novembre aveva acconsentito. «...nessuno può capire davvero quanto sia dura sia fisicamente che psicologicamente. Ogni ora è un giorno ed ogni giorno è una settimana e la sofferenza si abbatte giorno e notte nello status di detenuto, aggravato ancor di più da una accusa infamante quale l'omicidio di una povera bambina».  

LO SFOGO. «Speravo che andando avanti le cose prendessero una giusta via avendo la Corte di Bergamo ufficialmente autorizzato i miei legali a visionare i reperti. Invece a sette mesi di distanza quella via che sembrava spianata è diventata faticosa e piena di ostacoli ... Una persona normale dovrebbe chiedersi come mai non viene autorizzata la ripetizione da parte della difesa dei reperti da me implorata da sei anni. Non so più a chi ed in che modo io mi debba rivolgere per essere ascoltato e capito... Anche se un magistrato mi avrà tolto la libertà di movimento, comunque sia, non potrà mai togliermi la libertà che sta nelle mie ragioni e convinzioni nell'essere innocente. Forse verrò abbandonato da tutti ma non da Dio, con Lui troverò sempre le forze nel lottare giorno dopo giorno a questo crudele massacro giudiziario fino al mio ultimo battito respiro di vita». Così si conclude lo scambio epistolare tra Massimo Bossetti e me. Una domanda, a questo punto, appare evidente: perché non dare la possibilità alla difesa (peraltro già accordata) di analizzare i reperti per il DNA visto che è stata acclarata la loro esistenza?

Anticipazione da “Oggi” il 29 gennaio 2020. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica in esclusiva il documento in quattro pagine firmate dal presidente della Corte d’Assise Giovanni Petillo che riporta l’elenco di 98 reperti dell’inchiesta sull’omicidio di Yara confiscati perché non vengano distrutti, né restituiti (ai familiari della vittima e di Bossetti). Viene ufficializzato che ci sono, ancora utilizzabili, ben 54 campioni di Dna di Ignoto 1 in provetta. Una novità importante che smentisce clamorosamente quanto scritto nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Brescia: «Quello che è certo, in ogni caso, è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni».

Anticipazione da “Oggi” il 29 gennaio 2020. Claudio Salvagni, uno difensori di Bossetti, rivela a OGGI le possibili conseguenze dell’atto che conferma l’esistenza di materiale genetico di Ignoto 1, su cui è possibile effettuare raffronti: «Se il Dna c’era ancora ed era a disposizione in notevole quantità, come è possibile che il presidente della Corte d’Assise di Brescia, Enrico Fischetti, abbia scritto nella sentenza d’Appello il 17 luglio 2017 che “il materiale genetico è esaurito”? Quali verifiche erano state fatte?». E prosegue: «Anche la Corte di Cassazione ha fatto sue le conclusioni dei giudici di Brescia definendo “ininfluente” la possibilità che il Dna esistesse ancora. Oggi il presidente Petillo ha emesso un decreto e ci ha consegnato un documento che, da solo, è sufficiente per chiedere la revisione del processo. Dimostra infatti che in una sentenza passata in giudicato la Suprema Corte ha scritto il contrario della verità». Conclude il legale: «Voglio credere che i reperti siano conservati in modo adeguato perché sono certo che Ignoto 1 non sia Bossetti e che la nuova perizia dirà un’altra verità. Ma se confermasse che gli inquirenti non hanno sbagliato almeno Bossetti sconterà l’ergastolo dopo aver avuto un giusto processo e la possibilità di difendersi».

Delitto Yara, dai verbali secretati di Bossetti nuovi possibili scenari. Libero Quotidiano il 09 marzo 2020. Difficile non pensare che oggi Yara Gambirasio sarebbe una splendida giovane ragazza di ventitré anni se, quella maledetta sera del 26 novembre del 2010, non avesse incontrato la furia omicida di una persona. Per la legge italiana, con una sentenza passata in giudicato, quella persona che spezzò le ali della speranza di Yara Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, che dal 16 giugno 2014 è rinchiuso in carcere; prima in attesa di giudizio, poi dal 13 ottobre del 2018 in via definitiva. Tutto parrebbe davvero concluso se, ad alcuni dubbi mai fugati non si aggiungessero i verbali degli interrogatori durante il processo di primo grado che sono stati resi pubblici solo dopo la sentenza della Cassazione in quanto prima erano stati segretari. Lo scrive Giovanni Terzi sul Tempo in edicola martedì 9 marzo. Il tema è quello relativo al Dna, riferibile ad Ignoto 1 e trovato sul corpo della povera Yara. In questi mesi la corte d'assise d'Appello di Bergamo ha consentito alla difesa di visionare per la prima volta i reperti Questo fatto è importante, direi decisivo, per Bossetti e la sua difesa che da sempre hanno ipotizzato un errore nell'attribuire a Bossetti il Dna di Ignoto 1. Stupore nel vedere la traccia di Dna evidenziata dai Ris (Carabinieri ) di così ottima qualità al contrario di quelle trovate in giro per il corpo di Yara. La qualità è talmente ottima da farlo sembrare un tampone salivare. Inoltre è ottima la qualità del DNA di ignoto 1 considerando quanti gelate e disgelate c'erano state in 3 mesi in cui il corpo di Yara era stato lasciato nel campo di Chignolo d'isola. Qualche domanda queste dichiarazioni le pongono. Innanzitutto perché secretarle? Inoltre se per quantità e qualità il Dna di Ignoto 1 era eccellente perché non consentire da subito una controperizia da parte dei suoi difensori? Per concludere chiedendo il perché proprio quel reperto di Dna era perfetto mentre gli altri (più di 100) no? A tutto questo si aggiungono altre criticità mai spiegate. In primo luogo il movente. Ad oggi, anche in sentenza, si parla di un movente di natura sessuale seppur nessun segno di violenza sessuale sia stata trovata sul corpo di Yara. Bossetti stato arrestato quattro anni dopo l'omicidio e si è riscontrato che mai aveva messo in atto alcun tipo di violenza nella sua vita, tanto meno sessuale. Bossetti non conosceva Yara, né i parenti di Yara, mai l'aveva contattata sui social e mai era entrato in contattato con qualcuno di riferibile a Yara. Quindi si accusa di un movente sessuale chi, a parte aver guardato qualche film hard e non di carattere pedo pornografico, non ha mai dimostrato di avere avuto, in più di 40 anni di vita, alcun atteggiamento censurabile.  Altro elemento importante è la dinamica. Partiamo dall'assunto che Yara era una brava ragazzina, timida e riservata che giocava ancora con «Hello Kitty» e che mai si sarebbe avvicinata ad uno sconosciuto e men che meno sarebbe salita su una macchina o furgone che sia. Ecco quindi che Ignoto 1 dovrebbe averla rapita con violenza e trascinata via, ma anche qui due dubbi: il primo come mai la Procura non parla mai di «sequestro di persona» e la seconda è mai possibile che un uomo scenda dal furgone alle 18,30 di sera davanti a molte persone (118.000 utenze diverse sono state intercettate tra le 18 e le 20 in quella zona) senza che qualcuno notasse quanto meno una stranezza? Infine quel Dna di Ignoto 1 non risulta essere completo in quanto contiene solo una parte, quella nucleare e non quella mitocondriale e da qui la domanda se, la comunità scientifica, ritenga possibile che l'identificazione di una persona possa avvenire attraverso il Dna nucleare pur in presenza di una ingiustificata assenza del corrispondente mitocondriale? In sintesi esiste solo la traccia di Dna nucleare, per l'accusa riconducibile a Bossetti, ma quella mitocondriale no o, quantomeno se c'è questa è riconducibile ad altri soggetti diversi dal muratore bergamasco. Considerate poi che il famoso furgone bianco in sentenza si dice che è «compatibile» ma non «uguale» a quello di Bossetti. Prendete poi le celle telefoniche dove dalle 17,45 del giorno del rapimento di Yara ll cellulare di Bossetti risulta essere spento e a casa sua.  Anche Roberto Saviano pochi mesi or sono aveva dichiarato: "Il padre di Yara ha lavorato per la Lop av, un'azienda di proprietà dei figli di Pasquale Locatelli, super boss del narcotraffico, che aveva anche un appalto nel cantiere di Mapello". "Inoltre, alla festa della Lopav parteciparono tre magistrati della procura di Bergamo" - contesta ancora Roberto Saviano - Mi sembra inquietante che non si sia indagato in quella direzione". 

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Una Famiglia Sfortunata.

"Guede non può aver agito da solo": tutti i dubbi sul delitto Kercher. A 13 anni dall'omicidio di Meredith Kercher restano ancora molte incertezze. "Guede non fatto tutto da solo", spiega a Il Giornale.it la criminologa Roberta Bruzzone. "Dubbi sulla sua colpevolezza", dice il criminologo Claudio Mariani. Rosa Scognamiglio, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Nella notte tra l'1 e il 2 novembre del 2007, nella villetta di via della Pergola 7, a Perugia, viene ritrovato il corpo martoriato e senza vita di una giovane studentessa inglese. Si tratta di Meredith Kercher, 21 anni, originaria di Southwark nel Regno Unito, partecipante al progetto Erasmus nell'Università per Stranieri del capoluogo umbro. Il cadavere evidenzia al corpo ferite tali da far desumere, senza alcuna ombra di dubbio, che si sia consumato un omicidio efferato. Nel mirino degli investigatori finiscono la coinquilina statunitense Amanda Marie Knox, di Seattle, e il fidanzato Raffaele Sollecito, nato e cresciuto a Giovinazzo (Bari), laureando in ingegneria informatica. A pochi giorni dall'apertura del caso in tribunale e successivamente all'arresto dei due fidanzati, viene chiamato in causa anche Rudy Hermann Guede, al quale si contesta, in aggiunta, il reato di violenza sessuale. I tre vengono accusati di concorso in omicidio e condannati, in primo grado, rispettivamente a 26, 25 e 30 anni di detenzione. Ma mentre per la Knox e Sollecito, al termine del processo bis, giungerà l'assoluzione definitiva della Corte Suprema di Cassazione in esplicazione del principio dell'oltre il ragionevole dubbio, Guede resterà in carcere con pena ridotta a 16 anni per concorso in omicidio con ignoti. Sebbene l'ingarbugliatissimo iter giudiziario della vicenda sia definitivamente concluso, resta ancora un ampio margine di interpretazione dei fatti. Oggi come allora il dilemma resta sempre lo stesso: Rudy Guede ha agito da solo? "Ho sempre ritenuto altamente probabile, compatibilmente con le modalità dell'omicidio, che sulla scena del crimine ci fosse almeno un altro soggetto - spiega a IlGiornale.it la criminologa forense Roberta Bruzzone - Ma probabilmente non sapremo mai di chi si tratta". È tendenzialmente innocentista il criminologo Claudio Mariani, direttore del dipartimento di Criminologia e Sociologia delle devianze del Centro Studi Criminologici di Viterbo, che segue il percorso di reinserimento sociale dell'ivoriano, a oggi recluso nella Casa Circondariale Mammagialla. "Io non ho alcuna certezza circa l'innocenza di Rudy ma troppi, troppi, troppi dubbi sulla sua colpevolezza", dice alla nostra redazione.

La sera dell'omicidio. L'omicidio si consuma nella notte tra il 1 e il 2 novembre 2007 in una villetta di via della Pergola 7 a Perugia. L'appartamento è in condivisione tra 4 studentesse universitarie: le italiane Filomena Romanelli e Laura Mezzetti, coinquiline di vecchia data; poi ci sono Amanda Knox, 20enne originaria di Seattle e la 21enne di Southwark Meredith Kercher, entrambe approdate nel capoluogo umbro a seguito dell'adesione al progetto Erasmus indetto dall'Università per Stranieri di Perugia. La sera in cui Meredith viene uccisa, sia Romanelli che Mezzetti sono assenti dall'abitazione. Quanto ad Amanda Knox, riferirà, successivamente al tragico accaduto, di aver trascorso la notte a casa del fidanzato Raffaele Sollecito, con il quale ha consumato la cena e guardato un film al computer (Il favoloso mondo di Amelie). La giovane studentessa inglese, invece, risulta abbia cenato attorno alle ore 18 del pomeriggio con alcune connazionali salvo poi far rientro per la notte al civico 7 di via della Pergola. Nelle ore successive diventerà la vittima di uno dei più intricati e ingarbugliati crimini della cronaca nera italiana.

La simulazione del furto in appartamento: un tentativo di depistaggio? Il rinvenimento del corpo senza vita di Meredith, assassinata con indiscussa efferatezza, avviene nella tarda mattina del 2 novembre, pressapoco all'ora di pranzo. A lanciare l'allarme è Amanda, rientrata a casa verso le ore 10 dopo aver trascorso la notte con il fidanzato. La coppia ha in programma una gita a Gubbio quella giornata, dunque la 20enne avrebbe fatto rientro in via della Pergola per fare una doccia e cambiarsi d'abito prima di mettersi in viaggio. Ma, in uscita dal bagno, la Knox nota qualcosa di strano. La stanza della coinquilina Romanelli è stata messa a soqquadro con i cocci al pavimento della finestra, rotta a seguito di un presunto tentativo di effrazione. La porta della stanza di Meredith, invece, è chiusa e Amanda suppone stia ancora dormendo. Allarmata dalla circostanza, si dirige nell'appartamento di Sollecito al quale racconta quanto ha visto. Il ragazzo le suggerisce di avvertire la Romanelli salvo poi decidere, d'accordo con la giovane, di telefonare ai carabinieri per una segnalazione. Più tardi, la verità processuale, accerterà che il furto altro non è che una simulazione. "Questo aspetto della vicenda è molto interessante - spiega la dottoressa Bruzzone - Un presunto ladro, assai goffo, prima ha messo a soqquadro tutta la stanza, in maniera anche grossolana, di una delle coinquiline di Meredith e Amanda. Poi si sarebbe in qualche modo preoccupato di trovare un possibile punto di accesso dell'aggressore nell'appartamento di via della Pergola. Ma i cocci di vetro della finestra rotta erano sopra gli oggetti e non sotto come avremmo dovuto trovarli. Si tratta di una messa in scena avvenuta dopo la morte di Meredith per far credere che lei fosse stata aggredita da un soggetto estraneo. E quando c'è uno staging, ovvero una messa in scena di questo tipo, vuol dire che c'è un rapporto di conoscenza tra l'autore e la vittima. Si cerca di depistare le indagini fornendo un alibi, in questo caso un furto sfociato in omicidio. Ma chiaramente è un'invenzione che non sta in piedi".

Il ritrovamento del cadavere. Sul luogo del delitto, prima ancora che si accerti la presenza del cadavere, oltre alla Knox e Sollecito, ci sono anche gli agenti della polizia. Quella mattina, i poliziotti si sono diretti in via della Pergola per riconsegnare due cellulari ritrovati nel giardino di una abitazione di via Sperandio alla legittima proprietaria, Meredith Kercher. Al loro arrivo, trovano Amanda e Raffaele in attesa dei carabinieri, seduti sulla staccionata circondante la casa. La coppia invita gli agenti ad entrare nell'appartamento per un sopralluogo motivando le ragioni del sospetto furto. Nel frattempo, sopraggiungono anche la Romanelli e la Mezzetti con i rispettivi fidanzati. Entrato in casa, il gruppo si dirige verso la stanza di Meredith, l'unica che manca all'appello tra le studentesse. La porta della stanza è chiusa a chiave e, dopo aver provato invano a bussare per farsi aprire, decidono di sfondarla a spallate. Al di là della soglia giace il corpo senza vita della 21enne inglese, sgozzata con un coltello. Tutt'attorno al cadavere è una pozzanghera di sangue e orrore.

Quelle strane lesioni sul corpo della vittima e il piumone. Meredith è riversa in un lago purpureo all'interno della propria camera da letto. Al collo presenta due profonde ferite (in realtà 3, si apprende dalla ricostruzione ultima della Cassazione nel processo bis) con arma da punta e taglio, di cui una è incava al punto da averle reciso l'osso ioide. Dunque, si desumerà poi dagli esami autoptici, la giovane studentessa inglese è morta per asfissia a seguito di una vasta emorragia. Ma oltre ai due tagli evidenti ci sono numerose altre lesioni sospette sul corpo. "Sul corpo di Meredith ci sono lesioni di un soggetto che è impossibilitato a difendersi - spiega la dottoressa Bruzzone - Attenzione, non sono lesioni da difesa ma da minaccia, in particolare intorno all'area genitale. E quelle mi fanno pensare che lei fosse in una condizione di minorata difesa, ovvero, che qualcuno la trattenesse mentre un altro la pungolava con l'arma da punta e taglio. Per questo non credo che l'aggressione sia stata commessa da un solo soggetto. Però si tratta di una valutazione sulla base di ipotesi". Ma non è tutto. Il cadavere di Meredith è stato coperto da un piumone. Perché? "Questo è un altro comportamento che noi profiler consideriamo altamente significativo perché riguarda l'atto di un soggetto che ha un rapporto di conoscenza con la vittima - chiarisce la criminologa forense - Quindi il fatto di coprire il corpo, dopo uno scempio del genere, non indica la volontà di occultarlo, altrimenti sarebbe stato spostato altrove. Ma è un comportamento che serve agli aggressori per abbassare l'impatto psicologico della gravità di ciò che hanno fatto perché il frutto della loro condotta criminale li disturba. E quindi si procede a coprire quello che è avvenuto. Anche questo dettaglio, nell'ambito dell'analisi psicologica sulla scena del crimine, è un indicatore di un rapporto di conoscenza tra l'autore del delitto e la sua vittima. Non c'è una motivazione logica ma psicologica".

Amanda Knox e Raffaele Sollecito agli arresti poi l'accusa di concorso in omicidio. Subito dopo l'accertamento della circostanza omicidiaria, nel mirino degli inquirenti finiscono la statunitense Amanda Knox e il fidanzato Raffaele Sollecito. I due sono tacciati di presunta coautoralità nel delitto già a pochi giorni dalla macabra scoperta, allorquando saranno ascoltati in qualità di persone informate dei fatti. A destare perplessità è il comportamento, apparentemente disinteressato alla vicenda, della coppia. Le smorfie di Amanda al fidanzato e le tenerezze scambiate in pubblico gettano ombre sulla giovane coppia catturando l'interesse dei media di tutto il mondo. Il 6 novembre del 2007 vengono entrambi arrestati con l'ipotesi di omicidio senza però, come dimostrerà il complesso e articolato iter processuale, che sia raccolto un compendio probatorio a loro carico tale da dimostrare la loro partecipazione al delitto al di là di ogni ragionevole dubbio. "Certo un illustrato clamore mediatico della vicenda, dovuto non solo alle drammatiche modalità della morte di una 22enne, tanto assurda ed incomprensibile nella sua genesi, ma anche nella nazionalità delle persone coinvolte, e dunque dei riflessi internazionali della stessa vicenda - scriverà nelle motivazioni della sentenza di assoluzione definitiva per i due imputati la Corte Suprema di Cassazione nel processo bis – ha fatto sì che le indagini subissero un'improvvisa accelerazione che, nella spasmodica ricerca di uno più colpevoli da consegnare all'opinione pubblica internazionale, non ha certamente aiutato nella ricerca di una verità sostanziale, che, in problematiche fattispecie omicidiare, come quella in esame, ha come ineluttabile postulato non solo la tempistica, ma anche la compiutezza dell'attività investigativa". Fatto sta che il 5 dicembre del 2009 la Corte d'Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Amanda a 26 anni di carcere e Raffaele a 25 con l'accusa di concorso in omicidio.

Quel coltello "incriminato" non è l'arma del delitto. È uno dei "reperti-chiave" dell'intera vicenda giudiziaria. A pochi giorni dal misfatto viene rinvenuto un coltello da cucina a casa di Raffaele Sollecito, compatibile, secondo i periti arruolati nella prima tranche processuale, con il taglio fatale inferto al collo della vittima. Le prime risultanze sembrerebbero evidenziare sull'impugnatura dell'utensile tracce genetiche di Amanda Knox mentre sulla lama sarebbero presenti quelle del sangue di Meredith Kercher. Successivamente all'ipotetica azione omicidiaria, il coltellaccio sarebbe stato poi lavato con cura e riportato a casa di Sollecito per non destare sospetti. In buona sostanza, per gli inquirenti quella potrebbe essere l'arma del delitto. Ma le perizie effettuate nel processo bis, dimostreranno che si è trattato di un "travisamento" conseguente a un'erronea lettura dell'esito relativo alla prova genetica e che sull'utensile non è mai stato riscontrato dna misto Kercher-Knox. Inoltre, lo stesso non sarebbe stato sottoposto ad accurata pulitura in quanto sullo stesso erano rilevabili tracce di amido vegetale, "che è notoriamente dotato di capacità assorbenti" spiegano gli ermellini nella sentenza di assoluzione del 2015. Dunque, non è quella l'arma del delitto. Arma che non sarà mai ritrovata.

Il gancetto del reggiseno di Meredith. C'è un altro reperto fondamentale attorno a cui orbita il lungo e arzigogolato percorso giudiziario: il gancetto del reggiseno di Meredith. I periti riscontrano sull'oggetto in esame dna di Raffaele Sollecito, evidenza che, a dir loro, comproverebbe la presenza del giovane sulla scena del crimine. Ma, come dimostreranno perizie successive, il gancio è stato esposto a contaminazione dal momento che è stato repertato oltre 40 giorni dopo il primo sopralluogo della polizia scientifica nella villetta di via della Pergola e in posizione diversa (lo attesta anche il materiale fotografico raccolto sulla scena del crimine) rispetto alla sera del delitto. Pertanto, se per le Corti della prima istanza processuale si tratta di un elemento probante la colpevolezza di Sollecito per i giudici della II Cassazione non è che l'ennesimo errore dell'ingarbugliata attività investigativa e tecnica.

Amanda accusa Patrick Lumumba. A pochi giorni dall'apertura delle indagini, Amanda Knox chiama in causa Patrick Lumumba, titolare del bar Le Chic dove la giovane lavora nelle ore serali. Secondo le dichiarazioni di quest'ultima, trascritte in un memoriale, Lumumba avrebbe consumato un rapporto sessuale con Meredith salvo poi ucciderla. "Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith - scrive la Knox trattenuta in questura - mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie (...) Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell'appartamento aperta". Le accuse sono considerate prive di fondatezza e dopo 14 giorni di detenzione, il congolese viene rimesso in libertà. A scagionarlo dalle pesanti accuse è la testimonianza di un professore universitario che la sera del 1 novembre ha trascorso lungo tempo nel suo locale. Inoltre, nell'appartamento di via della Pergola non vi è traccia alcuna del suo passaggio. Per i giudici, Amanda ha mentito e per questo sarà condannata a 3 anni di detenzione per il reato di calunnia.

Rudy Hermann Guede. Il giorno in cui Lumumba viene liberato, il 20 novembre 2007, entra in scena un nuovo protagonista. Si tratta di Rudy Guede, 21enne di origini ivoriane residente a Perugia dall'età di 5 anni, che viene arrestato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere di Meredith e diverse tracce di Dna nella casa, oltre ai residui fecali nel bagno accanto alla stanza di Meredith. Su Guede, in fuga fuori dai confini dell'Italia, grava l'ipotesi di uno stupro dal momento che i tamponi vaginali sulla vittima hanno evidenziato segni di "strofinamento" riconducibili a un rapporto non consensuale. Il 28 ottobre del 2009 Guede viene condannato a trent'anni di reclusione per i reati di violenza sessuale e concorso in omicidio con la Knox e Sollecito. Il 22 dicembre del 2009 la Corte d'Assise d'Appello riduce da 30 a 16 anni la pena inflitta in concessione delle attenuanti generiche. "Il compendio probatorio a carico di Guede non lascia alcun margine di dubbio. Lui c'era quando Meredith è stata uccisa ed è entrato in contatto con la vittima sia prima che dopo, e dunque verosimilmente anche durante, il delitto. Da questo punto di vista, la vicenda giudiziaria è chiarissima - spiega la dottoressa Buzzone - Ora, data per certa la presenza di Guede, la questione aperta è un'altra. Francamente faccio fatica a pensare che abbia fatto tutto da solo. Ho sempre ritenuto possibile, compatibilmente con le lesioni da minaccia sul corpo della vittima, che fosse partecipe dell'azione omicidiaria almeno un'altra persona. E continuo a essere di questo avviso. Chi sia questo secondo soggetto probabilmente non lo sapremo mai".

Il memoriale di Amanda: invenzione o confessione? Mentre è trattenuta in questura, tra il 5 e il 6 novembre, Amanda scrive un memoriale in cui prova a ricostruire la dinamica di quella drammatica notte. Si tratta di uno scritto lungo circa 3 pagine e mezza, redatto in lingua inglese, in cui racconta cosa è accaduto nella villetta di via della Pergola 7 la sera in cui Meredith è stata uccisa. Sebbene il contenuto del testo non sia da ritenersi di natura confessoria, la giovane si colloca sulla scena del crimine pur ribadendo, a più riprese, di non aver partecipato al delitto."Non l'ho uccisa io", assicura. Poi, però, aggiunge:"Sono molto confusa". In quel memoriale è la stessa Amanda che si colloca all'interno della casa - spiega la criminologa forense - Lei è da sola in carcere, senza pressioni, e scrive di essere in quella casa quando viene uccisa Meredith. Io ritengo che i giudici abbiano ragione e che la signora Knox non ci abbia raccontato la storia così come si è svolta tant'è che poi lei è stata condannata per calunnia nei confronti di Lumbumba. Per carità, gli indagati e gli imputati hanno facoltà di mentire ma c'è un limite, quello di non tirare in mezzo degli innocenti. E la Knox quel limite lo ha superato".

Il movente del delitto. In prima istanza, il movente del delitto viene individuato in vecchie ruggini tra la Knox e la Kercher. Ma si tratta di un assunto molto labile dal momento che non vi sono prove attestanti la veridicità. Anzi, testimonianze a vario titolo smentiscono questa circostanza sostenendo vi fossero stati solo alcuni blandi screzi tra le due per la pulizia del bagno. Successivamente, si riconduce l'origine del crimine a un "gioco erotico" a cui avrebbero partecipato Guede, Knox e Sollecito. La verità processuale, stabilita nel processo bis, confermerà il movente di natura sessuale. "Una violenza sessuale senza alcuna ombra di dubbio che davanti alla prospettiva degli aggressori di essere riconosciuti e denunciati dalla vittima ha portato alla scelta di uccidere Meredith - chiarisce la Bruzzone - Su questo non ci piove".

"Processo da rifare", poi l'assoluzione definitiva per Knox e Sollecito. Il 24 novembre del 2010 si apre il processo d'appello per Amanda e Raffaele mentre diventa definitiva la condanna a 16 anni per Rudy Guede (la riduzione della pena da 30 a 16 era stata già decretata il 22 dicembre del 2009 mediante la formula del rito abbreviato). La Corte d'assise d'Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello incriminato e sul gancetto del reggiseno di Meredith. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della corte, "non sono attendibili". Il 4 ottobre del 2011 la Corte d'assise d'appello assolve gli imputati Knox e Sollecito dall'omicidio e ne dispone la scarcerazione. Il 25 marzo del 2013 il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l'annullamento della sentenza di assoluzione, definita un "raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità". Il 25 marzo la Suprema Corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'appello di Firenze per un nuovo processo. Il 30 gennaio 2014 la Corte d'Assise d'Appello di Firenze rovescia il precedente giudizio di secondo grado, affermando la colpevolezza degli imputati. Dunque, condanna Amanda Knox a 28 anni e 6 mesi di reclusione e Raffaele Sollecito a 25 anni, accogliendo le richieste del pm Alessandro Crini. Il 16 giugno dello stesso anno, i pool difensivi chiedono l'annullamento della sentenza senza rinvio, che equivale all'assoluzione per i loro clienti e al ripristino della verità emersa nel primo processo d'appello, o perlomeno un terzo appello. Il 27 marzo del 2015, dopo dieci ore di camera di consiglio, il giudice della Suprema Corte Gennaro Marasca assolve in via definitiva Amanda Knox e Raffaele Sollecito "per non aver commesso il fatto". Di fatto, non ci sono elementi comprovanti la presenza dei due imputati sulla scena del crimine o della partecipazione allo stesso. "Tutte le tracce rinvenute nella stanza di Meredith, ovvero, orme e impronte insanguinate e il Dna nella vagina della vittima, sono di Guede - spiega la dottoressa Bruzzone - Poi c'erano 2 reperti importanti che hanno perso rilevanza e sono: il gancetto del reggiseno di Meredith su cui si credeva ci fosse il Dna di Sollecito e il famoso coltello trovato a casa dello stesso con il Dna di Amanda sul manico e quello della vittima sulla punta della lama. Ma entrambi i reperti sono crollati a seguito delle rilevanze riscontrate da periti del processo di appello. Dunque, le uniche tracce ritenute affidabili sono riconducibili a Rudy Guede". Diversa, invece, la posizione del criminologo Mariani: "Io non ho alcuna certezza circa l'innocenza di Rudy - afferma - ma ho troppi, troppi, troppi dubbi sulla sua colpevolezza. I dubbi sono quelli che mi ossessionano da anni e mi fanno in qualche misura soffrire perché penso che questo ragazzo stia pagando troppo rispetto a tutta questa vicenda. Per il resto, io certezze non ne posso avere".

Guede condannato per concorso in omicidio "con ignoti": con chi ha agito? Alla fine di un lungo e controverso iter processuale, viziato da numerose incongruenze ed errori, resta solo la condanna definitiva a 16 anni per Rudi Guede: "Concorso in omicidio con ignoti", ribadiscono gli ermellini del processo bis. Ma con chi ha agito l'ivoriano? "Secondo l'ultima sentenza dei giudici di Cassazione, oltre a Meredith, in casa avrebbero dovuto esserci almeno altre 3 persone: uno è Guede l'altra è la Knox e poi ci sarebbe stato un altro soggetto che deve aver agito in concorso con l'ivoriano e che, secondo i giudici, non può essere Sollecito - spiega la criminologa - Parlo di persone presenti nell'abitazione, ovviamente. Sulla scena del crimine, invece, c'era Guede. Ma dal mio punto di vista c'era almeno un'altra persona visto il tipo di omicidio che è stato commesso. Chi sia questo soggetto resterà un enigma dal momento che Knox e Sollecito sono fuori dai giochi e le indagini sono chiuse. È un'azione complessa, secondo i giudici Guede non ha agito da solo, secondo altri non ha agito con Knox e Sollecito. E allora bisognerebbe vedere con chi agito e astrattamente ci dovrebbe essere una indagine in corso ma non mi risulta che ci sia". Di tutt'altro, avviso, invece, è il criminologo Mariani: "I dubbi sulla vicenda sono tantissimi. Basta rileggere gli atti processuali per capire che ci sono delle circostanze poco definite, elementi piuttosto curiosi".

C'è un'altra verità? Se ci sia o meno un'altra verità che sottende il delitto di Perugia non è dato sapere. "Il vero punto debole di questa vicenda è il fallimento dell'attività di sopralluogo tecnico e gestione dei reperti - conclude la Bruzzone - Le cose non sono andate come dovevano. Come si suol dire: "Quando l'albero è avvelenato anche tutti i suoi frutti lo sono". Non si può arrivare a una sentenza di condanna senza un compendio probatorio solido che vada al di là di ogni ragionevole dubbio, soprattutto in circostanze così gravi. È altamente probabile che vi sia un'altra verità. Forse, se la fase di indagini fosse stata gestita in maniera diversa, oggi la vicenda avrebbe un finale diverso". Fatto sta che l'unico dato certo e incontrovertibile resta quello relativo all'assassinio di una giovane donna desiderosa di esplorare il mondo. "Oggi la natura della situazione non può essere cambiata. Esiste un giudicato, le procedure di revisione non sono state accettate e i due coimputati sono stati assolti. Quindi la storia è finita e finisce qui - dice - C'è solo da sperare che tutti i protagonisti di questa storia riescano a trovare un minimo di serenità. E quando dico questo parlo soprattutto nei riguardi della famiglia Kercher. Per quanto riguarda Rudy, mi interessa il suo percorso, mi interessa che si sia laureato e che sia diventato una risorsa per la comunità dal momento che fa il volontario presso la Caritas. Il resto, mi viene da dire, è storia. Una triste storia".

Raffaele Sollecito ancora nei guai: “In carcere da innocente, adesso sono sul lastrico”. Marco Preve su La Repubblica il 10 ottobre 2020. Assolto per l’omicidio di Meredith Kercher ha chiesto i danni allo Stato, ma ha perso. Deve ancora 660 mila euro ai difensori Bongiorno e Maori. Dopo 4 anni di carcere, una serie infinita di processi e trasmissioni tv, Raffaele Sollecito venne assolto definitivamente dalla Cassazione nel 2015 per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, sgozzata a Perugia il primo novembre 2007. Ma l'innocenza non cura la depressione, non cancella dalla mente delle persone il pregiudizio e soprattutto non si trasforma in un bancomat quando devi ancora pagare - oltre ai 400 mila già anticipati da tuo padre - 300 m...

Da "corriere.it" il 15 ottobre 2020. Raffaele Sollecito, imputato e poi assolto nel processo di Perugia per il delitto di Meredith Kercher, è stato intervistato dalla trasmissione di Tv8 Ogni Mattina. «Sono sul lastrico…1,2 milioni di debito, ho passato quattro anni in carcere di cui sei mesi in isolamento e per me è assurdo sentirmi rispondere dai giudici Italiani che oltretutto c’ è un meccanismo piuttosto singolare, in Italia, dove quando devi chiedere un risarcimento ti rimandano alla corte che ti aveva condannato quindi è abbastanza complicato che abbiano un’idea diversa rispetto a quella che avevano… mi sono sentito un mostro. Hanno completamente distrutto la mia immagine, e anche quella della mia famiglia, sono stati anni tragici».

Raffaele Sollecito: "Fui trattato come un mostro, ma sono vittima di ingiustizia". Raffaele Sollecito, condannato e poi assolto per l'omicidio di Meredith Kercher, si racconta a Il Giornale.it: "Pago gli errori della magistratura per un reato che non ho commesso". Rosa Scognamiglio, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Da sospetto assassino di Meredith Kercher a vittima della giustizia. Non c'è pace per Raffaele Sollecito da quando i riflettori della cronaca nera si sono accessi nella villetta di via della Pergola, a Perugia, quel tragico giovedì 1° novembre del 2007. Dapprima una condanna a 25 anni di reclusione per concorso in omicidio con Amanda Knox, poi 4 anni di detenzione e, infine, l'assoluzione "per non aver commesso il fatto". Tredici lunghi anni di calvario, né un giorno in più né uno in meno. Perché nonostante la sentenza definitiva della Cassazione nel 2015 attesti la sua totale estraneità al delitto, riconoscendo invece la presenza di numerosi errori nelle indagini, Sollecito porta addosso ancora le scorie di un complesso e articolato iter giudiziario. Scorie che si traducono in debiti da 1 milione e 200mila euro per un reato che - lo dicono i giudici - non ha commesso e per un processo che lo ha coinvolto a 23 anni. Nel 2017, la Corte d'Appello di Firenze gli ha negato il risarcimento per ingiusta detenzione che avevano richiesto i suoi difensori, gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori. "Sussiste una ingiusta detenzione stante la sopraggiunta assoluzione dell’istante - avevano spiegato i giudici della terza sezione penale - Ma proprio lui ha concorso a causarla con la propria condotta dolosa o gravemente colposa". Una condotta, scrivevano i magistrati, “consistita nel rendere alla polizia giudiziaria, agli inquirenti, e ai giudici, in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere, risultate tali anche alla luce delle valutazioni contenute nella sentenza definitiva di Cassazione".

Lo Stato avrebbe dovuto risarcirla di 3 milioni e 600mila euro. E invece cosa è successo, si è ribaltata la situazione?

"È una situazione assurda Sono io a dover pagare per un reato che non ho commesso, per un processo che non ho causato. Dopo tutte le difficoltà che ho avuto, le discriminazioni e i pregiudizi che ho dovuto subire, dopo quello che abbiamo passato io e la mia famiglia, mi aspettavo che lo Stato mi aiutasse a riprendere in mano la mia vita. Invece, sono stato trattato da reietto, un emarginato sociale. Come se l'assoluzione avesse dovuto bastarmi e io non abbia diritto a chiedere di più. Così, come se fosse stato un gioco quello che ho vissuto ma non lo è stato".

Come commenta le motivazioni della sentenza della Corte d'Appello di Firenze riguardo alla vicenda?

"È paradossale, fuori dal mondo. Come se fossero colpa mia tutti gli errori processuali. Io avevo 23 anni al tempo, stavo per laurearmi in ingegneria informatica e non avevo mai messo piede in una questura. Cosa ne potevo sapere di quali fossero i meccanismi che avrebbero portato ben 40 inquirenti, con una esperienza consolidata alle spalle, a una deviazione delle indagini? Se lo avessi saputo, quando sono andato a rendere dichiarazioni spontanee come persona informata dei fatti, mi sarei tutelato con un avvocato. Invece, non l'ho fatto proprio perché non avevo nulla da nascondere, neanche un callo. Sono stato ingenuo. E ora mi ritrovo a dover pagare una cifra allucinante".

Un milione e 200mila euro di cui 636.212,23 agli avvocati che l'hanno assistita. Giusto?

"Sì. In parte, 400mila euro sono stati già saldati. Ma abbiamo dovuto ipotecare i beni immobiliari appartenuti a mia madre che è morta. È stato atroce privarsi di qualcosa che per me e la mia famiglia aveva un inestimabile valore affettivo. Senza contare che anche mio padre, nonostante sia un medico, ha dovuto indebitarsi perché i soldi non erano mai abbastanza. Ci sono state spese importanti che abbiamo dovuto sostenere, 15 consulenti da pagare e tante altre cose. Ed è assurdo che abbia dovuto farlo in nome di uno Stato che non mi ha mai tutelato".

In che direzione si sta muovendo adesso con i suoi legali?

"Ci siamo rivolti alla Corte Europea e siamo in attesa di risposta. Siamo in causa contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati. Inoltre, abbiamo intentato un processo di merito contro i magistrati che mi hanno accusato perché in tutti quegli anni, mi riferisco a quelli del processo, non hanno minimamente tenuto conto di quelli che erano i fatti. Si sono chiusi in una idea di colpevolezza nei miei confronti che era più per partito preso che fattuale. Hanno seguitato per la loro strada e, talvolta, lo hanno fatto anche con dolo".

Oltre all'ingente esborso economico, quale eredità emotiva si porta dietro?

"Sono stati anni tragici per me e la mia famiglia. Dopo la scarcerazione sono finito in depressione. È difficile ritornare alla normalità dopo che sei stato per anni in un ambiente ostile, totalmente estraneo a quella che era stata la mia vita prima del processo. Sapevo che non sarebbe stato facile ma non mi aspettavo tutto questo. Mia sorella ha perso il lavoro, mio padre ha avuto problemi con i suoi colleghi e io stesso ho dovuto combattere contro i pregiudizi delle persone, soprattutto al lavoro. Sostenevo colloqui di lavoro con multinazionali, mi pagavano la trasferta e tutto quanto ma poi, quando scoprivano che avevo un profilo mediatico complesso mi rispedivano indietro nel giro di un paio di giorni. Non è basta una assoluzione per cancellare l'idea che le persone si sono fatte di me".

Perché, che idea crede si siano fatte le persone di lei?

"Di un “mostro”, un freddo calcolatore. Ma io non do la colpa alla gente che neanche sapeva chi fossi o cosa facessi nella mia vita. Purtroppo, anche in questo caso, non sono stato supportato da chi avrebbe dovuto farlo. Quando sono cominciati a emergere gli errori nelle indagini, negli Stati Uniti, il Paese di Amanda, hanno iniziato ad alzare la voce, a reclamare giustizia e verità. Dopo l'assoluzione, Amanda è stata accolta - giustamente - come una vittima. È stata supportata e aiutata a rifarsi una vita. Una scelta che io appoggio totalmente dal momento che lei, come me, è stata una vittima ingiusta. Invece, per me così non è stato. Non c'è stato nessuno che abbia quantomeno insinuato il dubbio sulla mia innocenza. In Italia, lo Stato se ne è lavato le mani. Come a dire "ti ho assolto ma adesso sono cavoli tuoi". E non è così che dovrebbe funzionare".

Nei giorni successivi al delitto, i telegiornali riproponevano spesso le immagini di lei e Amanda fuori dalla villetta di via della Pergola. Quanto pensa possa aver inciso l'atteggiamento che aveva in quel momento sui risvolti successivi della vicenda?

"Io ero sotto choc, in uno stato di confusione. Non avrei mai immaginato di ritrovarmi in una situazione del genere. Il fatto che non mi disperassi o versassi un mare di lacrime non vuol dire che la tragedia mi era indifferente. Anzi, ero molto dispiaciuto e mi sentivo smarrito. Eppure, l'impianto accusatorio si basò sostanzialmente su quei comportamenti che avevamo io e Amanda nelle ore e nei giorni dopo. Non c'erano evidenze fattuali che comprovassero un mio coinvolgimento nella vicenda. Si può condannare all'ergastolo una persona sulla base di un sensazionalismo inconsistente o sulla base di ricostruzioni mediatiche? Io non credo sia corretto. Eppure, con me i giudici hanno fatto questo: si sono chiusi nelle loro ipotesi di colpevolezza e hanno continuato per quella strada. E neanche di fronte a errori evidenti sono tornati sui loro passi o si sono posti il dubbio sul corretto svolgimento delle indagini. Ma sia io che Amanda siamo state solo due vittime".

È stato per 6 mesi in isolamento. Cosa vuol dire essere reclusi tra quattro mura senza vedere né poter parlare con qualcuno?

"È una esperienza fortissima e drammatica, non ci sono altre parole per descriverla. Ti mettono a marcire in un cella dicendoti che da quel momento la tua vita non avrà più un senso, che trascorrerai il resto dei tuoi giorni in uno stanzino. In un attimo, vengono cancellati sogni, ambizioni e aspettative. Per loro tu sei colpevole, hai tolto il futuro ad una persona e quindi non meriti di averne uno".

Quando ha capito che questo tragico capitolo della sua vita si stava concludendo?

"Ci sono stati vari momenti in cui abbiamo fatto un passo avanti. Penso a quando è stata letta la perizia dei giudici di appello in cui era descritto tutto quello che era stato fatto in termini di analisi dei reperti dimostrando la mia estraneità alla vicenda, lì ho provato un grande sollievo. Un altro momento importante è stata la scarcerazione e poi, ovviamente, l'assoluzione definitiva. Ma la parola "fine", in realtà, non c'è mai stata per tutto quello che è accaduto dopo".

Poi le cose sono cambiate? È riuscito a rifarsi una vita?

"Sì, ma ho dovuto farlo da solo, con le mie uniche forze. Certo, non mi aspettavo che poi sarebbe stato tutto gioioso e bello ma neanche che avrei dovuto riabilitarmi. Lo Stato è stato totalmente assente. Nessuno mi ha dato una sola chance nonostante io non avessi fatto nulla per meritare tutto quel dolore. Mi fa ancora male parlare di questa storia, tutte le volte è una tortura. Ma mi costringo a farlo perché ci sono tante persone che come me hanno subito un'ingiustizia. E magari posso essere uno sprone per qualcuno che non ha la forza di reagire".

Chi è oggi Raffaele Sollecito e cosa farà domani?

"Intanto, ho scritto due libri, uno pubblicato in Italia e uno negli Stati Uniti. Ho vari progetti in cantiere legati al settore in cui sono competente, ovvero, la tecnologia informatica. E poi un sogno che, se avessi avuto la possibilità economica, avrei già realizzato. Mi piacerebbe creare un'associazione per aiutare i detenuti a un percorso di riabilitazione sociale. Non si possono condannare le persone due volte. Tutti meritano una seconda chance".

Il duro j'accuse. Raffaele Sollecito: “La mia vita distrutta dai pregiudizi, assolto ma umiliato dallo Stato”. Angela Stella su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. Raffaele Sollecito aveva 23 anni quando per lui si sono aperte le porte del carcere: era il 6 novembre 2007 e vi è rimasto fino al 3 ottobre 2011. Mancava una settimana alla laurea e invece la sua vita fu stravolta in un attimo: sbattuto in prima pagina insieme alla sua fidanzatina dell’epoca, Amanda Knox, venne dipinto come il mostro che aveva sgozzato la studentessa inglese Meredith Kercher per un gioco erotico finito male. Sei mesi di isolamento, quattro anni di carcere, cinque gradi di giudizio per determinare la sua completa estraneità ai fatti. Il 27 marzo 2015 la Corte di Cassazione lo assolve definitivamente «per non aver commesso il fatto». Nonostante questo molti lo credono ancora colpevole e su di lui si è posato uno stigma sociale che fa fatica a scomparire. Persino tra noi giornalisti l’assoluzione non è bastata a riabilitare Raffaele: basti leggere l’articolo di Marco Travaglio, pubblicato il 29 marzo 2015, che continuava a sostenere che la «verità sostanziale» non è quella «processuale». Nel 2017, incredibilmente, a Sollecito è stato negato il risarcimento per ingiusta detenzione perché secondo i giudici sarebbe stato lui ad indurre in errore gli investigatori; successivamente ha deciso di fare causa ad alcuni magistrati che lo hanno accusato e condannato chiedendo oltre tre milioni di euro in virtù della legge sulla responsabilità civile dei togati che prevede cause «per dolo o colpa grave». Anche questa richiesta è stata respinta qualche settimana fa dal Tribunale di Genova.

Raffaele ancora una volta lo Stato le ha voltato le spalle.

«Gli avvocati che mi seguono in questo procedimento, Antonio e Valerio Ciccariello, faranno appello contro questa decisione del Tribunale di Genova. Lo Stato sta semplicemente seguendo la scia della credenza popolare: nella nostra cultura c’è purtroppo sempre l’idea che se vieni accusato qualcosa sicuramente hai fatto, anche se poi vieni assolto. Se non trovano le prove è solo perché sei stato bravo a nasconderle. Questo pregiudizio è alimentato sicuramente dai media che pubblicizzano le prove dell’accusa in maniera tendenziosa a favore di chi sta conducendo le indagini. Però spero che alla fine vengano fuori le responsabilità di chi si è macchiato di gravissime colpe come quella di aver distrutto per sempre la mia vita. Io non cerco vendetta, vorrei soltanto che le persone che hanno sbagliato si assumano le proprie responsabilità pubblicamente per onore della verità».

Vuole condividere con noi qualche punto che avete evidenziato nella vostra richiesta?

«Ce ne sono tantissimi, ma faccio qualche esempio in riferimento alla fase preliminare: dal momento in cui entrai in Questura mi fu impedito, da persona indagata del reato, di usare il cellulare per chiamare mio padre o un avvocato. Vi fu una errata interpretazione dei miei tabulati telefonici, così come dell’impronta della mia scarpa Nike che una errata perizia aveva dichiarato compatibile con una impronta trovata sulla scena del delitto; uno dei due computer che mi furono sequestrati e che avrebbe consentito una puntuale verifica del mio alibi fu, come dice la Cassazione, «incredibilmente bruciato da improvvide manovre degli inquirenti che ne causarono shock elettrico». Inoltre la mia difesa non ebbe a disposizione, al momento della conclusione delle indagini preliminari, tutti gli atti investigativi come previsto dalla legge, e ciò si protrasse almeno per tutta la fase dell’udienza preliminare; le modalità con cui furono analizzati il gancetto del reggiseno e il coltello da cucina, come anche sul punto stigmatizzato dalla Corte di Cassazione, rappresentarono totale e palese «violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali». E questo sarebbe un modo serio di condurre una indagine?»

Negli ultimi giorni alcuni giornali, a partire da “Repubblica”, hanno sollevato la polemica relativa alle esose parcelle degli avvocati, Bongiorno e Maori, che la hanno assistito nei processi precedenti.

«La parcella era chiara, gli avvocati mi hanno seguito per moltissimi anni e si sono spesi molto per me. Il problema non è il quantum della parcella, ma semmai il fatto che io non mi sono andato a cercare tutto il danno che ho subito. In questo lo Stato è stato totalmente assente».

La Cassazione quando vi ha assolti ha scritto che ci si è trovati davanti ad «un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose défaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine». Nonostante questo il vostro grande accusatore Giuliano Mignini, in un documentario Netflix, ha detto che «se Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono colpevoli e la giustizia terrena non li ha raggiunti» riconoscano «le proprie colpe perché da credente so che la vita finisce in un processo senza appelli, ricorsi per Cassazione né revisioni». Come risponde?

«La giustizia divina farà il suo corso anche per lui. È lui quello convinto di essere al di sopra degli esseri umani e che crede di giudicare persone senza conoscerle. Si fa in questo caso portavoce del padre eterno e ciò lo trovo esagerato se non ridicolo. Ricordo che il Csm lo sanzionò con la censura per come mi aveva negato di parlare con il mio avvocato, oralmente e non per iscritto come previsto dalla norma».

Lo Stato le ha anche negato il risarcimento per ingiusta detenzione perché in fondo è anche un po’ colpa sua se è finito in carcere, poteva difendersi meglio e non tentennare durante i primi interrogatori.

«Si tratta di un altro paradosso assurdo delle nostre leggi. Addirittura sul risarcimento per ingiusta detenzione viene chiamata a decidere la stessa Corte di Appello, anche se una sezione diversa, che mi aveva precedentemente condannato. Quei giudici tra le righe arrivano a dire che io non sarei dovuto essere assolto. Tutto questo non ha senso. Non è possibile che in questo Paese non importi a nessuno se alcuni giudici sbagliano e ti rovinano l’esistenza sbattendoti in carcere per quattro lunghi anni da innocente».

Raffaele, come è trascorsa la sua vita dopo la sentenza della Cassazione?

«Oggi (ieri, ndr) parlando con dei miei amici dicevo proprio questo: in Italia si discriminano gli immigrati, gli omosessuali, quelli dell’Europa dell’Est senza alcuna giustificazione, ma a causa del pregiudizio e delle generalizzazioni. Nella loro sfortuna queste persone possono però aggregarsi e combattere l’ingiustizia che stanno subendo. Io invece sono stato discriminato in perfetta solitudine e in silenzio. Due aziende mi hanno fatto firmare un contratto di assunzione salvo poi mandarmi via dicendomi di non poter gestire l’esposizione mediatica e di non poter associare il nome della società alla mia persona. Io non mi sono abbattuto e alla fine una azienda milanese che si occupa di welfare mi ha assunto. Ma la discriminazione è anche a livello sociale: sa quante persone alzano un muro verso di me per diffidenza o per non avere problemi collaterali a causa della mia vicinanza? E sa perché tutto questo?»

Mi dica.

«Perché lo Stato italiano prima mi ha assolto ma poi ha detto “alla fine te la sei andata un po’ a cercare” e ha lasciato dei dubbi sulla mia persona che poi, amplificati dai media, hanno fatto presa nell’opinione pubblica. Io questo non lo posso accettare perché io non mi sono andato a cercare proprio nulla: è una scusa che trovano per continuare ad umiliarmi come hanno fatto in questi anni, quasi una rivalsa, una ultima parola sulla mia vita. Forse sono antipatico a qualcuno o mi ritengono un personaggio scomodo».

Qualcuno ancora pensa che sull’assoluzione ha pesato la pressione degli Stati Uniti.

«Ricordiamoci che dopo l’assoluzione di secondo grado Amanda è tornata negli Usa: quindi quale pressione avrebbero dovuto fare sulla Cassazione visto che la loro concittadina ormai era su suolo americano? E poi queste pressioni sono provate da qualcuno? Il fatto è che gli Usa hanno difeso Amanda perché avevano capito che non c’erano prove contro di lei, al contrario lo Stato italiano continua a punirmi».

Anche la vita dei suoi familiari è stata profondamente stravolta da questa vicenda.

«Purtroppo è così. Mia sorella Vanessa, quando fui arrestato, era un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri e stava aspettando il passaggio automatico al servizio permanente. Dopo il mio arresto, intorno a lei si creò un clima strano, fu stigmatizzata e alla fine congedata. Dopo tanti anni ancora non riesce a trovare un lavoro. Spero che qualcuno possa darle una possibilità, così come è stata data a me».

Condannata l’ex capo della squadra Omicidi di Perugia a 3 anni e 3 mesi per accesso abusivo a sistema informatico e danneggiamento. Il Fatto Quotidiano il 17/9/2020. La poliziotta ricopriva quel ruolo, ha fatto notare Raffaele Sollecito, anche durante le indagini per l'omicidio di Meredith Kercher. La sua reazione: "E poi in aula dicevano che erano persone oneste ed encomiabili". Un esercizio del proprio potere per accertamenti arbitrari su una psicologa nominata dal tribunale in una controversia con il coniuge. Per questo l’ex capo della Squadra Omicidi della questura di Perugia, Monica Napoleoni, è stata condannata a 3 anni e 3 mesi di reclusione. La poliziotta ricopriva quel ruolo anche durante le indagini per l’omicidio di Meredith Kercher. Motivo che ha spinto Raffaele Sollecito, a lungo imputato e poi assolto dalle accuse insieme ad Amanda Knox, a commentare: “Capo della squadra omicidi quando indagarono nel caso Kercher… poi in tribunale per anni mi sono sentito dire che sono persone oneste ed encomiabili”. Napoleoni, come riporta Il Corriere dell’Umbria, era finita a processo con la collega Stefania Zugarini, ritenuta colpevole e condannata a 3 anni e 2 mesi. Secondo l’accusa, l’ex capo della Omicidi avrebbe esercitato il proprio potere per scopi personali: nello specifico, avrebbe effettuato due accessi abusivi al sistema informatico e sarebbe stata la mandante, insieme a Zugarini, di alcune scritte offensive davanti alle case della psicologa e del marito. Una contestazione, quest’ultima, dalla quale sono state assolte. Mentre il giudice ha sposato l’impianto accusatorio per quanto riguarda l’accesso abusivo. La sola Napoleoni è inoltre stata ritenuta colpevole del danneggiamento dell’auto della psicologa. Sollecito e Knox, che si sono sempre dichiarati innocenti, furono assolti dopo una lunga serie di processi che durò 7 anni, quasi quattro dei quali trascorsi in carcere. Arrestati il 6 novembre 2007 vennero entrambi condannati in primo grado. Il 4 ottobre del 2011 la sentenza di primo grado venne ribaltata dai giudici di appello di Perugia che li assolse. Aprendo dopo poco meno di quattro anni le porte del carcere ai due giovani. Knox era quindi tornata il giorno dopo negli Usa con la sua famiglia. L’assoluzione di Perugia venne però annullata dalla Cassazione per questioni procedurali. Il nuovo processo di secondo grado, a Firenze, terminò con una condanna di Knox e Sollecito. Ma il 27 marzo 2015 la Cassazione mise definitivamente fine al procedimento assolvendo i due “per non avere commesso il fatto”.

Egle Priolo per il Messaggero il 18 settembre 2020. Evidentemente aspettavano questo momento da anni. Da quando, nel 2013, la super poliziotta che li aveva arrestati nel 2007 era stata indagata per il complotto ordito contro una psicologa nominata dal tribunale dei minori nell'ambito di una controversia con il suo ex marito. E ora che Monica Napoleoni, ex capo della squadra Omicidi della questura di Perugia, per quella vicenda è stata condannata a 3 anni e 3 mesi, Raffaele Sollecito e Amanda Knox, condannati tre volte e poi assolti in via definitiva per l'omicidio di Meredith Kercher, si sono presi la loro rivincita via social. Alla notizia della condanna del sostituto commissario, Sollecito ha affidato a Facebook di prima mattina la sua rivalsa. «Capo della squadra omicidi quando indagarono nel caso Kercher ha scritto ieri -... poi in tribunale per anni mi sono sentito dire che sono persone oneste ed encomiabili». Un post che ha ottenuto oltre un centinaio di like e una decina di condivisioni, ma che ha fatto rumore soprattutto a Perugia, dove la storia della morte di Meredith è ancora una ferita aperta. Una storia vissuta in maniera quasi viscerale, con la fine della vicenda giudiziaria che non è mai stata del tutto digerita in città. Come Amanda non ha ancora digerito quell'arresto, arrivato cinque giorni dopo la morte della sua coinquilina, trovata accoltellata nella casa che le due giovani dividevano in via della Pergola. Chiamata in questura come persona informata sui fatti, fu arrestata insieme a Sollecito qualche ora dopo. «Nel suo libro ha twittato ieri in inglese la Knox pensando a quella notte - Raffaele ha descritto le minacce e gli abusi che subimmo da Monica Napoleoni. Ora lei e altre due poliziotte sono state condannate per simili abusi di potere in un altro caso». Più la chiusura in italiano: «Ve l'abbiamo detto». Amanda e Raffaele hanno sempre contestato le modalità di quell'arresto, parlando di minacce e «scappellotti in testa», della difficoltà di difendersi, soprattutto per la giovane americana che non capiva bene l'italiano. Accuse così pesanti, che venne indagata per calunnia e poi assolta. E chiaramente aspettava solo un ribaltamento della situazione per rinfocolare la sua rabbia. Anche se la recente condanna alla Napoleoni (e a due colleghe poliziotte, più alcuni carabinieri), poco ha a che fare con un'inchiesta per omicidio. Secondo la procura di Perugia, l'ex numero uno della Omicidi avrebbe danneggiato l'auto della psicologa e avrebbe fatto svolgere accertamenti arbitrari tramite il sistema informativo interforze per conoscere dati come indirizzo e targa della macchina della professionista. Accuse per cui si è sempre dichiarata innocente ma per cui è stata condannata in primo grado dal tribunale di Perugia, mentre è stata assolta per le scritte offensive che la psicologa aveva trovato sull'auto della figlia e vicino al suo ufficio. Una vicenda esplosa a febbraio 2013, quando Napoleoni venne indagata, ironia della sorte giusto pochi giorni prima che la Corte di cassazione riaprisse il processo Kercher, annullando l'assoluzione in appello dei due ex fidanzati. Che chissà cosa diranno se il secondo grado dovesse assolverla.

Iv. Por. per umbria24.it il 7 febbraio 2020. John Kercher, il padre di Meredith, è morto in ospedale tre settimane dopo un episodio misterioso su cui sta indagando la polizia inglese. Tre settimane fa era stato trovato vicino all’ingresso della sua casa, a Croydon, con molte ferite tra cui un braccio e una gamba rotta. Aveva 77 anni. A dare la notizia The Sun con cui l’uomo aveva a lungo collaborato come giornalista.

Morte inspiegabile. Un vicino di casa spiega che quel giorno c’era la nebbia, John era in un negozio dall’altra parte della strada. A un tratto la gente è uscita dal negozio e lui era a terra e non si ricordava niente. La polizia parla di «morte inspiegabile». Il sergente Steve Andrews della polizia di Londra dice: «Nonostante diverse investigazioni fatte, sentiti diversi testimoni, esaminati filmati di telecamere, non siamo stati ancora in grado di capire come si sia ferito. teniamo aperte tutte le ipotesi, compresa quella che sia stato coinvolto in un incidente. Chiunque abbia visto o sappia qualcosa ci contatti». Una delle spiegazioni è che potrebbe essere stato investito da un’auto poi fuggita.

Nuovo dramma. Un nuovo episodio tragico, dunque per la famiglia tristemente famosa per l’uccisione della figlia Meredith, a Perugia, il 1 novembre 2007, ancora senza colpevoli, eccezion fatta per Rudy Guede, che sta finendo di scontare il carcere dopo la condanna per concorso in omicidio. John era separato già allora dalla moglie Arline, con cui oltre a Meredith, ha altri due figli, Lyle e Stephanie. Tutti sono stati molte volte a Perugia per seguire le fasi delle indagini e il processo. Sempre ha colpito la compostezza e la dignità con cui hanno affrontato un dramma enorme. «Lo abbiamo amato tantissimo e ci mancherà moltissimo», afferma la famiglia in una nota sulla morte di John. 

Meredith Kercher, è morto il papà: trovato per strada con ferite multiple. Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Si è spento in ospedale il padre della studentessa britannica uccisa a Perugia nel 2007 (per l’omicidio assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito). Forse ucciso da un automobilista poi fuggito. Morto in circostanze «inspiegate»: il padre di Meredith Kercher, la studentessa britannica la cui uccisione nel 2007 a Perugia portò a processo Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è rimasto a sua volta ucciso senza che la polizia riesca a trovare una spiegazione. John Kercher, che aveva 77 anni, è stato trovato tre settimane fa riverso sul marciapiedi, poco distante da casa sua a Croydon, con ferite multiple: aveva una gamba e un braccio spezzati ma non ricordava nulla di cosa gli fosse successo. Portato in ospedale, è morto sabato scorso. Un vicino ha raccontato ai giornali inglesi: «È una cosa triste, era tanto un brav’uomo. Nessuno sa cosa sia veramente successo. Stava nel negozio di fronte, ne è uscito, e all’improvviso era per terra sul marciapiede con la gente attorno». «Nonostante le indagini che abbiamo condotto finora - ha comunicato la polizia - incluse le testimonianze e l’esame delle telecamere a circuito chiuso , non siamo stati in grado di stabilire come si sia procurato quelle ferite. Manteniamo aperte tutte le ipotesi». Una possibilità, tuttavia, è che Kercher sia stato investito da un’auto che è poi fuggita via. La sua figlia più giovane, Meredith, venne uccisa a 21 anni nel 2007 a Perugia,dove si trovava per un periodo di studio. In primo grado vennero condannati l’americana Amanda Knox e il suo fidanzato Raffaele Sollecito, entrambi poi assolti in appello. Il caso ebbe un’eco enorme non solo in Italia ma anche in Gran Bretagna e in America, facendo di Amanda una celebrità.

Morto il padre di Meredith Kercher, la studentessa uccisa a Perugia. L'uomo, 77 anni, era rimasto vittima di uno scippo ed era stato trascinato per terra riportando diversi traumi. Enrico Franceschini il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Il destino continua ad accanirsi contro la famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata a Perugia nel 2007 in un delitto rimasto parzialmente irrisolto. Suo padre, John Kercher, 77 anni, è morto dopo un incidente dalle circostanze ancora misteriose avvenuto a pochi passi da casa, a Croydon, un sobborgo a Sud di Londra. L'uomo è stato ritrovato a terra, con multiple fratture al corpo e alla testa: ricoverato in ospedale, è deceduto dopo alcuni giorni. Il fatto risale a tre settimane fa, ma i familiari ne hanno dato notizia soltanto ora. La polizia ha aperto un'inchiesta trattando l'episodio come una "morte sospetta", di cui i responsabili restano al momento ignoti. Un'ipotesi circolata da Scotland Yard è che Kercher senior sia rimasto vittima di uno scippo: sarebbe stato spinto violentemente a terra durante una colluttazione. Un'altra è che sia stato investito da un'auto che ha sbandato, lo ha colpito e poi si è allontanata senza prestare soccorso, forse perché il conducente era ubriaco. In entrambi i casi si configura come minimo il reato di omicidio involontario o a scopo di furto: per questo le forze dell'ordine chiedono a chiunque si trovasse nelle vicinanze e ha visto qualcosa di farsi avanti e testimoniare. Come che sia, un nuovo giallo turba una famiglia già gravemente colpita dall'assassinio di Meredith. Il "delitto di Perugia", come è stato a lungo chiamato, ha avuto una spiegazione soltanto parziale dopo l'assoluzione in appello dei due principali imputati, l'italiano Raffaele Sollecito e l'americana Amanda Knox, amici e co-inquilini della 21enne Meredith, giudicati colpevoli in prima istanza e quindi assolti in terzo grado al termine di un controverso iter giudiziario. Solo colpevole, ancora in carcere seppure con misure di semi-libertà, è Rudy Guede, condannato a 16 anni per concorso in omicidio, sebbene i suoi complici non siano stati identificati. Chissà se il mistero sulla morte di suo padre troverà una soluzione più chiara.

Morto il papà di Meredith Kercher: trovato per strada ferito. Morto il papà della studentessa uccisa a Perugia nel 2007. Tre settimane fa era stato trovato per strada con ferite multiple. La polizia: "Morte inspiegata". Francesca Bernasconi, Venerdì 07/02/2020, su Il Giornale. È morto in circostante "inspiegate" il padre di Meredith Kercher, la studentessa britannica che venne uccisa a Perugia nel 2007. L'uomo era stato soccorso tre settimane fa, poco distante dalla sua casa, con ferite multiple, e lo scorso sabato è deceduto in ospedale.

Le indagini. Tre settimane fa, John Kercher, 77 anni, era stato trovato riverso su un marciapide di Croydon, a sud di Londra, con ferite multiple, oltre a un braccio e a una gamba rotti. L'uomo, che non ricordava cosa potesse essergli successo, era stato portato in ospedale, ma lo scorso sabato è morto. Un vicino di casa ha raccontato al Sun che quel giorno, John Kercher "stava nel negozio di fronte, ne è uscito, e all’improvviso era per terra sul marciapiede con la gente attorno". Il vicino descrive il papà di Meredith come "un brav’uomo" e sostiene: "Nessuno sa cosa sia veramente successo". Anche la polizia, infatti, non è riuscita a dare una spiegazione alla morte del 77enne: "Nonostante le indagini che abbiamo condotto finora - hanno comunicato le forze dell'ordine - incluse le testimonianze e l’esame delle telecamere a circuito chiuso, non siamo stati in grado di stabilire come si sia procurato quelle ferite. Manteniamo aperte tutte le ipotesi". Una delle piste è che John Kercher sia stato investito da un'automobile, poi fuggita.

Il delitto di Meredith. La figlia più giovane di Jhon, Meredith Kercher, venne assassinata all'età di 21 anni, il primo novembre del 2007, mentre si trovava a Perugia, per un periodo di studio. Per il delitto erano stati arrestati e condannati la sua coinquilina Amanda Knox e il fidanzato Raffaele Sollecito. Entrambi, però, erano stati assolti in Cassazione nel 2015. L'unico condannato per la morte di Meredith è, ad oggi, Rudy Guede, che sta finendo di scontare i 16 anni di carcere per concorso in omicidio a cui era stato condannato in appello.

·         Solita Amanda.

Il tweet choc di Amanda Knox: "Gli Usa? Mai peggio dell'Italia". Amanda Knox punta il dito contro l'Italia: "Qualunque cosa accadrà, sempre meglio dei miei quattro anni passati in Italia". E su Twitter scoppia la polemica. Rosa Scognamiglio, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. "Qualunque cosa accada, i prossimi quattro anni non saranno mai peggio dei quattro anni di studio che ho fatto in Italia, giusto?". È il contenuto choc del tweet battuto da Amanda Knox, nota alle cronache per l'omicidio di Meredith Kercher, che non si è lasciata sfuggire la ghiottissima occasione dell'Election Day negli Usa per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. La sortita della 33enne di Seattle, ex coimputata nel delitto di Perugia (nel 2015 è stata assolta in via definitiva dall'accusa di concorso in omicidio con Rudy Guede e Raffaele Sollecito per "non aver commesso il fatto") è apparsa decisamente fuori luogo. Lo ha notato persino il popolo di Twitter che non ha mancato di replicare al cinguettio dell'americana tra il serio e il faceto. Sotto al post della Knox, infatti, è caduta imminente una pioggia di commenti impietosi."Sei ubriaca?", ha domandato un follower; "Vedo che hai del tempo da ammazzare..." retwitta un altro con tono sarcastico. "Non sono sicuro che i nostri cittadini neri sarebbero d'accordo", è la sentenza severa dell'ennesimo internauta. Lo sfottò (o presunto tale) non ha incontrato il favore del pubblico tanto da ingenerare una polemica senza precedenti. "Sinceramente ho bellissimo ricordo dei mesi trascorsi a Perugia'' scrive un ragazzo."Scommetto che cancellerà il tweet prima di domani", garantisce una giovane follower. Poi, il commento che sigla definitivamente la bagarre:"Certo, la persecuzione di massa di neri, musulmani, latinos e LGBTQ impallidisce rispetto alle tribolazioni di una sola donna bianca...". Non è certo la prima volta che la Knox punta il dito contro l'Italia. In una intervista del 2017 al giornale Rolling Stone, l'americana aveva detto a proposito del Belpaese: "La Corte europea per i diritti umani ha accolto il ricorso. Ma sono ancora in attesa di conoscere il verdetto. Ho denunciato, in particolare, il fatto di avermi negato il diritto di avere un avvocato, di avermi colpita durante gli interrogatori e per il fatto che tutto ciò che è accaduto si ripercuote sulla mia intera vita. Spero che il Tribunale lo capisca. Non c'è alcuna garanzia che l'Italia riconosca che quello che ha fatto è sbagliato, ma almeno sarei felice se venisse stabilito che ciò che è accaduto in quella stanza non era legale. Mi interrogarono per oltre 53 ore in cinque giorni. Il risultato fu che l'interrogatorio finì nel modo sbagliato che tutti abbiamo visto. Non mi lasciavano uscire senza che affermassi qualcosa che includesse il nome di qualcuno. Questa cosa insana di estorcere false confessioni è molto comune. Non c'è alcun bisogno di colpire le persone o di molestarle verbalmente e psicologicamente. C'è un motivo se tutto ciò è definito illegale. Ero una ragazza di 20 anni senza precedenti con la giustizia e con un livello di italiano pari a quello di un bambino di 10 anni".

Amanda Knox attacca la giustizia italiana e Trump. Torna a parlare la ragazza a lungo tempo sospettata di essere l'assassina di Meredith Kercher. E attacca la giustizia italiana e Trump. Andrea Riva, Domenica 13/08/2017 su Il Giornale. Torna a parlare Amanda Knox, la ragazza statunitense che nel 2015 è stata scagionata per l'omicidio di Meredith Kercher. In un'intervista a Rolling Stone, la Knox è tornata a parlare del processo che l'ha coinvolta, puntando il dito contro il nostro Paese: "La Corte europea per i diritti umani ha accolto il ricorso. Ma sono ancora in attesa di conoscere il verdetto. Ho denunciato, in particolare, il fatto di avermi negato il diritto di avere un avvocato, di avermi colpita durante gli interrogatori e per il fatto che tutto ciò che è accaduto si ripercuote sulla mia intera vita. Spero che il Tribunale lo capisca. Non c'è alcuna garanzia che l'Italia riconosca che quello che ha fatto è sbagliato, ma almeno sarei felice se venisse stabilito che ciò che è accaduto in quella stanza non era legale. Mi interrogarono per oltre 53 ore in cinque giorni. Il risultato fu che l'interrogatorio finì nel modo sbagliato che tutti abbiamo visto. Non mi lasciavano uscire senza che affermassi qualcosa che includesse il nome di qualcuno. Questa cosa insana di estorcere false confessioni è molto comune. Non c'è alcun bisogno di colpire le persone o di molestarle verbalmente e psicologicamente. C'è un motivo se tutto ciò è definito illegale. Ero una ragazza di 20 anni senza precedenti con la giustizia e con un livello di italiano pari a quello di un bambino di 10 anni". Ma la Knox ha parole molto dure anche nei confronti del presidente americano Donald Trump: "Lo ringrazio per avermi aiutata, ma il modo in cui il gesto è stato interpretato nei tribunali italiani avrebbe potuto danneggiarmi moltissimo. Non è sembrata una difesa ma una sorta di bullismo, di arroganza da parte degli americani nei confronti degli italiani. Come se gli americani si sentissero in diritto di dire agli italiani cosa fare. Avrei preferito che Trump avesse agito con maggiore prudenza. Sono molto preoccupata per il suo governo. Credo che il cambiamento climatico sia un problema mondiale e che non stiamo offrendo un buon servizio chiamandoci fuori dalla partita dell'energia pulita, che rappresenta il futuro. E' sconcertante sapere che siamo tornati all'era del carbone. Senza parlare dei passi indietro che stiamo facendo sulla discriminazione".

Amanda Knox posta un selfie con la tuta usata in carcere a Perugia. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it. Amanda Knox, 32 anni, mostra su Instagram in un selfie allo specchio gli abiti che ha indossato quando stava in carcere a Perugia. L’ex studentessa, presa dai preparativi per il matrimonio in programma il 28 febbraio, pubblica l’immagine dalla stanza hobby nella casa di Seattle e a corredo dello scatto scrive: «Mancano 40 giorni dalle nozze e rimangono 267 cose da fare. Mi sono chiusa nella sala hobby e indosso la mia vecchia “divisa da prigione”. Letteralmente la stessa maglia e gli stessi pantaloni indossati nella Casa Circondariale Capanne, Perugia». Il look, ovviamente non è una vera divisa da prigione, come la chiama lei, ma è l’abbigliamento che ha portato in cella. E ad alcuni il post è apparso provocatorio, più che altro per il braccio alzato con il pugno, simbolo di forza, di chi riesce in un proposito. Della serie: ce l’ho fatta. La ragazza, accusata dell’omicidio di Meredith Kercher avvenuto a Perugia nel 2007, ha passato 4 anni in carcere ed è stata prosciolta definitivamente dalle accuse. Ora, si sta preparando per andare all'altare.

A un mese dalle nozze, la 32enne di Seattle posta sul suo profilo social un look da detenuta: quello della sua vecchia uniforme della prigione di Capanne a Perugia. La Repubblica il 21 gennaio 2020. Berretto, pantaloni della tuta grigi, un maglione blu a fantasia e un sorriso provocatorio. "Rimangono 40 giorni al matrimonio e 267 cose da fare dal mio elenco. Mi sono chiusa nello studio e ho indossato la mia vecchia divisa da prigione. Letteralmente la stessa felpa e pantaloni della tuta con cui vivevo nel carcere Capanne e Perugia". Il post è di Amanda Knox, la 32enne di Seattle, assolta in via definitiva nel 2014 per l'omicidio di Meredith Kercher dopo aver trascorso 4 anni in carcere a Perugia. Tanti i commenti aI selfie. I più frequenti suomnano tipo: "Ne hai fatta di strada da allora. Stai molto meglio. Anche il sorriso". Era il primo novembre 2007 quando la studentessa inglese di 22 anni, Meredith Kercher, fu trovata con la gola tagliata, nella casa che divideva con Amanda in via della Pergola, a Perugia. Knox e l’allora fidanzato Raffaele Sollecito furono arrestati e condannati ma successivamente assolti con sentenza definitiva. Il solo accusato dell’omicidio in concorso con ignoti, fu Rudy Guede, condannato a 16 anni e ora in semilibertà. Knox si sposerà con lo scrittore Cristopher Robinson, con cui posa quasi ogni giorno su Instagram, dopo avere annunciato il suo fidanzamento nel novembre 2018 condividendo un video della sua proposta. Lei e Robinson hanno avviato una raccolta fondi quest'estate per pagare il matrimonio, che sarà a tema fantascienza. Da quando è tornata a casa, ha scritto un libro di memorie e partecipato a un documentario sul suo caso in onda su Netflix.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Tso: Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Da liberoquotidiano.it il 17 agosto 2020. Vittorio Feltri "celebra" a suo modo la legge 180 del 1978, l'epocale riforma ideata dallo psichiatra Franco Basaglia che portò alla progressiva chiusura dei manicomi. Una rivoluzione copernicana che da un lato ha dato dignità ai malati, non più considerati dei reietti dalla società, dall'altro riformando la struttura ospedaliera ha creato ricadute spesso problematiche per le famiglie degli stessi malati, che spesso si sono dovute sobbarcare l'onere di provvedere alla salute dei loro cari per colmare il vuoto lasciato dallo Stato. Tra il serio e il faceto, il direttore di Libero la butta in politica: "Lo psichiatra Basaglia - scrive Feltri su Twitter - chiuse i manicomi e si dimenticò di curare i matti, i quali ora si rifugiano nei partiti politici". A giudicare dalle tarantelle di questi anni, come dargli torto.

Libro del giorno: Basaglia, la psichiatria gentile. Ansa il 28/8/2020. MARIO COLUCCI e PIERANGELO DI VITTORIO, "FRANCO BASAGLIA" (ab Alphabeta; 333 pag; 16 euro). Durante la guerra una bomba era caduta sul manicomio di Ancona e la maggior parte dei malati era fuggita, ma nessuno ebbe il tempo di capire dove fossero i matti. Soltanto finito il conflitto qualcuno cominciò a chiedersi dove erano finiti. Molti non furono trovati ma alcuni lavoravano vicino al manicomio, come qualsiasi altra persona. L'episodio - semplice, elegante e folgorante - fu raccontato nel 1979 da Franco Basaglia a Rio de Janeiro nell'ambito di un ciclo di conferenze e sintetizza l'ipotesi che un'altra psichiatria era possibile. Lui il suo obiettivo principale - chiudere i manicomi - lo aveva già raggiunto l'anno prima, nel 1978, con la promulgazione della nota Legge 180, lasciando il mondo a bocca aperta. L'esperienza dello psichiatra veneziano, la sponda politica trovata a Trieste nell'amministrazione provinciale di Zanetti, il suo calibro di intellettuale e i rapporti internazionali che aveva intessuto sono il tema di "Franco Basaglia", la prima biografia sullo studioso che lo psichiatra Mario Colucci e il filosofo Pierangelo Di Vittorio, che a Trieste da decenni, stimolati da un giovane psicanalista di nome Massimo Recalcati e sotto la supervisione della moglie di Basaglia, Franca Ongaro, pubblicarono nel 2001. Quest'anno, in occasione dei 40 anni della scomparsa di Basaglia, la ab Alphabeta Verlag la riedita aggiornata nel corpus di note e arricchita di quanto sull' argomento è stato pubblicato negli ultimi venti anni e di una introduzione dello psichiatra teorico Eugenio Borgna, oggi novantenne. Quel Basaglia nell'arco di pochi anni - praticamente cacciato da Padova e operando tra Gorizia, Parma e Trieste - stimolato dalla fenomenologia di Minkowski, e dal confronto con Sartre, Foucault (Storia della follia), Goffman (Asylums), Fanon, aveva bruciato le tappe e superato perfino il collega inglese, Maxwell Jones, che, insistendo sulla possibilità di un trattamento diverso odei malati di mente che non contenzione, privazioni, isolamento, sembrava all'avanguardia. In Inghilterra come in Francia in quegli anni si stava trasformando il rapporto tra medico e paziente. Una antica tradizione: nel 1839 per la prima volta John Connolly aveva aperto le porte dell'ospedale psichiatrico ed eliminato i mezzi di contenzione fisica. Tracce episodiche di comprensione del fenomeno. E' così che oggi, come indica proprio Borgna, "la psichiatria che è possibile fare in Italia è la migliore delle psichiatrie possibili: è l'eredità che ci ha lasciato Basaglia". Questa ha fatto da traino a tutta la psichiatria, dandole connotati di "gentilezza e umanità". Lo psichiatra veneziano si impadronì dell'intuizione fenomenologica di Husserl della epoché, sospensione del giudizio, per trascurare la diagnosi e concentrarsi sull'uomo malato di mente prima che sul paziente. "La posizione di Basaglia è 'intenibile', non intendeva riformare ma distruggere i manicomi e aprire i servizi", racconta oggi Colucci. "Un medico con un paziente esercita un potere, questo spesso si dimentica con la scusa terapeutica, bisogna invece entrare in relazione, ma è più faticoso che non usare farmaci e coercizione. Oggi i giovani non hanno pazienza e non hanno nemmeno tempo. C'è la medicalizzazione della società, della psichiatria, non si capisce che il tema non è limitato alla scienza", indica. Ma come si trasmette l'eredità di Basaglia senza renderla monumento? "Va contaminata con altre discipline. Chi arriva qui oggi a Trieste nemmeno sa cosa sia accaduto qua. Quando, arrivati a Trieste, proponevamo seminari su Basaglia c'era sorpresa e interesse, parlavamo di Basaglia come un autore, sembrava una cosa sacrilega". (ANSA).

Antonio Stella per il Corriere della Sera" il 17 agosto 2020. Che cos' è rimasto, del «Dottore dei matti»? Sono passati quarant' anni dal calvario dell'agosto 1980 in cui Franco Basaglia si spense fiato dopo fiato, incurabile, nella sua casa nel sestiere di San Marco il giorno 29. «Tantissimi lo hanno letto, tanti lo hanno conosciuto, tanti lo hanno amato e tanti lo hanno anche odiato, perché in maniera semplice, bonaria, ironica questo veneziano aveva ribaltato un mondo», scrisse «Lotta Continua». Ribaltato come? Nel modo giusto o sbagliato? Polemiche roventi. Nel mondo intero. Per decenni. Con diffusi rimpianti per come era «prima». Uno solo, però, può essere il punto di partenza per cercare di capire: che cos' erano i manicomi. «Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla nuda terra. Molti eran del tutto ignudi, varj coperti di cenci, altri in ischifosi stracci avvolti; e tutti a modo di bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano», scriveva nel 1824 (come ricorderà Leonardo Sciascia sul «Corriere») l'illuminato palermitano Pietro Pisani. Solo residui medievali? No. Un secolo e mezzo dopo, nel 1971, il verbale dell'ispezione della Commissione d'inchiesta al Santa Maria della Pietà di Roma spiega: «Ci sono bambini legati con i piedi ai termosifoni o ai tubi dell'acqua, scalzi, seminudi, sdraiati per terra come bestioline incapaci di difendersi, sporchi di feci, dovunque un lezzo insopportabile». «Non esistevano limiti d'età per il ricovero in manicomio: era sufficiente un certificato medico in cui si dichiarava che il bambino era pericoloso per sé o per gli altri», si legge nel web-doc Matti per sempre di Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala. «Dal 1913 al 1974 nel manicomio di Roma sono stati internati 293 bambini con meno di 4 anni e 2.468 minori tra i 5 e i 14 anni. In tutto 2.761 piccoli». Tre lustri ancora e il «Corriere» pubblica un reportage di Felice Cavallaro sull'Ospedale psichiatrico di Reggio Calabria: «Dormono con la schiena che sfiora il pavimento. Sprofondano giù perché le reti sono bucate al centro, corrose dalla pipì che con gli anni ha sciolto la maglia metallica. I materassi sono ormai sfoglie di gommapiuma sudicia. Di lenzuola nemmeno a parlarne. Puzzano anche le coperte. Tutto emana il fetore della morte in queste camerate dove quattrocento persone aspettano la fine come fossero animali». È il 1987. La chiusura di quei gironi d'inferno è già stata decisa, sulla carta, da una decina di anni. Eppure troppe infamie, insopportabilmente troppe, sono rimaste come prima. Nel plumbeo mutismo sociale denunciato quasi un secolo prima da Anton Cechov ne L'uva spina : «Evidentemente l'uomo felice si sente bene solo perché i disgraziati portano il loro fardello in silenzio, e senza questo silenzio la felicità sarebbe impossibile. È un'ipnosi generale». Occhio non vede, cuore non duole, scandalo non urla. È questo silenzio assordante a venire fracassato da Franco Basaglia. Nato a Venezia nel 1924, laureato nel 1949, specializzato in malattie mentali nel '52, l'anno dopo sposa Franca Ongaro, che gli darà due figli e sarà la compagna di mille battaglie. Frustrato dall'accademia («Direi che tutto l'apprendimento reale avviene fuori dall'università. (...). Io sono entrato nell'università tre volte e per tre volte sono stato cacciato», racconterà in una delle Conferenze brasiliane ), si immerge nel primo manicomio a Gorizia nel 1962: «C'erano cinquecento internati, ma nessuna persona». Ovunque «vi era un odore simbolico di merda». Uno spazio nero dal quale trasse l'«intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l'istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese». Guerra totale: «L'università, da quando io mi sono laureato, ha protetto in maniera reazionaria e fascista gli ospedali psichiatrici. Non si è mai levata una voce, se non nei congressi, a dire che bisogna cambiare questa legge, ma nessun professore universitario si è sporcato una mano all'interno dei manicomi. Il professore universitario ha sempre avuto le mani pulite, amministrando l'insegnamento davanti ai letti d'ospedale, dicendo: questo è schizofrenico, questo è maniaco, questo è isterico». Era insopportabile, agli occhi di chi veniva ferito da quei giudizi. Ribelle. Martellante. Cocciuto. Eppure, lavorando ventre a terra a Gorizia, Colorno, Trieste e Roma, scrivendo uno dopo l'altro, da solo o con Franca, libri ovunque amatissimi o contestatissimi, tenendo conferenze da Berlino a São Paulo, sfondando in tv con una celebre intervista di Sergio Zavoli («Le interessa più il malato o la malattia?», «Decisamente il malato»), riuscì in pochi anni febbrili a mettere in crisi l'idea del manicomio in mezzo mondo e a spingere il Parlamento italiano a cancellare le norme stravecchie del 1903 e votare il 13 maggio 1978 (cinque giorni dopo l'uccisione di Aldo Moro...) la «sua» legge 180. Stesa materialmente dallo psichiatra e deputato democristiano, Bruno Orsini, e incardinata sulla chiusura (progressiva) dei manicomi e la cura dei pazienti non più «detenuti» in realtà il più possibile piccole e aperte. Il tutto nel nome di un'idea: «Io non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia». Un'utopia. Generosa ma irrealizzabile, quindi pericolosa, saltarono su gli avversari. Su tutti lo psichiatra e scrittore Mario Tobino: «Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamano i novatori, per inserirsi sono già in galera, in prigione, arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggeva, li consigliava, gli impediva. Nessuno li manteneva con amorevolezza e fermezza, li conduceva per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c'è, non esiste, deriva dalla società. Evviva!». E il dubbio su quella legge inquietò via via perfino molti che l'avevano definita «sacrosanta». Come il deputato e poeta comunista Antonello Trombadori. Che in una sofferta intervista a Giampiero Mughini raccontò la sua tragedia personale: «Non sono in grado di soccorrere la persona che più amo al mondo». La figlia disabile: «La 180 prevede due soluzioni per chi soffre di mente: o il nulla o il manicomio criminale, riservato a quelli che ammazzano». Era disperato, Trombadori. E furente coi «fanatici khomeinisti» che secondo lui difendevano l'«intangibilità» della legge: «Io dubito che Franco Basaglia, se fosse ancora vivo, approverebbe il loro operato. Forse direbbe, come già aveva fatto Marx, " Je ne suis pas basaglien "». Questo è il nodo. Nel momento chiave in cui la riforma avrebbe dovuto esser messa in pratica, il «Dottore dei matti» (titolo della biografia di Oreste Pivetta), non c'era più. Cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? «Certo non avrebbe accettato che quella svolta fosse tradita», mastica amaro Peppe Dell'Acqua, discepolo e amico: «Lui aveva fatto proposte precise, suggerito soluzioni, indicato percorsi pratici. La stessa chiusura dei manicomi non fu affatto immediata. Di rinvio in rinvio arrivò vent' anni dopo. C'era tutto il tempo per fare le cose per bene. E qua e là sono state anche fatte. Ma dov' era lo Stato? Dov' erano le Regioni? Dov' erano le aziende sanitarie?» La risposta è nel dossier della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del 2010. Spiegava il presidente, Ignazio Marino: «Se chi è internato in un ospedale psichiatrico giudiziario è lì per essere curato, abbiamo trovato un fallimento totale. In media possiamo calcolare che ciascun paziente abbia contatti con uno psichiatra per meno di un'ora al mese...». Dalla svolta erano già passati trent' anni.

"Tutto chiede salvezza" nel reparto psichiatrico. Mencarelli racconta una settimana di TSO e dona una profonda riflessione su vita e fede. Alessandro Gnocchi, sabato 29/02/2020 su Il Giornale. La vita è un oggetto contundente. Per tutti ma per qualcuno di più. Daniele, il ventenne protagonista di Tutto chiede salvezza (Mondadori) di Daniele Mencarelli, finisce in Trattamento sanitario obbligatorio per un tentato suicidio finito in uno scoppio d'ira incontenibile. Siamo dunque nel reparto psichiatrico di un piccolo ospedale di provincia, dove la lingua ufficiale è il romanesco. Per i corridoi si aggirano malati più o meno gravi, per una settimana almeno costretti a condividere uno spazio piccolo, sei letti per ogni stanza, in contatto continuo con la propria malattia, nella testa, ma anche in contatto continuo con la malattia altrui. Una porta chiusa a chiave consente incontri limitati con amici e parenti, ma non è solo la chiave a chiudere dentro i pazienti, sono anche l'imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa. Daniele ha un'arma segreta, la poesia, che coltiva in silenzio, lontano da occhi indiscreti, anche se finirà col leggerla ai suoi nuovi, occasionali amici, un pubblico più ricettivo di quello deputato a giudicare i versi per motivi professionali. Non bisogna dimenticare gli infermieri e i medici, anche loro sono chiusi dentro alle vite dei malati, convivono con il dolore e devono proteggersi, può essere un apparente cinismo, un disinteresse simulato o reale. C'è Mario, il maestro, che ha cercato di uccidere moglie e figlia, incomprensibile, proprio lui, un concentrato di umanità e saggezza, innamorato dell'uccellino nel nido appena fuori dalla finestra. C'è Gianluca, un travestito che passa dall'entusiasmo alla disperazione, basta la parola giusta o quella sbagliata. C'è Giorgio, un omone che rivive ogni giorno la morte della madre, e l'impossibilità di darle un ultimo saluto. Grande, buono eppure preda di raptus violenti. Poi ci sono quelli che rifiutano completamente il mondo, quelli rinchiusi tre volte: dentro il reparto, dentro la stanza e dentro se stessi. Uno parla solo con la Madonnina, l'altro fissa un punto indefinito del muro, tutto il giorno, tutti i giorni. Daniele è bipolare. Un disturbo grave, amplificato dal consumo di droghe. Il bipolare è bianco o nero. Quando uno è bianco pensa solo alla bellezza, alla felicità, al piacere. Quando uno è nero pensa solo alla morte. Ogni bipolare ha la certezza che sarà inghiottito dal nero. Per questo farebbe di tutto per restare bianco. Lo sforzo per rimanere in vetta è troppo stressante. Alla fine, il bipolare si butta nell'abisso o fa in modo che le circostanze lo spingano nel vuoto. Ma Daniele è davvero così malato o vive con pericolosa intensità sentimenti che proviamo tutti? La sua malattia si cura solo con i farmaci, è solo una questione di recettori della serotonina, come se l'uomo fosse una macchina con ingranaggi di carne, ne ripari uno e stop, il dolore finisce? Il problema di Daniele è lasciarsi ferire troppo dalla realtà, dalla sua illogicità, imprevedibilità, tragicità. Daniele vorrebbe chiedere salvezza per tutti: salvezza dalla morte, dal dolore, dall'infelicità, dalle delusioni. Una terapia, forse, può cancellare questo modo di vedere le cose. Ma la vera pazzia non sarà proibirsi di cedere almeno un po', almeno qualche volta? Non è questo che fa di noi uomini e non robot funzionali alle richieste della società: produrre, consumare, crepare? C'è tanta religiosità in questo libro, a partire dal titolo e dal ricorrere della parola chiave, salvezza. A volte, un reparto psichiatrico può essere la salvezza, non solo per le cure ricevute. Si crea una forte solidarietà tra i pazienti, perfino con quelli che non conosci o non puoi conoscere perché sono catatonici. Perché? La risposta è il grande insegnamento di questo libro prezioso. A un certo punto, ogni discorso viene meno. È il momento in cui ci si presenta disarmati di fronte alla vita. Questa ammissione di impotenza, che è anche richiesta di aiuto, è una prima forma di preghiera, ed ecco i matti che, davanti alla tragedia, Mario che cade dalla finestra, si trovano in ginocchio, a invocare l'aiuto di un Dio nel quale neppure credono. C'è una frase, molto vera, di uno psichiatra: «Dio è un po' come un alfabeto, qualcuno te lo deve insegnare». Sì, la fede può arrivare improvvisa come l'amore, è un colpo di fulmine. Ma poi bisogna imparare a coltivarla, non si crede mai una volta per tutte, quando diciamo credo intendiamo mi sforzo ogni giorno di credere. Restano i dubbi, le contraddizioni: perché è un dono, la vita, a schiacciarci il muso a terra? Tutto chiede salvezza non è la storia di una conversione, nessuno diventa credente, ma è pervaso dalla più alta forma di fede.

Daniele Mencarelli, nato a Roma nel 1974, noto soprattutto come poeta, con questo romanzo, il secondo dopo La casa degli sguardi (Mondadori) non ha paura di cedere ai sentimenti ma non al sentimentalismo e si afferma come uno degli scrittori da leggere in questo inizio secolo.

Massimo Sanvito per “Libero quotidiano” il 20 gennaio 2020. C' è il ragazzo schizofrenico che urla frasi sconnesse in preda alle allucinazioni. Si sveglia tutto il condominio per il gran baccano, ma i suoi genitori - che ne hanno passate di cotte e di crude - sanno come muoversi rapidamente in queste circostanze. Chiamano lo psichiatra che da anni segue il figlio e aspettano che il sindaco emani l' ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio (Tso). C' è anche il tossicodipendente con problemi psichici che esce di testa perché in crisi d' astinenza. Cerca la droga in ogni cassetto, sbraita, delira. Rischia di diventare violento con chiunque gli capiti a tiro e l' unica soluzione diventa il ricovero coatto. Poi c' è anche la ragazzina che convive da tempo con gravi disturbi dell' umore e decide di farla finita. Minaccia il suicidio, non vuole parlare con nessuno e si rifiuta pure di bere e mangiare. Viene caricata sull' ambulanza e portata in ospedale: la famiglia, nonostante la situazione complicata, può tirare un sospiro di sollievo. I "matti da legare", in Italia, diminuiscono anno dopo anno, ma restano comunque tanti. Stando ai dati del ministero della Salute, nel 2017 (ultimo dato disponibile) sono state 8.476 le persone sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. In cima al podio delle regioni col più alto numero di ricoveri c' è la Sicilia (1.264), seguita dalla Lombardia (1.011) e dall' Emilia-Romagna (950). A parte le province autonome di Trento e Bolzano e le regioni più piccole, Liguria e Toscana sono quelle che fanno registrare meno casi: rispettivamente 226 e 230. Certo, nel 2010 i ricoveri furono 10.812 e il calo è evidente. Ma ciò non significa che le patologie mentali siano destinate a scomparire, semplicemente col passare degli anni i territori riescono a prevenire le situazioni più urgenti e soprattutto si tende a ricorrere sempre meno al Tso. Ovviamente questo è positivo perché significa che i pazienti psichiatrici sono più seguiti e quindi meno soggetti a complicazioni. Ma non sempre è così. «La tendenza a ricorrere sempre meno ai trattamenti può anche presentare degli svantaggi. Spesso si rischia di non intervenire in casi gravi che in seguito, dopo 10/15 giorni, presentano dei peggioramenti. I recenti tragici episodi hanno spinto gli psichiatri a essere più attenti, mentre in passato si applicava il Tso più facilmente perché era visto come una sorta di garanzia per il paziente», spiega Enrico Zalanda, presidente della Società Italiana di Psichiatria e Direttore del Dipartimento di Salute Mentale Asl Torino 3.

Ma come funziona il trattamento sanitario obbligatorio? La legge del '78 prevede innanzitutto che ci sia una condizione patologica grave che richieda un intervento urgente e che questo venga rifiutato dal paziente. E se non ci sono altre possibilità terapeutiche, allora si ricorre al ricovero coatto in ospedale contro la sua volontà. Sono necessarie due certificazioni mediche, la prima di un dottore qualsiasi e la seconda di convalida generalmente di uno psichiatra dell' Asl. Poi tocca al sindaco firmare l' ordinanza per il via libera al trattamento sanitario. I "matti" vengono quindi portati nei reparti di psichiatria e lì ci rimangono - senza poter uscire - per sette giorni, a meno che sia necessario prolungare il Tso con un nuovo provvedimento del primo cittadino o che il paziente vada dimesso in anticipo. «Principalmente si tratta di persone di sesso maschile, dal punto di vista psicopatologico facilmente maniacali, con scompensi psicotici e che associano sostanze stupefacenti ai problemi psichici. In ospedale si procede con la diagnosi e parte la terapia. Se il paziente è agitato viene sedato e in casi estremi è necessario anche l'intervento dell' anestesista per la somministrazione dei farmaci. Una volta che torna in grado di relazionarsi con gli altri, si parla, ci si confronta e si comincia a capire il perché dell' intervento», spiega ancora il professor Zalanda. Nel corso degli anni non sono mancati episodi tragici e controversi. I rischi, inutile negarlo, esistono. Soprattutto quando si deve ricorrere alla forza per caricare in ambulanza persone in condizioni di salute non ottimali che non ne vogliono minimamente sapere di farsi curare. Spesso intervengono le forze dell' ordine e può capitare che qualcosa che vada storto, anche se - è bene sottolinearlo - si tratta della stragrande minoranza dei casi. Nel maggio del 2018, tre agenti della Polizia Municipale di Torino e uno psichiatra sono stati condannati a un anno e otto mesi di carcere per la morte di Andrea Soldi in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio. Fu stretto al petto e ammanettato su una barella a pancia in giù nonostante fosse sovrappeso e non riuscisse a respirare bene. All' ospedale Sant' Arsenio di Polla (Salerno), invece, si trattò unicamente di malpratice medica: troppi i neurolettici somministrati a Massimiliano Scalzone che morì dopo dodici giorni di ricovero.

Sedato e legato: un Paese civile permette tutto questo? Le Iene News il 25 maggio 2020. Il 2 maggio un ragazzo di 33 anni, di nome Dario, subisce un Tso in mezzo alla strada. “Sono chiuso nelle mani e nelle braccia, non mi posso muovere. La situazione è indescrivibile”. Nina Palmieri ci racconta la sua storia: il servizio martedì a Le Iene, dalle 21.10 su Italia1. “Sono chiuso nelle mani e nelle braccia, non mi posso muovere. La situazione è indescrivibile”. Questa è la voce di un ragazzo di 33 anni, rinchiuso in un reparto psichiatrico e privato della propria libertà. Dopo giorni di reclusione e silenzio sta sentendo per la prima volta il fratello al telefono: è pesantemente sedato, al punto che le sue parole sono difficili da decifrare. “Tutto il tempo mio figlio diceva: mamma, mi straziava il cuore a sentirlo e non poterlo né vedere né aiutare”, dice la madre a Nina Palmieri. Dario Musso è finito nel reparto psichiatrico il 2 maggio, ed è stato  legato per 5 giorni dopo aver subìto un Tso sotto gli occhi di tutto il paese in mezzo alla strada. Quello che è successo è degno di un paese civile? Non perdetevi il servizio di Nina Palmieri, martedì dalle 21.10 su Italia1.

 Codacons chiede T.S.O. per chi rifiuta di sottoporsi a tampone. Fonte: Soveratoweb.com 5 maggio 2020. I primi arrivi in Calabria registrano incredibili rifiuti da parte di chi rientra a sottoporsi al tampone. Ha dell’ incredibile il rifiuto che oggi alcuni passeggeri in arrivo alla stazione di Lamezia Terme, avrebbero opposto alla richiesta di essere sottoposti al test che, ricordiamo, è gratuito ed è rapidissimo. Il Codacons chiede che intervengano i Sindaci, costringendo i passeggeri attraverso il ricorso ad un TSO – sostiene Francesco Di Lieto. Com’ è noto, per Trattamento Sanitario Obbligatorio si intendono una serie di interventi sanitari che possono essere adottati, in caso di motivata necessità ed urgenza, e qualora sussista il rifiuto da parte del soggetto che deve ricevere assistenza. Il TSO è disposto, appunto, con provvedimento del Sindaco, quale massima autorità sanitaria del Comune di residenza o del Comune dove la persona si trova temporaneamente. In un periodo in cui si chiedono sacrifici a tutti, comportamenti sprezzanti come quelli verificatisi oggi sono da condannare nella maniera più netta, perché in gioco c’ è la salute di tutti. L’ appello – conclude la nota del Codacons – è rivolto principalmente ai Sindaci di Lamezia Terme, Paola e Reggio Calabria affinché mettano una pezza ad una chiusura dei confini utile solo per le telecamere.

Non vuole fare il tampone, il sindaco firma un tso. Sarà fatto stamani ad un aretino che stava male ma ieri si era rifiutato di sottoporsi all'accertamento. La Nazione 16 marzo 2020 - Stamani gli verrà effettuato il tampone per verificare la sua positività al corna virus o meno. Gli verrà fatto con la sua collazìborazione o in maniera coercitiva. Si tratta di un aretino che aveva rifiutato appunto ieri di fare il tampone per il Coronavirus e il sindaco così è stato costretto ad emettere un'ordinanza di Tso per sottoporlo all'accertamento. "Stava male infatti l'aretino ma ha lo stesso detto di no al tampone, per questo ho emesso un'ordinanza per eseguire un trattamento sanitario obbligatorio", a raccontare l'episodio avvenuto proprio ieri in città lo stesso sindaco Alessandro Ghinelli nel corso ieri della sua conferenza stampa per fare il punto sull'epidemia di Coronavirus. Una conferenza stampa che ormai è diventata un appuntamento fisso e quotidiano non soltanto con i media ma anche con tutti i cittadini che possono seguirla in diretta sul canale facebook del comune di Arezzo. Il primo cittadino ha spiegato che ieri l'uomo si è rifiutato, di fronte ai sanitari di sottoporsi all'accertamento. "Non si gioca con la salute e quest'uomo con il suo comportamento ha rischiato di mettere a repentaglio la salute di tante persone. Quindi domani mattina (oggi ndr) la polizia municipale, insieme ai sanitari, si recheranno a casa dell'uomo ed eseguiranno il tampone. Fortunatamente durante questa lunga giornata, l'uomo è stato convinto a comportarsi responsabilmente e ci ha informati che domattina si sottoporrà al test senza problemi". 

 “La pandemia non esiste”: la strana storia del Tso a Dario Musso. Le Iene News il 26 maggio 2020. Il 2 maggio Dario Musso subisce un Tso dopo esser andato in giro in auto gridando con un megafono che non esiste nessuna pandemia. Le immagini del momento in cui viene fermato hanno fatto il giro dell’Italia: la nostra Nina Palmieri è andata a parlare con lui per capire cosa è successo davvero. “Sono chiuso nelle mani e nelle braccia. Non mi posso muovere, la situazione è indescrivibile”. Queste sono le parole di un ragazzo di 33 anni, Dario Musso, rinchiuso in un reparto di psichiatria dopo aver subito un Trattamento sanitario obbligatorio il 2 maggio. Le immagini di quel Tso sono diventate virali in rete e le potete rivedere nel servizio qui sopra. Di quella storia si è discusso molto nei giorni seguenti e in tanti guardando quelle immagini si sono chiesti: è davvero necessario fare un Tso in quel modo? La dignità di Dario è stata rispettata? “I Tso sono delle ratio estreme”, ci spiega lo psichiatra Piero Cipriano. “Da riservare a pochissime persone che stanno in condizioni davvero singolari. Il povero Dario subisce una cattura, una caccia all’uomo: atterrato con la faccia sull’asfalto. Una spettacolarizzazione indecente”. Per capire di più la nostra Nina Palmieri è andata a Ravanusa (Agrigento) a parlare proprio con Dario pochi giorni dopo aver subìto il Tso. “Sono un brutto anatroccolo, non voluto”, ci dice. Lui è un ragazzo particolare e controverso, così come alcuni dei video quantomeno discutibili che pubblica in Rete e che potete vedere qui sopra. Il 2 maggio la mamma di Dario è a casa quando le squilla il telefono: “Era la dottoressa di famiglia, mi ha detto che le avevano telefonato i carabinieri e il sindaco per mio figlio”. A quel punto lei dà al medico il numero di Dario. Però, quando la dottoressa lo chiama, sembra si sia qualificata come ‘la dottoressa di Canicattì dei servizi sociali’. “Mi ha detto: mi raccomando Dario, ci hanno contattato i carabinieri, la devi smettere di andare in giro dicendo che non c’è nessuna pandemia. Se non la smetti e non ti curi dobbiamo prendere precauzioni’”, racconta proprio Dario. Lui però si accorge che al telefono c’è la sua dottoressa di famiglia. Dario esce di casa arrabbiato e con un megafono, girando per le strade di Ravanusa dicendo che non c’è nessuna pandemia. A Nina Palmieri dice che era consapevole di poter essere denunciato per reati comuni. Nel frattempo però parte la richiesta di Tso. “La mia dottoressa non mi aveva visitato”, racconta. E se fosse vero, sarebbe strano perché prima di un Trattamento sanitario obbligatorio sarebbe opportuno aver almeno prima incontrato la persona in questione. “Non si può risolvere con una proposta telefonica, proponendo cure, e, se il soggetto rifiuta quel no, diventa l’innesco del Tso”, ci dice il dottor Cipriano. Quella mattina comunque Dario viene fermato dalle forze dell’ordine e subisce il Trattamento sanitario obbligatorio. Il Tso, per essere lecito, deve essere convalidato da un secondo medico dopo la proposta del primo. Dario nega che ci sia stata una visita, ma a sentire il vigile “la dottoressa c’ha parlato con lui all’interno della macchina”, chiedendogli di uscire dal mezzo. È una prassi normale convalidare un Tso dopo aver parlato con qualcuno attraverso il finestrino di una macchina? “No, è come il parlare attraverso il telefono”, ci spiega Cipriano. La diagnosi, formulata dalla due dottoresse, è “scompenso psichico con agitazione psico motoria”. “Una non diagnosi di una vaghezza straordinaria”, dice Cipriano. Ma come si è arrivati a questa diagnosi, se il primo medico si è limitato a una telefonata e il secondo forse gli ha parlato attraverso il vetro di una macchina? “Il Tso era programmato dalla mattina”, dice uno dei vigili. “Il ragazzo purtroppo non è stato sedato in quel momento perché stava protestando… per i giorni prima, con i video che ha fatto. Quello del cacciavite…”. Se fosse vero, possibile che la diagnosi sia stata basata sui video postati sui social? “Non puoi tu, solo sulla base di questi, decidere che lui ha un disturbo psichico, non basta”, ci dice Cipriano. Per capire se la diagnosi sia davvero stata basata su quei video, Nina Palmieri ha cercato le due dottoresse in questione che però non hanno voluto commentare. Avremmo voluto parlarne anche con il sindaco, che è colui che emette l’ordinanza per il Tso. Il sindaco però non ci ha risposto al telefono. Tornando a Dario, dopo aver subito il Tso viene portato in ospedale. Viene ricoverato in psichiatria e i suoi familiari nel frattempo raccontano che “non sapevamo cosa era successo”, ci dice il fratello. “Lo abbiamo saputo da Facebook”, aggiunge la madre. I genitori così vanno in ospedale, ma “non me lo facevano vedere né sentire”, ci dice. Al terzo giorno di ricovero anche il fratello va al nosocomio, ma una dottoressa gli dice che a causa del coronavirus le visite sono sospese. Il fratello prova allora a contattarlo telefonicamente, ma come potete sentire dalle telefonate nel servizio sembra che non sia possibile parlargli. Dario dice di essere rimasto legato al letto per cinque giorni. La madre racconta di essere tornata in ospedale ma questa volta riesce ad avvicinarsi al reparto: “C’era una finestra, sentivo lui che diceva mamma, mi straziava il cuore non poterlo né vedere né aiutare”. Dopo quattro giorni di ricovero, finalmente riescono a parlare con Dario. Dopo sette giorni, esce dall’ospedale nelle condizioni che potete vedere nel servizio: “I miei scopi nella vita sono stati annullati in un attimo”. Intanto, sono partite delle indagini che speriamo facciano presto luce su quanto realmente accaduto. Anche la famiglia si è mossa con una denuncia per “sequestro di persona e anche tortura”, ci dice il fratello.

T.S.O. storie di ordinari abusi durante l’emergenza sanitaria. Luca Cellini su pressenza.com. il 17.05.2020. Alcuni giorni fa c’è stato un inquietante caso di Trattamento Sanitario Obbligatorio a cui è stato sottoposto un 33enne, Dario Musso abitante a Ravanusa, in Sicilia, provincia di Agrigento. Dario il 2 di maggio scorso semplicemente con un megafono parlava ai suoi concittadini invitandoli ad uscire di casa, a tornare alla vita normale, a ribellarsi agli abusi.  Per questo è stato avvicinato e poi fermato da una volante dei carabinieri che sono intervenuti in modo spropositato dal momento stesso in cui il ragazzo non dava segni di alterazione né aveva opposto resistenza, al contrario appariva tranquillo e collaborativo. In un breve video caricato su Youtube si vede dapprima il ragazzo fermo su di un’automobile parlare al megafono invitando le persone a “svegliarsi” a uscire a ribellarsi, a non sottostare più alle restrizioni imposte con la quarantena, poi in un momento successivo con una ripresa dall’alto si vede il ragazzo in piedi fuori della macchina ragionare tranquillo essere avvicinato da due carabinieri e tre sanitari. Nel proseguo del video si vedono i carabinieri portargli le mani dietro la schiena e poi gettarlo malamente a terra, dopodiché i sanitari iniettargli qualcosa con una siringa, presumibilmente un sedativo. Un intervento scomposto, inutile e violento, compiuto sul ragazzo senza nessun reale motivo che lo potesse giustificare. Il ragazzo viene poi portato presso l’ospedale Barone Lombardo di Canicattì, legato ad un letto, viene ripetutamente sedato, imbottito di psicofarmaci, un catetere gli viene inserito a forza per le funzioni fisiologiche, il ragazzo rimane in queste condizioni senza possibilità alcuna di parlare per diversi giorni con la sua famiglia. Il fratello di Dario, l’avvocato Massimiliano Musso, tenta inutilmente più e più volte di comunicare con il fratello, chiede di poterlo visitare, o quantomeno di poterci almeno parlare. I tentativi vanno avanti per quattro giorni dal momento del ricovero coatto, i responsabili del reparto ospedaliero negano ripetutamente ogni possibilità di contatto con il fratello ricoverato in modo forzoso. L’avv. Musso ha registrato tutte le conversazioni avute dal 2 maggio in poi con gli operatori sanitari. Ogni volta che il fratello e anche legale dell’uomo ricoverato prova a chiamare gli viene ripetuta sempre la medesima risposta: “Suo fratello sta dormendo.” L’avvocato non demorde e al terzo giorno contatta i carabinieri di Canicattì sollecitando un loro intervento, i carabinieri si dicono impossibilitati a poter mandar un volante e suggeriscono a Massimiliano Musso di contattare il commissariato di polizia locale. Massimiliano Musso non si perde d’animo nemmeno stavolta e contatta subito il commissariato che tenta di rimpallare il problema ai carabinieri, in quanto loro competenza per essere stati i primi a intervenire. Alla fine sotto insistenza e pressione del legale, la polizia di Stato chiama l’ospedale e parla finalmente con la dottoressa, che però riferisce ancora una volta la medesima cosa: “Dario Musso dorme, al momento non può rispondere”. L’avvocato Musso il giorno stesso provvede allora a sporgere denuncia di reato per la violazione dell’art. 328 del codice penale, che riguarda il rifiuto d’atti d’ufficio.  Musso non si arrende e richiama ancora l’ospedale anticipando la denuncia formale. “Suo fratello è contenuto. E’ meglio che dorme.” Rispondono questa volta i sanitari della struttura sanitaria. Siamo giunti al termine del terzo giorno di ricovero coatto, tre giorni senza che la famiglia abbia avuto la possibilità di comunicare con il proprio familiare. L’oggetto della denuncia oltre che per l’impossibilità di poter parlare con il fratello è l’omissione da parte dei sanitari che hanno provveduto il Trattamento Sanitario Obbligatorio al ragazzo, a comunicare il tipo di medicinali e il trattamento a cui Dario in quei giorni veniva sottoposto. Ogni comunicazione con il fratello viene negata anche il giorno successivo. E’ solo alla fine del 4° giorno che l’avvocato Musso riesce a parlare col fratello per telefono grazie all’intervento di un operatore sanitario presente quel giorno in reparto. Massimiliano può sentire finalmente la voce di Dario che in quel momento risulta essere completamente stordito, presumibilmente sotto effetto dei sedativi che per  tutti e quattro i giorni del ricovero gli sono stati somministrati. Dario però riesce a dire: “Sono chiuso nelle mani e nelle braccia.” Dario finalmente viene dimesso, ma sarebbe più opportuno dire rilasciato dal ricovero coatto, il giorno 9 maggio, dopo una settimana esatta di T.S.O. La famiglia di Dario per tramite il fratello legale, ha già provveduto a presentare ricorso contro il provvedimento firmato dal Sindaco della cittadina, ricorso che verrà discusso in tribunale il prossimo 4 giugno. L’avvocato Massimiliano Musso in seguito a questa inquietante vicenda ha rilasciato una breve intervista a TeleTime, raccontando come si sta muovendo, il suo obbiettivo e la questione che gli sta principalmente a cuore è che ciò che è accaduto al fratello non debba e non possa più ripetersi con nessuno, specie in virtù del fatto che non tutti hanno la fortuna di poter avere un fratello avvocato che li tuteli da un simile episodio: “L’unica cosa che può risarcire completamente questa questione è che non avvenga mai più nei confronti di nessuno. – Racconta l’avvocato Massimiliano Musso nell’intervista in merito a quanto accaduto al fratello Dario – Perché poi risarcimenti personali lasciano il tempo che trovano. Qui la vera giustizia sarà compiuta nel momento in cui non accada mai più:

1) Che un medico senza visitare il paziente firmi una proposta di trattamento sanitario obbligatorio.

2) Che un secondo medico dell’ASL firmi un documento senza mai avere visitato il paziente che convalida la prima richiesta del primo medico.

3) Che un Sindaco disponga una immotivata ordinanza con cui dispone il Trattamento Sanitario Obbligatorio, il luogo di degenza, con il ricovero nell’ospedale psichiatrico senza prima avere parlato direttamente con la persona. Un Sindaco dovrebbe avere la dignità di essere presente sul luogo per valutare concretamente e vedere con i propri occhi, apprezzare dal punto di vista della sua responsabilità di primo cittadino di una comunità in che condizioni si trovi quella persona a cui stanno negando la libertà, e costringendo la somministrazione di farmaci che non sono certo l’aspirina.

4) Che non succeda mai più che un giudice tutelare convalidi una ordinanza di T.S.O. senza nemmeno aver letto le carte, con una superficialità che ha portato ad un atto abnorme, che è già oggetto d’inchiesta sul tavolo del ministro della Giustizia per le opportune ispezioni ministeriali sul Tribunale di Agrigento, dove andranno a verificare tutti i T.S.O. degli ultimi anni e in che forma sono stati convalidati.

Se questo è successo a mio fratello Dario, – prosegue Musso – che ha le spalle coperte attraverso il sottoscritto, attraverso mio padre, che è un ex maresciallo dei carabinieri, attraverso la mia famiglia, una famiglia umile, ma di persone assolutamente stimate sul territorio, per questo penso se ciò è accaduto nei confronti di mio fratello Dario che comunque non è stato abbandonato, io mi chiedo che cosa possa succedere agli ultimi della società, o comunque alle persone che non sono in grado di difendersi con la tenacia che abbiamo messo in campo noi.“ Conclude l’avvocato Musso. La vicenda oltre che un chiaro abuso è sicuramente allarmante. Testimonia una pericolosa deriva fatta di abusi di potere che ultimamente si sono verificati varie volte in Italia con la scusante dell’applicazione delle misure relative alla quarantena per via dell’emergenza sanitaria. Misure che troppo spesso sono state applicate eccedendo, uscendo notevolmente da quanto disposto dalle leggi stesse, applicando provvedimenti che operano sulla limitazione delle libertà delle persone in modo eccessivo, spesso spropositato, e in modo abnorme oltre il necessario e nel non rispetto delle leggi a tutela delle libertà civili e personali della popolazione in generale. Siamo difronte a una deriva molto temibile oltre che ambigua, composta da una serie di forzature e abusi sdoganati con la giustificazione dell’emergenza sanitaria. Non si può usare la presunta tutela della salute pubblica come fosse un piede di porco per divellere le libertà civili. Usare a pretesto l’emergenza sanitaria, per colpire e abusare chi dissenta e tenti di esercitare i propri diritti costituzionalmente stabiliti, come quello di parola e di opinione. Diritti che devono essere invece garantiti, sia dallo Stato, così come da tutte le sue figure istituzionali. Non è certo garanzia di rispetto dei diritti costituzionali la minaccia di essere rinchiusi in un ospedale psichiatrico quando si eserciti il proprio diritto di esprimere la propria opinione, così come in fondo stava facendo Dario Musso. E risultano anche gravi precedenti quei casi in cui una persona, qualora contravvenendo a una qualche disposizione sanitaria, vengano poi attuate nei suoi confronti misure abnormi e totalmente spropositate rispetto all’entità stessa della contravvenzione. Fino anche ad arrivare a prefigurarsi uno scenario preoccupante, dove chiunque si rifiuti di seguire questa specie di nuovo “regime sanitario” possa fare la fine di Dario Musso: sedato in strada come fosse il più pericoloso fra i criminali, trasportato all’ospedale, sottoposto a ricovero coatto, legato imbottito di medicinali e obbligato a trattamento sanitario del tutto immotivato e non giustificato, negando sia a lui che alla sua famiglia i più minimi diritti fondamentali. Di fronte a quel che è successo a Dario non c’è emergenza sanitaria che tenga che possa anche lontanamente giustificare quanto avvenuto. D’altronde preoccupa vedere che non siamo difronte a un avvenimento isolato, bensì sono stati numerosi i casi di risposta eccessiva e spropositata, gli abusi veri e propri commessi sulle persone e sulla popolazione in questo periodo di emergenza. Per comprendere meglio la questione bisogna dire che con l’uso del regime di T.S.O. i diritti del paziente e delle persone ad esso sottoposte, si riducono drasticamente, tanto da rendere il ricovero niente di diverso dalla reclusione carceraria. Oltre a ciò la sottrazione della libertà e il massiccio bombardamento psicofarmacologico riducono le capacità di difesa dell’individuo creando una situazione di vero e proprio rischio: ogni reazione della persona può essere interpretata dagli psichiatri come sintomo di malattia o incapacità di rendersi conto del proprio stato di salute, condizioni queste che possono giustificare il T.S.O., oltre un incremento delle terapie farmacologiche e non. Esistono però dei modi per difendersi dai ricoveri coatti e dalle morse strette della psichiatria quando diventino violenza e abuso, specie quando questi TSO vengano operati con dei vizi, sia di contenuto che di forma. La Legge di Riforma sanitaria del 1978 stabilisce chiaramente le modalità di esecuzione di un trattamento coatto: qualora uno qualunque dei passaggi necessari alla sua effettuazione non venisse rispettato (come avviene nella maggior parte dei casi) è possibile parlare di vero e proprio abuso, o addirittura di reato, e dunque procedere legalmente affinché il provvedimento venga revocato. Il trattamento sanitario obbligatorio ha durata di 7 giorni, e per essere disposto necessita di una serie di passaggi stabiliti per legge. Esso deve essere disposto dal sindaco del Comune di residenza su proposta di un medico e convalidato da uno psichiatra operante nella struttura pubblica. Dopo aver firmato la richiesta di T.S.O. il sindaco deve inviare il provvedimento e le certificazioni mediche al Giudice Tutelare operante sul territorio, entro 48 ore; il giudice, che ha un compito di vigilanza sul trattamento può, o meno, convalidare il provvedimento. Lo stesso procedimento deve essere seguito nel caso in cui il T.S.O. venga rinnovato. Il T.S.O. può essere quindi eseguito solo ed esclusivamente se sussistono queste tre condizioni :

1. L’individuo presenta chiare alterazioni psichiche tali da necessitare interventi terapeutici urgenti;

2. L’individuo rifiuta le terapie psichiatriche;

3. L’individuo non può essere assistito in altro modo rispetto al ricovero ospedaliero.

Tutte condizioni queste che non sussistevano minimamente nel caso di Dario Musso. Di fatto un Trattamento Sanitario Obbligatorio non deve essere concesso e deve essere immediatamente revocato se manca anche una sola delle 3 condizioni sopra che lo giustifichino.

Così come un T.S.O. è illegale e immediatamente impugnabile per vizi di forma:

Innanzitutto di fronte alla presentazione di un provvedimento di T.S.O. abbiamo diritto a chiedere copia della notifica del Sindaco relativa al provvedimento stesso.

In mancanza o in attesa di tale notifica, che deve pervenire entro 48 ore, nessuno può obbligarci a ricoverarci o a seguire terapie, a meno che non abbiamo violato norme penali o che lo psichiatra abbia invocato lo stato di necessità regolato dall’articolo 54 del Codice Penale.

La definizione dello lo stato di necessità è comunque estremamente generica, cosa questa che lascia molta libertà all’arbitrio dello psichiatra di turno nel definire se il nostro comportamento sia lesivo o meno.

I poteri dello psichiatra sono enormi se si pensa inoltre che la lesività del nostro comportamento non dipende da diagnosi cliniche o da norme legali, quanto più da giudizi e/o pregiudizi sociali e culturali.

Dopo che il provvedimento ci è stato notificato i diritti del paziente in regime di T.S.O. si riducono notevolmente.

Potrebbe mancare a questo punto la notifica da parte del Giudice Tutelare che deve pervenire entro le 48 ore successive alla richiesta del Sindaco.

Se la convalida del giudice non avviene entro questo lasso di tempo il provvedimento decade. Ciò significa che abbiamo tutto il diritto, ai sensi di legge, di lasciare la struttura ospedaliera in cui ci avevano rinchiuso.

Moltissimi i casi in cui è accaduto che i medici che firmano il provvedimento non abbiano mai né visto né visitato il paziente.

Il ricovero risulta illegale e dunque il T.S.O. è invalidato. In questi casi, inoltre, i medici possono essere denunciati per falso in atto pubblico.

Il T.S.O. decade anche qualora o i medici o il Sindaco o il Giudice Tutelare, nei loro documenti abbiano omesso di specificare le motivazioni che hanno reso necessario il ricorso al ricovero coatto.

Spesso, inoltre nelle certificazioni ci si dimentica di specificare che sussistono le 3 condizioni descritte sopra che rendono possibile il T.S.O.

Cliccando qui è possibile trovare ulteriori informazioni a tutela dei propri diritti in caso di abuso o danno da T.S.O. e una lista di associazioni, comitati e collettivi che si occupano di dare sostegno e assistenza in materia di tutela dei diritti dei pazienti e/o degli abusi da psichiatria. Detto ciò gli abusi sono innumerevoli e purtroppo anche dove siano presenti innumerevoli irregolarità, il “dissequestro” da un ospedale psichiatrico non risulta mai essere né semplice né immediato. Impedire che si faccia uso e abuso di T.S.O. con le modalità subite da Dario Musso, magari giustificate in modo immotivato come si è ben potuto vedere per via dell’emergenza sanitaria, è la battaglia che ha iniziato a condurre il fratello di Dario, l’avvocato Massimiliano Musso. Un battaglia che risulta essere molto importante per tutti, specie se si guarda l’allarmante dato pervenuto sul numero di T.S.O. in netto aumento, in specie dopo l’attuazione delle disposizioni legate all’emergenza sanitaria. In Italia la Conferenza Nazionale Salute Mentale ha lanciato un appello a Governo e Regioni, sostenendo che ‘la tutela della salute mentale deve diventare uno degli obiettivi cruciali della strategia più generale per contrastare i danni dell’epidemia covid-19”. E cosa fanno dunque gli psichiatri e le autorità per “contrastare i danni indiretti dell’epidemia covid-19” ? Beh, fanno quello che gli riesce meglio e più facile: aumentano i T.S.O. Come dire: “se vi sentite a disagio per il dover stare reclusi in casa, oppure perché avete perso il posto di lavoro, o anche se avete da dissentire qualcosa come faceva Dario Musso, non preoccupatevi; ci siamo noi. Vi preleviamo da casa oppure in strada e vi rinchiudiamo con la forza in un reparto di psichiatria.” Beh grazie per l’aiuto, ma ne facciamo volentieri a meno. Per questo motivo sono molto importanti le battaglie come quella condotta dal fratello di Dario, perché casi come quello occorso a Dario non possano ripetersi e diventare storie di ordinario abuso compiuto sulle persone in nome dell’emergenza sanitaria.

Giornalisti zitti sull'uomo di Ravanusa arrestato e sedato per un'opinione. E’ successo in provincia di Agrigento, nel silenzio generale. A essere colpito dopo la task-force “Minculpop” di Martella è anche il giornalismo indipendente. Rec News compreso. Secondo le Nazioni Unite oggi si festeggia la Giornata della Libertà di Stampa. In Italia, Patria di un dibattito sulla presunta epidemia che si è rivelato inquinato e viziato dagli stessi inesatti dati istituzionali, sappiamo che siamo lontani da questo principio. Oggi più di allora, perché ormai il problema della libertà di esprimersi non è solo dei giornalisti e perché ormai sono tutte le libertà a mancare. Con la scusa del virus.

Ieri in provincia di Agrigento, in Sicilia, un uomo ha preso un megafono e dalla sua auto, senza creare occlusione al traco che ormai non c’è, si è messo a dire che “il virus non esiste”. Queste parole, ormai, dopo i bollettini dell’ISS, le parole di esperti come Tarro che ora si vorrebbe demolire, i falsi positivi, le mire di Bill Gates, le possibilità oerte dalla trasfusione di plasma gratuita e la presenza di cure sistematicamente ignorate, hanno un peso. Ma in Italia anziché discuterne, degli agenti arrestano un uomo che dovrebbe essere protetto dall’Articolo 21 della Costituzione, e lo sedano. Gli praticano un TSO, un trattamento sanitario forzato, tenendolo fermo assieme a personale medico. In rete circola già la voce che fosse “squilibrato”. Valutate da soli (video in basso) se, in realtà, non fosse solo più sveglio della media e – dunque – pericoloso.

Che ne ha fatto quell’uomo? Che ne fanno gli anziani della Sardegna allontanati dalle loro case per la “presunzione” che fossero contagiati, come si domanda in questi giorni il giornalista Cesare Sacchetti? Che ne hanno fatto – ci hanno chiesto – i bambini che a Milano e a Torino sono stati tolti a genitori “contagiati” settimane fa e non sono più tornati? Sindaco Sala, sindaco Appendino, i cittadini – che dovrebbero denunciare alla stampa indipendente (perché con quella commerciale è inutile) e alle Procure, aspettano risposte immediate. Dove sono i servizi indignati dei tg, dei programmi e dei quotidiani di regime che pure hanno schiere di corrispondenti? Perché nessuno ha parlato di quel povero uomo in Sicilia e di questi bambini?

Che cos’è il cittadino per le Forze dell’Ordine che eseguono ordini in maniera supina anche quando sono ingiusti e vanno contro quello che hanno imparato nel corso di una lunga e faticosa carriera? Che cos’è il giornalista che davvero può dirsi tale per la Polizia e per la Polizia Postale? Non una sentinella che vigila sul malaffare politico, da qualunque parte esso provenga, ma un nemico da combattere e a cui causare problemi, da vessare attraverso prassi inconsuete per impedirgli di lavorare. Da perseguitare, stalkerare, tempestandolo di domande che avrebbero facile risposta consultando le FAQ o il footer, dove sono ben esposte le informazioni di servizio. Che ruolo hanno quei pm politicizzati che scrivono sui giornali della concorrenza e lasciano dormire denunce presentate da anni, solo perché non sono gradite ai loro vicini?

Sta accadendo anche a Rec News per i suoi numerosi articoli scomodi: non saremo così stupidi da non tutelarci. Le pressioni – da qualunque parte provengano – come sempre non ci faranno abbassare la testa. Non ci impediranno di pubblicare il frutto delle nostre indagini giornalistiche, per quanto scomode. Se il sito, un giorno, dovesse essere sottoposto alla censura della task-force da Minculpop di Andrea Martella ne apriremo altri dieci uguali. Troveremo sempre nuovi modi per comunicare con la gente, perché questa è la nostra missione, fosse anche tornando al volantinaggio come ai tempi dell’Università. Buona giornata della “Libertà di stampa” a tutti.

Chi è il sindaco “sceriffo” di Ravanusa che ha autorizzato il “TSO da opinione”. Recnews.it il 03/05/2020. Si chiama Carmelo D’Angelo, e a febbraio di quest’anno è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio. Fa parte della lista civica “Andiamo avanti”. Chi ha autorizzato il trattamento sanitario sul 40enne di Ravanusa (Agrigento) che sul web sta provocando tanto sdegno, nel silenzio colpevole di Tg, programmi di approfondimento, e quotidiani? Ovviamente, il sindaco, che è Carmelo D’Angelo. In carica a partire dal 2013 dopo una parentesi di consigliere provinciale, fa parte della lista civica “Andiamo avanti”. E’ considerato vicino al deputato Vincenzo Fontana, che dal 2015 al 2017 è stato componente della Commissione Servizi Sociali e Sanitari. Ma questo non è bastato a redarguire il “figlioccio politico” sui comportamenti da tenere nei riguardi di un cittadino che esprime in maniera legittima la propria opinione.  A febbraio del 2020 D’Angelo viene rinviato a giudizio con l’accusa di abuso di ufficio. L’udienza avrebbe dovuto tenersi il 25 marzo, ma così non è stato “causa coronavirus”. La vicenda processuale è nata dopo la denuncia di un avvocato che ha lamentato il divieto, da parte del sindaco, di autorizzare l’uso degli spazi di una biblioteca per il cantante Povia. Gli spazi sarebbero invece stati destinati all’attuale leader di Italia Viva Matteo Renzi. Ancora in carica, ad aprile D’Angelo ha tutto il tempo di mettere mano all’ordinanza “Antiscampagnate” per il periodo pasquale. Uomo di destra, sembra comunque in perfetta sintonia – oltre che con i renziani – con i divieti imposti dal premier Conte. Ma la “Antiscampagnate” impallidisce di fronte a quanto accaduto nella giornata di ieri (stando alla data del video, in alto), quando il 40enne è stato fermato mentre si trovava nel suo veicolo. Stava parlando in maniera pacifica con un megafono del “coronavirus”. L’uomo è stato fatto scendere dal veicolo – non è chiaro con quali modalità – e dopo con la forza è stato immobilizzato e steso a terra da quattro carabinieri, mentre due uomini (forse agenti in borghese) erano intorno. Un totale di sei contro uno. A quel punto, gli è stato somministrato un TSO sedativo da un infermiere o medico, alla presenza di altri due sanitari in camice. Erano presenti anche testimoni. Molte delle persone sono identificabili (in basso). Sul web già circola la voce che si trattasse di uno “squilibrato”. Nel video che precede l’arresto, tuttavia, l’uomo parla in maniera rilassata, affermando di essere perseguitato per le sue opinioni. Il malcapitato, non armato e senza neppure urlare, non ha fatto alcuna resistenza. E, ora, non si sa dove sia.

Ravanusa, dal giornale “anti” Falcone e Borsellino arriva la cronaca postuma delle gesta del sindaco. Rec News 05/05/2020.

Dopo i nostri articoli sul caso Ravanusa sul “TSO da opinione” e sul sindaco responsabile del provvedimento, c’è chi si è svegliato. Non per dire che episodi del genere non devono più accadere, ma per dare ragione ai nuovi metodi.

Dopo i nostri due articoli sul caso Ravanusa (uno sull’uomo sottoposto a TSO per aver espresso un’opinione e uno sul sindaco responsabile del provvedimento) sono comparsi due articoli. Uno sostiene che da parte dei carabinieri non ci sia stato alcun abuso e che anzi le misure fossero più che legittime, ma la trattazione manifesta già due limiti: il primo riguarda i motivi del provvedimento. Ettore Lembo scrive che “la persona sottoposta all’intervento risulterebbe non nuova a certe particolari iniziative”. Ma questo basta, domandiamo, a giustificare un trattamento sanitario forzato? E perché, se l’uomo in questione era davvero pericoloso, si trovava in strada alla guida della sua auto, in pieno giorno?

Alcune vicende di Dario Giuseppe Musso – questo il nome dell’uomo che ha subìto il TSO – risultano travagliate? E’ possibile, fatto sta che il suo arresto politico (perché trattamento sanitario forzato o no di questo si tratta) avviene a inizio maggio di quest’anno per un motivo specifico riconducibile al gesto di prendere un megafono e dire che “non c’è nessun virus“. Che è, per inciso, il senso di quanto hanno ammesso fior fior di esperti, nel momento in cui hanno parlato di allarmismo ingiustificato e di terrorismo psicologico e mediatico. E qui subentra il secondo punto debole della trattazione de La notizia.

Il sito afferma che l’episodio del megafono fosse “marginale”, e che il vero motivo fosse riconducibile al presunto gesto di aver tentato di dare fuoco alla carta di identità. Ma allora perché il TSO non era avvenuto prima, sempre che un accendino in mano basti a motivarlo? Perché Musso, se ritenuto pericoloso, quel giorno se ne andava in giro con la sua auto? Ma non è nulla in confronto al metodo di “verifica” che il firmatario dell’articolo propone: “Un paio di telefonate a amici e conoscenti”, scrive Lembo, sarebbero bastati a non fornire una “errata informazione” che “potrebbe sottoporre ad una distorta luce persone e organismi istituzionali”. Messo in buon conto che il dovere del giornalista dovrebbe essere proprio quello di richiamare all’ordine i politici quando sbagliano, a chi domanda, Lembo, per ristabilire ordine e verità? Proprio a quegli “organismi istituzionali”, cioè al sindaco D’Angelo, che si preoccupa per giunta di ringraziare (!) e ai carabinieri.

E qui giungiamo al secondo sito, che agisce in maniera ancora più singolare e, giorni dopo l’accaduto, se ne esce col postumo Ravanusa, offende i carabinieri per strada: il sindaco dispone il Tso. E’ un articolo di cronaca di quelli “a freddo”, da sfornare con giorni e giorni di ritardo, quando arresto e TSO sono lontani ma gli articoli di chi si permette di parlarne sono vicini. A confezionarlo è Il giornale di Sicilia, la cui versione cartacea passerà alla storia per aver pubblicato lettere contro i magistrati Falcone e Borsellino. Musso, a detta di Paolo Picone che firma l’articolo “se ne andava in giro ad insultare i carabinieri – non è chiaro in che modo e utilizzando quali parole, sempre ammesso che questo possa giustificare un TSO – e a invitare la gente a uscire di casa”.

Eccoci al punto. Non si può disturbare la narrativa di Giuseppi, che è la narrativa degli estimatori dei vaccini, che è la narrativa di chi ha interesse a chiuderci in casa per cambiare la nostra vita perché “niente sarà più come prima”. Non si può dire che è una recita, un esperimento sociale, sennò ti arrestano e ti addormentano. E poi chissà dove ti portano. Dov’è Dario Musso? Visto che legge assieme ai suoi amici giornalisti, caro sindaco D’Angelo, vorremmo saperlo. Perché vogliamo spiegare ai nostri lettori cosa rischiano a essere amministrati da sindaci troppo zelanti che forse a volte dimenticano la loro missione: fare l’interesse del cittadino. Vorremmo sapere dove Musso è stato, quanto è stato trattenuto e dove e per quanto tempo, e – soprattutto – perché. Perché non abbiamo letto di mandati di cattura e perché dire che “il coronavirus non esiste” non è un reato, né un motivo in grado di giustificare la presenza di una decina tra Vigili Urbani, carabinieri e personale sanitario che giocano a tutti contro uno.

Musso è uno squilibrato, un soggetto pericoloso? Abbiamo ascoltato le sue parole prima del TSO e siamo convinti del contrario. Che, cioè, sia solo più sveglio della media, e più coraggioso. Pensiamo che abbia toccato un nervo scoperto, e che per questo sia stato punito. Se è pazzo, lo sono anche tutti quelli che si sono accorti che è tutta una farsa, una commedia a cielo aperto. Per noi di sicuro c’è questo: che dovendo scegliere tra la follia e la supina sudditanza, opteremo sempre per la prima.

Per strada col megafono: “Non c'è la pandemia”. Gli fanno un Tso, il sindaco: “Segni pregressi di instabilità”. Le Iene News il  9 maggio 2020. Un uomo di circa 30 anni è stato sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio in provincia di Agrigento. È andato in giro in macchina dicendo al megafono che “non c’è nessuna pandemia” e invitando i cittadini a togliersi le mascherine. Per il suo avvocato non si registravano ragioni per il Tso, per il sindaco invece c’erano “segnali pregressi di instabilità mentale”. “Lo hanno sedato perché esponeva le sue ragioni in modo pacifico”. Siete in tanti ad averci segnalato quanto accaduto in provincia di Agrigento: il 2 maggio un uomo intorno ai 30 anni è stato sottoposto a Tso dopo esser andato in giro in macchina gridando al megafono che “non c’è pandemia, levatevi le mascherine e andate a Roma”. Nei video che sono diventati virali online si vedono alcuni momenti dell’uomo che incita la popolazione a non rispettare le norme di contenimento del coronavirus, come potete vedere qui sopra. E si vedono inoltre i momenti in cui viene sottoposto al Trattamento sanitario obbligatorio che viene disposto dal sindaco su richiesta delle autorità sanitarie. Nei momenti del fermo, una persona con il camice bianco sembrerebbe praticargli una iniezione. L’avvocato dell’uomo, intervistato da vari media tra cui Radio radicale, ha detto che “è stato disposto un Tso per iniziativa diretta di un sindaco per una manifestazione non autorizzata condotta con un megafono per le strade del paese”. Secondo il legale si tratterebbe di “un'aberrazione giuridica che non resterà priva di seguito. Non sussistevano i requisiti di legge per il Tso e gli atti già acquisiti difettano di motivazione". La famiglia ha anche fatto sapere di aver avviato le pratiche per la revoca del Trattamento sanitario obbligatorio. Il legale ha anche lamentato difficoltà nel mettersi in contatto con l’uomo dopo il Tso. Sono in tanti sui social media a sostenere che l’uomo sia stato fermato per zittirlo mentre esprimeva le sue opinioni. La versione delle autorità, però, è molto diversa: il sindaco della città - cioè la persona che ha disposto il Tso - ha detto al Giornale di Sicilia che “a malincuore ho dovuto disporre il trattamento per i segnali pregressi di instabilità mentale che l'uomo aveva manifestato. In precedenti occasioni, infatti, si era reso protagonista di azioni che hanno messo in allarme la comunità e si era scagliato contro un carabiniere che lo aveva fermato in un posto di controllo e lui aveva bruciato la carta di identità". Una situazione, quindi, che si sarebbe protratta nel tempo e avrebbe richiesto l’intervento delle autorità sanitarie. Almeno questa è la versione del sindaco, che come vi abbiamo detto è contestata dall’avvocato della famiglia.

I retroscena del TSO a Dario Musso l’attivista sedato a Ravanusa. Redazione .casertakeste.it l'11 maggio 2020. Ravanusa – Sono due i documenti che svelano importanti retroscena sul ricovero di Dario Musso, il 33enne di Ravanusa sottoposto a TSO lo scorso 2 maggio dopo aver preso un megafono per gridare che “non c’è nessuna pandemia”. Il primo è la “proposta” di trattamento obbligatorio redatta da due dottoresse, il secondo, l’ordinanza del sindaco Carmelo D’Angelo. Entrambi sono stati diffusi ed esaminati dall’avvocato Francesco Catania. Diversi gli aspetti che saltano all’occhio, soprattutto se raffrontati al video realizzato da una testimone oculare. Anzitutto, nella proposta di TSO si legge che il ragazzo sarebbe stato in preda a “scompenso psichico con agitazione psicomotoria”. Per dirla in altri termini: alterazioni mentali e convulsioni. Il video, però, lo mostra piuttosto tranquillo mentre si lascia sopraffare dalle Forze dell’Ordine, quasi affidandovisi. Il perché lo ha spiegato nel corso di una video-intervista il fratello Lillo Massimiliano: “Pensava – ha detto – che sarebbe stato solo arrestato”. I medici sottoscrivono dunque un documento che parla di “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”, e affermano di aver “accertato che il paziente rifiuta gli urgenti interventi terapeutici richiesti dal caso”. Ma quali interventi Musso avrebbe rifiutato, sempre che la somministrazione di un TSO fosse attinente? “Le misure sanitarie extraospedaliere adottate – recita inoltre il pre-stampato su cui si sofferma anche l’avvocato Catania – non risultano attualmente idonee”. Altro segno burocratico, quest’ultimo, di quell’invito a ricevere assistenza che Musso avrebbe dovuto avere prima di subire un trattamento coatto. Invito che, a giudicare dal video, non è mai stato fatto. Dunque le due dottoresse propongono un trattamento ospedaliero presso il Servizio psichiatrico dell’Ospedale di Canicattì che nei fatti, stando a quanto riferito ancora dal fratello e legale, si traduce in una degenza caratterizzata da arti superiori e inferiori legati, catetere, feci rilasciate sul posto, flebo e cibo somministrato da personale infermieristico. Dario meritava tutto questo per il solo fatto di aver preso il megafono o per aver reagito – una settimana prima – a un controllo manifestando tutto il suo dissenso per il sistema di restrizioni in atto? Secondo il sindaco Carmelo D’Angelo, sì. E’ lui a firmare l’ordinanza in cui viene recepita la proposta della dottoressa Maria Grazia Migliore, e a sottoscrivere tutto quanto “rilevato” dal personale medico. Con un’apparente scappatoia: “Chiunque – si legge nel provvedimento – può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del presente provvedimento”. Una sorta di scaricabarile che, tuttavia, visti i tempi stringenti imposti non avrebbe comunque permesso ai familiari o a chiunque altro di opporsi. Secondo D’Angelo sussistevano, infatti, “evidenti ragioni di celerità di esecuzione del provvedimento”, tali da impedire, perfino, l’accesso agli atti, e tali da “non dover procedere alla comunicazione di avvio del procedimento”.

TSO Ravanusa, “Aberrazione giuridica”. Il caso approda in Parlamento. Rec News 06/05/2020. Secondo il legale del ragazzo si sarebbe configurata la violazione della Costituzione e della legge che regola le prestazioni sanitarie. Secondo il legale del ragazzo si sarebbe configurata la violazione della Costituzione e della legge che regola le prestazioni sanitarie. A Ravanusa i coinvolti a vario titolo (sindaco compreso) nell’episodio di Dario Musso – il giovane sottoposto a trattamento sanitario forzato – hanno commesso una “Aberrazione giuridica”, tanto che il caso – si apprende – approderà in Parlamento tramite interrogazione. In particolare, si sarebbe configurata la violazione degli articoli 21 (libertà di espressione con ogni mezzo di diffusione) e 32 e della Legge 833/1978. A sostenerlo è il legale giovane in un articolo de La notizia.

“Non c’erano i requisiti di legge per il TSO”. L’avvocato sostiene infatti che non ci fossero “i requisiti di legge per il TSO” , e che gli atti acquisiti difettassero “di motivazione”. La normativa vigente, infatti, dispone che prima di procedere a un trattamento forzato che di sicuro lascia conseguenze del soggetto che lo riceve, debbano giungere due certificazioni scritte da parte di due diversi medici all’ufficio del sindaco, e che – aspetto non di poco conto – il soggetto debba essere invitato a ricevere cure. I tempi sono dunque piuttosto lunghi, di sicuro giorni, e stimabili a seconda della gravità del comportamento del soggetto. Ma a Ravanusa, per ammissione dello stesso sindaco, tutto è successo da un momento all’altro.

Il caso del “picchiatore seriale dell’Arcella”. Musso era pericoloso? Nel 2014 in provincia di Padova ci fu il caso del “Picchiatore dell’Arcella”. La vicenda è documentata dal mattino di Padova. Si tratta dell’allora 33enne Mohajer Kourosh, iraniano colpevole di ben sette aggressioni siche “feroci”, stando al termine utilizzato dalla testata. Mohajer senza dubbio è uno di quei mirabili esempi di integrazione: sua l’aggressione a una coppia di anziani, suoi i pugni contro un sessantenne e le minacce a un altro anziano “con un calcinaccio”. Conducibile a lui anche l’aggressione di tre agenti di polizia che tentavano di fermarlo. Caro sindaco, valuti lei se il picchiatore di anziani debba ricevere il Tso. Cordialità.

Eppure per lui il sostituto procuratore Sergio Dini scriveva: “Quanto sopra anche la signoria vostra valuti, nell’ambito delle competenze e delle attribuzioni che le sono proprie, l’opportunità di procedere a Tso nei confronti del predetto. Cordialità”. Come andò a finire? Che più di un mese dopo “Mohajer è stato rintracciato e intrattenuto dagli uomini della polizia municipale negli uffici del commissariato di via Pietro Liberi. L’uomo (…) è stato trasportato in ambulanza al Pronto soccorso dopo una prima valutazione del medico del 118 accorso sul posto su richiesta della polizia municipale”.

Per gli aggressori ultimatum e inviti scritti. Per chi esprime la propria opinione, internamento coatto. “Come sempre avviene in casi del genere – si legge ancora – la valutazione su un eventuale trattamento sanitario obbligatorio, sarà condotta dallo psichiatra di turno che, sentito un secondo collega come prescritto dalla legge, redigerà l’apposito verbale ed eventualmente la sottoporrà al sindaco per la firma. Tale evenienza non è accaduta in nessuno dei tre fermi di polizia operati da polizia e carabinieri (…) Sabato, come risulta da documentazione depositata presso l’azienda ospedaliera, lo psichiatra di turno non ha ritenuto necessario avviare la procedura del Tso”.

A Ravanusa c’erano davvero condizioni tali di “squilibrio” da legittimare l’operato del sindaco e degli altri?

Questo il caso di un picchiatore seriale abituato ad aggredire gli anziani a pugni in faccia, per cui l’autorità preposta “non ha ritenuto necessario avviare la procedura del Tso”. A Ravanusa lo “squilibrio” manifestato era maggiore di questo? Sarà chi di competenza a stabilirlo, tanto più che la famiglia del giovane – fa sapere l’avvocato – ha denunciato l’accaduto. Che, si legge, approderà anche nei Palazzi istituzionali tramite un’interrogazione parlamentare.

·         Il Cerchio Magico degli Amministratori giudiziari. La Bibbiano degli anziani.

Lettera di Davide Parenti, Autore de «Le Iene», pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 dicembre 2020. Il 27 ottobre il professore Carlo Gilardi un uomo di 90 anni colto, mite - molto ricco - e nel pieno delle facoltà mentali è stato prelevato dalla sua casa di Airuno, portato nel reparto psichiatrico di un ospedale e poi in un ospizio: contro la sua volontà. Da quel momento, di lui si sono perse le tracce. Nessuno sapeva dove fosse, neanche il suo avvocato e i familiari, e nessuno a oggi ha potuto incontrarlo e fargli visita. Elena Barra, l'amministratrice di sostegno che ne ha disposto il ricovero, ha sempre detto che Carlo l'ha seguita volontariamente e che quel 27 ottobre la presenza dell'ambulanza e dei carabinieri era stata richiesta al solo fine di «garantire la sua incolumità». Sappiamo invece che Barra aveva in mano un ordine del giudice con tanto di autorizzazione all'uso della Forza pubblica per effettuare a Carlo un Accertamento sanitario obbligatorio. Sappiamo per certo che Carlo non voleva andare in Rsa: da un registrazione di quel giorno lo si sente, disperato, gridare a ripetizione la propria volontà «io voglio la mia libertà che mi avete sottratto»; da testimoni interni all'Rsa sappiamo che, appena ricoverato, per protesta ha iniziato uno sciopero della fame. La direzione dell'Rsa, insieme all'amministratrice Barra, ha mentito sulla durata del ricovero, sostenendo che sarebbe stato temporaneo, mentre da subito si prevedeva un ricovero a fine vita; tanto che la cartella clinica di Carlo viene modificata per ben due volte nell'arco di 40 giorni: da «Tso in Spdc deciso da amministratrice» a «ricovero sociale breve in Spdc», fino a «ricovero in Spdc» al fine di agevolare l'esecuzione di screening per Sars-CoV-2». L'amministratrice Barra sostiene di aver attuato queste misure per proteggere Carlo da persone che volevano approfittare dei suoi soldi e della sua generosità. Da anni Carlo è un vero e proprio benefattore della comunità: ha reso disponibili le sue case a chi non poteva pagarsi un affitto, ha donato beni immobili, ha regalato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini. Tutto questo fino a tre anni fa, perché da quando è sotto amministrazione, Carlo non ha più accesso ai suoi soldi e ancora di più, non può nemmeno fare un semplice estratto conto per verificarne i movimenti. Per questa ragione, a settembre, ha denunciato la sua precedente amministratrice, l'avvocata Adriana Lanfranconi, perché a suo dire avrebbe fatto un bonifico di 40 mila euro a una persona a lui sconosciuta. Il fascicolo della situazione patrimoniale di Carlo è a oggi ancora tenuto segreto. Nonostante le innumerevoli richieste, né il suo avvocato né l'avvocato dei familiari hanno potuto accedervi. Siamo riusciti a entrare in possesso di una parte della documentazione e quello che emerge sono grandi movimentazioni di denaro negli ultimi tre anni, e una serie di bonifici per acquisti di beni che non sono in possesso né in uso di Carlo e di cui lui non conosce nemmeno l'esistenza, compresa una bici elettrica da 1.290 euro che sta usando l'avvocata Adriana Lanfranconi. In diverse e recenti lettere, Carlo denunciava il timore che qualcuno lo volesse chiudere in un ospizio per gestire liberamente i suoi soldi e manifestava anche la volontà di rendere pubblico il suo caso chiedendo aiuto alla stampa. A luglio, proprio per questi timori, si era sottoposto spontaneamente a una perizia psichiatrica che ne aveva certificato l'integrità mentale e psichica. Carlo è isolato da 50 giorni, strappato ai suoi animali, alla vita francescana che ha sempre condotto e alle persone che gli vogliono bene. Nemmeno a un interdetto o a un carcerato è vietato incontrare i familiari e il proprio avvocato. Dopo i nostri servizi ci sono state diverse interrogazioni parlamentari ma nulla si muove. L'avvocato di Carlo, Silvia Agazzi, ha chiesto la revoca dell'amministratore e l'avvocato dei familiari, Mattia Alfano, ha fatto un esposto con tre ipotesi di reato: abuso d'ufficio, peculato, sequestro di persona. Al di là degli accertamenti giudiziari, quello che ci muove e ci preoccupa è la situazione in cui si trova Carlo, un uomo gentile che sta soffrendo a causa della propria generosità. È triste pensare che nel nostro Paese sia possibile interdire una persona solo perché decide liberamente di condividere la propria ricchezza con i vicini di casa, i compaesani, altri esseri umani meno fortunati. Vorremmo che chi è in potere di farlo cambiasse il finale di questa storia. Per Carlo, e per tutti noi

Carlo Gilardi, il suo caso sul Corriere della sera: "1.290 euro per la bici dell'ex amministratrice". Le Iene News il 15 dicembre 2020. Davide Parenti, fondatore de Le Iene, firma un articolo per il Corriere della sera in cui spiega la vicenda di Carlo Gilardi, il novantenne facoltoso e generoso rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà. Il caso di Carlo Gilardi è finito oggi sul Corriere della sera. È la prima volta che un quotidiano nazionale si occupa del novantenne di Airuno, in provincia di Lecco, che è stato rinchiuso in un ospizio contro la sua volontà. Stasera Nina Palmieri ci racconterà gli sviluppi della vicenda, con novità legate proprio alla gestione del patrimonio dell'anziano facoltoso e altrettanto generoso (qui sopra potete vedere l'ultimo servizio su questa vicenda andato in onda). Come ha spiegato Davide Parenti, il fondatore de Le Iene, sulle pagine del quotidiano di via Solferino, del momento in cui Carlo è stato prelevato da casa sua "sappiamo che Elena Barra, l'amministratrice di sostegno, aveva in mano un ordine del giudice con tanto di autorizzazione all'uso della forza pubblica per effettuargli un accertamento sanitario obbligatorio. Sappiamo per certo che Carlo non voleva andare in Rsa: da una registrazione di quel giorno lo si sente, disperato, gridare a ripetizione la propria volontà: 'Io voglio la mia libertà che mi avete sottratto'; da testimoni interni all'Rsa sappiamo che, appena ricoverato, per protesta ha iniziato uno sciopero della fame".  Anche la direzione dell'Rsa è chiamata in causa nella vicenda perché, spiega Parenti, "insieme all'amministratrice Barra, ha mentito sulla durata del ricovero, sostenendo che sarebbe stato temporaneo, mentre da subito si prevedeva un ricovero a fine vita; tanto che la cartella clinica di Carlo viene modificata per ben due volte nell'arco di 40 giorni: da "Tso in Spdc deciso da amministratrice" a "ricovero sociale breve in Spdc", fino a "ricovero in Spdc" al fine di agevolare l'esecuzione di screening per Sars-CoV-2". E stasera a Le Iene, nel nuovo servizio di Nina Palmieri, vi racconteremo delle novità legate alla gestione del patrimonio di Gilardi. Sul Corriere, infatti, Parenti spiega che "il fascicolo della situazione patrimoniale di Carlo è a oggi ancora tenuto segreto. Nonostante le innumerevoli richieste, né il suo avvocato né l'avvocato dei familiari hanno potuto accedervi. Siamo riusciti a entrare in possesso di una parte della documentazione e quello che emerge sono grandi movimentazioni di denaro negli ultimi tre anni, e una serie di bonifici per acquisti di beni che non sono in possesso né in uso di Carlo e di cui lui non conosce nemmeno l'esistenza, compresa una bici elettrica da 1.290 euro che sta usando la sua precedente amministratrice di sostegno, l'avvocata Adriana Lanfranconi. In diverse e recenti lettere Carlo denunciava il timore che qualcuno lo volesse chiudere in un ospizio per gestire liberamente i suoi soldi e manifestava anche la volontà di rendere pubblico il suo caso chiedendo aiuto alla stampa. A luglio, proprio per questi timori, si era sottoposto spontaneamente a una perizia psichiatrica che ne aveva certificato l'integrità mentale e psichica". Un centinaio di cittadini ha manifestato sabato scorso fuori dalla Rsa dove si trova rinchiuso Carlo. Siamo in tanti, infatti, ad aver a cuore le sue sorti. "Al di là degli accertamenti giudiziari", spiega ancora Parenti sul Corriere, "quello che ci muove e ci preoccupa è la situazione in cui si trova Carlo, un uomo gentile che sta soffrendo a causa della propria generosità. È triste pensare che nel nostro Paese sia possibile interdire una persona solo perché decide liberamente di condividere la propria ricchezza con i vicini di casa, i compaesani, altri esseri umani meno fortunati. Vorremmo che chi è in potere di farlo cambiasse il finale di questa storia. Per Carlo, e per tutti noi". 

Carlo Gilardi, 90 anni, è stato prelevato dalla sua casa di Airuno, portato in un reparto psichiatrico ospedaliero e poi in un ospizio. Presentato esposto con tre ipotesi di reato: abuso d’ufficio, peculato e sequestro di persona. Davide Parenti su il Corriere della Sera il 15/12/2020. Il 27 ottobre il professore Carlo Gilardi, un uomo di 90 anni colto, mite — molto ricco — e nel pieno delle facoltà mentali è stato prelevato dalla sua casa di Airuno, portato nel reparto psichiatrico di un ospedale e poi in un ospizio: contro la sua volontà. Da quel momento, di lui si sono perse le tracce. Nessuno sapeva dove fosse, neanche il suo avvocato e i familiari, e nessuno a oggi ha potuto incontrarlo e fargli visita.

Il ricovero «coatto». Elena Barra, l’amministratrice di sostegno che ne ha disposto il ricovero, ha sempre detto che Carlo l’ha seguita volontariamente e che quel 27 ottobre la presenza dell’ambulanza e dei carabinieri era stata richiesta al solo fine di «garantire la sua incolumità». Sappiamo invece che Barra aveva in mano un ordine del giudice con tanto di autorizzazione all’uso della Forza pubblica per effettuare a Carlo un Accertamento sanitario obbligatorio.

Lo sciopero della fame. Sappiamo per certo che Carlo non voleva andare in Rsa: da un registrazione di quel giorno lo si sente, disperato, gridare a ripetizione la propria volontà «io voglio la mia libertà che mi avete sottratto»; da testimoni interni all’Rsa sappiamo che, appena ricoverato, per protesta ha iniziato uno sciopero della fame. La direzione dell’Rsa, insieme all’amministratrice Barra, ha mentito sulla durata del ricovero, sostenendo che sarebbe stato temporaneo, mentre da subito si prevedeva un ricovero a fine vita; tanto che la cartella clinica di Carlo viene modificata per ben due volte nell’arco di 40 giorni: da «Tso in Spdc deciso da amministratrice» a «ricovero sociale breve in Spdc», fino a «ricovero in Spdc» al fine di agevolare l’esecuzione di screening per Sars-CoV-2».

L’amministratrice di sostegno. L’amministratrice Barra sostiene di aver attuato queste misure per proteggere Carlo da persone che volevano approfittare dei suoi soldi e della sua generosità. Da anni Carlo è un vero e proprio benefattore della comunità: ha reso disponibili le sue case a chi non poteva pagarsi un affitto, ha donato beni immobili, ha regalato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini. Tutto questo fino a tre anni fa, perché da quando è sotto amministrazione, Carlo non ha più accesso ai suoi soldi e ancora di più, non può nemmeno fare un semplice estratto conto per verificarne i movimenti.

La denuncia. Per questa ragione, a settembre, ha denunciato la sua precedente amministratrice, l’avvocata Adriana Lanfranconi, perché a suo dire avrebbe fatto un bonifico di 40 mila euro a una persona a lui sconosciuta. Il fascicolo della situazione patrimoniale di Carlo è a oggi ancora tenuto segreto. Nonostante le innumerevoli richieste, né il suo avvocato né l’avvocato dei familiari hanno potuto accedervi. Siamo riusciti a entrare in possesso di una parte della documentazione e quello che emerge sono grandi movimentazioni di denaro negli ultimi tre anni, e una serie di bonifici per acquisti di beni che non sono in possesso né in uso di Carlo e di cui lui non conosce nemmeno l’esistenza, compresa una bici elettrica da 1.290 euro che sta usando l’avvocata Adriana Lanfranconi.

Isolato da 50 giorni. In diverse e recenti lettere, Carlo denunciava il timore che qualcuno lo volesse chiudere in un ospizio per gestire liberamente i suoi soldi e manifestava anche la volontà di rendere pubblico il suo caso chiedendo aiuto alla stampa. A luglio, proprio per questi timori, si era sottoposto spontaneamente a una perizia psichiatrica che ne aveva certificato l’integrità mentale e psichica. Carlo è isolato da 50 giorni, strappato ai suoi animali, alla vita francescana che ha sempre condotto e alle persone che gli vogliono bene. Nemmeno a un interdetto o a un carcerato è vietato incontrare i familiari e il proprio avvocato. Dopo i nostri servizi ci sono state diverse interrogazioni parlamentari ma nulla si muove. L’avvocato di Carlo, Silvia Agazzi, ha chiesto la revoca dell’amministratore e l’avvocato dei familiari, Mattia Alfano, ha fatto un esposto con tre ipotesi di reato: abuso d’ufficio, peculato, sequestro di persona.

L’interdizione di un uomo generoso. Al di là degli accertamenti giudiziari, quello che ci muove e ci preoccupa è la situazione in cui si trova Carlo, un uomo gentile che sta soffrendo a causa della propria generosità. È triste pensare che nel nostro Paese sia possibile interdire una persona solo perché decide liberamente di condividere la propria ricchezza con i vicini di casa, i compaesani, altri esseri umani meno fortunati. Vorremmo che chi è in potere di farlo cambiasse il finale di questa storia. Per Carlo, e per tutti noi.

Interessi economici dietro la vicenda di Carlo Gilardi? Le Iene News il 15 dicembre 2020. Nina Palmieri ci racconta che risulterebbero numerosi movimenti di denaro dal conto di Carlo Gilardi a favore, tra l’altro, di alcuni professionisti del lecchese. Come nel caso di un geometra, che siamo andati a trovare. Con Nina Palmieri torniamo a parlare di Carlo Gilardi, il benefattore di 90 anni del lecchese che da 50 giorni è ricoverato in una Rsa contro la sua volontà. La Iena lo fa attraverso documenti, di cui ci parla il legale dei cugini di Carlo Gilardi avvocato Mattia Alfano e che potrebbero iniziare a far luce sugli interessi economici legati al patrimonio dell’uomo, una vicenda forse in qualche modo connessa a tutta questa assurda situazione. Intanto, se da una parte l’amministratore di sostegno e il  tribunale parlano di una necessaria tutela di Carlo nei confronti di persone che si stavano approfittando di lui e del suo denaro e che oggi sono rinviate a giudizio per circonvenzione di incapace, dall’altra, come vi abbiamo fatto sentire nei precedenti servizi, c’è la versione dello stesso Carlo, che aveva scritto in una delle sue tante lettere: “Le persone di legge vogliono rinchiudermi in un ospizio per mettermi a tacere…” e che aveva messo nero su bianco nella sua denuncia di settembre questa accusa: “Ritengo che da tempo stiano cercando di farmi dichiarare incapace di intendere e volere al solo fine di poter gestire liberamente i miei soldi e le mie libertà”. Andiamo a parlare con un geometra, destinatario di alcuni di quei bonifici partiti dal conto di Carlo Gilardi. In un video Carlo dimostrava di avercela proprio con quel geometra e, a provare a spiegare forse il motivo di quel rancore, ci sarebbero alcune parole dette all’uomo dalla sua ex amministratrice, la signora Lanfranconi: “C’è stato qualcuno che ha ritenuto che lei dovesse andare in una casa di riposo…c’è gente che la vorrebbe chiusa in un ricovero”. Aveva aggiunto poi proprio il nome di quel professionista. Ma perché quest’uomo dovrebbe voler rinchiudere Carlo in un ospizio? Che interesse potrebbe trarne? L’uomo, raggiunto con la telecamera nascosta, racconta: “Sono stato un riferimento per Carlo fino a un anno e mezzo, due anni fa, dopodiché Carlo… poverino… ha questa malattia, questa disfunzione… e quindi tutti quelli che lo mettevano in guardia non sono più suoi amici”. Con disfunzione forse intende l’innata generosità di Carlo, che lo porta a voler vivere nella povertà, regalando a persone secondo lui meritevoli di aiuto i suoi soldi. “Ci sono perizie che dicono che sta benissimo… l’unica cosa che non capisce è che lo stanno tutti menando per il naso! La sorella ha provato a dirgli: "Carlo tu vuoi fare San Francesco e andare in giro a piedi nudi, io non mi oppongo"... Ogni tanto gli si concedeva, il giudice ha autorizzato alcune donazioni”. Poi prosegue: “Le volte che gli abbiamo detto: Carlo nessuno ti vieta di regalare tutto… ma non regalarle a questi qui! C’era un tipo particolarmente insistente, questo è un locale, non un negro o un marocchino, questa persona si è fatta prestare una barca di soldi, poi faceva finta di restituirli… una presa in giro totale. Si parla che è scappato dal patrimonio di Carlo un milione di euro eh... Lui poverino era davvero maltrattato da questa gente che gli girava attorno… per arricchirsi loro!” Il professionista ci parla anche del provvedimento con il quale Carlo Gilardi è stato portato via da casa. “Eh secondo me sì… io penso che sia l’unica cosa giusta che si poteva fare, che io raccomandavo sempre…”. Anche se poi ci tiene a specificare una cosa. “È la mia opinione da profano, io sono solo geometra, non ho informazioni mediche o di quel tipo…”. Ma alla fine dice: “Però conosco vita, morte e miracoli, per me era molto meglio che venisse ricoverato”. E lo conoscerebbe talmente bene che si lascia scappare un dettaglio davvero importante: “Io sapevo prima che venisse pubblicato il nome del luogo…”, cioè il nome dell’Rsa dove è stato portato Carlo. “A me avevano ordinato di non menzionare dove è ricoverato”. Un testimone ci racconta che questo geometra sarebbe tra i destinatari del testamento della signora Sandra, la sorella di Carlo Gilardi, ultranovantenne e anche lei senza figli né eredi, che nel 2017 ha chiesto per Carlo l’amministrazione di sostegno perché sembra temesse che, a forza di regalarli in giro, il fratello finisse tutti i soldi. “È uno storico amico di famiglia… amico, consigliere, consulente economico… non saprei come definirlo. Comunque è una delle persone in assoluto più vicine alla sorella di Carlo. La signora Sandra era sempre con questo geometra. La portava a pranzo e lei gli chiedeva conferma per ogni operazione finanziaria”. Per l’avvocato Alfano, legale dei cugini di Carlo Gilardi, “c’erano tante persone che gravitavano attorno a Carlo, che si sono approfittate della sua prodigalità”. E poi prosegue: “Abbiamo avuto accesso anche agli estratti conto bancari di Carlo in cui emergono una serie di riscontri quanto meno singolari e tutta una serie di bonifici che vengono fatti a professionisti della zona a vario titolo e che mi immagino siano stati autorizzati dal giudice tutelare”. Tra questi un acquisto molto particolare, come un bonifico di 3 anni fa, poco dopo l’inizio dell’amministrazione di sostegno, per comprare una bici elettrica da oltre 1.200 euro. “Una bicicletta elettrica che mi immagino difficilmente Carlo possa aver utilizzato”, spiega l’avvocato Alfano. Un bonifico intestato all’avvocato Adriana Lanfranconi quando in realtà, a fine 2017, l’amministratrice di Carlo non era lei ma una sua collega di studio. Siamo andati proprio nel negozio dove è stato acquistato il modello femminile di bici elettrica indicata nel bonifico, fingendoci interessati al modello preso dalla Lanfranconi e i negozianti si ricordano benissimo di lei. E ricordano anche con precisione la bici che ha comprato da loro… “Lei non l’aveva con i freni a disco, aveva i v brake..”. L’avvocato Alfano intanto fa sapere che è stata depositata una denuncia per peculato, abuso d’ufficio e sequestro di persona”. Una buona notizia in tutta questa vicenda c’è: l’avvocato Agazzi che da questa estate cerca di diventare il legale di Carlo, ha finalmente avuto la nomina. Ma c’è un ma…Spiega l’avvocato: “È stato aperto un subprocedimento che non ci consente di avere accesso al fascicolo completo dell’amministrazione di Carlo e quindi vedere e capire cosa è successo in questi 3 anni e come si è arrivati a questo punto”. Il legale spiega di avere chiesto “la revoca o la sostituzione dell’amministratore di sostegno”, cioè dell’avvocato Elena Barra, ritenendo che “non abbia rispettato le volontà di Carlo Gilardi”. E per questo ci sarà un’udienza il 22 dicembre…“Abbiamo chiesto di poter far visita a Carlo”, spiega a Nina Palmieri l’avvocato Agazzi, “di poterlo vedere, anche perché non abbiamo più notizie, non l’abbiamo più visto né sentito dal 27 di ottobre”. Ma intanto, a una settimana dall’udienza, l’avvocato di Carlo non ha avuto ancora il permesso di incontrarlo. “Più di 10 giorni fa abbiamo mandato una pec all’amministratore di sostegno, a oggi non abbiamo avuto risposta. A questo punto abbiamo depositato la stessa istanza al giudice tutelare, noi abbiamo necessità di poter vedere Carlo, di parlare con lui, dirgli che ci sarà un’udienza il 22 e anche di rincuorarlo del fatto che stiamo lavorando per farlo uscire il prima possibile”.

Carlo Gilardi, perché La Provincia di Lecco si preoccupa di un corteo anziché di un anziano in difficoltà? Le iene News il 12 dicembre 2020. Secondo il quotidiano di Lecco ora il problema sarebbe un corteo anziché le condizioni di Carlo Gilardi, un anziano rinchiuso in una rsa contro la sua volontà. Oggi alle 15 un gruppo di cittadini preoccupati per Carlo Gilardi, 90 anni e da 44 giorni rinchiuso nella rsa di Airuno, nel lecchese, ha deciso d’incontrarsi lì davanti per un corteo per chiedere che possa tornare a casa sua. Le Iene non c’entrano nulla con la manifestazione, e non ne hanno neppure parlato nei servizi di Nina Palmieri (qui sopra potete vedere l'ultimo andato in onda martedì scorso), eppure c’è chi vuol far credere il contrario. Come Corrado Valsecchi, ex candidato sindaco, e Gaia Bolognini, rispettivamente capogruppo e portavoce di Appello per Lecco. Il quotidiano La Provincia di Lecco ha dato loro voce spiegando la contrarietà alla manifestazione: “La priorità è la tutela della salute del professore e non certo dare altro materiale giornalistico alle Iene”. Perché La Provincia di Lecco si preoccupa di un corteo di cittadini che chiedono che Carlo Gilardi possa tornare a casa sua, anziché denunciare il fatto stesso? Per La Provincia di Lecco è normale che un anziano sia prelevato dalla propria abitazione e rinchiuso in una rsa contro la sua volontà?

Carlo in Rsa, il sindaco scrive a Mattarella: non per farlo uscire, ma per fermare i suoi hater. Le iene News il 9 dicembre 2020. Il sindaco di Airuno, il paese di Carlo Gilardi, scrive al Presidente della Repubblica per chiedere di “rasserenare gli animi”, “desideriamo che si lasci lavorare serenamente l’amministrazione”. Ma non era proprio lui che aveva proposto un secchio di acqua fredda “contro gli sciacalli e gli scocciatori come Le Iene”? Intanto Carlo Gilardi resta ricoverato in una Rsa. Lancia un appello al presidente della Repubblica il sindaco di Airuno Alessandro Milani: non però per far uscire dalla Rsa, dopo 40 giorni di ricovero, Carlo Gilardi (guardate qui sopra l’ultimo servizio di Nina Palmieri) ma per chiedere al capo dello Stato Sergio Mattarella di “rasserenare gli animi”. “Desideriamo che si lasci lavorare serenamente l’amministrazione con i suoi uffici – scrive il primo cittadino del comune del lecchese - in un momento storico complesso come quello che le nostre comunità cittadine del territorio stanno vivendo tuttora, a causa della pandemia Covid-19 ancora in corso”. L’appello del sindaco Milani sembra proprio un riferimento all’eco provocata dalla vicenda di Carlo Gilardi, il 90enne benefattore del paese lecchese, Airuno, che da 40 giorni è stato portato in Rsa forse contro la sua volontà. Solo qualche giorno fa lo stesso sindaco, “assediato” sui suoi profili social da quanti si erano indignati per la vicenda di Carlo, aveva postato questa frase: “L’unico rimedio contro gli sciacalli e gli scocciatori come Le Iene è un secchio di acqua fredda”. Noi con Nina Palmieri il sindaco lo avevamo incontrato e nonostante Carlo avesse donato gran parte del suo patrimonio al comune di Airuno, il primo cittadino ci aveva risposto che “non gradiva essere contattato per questa vicenda perché il Comune non c’entrava”. Milani ha poi lanciato anche un secondo appello rivolto al sindaco di Bari Antonio Decaro, presidente nazionale dell’Anci, chiedendo di intervenire nella vicenda di Carlo Gilardi per “riportare ad un giusto clima di armonia il confronto di idee”. Nel corso dell’ultimo servizio Nina Palmieri ci ha raccontato cosa è successo davvero il giorno in cui l’anziano benefattore è stato portato via dalla sua casa e ha provato a risolvere la questione delle sue abitazioni che, stando a quanto sostiene l’amministratrice di sostegno avvocato Barra, sarebbe uno degli ostacoli alla sua uscita dalla Rsa. Intanto Carlo Gilardi, che qualche giorno fa ha compiuto 90 anni proprio in quella sua stanza della Rsa, non è ancora tornato a casa.

Facciamo qualcosa subito per Carlo Gilardi? Le iene News l'8 dicembre 2020. Torniamo a parlarvi di Carlo Gilardi, il 90enne ricco benefattore ricoverato da 40 giorni contro la sua volontà. Nina Palmieri ci racconta cosa è successo davvero il giorno in cui l’uomo è stato portato via dalla sua casa e prova a risolvere la questione delle sue abitazioni che, stando a quanto sostiene l’amministratrice di sostegno avvocato Barra, sarebbe uno degli ostacoli alla sua uscita dalla rsa. Nina Palmieri torna a parlarci di Carlo Gilardi, il benefattore del lecchese che da 40 giorni è chiuso in una rsa contro la sua volontà, prelevato da casa per volere di un giudice. Una rsa in cui l’uomo ha passato in solitudine anche il giorno del suo 90esimo compleanno, mentre fuori in tantissimo, attraverso i nostri social e non sono, gli facevano gli auguri e speravano in una sua pronto ritorno a casa, compresi Andrea Bocelli e Vittorio Sgarbi. Anche noi de Le Iene lo abbiamo festeggiato portandogli in rsa un pacchetto che ci auguriamo gli sia stato recapitato, contenente dei semplici biscotti e dei bloc notes, magari da riempire con le sue amate poesie. Anche Andrea Bocelli, uno dei suoi cantanti preferiti, ha voluto festeggiarlo nel video che abbiamo pubblicato su Iene.it e che potete rivedere qui. Non sappiamo se Carlo abbia potuto percepire tutto questo affetto, perché come ci è stato raccontato, “anche il giorno del suo compleanno è rimasto tutto il giorno chiuso nella sua stanza, movimenti non ce ne sono stati”. “È sempre da solo lì, so che non esce dalla stanza neanche per mangiare… Io ho sempre più paura che smetta di lottare, che perda lucidità… ha pur sempre 90 anni e lì non ha nessuno stimolo per tenere accesa la testa… so per certo che ancora ora chiede di andare a casa, ma se continuano a non dargli retta come finirà quest’uomo?”. A quanto sostengono persone bene informate all’interno della struttura, la dirigenza dell’rsa starebbe innalzando un muro sempre più alto intorno a lui: “Stanno partendo i provvedimenti, vogliono intimorirci per non farci più parlare con voi.. hanno mandato una lettera in cui dicono che stiamo facendo un reato grave di violazione della privacy. Vogliono capire chi è stato a parlarvi dei cambi in cartella (clinica, ndr)”. Un clima che parrebbe confermato da quanto ci dice una nostra fonte interna: “C’è tensione in istituto. I dirigenti sono sempre nel reparto di Carlo, come volessero fare le vedette. Il direttore stesso ha pure fatto una denuncia contro ignoti… dicono che arriverà la procura a fare delle indagini. Ma ben venga e le facessero bene! Cosi magari Carlo se ne torna a casa sua…”. E aggiunge: “Hanno pure bloccato la cartella clinica! Ora non possiamo più accedere tutti, solo quelli che lavorano nel suo reparto. Hanno blindato tutto, c’è pure il coprifuoco tipo, nessuno può andare nel suo reparto se non è di turno”. A oggi né i suoi amici, né i suoi familiari, né il suo avvocato sono ancora riusciti a incontrarlo. A vietarlo, con un curioso rimpallo di responsabilità, è il direttore dell’rsa e, soprattutto, la sua amministratrice di sostegno, l’avvocato Elena Barra. La legge dice che l’amministratore di sostegno è una figura, spesso un familiare o una persona di fiducia, che, su incarico di un giudice, si occupa appunto di “amministrare” alcuni aspetti della vita quotidiana di una persona, aspetti di cui per qualche motivo non riesce più ad occuparsi da solo. Nel caso in cui non ci siano parenti prossimi entro il quarto grado, il giudice può nominare un amministratore che in questo caso è l’avvocato Barra.  La situazione di Carlo, che come vi abbiamo raccontato ha un grandissimo patrimonio però è anomala sotto diversi punti di vista. Lo provano anche le carte di cui siamo entrati in possesso e di cui vi parleremo in modo più approfondito nei prossimi servizi. Nina Palmieri fa il punto anche sulla questione del trattamento sanitario obbligatorio a cui, come ci era stato raccontato, sarebbe stato sottoposto l’anziano dopo essere andato via da casa. Ora sappiamo come dovrebbero essere andate davvero le cose, grazie ad alcune carte di cui siamo entrati in possesso: ai carabinieri intervenuti quel 27 ottobre è stato mostrato dall’avvocato Barra un provvedimento del tribunale, dove si autorizzava l’intervento della Forza Pubblica e nel quale si richiedeva per Carlo anche il cosiddetto “accertamento sanitario obbligatorio” (Aso). Su questo particolare quindi la dottoressa Barra diceva la verità. Ma anche su questo accertamento, le domande non mancano, perché si tratta di un provvedimento che è lo step prima dell’ultima ratio, cioè il tso. Un accertamento fatto su richiesta di un medico, verso una persona per la quale si abbia il fondato sospetto di alterazioni psichiche tale da rendere urgente un intervento terapeutico. Un accertamento che, come il tso, deve essere convalidato dal sindaco e indicare anche il luogo, solitamente un centro di salute mentale, in cui deve essere effettuato. Quel giorno dunque la Barra sarebbe stata pronta a  sottoporre Carlo ad un aso, ma l’uomo ha provato in ogni modo a ribellarsi e a gridare la sua volontà, come vi avevamo fatto sentire: “Se volete mi portate anche in galera, non mi interessa! Reati contro la legge italiana non credo di averne commessi”. Alla fine poi Carlo si è rassegnato ed ha accettato di seguirli e infatti i carabinieri segnalano che non è stato necessario l’accertamento sanitario obbligatorio. Chi ha deciso di ricoverarlo nella rsa spiega che l’uomo si troverebbe lì, “in attesa di liberare le sue case”. Eh sì perché Carlo Gilardi di case ne ha diverse ma secondo il tribunale nessuna andava bene per lui. Ibrahim è il suo badante e insieme ad altre 7 persone è stato rinviato a giudizio per circonvenzione di incapace. Questo a seguito di una denuncia di due anni fa della vecchia amministratrice di Carlo, la dottoressa Lanfranconi, che però a febbraio di quest’anno l’ha assunto con regolare contratto da badante. L’uomo ci racconta: “Carlo fino a questa estate abitava in questa casa”. Una grande casa di campagna, dove amava occuparsi dell’agricoltura e dei suoi animali, ma che secondo il tribunale era troppo sporca e fatiscente. Ma se il problema è davvero questo, ci chiediamo, perché si sta facendo passare del tempo senza provvedervi? Ma questa non è la sua unica sua casa, perché Carlo ne ha una seconda proprio al centro del paese, davanti al municipio, che potrebbe essere sistemata con poco. Una casa che una ditta di ristrutturazioni potrebbe rimettere a nuovo in due settimane. Una casa che a quanto pare è occupata abusivamente da una persona, ma anche su questo fronte sembra che tutto taccia. Carlo intanto resta chiuso da 40 giorni, contro la sua volontà, nella sua stanzetta della rsa che gli costa una retta di circa 3.000 euro al mese. Abbiamo contattato alcune agenzie immobiliari della zona e di case belle e che farebbero proprio per l’uomo ce ne sono eccome. “Ne avremo in zona Airuno e dintorni una decina in pronta consegna. Nell’arco di 2, 3, 4 giorni, il tempo di preparare un contratto. Da 550 euro a un massimo di mille”, ci spiega un’agenzia. “Abbiamo due possibilità”, aggiunge una seconda. Cosa aspettiamo ancora? Vi lasciamo con le parole che Carlo scriveva e affiggeva sulla porta di casa poco prima di essere rinchiuso: “Le persone di legge vogliono rinchiudermi in un ospizio per mettermi a tacere... Fino ad oggi non sono ancora deficiente ma capace di intendere e volere… hanno nelle loro mani tutte le malizie della legge ma non è lecito imprigionare un individuo. Grazie per la lettura, Carlo Gilardi (di anni 90 ma ancora capace di vivere fuori)”.

Carlo Gilardi compie 90 anni, il nostro appello a Mattarella: regaliamogli la libertà. Le iene News il 3 dicembre 2020. La cartella clinica di Carlo Gilardi sarebbe stata modificata una seconda volta. Lo sostiene la fonte interna alla rsa in cui da 25 giorni si trova l’anziano benefattore di Lecco. Siamo tornati a parlare con la sua amministratrice di sostegno. In queste ore Carlo compie 90 anni, Nina Palmieri si appella nuovamente al presidente della Repubblica per regalargli la libertà che sembra richiedere. “Hanno cambiato un’altra volta la cartella clinica”. A sostenerlo è una nostra fonte interna alla rsa, dove da 35 giorni si trova Carlo Gilardi. Il 4 dicembre è il suo compleanno, ma i suoi 90 anni non li festeggia nel suo paese e nella sua casa, ma in quella che lui forse vive come una prigione da 3mila euro al mese. “È sparita la parola tso, ora c’è scritto solo ricovero sociale breve in reparto psichiatrico. Ora vogliono far passare che sono andati a prenderlo con carabinieri e ambulanza e l’hanno messo nel reparto di psichiatria dell’ospedale per motivi sociali, ma non prendiamoci in giro!”, sosteneva la nostra fonte nel quarto servizio di Nina Palmieri (qui il video). Assicurava di avere anche le prove di quello che diceva con le fotografie dei documenti nella prima e nella seconda versione. Tutto questo sarebbe avvenuto contrariamente a quello che ci ha sempre detto la sua amministratrice di sostegno. “Confermo che stiamo lavorando per farlo tornare velocemente a casa”, sostiene infatti l’avvocato Elena Barra. Ora quella cartella clinica sarebbe stata cambiata nuovamente secondo quanto sostiene la stessa fonte. “È successo martedì pomeriggio, oggi dice ‘ricovero in rsa deciso da amministratore per sua tutela al fine di agevolare l’esecuzione di screening per Sars-Cov2. L’amministratore ha optato per breve ricovero a carattere sociale in spdc’”. Proprio di questa cartella clinica abbiamo parlato con l’avvocato Barra che abbiamo incontrato nel suo studio. “Non ci sono aggiornamenti e non ho accesso ai documenti della rsa che è un atto interno, quindi non sono al corrente di questa cosa. Confermo che non è stato fatto un tso”, ha detto Barra che è l’amministratrice di sostegno di Carlo. Ma proprio il direttore sanitario della rsa, Andrea Millul, ci aveva detto che “la cartella non è un atto pubblico, solo poche persone hanno accesso: ossia chi ci lavora, il signor Gilardi, l’amministratrice di sostegno e il giudice”. L’avvocato Barra ribadisce anche che è sempre stato un ricovero temporaneo, ma le nostre fonti invece sostengono altro: “Ricovero definitivo e paziente contrario, pure questo è nero su bianco”. A questo punto l’avvocato precisa che “forse è stato indicato ricovero definitivo perché non c’era la data di uscita dalla struttura. Non c’è una data di dimissione che dipende da una serie di circostanze che non sono nella mia disponibilità. All’ingresso era stato concordato con il signor Carlo che era una situazione temporanea in attesa di liberare le sue case”. Ma allora lo ripetiamo: perché gli è vietato qualsiasi contatto con il mondo esterno a parte qualche eccezione? Perché vietare alla famiglia di Carlo di accedere al fascicolo? Rinnoviamo il nostro appello al presidente della Repubblica: in queste ore Carlo compie 90 anni, gli regali la libertà. 

Da "huffingtonpost.it" il 6 novembre 2020. Anziani nudi lasciati per terra insieme ai loro escrementi, incastrati tra le sbarre di protezione del letto, con vistose ferite e una piaga da decubito in una paziente non adeguatamente curata e conseguentemente peggiorata nel tempo. Sono le foto, sequestrate dai carabinieri, scattate da una dipendente di un casa di riposo che hanno fatto scattare l’inchiesta della Procura di Catania. A conclusione delle indagini, eseguite tra marzo e giugno 2019, il Gip, accogliendo la richiesta dei Pm, ha disposto il divieto di esercitare l’attività imprenditoriale per 12 mesi per Giovanni Pietro Marchese, 60 anni, amministratore unico della casa di riposo San Camillo di Aci Sant’Antonio, e di esercitare la professione per nove mesi a tre dipendenti della struttura: Giovanna Giuseppina Coco, di 37 anni, e per le 41enni Rosaria Marianna Vasta e Alessandra Di Mauro. Le immagini al centro dell’inchiesta sono state estrapolate dal cellulare della Coco, dopo che era stato sequestrato assieme ad altri apparati dai carabinieri nel luglio del 2019. Controlli eseguiti anche da militari dell’Arma hanno permesso di accertare diverse gravi irregolarità e loro colleghi del Nil hanno trovato anche undici lavoratori utilizzati ‘in nero’, comprese due indagate, la Di Mauro e la Vasta, e alcune di queste deferite in stato di libertà per aver percepito illecitamente il reddito di cittadinanza. Secondo l’accusa il personale avrebbe “maltrattato gli anziani degenti della struttura”, “creato un clima abituale di vessazioni, umiliazioni e mortificazioni”, “disinteressandosi della cura, anche medica, e dell’assistenza degli anziani e delle precarie condizioni igienico-sanitarie della casa di riposo, dove sono stati avvistati dei topi e gli anziani hanno contratto la scabbia, così aggravando lo stato di sofferenza fisica e psichica degli ospitati”. “Maltrattamenti con condotte reiterate ed abituali”. E’ l’accusa mossa dalla Procura di Catania ai tre dipendenti della Casa di riposo. Anche nei confronti di un centenario costretto a mettersi a letto da solo, mortificato così: “Che schifo di persona, che schifo, educazione zero, ora la lascio sulla sedia tutto sporco di pipì, come i porci”. Secondo l’accusa non soltanto “non prestavano assistenza agli ospiti, anche a fronte delle loro ripetute richieste d’aiuto”, ma “in diverse occasioni li legavano ai tavoli o ai letti per non farli muovere”, “li lavavano con l’acqua fredda o, per punizione, non li cambiavano a seguito dell’espletamento dei loro bisogni fisiologici o li lasciavano nel letto con le lenzuola sporche”. Inoltre, contesta loro la Procura dopo le indagini dei carabinieri della stazione di Aci Sant’Antonio, “li lavavano con il sapone della lavatrice, deridendoli poi per il loro profumo di “aloe vera”, cercavano di curare la scabbia, come da precise indicazioni del titolare, con semplici impacchi di olio di oliva in luogo della corretta terapia farmacologica” e “somministravano agli ospiti farmaci scaduti”. Avrebbero anche minacciato urlando a un’anziana di ” legarla, lasciarla piena di feci e di non lavarla”, causando il pianto della donna. Inoltre, accusa la Procura di Catania, erano soliti “denigrare, mortificare e insultare abitualmente” gli anziani ospiti dicendo loro: “Schifoso, sporco, più schifo di te non ce n’è” o ”è un ignorante, maleducato, facchino ed uno schifo di persona”.

Estratto dell’articolo di Renato Farina per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2020. A Palermo è stato scoperto il solito lager per anziani. In una struttura chiamata "Anni Azzurri", un signore di 84 anni, invalido, è stato sottoposto per chissà quanto tempo a ogni tipo di umiliazione, trattato come se fosse uno straccio sudicio di escrementi, e schifato con lo stesso disgusto, ostinatamente, ossessivamente, fino all' intervento della polizia. Questo ospizio dell' orrore è stato chiuso, gli anziani restituiti alle famiglie, i presunti colpevoli sono stati semplicemente denunciati, con l' obbligo di residenza nel loro Comune. Non avevano requisiti professionali, una badante era pagata in nero ed è inquisita perché riscuoteva il reddito di cittadinanza. Forse rischia di più per quello che per quel che i video documentano quanto a infamia. […] Il titolare della struttura era affiancato da padre, madre e fratello nella gestione quotidiana dell' attività. Specie di notte si aggiungeva la citata badante, in nero, a cui hanno sequestrato la tessera del reddito di cittadinanza. Il filmato spaventa. Quell' uomo capisce tutto, ma non può muoversi. A 84anni, mendica di essere portato in bagno. Invece no. Gliela fanno fare dentro. Dopo di che parte l' umiliazione che tocca agli incontinenti, trattati come immondizia. La badante è spiccia, la parlata chiara e netta. Gli dice: «Puzzi di merda, maiale che sei, maledetto vecchio, testa di minchia, vatti ad ammazzare». Cento giorni di vessazioni registrate dalle telecamere nascoste. Imbavagliato, percosso, dice l' ordinanza del giudice. Ci domandiamo, ma forse non abbiamo capito bene: cento giorni? Ma come si fa a lasciar continuare la tortura? La flagranza doveva scattare al primo istante. Si voleva vedere in quanti si accanissero? Un signore anziano non può essere considerato una cavia umana per catturare tutta la banda. O forse sono ingenuo e ignoro la necessità burocratica che i carabinieri primi passino le carte ai pm e poi questi attendano che il gip legga e poi scriva le sue pagine esecutive? Attenzione. Uno dice: Palermo, struttura sociale degradata. Non è così. Andando a ritroso si trovano casi recentissimi a Udine, a Rovigo, nel Bolognese, a Siracusa, a Besana Brianza, a Rimini. Quest' ultimo episodio dimostra che non necessariamente le strutture sono fatiscenti e lerce. Nella città romagnola si vede una anziana che con voce tremante cerca di dire qualcosa e viene zittita con un cucchiaio di legno martellatogli sulla canizie, si sente il toc toc sul cranio, e la carnefice intima: «Non ti muovere altrimenti prendiamo la mazza». E la vecchina che cinguetta, povero usignolo dall' ala spezzata: «Non sculacciarmi più». E quella: «Ti spezzo le gambe». Ma poi le immagini mostrano l' ingresso. Spalliere di fiori, luminosità, sembra una casa adatta per la regina madre. E invece... C' è qualcosa di più profondo del disagio sociale a determinare questo stato di cose. È cambiato l' universo mentale, che si somma all' originaria cattiveria della stirpe umana. Ribaltando il lascito della civiltà biblica (onora il padre e la madre), il dizionario dei luoghi comuni contemporanei recita: «I vecchi sono cattivi». E così circolano dicerie a confermare questo dogma post-cristiano. Negli uffici postali, passano davanti alle code imprecando. Hanno il potere e non lo cedono, se non crepando, ma chi li ammazza quelli lì? I vecchi sono avari, non mollano la grana. Soprattutto i vecchi sono tanti, e tendono ad ammalarsi senza morire, riempiendoci di spese croniche e scatarranti. Bisognerebbe rilanciare, come basamento di una cultura alternativa a quella disumana che si è affermata, due pensieri che sono dinamite per aprire radure nella giungla. Benedetto XVI, 12 novembre 2012: «La sapienza di vita di cui siamo portatori (noi vecchi) è una grande ricchezza. La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune. Chi fa spazio agli anziani fa spazio alla vita!». Wolfgang Goethe: «Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo per possederlo».

Il Cerchio Magico degli Amministratori giudiziari. La Bibbiano degli anziani. Patrizia Floder Reitter il 30 dicembre 2019 su La Verità. Dovrebbero essere coloro che tutelano invalidi, non autosufficienti e disabili da squali affamati dei loro beni. Invece gli Amministratori di Sostegno spesso si rivelano figure che tradiscono la fiducia loro accordata: circuiscono le persone che dovrebbero assistere e ne approfittano per impadrionirsi di ingenti quantità di denaro.

Uso ed abuso del potere di nomina degli amministratori da parte dei magistrati.

L’ex-magistrato Saguto alla sbarra: «Ecco chi sono i colleghi che mi chiesero favori». Paolo Lami mercoledì 20 febbraio 2019 su Il Secolo d'Italia. Una deposizione fiume, tirando in ballo decine di altri colleghi magistrati, per ribadire con forza che lei, Silvana Saguto, ex-presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ora a processo a Caltanissetta con l’accusa di associazione a delinquere, corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, induzione a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio, non c’entra nulla con quelle accuse che le sono piovute addosso da più parti, soprattutto da chi la conosceva molto bene, come il suo caposcorta per 15 anni. L’esordio della Saguto alla sbarra, davanti ai pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti che l’accusano di aver guidato una sorta di “cerchio magico” per l’amministrazione dei beni giudiziari, è un capolavoro mediatico: «La mia carriera in magistratura – lascia cadere la magistrata considerata una specie di zarina dei beni sequestrati – nasce nel 1981 e ho avuto tra i miei maestri magistrati come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici. In quegli anni eravamo in piena guerra di mafia». Guidata dalle domande del suo avvocato Ninni Reina, lei, che certo non ha bisogno di suggeritori per muoversi agevolmente in un’aula di un Tribunale, sia pure, stavolta, dalla parte dell’imputato, ripercorre la sua lunga carriera giudiziaria finita improvvisamente contro un muro quando quelle voci che circolavano da tempo nei Tribunali si sono fatte via via più insistenti e consistenti diventando un’accusa processuale. «Come prima funzione sono andata a Trapani – ricorda la Saguto rispondendo alle domande del suo difensore – Per una sorta di destino, ho fatto misure di prevenzione dal primo minuto in cui sono entrata in magistratura. Si capì subito che il modo di attaccare la mafia era quello di attaccare i patrimoni. Non vorrei per nulla sminuire la lotta alla mafia, ma posso dire, in base alla mia esperienza, che i mafiosi odiano perdere i loro patrimoni». La Saguto si ritiene una specie di Nobel dell’amministrazione dei beni giudiziari, una donna nata per fare proprio questo lavoro e farlo al meglio e cita, ad esempio e a sostegno della sua tesi, le molte volte che la ex-presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Rosy Bindi ha elogiato il suo lavoro. Ma all’epoca molte cose dovevano ancora venire fuori. Per non dire del cortocircuito che, a un certo punto, si è creato nel circo Barnum dell’Antimafia da salotto. Non si può dire che la Saguto non si sia preparata a fondo, in maniera pignola e quasi maniacale, per replicare alle accuse dei pm che la stanno processando. Snocciola cifre e dati – «da quando sono tornata alla Sezione Misure di prevenzione al Tribunale di Palermo c’è stato un aumento del 400 per cento delle misure. Non lo dico io, ma è un dato del Ministero che ci ha chiesto il valore dei beni sequestrati e confiscati che amministravamo. Noi amministravamo il 45 per cento delle misure di prevenzione di tutta Italia» – e ricorda alla Corte come Cosa Nostra avesse progettato di ucciderla: «Ricordo che una volta fui raggiunta a Piano Battaglia, dove ero in vacanza con la mia famiglia, e portata via perché c’era una intercettazione di un latitante che diceva che dovevo saltare in aria». Ma i suoi ex-colleghi magistrati che ora la stanno processando a Caltanissetta non le imputano né di aver lavorato poco né di aver aiutato la mafia quanto, piuttosto, di aver agevolato un gruppo di persone, fra cui il marito, a un certo punto divenuto collaboratore dell’avvocato Seminara, per gestire, con guadagni stratosferici il business delle misure di prevenzione con incarichi che andavano, guarda caso, sempre agli stessi soggetti. In piazza sono così finiti gli stipendi dei due coniugi – lei 5.500 euro al mese come magistrato, 1.500 ero lui come insegnante al Cnos – ma, soprattutto, le esosissime parcelle che la corte di incaricati, scelti dalla Saguto, staccava. Ed è finita la vita da nababbi che la famiglia della Saguto, figli compresi, faceva, secondo quanto ha raccontato il suo ex-caposcorta ai magistrati. Ha buon gioco, ora, al processo, Silvana Saguto a squadernare, con uno studiato Coup de théâtre, sul tavolo della Corte di Caltanissetta, la sua vecchia agendina con i nomi di quelli che hanno fatto pressioni su di lei per ottenere incarichi nella gestione delle misure di prevenzione: «L’altra sera ho ritrovato per caso l’agenda in cui mettevo i biglietti che ricevevo ogni giorno – rivela accendendo l’attenzione della Corte – Mi venivano segnalati gli amministratori giudiziari da nominare. Anche da parte di colleghi magistrati. La consegnerò al Tribunale questa agenda». E inizia a fare un elenco di persone: «Intanto, le segnalazioni arrivavano dai miei colleghi: La Cascia, Guarnotta, D’Agati, Tona. Ma c’erano anche avvocati che mi facevano segnalazioni. Persone di fiducia. Con i beni sequestrati lavoravano anche i figli di miei colleghi, ad esempio dei giudici Ingargiola e Puglisi. Ma non solo. Il fratello di Vittorio Teresi lavorava con l’amministratore giudiziario Collovà. Ma non è un pregiudizio, accadeva così», cerca di sostenere l’ex-presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. E, a rincarare la dose: «In questa agenda ci sono tutti. Tutti mi facevamo segnalazioni. Io chiedevo solo che fossero persone qualificate, soprattutto persone che provenivano dal Dems, il corso voluto dai professori universitari Fiandaca e Visconti – dice elencando i nomi – Marco Nicola Luca, Stefano Mandalà, non so chi siano, provenivano dal Dems». Un siluro che avrà, di certo, conseguenze processuali.

Nonna Maria, i suoi parenti “carcerieri” vanno a processo. Le Iene il 21 novembre 2019. Nina Palmieri ci aveva raccontato la storia di una 94enne che sarebbe stata segregata in casa da una figlia e dal nipote per incassare polizza vita e pensione. Le altre due figlie, che non l’avevano potuta incontrare per quattro anni, li hanno denunciati per sequestro di persona. Ora il gip li ha rinviati a processo. Rinvio a giudizio per sequestro di persona per i presunti “carcerieri” di Nonna Maria. Ve ne abbiamo parlato in più servizi di Nina Palmieri (l’ultimo lo potete rivedere qui sopra). Nonna Maria, 94 anni, per quattro lunghissimi anni era stata segregata in una casa dalla figlia e dal nipote, che non le consentivano di uscire e di avere contatti con il resto della sua famiglia. Tutto inizia nel 2015, quando il nipote Davide e la figlia Franca prelevano Maria da una clinica dove stava facendo riabilitazione, dopo la rottura del femore. Da quel giorno le altre due figlie, Santa e Teresa, non l’hanno più rivista. Hanno provato più volte a citofonare, raccontano le due donne a Nina Palmieri, ma nessuno ha mai aperto. E così si sono ritrovate a denunciare la sorella e il nipote per sequestro di persona. Ora per i due imputati è arrivato il rinvio a giudizio: il dibattimento, nel quale sia le due figlie che l’amministrazione di sostegno di nonna Maria si sono costituite parte civile, dovrebbe iniziare nel luglio prossimo. Nonna Maria non sarebbe solo stata privata della libertà: la donna infatti si sarebbe vista sottrarre anche una polizza vita del valore di 160mila euro, girata al nipote e la pensione mensile e altre entrate, per un ammontare di circa 2.000 euro al mese. Nel dicembre scorso eravamo riusciti a incontrarla, in quella casa, per pochi minuti. Ma il 12 marzo di quest’anno, finalmente, un giudice onorario ha autorizzato l’amministratore di sostegno di nonna Maria a collocarla in una struttura idonea, consentendo così la sua “liberazione”. Le sue prima parole, prima di scoppiare in un pianto dirotto, erano state queste: “Voglio vedere i miei nipoti Daniele e Mimmo”.

Un figlio è obbligato a prendersi cura di un genitore? Laleggepertutti.it il 30 Dicembre 2019. Mantenimento e alimenti dei figli nei confronti del padre e della madre quando la pensione è assente o insufficiente: quali doveri incombono sulla prole verso i genitori anziani? Hai un genitore, con cui non vai molto d’accordo, che vive di una semplice pensione. La sua vita è sregolata: sperpera la pensione nel gioco, nelle scommesse ed in altre spese futili. Spesso, non arriva a fine mese, così viene a piangere da te affinché gli presti dei soldi. Sostiene che è tuo obbligo di figlio prenderti cura di lui e non lasciarlo nell’indigenza. In verità, se lui gestisse in modo oculato le sue – seppur ridotte – risorse economiche, potrebbe ben vivere in modo autonomo e indipendente. Ti chiedi allora se, al di là degli obblighi morali, un figlio è obbligato a prendersi cura di un genitore. Esiste un dovere giuridico per il figlio di mantenere il padre e/o la madre? E se i figli sono più di uno, come viene ripartito tra loro questo onere: in pari misura o secondo le rispettive possibilità? Ecco alcuni chiarimenti pratici sul punto che potrai trovare d’aiuto per districarti da questa delicata situazione.

Esiste un dovere dei figli di mantenere i genitori? Se da un lato esiste il dovere dei genitori di mantenere i figli fino a quando questi non raggiungono l’indipendenza economica (provvedendo così ai loro bisogni anche qualora decidano di andare a vivere da soli), non esiste un generale dovere a carico dei figli di mantenere il padre e la madre quando questi non hanno risorse economiche sufficienti. Salvo due eccezioni di cui a breve parleremo, i figli non devono prendersi cura dei genitori che sono in pensione e che, con l’assegno erogato dall’Inps, non sono in grado di condurre un tenore di vita dignitoso. Ciò vale a maggior ragione se la pensione è di per sé sufficiente alla sopravvivenza ma non viene spesa con oculatezza come nel caso, ad esempio, del padre che spende tutti i soldi in gratta e vinci o scommesse o che regala il denaro a terzi. Tutt’al più, qualora vi sia una situazione di obiettiva incapacità a gestire il patrimonio si potrà valutare la nomina di un amministratore di sostegno che possa guidare l’anziano nella gestione dei propri risparmi, ma anche questo adempimento non costituisce un obbligo per i figli, ma solo uno strumento per tutelare i beni familiari.  Se tutto ciò ha senso da un punto di vista economico lo ha, ancor di più, da un punto di vista affettivo. Almeno dinanzi alla legge, nessun figlio ha il dovere di prestare amore ai genitori, di telefonare loro o fargli gli auguri in occasione delle feste, di andarli a trovare e onorarli come la morale comune richiede. Un genitore che si sente abbandonato dal figlio non potrà mai fargli causa.

Quando i figli devono mantenere i genitori. Incidentalmente, nel paragrafo precedente, abbiamo fatto riferimento a due eccezioni che implicherebbero, invece, un impegno economico per i figli nei confronti dei genitori. La prima si riferisce all’obbligo degli alimenti; la seconda scatta, invece, quando c’è una situazione di affidamento, come nel caso del figlio convivente. Vediamo cosa dice a riguardo la legge.

Il dovere di versare gli alimenti ai genitori da parte dei figli. In casi eccezionali, i figli possono essere tenuti a versare, nei confronti dei propri genitori, i cosiddetti alimenti. Si tratta di un concetto completamente diverso da quello del mantenimento. Innanzitutto, sotto un aspetto quantitativo, gli alimenti sono una misura economica notevolmente inferiore: servono solo a garantire lo stretto necessario per vivere (vitto e alloggio). Inoltre, scattano solo quando il soggetto debole si trova in una situazione di oggettiva e completa incapacità di procurarsi il proprio sostentamento (si pensi a un genitore disabile al 100% che non può procurarsi il denaro per mangiare). Si tratta di un’ipotesi “limite” – quasi scolastica – visto che, il più delle volte, nei confronti dei soggetti indigenti ci sono sempre forme di sostegno sociale previste dalla Pubblica Amministrazione e dallo Stato. In tal caso, l’obbligo degli alimenti grava su tutti i figli, ma non in pari misura bensì in proporzione alle rispettive capacità economiche. Così il figlio più benestante dovrà versare di più rispetto agli altri fratelli.

L’abbandono di incapace. Altra situazione in cui scatta l’obbligo di prendersi cura dei genitori è quando questi sono soggetti alla custodia dei figli, come nel caso del figlio convivente o del tutore. Se, ad esempio, quest’ultimo dovesse lasciare il genitore per molto tempo solo a casa, in completa incapacità di provvedere a se stesso, esponendolo a un serio rischio per la sua sopravvivenza, ne risponderebbe penalmente per il reato di abbandono di persone incapaci.

La vendita della nuda proprietà. Un’ultima ipotesi in cui scatta l’obbligo di mantenere il genitore è quando questi cede al figlio la proprietà di un immobile (o anche solo la nuda proprietà con riserva di usufrutto), in cambio di un vitalizio: il figlio si impegna cioè a prendersi cura del genitore finché questi vive. Leggi Casa dietro vitalizio. Si tratta di un vero e proprio contratto dove, in caso di inadempimento da parte del beneficiario, gli eredi del cedente possono chiedere la revoca del trasferimento del bene. 

Chi è e cosa fa l’amministratore di sostegno: compiti, durata dell’incarico e come fare richiesta. Isabella Policarpio il 7 Ottobre 2019 su money.it. L’amministratore di sostegno assiste persone con problemi fisici o psichici nel compimento di atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Vediamo chi è come farne richiesta al giudice. Chi è cosa fa l’amministratore di sostegno è stabilito dalla legge 6 del 2004, con la quale questa figura è stata introdotta. L’amministratore si occupa dell’assistenza, della rappresentanza e del supporto di persone che, a causa di problemi fisici o psichici, non sono in grado di provvedere autonomamente agli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Si pensi agli anziani, ai tossicodipendenti o agli invalidi che, seppur mantenendo una certa capacità intellettiva non sono completamente autosufficienti, e quindi non possono pagare le bollette o gestire delle compravendite in autonomia. Lo scopo dell’amministratore di sostegno, quindi, è di garantire la protezione giuridica al soggetto in difficoltà, ma senza limitare in maniera eccessiva la sua capacità di agire. Di seguito faremo chiarezza sui poteri attribuiti, chi può essere nominato amministratore di sostegno, eventuali costi e come fare il ricorso al giudice tutelare.

Amministratore di sostegno: chi può richiederlo? Coloro che sono affetti da infermità o menomazione fisica o psichica, anche parziale, possono beneficiare dell’assistenza di un amministratore di sostegno. Precisamente questa figura è prevista per: anziani; disabili; alcolisti, tossicodipendenti; carcerati; malati terminali; ciechi.

Quanto costa l’amministratore di sostegno? Per legge l’amministratore di sostegno non ha diritto ad alcun compenso, si tratta infatti di una curatela a titolo gratuito. Tuttavia in alcuni casi il giudice può stabilire che gli venga corrisposta un’equa indennità, soprattutto quando la persona che amministra dispone di un grande patrimonio. L’equo indennizzo non deve essere considerato una retribuzione ma piuttosto un rimborso spese, e viene stabilito dal giudice con apposita istanza, tenendo in considerazione le condizioni economiche di amministratore e beneficiario e la qualità del servizio effettuato. Per maggiori informazioni sull’equo indennizzo dell’amministratore e il rimborso spese si consiglia la guida dedicata su chi paga l’amministratore di sostegno.

Chi può essere nominato amministratore di sostegno. La persona che rivestirà l’incarico di amministratore di sostegno è scelta dal giudice e nella maggior parte dei casi la scelta cade sulla persona indicata dallo stesso beneficiario. Infatti, ove sia possibile, è sempre preferibile nominare una persona che abbia uno stretto legale o un rapporto di fiducia con la persona da amministrare. per questo nell’atto di nomina il giudice deve preferire: il coniuge; padre o madre; figlio; fratello o sorella; parente entro il 4 quarto grado. Se nessuno dei predetti soggetti risulta idoneo, il giudice potrà nominare un soggetto estraneo al beneficiario scelto tra quelli presenti in un apposito elenco di professionisti e non depositato presso l’ufficio del Giudice tutelare. generalmente questi soggetti sono avvocati, notai, psicologi ed educatori.

Come presentare ricorso per l’amministratore di sostegno. Per ottenere l’amministratore di sostegno occorre presentare ricorso al giudice tutelare del luogo in cui si ha la dimora abituale. Il ricorso può essere proposto direttamente dall’interessato oppure da: coniuge o dalla persona stabilmente convivente; parenti entro il quarto grado; affini entro il secondo grado; tutore o curatore; pubblico ministero. Per presentare la domanda al giudice non è richiesta l’assistenza tecnica dell’avvocato a titolo obbligatorio, anche se è sempre consigliata in quanto l’atto di ricorso deve contenere dettagliatamente le capacità residue del beneficiario e le sue esigenze. Entro 60 giorni dalla data di presentazione del ricorso il Giudice nomina, con decreto motivato immediatamente esecutivo, un amministratore di sostegno che può essere sia la persona prescelta nel ricorso, sia persona diversa. L’importante è che, come stabilito dall’articolo 408 del Codice Civile, “la scelta dell’amministratore di sostegno avvenga con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario”. Nel compiere la scelta, il giudice prende in considerazione esclusivamente la cura e l’interesse del beneficiario; per questa ragione in genere l’amministratore di sostegno viene individuato tra i parenti più prossimi o il coniuge. Sono esclusi dalla nomina, invece, tutti gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico il soggetto beneficiario. Il decreto di accoglimento o rigetto del ricorso deve riportare la durata dell’incarico, gli atti per i quali l’amministratore si dovrà sostituire o affiancare la persona assistita, la durata dell’incarico e ogni dovrà rendere conto al giudice del suo operato.

Abbiamo visto che per il ricorso avverso la nomina dell’amministratore bisogna presentare domanda al giudice tutelare del luogo di residenza del beneficiario. Vediamo quali sono i documenti che occorrono per fare ricorso:

Atto di nascita del beneficiario

Certificato di residenza del beneficiario

Certificato di residenza dei ricorrenti

Codice Fiscale del beneficiario e dei ricorrenti

Documentazione medica comprovante la condizione di salute del beneficiario

Documento di identità dei ricorrenti.

Quanto dura l’incarico dell’amministratore? L’incarico dell’amministratore di sostegno può essere a tempo determinato o indeterminato, in base alle esigenze personali. Quando è a tempo determinato si potrà sempre fare una proroga prima della scadenza del termine. La durata dell’amministratore di sostegno è disciplinata dall’articolo 413 del Codice civile. Qui si prevede che la cessazione o la sostituzione dell’incarico possono essere chiesti quando:

il beneficiario, il Pubblico Ministero, o lo stesso A.d.s. ritengono che ne sono venuti meno i presupposti;

l’amministratore di sostegno non ha realizzato la piena tutela del beneficiario, come invece avrebbe dovuto.

Dopo la richiesta, spetta al giudice valutare se ci sono i presupposti per cessare l’incarico o sostituire l’amministratore tramite decreto motivato.

Cosa fa l’amministratore di sostegno: poteri e doveri. I poteri e i doveri dell’amministratore di sostegno sono tassativamente previsti dagli articoli 409 e 410 del Codice civile. Nel primo si prevede che: “Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana.”

In altre parole, l’amministratore può compiere solo quegli atti riservati dal Giudice Tutelare alla propria competenza esclusiva o parziale. Al beneficiario, invece, spetta la piena titolarità nel compiere gli atti necessari al soddisfacimento delle esigenze della vita quotidiana.

In sintesi, l’amministratore deve svolgere l’incarico:

tenendo conto dei bisogni del beneficiario;

informando tempestivamente il giudice in caso di dissenso;

informare il beneficiario di tutti gli atti portati al termine;

svolgere l’incarico per 10 anni, a meno che l’amministratore non sia il coniuge (o il convivente) un ascendente o un discendente.

Per quanto riguarda i poteri invece, questi sono divisi in due grandi categorie:

atti di ordinaria amministrazione, come l’acquisto di beni mobili e lo svolgimento di faccende quotidiane. In questi casi non occorre l’autorizzazione del giudice tutelare;

atti di straordinaria amministrazione, ad esempio la compravendita di un immobile o di beni molto costosi; per questi è necessario chiedere l’autorizzazione del giudice.

Caso particolare è il matrimonio. Anche se verrebbe da pensare che si tratta di un atto che necessita dell’autorizzazione, la Corte di Cassazione con la sentenza n°11536 di giovedì 11 maggio 2017 ha stabilito che il beneficiario è libero di convolare a nozze anche senza il consenso dell’amministratore di sostegno o del giudice.

Un aiuto alle persone fragili: chi è e quanto costa l’amministratore di sostegno. Dagli anziani ai ludopatici, dai disabili ai malati, l’amministrazione di sostegno è uno strumento a disposizione di chi non riesce a badare ai propri interessi ma non è in condizioni così gravi da essere interdetto o inabilitato. Selene Pascasi il 19 dicembre 2019 su ilsole24ore.com. L’amministrazione di sostegno è una misura di protezione a tutela di chi, per infermità o menomazione fisica o psichica non riesca, anche solo temporaneamente, a badare ai propri interessi e abbia bisogno di essere affiancato, appunto, da un amministratore di sostegno. La figura è prevista dall’articolo 404 del Codice civile e ha il compito di aiutare il beneficiario a compiere varie operazioni interferendo il meno possibile con le sue scelte. Del resto, è un sistema pensato per i soggetti fragili e non per gli incapaci di intendere e volere, per i quali è necessario nominare un tutore.

I presupposti della nomina. Perché sia nominato un amministratore di sostegno occorrono due requisiti:

1) l’infermità o la menomazione fisica o psichica, anche passeggere;

2) e la mancanza di residue capacità legate all’esperienza maturata con lo studio o con il lavoro che possano consentire alla persona di cavarsela da sé.

Ad esempio, sarà opportuno sostenere chi sperperi soldi dissennatamente, il ludopatico, il malato oncologico o comatoso non interdetto, chi soffra di problemi motori anche transitori, il bipolare raggirabile nei periodi di scompenso, il detenuto, l’alcol o il tossico dipendente, l’affetto da Alzheimer o da un’altra forma di demenza. Ma l’amministratore di sostegno è utile anche per limitare la capacità di donare o di predisporre testamento dei soggetti manipolabili.

Chi può fare la richiesta. Possono chiedere il sostegno, con ricorso al giudice tutelare della città dove vive, lo stesso beneficiario (anche se minore, interdetto o inabilitato), il coniuge o il convivente, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo grado, il tutore, il curatore, il pubblico ministero, i responsabili dei servizi sanitari e sociali che si occupano di lui. È ammessa che l’iniziativa d’ufficio da parte del giudice.

La procedura. La misura, nonostante sia tesa ad aiutare il beneficiario senza privarlo della libertà d’agire, inevitabilmente la comprime. Serve, quindi, un procedimento accurato che ne accerti l’effettiva esigenza. L’iter si avvia con ricorso – non necessariamente predisposto da un avvocato – che indichi i dati delle parti e i motivi della richiesta. L’atto, poi, deve essere notificato all’interessato e a tutti i soggetti ammessi a prendere l’iniziativa. Entro 60 giorni, il giudice, prese le dovute informazioni, può bocciare la domanda o accoglierla e nominare un amministratore con decreto motivato. Nel decreto, però, deve indicare la durata e l’oggetto dell’incarico, gli atti che l’amministratore di sostegno può compiere in nome e per conto del beneficiario, quelli che il beneficiario non può compiere da solo e il tetto delle spese sostenibili. Nella procedura interviene il Pm. L’incarico sarà revocato quando vengono accertate violazioni da parte dell’amministratore, per sopraggiunta incompatibilità, per il venir meno dei motivi alla base della nomina (si pensi a chi, superate le difficoltà, possa di nuovo curare le sue faccende) o per l’aggravarsi delle condizioni del beneficiario, tanto da rendere necessarie l’interdizione o l’inabilitazione.

A chi va l’incarico. In alcuni casi sono i familiari a mettersi a disposizione per aiutare il parente in difficoltà nel gestire i propri affari, senza entrare in conflitto con lui. Nelle altre ipotesi, occorre individuare una persona che possa essere nominata amministratore di sostegno. Per scegliere l’amministratore di sostegno bisogna tenere conto degli interessi del beneficiario che, redigendo un atto pubblico o una scrittura privata autenticata quando è ancora in condizioni di farlo, può indicare un nome per future evenienze. Non può, però, essere designato un operatore dei servizi che si stiano già occupando della situazione.

Il compenso. L’incarico, dice l’articolo 379 del Codice civile, è gratuito ma il giudice – per entità del patrimonio o particolari difficoltà di gestione – può riconoscere all’amministratore di sostegno nominato un indennizzo calcolato in base alle mansioni svolte o autorizzarlo a collaborare con persone stipendiate. Gli spetta, comunque, un rimborso spese. Se, invece, l’amministratore di sostegno è un legale, la sua si ritiene attività professionale di natura remunerativa tassabile. L’indennità e i costi sono a carico del beneficiario (a meno che non sia indigente e la spesa sia coperta dallo Stato) o dei suoi eredi, che potranno evitare l’esborso rinunciando all’eredità o accettandola con beneficio d’inventario.

Poteri e doveri. Il raggio d’azione dell’amministratore di sostegno varia con il decreto di nomina perché il giudice, in base alle caratteristiche del caso, deve specificare - appunto nel decreto - per quali atti il beneficiario, che mantiene la capacità di agire e di compiere le operazioni quotidiane, si deve avvalere dell’aiuto dell’amministratore e per quali deve invece lasciargli la rappresentanza esclusiva. Tuttavia, l’incaricato deve muoversi tenendo conto delle esigenze e delle aspirazioni del beneficiario e informarlo tempestivamente dei suoi passi per confrontarsi con lui e sollecitare l’intervento del giudice in caso di divergenze. Discorso a parte per le scelte sulla salute del beneficiario. Dato che si tratta di diritti personalissimi, l’amministratore di sostegno non può, senza l’ok del giudice, rifiutare i trattamenti necessari a evitare il decesso della persona assistita ma può essere autorizzato a opporsi a interventi rinviabili senza rischi o prestare il consenso al ricovero o all’inserimento in una residenza sanitaria assistenziale.

Sull’equa indennità dell’amministratore di sostegno. Davide Pizzi, Assistente Sociale dell’Ordine Regionale della Puglia. L’articolo pubblicato su Scambi di Prospettive. Si ribadisce frequentemente durante i corsi di formazione che l’amministrazione di sostegno non è né una professione, né un lavoro, né un business. La legge 6/2004 che istituisce l’istituto, non accenna in nessun modo, ovvero, non menziona, l’esistenza di una forma di compenso/retribuzione, per chi svolge il compito di amministratore. Il comma 1 dell’art. 411 cod. civ., dove trova applicazione l’amministrazione di sostegno, e l’art. 379 cod. civ. che prevede la disciplina in materia di tutela, stabiliscono che l’ufficio tutelare è gratuito. L’amministratore di sostegno presta quindi la sua opera gratuitamente? È possibile ottenere un riconoscimento in termini economici per tutta l’attività svolta a favore dell’amministrato?

L’equa indennità. Il primo comma all’articolo 379 del codice civile che si riferisce alla tutela, è esteso anche all’amministrazione di sostegno. L’amministratore di sostegno perciò, può avvalersi della possibilità di chiedere al giudice tutelare l’equa indennità. Per ottenere il provvedimento che liquida l’indennità è necessario depositare in cancelleria del tribunale un’istanza.

A chi spetta pagare l’equa indennità? “Il giudice tutelare tuttavia, considerando l’entità del patrimonio e le difficoltà dell’amministrazione, può assegnare al tutore un’equa indennità”. Così recita il comma 1° dell’articolo 379 c.c., e gli elementi da prendere in considerazione sono due: l’entità del patrimonio; le difficoltà dell’amministrazione. Per il calcolo dell’entità del patrimonio, si deve intendere non soltanto il patrimonio dell’amministrato, ma anche una quota da stabilire e da addebitare ai parenti civilmente obbligati.

Alcuni siti web di studi legali propongono facsimili di istanze, che suggeriscono le seguenti formule: l’Ill.mo Giudice Tutelare, Voglia liquidare in favore dell’A.d.S. per l’attività svolta, la somma di € (di cui € tot. per spese sostenute, ed € tot. come equa indennità per l’impegno profuso ed il tempo dedicato all’ufficio), o altro maggiore o minore importo ritenuto di giustizia, da porre a carico del. Sig. e/o della sua famiglia. Nell’equa indennità sono quindi richiesti tutti i rimborsi delle spese sostenute dall’amministratore di sostegno, quali: lettere, raccomandate, fax, telefonate, spese per spostamenti, marche da bollo, ecc. Ma anche un vero e proprio compenso, quale riconoscimento dell’impegno e del tempo profuso, stabilito in proporzione al patrimonio dell’amministrato, e che può essere posto a carico dei parenti civilmente obbligati!

Il caso del sig. Francesco. Portatore di handicap in condizione di gravità, ai sensi dell’art. 3 comma 3 della legge 104/92, dispone come unica fonte di sostentamento: la pensione di invalidità civile e l’indennità di accompagnamento. I genitori anziani, dopo avergli offerto assistenza continuativa per oltre trent’anni, non potendo più badare a lui, e preoccupati del suo futuro quando loro non ci saranno più, hanno deciso di inserirlo in una struttura protetta. Essi hanno presentato istanza al Tribunale, e hanno ottenuto la nomina di un amministratore di sostegno. Il giudice tutelare, avendo riscontrato l’assenza di parenti entro il quarto grado nella rete familiare che si facesse carico dell’amministrazione, ne ha nominato uno d’ufficio: un avvocato.

 L’iniqua indennità pagata dal sig. Francesco. Al termine del primo anno di amministrazione, il sig. Francesco ha pagato € 3000,00 al proprio amministratore, pari a € 250,00 mensili. Il compito dell’amministratore di fatto, consisteva ogni mese nel pagare la retta di € 750,00 alla RSSA, e di depositare € 50,00 per le spese personali del suo amministrato. Il sig. Francesco come unica entrata ha la pensione d’invalidità civile, più l’indennità di accompagnamento, il cui totale ammonta a € 800,00 circa, e possedeva un libretto di risparmio con circa € 15.000,00. I genitori inoltre, pagano tutte le altre spese extra: farmaci, vestiario, ecc. Bastano pochi conti per capire che, se il Giudice tutelare continuasse ad assegnare ogni anno lo stesso importo per l’equa indennità, il sig. Francesco nel giro di cinque anni non avrà neanche più un centesimo sul libretto di risparmio!

 …considerando l’entità del patrimonio e le difficoltà dell’amministrazione. In base a quale criterio il Giudice tutelare ha stabilito un’equa indennità pari a circa 1/5 delle sostanze del sig. Francesco? Se si prende in considerazione il criterio precedentemente espresso nel punto A, si capisce presto che il patrimonio è basso, e che i risparmi serviranno per sostenere le spese future, per esempio protesi dentarie ecc. Se si prende in considerazione poi, il criterio B, quali difficoltà può avere un amministratore il cui compito è pressoché quello di effettuare il facile pagamento mensile della retta?

Il nuovo ricorso dei genitori. Dopo poco meno di due anni di amministrazione, il sig. Francesco ha sul libretto di risparmio €4500,00 in meno. A quel punto suo padre ha deciso chiedere al giudice di subentrare al posto dell’amministratore, almeno fino a quando le sue forze lo accompagneranno, nonostante la sua età non più giovane, e nonostante in un primo momento aveva preferito una persona scelta dal tribunale, per garantire a suo figlio un amministratore che svolgesse il compito per un periodo di tempo più lungo rispetto al suo. Mi riferisce durante un colloquio: “non avevo scelta, se continuava ad andare avanti così, mi figlio sarebbe restato senza un centesimo in tasca. Non capisco come il Giudice tutelare possa autorizzare indennità così alte. Ho scoperto che nella richiesta d’indennità, l’amministratore di sostegno aveva dichiarato la mia possibilità di sostenere economicamente mio figlio con € 250,00 mensili, cosa che io avevo si affermato, e che di fatto stavo facendo tramite l’acquisto dei farmaci e tante altre cose necessarie”.

Conclusione. Questa esperienza, verosimilmente non un caso isolato in Italia, deve servire a suscitare una seria riflessione a distanza di dieci anni dell’istituzione dell’amministrazione di sostegno, per puntellare qua e la alcune cose che sarebbero da migliorare. Essa dimostra che basterebbe avere almeno quattro persone come il sig. Francesco da amministrare, per percepire circa € 1000,00 al mese, e senza tassazione alcuna, poiché trattasi di una indennità. Nei casi poi, di persone più facoltose, l’indennità potrebbe raggiungere quote anche più consistenti! L’equa indennità, così diffusa e assegnata con tanta facilità, rende di fatto l’amministrazione di sostegno una professione, e anche ben retribuita, nelle mani di persone, quasi sempre avvocati. Quest’ultimi, se non adeguatamente formati, a un compito così delicato, che richiede un significativo coinvolgimento empatico, rischiano di essere carenti di sensibilità, conoscenze, strumenti e saperi, di cui invece dispongono gli operatori che esercitano ogni giorno la professione sociale.

Qual è la differenza tra amministratore di sostegno e tutore nel 2019? Da Avvocatoflash.it. Nella giurisprudenza, vige la distinzione tra amministratore di sostegno e tutore. Il primo è nominato quando un soggetto abbia un grado di infermità o impossibilità e il suo compito è di adeguarsi alle esigenze del soggetto assistito. Il secondo invece, è protettore delle persone incapaci, quali i minori e gli interdetti per legge.

1. Amministratore di sostegno. L'amministratore di sostegno è una figura con compiti di assistenza, sostenimento e rappresentanza di chi è impossibilitato a provvedere ai normali adempimenti quotidiani, in maniera totale o parziale. Tale soggetto è stato introdotto nell'ordinamento dalla Legge n. 6 del 2004. Gli atti che l'amministratore di sostegno può compiere in nome e per conto del beneficiario, si distinguono in atti di ordinaria amministrazione (previa autorizzazione del giudice tutelare) e atti di straordinaria amministrazione (in questo caso l'autorizzazione proverrà da decreto). Tutti gli atti che non ricadono nella competenza dell'amministratore di sostegno (ovvero quelli necessari per il soddisfacimento delle esigenze quotidiane) rimangono in capo al soggetto beneficiario.

L'amministratore, periodicamente, dovrà presentare al giudice tutelare una relazione sull'attività svolta, le condizioni in cui versa il beneficiario e il conto economico della gestione.

2. I doveri dell’Amministratore di sostegno. L'articolo 410 del Codice Civile, statuisce che l'amministratore di sostegno ha l'obbligo di tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario e di informarlo in maniera tempestiva. Si assiste, dunque, ad una sorta di collaborazione tra amministratore di sostegno e beneficiario; collaborazione assente nel caso di interdizione, dove l'interdetto è semplicemente sostituito dal tutore. La Corte di Cassazione, in due importanti sentenze (sent. n. 9628/2009 e sent. n. 22332/2011), ha stabilito che ”la scelta dell’amministrazione di sostegno non deve essere semplicemente basata sul grado d’infermità o d’impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto, ma piuttosto sulla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle sue esigenze, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa”. Da ciò discende che si ricorrerà alla figura dell'amministratore di sostegno quando risulti necessaria “un'attività di tutela minima, in relazione, tra le altre cose, alla scarsa consistenza del patrimonio del soggetto debole, alla semplicità delle operazioni da svolgere, e all'attitudine del beneficiario a non porre in discussione i risultati dell'attività svolta nel suo interesse”.

3. Il tutore. Distinta dalla figura dell'amministratore di sostegno è quella del tutore. L'istituto della tutela serve per proteggere le persone incapaci di provvedere autonomamente ai propri interessi, ovvero i minori e gli interdetti. In questa seconda categoria, possono rientrare il maggiorenne e il minorenne emancipato, che si trovino in condizione di infermità mentale tale da renderli incapaci di provvedere ai propri interessi. Il tutore è nominato dal giudice tutelare, solitamente nella cerchia familiare dell'interdetto. Oltre al tutore, il giudice può nominare un protutore nei casi di conflitto di interessi dell'interdetto con il tutore.

Fonti normative. Art. 410 C.C. Corte di Cassazione, sent. n. 9628/2009 e senti. n. 22332/2011. Legge n. 6/2004

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Amministratore di sostegno: la guida completa. La procedura di nomina, le modalità di scelta, le competenze, gli obblighi ed il compenso. Paola Loddo. Pubblicato il 24/10/2019 su Altalex. L’amministratore di sostegno è una figura istituita per tutelare quelle persone che, a causa di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.

1. L’amministrazione di sostegno: la legge di riferimento. La misura di protezione dell’amministrazione di sostegno è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, che ha attuato una vera e propria rivoluzione giuridica e culturale nella tutela delle persone fragili, affiancando ai più rigidi istituti tradizionali (interdizione e inabilitazione) un nuovo strumento, più flessibile e quindi maggiormente adattabile alla specificità delle singole situazioni. L’art. 1 prevede, infatti, che “la presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”. L’amministrazione di sostegno si pone, così, come uno strumento modulabile, in grado di fornire ai soggetti deboli un supporto (declinato in termini di rappresentanza o di assistenza), che miri a sostenere la capacità residua del soggetto, valorizzando la centralità della persona e il principio di autodeterminazione. La disciplina normativa del nuovo istituto è contenuta negli articoli 404 e ss. del codice civile.

2. A chi spetta la tutela? Ai sensi dell’art. 404 c.c., la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno può essere disposta nei confronti della persona “che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”. La norma individua, dunque, due requisiti, uno di tipo soggettivo (la menomazione fisica o psichica), l’altro di tipo oggettivo (l’impossibilità di provvedere ai propri interessi), che devono coesistere ed essere legati da un rapporto di causalità. I sostenitori di un’interpretazione estensiva della misura di protezione, richiamandosi al sopracitato art. 1 della legge n. 6/2004, ritengono inoltre che essa vada applicata, anche al di là della sussistenza di una specifica infermità o patologia, in tutti i casi in cui il soggetto sia privo di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. In concreto, la misura è stata disposta in favore di un’ampia categoria di beneficiari, tra i quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo:

persone affette da infermità mentali e menomazioni psichiche: patologie psichiatriche, ritardo mentale, sindrome di down, autismo, malattia di Alzheimer, demenze, abuso di sostanze stupefacenti e alcoldipendenza; ma, anche, prodigalità, shopping compulsivo, ludopatia (talvolta anche in assenza di una specifica patologia (Cass. Civ., 07/03/2018, n. 5492).

persone affetta da infermità fisiche: ictus, malattie degenerative o in fase terminale, handicap fisici e motori, condizioni di coma e stato vegetativo, patologie tumorali.

Resta complesso il tema della demarcazione tra l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno e dell’interdizione: in linea generale, si può affermare che, pur con alcune differenze su base geografica, l’istituto interdittivo trova sempre minore spazio in favore della nuova misura.

3. Chi può avviare la procedura? Ai sensi degli artt. 406 e 417 c.c., la legittimazione attiva alla proposizione del ricorso spetta ai seguenti soggetti: Pubblico Ministero; beneficiario della misura (anche se minore, interdetto o inabilitato); coniuge; persona stabilmente convivente; parenti entro il quarto grado; affini entro il secondo grado; tutore dell’interdetto; curatore dell’inabilitato; unito civilmente in favore del proprio compagno. Inoltre, ai sensi dell’art. 406 comma 3° c.c., sono destinatari di un vero e proprio obbligo giuridico “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno”. Essi dovranno proporre il ricorso ex art. 407 c.c. al Giudice Tutelare, o, in alternativa, dovranno fornire notizia delle circostanze a loro note al Pubblico Ministero tramite apposita segnalazione. In questo secondo caso, sarà poi la Procura della Repubblica a valutare l’eventuale proposizione del ricorso. Nel procedimento, non è necessaria la difesa tecnica. Pertanto, il ricorso potrà essere presentato direttamente dal ricorrente, senza il ministero di un difensore (si veda, però, Cass. Civ., 29/11/2006, n. 25366).

4. Come viene nominato l'amministratore di sostegno? Il ricorso per la predisposizione della misura. Ai sensi degli artt. 404 e 407 c.c., il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno si propone con ricorso da depositarsi presso il Tribunale (ufficio del Giudice Tutelare) del luogo di residenza o domicilio del potenziale destinatario della misura.

Il ricorso deve contenere:

l’indicazione del Giudice Tutelare territorialmente competente;

le generalità del ricorrente e del beneficiario;

l’indicazione della residenza, del domicilio e della dimora abituale del beneficiario;

il nominativo e il domicilio dei congiunti e dei conviventi, come individuati nell’art. 407 c.c.;

le ragioni per cui si chiede la nomina dell’amministratore di sostegno, con specificazione degli atti di natura personale o patrimoniale che debbano essere compiuti con urgenza. E’ inoltre utile, benché non necessario, fornire una descrizione delle condizioni di vita della persona ed effettuare una prima ricognizione della situazione reddituale e patrimoniale della stessa, onde delineare fin da subito il progetto di sostegno che dovrà essere poi messo a punto dal Giudice Tutelare. Se non sussistono particolari ragioni di urgenza, il Giudice Tutelare, letto il ricorso, fissa con decreto la data di udienza per l’audizione del beneficiario e per la convocazione del ricorrente e degli altri soggetti (congiunti, conviventi, ecc.) indicati nell’art. 406 c.c. Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura del ricorrente, al beneficiario; entrambi gli atti devono essere comunicati agli altri soggetti indicati nel ricorso. La fase istruttoria può esaurirsi con l’audizione del beneficiario, del ricorrente e dei congiunti (se presenti) e con la sola acquisizione della documentazione allegata al ricorso; tuttavia, il Giudice Tutelare, in virtù degli ampi poteri istruttori che gli sono riconosciuti dall’art. 407 c.c., può disporre, anche d’ufficio, ogni ulteriore accertamento, anche disponendo apposita consulenza tecnica in ordine alla capacità e autonomia del beneficiario. Il Giudice Tutelare provvede, quindi, con decreto motivato e immediatamente esecutivo. Ai sensi dell’art. 405 c.c., qualora, invece, sussistano particolari ragioni d’urgenza, il Giudice Tutelare, subito dopo il deposito del ricorso, potrà adottare, anche d’ufficio, inaudita altera parte, i provvedimenti necessari per la cura della persona e per la conservazione e l’amministrazione del patrimonio, a tal fine anche nominando un amministratore di sostegno provvisorio. In tale eventualità, l’udienza per l’audizione del beneficiario verrà fissata in seguito e, espletato ogni opportuno approfondimento istruttorio, la misura di protezione potrà essere confermata o revocata con decreto definitivo.

5. L’amministratore di sostegno: scelta e sostituzione. La scelta dell’amministratore di sostegno viene effettuata dal Giudice Tutelare “con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona beneficiaria”. L’art. 408 c.c. individua un ordine preferenziale a cui il Giudice Tutelare dovrà attenersi in tale valutazione:

in primo luogo, deve essere valorizzata l’eventuale designazione dell’amministratore di sostegno già effettuata dal beneficiario, in previsione della propria futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata; parimenti, dovrà tenersi conto dell’eventuale preferenza manifestata dal beneficiario nel corso del procedimento, sempre che egli conservi adeguata capacità di discernimento;

in mancanza di designazione o in presenza di gravi motivi (quando, ad esempio, il soggetto designato non è idoneo allo svolgimento dell’incarico), il Giudice Tutelare, con decreto motivato, potrà nominare un amministratore di sostegno diverso; nell’effettuare tale scelta, il Giudice Tutelare dovrà preferire, se possibile, uno dei seguenti soggetti:

il coniuge che non sia separato legalmente;

la persona stabilmente convivente;

il padre, la madre, il figlio, il fratello o la sorella;

il parente entro il quarto grado;

il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata;

inoltre, in caso di opportunità, o – se sussista la designazione da parte del beneficiario – in presenza di gravi motivi, il Giudice Tutelare potrà nominare un soggetto terzo di propria fiducia. A tal fine, egli potrà attingere, ad esempio, ad appositi elenchi istituiti presso i singoli Uffici giudiziari che contengono i nominativi di professionisti in materie giuridiche ed economiche disponibili allo svolgimento dell’incarico. Ai sensi dell’art. 413 c.c., laddove ne ricorrano i presupposti, il Giudice Tutelare, su istanza motivata del beneficiario, del Pubblico Ministero, dell’amministratore di sostegno o di uno dei soggetti di cui all’art. 406 c.c., potrà disporre la sostituzione dell’amministratore. La norma non indica dei presupposti specifici per la sostituzione dell’amministratore, con la conseguenza che la valutazione è lasciata alla discrezionalità del Giudice: in concreto, la sostituzione potrà avvenire, anche al di fuori di un intento sanzionatorio, in caso di persistente dissenso con il beneficiario, in caso di decorso del termine decennale previsto dall’art. 410 ultimo comma c.c. o nell’ipotesi di trasferimento dell’amministratore di sostegno in luogo lontano dalla residenza abituale del beneficiario.

6. L'amministratore di sostegno: compiti e poteri. L’art. 505 comma 5° c.c. dispone che il decreto di nomina dell'amministratore di sostegno deve contenere l'indicazione:

“1) delle generalità della persona beneficiaria e dell'amministratore di sostegno;

2) della durata dell'incarico, che può essere anche a tempo indeterminato;

3) dell'oggetto dell'incarico e degli atti che l'amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario;

4) degli atti che il beneficiario può compiere solo con l'assistenza dell'amministratore di sostegno;

5) dei limiti, anche periodici, delle spese che l'amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità;

6) della periodicità con cui l'amministratore di sostegno deve riferire al giudice circa l'attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.

L’oggetto dell’incarico, determinato nel decreto di nomina, individua i compiti dell’amministratore di sostegno.

Essi potranno riguardare i due seguenti ambiti (alternativamente o congiuntamente):

la cura della persona, intesa sia come cura della salute (eventuali scelte sanitarie, rapporti con il personale medico, espressione del consenso informato, ecc.), sia come gestione degli aspetti relazionali e sociali (scelta del luogo dove vivere, avvio di un percorso di psicoterapia o sostegno nella ricerca di un’occupazione lavorativa, ecc.);

la cura del patrimonio, riferita alla gestione reddituale e patrimoniale del beneficiario (amministrazione di beni mobili – stipendi, pensioni, portafoglio titoli, ecc. – o di beni immobili), volta alla conservazione delle risorse finanziarie dello stesso e al soddisfacimento delle necessità ordinarie e straordinarie del medesimo.

Sotto il profilo dei poteri dell’amministratore, egli, in relazione alle condizioni di salute e all’autonomia residua del beneficiario, potrà essere investito dal Giudice Tutelare di un ruolo di rappresentanza esclusiva (sostituendosi integralmente al soggetto) o di mera assistenza (affiancandosi al soggetto nell’assunzione delle decisioni).

7. L’amministratore di sostegno: il compenso. La materia è disciplinata dall’art. 379 c.c., dettata in materia di tutela, ma applicabile in virtù del richiamo contenuto nell’art. 411 comma 1° c.c. anche all’amministrazione di sostegno. La norma afferma la tendenziale gratuità dell’incarico, disponendo tuttavia che il Giudice Tutelare, considerando l’entità del patrimonio del beneficiario e la difficoltà dell’amministrazione, possa liquidare in favore dell’amministratore un’equa indennità. Contestualmente al deposito del rendiconto annuale, l’amministratore di sostegno potrà formulare istanza al Giudice Tutelare per richiedere il riconoscimento di tale indennità. Peraltro, non esistono criteri univoci per la determinazione della stessa, che è riservata unicamente alla discrezionalità del Giudice Tutelare. Il decreto che liquidità l’indennità può essere oggetto di impugnazione davanti al Tribunale in composizione collegiale, laddove appaia palesemente esorbitante o sproporzionato in relazione ai parametri indicati dall’art. 379 c.c.

Amministratore di sostegno: dalla domanda alla nomina. Da asst-pg23.it. Affinché sia nominato un Amministratore di Sostegno per una persona in condizioni di bisogno (chiamato anche beneficiario) è necessario presentare al Giudice Tutelare una specifica domanda (detta tecnicamente ricorso). Il ricorso può essere presentato dal beneficiario stesso, dal coniuge (non legalmente separato), dalla persona stabilmente convivente oppure dai parenti entro il IV e gli affini entro il II, dal tutore o il curatore (per coloro che già godono di una delle altre due misure di protezione), il Pubblico Ministero, i responsabili dei Servizi Sanitari e Sociali che hanno in cura la persona interessata. Non è necessario il ricorso ad un avvocato per la predisposizione del ricorso.

Il ricorso. Elenco dei documenti necessari:

certificato integrale (o estratto) dell’atto di nascita del beneficiario (la mancanza di tale certificato è causa di sospensione della procedura)

certificato di residenza e di stato di famiglia del beneficiario

relazione clinica sullo stato di salute del beneficiario redatto in data recente riportante anamnesi, diagnosi e capacità residue del paziente (la relazione clinica andrebbe compilata sulla base del format e redatta da specialista di struttura sanitaria pubblica o accreditata; nel caso sia redatta dal medico di base la firma deve essere accompagnata dal codice regionale mediante il timbro o l’indicazione del codice stesso)

certificato che attesti l’eventuale intrasportabilità del beneficiario

eventuale relazione sociale che inquadri il contesto di vita del beneficiario

documentazione relativa alla situazione patrimoniale del beneficiario (stipendi percepiti per attività lavorativa, pensioni di anzianità o vecchiaia, pensioni di invalidità, pensioni di reversibilità, assegni di accompagnamento, rendite provenienti da affitti, investimenti, conti correnti, titoli, immobili, ecc.). Può bastare, se disponibile, un estratto conto bancario dove sono evidenti gli accrediti per la pensione, in alternativa il prospetto annuo che l’Inps invia fotocopia carta identità del beneficiario, del ricorrente e dell’eventuale amministratore di sostegno

elenco nomi e indirizzi dei parenti dei beneficiario fino al IV grado (maggiorenni): genitori, fratelli, figli, coniuge e nipoti

stato di famiglia storico (dal momento del matrimonio se coniugato o dalla nascita se nubile o celibe). 

Compilazione del ricorso. Per la compilazione del ricorso non è richiesto l’utilizzo di un modulo specifico, in quanto la forma è libera. I modelli, presenti sul nostro sito e su quello del Tribunale, hanno funzione indicativa e possono essere d’aiuto per la presentazione del ricorso. E’ sempre utile modellare il ricorso rispetto alle esigenze del possibile beneficiario, soprattutto per i poteri da attribuire al futuro Amministratore di sostegno. Nel caso si sia già nelle condizioni di dover chiedere autorizzazioni per atti di straordinaria amministrazione si consiglia di farlo già nel ricorso (ad es. le accettazioni di eredità, documentando e motivando la richiesta) così da accelerare il provvedimento.

Marche da bollo. La marca da bollo richiesta è di € 27,00; è opportuno produrre sin da subito anche un’ulteriore marca da € 11,63 (da allegare al ricorso) per il successivo ritiro del Decreto di fissazione dell’udienza. 

Presentazione. La presentazione del ricorso, unitamente alla nota accompagnatoria, va fatta direttamente dal ricorrente; è ammessa, in via eccezionale, la delega a terzi mentre non è ammessa la spedizione postale, eccezion fatta nel caso in cui il ricorso sia proposto direttamente dal servizio sociale, sanitario o sociosanitario che ha in cura il beneficiario.

La cancelleria alla quale presentare il ricorso è quella della Volontaria Giurisdizione (Tribunale). La Cancelleria, al momento della presentazione, rilascia all’interessato il numero con la quale viene registrato, che diventa il riferimento preferenziale dell’intera procedura. Se si desidera una copia del ricorso come ricevuta, va portata in Cancelleria una ulteriore marca da € 3.84. Sulla nota accompagnatoria, se disponibile, va indicato un indirizzo mail. Una volta presentato il ricorso presso la Cancelleria del Tribunale di competenza (la competenza è riferita al Comune di residenza o di domicilio del beneficiario) si deve attendere il decreto di fissazione dell’udienza presso il Giudice Tutelare (o presso il domicilio del beneficiario se questi non e' trasportabile come eventualmente evidenziato nella relazione clinica), che normalmente viene emesso all’incirca un mese e mezzo prima della data dell’udienza. Il decreto di fissazione riporta la data dell'udienza e alcuni elementi che è importante verificare, come eventuali richieste di integrazione di documenti che, se non si producono, portano alla sospensione della procedura.

Fissazione dell'udienza e ritiro decreto fissazione udienza. Per il ritiro del decreto di fissazione dell’udienza, la Cancelleria avvisa il ricorrente prioritariamente via e-mail, posta e telefono. Attenzione: l’indirizzo mail della Cancelleria della Volontaria Giurisdizione non può essere utilizzato né per la presentazione di ricorsi, né per presentazione istanze, né tanto meno per informazioni generali oppure riguardanti lo stato della procedura. Nel caso, già in questa fase, fosse necessario presentare una copia autenticata del decreto di fissazione dell'udienza (ad esempio per le banche) serve una marca da bollo di € 11,63.

Comunicazione. Il ricorrente ha l’obbligo di comunicare il decreto di fissazione dell’udienza, unitamente al ricorso presentato, al possibile beneficiario e a tutte le persone indicate dal giudice tutelare che lo stesso ritiene utile convocare (queste sono indicate nel decreto), comprovando l’avvenuta comunicazione mediante ricevuta di raccomandata postale (non sono ammesse altre modalità) in sede di udienza. E' importante che le persone convocate si presentino all’udienza; se per qualsiasi motivo (ad esempio problemi di salute, età avanzata o impedimenti di altro tipo) le stesse non sono in grado di presentarsi, possono far pervenire al Tribunale una dichiarazione sottoscritta (con allegata copia del documento d'identità) con il loro parere in ordine alla nomina o meno dell'Amministratore di Sostegno. E' opportuno, quindi, che il ricorrente preavvisi i familiari interessati della possibilità di essere convocati dal Giudice Tutelare già in fase di predisposizione del ricorso; ciò, ovviamente, nei limiti del possibile e tenuto conto delle relazioni familiari. Comunque sia il ricorrente ha assolto il proprio dovere con l'invio della convocazione (del ricorso presentato) ai convocati e l’esibizione delle ricevute postali.

La nomina e l'udienza. Il Giudice Tutelare sente obbligatoriamente il beneficiario, il ricorrente e – se presenti – tutte le persone convocate; Il beneficiario è convocato presso il Tribunale salvo che ci sia la condizione di intrasportabilità.

Decreto. Il fascicolo, prima dell'emanazione del decreto, viene inviato al pubblico ministero per il previsto parere.

Giuramento. L'amministratore di sostegno designato viene convocato per il giuramento; il decreto e il verbale di giuramento possono essere ritirati dopo almeno 3 giorni dal giuramento, consegnando contestualmente una marca da bollo di € 11,63. Nel caso sia necessario ritirare il tutto prima dei 3 giorni la marca da bollo è di € 34,89 (diritti d'urgenza). Se dovete darne copia a terzi (principalmente banche e/o uffici postali) è consigliabile non consegnare la copia autenticata rilasciata dalla Cancelleria ma, esibendo la stessa, lasciarne una copia non autenticata. La richiesta di copie autenticate alla Cancelleria è infatti onerosa poiché necessita di marca da bollo. Il decreto di apertura e di chiusura dell'Istituto sono comunicati all'ufficiale dello stato civile, direttamente a cura del Tribunale, per le annotazioni in margine all'atto di nascita del beneficiario.

Il dopo: le relazioni. Entro il termine fissato dal Giudice Tutelare, l'Amministratore di Sostegno ha l'obbligo di produrre la relazione iniziale, con la quale viene effettuata una ricognizione dell'intera situazione patrimoniale del beneficiario; successivamente, nei termini stabiliti dal Giudice Tutelare, deve essere prodotto anche il rendiconto periodico.

Istanze di autorizzazione a compiere atti di straordinaria amministrazione. Nel provvedimento, generalmente, è contenuta l'autorizzazione a compiere esclusivamente atti di ordinaria amministrazione, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione è necessaria specifica autorizzazione rilasciata su specifica istanza. Anche queste istanze devono essere depositate direttamente presso la cancelleria (le istanze non sono da presentare in marca da bollo). Per l'istanza di autorizzazione all'alienazione di beni immobili (case, terreni, ecc.) è necessario produrre anche una perizia estimativa asseverata recente e marca da bollo da € 27 (la perizia indica il valore di vendita).

La mia esperienza come Amministratore di Sostegno. Nicola Lorenzi, Avvocato in Milano. L’articolo pubblicato su Scambi di Prospettive. Da giovane avvocato e da interessato alla materia della tutela della persona da tempo nutrivo l’ambizione di “testare sul campo” le conoscenze sull’Amministrazione di Sostegno acquisite sui libri e durante un corso di formazione. All’inizio dell’estate del 2015 venivo a conoscenza del fatto che un amico di famiglia, ormai anziano, stava vivendo con estrema apprensione la diagnosi fatta al proprio fratello, di poco più giovane, relativa al morbo di Alzheimer. Questa persona, ormai da mesi, stava subendo una rilevante contrazione delle capacità mnemoniche e appariva sempre più spesso in stato di confusione, ed era patologicamente prodigo, elargendo denaro a più persone in assenza di ragioni e giustificazioni, il tutto senza che il fratello in salute fosse in grado di porvi alcun rimedio e avesse la forza, anche fisica e psichica, di proteggerlo, soffrendo quindi a sua volta. Coinvolto professionalmente nella questione, decidevo di aiutare i due fratelli e, infine, mi rendevo disponibile a ricoprire personalmente il delicato ruolo di Amministratore di Sostegno in favore della persona malata, certo che potesse essere un’occasione di crescita non solo professionale ma anche umana e pur con i dubbi legati all’inevitabile intromissione nella vita di altre persone che ne sarebbe derivata in ragione dell’assenza di legami familiari tra noi. Svolta la famiglia la procedura dinnanzi al Giudice Tutelare del tribunale di Milano e ricevuto il sottoscritto l’incarico formale, aveva così inizio sul campo la mia esperienza di Amministratore di Sostegno (in sigla anche A.d.S.), che mi ha definitivamente dimostrato come tra il dire e il fare, tra le nozioni scolastiche e le applicazioni pratiche, ci sia di mezzo … la vita vera, con tutte le complicazioni burocratiche, le difficoltà legate alla malattia e alla cura della persona, alla gestione delle più disparate problematiche che di volta in volta si presentano, il tutto reso ancora più complesso dalla necessità di interfacciarsi costantemente con un Giudice che, se per me è soggetto ben noto per la professione che svolgo, a un cittadino comune trasmette spesso un senso di preoccupazione e timore.

Ho quindi imparato o comunque visto sul campo quali siano le reali ed effettive difficoltà con cui ogni giorno i familiari, già provati dal dispiacere e dalle preoccupazioni, devono scontrarsi e cercare di superare per il bene del proprio congiunto malato e per effettivamente poter gestire i problemi con cui il ruolo di A.d.S. fa inevitabilmente entrare in contatto. A titolo esemplificativo (e a prescindere dalle specifiche complicazioni di ogni situazione, magari legate all’ammontare del patrimonio o alla specifica patologia del beneficiario), ho conosciuto le difficoltà nel convincere le banche a concedere l’utilizzo dell’home banking per procedere con i pagamenti e il controllo delle spese (nonostante i decreti di nomina, ormai sistematicamente, ordinino agli Istituti di credito di dotare gli A.d.S. di detti strumenti, così da evitare di doversi recare di persona in una filiale per ogni necessità). Ho conosciuto sul campo le complicazioni burocratiche dell’iter per richiedere e ottenere l’indennità di accompagnamento, gli ausili per l’incontinenza, nonché, più in generale, la difficoltà nel consegnare al giusto Ufficio del giusto Ente la documentazione a riprova del proprio ruolo, indispensabile per la corretta identificazione dell’A.d.S. come soggetto legittimato a svolgere determinati adempimenti; oppure, la difficoltà anche solo di comprendere il significato (ancor prima delle problematiche relative alla sua compilazione e, soprattutto, trasmissione) del Modello ICRIC. Ho, altresì, conosciuto le difficoltà nel reperire un fidato collaboratore familiare, rendendomi conto di come alcune parole risultino prive di significato per coloro i quali le abbiano solo udite e non approfondite: dietro a un “badante” c’è un essere umano, con i propri problemi e con le proprie difficoltà (spesso anche comunicative), al quale però si pretenderebbe di affidare compiti di assistenza di persone con patologie gravi e complesse che richiederebbero conoscenze psicologiche e mediche, stupendosi poi che detto compito non venga svolto al meglio. Ho quindi avuto, una volta di più, dimostrazione dell’importanza di conoscere direttamente la persona a cui chiedi di lavorare, di approfondire con lei le problematiche che deve affrontare nella quotidianità e di trovare di volta in volta una soluzione, così da verificare che il soggetto a cui viene chiesto di vivere in simbiosi con il malato, sia effettivamente in grado di svolgere il suo delicato compito e di sopportarne anche psicologicamente i risvolti. Ho quindi visto sul campo l’ingente lavoro a cui la Sezione Tutele del Tribunale di Milano è costantemente chiamata e che compie quotidianamente al meglio possibile, seppur certamente in carenza di organico e priva di giuste risorse pubbliche, sia dal punto di vista della Cancelleria sia dal punto di vista del Giudice Tutelare. Ho sperimentato le lunghe code che i cittadini devono fare per poter depositare istanze, documenti, rendiconti e per ritirare i relativi provvedimenti. Ho soprattutto compreso la decisiva importanza di potersi interfacciare con un Giudice Tutelare capace e attento alle effettive necessità rappresentate nelle istanze depositate, apprezzando i risultati ottenuti grazie a questa sinergia tra i vari ruoli. Da ultimo, ma certamente non per ultimo, ho conosciuto da vicino la malattia e le conseguenze che questa comporta sulla persona. Ho vissuto da vicino i cambiamenti che una malattia come l’Alzheimer provoca in un lasso di tempo brevissimo, così da costringere il malato in uno stato di assoluta alienazione, incapace di gestirsi nei più elementari bisogni e così da farlo assomigliare sempre più, purtroppo negativamente, a un infante con necessità di controllo e gestione costanti. Solo in questo modo ho potuto comprendere il dramma che un familiare è costretto a vivere quotidianamente, chiamato non solo a dover gestire il proprio malato, ma altresì a sostituirsi a quest’ultimo nella gestione di tutto quanto lo stesso non è più in grado di fare, che, però, non per questo, scompare. Più banalmente ho compreso le gravose problematiche che le famiglie sono chiamate a sopportare, spesso in assenza di aiuti esterni, per cercare di “sopravvivere” nonostante la malattia. Ora che la persona che assistevo non c’è più, oltre al ricordo della stessa, mi resta tutto quanto di positivo un’esperienza come quella raccontata può lasciare a livello di arricchimento e approfondimento non solo professionale e, soprattutto, la consapevolezza che molte famiglie – prive di nozioni giuridiche e ancor prima inesperte e comunque non pronte alle formalità – hanno certamente necessità di supporto per lo svolgimento del loro incarico. Un supporto che un’associazione come quella che ho incontrato nel mio cammino, l’Associazione InCERCHIO per le persone fragili, offre con grande competenza e passione, motivo per cui ho deciso di unirmi a loro per mettere a disposizione di familiari e beneficiari il mio contributo e le mie competenze. Il tutto nella convinzione – espressa al termine di questa narrazione ma che è in realtà il motivo alla base del mio impegno – che l’introduzione dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno sia stata una delle più riuscite iniziative legislative del nostro Paese e che pertanto è dovere anche dei professionisti impegnarsi affinché l’Amministratore di Sostegno assuma sempre più un ruolo fondamentale per la cura e l’assistenza delle persone non più capaci, essendo l’unico strumento effettivamente in grado di dare le migliori risposte alle varie effettive esigenze del singolo beneficiario e con la corretta determinazione dei confini dei poteri da concedere all’A.d.S. di volta in volta nel caso specifico.

L'amministratore di sostegno raccolta di casi e controversie. Da Leale De Feroci. Che cos’è l’amministrazione di sostegno. L’amministrazione di sostegno è un istituto giuridico recente, creato per assistere persone che hanno blande difficoltà psicologiche o fisiche ad amministrare i propri beni, evitando loro le gravi limitazioni della libertà di agire che sono proprie dell’interdizione e dell’inabilitazione. L’incarico di amministratore di sostegno dovrebbe essere gratuito, ed il Tribunale dovrebbe affidarlo di preferenza a famigliari o conviventi e controllarne adeguatamente gli atti e le contabilità. Ma in concreto buona parte dei Tribunali italiani non ha personale sufficiente a garantire controlli efficaci, sottopone le persone ad amministratore di sostegno su richiesta di terzi senza adeguate controperizie difensive, conferisce gli incarichi ad avvocati, praticanti o commercialisti autorizzandoli a prelevare compensi dalle risorse degli amministrati, e spesso assegna loro poteri analoghi a quelli del tutore dell’interdetto.

Gli abusi, le coperture e la politica. Il sostegno viene così trasformato arbitrariamente in un’interdizione impropria con garanzie di gestione e controllo minori. E questo favorisce abusi di vario genere sulla vita, il denaro e gli immobili degli amministrati, molti dei quali si trovano così non sostenuti, ma espropriati della disponibilità del proprio denaro, dei propri immobili e persino della posta. Ed accade pure che se si oppongono finiscano all’ospizio con vendita della casa, mentre le proteste di loro famigliari vengano zittite sottoponendo anche loro ad amministrazione di sostegno analoga. Questo ciclo perverso si perpetua in proporzione alle condizioni ambientali di omertà e copertura che trova sia nei tribunali e nelle altre istituzioni che sui media; è stato inoltre favorito da tentativi impropri di sovrapporre al problema oggettivo uno scontro politico tra destra colpevolista e sinistra assolutoria.

Il caso Trieste e le indagini giudiziarie. La legge sulle amministrazioni di sostegno è nata a Trieste negli ambienti della celebre psichiatria aperta di Franco Basaglia, ma proprio qui è stata paradossalmente applicata anche senza necessità, in eccesso numerico, alimentando avvocati e commercialisti, con maggiore arbitrio repressivo delle libertà fondamentali degli assistiti, e queste anomalìe vengono tuttora coperte sia dal Tribunale che dai politici e dal quotidiano monopolista locale Il Piccolo (gruppo Espresso). Il tutto è ora sotto indagini giudiziarie della Procura esterna competente per legge, avviate su esposti-denuncia di alcune vittime e su una querela che la giudice più coinvolta nei fatti ha sporto contro Paolo G. Parovel per le notizie, le analisi ed i commenti che ne ha pubblicati. Trieste diventa perciò un caso-pilota anche per il contrasto agli abusi nelle amministrazioni di sostegno in tutt’Italia.  La denuncia, che non ha precedenti ed espone il problema in 20 cartelle d’analisi giuridica e riferimenti fattuali, segnala una concentrazione che definisce “abnorme” di questi abusi a Trieste su sottrazioni giudiziarie di bambini alle famiglie e nelle “amministrazioni di sostegno” di adulti in difficoltà. ambedue categorie di soggetti deboli. In Italia gli affidi e le amministrazioni di sostegno vengono decisi dal Giudice Tutelare per semplice decreto su istruttoria discrezionale senza difesa processuale degli interessati e delle famiglie, ed una gran parte delle “amministrazioni di sostegno” viene affidata non all’attività gratuita di famigliari, ma ad avvocati e privando la persona del diritto di amministrare i propri beni, di decidere le proprie cure e di ricevere la corrispondenza. Si tratta perciò di violazioni dei diritti fondamentali e costituzionali della persona e della famiglia, con provvedimenti in buona parte ingiustificati che causano sofferenze gravi sino al suicidio e vanno ad alimentare due “mercati“ anomali: uno degli elevati costi di ricovero pagati dai Comuni per ogni bambino, e l’altro di operazioni sui patrimoni mobiliari ed immobiliari degli amministrati. I due “mercati anomali”, che ammontano a centinaia di milioni di euro, sono perciò coperti dal silenzio interessato di influenti categorie coinvolte, e Trieste avrebbe da sola il 40 % del totale nazionale degli affidi di minori al circuito delle “case-famiglia” (dati ISTAT), più 4000 “amministrazioni di sostegno” affidate per oltre metà ad avvocati. Il Movimento Trieste Libera ha inviato la propria denuncia anche alle autorità europee e internazionali rilevando che le leggi italiane non possono avere applicazione diretta a Trieste, perché secondo gli strumenti internazionali specifici (Trattato di Pace di Parigi del 1947 e Memorandum d’intesa di Londra del 1954) la città-porto franco adriatica si trova ancora sotto amministrazione fiduciaria del Governo italiano e non dello Stato italiano. Sullo status internazionale di Trieste è in atto un vivace dibattito politico e storico-giuridico. Fonte: giuliocomuzzi.it.   

SE QUESTO E' UN AVVOCATO. NOMINATO AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO SVUOTA I CONTI DELLE PERSONE DEBOLI A LEI AFFIDATE. Rimini, avvocatessa ruba 200 mila euro a un senza tetto per comprarsi un Suv. Se un furto è sempre odioso a Rimini ce n'è stato uno insopportabile. Avrebbe dovuto prendersi cura delle finanze dei suoi assistiti, come amministratore di sostegno nominata dal Tribunale per la tutela delle fasce più deboli, e invece ne ha svuotato i conti correnti. Vittima di Lidia Gabellini, 38 anni avvocato del Foro di Rimini e arrestata questa mattina dai carabinieri per peculato, anche il clochard sopravvissuto nel 2008 all'incursione di un gruppo di teppisti che gli diedero fuoco mentre dormiva su panchina. Pure il risarcimento danni che il senzatetto aveva avuto all'epoca del processo, circa 190 mila euro, è finito nelle tasche dell'avvocatessa che da questa mattina si trova nel carcere femminile di Forlì. È questo l'epilogo di una indagine lampo della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Rimini, coordinati dal sostituto procuratore Davide Ercolani, nell'inchiesta denominata in maniera evocativa, «Vampiro». Secondo gli inquirenti, l'avvocato Gabellini dal 2010 fino all'ottobre 2013, mese in cui il Tribunale le ha revocato il mandato di amministratore di sostegno, ha prosciugato i conti correnti dei suoi assistiti. In particolare, nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Sonia Pasini, si contestano due condotte: una relativa alla gestione dei beni di un 22enne di Perticara, invalido al 100 per 100 dopo un incidente domestico, e quello del clochard già miracolosamente scampato alla morte nel 2008. Secondo le accuse il denaro è stato utilizzato dall'avvocato per l'acquisto di autovetture e altri beni di consumo. Questa mattina nel corso della perquisizione dell'appartamento della professionista, di ottima posizione sociale, sposata con un medico anestesista e madre di una bimba piccola, i carabinieri hanno trovato le tracce della falsificazione dei rendiconto bancari che l'avvocato mostrava ai suoi assistiti per non destare sospetti. Rendiconto alterati con del semplice bianchetto di cui gli originali sono stati sequestrati per gli atti della Procura. Gli inquirenti hanno anche provveduto al sequestro per equivalente della somma di 205 mila euro (quella che si presume sia stata provento del reato), metà della casa di famiglia, una Volkswagen Touareg, una Smart e alcuni conti correnti. L'indagine della Procura partì quando il padre del giovane invalido si accorse che sul conto corrente del figlio c'erano delle anomalie. Il ragazzo, invalido per un caduta dal tetto di casa, aveva ricevuto un indennizzo di 30mila euro e percepiva ogni mese una pensione da 680 euro. Sul conto però, dopo le incursioni dell'amministratore di sostegno, dopo 22 mesi c'erano solo pochi spiccioli. Quando l'avvocato si è vista smascherare, e intuendo di essere indagata dopo essere stata revocata dal tribunale, ha continuato ad avere rapporti con i suoi assistiti tentando in alcuni casi anche di convincerli di cambiare residenza per sviare i sospetti. All'avvocato arrestato il Tribunale aveva affidato 6 casi di persone sotto tutela. Ora la magistratura vaglierà le ulteriori 4 posizioni ancora non oggetto d'indagine. Lidia Gabellini è difesa dall'avvocato Alessandro Petrillo. Fonte:  ultimocamerlengo.blogspot.it.

“MIO PADRE HA SUBITO DELLE INGIUSTIZIE, COME BENEFICIARIO DI ADS”. Alcuni si riconosceranno in questa storia e potrebbero avere delle reazioni nei miei confronti, ma io non ho paura, ho solo voglia di giustizia. Mi chiamo E, vivo a V. M. e ho 28 anni. Da qualche giorno sono amministratrice di sostegno di mio padre. I miei genitori si sono separati che ero bambina e oggi sono divorziati. Per me è venuto molto presto il momento in cui ho dovuto abbandonare il ruolo di figlia per prendermi cura di mio padre, lo faccio con convinzione, con amore, ma ho dovuto lottare, e lo sto ancora facendo, contro un muro di gomma fatto di ingiustizie e lungaggini burocratiche e giudiziarie. I fatti in breve:

Cinque anni fa moriva mio nonno, mio padre allora era seguito dai servizi psichiatrici per una grave depressione, avevo 23 anni e non sentendomi preparata a gestire le beghe legali con i familiari di mio padre, mi sono affidata alla giustizia acconsentendo che mio padre avesse come amministratore di sostegno una avvocatessa che avrebbe dovuto occuparsi (così recita il decreto di nomina del giudice tutelare) solo ed esclusivamente della divisione patrimoniale. E qui è cominciato per me e mio padre un vero e proprio incubo. La causa legale per la divisione dell’eredità si è conclusa nel novembre del 2011 e mio padre è così venuto in possesso di una casa e alcune biolche di terra. La amministratrice nominata sin dal 2008 ha cominciato a gestire il conto corrente di mio padre, fuori da ogni mandato del giudice, e fargli mancare persino il necessario per mangiare o per andare a curarsi i denti per esempio. Nonostante le mie lettere raccomandate all’amministratrice, nonostante le segnalazioni ai servizi sociali, a mio padre veniva persino negato di avere l’estratto conto del proprio conto corrente. Una vita ai limiti della sopravvivenza. E le risparmio le umiliazioni che questa donna mi ha fatto subire. Mi sono allora iscritta a un corso per amministratori di sostegno, durante il corso ponevo ai docenti tante domande e ho cominciato a raccontare i soprusi che stavamo subendo e che finalmente capivo di subire, insieme a mio padre. Ho fatto richiesta per diventare io l’amministratore di sostegno di mio padre e finalmente ci sono riuscita. A quel punto forte della consapevolezza delle leggi ho raccolto tutta la documentazione necessaria. Durante il corso mi hanno spiegato che per agire sul conto corrente di una persona, bisogna avere un mandato specifico di un giudice, che tale mandato va consegnato alla banca. Nella banca di cui mio padre era correntista non risultava essere nessun mandato del giudice in tal senso (e questo lo sapevo benissimo: uno perché l’incarico come amministratrice della avvocatessa non prevedeva questa specie di atti e due per il comportamento molto evasivo della funzionaria di banca). Ho raccolto tutte le prove di quanto ho appena denunciato. A novembre del 2012 ho presentato alla procura di Mantova un dettagliato esposto contenente tutte le prove di quelli che a me sono apparsi come soprusi e illeciti, perché un giudice si pronunciasse. Ho presentato un esposto convinta di avere giustizia e non c’è nessuna affermazione contenuta in questa lettera che non io possa provare. Purtroppo ad oggi non ho nessuna notizia dei provvedimenti presi per sanare questa ingiustizia. Io e mio padre ce la stiamo facendo a venirne fuori, ma penso a tutte quelle persone fragili magari senza familiari, e ce ne sono tante mi creda, facili prede, a cui viene di punto in bianco tolto persino il diritto di desiderare, perché durante il corso ho conosciuto storie molto simili alla mia in cui la stessa avvocatessa si era comportata nella stessa modalità anche nel mio stesso paese e, a quanto mi risulta, continua ad agire. EB. Fonte: personaedanno.it.

Lo ritengo un "Abuso di potere". Sono il figlio di una persona invalida al cento per cento non autonoma, da anni dietro alle esigenze di mia madre, con il contratto di affitto cointestato. Da anni a causa di difficoltà economiche la nostra famiglia è seguita dalla assistente sociale che inizialmente, diversi anni fa, ci è stata di aiuto dal momento che mentre lavoravo venivano gli operatori accompagnando mia madre a fare le spese e lavandola, fino al momento in cui questi servizi sono arrivati sempre più a peggiorare. Col tempo mi sono sposato con una ragazza con due figli, creandomi una famiglia e mia moglie mi aiutava ad occupandosi di gran parte lei delle faccende in casa con mia madre e dopo insistenze varie della assistente sociale abbiamo inserito mia madre in un centro diurno, lei inizialmente non voleva perché preferiva stare in casa dove secondo lei avrebbe avuto le sue libertà ma a causa di forza maggiore accettò. Le persone anziane spesso parlano male dei propri famigliari e mia madre è gelosa della nuora e dei suoi figli e quando andava al centro si lamentava con i degenti e con mia zia creando pettegolezzi in cui secondo lei noi famigliari avremmo speso i suoi soldi e, tengo a fare presente che era lei a gestire interamente i suoi soldi e quando doveva fare qualche spesa veniva accompagnata e decideva lei cosa comprare. E, come il risultato di queste sue chiacchiere che arrivarono all’orecchio della assistente sociale già turbata dal fatto che mia madre non pagava la retta del centro perché si era vista costretta ad andarci e non trovava giusto il fatto che dovesse anche pagare che, senza nemmeno interpellare i famigliari mise in atto tutte le procedure di avvio per un amministratore di sostegno. Un bel giorno tutti noi famigliari stretti e zia compresa veniamo convocati davanti al giudice tutelare per la nomina di un amministratore di sostegno, io sinceramente parlando avrei dovuto in quell’occasione accettare l’ incarico ma, conoscendo le reazioni di mia madre che non voleva farsi gestire i soldi da nessuno ho preferito che ad occuparsi dell’ ingrato compito fosse mia zia ignaro del fatto di quanto sarebbe successo dopo. Cominciò allora un periodo in cui la zia che avrebbe che avrebbe dovuto occuparsi solo di tenere un amministrazione dei soldi di mia madre gestendo una misera pensione di mille euro, aveva invece in mano le redini per decidere l’ intera vita di mia madre e della nostra e naturalmente era affiancata dalla assistente sociale artefice di tutto e, assomigliava il tutto come un abuso di ufficio legalizzato. Come se non bastasse i rapporti con mia zia non erano dei migliori determinato dal fatto che in passato lei e mia madre si erano denunciate penalmente ed erano naturalmente rimasti dei rancori. Per farla breve, in famiglia lavoriamo io e mia moglie la quale deve anche assistere mia madre in tutto e per tutto dal momento che mia madre non è assolutamente in grado di fare niente da sola e la pensione di mia madre viene spesa come ritiene sia giusto l’ assistente sociale la quale manda degli operatori in casa che non le fanno niente, una spesa completamente inutile dal momento che a tutte le esigenze di mia madre ci deve pensare la famiglia. Non solo abbiamo avuto dei problemi di morosità con l’ affitto e con relativa ingiunzione di sfratto e a gennaio ci siamo concordati per un piano di rientro rateizzato pagando una somma stabilita insieme all’ amministratore di sostegno che avremmo dovuto pagare sia io che mia madre in quanto cointestatari dell’appartamento in questione, a Maggio mia zia ha lasciato l’ incarico per motivi di salute e mia madre ed è rimasta senza riscuotere la pensione fino alla fine di Luglio nel frattempo non avendo i soldi per riuscire a tamponare l’affitto ed in più anche la rateizzazione abbiamo saltato delle rate e ci è stato detto che ad Ottobre avremo un'altra ingiunzione di sfratto esecutivo se non arriviamo ad un accordo versando altri soldi che non abbiamo. In casa non abbiamo la lavatrice perché tutte le tubature sia della cucina che della doccia sono intasate e dobbiamo anche andare a lavare i piatti in bagno siamo in questa situazione da quando siamo entrati nel appartamento i lavori spetterebbero al proprietario il quale fino che non avremo pagato gli arretrati non farà mai nessun lavoro. Ci mancava solo l’ operatore mandato dalla assistente sociale che ci addita contro dicendoci che mia madre ha un solo asciugamano e con l’ intenzione di comandare in casa mia anche… F.L. Fonte: Leale De Feroci.

Al di là della volontà delle famiglie degli assistiti da ADS. Psichiatria: amministratore di sostegno o emarginatore dei familiari? Due casi di nostra conoscenza pongono dubbi sulla corretta applicazione della legge che istituisce l'amministratore di sostegno una «figura istituita per quelle persone che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’ impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi».  «L'amministratore di sostegno è una figura istituita per quelle persone che, per effetto di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi». Inizia così, sul sito internet del Ministero della Giustizia, la scheda informativa relativa a questo istituto, così come previsto dalla legge 6 del 2004 che lo ha profondamente riformato. Anziani e disabili, ma anche alcolisti, tossicodipendenti, detenuti e malati terminali possono chiedere mediante ricorso – anche se minori, interdetti o inabilitati – che «il giudice tutelare nomini una persona che abbia cura della loro persona e del loro patrimonio». Ma tale richiesta – che non necessita dell’assistenza di un avvocato – può anche essere presentata dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado (relativo a cugini, pronipoti e prozii), dagli affini entro il secondo grado (suoceri, generi e nuore, cognati), dal tutore o curatore e dal pubblico ministero. Tuttavia la scheda precisa anche che «i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, se sono a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero». Ed è proprio quest’ultima possibilità che ha consentito il verificarsi di un paio di casi di cui siamo venuti a conoscenza, entrambi relativi a pazienti psichiatrici fiorentini e caratterizzati dalla nomina di un amministratore di sostegno al di là della volontà delle loro famiglie, nonostante che queste avessero sempre avuto a cuore la salute ed il bene dei loro congiunti. In sostanza, dietro la richiesta di servizi psichiatrici e assistenti sociali che avevano in carico i suddetti pazienti, il giudice tutelare avrebbe operato in entrambi i casi una scelta che sembrerebbe andar contro quanto prevede la legge stessa, laddove indica di preferire come amministratore di sostegno, nell’ordine, il coniuge che non sia separato legalmente, la persona stabilmente convivente, il padre o la madre, il figlio, il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado, il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata. C’è però un «se possibile» che di fatto lascia una discrezionalità forse troppo ampia, che alla fine, probabilmente anche per un certo scarico di responsabilità, si indirizza fatalmente verso la ratifica del quadro fornito dai professionisti interessati rispetto a quello presentato dai familiari. La delicatezza della questione non è di poco conto soprattutto se si tiene conto del fatto che il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve contenere tutta una serie di indicazioni decisamente «sensibili», quali la durata dell’incarico, che può essere anche a tempo indeterminato, il suo oggetto, gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario e, viceversa, quelli che quest’ultimo può compiere solo con l’assistenza del primo, la periodicità con cui l’amministratore deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario e infine, quel che più conta, i limiti, anche periodici, delle spese che l’amministratore di sostegno può sostenere con utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità. In entrambi i casi di nostra conoscenza, non a caso, tale disponibilità economica era presente. Sebbene la legge preveda espressamente che gli operatori dei servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico il beneficiario non possono ricoprire le funzioni di amministratore di sostegno, si crea però di fatto un meccanismo in cui i familiari interessati vengono emarginati e privati anche della possibilità di una cogestione del patrimonio comune, casa compresa. È quanto successo, in uno dei due casi, alla sorella del beneficiario, amareggiata e sconcertata per essere stata esclusa insieme a tutta la famiglia dalla possibilità di affiancare il fratello nel percorso di cura. E pur non intendendo affatto mettere in dubbio la buona fede del giudice tutelare e degli operatori in questione, non possono non emergere dubbi sulla gestione della vicenda, nata in seguito alla morte del padre dei due fratelli, che ha portato anche a richiedere, pochi mesi dopo la presa in carico, una visita per l’incremento dal 75 al 100% dell’invalidità del soggetto assistito, con possibile perdita dell’idoneità al lavoro in cui, pur con tutti i suoi limiti, era impegnato. Fattore scatenante dell’altro caso è stato invece un contenzioso tra i tre fratelli del disabile e la struttura psichiatrica di riferimento in merito alle nuove modalità di assistenza loro prospettate (che di fatto si configuravano come un forte allentamento, se non addirittura una rinuncia, della presa in carico). In casi come quelli citati (ma sembra che ce ne siano anche altri, secondo quanto ci riferisce il Coordinamento toscano delle associazioni per la salute mentale, che intende approfondire il tema), il circolo che si crea tra servizi psichiatrici, assistenti sociali, giudice tutelare e amministratore di sostegno chiude di fatto fuori la famiglia del disabile anche quando in quest’ultima è chiaramente presente un rapporto affettivo senza secondi fini nei confronti del proprio congiunto. Problemi di rapporto dei familiari con i servizi o eventuali giudizi di inadeguatezza dei rapporti interfamiliari non sono certo sufficienti a giustificare una simile emarginazione, anche per le ripercussioni negative che questa potrebbe avere sugli stessi disabili che almeno a parole si vorrebbero invece tutelare. Tenendo anche conto del fatto che, secondo quanto previsto dalla legge, la scelta dell’amministratore di sostegno deve avvenire »con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario». Fonte: Leale De Feroci.

Decisioni prese dal giudice tutelare. Salve a tutti, sono vittima di abusi sia da parte di un amministratrice di sostegno che del giudice tutelare e mi chiedevo se tutto questo ? davvero lecito oppure no. Vi espongo brevemente i fatti. Mia madre soffre di demenza senile su base variabile, e per lei ? stata nominata a dicembre scorso un'amministratrice di sostegno, senza n? il consenso, n? la consapevolezza della beneficiaria, che a tutt'oggi ? ignara del fatto che il suo patrimonio e i suoi conti sono amministrati da una persona di cui, tra l'altro, lei, in vita sua , non si ? mai fidata. A settembre scorso (quindi prima che l'amministratrice venisse investita dell'incarico) mia madre, senza il mio consenso e senza nemmeno sentire il mio parere, in qualità di figlia, è stata ricoverata dall'attuale amministratrice di sostegno con l'inganno presso una struttura sanitaria, facendole credere che si trattasse di ricovero temporaneo a causa di un suo male. A tutt'oggi mia madre, ignara del fatto che trattasi di ricovero permanente e progetta in continuazione "le cose che fare" quando finalmente la dimetteranno. Intanto le è stata tolta ogni libertà e privata dei suoi soldi. Io, sola contro tutti gli altri fratelli, mi sento con le mani legate, e non posso dirle niente. Da aprile ho iniziato a portar fuori mia madre almeno per pranzo (dopo mesi di segregazione), ma ho incontrato subito l'ostilità da parte dell'amministratrice. Per metterla a tacere, ho chiesto al giudice tutelare di poter avere un permesso suo scritto che mi autorizzasse a portare a pranzo fuori mia madre dalla struttura sanitaria almeno qualche domenica. Il giudice tutelare, nonostante il decreto da lui stesso emanato menzionasse solo compiti di natura economica (pagare spese, ritirare pensione e cose varie) e sanitaria (informarsi del suo stato di salute e preoccuparsi qualora abbia bisogno di ulteriori cure), in seguito all'istanza da me presentata ha invitato l'amministratrice a prendere posizione circa l'opportunità? o meno che mia madre potesse frequentare la mia abitazione. Forte di questo fatto, l'amministratrice oggi mi ha proibito di poter portar via mia madre fuori per pranzo (l'amministratrice non ? altro che una nuora), nonostante mia madre lo desiderasse. Tutto questo senza alcuna motivazione, semplicemente per pura ripicca nei miei confronti. La struttura sanitaria ovviamente ha obbedito ai suoi ordini. Il mese scorso, io, viste le prime opposizioni, ho presentato una comparsa di costituzione in cui esponevo tutti i fatti (ricovero non autorizzato, non consapevolezza dei fatti da parte della beneficiaria e opposizione dell'amministratrice al fatto che la beneficiaria frequenti la figlia), chiedendo, tra l'altro, con un'istanza al giudice tutelare di poter essere informata sui fatti di mia madre, dal momento che stanno avvenendo cose, tra cui denunce di badanti e sparizione di soldi dai C/C di mia madre, di cui, tutto il paese informato, tranne me che sono la figlia. Il giudice ha rigettato l'istanza, motivandola col fatto che ormai per lui il procedimento risulta chiuso nel momento in cui ha emesso il decreto di amministrazione di sostegno e che avevo tempo solo 10 giorni per potermi muovere. In sostanza, ho agito troppo tardi. Ma io mi chiedo: dal momento che trattasi semplicemente di amministrazione di sostegno e non c'è alcuna interdizione nè tutela legale per mia madre, è lecito che un amministratore di sostegno vieti alla sua beneficiaria di poter frequentare una figlia, opponendosi al volere della beneficiaria stessa? E' altresì? lecito che un giudice tutelare avvalli un tale comportamento (ripeto: senza alcuna motivazione) facendomi tra l'altro redarre una domandina per un permesso di cui pensavo non aver bisogno? Possibile che il giudice tutelare abbia i poteri di un Dio supremo e decida lui cosa va fatto e cosa no a prescindere dalle motivazioni e a prescindere dal fatto che sia contro quando la legge afferma sull'amministrazione di sostegno? Io attualmente mi trovo con le mani legate su tutti i fronti. HANNO PROIBITO A MADRE E FIGLIA DI POTERSI FREQUENTARE SENZA ALCUN MOTIVO, semplicemente perchè? all'amministratore "va così?".  Mi sento vittima di una grave ingiustizia. Fonte: Leale De Feroci.

In 700 "amministrano" anziani. Sono quasi 700 a Trieste gli amministratori di sostegno in carica e il loro numero sta crescendo a grande velocità. Ugo Salvini 28 giugno 2009 su La Repubblica.

LA FIGURA. Al centro di quello che a pieno titolo può essere definito un nuovo fenomeno sociale, l'amministratore di sostegno è una figura recente dell'ordinamento giuridico italiano, essendo stata istituita con la legge del 9 gennaio 2004, n. 6, entrata in vigore il successivo 20 marzo e che prevede, accanto all'interdizione e all'inabilitazione, come forma morbida di assistenza e aiuto alle persone in difficoltà.

LE FINALITÀ. La legge ha la «finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire – si legge nell'articolo 1 - le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». La nomina dell'amministratore di sostegno è fatta dal Giudice tutelare competente per territorio e molto spesso riguarda un familiare stretto della persona bisognosa di aiuto.

COSA SERVE. Le problematiche che si possono affrontare con l'istituto dell'amministrazione di sostegno sono molteplici: si va dalla più semplice gestione della pensione per il pagamento di affitti, rette e bollette, a quelle più complesse di patrimoni e rapporti bancari o di immobili ed eredità.

IL BOOM. A Trieste, città di anziani per definizione, il ricorso a questa soluzione, che è la più leggera delle tre previste dall'ordinamento, poichè inabilitazione e soprattutto interdizione sono molto più limitative, è letteralmente esplosa. Nel 2004, primo anno di applicazione, furono nominati 5 amministratori di sostegno, nel 2005 49, nel 2006 125, nel 2007 190, lo scorso anno sono stati 281.

LE RICHIESTE. Un trend in continuo aumento, come spiega il giudice tutelare Gloria Carlesso, che si occupa della gran parte delle istanze di questa natura: «Nei primi due mesi di quest'anno – dice – siamo già a quota 36 e il trend è in netto aumento». Utile anche confrontare le domande presentate: nel 2004 furono 28, nel 2005 152, nel 2006 224, nel 2007 273, nel 2008 361, quest'anno finora sono state un'ottantina.

I PROVVEDIMENTI. I dati evidenziano, nell'ambito di una chiara crescita del ricorso all'istituto, un avvicinamento fra il numero delle richieste e quello dei provvedimenti di nomina emessi: segnale di una conoscenza sempre più approfondita da parte della popolazione dell'esistenza di questa possibilità non invasiva di aiuto alle persone anziane o afflitte da problemi di memoria. «Vorremmo però – sottolinea la Carlesso – che questo istituto fosse noto veramente a tutti, perché la sua utilità è notevole».

LA NOMINA. I dati parlano chiaro: in città sono circa 25mila le persone in condizione di parziale disabilità, di impossibilità a muoversi e di provvedere a se stesse. Probabilmente molti di questi casi potrebbero essere risolti con il ricorso all'amministratore di sostegno.

LA PROCEDURA. Ma l'istituto è riconosciuto solo in determinate condizioni. «La nomina – precisa il giudice tutelare Carlesso – deve essere effettuata quando serve, dopo un'attenta analisi della situazione e uno o più colloqui con le parti interessate. Il mio lavoro prevede sì l'applicazione delle regole, ma sono decisive le visite alle persone al loro domicilio, spesso nelle case di riposo, e l'uso di una buona dose di psicologia».

L'IMPEGNO. Anziani che scelgono l'amministratore di sostegno soprattutto nella gestione della pensione, in modo da pagare le rette, oppure le bollette, fino a situazioni finanziarie più complicate. «Su questo fronte – conclude la Carlesso – dovrebbe esserci anche un maggiore impegno delle pubbliche istituzioni e delle strutture sanitarie". Ugo Salvini 28 giugno 2009 su La Repubblica.

l DOSSIER - abusi nelle amministrazioni di sostegno: due anni di indagini, i silenzi scandalosi, le domande Il 18 e 19 aprile a Trieste una manifestazione ed un primo convegno nazionale.  DOSSIER SPECIALE. La Voce di Trieste, pag. 7, 16 aprile 2013. L’investigazione giornalistica è molto più difficile e rischiosa di quella giudiziaria e d’intelligence: non hai i loro mezzi materiali e giuridici, né le spalle coperte dallo Stato, ed i risultati non vengono verificati né consolidati in processi e sentenze. Ma sei egualmente responsabile verso la collettività ed i singoli, e se sbagli paghi di persona. Il vantaggio è invece di poter essere liberi ed indipendenti, anche se questo si associa ad una maggiore necessità di equilibrio nella valutazione dei fatti e degli indizi. Soprattutto quando ti trovi ad indagare su ipotesi che sembrano incredibili. Nel maggio 2010, quando incominciai a dirigere un primo periodico triestino d’inchiesta, “il Tuono”, non avevo motivi per ritenere che qualcosa non funzionasse nel celebrato laboratorio triestino della riforma psichiatrica d’origine basagliana che con la legge 180 del 1978 aveva finalmente abbattuto le mura dei manicomi, sperimentando modelli di assistenza esterna studiati ed accreditati in mezzo mondo, e dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli altri media non segnalavano infatti nulla di anomalo, presentando anzi quell’ambiente come una sorta di comunità laica e progressista di santi e redenti fondata su certezze terapeutiche, profonda umanità, ottimi risultati e disinteresse venale assoluto. Un paradiso in terra, che come tale faceva passare le poche proteste per assurde, patologiche e strumentalizzate da una destra illiberale nefanda. Non avevo nemmeno motivi per dubitare che la collaborazione fra quella psichiatria esemplare e gli ambienti giudiziario e forense fossero meno che ineccepibili. Anche nelle nuove e celebrate amministrazioni di sostegno, che dovevano risparmiare alle persone in difficoltà limitate i rigori umilianti dell’interdizione e dell’inabilitazione, fornendo una tutela blanda, consensuale ed affidata ai famigliari. Poi sono incominciate ad arrivare le lettere che l’altra stampa, semplicemente, censurava da anni. E denunciavano abusi gravissimi nelle amministrazioni di sostegno, a danno di persone con qualche risorsa in denaro e beni immobili. Affermavano infatti che con arbitrio sistematico crescente alcuni operatori psichiatrici, sociali e giudiziari stessero imponendo loro, senza difesa legale né contraddittorio, l’amministrazione di alcuni giovani avvocati, praticanti o commercialisti, dotandoli di poteri sproporzionati e propri dell’interdizione, ed escludendone i famigliari. La persona finiva così espropriata dei diritti fondamentali di amministrare i propri beni, decidere le proprie cure e ricevere la corrispondenza, che il giudice delegava per decreto unilaterale a quei giovani estranei. Autorizzandoli a prelevare compensi ed effettuare spese dal patrimonio della persona amministrata, venderne gli immobili e la stessa casa d’abitazione, imporle cure e ricovero. Ed a negarle la possibilità di pagare un legale di fiducia per difendersi da tutto questo. Il quadro indiziario era dunque di predazione giudiziaria dei diritti umani e di sostanziale riduzione in schiavitù, con erosione dei beni della persona e della famiglia a beneficio di terzi, entro una trappola psichiatrico-giudiziaria cui era difficilissimo sfuggire. Al punto che anche le proteste di parenti venivano paralizzate sottoponendoli allo stesso genere di interdizione impropria. Ed a Trieste i decreti d’amministrazione di sostegno, corretta od arbitraria che fosse, risultavano anche in aumento esponenziale sorprendente e senza paragoni altrove: già oltre i 1500, in un Tribunale che era ed è inoltre privo degli organici necessari per controllare efficacemente anche questa nuova massa abnorme di gestioni finanziario-sanitarie coattive e delicatissime. Se le cose stavano così, si stava dunque sviluppando impunemente a Trieste, e sotto gli occhi di tutti, un meccanismo senza precedenti d’abuso attivo e passivo di strumenti giuridici e di posizioni di potere pubblico su soggetti deboli, col silenzio od avallo praticamente totale delle altre istituzioni, dei politici e degli altri media, e su un obiettivo o bacino d’utenza locale di addirittura 25.000 persone, per lo più anziane: si veda l’articolo del quotidiano monopolista locale “Il Piccolo” riprodotto qui sotto. E questo con origine e supporto paradossali nell’ambiente della riforma psichiatrica libertaria triestina, che in 35 anni di beatificazioni è divenuta una sorta di repubblica autonoma, sottratta a qualsiasi intervento critico e superprotetta dalla sinistra per motivi ideologici ed elettorali. Favorendone così anche la trasformazione in terreno di sviluppo avanzato ed indisturbato della peggiore degenerazione antilibertaria di una corrente fortissima della psichiatria moderna. È la corrente che dopo la giusta liberazione e restituzione alla società dei malati veri o presunti si ritiene libera essa di invadere la società psichiatrizzandola. Col fondare su una nuova classificazione totalitaria, ideologica prima che scientifica, di cosa sia comportamento normale o meno, un proprio diritto ad imporlo alle persone sin dentro le loro case e famiglie. Per mezzo di nuovi strumenti giuridici che condizionino di fatto l’intervento del giudice ordinario (come tale imperito della materia) ad un parere peritale psichiatrico unilaterale e senza contraddittorio. Cosa cui le imperfezioni della legge italiana sulle amministrazioni di sostegno si presta perfettamente. Anche se qui a Trieste sembrava incredibile accadesse. Ma la sofferenza delle persone in difficoltà che ci scrivevano era così evidentemente reale che siamo andati a verificare doverosamente situazioni e prove. Riscontrandole fondate, e perciò pubblicando ormai da due anni lettere, documenti, articoli di analisi giuridica e di denuncia etica, contribuendo ad indagini giudiziarie da fuori Trieste, ed esponendoci così anche a tutte le conseguenze. Mentre le istituzioni, i politici ed il resto della stampa hanno continuato a coprire egualmente, ed a questo punto sempre più scandalosamente, l’intero problema. Il risultato è il dossier che pubblichiamo qui completo, come contributo al Primo convegno nazionale sui NUOVI ABUSI IN PSICHIATRIA - l’invasione della vita privata, che si terrà a Trieste questo venerdì 19 aprile (15.30-19.30, via don Sturzo 4, sala Oratorio Madonna del Mare - Piazzale Rosmini) aperto al pubblico. Ed alla manifestazione di giovedì 18 aprile mattina, dalle 9.30 davanti al Tribunale, per il caso della bambina scandalosamente sottratta in fasce ai genitori, trattato qui nel dossier. Rimangono però delle domande fondamentali sull’aspetto profondo, psicanalitico prima che psichiatrico, dell’intero problema: quali possono essere l’etica, e la visione anche inconscia del mondo, dei diritti e della dignità della persona, e quale la coerenza logica (a prescindere dalla connessioni personali) di coloro che dietro a tante belle parole hanno dato origine, compimento e copertura o giustificazione a questo genere di abusi? Ve ne proponiamo qui, alla luce del dossier, una sintesi significativa perché proposta in replica alle critiche dall’avvocato e docente di diritto civile Paolo Cendon, il padre ed ideologo celebrato della legge sull’amministrazione di sostegno. Della quale egli legittima sorprendentemente l’applicazione interdittiva dichiarando che la giudice protagonista Gloria Carlesso è tra i suoi “più fidi seguaci nel lottare per l’abrogazione dell’interdizione, che della schiavitù è il simbolo peggiore”. E riassumendone così i criteri “Chi sta male non sopporta talvolta che ci si occupi di lui e fa di tutto per screditare gli operatori - il drogato non vuole smettere, l’alcolista vuole bere e basta, il dipendente dal gioco idem, il vecchietto vuol sposare la giovane badante, il fanatico religioso vuol regalare tutti i suoi soldi alla chiesa, il giovane e ricco scemo al guru di turno, i genitori possessivi e fuori di testa vogliono che non ci si occupi del loro figlio oppresso e sfruttato, i parenti sono spesso il male puro, gli avvoltoi e i malintenzionati sono dappertutto, magari mascherati da ipocriti, o semplicemente più pazzi e svitati del loro assistito casalingo -- e potrei continuare a lungo.” Sembrano considerazioni di buon senso comune, ma non lo sono più nel momento in cui si pretende di farne criterio per arrogarsi il diritto di giudicare, espropriare e sopprimere per legge quelle che sono, nel bene e nel male, libertà fondamentali di scelta della persona, e sostituirvi l’imposizione di una normalità di Stato. Si veda il caso noto del giovane commerciante toscano che, in conflitto con la famiglia, ha donato tutti i suoi beni alla chiesa ed ai bisognosi per ritirarsi a meditare in povertà e privazioni estreme nei boschi, quasi morendone di polmonite, con una schiera di ‘fanatici religiosi’ come lui, inclusa una minorenne. Con la legge ed i criteri di Cendon e ‘seguaci’ sono tutti da interdire e psichiatrizzare a vita sotto amministrazione di sostegno. Anche se erano Francesco e Chiara d’Assisi, tra i più grandi mistici dell’umanità, ed i compagni che con essi hanno dato vita a due dei più straordinari ordini monastici della storia. E se, come le loro, vanno difese dai cattivi maestri le libertà materiali, spirituali ed affettive ogni altro essere umano. Paolo G. Parovel

(Il Tuono n. 9 del 26.6.10, p. 6) Tutele, tutori e corresponsabili sotto indagine giudiziaria. Stiamo svolgendo un’inchiesta giornalistica anche sul pesante problema delle interdizioni ed inabilitazioni a Trieste, con i relativi meccanismi di tutela, curatela ed amministrazione di sostegno. Si tratta infatti di verificare il trattamento di persone tra le più deboli. I primi risultati, tutti su basi documentali ci dicono che vi sono situazioni normali, ma anche numerose altre che non sembrano affatto tali. E che alcune di queste sono già oggetto di indagini da parte delle sedi giudiziarie che hanno competenza a verificare comportamenti di organi del Tribunale di Trieste. Si tratta di casi la cui tipologia coincide esattamente con quanto segnalato dalla lettera, che perciò appare veritiera e pubblichiamo doverosamente di seguito, omettendo gli elementi identificativi delle persone coinvolte, che rimangono coperti dal nostro segreto professionale. La gravità dei fatti esposti non richiede commento, e giriamo immediatamente noi stessi la lettera alla predetta sede d’indagine, precisando qui che siamo assolutamente determinati a fare tutto il nostro dovere di giornalisti per dare all’opinione pubblica chiarezza e piena informazione sul problema. Riteniamo che lo stesso Tribunale di Trieste debba comunque attivarsi con pari immediatezza e col massimo rigore per impedire, avendone i poteri, che queste situazioni proseguano o si ripetano. Invitiamo inoltre i responsabili a non sottovalutare la vigilanza stampa su questi casi.

Colpevoli di essere anziani (1.a lettera pubblicata). Scrivo questa lettera per aiutare oltre alla mia famiglia altre persone che potrebbero avere gli stessi problemi per la sola colpa di essere anziani a Trieste città notoriamente con una percentuale alta di persone vecchie. Sono una donna di oltre settant’anni anni sposata con un uomo di quasi ottanta. La primavera passata una giudice del tribunale di Trieste ha deciso che il nostro tenore di vita non era conforme a ciò che secondo lei avrebbe dovuto essere e ci hanno affidato ad un “amministratore di sostegno”. A settembre una persona praticante avvocato si è presentata a casa nostra con grandi promesse e sorrisi (purtroppo di circostanza) e ci ha fatto capire subito che gli ultimi anni della nostra vita sarebbero stati un paradiso. Purtroppo già dai giorni seguenti la musica è iniziata a cambiare, e ciò che si prospettava per noi un bel sogno è diventato un atroce incubo: la nostra posta in entrata è stata bloccata e deviata allo studio del nostro tutore che decide se e quando consegnarcela, le nostre pensioni di circa 2.500 euro totali sono state bloccate e ridotte a scaglioni fino a raggiungere gli attuali 600 euro mensili da dividere in due persone, che sono ben sotto il tenore di povertà, mentre con il resto sono state fatte delle spese nella maggior parte superflue o esagerate. La sua opera distruttrice è continuata andando ad intaccare inoltre i beni di famiglia costruiti con anni di sacrifici miei, di mio marito, dei miei genitori e dei nostri figli, che avrebbero dovuto restare alla nostra famiglia per garantire un eventuale “paracadute” per il futuro in casi di straordinaria necessità; nonostante che, secondo la legge, l’amministratore di sostegno avrebbe dovuto amministrarli con l’oculatezza di un padre di famiglia ed eventualmente decidere assieme e a noi beneficiari, in base alle nostre esigenze, se e come utilizzare il denaro ed i cespiti. A marzo, è stato venduto contro la nostra volontà un appartamento sito a Lignano City (nel centro di Sabbiadoro) al costo di un box auto all’aperto, nonostante non ci fosse urgente bisogno di liquidità nel libretto gestito dal nostro tutore. Sono passati ormai più di sei mesi, la situazione non è migliorata, anzi, siamo soli, infelici, con il frigorifero e la dispensa sempre più vuoti mentre vediamo i nostri beni e risparmi velocemente diminuire. In realtà all’inizio mio marito ha lasciato fare a quella persona, prima ammaliato dalle sue promesse e poi perché diceva che se stavamo buoni non ci avrebbe più fatto così tanto male, e senza motivo, visto che abbiamo lavorato tutta la vita e non abbiamo fatto alcun reato tale da giustificare un trattamento simile. Tengo a precisare che mio marito, pur se affetto da una malattia che provoca piccoli movimenti incontrollati del corpo, è perfettamente capace di pensare e fare ragionamenti di base, logici e tali da non giustificare la necessità di una persona che decida per lui. Da un po’ di tempo lui si è rivolto ad un legale per tentare di difendersi, mentre io ho provato a chiamare più volte i carabinieri che, purtroppo, non hanno potuto aiutarmi poiché io dovrei andare in una loro stazione, ma ho forti difficoltà di movimento per motivi di salute. Però vorrei lanciare un appello ai lettori del giornale se qualcuno può consigliare a me cosa fare a come comportarsi per difendersi (potete scrivere alla mail ippocampo@tiscali.it di mio figlio). Ringrazio anticipatamente chi vorrà o potrà aiutarci a tornare a vivere in pace gli ultimi anni della nostra vita, e la redazione per l’accoglienza che sicuramente darà al mio problema, e mi auguro che non capiti più a nessun’altra persona anziana di ritrovarsi nella loro situazione. (lettera firmata)

- Gentile signora, abbiamo attivato immediatamente quanto detto sopra in premessa, ed invitiamo i tutti lettori sia a sostenervi, sia a segnalarci ogni altro caso analogo.

(Il Tuono n. 10 – 3.7.2010, prima pagina e p. 6) PRIVATE DELLE LIBERTÀ CIVILI ED ECONOMICHE ANCHE PERSONE NON INCAPACI. Amministratori di sostegno: denunciati abusi. Presentate denunce a carico di responsabili istituzionali ed amministratori. Sul numero recedente del giornale abbiamo pubblicato a pag. 6, con premessa e richieste d’intervento adeguate, una lettera firmata drammatica su quello che sembra essere un caso di abuso locale gravissimo e non isolato dell’istituto giuridico dell’amministratore di sostegno. Poiché non vi è stata ancora risposta istituzionale (come per le speculazioni illecite del sindaco Dipiazza denunciate documentatamente sullo stesso numero) insistiamo nella nostra doverosa azione informativa e di denuncia, rinforzandone per chiarezza le premesse ad evitare ogni possibile equivoco su materia così delicata. Personalmente, ma anche da giornalista investigativo con trent’anni d’esperienza ed ora da direttore responsabile di questo giornale (come già di una combattiva emittente radiofonica controcorrente), ho sempre ritenuto che la sanità e la giustizia, come tutte le altre necessità fondamentali delle persone e della società, debbano essere praticate e valutate anzitutto sulla loro dimensione umana concreta, e non ridotte a battaglie politiche e di interessi nello stile del tifo calcistico. Così ho sempre apprezzato il fatto che la riforma psichiatrica riferita a Basaglia abbia liberato da trattamenti e contenzioni ingiusti, violenti e disumani tutte le persone con problemi psichici - nella vita reale, mano sulla coscienza: chi non ne ha? - che possono e devono essere e rimanere inserite al meglio in ogni società che si pretenda civile. Com’era anche ab immemorabili nella tradizione premoderna. Mi ha però sempre scandalizzato la penuria dei mezzi e controlli pubblici per garantire ai sofferenti ed alle loro famiglie le assistenze ed i sostegni di cui hanno non solo bisogno, ma necessità assoluta, perché la giusta liberazione non si converta in nuove forme di schiavitù all’esterno delle vecchie strutture ed in nuove violenze, disgrazie e rovine, estese inoltre ai famigliari. Il tutto sull’osservazione sia di recuperi straordinari, sia di spaventose cadute. Che in ambedue i casi proprio la scarsità di mezzi e controlli condiziona anzitutto alle capacità ed alla dedizione del personale di assistenza medica, infermieristica e sociale, in molti casi brillante ed anche eroico, ma in altri insufficiente, o peggio. Rimanendo inoltre drammatico il problema altrettanto concreto dei pazienti psichiatrici che le conoscenze mediche attuali o lesioni definitive non consentono obiettivamente di recuperare e reinserire, ed il cui rilascio irresponsabile ha causato tragedie evitabili. Per questi motivi ho anche sempre trovato osceno che si sovrappongano a questi delicatissimi problemi umani i fanatismi politici ottusi di un’asserita destra che giunge a voler negare e sopprimere la riforma liberatoria, e di un’asserita sinistra che giunge invece a negare l’esistenza della malattia psichiatrica al di fuori dei disadattamenti e dalle repressioni sociali. E non ho mai capito perché ci si dovrebbe schierare, in questo come in altri casi, per l’una o l’altra di due sciocchezze opposte, evidenti e clamorose.

Quanto al problema connesso delle tutele e curatele delle persone psicologicamente deboli per condizioni morbose od età minorile, si tratta di cosa altrettanto straordinariamente delicata, perché consiste nel privare giuridicamente la persona, in via temporanea o permanente, di diritti civili fondamentali che vengono delegati ad un terzo, famigliare o meno. Ed una situazione di questo genere, se arbitraria od abusata, si trasforma facilmente in forme criminose di riduzione in schiavitù e di appropriazione indebita di beni degli assistiti, che qui sono in aumento continuo, in particolare sugli anziani. Me ne sono quindi interessato da anni (come ricorderà anche il Presidente del Tribunale, Arrigo De Pauli) sia in relazione a casi concreti di abuso da parte di qualche tutore, sia al fatto che il Tribunale di Trieste non aveva e non ha notoriamente da molti anni (direi dopo la scomparsa del giudice Rosario) personale e mezzi sufficienti per gestire debitamente questo settore. Cioè per garantirne una gestione adeguata nelle valutazioni, ed adempimenti critici indispensabili come la revisione autonoma dei casi ed il controllo dell’operato dei tutori, delle loro contabilità e delle loro operazioni immobiliari, aste incluse (così come sono insufficienti i controlli sulle gestioni degli anziani e dei loro testamenti nelle case di riposo). Con conseguenze ovvie, e tanto più critiche quanto più aumentano drammaticamente in città i problemi sanitari degli anziani, quelli di disadattamento dei giovani, le crisi del lavoro e quelle delle famiglie. Perciò ho sempre concordato anche con amici psichiatri e magistrati nel ritenere positiva l’istituzione dell’amministratore di sostegno per sostituire ed attenuare il peso del tutore o curatore, ripristinando la dignità umana degli assistiti ed in concordia con le loro famiglie. Formando e selezionando inoltre una categoria specializzata di giudici e di persone adeguate a svolgere correttamente la nuova funzione di sostegno, il tutto finalmente anche con adeguati controlli. Non ho dubbi che ciò accada per una quantità di casi, e sono anche tra i difensori convinti della dignità della magistratura. Ma stanno purtroppo emergendo anche casi diversi, a delineare quantomeno un gruppo di situazioni allarmanti, degradanti ed illecite. Come abbiamo infatti accennato qui sul numero precedente del giornale, i casi documentati e già segnalati alla magistratura penale risultano essere più di uno. Seguono inoltre tutti un identico schema nel quale muta l’identità delle vittime, ma i responsabili istituzionali denunciati sono gli stessi. Questo schema sinora documentato nelle denunce è molto semplice: persone che dalle loro condizioni obiettive e da accertamenti psichiatrici indipendenti risultano perfettamente capaci di amministrarsi sono state invece dichiarate incapaci con perizia psichiatrica istituzionale e sottoposti costrittivamente da una giudice ad un amministratore di sostegno. Scelto tra giovani avvocati o praticanti, o comunque tra estranei, invece che tra i famigliari, e senza il consenso o contro la volontà di questi. La persona così ridotta ad amministrazione forzata risulta inoltre sottoposta ad un regime di espropriazione dei diritti civili sostanzialmente analogo alla vecchia tutela. Per cui non può più disporre dei suoi beni e nemmeno della corrispondenza, né denunciare l’amministratore, è ridotta a vivere con circa 300 euro al mese, non viene informata della gestione finanziaria dell’amministratore, nemmeno per le compravendite di immobili, e non può comunque opporvisi. Tutti i casi sinora denunciati riguardano persone proprietarie di immobili e depositi bancari, ed in qualche caso si tratta di soggetti che avevano protestato perché assistevano un famigliare in condizioni di incapacità effettiva ma la giudice ne aveva nominato amministratore di sostegno un estraneo. Ripetendo poi l’operazione su chi protestava. Dagli atti risultano anche tentativi istituzionali di delegittimare coloro che denunciavano queste situazioni, come fossero degli squilibrati o per loro vere o presunte opinioni politiche di destra o religiose. Ed a questo punto occorre anche capire chi controlla, e come, le contabilità degli amministratori di sostegno. Preciso che le nostre informazioni e fonti documentali, che includono anche relazioni di Polizia Giudiziaria, sono tutte di fonte ed uso perfettamente legittimi. I fatti risultano inoltre confermati da un provvedimento con cui la stessa giudice tutelare ha dovuto liberare dopo tre anni dall’amministratore di sostegno un combattivo anziano imprenditore. Che vi era stato sottoposto, con i suoi beni rilevanti, dopo avere protestato perché avevano affidato ad estranei l’amministrazione di famigliari stretti che assisteva invece da sempre lui, a sua cura e spese. E ce l’ha fatta solo perché si è rivolto ad un legale di fuori Trieste, che ha agito con decisione mettendo alle strette amministratore di sostegno e giudice, e costringendoli a liberarlo. Con un atto rivelatore, poiché consiste nella dichiarazione che in realtà l’anziano era sempre stato capace di amministrarsi da sé, redatta dall’amministratore perciò inutile (che chiede egualmente 600 euro per il disturbo) e controfirmata dalla giudice tutelare responsabile del tutto, ora rimossa perché promossa alla corte d’appello penale. Ma, scusate il mio dubbio di cittadino e giornalista, non vi sono ipotesi di rilevanza penale da verificare anche in un fatto simile? E proprio sulla base di questo documento di liberazione doverosa, che costituisce anche prova di come i firmatari abbiano privato indebitamente per tre anni una persona dei suoi diritti civili sulla base di una perizia medica rivelatasi perciò infedele, ed omettendo di chiedere od attuare spontaneamente la revoca del provvedimento appena si sono accorti (quantomeno l’amministratore di sostegno) che la persona era capace. E lo scrivo personalmente e pubblicamente qui non ad offesa, ma proprio per il rispetto e la tutela dovuti alle istituzioni giudiziarie e psichiatriche, oltre che ai cittadini. Rinnoviamo quindi la richiesta di provvedimenti di giustizia immediati ed efficaci, e vi sottoponiamo queste nuove lettere di testimonianza riservandoci di pubblicare, se necessario e previe autorizzazioni, le inchieste giornalistiche dettagliate e documentate sui casi principali. Chi ha altre informazioni è pregato di scrivercele o farcele avere in redazione, anche se riguardassero persone ormai decedute. Paolo G. Parovel

Overdose di ipocrisia? (2.a lettera pubblicata) La collaudata macchina della propaganda in azione a Trieste. Gli ingranaggi arrugginiti del sistema psichiatrico cigolano da tempo, sono sempre gli stessi fin dai leggendari tempi delle dimissioni forzate dei pazienti. Ma la retorica, la mimica, gli slogan sono professionali, sembra di essere in uno di quei caffè-ritrovo di Liegi o di Parigi frequentati da vecchi attori di teatro in pensione che si divertono esibendosi fra di loro con pezzi di repertorio recitati per decenni. L’overdose di ipocrisia si somministra quindi, come sempre, in famiglia; ma lo scopo è raggiunto perché il vero lavoro lo fanno i media, a cominciare dall’intrepido quotidiano unico di Trieste, più i vari siti e forum che divulgano le veline logore della “capitale mondiale della psichiatria”, e i giornali e la televisione appiattiti da decenni sui dogmi politici prevalenti in materia. Così ogni rimpatriata di questi loro consumati ex profeti, che avvenga a Trieste o altrove, diventa comunque un evento. Un convegno di 3 giorni nel 2007 li ha visti impegnati in un vero e proprio “Concilio” a Serra d’Aiello: molti illustri personaggi della psichiatria, della politica, dei sindacati, perfino un giudice della corte costituzionale. Il Giovanni XXIII di Serra d’Aiello era una struttura di eccellenza, frequentata dai maggiori luminari, che ovviamente non hanno notato niente di strano. Scene di questi giorni anche dal forum di Trieste, con le apparizioni degli storici personaggi che non hanno bisogno di presentazione. Infatti sono sempre gli stessi da almeno quarant’anni. Tra gli altri interventi, Giovanna Del Giudice sviluppa un tema impegnativo: “Conoscenze e strategie per rendere spendibile il diritto riconosciuto”. I diritti dei malati vengono ancora calpestati “altrove”, com’è noto. Luigi Balzano condivide il tema col suo apporto di conoscenza delle fonti giuridiche. Parecchi interventi dal pubblico, anche se le facce non sono nuove. E quali sono stati gli argomenti discussi? Soprattutto gli abusi che si compiono, naturalmente altrove. Insistente il tema della contenzione, con la citazione di casi gravissimi fra cui il povero Mastrogiovanni, filmato nel lettino dov’è rimasto legato fino alla morte. Episodi commentati con commossa compassione, esprimendo tutto lo sdegno per queste pratiche abominevoli. Tant’è vero che dopo hanno relazionato su “Le buone pratiche”. L’alto livello scientifico del forum viene confermato poi dal contributo di due personaggi che molto si sono occupati di me. Utenti (o ex utenti) dei servizi di salute mentale, due anni fa si sono accaniti contro di me su youtube, su Aipsimed, sul Mondo di Holden e altri ambienti mediatici con una ferocia che io non ho mai trovato da nessuna parte in tutta la vita, pubblicando addirittura informazioni che, per quanto malignamente deformate, contenevano dati riservati che erano a conoscenza professionale solo di uno psichiatra a me noto. Uno dei due personaggi già fra i convenuti a Serra D’Aiello, ed il contributo dell’altro è stato letto da Fabrizio Gifuni, interprete cinematografico di Basaglia. Ho voluto tratteggiare qualche scena del forum per ritornare su un punto che ripetutamente è emerso diventandone un tema centrale: la contenzione. Io ho imparato che ci sono vari tipi di contenzione che possono venire inflitti: 1) la vittima viene legata con cinghie di cuoio o con altri mezzi a un letto; 2) la vittima viene schiantata con dosi massicce di psicofarmaci (camicia di forza chimica); 3) la vittima viene sequestrata a forza e internata in luoghi dai quali non può allontanarsi; 4) la vittima viene privata dei tutti i suoi diritti sottoponendola ad amministratore di sostegno; 5) la vittima viene sequestrata dalla forza pubblica e fatta scomparire per sempre; 6) la vittima viene denunciata alla forza pubblica e sequestrata per destinazione ignota. E questi vari tipi di contenzione li ho “scoperti” da quando ho a che fare con la psichiatria pubblica, asseritamente basagliana, di Trieste, per quanto segue, punto per punto:

1) Mio figlio Giulio ricoverato perché colpito da psicosi, ha avuto così il suo primo contatto con la psichiatria di stato: senza alcun motivo è stato vigliaccamente assalito e pestato da due operatori, evidentemente pratici di queste cose, siringato e ridotto all’incoscienza, legato ai due polsi a un letto e trattenuto così costretto per quasi una settimana, come il povero Mastrogiovanni. Il primo giorno hanno spiegato a me e a mia moglie: “Non possiamo chiudere le porte”. Al secondo giorno abbiamo chiesto se avevano riparato le serrature. Ci hanno spiegato meglio: “Abbiamo ordine di non chiudere le porte”. E’ un protocollo “basagliano” che serve a far godere agli utenti la libertà terapeutica. Credo si tratti dei diritti di cui parlava Giovanna Del Giudice.

2) Un anno dopo. Giulio aveva accettato alcuni giorni di ricovero per controllo. Entrato in forma fisica smagliante, dopo mezz’ora era ridotto a uno straccio, non stava in piedi, si soffocava anche a bere un po’ d’acqua. Così fino al terzo giorno. Stroncato dai sedativi all’Spdc di Trieste per ordine dei due psichiatri di servizio. I protocolli “basagliani” vietano di chiudere le porte, mi è stato spiegato un’altra volta dal personale. Voci che si raccolgono parlano anche di vittime, specialmente giovani, decedute per collasso. [precisazione della Voce di Trieste, aprile 2013: Giulio Comuzzi, 24 anni, pianista, è morto a seguito di questi trattamenti senza che ne siano ancora stati adeguatamente perseguiti o condannati i responsabili].

3) Sequestri delle persone decisi da psichiatri e condotti da loro stessi con l’aiuto degli operatori, ottenendo l’appoggio di polizia, vigili urbani, carabinieri. La destinazione di solito è un centro di salute mentale, ma può essere anche una “residenza privata”, gestita da terzi, in cui nessuno può entrare né vedere i reclusi. Come ha provato di persona anche la giornalista Cristiana Lodi a Trieste: la ragazza che cercava di incontrare era reclusa da 22 mesi. Un amico anziano, qui a Trieste, è stato sequestrato con l’aiuto dei carabinieri e internato in un Csm fuori città. Trattenuto per quaranta giorni, obbligato ad assumere psicofarmaci, è stato liberato praticamente in fin di vita. Prima di entrare era un uomo vigoroso. Perseguitato da alcuni anni, si difendeva anche con perizie psichiatriche; il direttore della Clinica psichiatrica, prof De Vanna, gli aveva rilasciato due perizie, in tempi diversi, nelle quali ne dichiarava l’integrità mentale, e una l’aveva indirizzata allo stesso psichiatra di quel Csm. Non è servito, a Trieste non è sufficiente. Così lo hanno trasformato in un “utente”.

4) L’amministrazione di sostegno a Trieste è praticata su larga scala. La giudice tutelare Carlesso in un intervista pubblicata sul Piccolo l’anno scorso valutava addirittura in 25.000 le persone da sottoporre ad amministratori di sostegno (a.d.s). Procedeva infatti al ritmo di parecchie decine di persone al mese. Trieste ha 200.000 abitanti.

L’anziano di cui al punto precedente, malgrado le perizie citate, era stato sottoposto ad amministratore di sostegno entro rapporti collaudati fra uno psichiatra del Csm Domio e la giudice tutelare stessa. Che è stata sostituita solo da poco. Cosa comporta subire l’Ads? Doveva essere una forma di tutela più blanda ed umana dell’interdizione. Invece qui alla persona colpita viene tolto il diritto di usare i propri soldi, pensioni, depositi bancari, beni immobili. Non può più fare transazioni di alcun genere. L’Ads decide una quota mensile di cui l’amministrato può disporre per sopravvivere, in genere sui 300 euro. Gli viene intercettata la corrispondenza. Di solito viene privato anche della facoltà di decidere in materia di salute. Una donna di nostra conoscenza si è trovata con un giovane avvocato, che non l’aveva mai vista nemmeno in fotografia, a decidere per lei in materia di salute; lo aveva deciso la giudice tutelare escludendo anche la madre, che non aveva nemmeno avvisato. Eppure la giurisprudenza prevede il consenso dei famigliari. Un’altra signora così “amministrata” voleva denunciare gravi abusi ai suoi danni ai carabinieri, ma questi le hanno detto che non poteva fare le denunce lei, avendo l’Ads Come se fosse interdetta. Questa signora, costretta a vivere con pochi euro pur avendo un deposito in banca, deve ricorrere alla Caritas per fame, e all’aiuto di qualche persona pietosa. La sua contenzione consiste nel rimanere bloccata in casa per mancanza di mezzi, perché le hanno tolto l diritto di disporne liberamente. Ha rinunciato per dignità persino a un ricovero ospedaliero non potendo comprarsi almeno una vestaglia e un minimo da toilette. Era abituata a frequentare il teatro, ma non può permettersi più niente. I numerosi casi documentati che conosciamo, alcuni già segnalati alla magistratura penale competente, si devono a segnalazioni di alcuni particolari psichiatri a quella giudice tutelare. E tutto questo giova all’equilibrio psichico delle persone? O può anche ridurle in condizioni che giustifichino a posteriori una decisione di interdirle assunta quando invece non ve ne erano i presupposti? 5) Sequestro e occultamento della vittima. Il caso di una bambina strappata alla mamma quando aveva otto mesi. L’hanno condannata ad un ergastolo. Sono passati quattro anni. I genitori seviziati con i quiz degli psicologi, avvocati, udienze in tribunale. All’origine di questa spaventosa tragedia ci sono un’assistente familiare e uno psichiatra di quel Csm, il quale non ha mai fatto una diagnosi. Margherita Hack ha fatto un appello in video, presente sul sito Aipsimed (associazione italiana psichiatri): http:// www. aipsimed.org/articolo/appello-di-margherita- hack-bimba-tolta-ai-genitori. [Precisazione della Voce di Trieste, aprile 2013: dopo altri due anni anni la bambina non è stata ancora restituita ai genitori, nonostante lei stessa mostri gravi e provate sofferenze psicofisiche dall’esserne privata, e benché ne sia stata revocata l’adottabilità; la sottrazione configura a carico di tutti i corresponsabili istituzionali anche ipotesi penali evidenti, e di straordinaria gravità, che ogni ritardo aggrava ulteriormente.] 6) La vittima viene denunciata alla polizia, sequestrata e avviata a destinazione ignota. É il caso di Riccardo. Due psichiatri di quello stesso Csm non solo insistevano verbalmente per questo con i genitori di Riccardo, ma l’hanno perfino scritto sulla sua “cartella clinica”, almeno tre volte: denunciarlo alla polizia, così sarà finita una volta per sempre. E spiegavano che così l’avrebbero portato via. Nei fatti così è stato. Riccardo non tornerà mai più. Le raccomandazioni degli psichiatri si possono vedere in un video pubblicato dalla famiglia: [Precisazione della Voce di Trieste, aprile 2013: per l’uccisione di Riccardo Rasman in un intervento di polizia sono stati condannati tre agenti: in tutto quattro vite e quattro loro famiglie rovinate] Io mi assumo la totale responsabilità di quanto scrivo e pubblico, anche qui. Non credete che si debbano svolgere indagini e accertamenti molto seri e approfonditi sulle realtà di questi casi umani concreti e terribili di persone sofferenti, invece che fare ideologia pro o contro le affermazioni di principio? Sono questi i modi e le garanzie, ripeto: concreti, con cui alcuni amministrano qui la psichiatria e la giustizia dietro le celebrazioni ufficiali di Basaglia e dell’amministrazione di sostegno? Mario Comuzzi

Amministratore di sostegno solidale (3.a lettera pubblicata) In qualità di amministratore di sostegno, desidero esprimere tutta la mia solidarietà alla famiglia che si è trovata nella pesante situazione narrata nella lettera pubblicata sul numero 9 di questo settimanale. Evidentemente certo noto malcostume ha cambiato nome, ma non la sostanza (e parlo per esperienza diretta e personale). Ciò mette in cattiva luce non solo un istituto qual è l’amministrazione di sostegno che meriterebbe di certo miglior sorte, il cui scopo è quello di assicurare ai cittadini in difficoltà il massimo della protezione possibile, senza giungere a quella sorta di “inumazione di persona viva” propria dell’interdizione, ma pure i tanti “colleghi” che svolgono questa attività con umanità, senza pensare di ottenere profitto alcuno. Senza contare che vanifica gli sforzi degli ideatori di questa leggere tra i quali il prof. Cendon dalla stesura alla sua divulgazione. Credo che un primo e importante passo lo avete già fatto, rivolgendovi a questo settimanale grazie al quale sono certo troverete tanti amici. Marco Marcon

Volontario dalla Toscana (4.a lettera pubblicata) Egregio direttore, sono un cittadino toscano della provincia di Lucca impegnato in volontariato sanitario e nel sociale. Nel giro di un anno sono stato due volte a Trieste per i miei interessi, aggiornandovi per circa un mese in tutto. Sono a conoscenza da uno studio accurato sul sito Internet del Tribunale di Trieste e da incontro personale e brevi corrispondenze con Magistrati locali e cittadini: a) che la pratica dell’amministrazione di sostegno figura studiata dalla seconda metà degli anni ’80 dal Prof. Paolo Cendon (insegnante in Trieste) nei soli primi sei mesi del 2009 faceva risultare 219 richieste - una media di 36-37 richieste pervenute al Tribunale al mese -, mentre ne Il Piccolo del 28 giugno 2009 la Giudice tutelare dott.ssa Gloria Carlesso riferiva di un’ottantina di richieste pervenute sino ad allora per il 2009; b) che l’art. 406 comma 3 del Codice Civile attuale responsabilizza della segnalazione per avvio di pratica a sedi giurisdizionali i responsabili di servizi sanitari e sociali (con passaggio diretto senza alcuna nota sul sentire parenti o altre autorità civili come nel Trattamento sanitario obbligatorio abbiamo ad es. il sindaco); c) che nel marzo 2008 la Giudice tutelare rilasciava intervista presente in Internet in cui si citano altre persone che possono segnalare una persona per essere amministrata al Pubblico Ministero (conoscenti, vicini, funzionari di banca) ; d) il sovraccarico di amministrazioni di sostegno e la pratica più concreta creano degli abusi impensabili da parte di magistrati civili e amministratori stessi (cumulo di amministrati sotto un solo amministratore, impossibilitò a tenere contatti con il proprio amministrato in modo tale da non rendersi conto quando costui può versare in condizioni finanziare o di salute da richiedere una presenza più tempestiva, forme di falso ideologico, violazione di domicilio, protrarsi di rinvii e altri atti che rendono la vita dell’interessato presa in una sorta di ”persecuzione giurisdizionale” , e altri fatti deleteri. Il dramma pare che sia anche una sorta di paura inferta a chi si permette di parlare, ed è dal mese di marzo all’attenzione di sedi dell’Esecutivo una vera e propria ipotesi eversiva di poteri pubblici a danno di cittadini meno garantiti. Questo da mesi, anni, mette in condizioni cittadini, professionisti e/o lo stesso giornalismo di temere querele o azioni di ”criminalità ” (per quanto ciò possa sembrare paradossale). Resto a Sua disposizione per qualsiasi precisazione. Mirko Gabriele Salotti Volontario salute mentale CESVOT (centro servizi volontariato toscano) Iscritto all’Albo nazionale dei soccorritore del 118 Membro associazione “ Voceallavittima! “ onlus- Roma

Associazioni dal Lazio (5.a lettera pubblicata) Egregio direttore, le comunico di essere segretario della Fisam (Unione Nazionale di Associazioni per la Salute Mentale) e presidente di altra associazione, ragion per cui sono a conoscenza di fatti di cui l’associazione si è occupata, ma anche di accadimenti riguardanti più direttamente la mia persona. I casi in riferimento si sviluppano nella Regione Lazio. Io non avrei difficoltà a mettere a sua disposizione quanto di significativo ed emblematico mi sta accadendo, sentito ovviamente il parere del legale. Per dare seguito a quanto detto, avrei bisogno di sentirla, per comprendere a pieno i suoi intendimenti e per un necessario confronto. Ringraziandola per tutto quanto sta facendo emergere, resto a disposizione e la saluto cordialmente. Augusto Pilato

Operatrice da Viareggio (6.a lettera pubblicata) Come membro dell’associazione “progetto RISM” (Responsabilità Interventi Salute Mentale) scrivo a conoscenza del vostro servizio “Tutele, tutori e corresponsabili sotto indagine giudiziaria”. Solidarizzo con il vostro coraggio anche a nome di miei amici e colleghi. Purtroppo vi diranno che l’amministrazione di sostegno è nata per non dichiarare più le persone inabili o interdette, e Trieste è la capitale mondiale dei diritti civili contro ogni pregiudizio, oltreché la capitale mondiale della salute mentale. In realtà l’amministrazione di sostegno se non chiama più inabili o interdette le persone e le “libera” da tutori e curatori, le lega ben più strettamente al mal-vivere di giovani avvocati o praticanti che invadono la loro esistenza sia sul piano finanziario che sul piano di un sano vivere civile - provocando stalking, incurie e furti a tutta una serie di persone condannate per mesi o anni ad un regime di silenzio dei non garantiti -. Per cui auguro che possiate superare gli inganni della concessione di falsi diritti con questa figura di amministratori di sostegno. Patrizia Lorenzetti operatrice socio-sanitaria Viareggio

- Come si può già constatare da questi interventi che provengono da altre regioni, il problema aperto a Trieste ha anche, purtroppo, riscontri nazionali, evidentemente connessi al problema fondamentale dei controlli sulla gestione di questo istituto giuridico: quis custodiet custodes?

(Il Tuono n. 11 – 10.7.2010, prima pagina e p. 2) UNA MINACCIA CONCRETA PER TUTTE LE PERSONE IN DIFFICOLTÀ CHE HANNO BENI. Quali abusi consente la legge sugli amministratori di sostegno Abbiamo aperto una questione anche nazionale, tanto grave quanto nascosta. Con le nostre notizie in prima pagina del numero precedente sulle denunce di abusi dell’istituto giuridico dell’amministratore di sostegno abbiamo aperto un caso anche nazionale, tanto grave quanto nascosto. Riceviamo anche richieste di spiegare esattamente, ma in termini semplici, come e perché la legge consente degli abusi, e quali. Provvediamo subito, dato che c’è appena stato anche un convegno pubblico celebrativo con relatore principale la dott. Gloria Carlesso, ex giudice tutelare responsabile di non pochi dei provvedimenti oggetto di critica, proteste e denunce da Trieste. Interdizione ed inabilitazione Sino all’introduzione dell’amministratore di sostegno con legge n. 6 del 2004, gli istituti giuridici a protezione permanente o temporanea dei soggetti variamente incapaci di provvedere a se stessi erano soltanto quelli obbligatori dell’interdizione e dell’inabilitazione. L’interdizione, applicata nei casi più gravi, priva la persona della capacità giuridica di agire, delegandola interamente, salvo eccezioni infrequenti, al tutore. L’inabilitazione si applica invece nei casi meno gravi, assegnando alla persona un curatore in funzione di assistente cui vengono delegate alcune categorie di atti particolarmente impegnativi, mentre l’inabilitato conserva la capacità di compiere gli altri e di stare personalmente in giudizio con l’assistenza del curatore. In ambedue i casi si tratta della privazione giudiziaria di diritti civili fondamentali, che se ingiustificata comporta perciò reati di riduzione in schiavitù. La legge stabilisce comunque espressamente obblighi di revisione, inventario dei beni e rendiconto. Nonostante i quali vi è una vasta casistica di possibili abusi, specie quando e dove i tribunali non hanno personale sufficiente od adeguato a svolgere i ruoli di controllo. L’amministrazione di sostegno L’amministrazione di sostegno (Ads) è invece un istituto alternativo nuovo, pensato appunto come sostegno e non sostituzione della persona, per gestirne le incapacità lievi con uno strumento facoltativo più flessibile e meno invasivo delle libertà e della dignità, proteggendo appunto la persona prima che i suoi interessi patrimoniali. Ma proprio per questo il relativo meccanismo di legge ha dei buchi incredibili, che lo pongono in contrasto sia con principi fondamentali che con norme specifiche dell’ordinamento, e lasciano spazio ad abusi incontrollati. Nell’Ads infatti i compiti di assistenza e rappresentanza non sono adeguatamente definiti, ed i criteri per l’individuazione dei soggetti che vi vanno sottoposti coincidono in parte con quelli per l’interdizione. E questo consente al giudice di applicare l’Ads anche in forme altrettanto restrittive della libertà quanto l’interdizione. Ne mancano invece le garanzie di gestione finanziaria, poiché l’Ads non ha obbligo di inventario, ed il suo dovere di relazione periodica al giudice riguarda genericamente l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario, mentre per le contabilità annuali rimane, come per le interdizioni, il problema del controllo impossibile da parte di Tribunali sotto organico. Inoltre il consenso e dell’amministrato agli atti dell’amministratore di sostegno è previsto ma non risulta garantito da formalità adeguate, ed in caso di dissenso il giudice tutelare può decidere lui, come per ogni altra cosa relativa all’amministrato, insindacabilmente, senza controlli collegiali e senza nemmeno avvertire l’interessato né chiedergli un parere (a lesione radicale inammissibile della dignità e libertà della persona, del diritto alla difesa e di quello alla proprietà). Ed il tutto, oltre ad assumere particolare delicatezza per le gestioni di conti e depositi bancari e di immobili (compravendite, permute, locazioni, ipoteche, divisioni, ecc.) assorbe comunque quantità anche notevoli di denaro dell’amministrato in spese, parcelle e quant’altro. Rischi ed abusi I rischi sono gravi quanto evidenti, e coincidono esattamente con i contenuti delle denunce documentate che abbiamo potuto sinora esaminare: soggetti benestanti non incapaci risultano forzosamente sottoposti, anche con approcci ingannevoli e l’ausilio di terzi, ad Ads in persona di avvocati o praticanti, invece che di famigliari disponibili o addirittura richiedenti (come previsto dalla legge), e con restrizioni dei diritti analoghe a quelle dell’interdetto; gestioni arbitrarie incontrollate di spese e conti bancari da parte dell’Ads; operazioni immobiliari a svantaggio dell’assistito e profitto di terzi. In sostanza, il meccanismo dell’Ads si presta ad essere abusato per sottrarre ad una persona anche capace la sua libertà e la disponibilità dei suoi soldi ed immobili, che vengono affidati a terzi prima sconosciuti che ne possono anche disporre senza i controlli necessari e doverosi. Mentre l’assegnazione crescente di Ads può anche dar luogo nei Tribunali e fuori a reti trasversali di clientela, solidarietà e complicità pericolose e mal decifrabili. Sul tutto stiamo ricevendo nuove informazioni e testimonianze, anche da diverse regioni. Quanto al fatto che gli altri media tacciano su un problema locale e nazionale di questo genere, non merita nemmeno commento. P.G.P.

(Il Tuono n. 12 del 17.7.10, p. 6) Caso Amministrazioni di sostegno. Pubblichiamo due delle numerose lettere che ci stanno arrivando da varie parti d’Italia sul problema di abusi nel campo delle amministrazioni di sostegno, in particolare con riferimento a Trieste, di cui ci siamo occupati in dettaglio nei numeri precedenti. La prima lettera non ha bisogno di commento. Ne ringraziamo il mittente.

Psicologo clinico da Arezzo (7.a lettera pubblicata) Egregio direttore, ho acquisito i recenti molteplici articoli sulle criticità giuridiche e sanitarie in Trieste. Nella seconda metà dell’ottobre 2009 io stesso come cittadino messo a conoscenza dei fatti intervenivo con esternazioni presso il Tribunale civile di Trieste per una vicenda che concerneva pure la grottesca imposizione di una amministrazione di sostegno. Non mi fu data risposta se non quando inviavo ex novo la mia missiva il 17 febbraio u.s., inviandola anche a sedi dell’Amministrazione della Regione Friuli Venezia Giulia. La risposta dell’autorevole Giudice, di cui eviterei fare il nominativo ma che troverà facilmente negli allegati che alla Sua sede unicamente vorrei sottoporre a convalidare quanto affermo, mi pervenne dunque il 18 febbraio u.s. corretta e gentile; ma mi provocò considerazioni a quel Giudice in data 18 marzo u.s. quali: - non riesco a concepire tanti accertamenti medici, verbalizzazioni, imposizioni di limitazioni civili protrarsi per anni e tuttora in corso per (omissis) maggiorenni di buona cultura che ad un certo punto possano materialmente non gradire tanta invadenza nella loro famiglia quali persone non pericolose socialmente, non conosciute per atti di automutilazione, non soggette ad interdizione, non ritenute di pubblico scandalo (come dicevasi a suo tempo); - la giurisdizione in Trieste non ha la percezione, sotto un aspetto materiale, di mancare di ascolto dei cittadini e di mostrare un certo accanimento giudiziario? - dichiaro senza indugi che esiste una Costituzione materiale che impedisce in Italia atti formalmente regolari ed efficaci ma volti a distruggere e rendere schiavi cittadini tra i più semplici. Non mi pervenne altra risposta! Col senno di poi osservo che le missive si sono estese per cinque mesi unicamente per ribadire due posizioni diverse in dialogo, senza velleità di un più genuino ascolto e di cambiamento: e la vicenda così lasciata in essere al 18 marzo u.s. prosegue tuttora! Ringrazio per l’opera di svelamento del Suo periodico. Dr. Gianfranco Borgonuovo

Psicologo clinico a riposo, Arezzo L’AsSostegno smentisce, noi replichiamo (8.a lettera pubblicata) A nome dell’associazione “AsSostegno” – sorta recentemente a Trieste, per impulso di Paolo Cendon, con l’apporto di vari operatori, avvocati, commercialisti, familiari, volontari, allo scopo di migliorare la conoscenza e l’applicazione in città della nobilissima legge 6/2004 - mi corre l’obbligo di far rilevare, in relazione ai materiali apparsi di recente sul vostro giornale, alcune imprecisioni che essi contengono, sotto il profilo sostanziale e processuale. In particolare: - non è esatto che istituire l’AdS significa “privare giuridicamente, in via temporanea o permanente, la persona dei diritti civili fondamentali”: la verità è che spesso il Giudice Tutelare non toglie al beneficiario proprio nulla, semplicemente gli affianca un fiduciario, che compirà certe operazioni in luogo dell’interessato, il quale potrebbe pensarci ancora lui se vuole e se può (art. 409 c.c.), posto che la sua sovranità, nella maggioranza dei casi, non viene toccata; - non esiste nessun automatismo fra incapacità (parola comunque fuori luogo qui) e protezione giuridica: anche un disabile fisico, pur lucidissimo, può trovarsi in difficoltà nella gestione della propria quotidianità e abbisognare di qualcuno che faccia le cose al suo posto (art. 404 c.c.); - non è affatto strano che un provvedimento istitutivo di AdS venga ad essere successivamente modificato, e al limite revocato dal Giudice Tutelare; anzi dovrà essere così tutte le volte che vengano meno, e talvolta succede, le ragioni che avevano reso opportuna l’apertura del procedimento (art. 413 c.c.); - il beneficiario, anche con qualche ombra, conserva tendenzialmente le redini in materia sanitaria; nessun altro può decidere al suo posto: soluzioni diverse, non da escludersi quando ineluttabili per la vita o la salute della persona, postulano comunque la costante ricerca del consenso di quest’ultima (dialogo, scambio, ascolto, rassicurazioni, empatia); il consenso in materia sanitaria da parte dell’amministratore di sostegno interviene di regola quando è impossibile per il paziente prestarlo personalmente proprio a causa dell’infermità che lo affligge (si pensi alle persone in coma o affette da infermità che impediscano di percepire validamente un’ informazione sanitaria); - non è vero che nell’AdS “i compiti di assistenza e rappresentanza non sono adeguatamente definiti” perché con il decreto di nomina il giudice tutelare indica analiticamente l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario (art 405 c.4 n. 3 e 4 c.c.) e questo affinché ogni beneficiario abbia una protezione adeguata solo a lui, come “un vestito” che si confeziona su misura; - quando vengono previste limitazioni all’esercizio di determinate facoltà (es fare testamento, vendere la casa, operare sul proprio conto corrente, ecc) è perché la persona soffre di una infermità che potrebbe farla agire in danno di se stessa o esporla, per la sua fragilità, a essere manipolata da altri; - l’esperienza avverte che un soggetto al quale viene per il suo stesso bene (un tossico, un alcolista, un prodigo, etc.) diminuito l’ “argent de poche” quotidiano è, di solito seppur non sempre, tutt’altro che contento: ma accontentarlo non significherebbe abbandonarlo? E dinanzi al novantacinquenne ansioso di regalare “case e alberghi” alla radiosa badante di diciannove anni che dice di amarlo perdutamente, come dovrà reagire il Giudice Tutelare? - succede che i familiari protestino quando il Giudice Tutelare sceglie l’amministratore fuori dalla cerchia domestica; non si può dubitare però che ciò avvenga quando il GT, o gli amici, o i Servizi, o l’amministrato stesso si accorgono che quei familiari facevano/farebbero, in realtà, il contrario della felicità per il congiunto (art. 408 c.c.); - non è vero che “mancano le garanzie di gestione finanziaria”: l’amministratore sostegno – sia esso un avvocato o un familiare - deve riferire e riferisce periodicamente (ogni tre mesi, ogni sei, ogni anno a seconda dei casi) al Giudice Tutelare dell’attività svolta e delle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario (art. 405, n. 6 cc), ha un limite di spesa e opera sotto la stretta vigilanza del Giudice Tutelare, i cui decreti vengono controllati dal Pubblico Ministero; - non è dunque vero che il Giudice Tutelare decide senza controlli e senza sentire l’interessato: l’audizione del beneficiario è, infatti, una fase del procedimento essenziale per conoscere la persona, dove e come e con chi vive, i suoi bisogni ed aspirazioni, i suoi problemi e le sue esigenze di assistenza, di sostegno di protezione (art. 407 c.c); - in caso di dissenso con l’Amministratore di sostegno viene sempre sentito il beneficiario, seppure il Giudice Tutelare non sempre possa “accontentarlo” poiché il beneficiario proprio a causa della sua infermità, non sempre è in grado di comprendere quale sia il suo vero interesse: dinanzi a chi, affetto da dipendenza dal gioco, si spende appena riscossi tutta la pensione o lo stipendio al casinò e non ha poi più uno spicciolo per mangiare, pagare l’affitto, le bollette, mantenere la propria famiglia, che si indebita a catena con le finanziarie, che si riduce a perdere tutti i propri risparmi, come dovrà reagire il Giudice Tutelare? Lasciandolo fare? - non è vero che “il meccanismo dell’AdS si presta a essere abusato per sottrarre a una persona i suoi beni”: esso, al contrario, costituisce uno strumento di protezione flessibile che consente di rispettare (assai di più che nell’interdizione e inabilitazione) la persona, ponendola al centro dell’attenzione del Giudice Tutelare, dell’Amministratore di sostegno, di operatori sociali e sanitari che lavorano tutti dentro una comune rete di solidarietà e di servizio. Beninteso non si esclude, con ciò, che errori possano commettersi a Trieste come nel resto d’Italia; occorre però inserire gli errori, ove vi siano, in una indagine attenta, leale e completa di tutti e tanti casi che, a Trieste (circa 1700) come nel resto d’Italia, hanno apportato efficace sostegno e protezione e qualità di vita, a tante persone e ai loro famigliari. Il grande vantaggio dell’AdS poi è, che si tratta di un istituto trasparente, democratico, una casa di vetro, dove le cose si sanno fino in fondo (almeno nella cerchia degli interessati), dove la porta del Giudice Tutelare è sempre aperta e dove tutti possono protestare, segnalare, impugnare, quando ritengono che si stiano calpestando gli interessi dell’assistito (solo in questo caso però!), a cominciare dal beneficiario stesso: presso il Giudice Tutelare, presso il Pubblico Ministero, presso la Corte d’Appello, magari con una lettera al giornale. Dipingere l’amministrazione di sostegno come se fosse una sorta di trappola per gli anziani, in cui giovani avvocati perseguitano le persone o le privano dei propri beni e dove si scatenano gli abusi di giudici tutelari (nessuno dei quali, è doveroso precisarlo, è stato “rimosso” dalle proprie funzioni e la dott. Carlesso – che ha lavorato con autentica dedizione in questo settore - si è trasferita su sua richiesta alla Corte di Appello in una ordinaria progressione di carriera), è voler offuscare la efficacia di uno strumento, quale è l’amministrazione di sostegno, che costituisce una vera e propria risorsa per tanti anziani e disabili della nostra città e che un giornale, di larga diffusione come il vostro aspira a essere, ci auspichiamo vorrà concorrere a promuovere Il Presidente dell’associazione AsSostegno Dott Giuseppe Garano

- Risponde il direttore. Ringrazio il cortese Dott. Garano per queste puntualizzazioni, che non interpretano tuttavia esattamente quanto ho scritto. Non ho dubbi che quanto lui afferma possa valere per i casi, spero di maggioranza, in cui la legge e lo spirito originario dell’istituto dell’amministrazione di sostegno siano applicati correttamente. Ma purtroppo gli abusi ci sono, perfettamente documentati in denunce circostanziate alle autorità giudiziarie, credibili e convergenti, in particolare riguardo a Trieste e dalla gestione della giudice tutelare da poco promossa ad altro incarico. Fermo restando questo, ci si può dunque augurare che chi le è succeduto faccia esercizio della più rigorosa prudenza sinché le cose non siano adeguatamente chiarite.

(Il Tuono n. 13 del 24.7.10, p. 2 e 7) Amministrazioni di sostegno: un’Associazione per il controllo Continuiamo a ricevere, da Trieste ed altrove, nuove segnalazioni di abusi dell’istituto delle amministrazioni di sostegno, qui nella gestione giudiziaria precedente l’attuale. Il problema è ormai noto: la legge e le risorse delle strutture delegate ad attuarla non bastano purtroppo a consentire, in concreto, controlli adeguati sull’applicazione corretta delle norme, né sull’operato effettivo degli amministratori, e questo pone provatamente a grave rischio i diritti civili, le condizioni di vita ed i beni degli amministrati e delle loro famiglie. In concomitanza con la nostra campagna stampa di chiarimento è sorta inoltre a Trieste un’associazione, la AsSostegno, che risulta includere anche alcuni dei corresponsabili di questa penosa situazione e sembra volerla invece negare o minimizzare (si veda il nostro numero 12, pag. 6 e qui a pag. 7). Per contribuire invece a risolverla sta ora sorgendo tra le persone e famiglie colpite dal problema e chi vuole aiutarle una nuova associazione privata, locale e nazionale, che ha lo scopo di organizzare per intanto da parte della società civile le necessarie funzioni di controllo sull’applicazione e gestione delle amministrazioni di sostegno, ma anche delle tutele e delle curatele. Ve ne terremo al corrente.

Lettera aperta (9.a lettera pubblicata) Preg.ma Giudice Dott.ssa Gloria Carlesso, Preg.mo Professor Paolo Cendon, Preg.ma Dott. Alessandra Marin, tramite Internet mi è possibile leggere stampa locale ed il sito “persona e danno” curato dal Professore. Ho letto così della costituzione in maggio u.s. di AsSostegno e le motivazioni corredate di punti legislativi a difesa dell’istituto dell’Amministratore di sostegno (Ads). Dal 26 giugno “Il Tuono” settimanale di Trieste e dintorni ha curato vari commenti di civili impegnati anche in associazioni soprattutto sulla prassi dell’Ads. I commenti provengono anche da Lazio, Viareggio, Arezzo, e con il mio ancora dalla Toscana, provincia di Lucca. L’argomento del contendere, per quanto mi riguarda, è eminentemente materiale. A titolo di esempio: nel mio intervento citavo la responsabilizzazione dei servizi tramite l’art. 406 comma 3 del Codice Civile come appunto modificato dalla L.6/2004: non era una critica alla disposizione, ma un cenno di come si possa tramite quella by-passare amministrando, parenti, autorità civili, ed esperire vie d’urgenza. Le specificazioni appena dette nemmeno erano tutte presenti nel mio commento, ma il “caso Zafran” (citato come ho visto in convegni come necessità di “diritto alla cura”) rientrò proprio in questo sorpassamento totale dei consociati - da allora percepiti inesorabilmente come dannosi o inaffidabili -. I danni rimostrati altro non si giocano che su un piano strettamente sostanziale, e sulla percezione di famiglie che si sono sentite espropriate, maltrattate, violate... L’alternativa ad un abbandono lato sensu ( di un prodigo, di un tossicodipendente,...) non può mai essere la costruzione di un illecito grottesco da parte di un servizio di potere pubblico: citando il dottor Garano su “Il Tuono” del 17 u.s., che riferisce una fattispecie astratta di ultranovantenne invaghito di diciannovenne a cui voglia donare tutti i suoi patrimoni (infelice esempio, che associa perversione alla nostra gente anziana!), è certo preferibile per la sua vita che sussista abbandono piuttosto che – sempre sul lato eminentemente materiale – gli siano trattenute tutte le proprie sostanze e venga magari internato in uno dei tanti ricoveri per anziani (biasimati il 23 luglio 2009 anche dal Direttore emerito ASS Dr. Rotelli su Il Piccolo). Sarebbe invece auspicabile una condotta ragionevole di Ads “da manuale”. Sebbene io non sappia quanto l’invadenza del Pubblico nel privato, la Drittwirkung [efficacia orizzontale, ndr] come percepita a Trieste possa essere trasferita nel resto d’ Italia, ritengo comunque mettere Loro a conoscenza come primi firmatari di AsSostegno le linee dispositive in materia di Ads, alla cui redazione sto partecipando tuttora in Toscana. Per la Toscana si propone un’etica migliore dell’istituto dell’amministratore di sostegno iniziando con dei punti fermi e dei correttivi, quali ad esempio: a) assicurare che un amministratore non cumuli più di 10 amministrati (per ribadire l’importanza dell’ascolto e attenzioni concrete alle persone beneficiarie – stabilendo anche un tempo di ascolto determinato e settimanale in ipotesi 2 ore per ogni beneficiario, un’ora per l’interessato ed un’ora per i famigliari che desiderino parlare con l’AdS); b) assicurare che le persone interessate siano debitamente informate (tornare anche all’avviso su carta, e dove questo non sia possibile si procuri un “protocollo” di comunicazione che fornisca dovute garanzie agli interessati); c) assicurarsi che quando l’amministratore viene chiesto da persone non interessate direttamente o che si rivelino distanti ai bisogni dell’interessato, o siano amministrazioni pubbliche, si proceda a moduli cartacei specifici che verbalizzino presso il Giudice tutelare il rapporto con la persona interessata e con la famiglia; d) mai lasciar fuori gli interessati ed i cari che si prendono cura di loro, malgrado qualsiasi difficoltà di comunicazione; e) andare oltre la “visita” al luogo di dimora della persona che dev’essere amministrata ed alla pseudo-psicologia clinica, specie in salute mentale; f) il Giudice tutelare deve avere cognizione tecnica, o munirsi di una consulenza permanente, che precocemente connetta il farmaco al luogo (ad es. la clozapina non va sempre d’accordo con soluzioni domiciliari in cui si usa fumo o caffè che interagiscono con l’emivita dell’importante farmaco); g) in pratica l’amministratore non deve essere un ratificatore “alla buona” di scelte deleterie, ma una persona che opera con consapevolezza del valore e dei bisogni della persona che assiste. Invio un saluto cordiale, restando a Loro disposizione. Mirko Gabriele Salotti Volontario salute mentale CESVOT (centro servizi volontariato toscano) Iscritto all’Albo nazionale dei soccorritore del 118 Membro associazione “ Voceallavittima! “ onlus- Roma

Quale difesa? (10.a lettera pubblicata) In risposta alla lettera a firma Dott. Giuseppe Garano, pubblicata sul vostro settimanale in data 17/07/2010, il sottoscritto amministratore di sostegno indipendente, cioè non iscritto ad associazione alcuna, Marco Marcon, desidera anche alla luce della propria esperienza nel campo delle tutele sottolineare quanto segue: pur condividendo i meriti della legge sull’amministrazione di sostegno non posso non esprimere forti perplessità in merito all’operato dei giudici tutelari che si sono succeduti a Trieste da Camerlengo alla Carlesso. Sebbene essi fossero a conoscenza dei pesanti comportamenti dannosi di alcuni avvocati, si sono ben guardati dal sollevarli dalle rispettive nomine, nonostante segnalazioni ricevute. Ciò conferma quanto scritto dal Dott. Borgonuovo da Arezzo nella lettera pubblicata dal vostro settimanale lo stesso giorno. È altresì impensabile che tale comportamento non sia stato attuato in virtù di una adeguata copertura. Si era sperato che fosse il risultato di pressioni, ma tale speranza affievolisce sempre più. Così come è logico immaginare che gli avvocati abbiano goduto di una corsia preferenziale nella scelta del tutore prima e nell’amministrazione adesso, specie nei casi di conflitti famigliari generati dall’errata convinzione che il tutore o Ads una volta nominato diventi padrone di tutto (e mi chiedo se questa errata convinzione non venga artificialmente generata sì da giustificare la nomina di un avvocato). Ciò accade in genere proprio con la nomina di un legale, il quale dispone dei beni in custodia come crede senza interpellare i parenti ai quali è precluso il rendiconto (esperienza diretta – nemmeno al Pentagono c’è una tale segretezza) e che peraltro non sarà passato al microscopio a scansione come quello dell’Ads famigliare non avvocato. Non si capisce infatti come certi rendiconto “incredibili” presentati da avvocati siano stati approvati dal Giudice Tutelare senza batter ciglio. Se non erro, l’amministrazione così come la tutela è gratuita. Ma anche in questo caso l’avvocato riesce a farsi “pagare” per il suo disturbo per la tutela gravosa e complicata, mentre Ads o tutore non avvocato no. Ma la legge non è uguale per tutti? Nel caso che l’avvocato Ads, rubi, provi lei a denunciarlo in un tribunale dove vige l’immunità parlamentare retroattiva (Berlusconi se lo sogna) prima della nomina a parlamentare, o dove uno che grida in una manifestazione “Partigiano di m...” (vilipendio delle forze armate di liberazione) davanti alle forze dell’ordine non viene nemmeno fermato. Mi auguro che la sua associazione sia meritoria in questa fase della vita che solo chi ha provato indirettamente può realmente comprendere, e non sia un rapido sistema per individuare le potenziali vittime di vere e proprie spoliazioni legalizzate di beni e risparmi. Marco Marcon

- Grazie per la lettera su questi problemi. Conosciamo il caso specifico accennato, che è anche perfettamente documentato. [Nota della Voce di Trieste, aprile 2013: il riferimento alle immunità riguarda un’iniziativa abnorme del Tribunale di Trieste di riconoscere al leader estremista neofascista locale Roberto Menia l’immunità parlamentare per reati commessi tre anni prima di venire eletto deputato. L’iniziativa è stata respinta dal Parlamento come abnorme, con richiesta di indagini disciplinari nei confronti giudici che non ci risulta tuttavìa compiuta.]

(Il Tuono n. 14 del 31.7.10, pp. 6,7) Amministratori di sostegno insistono (11.a lettera pubblicata). Egregio Direttore, i nostri vecchi, nella semplicità della vita agreste, nutrivano l’anima con detti popolari. Uno di questi, fra i più veritieri ed apprezzati, recitava più o meno così: “se tuona prima di piovere, resta nel campo e non ti muovere!”. Dal che, abbiamo ben sopportato l’infruttuoso rumore delle precedenti edizioni dedicate all’opinionismo ferito dei pochi che lamentano l’applicazione dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno a Trieste. Tuttavia, dopo la sua ultima nota in calce alla lettera di AsSsostegno, non possiamo esimerci dal rilevare che il giornalismo investigativo postula l’analisi accurata e documentata dei fatti, e non prescinde dall’irrinunciabile dovere di ascoltare le varie parti coinvolte, sintetizzando il frutto di un contraddittorio. Perché dunque rinuncia ad informare i lettori del fatto che per nessuno dei casi da lei “denunciati” si è mai peritato di contattare amministratori di sostegno o giudici o avvocati coinvolti? La ricerca assoluta della Verità, che dovrebbe essere alla base di un giornalismo costruttivo (ma più in generale della nostra società), ci impone di raccontare anche la nostra esperienza di amministratori di sostegno che hanno vissuto (e sofferto) con i Giudici Tutelari i risvolti pratici di quella manciata di articoli del codice civile che rappresentano un’evoluzione civile per il nostro Paese. Se solo Lei sapesse quante volte abbiamo visto il Giudice Tutelare seduta al fianco dei senzatetto, oppure entrare nelle case facendosi letteralmente largo fra le immondizie, o carezzare il volto di coloro che non hanno più voce per gridare il silenzio cui sono costretti. Abbiamo visto la dott.ssa Carlesso abbracciare ed ascoltare per ore gli anziani,i soggetti deboli, i loro congiunti e tutti coloro che le hanno chiesto un aiuto, anche solo una parola, nell’esemplare espletamento della sua funzione di magistrato. Abbiamo visto la fila di persone nel Palazzo di Giustizia di Trieste davanti alla porta di un Giudice che ha sempre accolto tutti con umana comprensione, nessuno escluso. E non è stata certo l’unica, a Trieste, a dedicare sé stessa al fardello imposto ai magistrati con la legge n.6 del 2004. Noi amministratori di sostegno, nello svolgimento del nostro compito, doverosamente collaboriamo al fianco dei Giudici Tutelari che controllano scrupolosamente la nostra attività, supervisionando con imparzialità, e senso di giustizia, ogni atto da noi compiuto in favore dei nostri beneficiari. Quand’anche il filtro del primo magistrato non dovesse bastare, a garanzia vi è il controllo, altrettanto scrupoloso, del Pubblico Ministero. I Giudici Tutelari, che attualmente rivestono tale ruolo, hanno preso in carico con passione il lavoro iniziato dalla loro collega e si affiancano a chi già riveste questo incarico con dedizione da diversi anni. Non starebbe dunque a Lei redarguirli circa le loro funzioni, né tantomeno allarmare inutilmente l’opinione pubblica. Nei provvedimenti in cui si limita la capacità di agire del beneficiario, quest’ultimo viene invitato a rivolgersi ad un avvocato. Ci si dovrebbe dunque interrogare sul perché, in molti casi, l’attività di difesa culmina con l’adesione o la conferma del provvedimento adottato, se non esclusivamente per la fondatezza stessa dell’indagine che lo ha preceduto. Ricordiamo infatti che dei circa 1700 casi esaminati, solo sette sono stati sottoposti a reclamo alla Corte di Appello ed i decreti di nomina del Giudice Tutelare sono stati, sino ad ora, confermati. L’investigazione, anche dopo trent’anni d’esperienza, è bene che parta dal dubbio! Scriviamo poco, più per puntualizzare che per informare (non ci appare questo infatti il veicolo più adatto) e, come da Sua tradizione, Le lasciamo lo spazio per il suo commento e per un brillante titolo, affinché i lettori non possano formarsi un’opinione senza essere sapientemente accompagnati. Gli Amministratori di Sostegno: Avv. Lorella Marincich, Avv. Alessandra Marin, Avv. Antonella Mazzone, Dott.ssa Gabriella Magurano, Dott. ssa Silvia Panto, Dott.ssa Francesca Martucci, Dott. Matteo Morgia.

- Risponde il direttore. La cortese lettera del dott. Garano per AsSostegno, pubblicata a pagina 6 del nostro numero 12, voleva anch’essa smentire gli abusi concreti di cui abbiamo dato notizia, ma lo faceva richiamando ed interpretando ottimisticamente le norme di legge come se esse potessero impedire di per sé che se ne faccia abuso. Ed abbiamo già spiegato con pari cortesia perché no. Questa lettera di un gruppo di giovani avvocati e praticanti pretende invece di smentire gli abusi con una miscela di affermazioni apodittiche, immagini suggestive e persino offese delegittimanti: contesta infatti la nostra professionalità e funzione giornalistiche, dichiara di voler puntualizzare ma non informare ritenendo inadatto il giornale, e dunque i suoi lettori, accusandomi pure di condizionarne le opinioni con i miei commenti. Rispondo per prima cosa che le persone che ci leggono sono perfettamente capaci di formarsi opinioni proprie valutando criticamente i contenuti sia delle lettere che dei commenti del giornale. Quanto abbiamo scritto, e lorsignori ritengono di avere “ben sopportato”, non è affatto “infruttuoso rumore”, né frutto di quello che definiscono sprezzantemente un “opinionismo ferito dei pochi che lamentano l’applicazione dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno a Trieste”. Noi facciamo informazione doverosa sul fatto che vi siano gravi abusi, desunto dall’esame di più denunce, credibili perché documentate, coerenti, convergenti e presentate dagli interessati alle sedi giudiziarie extraterritoriali di pertinenza. Lorsignori non pretendano poi di insegnarci le regole del giornalismo investigativo, sostenendo pure che avrei dovuto dare giudizi su quelle denunce dopo averle discusse con gli amministratori di sostegno, giudici ed avvocati coinvolti: se lo avessi fatto avrei violato il segreto professionale sulle fonti, esponendole a ritorsioni, ed invaso competenze delle sedi giudiziarie inquirenti. Anche le lodi difensive che lorsignori fanno di sé e dell’ex giudice tutelare Gloria Carlesso sono fuori luogo, perché ci siamo limitati a precisare doverosamente, anche a tutela degli altri magistrati, che le denunce da noi esaminate riguardano tutte il periodo del suo mandato, ed abbiamo taciuto tutti i nomi delle persone denunciate. Non ho poi affatto “redarguito” (che in lingua italiana significa rimproverato) circa le loro funzioni i giudici tutelari attuali, dei quali ho piena stima. Ho soltanto espresso in forma di auspicio la certezza che essi sapranno affrontare simile situazione esercitando la più rigorosa prudenza. Alla quale non sembra invece ispirata questa lettera di maldestro negazionismo e confusione, da parti interessate, su un problema così drammaticamente palese. Perché consiste nel semplice fatto che, ferme restando le buone intenzioni e pratiche dei più, denunce attendibili provano che l’amministrazione di sostegno può dar luogo anche ad abusi gravi. Che devono essere perciò denunciati dalla società civile, puniti ed impediti dall’Autorità giudiziaria e prevenuti da nuove norme e strutture di controllo adeguate. E se qualcuno pensa di poterci intimidire, ha sbagliato indirizzo e persone.

(Il Tuono n. 15 del 4.9.10, p. 9) Dieci legali che si ritengono chiamati in causa (12.a lettera pubblicata). Scriviamo quali soggetti direttamente chiamati in causa dagli articoli pubblicati nella Vostra rivista dalla fine di giugno in poi atteso che l’intento da Voi dichiarato nel n. 9 ovvero quello “di fare tutto il dovere di giornalisti per dare chiarezza e piena informazione del problema all’opinione pubblica” è stato, volutamente o meno, disatteso ed all’opposto le allarmanti assimilazioni dell’istituto dell’Amministrazione di Sostegno a misura di contenzione piuttosto che di riduzione in schiavitù o ancora di strumento atto ad agevolare appropriazioni indebite dei patrimoni dei beneficiari altro non fanno che dare prospettive distorte, parziali e al limite dello scandalo in danno a quelle tante persone che in concreto si avvantaggiano del rapporto instaurato con l’Amministratore di Sostegno, sia esso avvocato o meno. Scriviamo perché è doveroso che l’opinione pubblica sappia che se il Giudice Tutelare ritiene di nominare un avvocato o un praticante avvocato al posto di un familiare quale A.d.S. o tutore o curatore è certamente perché nella cerchia dei famigliari non vi sono persone idonee (per le più svariate ragioni quali possono essere la lontananza, la conflittualità, l’indisponibilità) ad occuparsi degli interessi e dei bisogni del beneficiario, ovvero proprio in sostituzione di quei familiari che non sono stati in grado di adempiere all’ufficio da loro assunto. Rispetto agli articoli e lettere aperte sin oggi pubblicate, riteniamo quindi di dover precisare alcuni aspetti, che per comodità di lettura numeriamo, nel tentativo di riportare le informazioni nell’alveo della realtà. 1) L’infondata assimilazione dell’istituto dell’AdS ad una misura coercitiva e/o di contenzione (n. 10 del Tuono). L’istituto dell’AdS è misura giuridica di protezione di soggetti deboli. Il subdolo accostamento dell’Amministrazione di Sostegno ad una misura di contenzione ingenera un’idea del tutto distorta che danneggia prima di tutti i beneficiari stessi in quanto altera profondamente il rapporto fiduciario che, sebbene con possibile iniziale difficoltà, si instaura tra l’amministratore di sostegno ed il destinatario della misura. Non corrisponde al vero che l’istituto consiste nel privare giuridicamente la persona, in via temporanea e/o definitiva, dei diritti civili fondamentali. L’esatto opposto. L’istituto affianca al soggetto bisognoso, a seguito di un’istanza specifica e documentata, un amministratore di sostegno che lo aiuta a svolgere tutti gli atti della quotidianità che non è più in grado, per diverse ragioni (di malattia, età, competenza) di svolgere da solo: può trattarsi di stipulare un contratto con la banca piuttosto che inoltrare le istanze per percepire le pensioni di accompagnamento e/o altre (continua nella prossima indennità di cui il soggetto ha diritto, piuttosto ancora reperire, assumere e gestire una badante o collaboratrice domestica, ed ancora pagare le bollette, far intervenire un idraulico etc.. Sulla rivista è stata data ripetuta risonanza alla circostanza che l’amministratore di sostegno farebbe vivere in povertà il beneficiario erogandogli al posto della sua pensione indicata in migliaia di euro solo 300,00 o 600,00 € mensili: ma la redazione e la firma che ha avallato questa notizia si è sincerata di appurare che forse, spesso, i beneficiari anziani non hanno una pensione di migliaia di euro oppure quand’anche l’avesse che è l’amministratore di sostegno a pagare tutte le spese mensili perché il beneficiario invece di onorarle accumulava debiti magari senza rendersene conto? È stato scritto che il beneficiario non ha la possibilità di protestare e di far valere le proprie ragioni: ciò non corrisponde a verità. Proprio grazie a questo istituto il beneficiario può sempre proporre, personalmente o a mezzo di un proprio rappresentante (che può essere anche l’Amministratore di Sostegno ma anche un famigliare, un amico, un avvocato), istanza al Giudice Tutelare per revisionare e/o modificare il decreto iniziale o quelli che nel tempo si sono succeduti. È grave che una rivista che voglia chiamarsi tale avalli assimilazioni quali quelle su indicate. 2) La generalizzazione di casi limite. Ogni procedura ed ogni decreto di ammissione dell’amministrazione di sostegno ha una sua storia specifica alle spalle: ha una sua istruzione - non c’è nessun Giudice che si inventi di aprire una AdS senza aver prima analizzato la documentazione alla base della stessa, senza aver prima visitato e/o sentito il beneficiario e senza aver prima valutato nella cerchia dei famigliari le persone idonee a ricoprire questa funzione. Semmai ci fossero stati degli abusi, e lo si dubita fortemente al di là di quanto asseritamente documentato dalla rivista, sarà certamente compito della Magistratura accertarli e sanzionarli: siamo ancora in uno stato di diritto dove le regole, che ci sono e sono precise, vengono fatte rispettare da chi è deputato a farlo e nessuno, nemmeno sotto le mentite spoglie di un giornalismo investigativo e d’inchiesta, può arrogarsi il diritto di allarmare l’opinione pubblica generalizzando casi limite che non fanno certo parte della normalità. Rispetto agli eventuali casi di abusi che certamente la Magistratura accerterà ci sono centinaia di casi seguiti con scrupolo, diligenza ed umanità dagli operatori del diritto (avvocati o praticanti che siano) chiamati all’ufficio, i quali spesso - al di là di quello che si vuol far passare - riescono ad instaurare con i beneficiari, ma anche con i famigliari, rapporti di fiducia e collaborazione proprio perché la figura dell’AdS non va a sostituire gli affetti ma va ad contribuire a dare un sostegno, talvolta tecnico e che richiede competenze specifiche, che gli stessi beneficiari e famigliari piuttosto che gli operatori dei servizi non sono in grado di svolgere. 3) Ruolo svolto dai Giudici Tutelari, dagli Amministratori di Sostegno e dai Servizi Negli articoli che qui si commentano emerge senza mezzi termini un attacco diretto alla Magistratura che attende agli uffici della tutela/curatela/amministrazioni di sostegno da parte di soggetti evidentemente coinvolti in situazioni personali (o per propri infelici vissuti o per essere loro stessi AdS indipendenti …. non si sa poi da chi!) e che utilizzano, con il placet incontrollato della redazione di questa rivista, in modo strumentale i propri punti di vista. È bene che l’opinione pubblica sappia, al di là di quanto precedentemente pubblicato, che tutti i Magistrati che si sono sino ad ora occupati degli istituti in esame, ivi compresa la dott.ssa Carlesso, operano con il controllo del Pubblico Ministero ovvero collegialmente allorché si tratta di risolvere ed assumere decisioni in casi di particolare difficoltà e delicatezza. In ogni caso i Magistrati, piaccia o no a chi ha precedentemente trovato sfogo nella rivista, applicano le norme; e loro stessi sono soggetti alle stesse norme sicché ogni affermazione circa eventuali nomine preferenziali di avvocati e praticanti rispetto a terzi indipendenti piuttosto che di appropriazioni indebite appare giustificata solo dalla necessità di creare scandalo (forse per farsi leggere). Invece è doveroso ricordare, soprattutto in replica alle indegne accuse sottese negli articoli nei confronti della dott.ssa Carlesso, che i Magistrati triestini tutti, per il notevole numero di anziani della nostra città e per la stessa apertura all’altro, al diverso, al debole che il nostro tessuto cittadino ha sempre consentito, sono sempre stati pronti in prima linea unitamente ai diversi servizi coinvolti (Comune, Distretti sanitari, Centri di salute mentale etc.) a prevenire e a sventare gli abusi. Tanti di noi sono stati invero nominati proprio in sostituzione di AdS indipendenti ovvero di tutori famigliari poco attenti, e diversi sono i casi passati in Procura dagli stessi Magistrati tutelari!. Certamente, rispetto ai diversi Magistrati che si occupano degli istituti, la dott.ssa Carlesso ha aggiunto un quid pluris all’ufficio, informato sì al rispetto delle regole giuridiche ma confortato dalla sua calda e sincera umanità, tesa sempre ad ascoltare le diverse problematicità e a trovare la migliore soluzione possibile – mai avulsa dai pareri della rete attivata - per ogni caso. È È certo che a qualcuno spetta di decidere ed è altrettanto certo che a qualcun altro ciò può dar fastidio: nel nostro sistema giuridico la decisione spetta al Giudice Tutelare con la riserva sempre ammessa, perché fortunatamente il nostro è e rimane un sistema di diritto, di revisione in caso di errori e/o modifiche. 4) Sull’indennizzo e sulla gratuità dell’istituto. É stato correttamente scritto che l’adempimento dell’ufficio dell’amministrazione di sostegno è tendenzialmente gratuito così come lo è la tutela. Viene però lamentata la liquidazione esagerata di compensi agli avvocati e praticanti mentre agli amministratori di sostegno indipendenti o ai famigliari ciò non sarebbe consentito. Tale notizia è falsa perché gli indennizzi vengono certamente rifusi, se richiesti e giustificati, anche ai famigliari ed agli amministratori di sostegno indipendenti. Le richieste di indennizzo vengono analizzate dal Giudice Tutelare e autorizzate in base all’attività effettivamente eseguita, al valore del patrimonio gestito, all’apporto dato al beneficiario; non di rado il Giudice tutelare, che controlla analiticamente la relazione dell’amministratore di sostegno, decide di decurtare o aumentare le richieste di indennizzo; è certo che il G.T. non liquida e non autorizza richieste, magari di famigliari e/o A.d.S. indipendenti o no che siano, non confortate da idonea documentazione e non relazionate con il dovuto dettaglio. É altrettanto doveroso rendere edotta l’opinione pubblica che tanti avvocati e procuratori, che non si sottraggono agli uffici per i quali sono chiamati, lavorano e rendono la propria prestazione per tante pratiche gratuitamente se non anche spendendo di propri denari personali, in virtù della difficile situazione dei beneficiari. Ci è sembrato quindi doveroso scrivere queste poche righe, non per polemizzare oltre ma per puntualizzare il nostro ruolo constatata la diretta chiamata in causa degli amministratori di sostegno (avvocati e dottori in legge) in assenza di qualsivoglia contraddittorio ed accurata indagine sull’effettiva attività da noi svolta, sulla fondatezza delle notizie pubblicate dalla testata condite vieppiù da titoli d’effetto o con commenti di natura soggettiva che, visti i precedenti, probabilmente la redazione dispenserà anche in questa occasione, continuando così a disattendere quella garanzia dovuta ai lettori e alla pubblica opinione del dovere di corretta e piena informazione che il Giornalismo, ma solo quello con la “G” maiuscola, assicura. Alcuni amministratori di sostegno: Avv. Donatella Varglien Boico, Avv. Antonella Stella , Avv. Annalisa Fedele, Avv. Alessandra Marin, Avv. Alessia Morandini, Avv. Barbara Fontanot, Avv. Francesca Marchetti, Avv. Elena Bellodi, Dott. Alice Spaventi, Avv. Andrea Miozzo, Avv. Maria Rosaria Amari.

- Risponde il direttore. Consentitemi di osservare che questa lettera è ancora più arrogante ed offensiva di quella analoga già ricevuta e pubblicata sul nostro numero precedente. Non si vede anzitutto come e perché gli amministratori di sostegno (Ads) firmatari si ritengano chiamati in causa per il semplice fatto che abbiamo scritto di abusi documentati di tale istituto, spiegando anche di quale genere ma senza fare altro nome di riferimento che quello della giudice. Se hanno, come non dubitiamo, la coscienza a posto, non possono esserne coinvolti. La loro prima preoccupazione è affermare legittima la nomina di un avvocato o praticante quale Ads al posto dei famigliari. Mentre non abbiamo detto che non lo sia, ma che in alcuni casi documentati e già in indagine giudiziaria si presta ad abusi. Non neghiamo poi che l’istituto dell’Ads sia una misura di protezione di soggetti deboli: affermiamo soltanto che si presta appunto ad ovvi abusi. Non è vero che il soggetto assistito non venga privato di diritti, ma solo affiancato e sostenuto: dipende dai casi, ed alcuni sono di abuso. Il fatto che assistiti anche benestanti si possano trovare ridotti a vivere con importi mensili minimi è perfettamente documentato. La difficoltà di alcuni assistiti a reclamare e difendersi è determinata da situazioni in cui non possono ricevere personalmente neanche la posta. Non c’è dubbio che gli abusi siano casi limite, e noi non li abbiamo affatto generalizzati. E non li abbiamo nemmeno documentati direttamente, ma ci siamo riferiti alle documentazioni estremamente precise di procedimenti giudiziari già attivati. Gli Ads che si comportano bene non hanno comunque nulla da temerne, e noi non abbiamo allarmato l’opinione pubblica, ma solo segnalato doverosamente quegli abusi documentati, perché vi sia posta fine. Non abbiamo affatto attaccato, o mediato attacchi, alla magistratura tutoria in quanto tale, ma precisato doverosamente – proprio per tutelarla – che i casi anomali in indagine fanno riferimento ad un unico magistrato, e quale. I firmatari della lettera non possono inoltre non sapere che il controllo del Pubblico Ministero sulle attività tutorie è puramente teorico, e di fatto eccezionale, data la mole abnorme di altri procedimenti di cui i PM sono oberati, mentre la collegialità delle decisioni rimane discrezionale. Ed è vero che i magistrati applicano le norme, ma se fossero tutti e sempre perfetti ed infallibili non occorrerebbero tre gradi di giudizio. Nei nostri articoli non ci sono affatto “indegne accuse sottese” verso la dott. Carlesso, ma affermazioni e riferimenti necessari e doverosi per la chiarezza delle informazioni, che se errate possono essere confutate puntualmente, non con tirate retoriche ed offensive. Il fatto che la gratuità dell’incarico di Ads sia solo “tendenziale” consente l’erogazione dei compensi, ed il professionista esterno (avvocato, praticante) li riceve senza problemi, a differenza dal famigliare. Se qualcuno rinuncia, rimane suo merito. È sorprendente che infine i firmatari affermino di non voler polemizzare in una lettera iraconda che sopra e sotto quest’affermazione ci propina una serie di insulti ingiusti e sempre più pesanti, pretendendo pure di insegnarci la correttezza professionale. Vorremmo dunque capire perché.

(Il Tuono n. 17 del 18.9.10, p. 8) Amministrazioni di sostegno (13.a lettera pubblicata). Seguo con grande attenzione anche professionale la vostra campagna di denuncia su abusi nelle amministrazioni di sostegno, e ho contato i nomi dei giovani avvocati e praticanti che vi hanno scritto giurando che invece tutto va bene: sono 17, tra donne e uomini che dovrebbero rappresentare le speranze future della professione forense nella nostra – come scrive spesso un mio conoscente spiritoso – ridente necropoli sul mare. Visti gli argomenti e la logica sorprendenti di questi esordienti del diritto mi è venuto il dubbio che possano averli applicati, naturalmente in buona fede, anche alle gestioni dei loro amministrati, con risultati altrettanto sorprendenti. Poiché voi affermate di averne abbondanti e precise documentazioni su casi già in indagine, vorrei sapere se forse ho immaginato giusto. E per quali motivi, secondo voi, su quest’argomento il resto della stampa locale tace.

- Possiamo rispondere con qualche particolare, come dice lei, sorprendente di uno di quei casi documentati. La giudice tutelare nomina amministratore di sostegno di due anziani in difficoltà non uno dei due figli, ma un giovane praticante avvocato (categoria che di solito non guadagna ancora un soldo) assegnandogli per l’incarico un compenso annuo, a spese dei beneficiari, di ben 7.000 euro più rimborsi spese, IVA e cpa (mentre i figli lo avrebbero svolto gratis). In forza della nomina, l’amministratore di sostegno svolge un ruolo di tutore giudiziario, e dunque di pubblico ufficiale, con tutti gli obblighi (e se del caso le aggravanti) di legge che ciò comporta. Anche se, come sappiamo, tutti i suoi provvedimenti principali devono essere convalidati o quantomeno controllati dalla giudice stessa. Tra altre cose meritevoli di verifiche, quest’amministratore alle prime armi decide di vendere un appartamentino dei due assistiti, contro la loro espressa volontà, nel centro di una famosa località balneare. A prescindere dall’opportunità della vendita, per valutarne il prezzo dovrebbe, stante il suo ruolo e siccome non è roba sua, far almeno eseguire una perizia di stima garantita dal Tribunale ed adottare una formula di vendita che offra le garanzie minime dell’asta giudiziaria. Invece si rivolge fiduciosamente all’amministratore dello stesso condominio, che è anche agente immobiliare, fa un sopralluogo con lui ed un mediatore di altra agenzia locale, ne accetta la stima ad occhio, benché evidentemente bassa, perché confermata da altro immobiliarista suo conoscente, rilancia un prezzo un po’ più alto, ed incarica gli stessi due – che date le circostanze ricordano il gatto e la volpe classici – di cercare loro degli acquirenti e comunicargli le offerte. Col risultato che dopo un po’ gatto e volpe gli comunicano un’offerta pari alla loro stima, lui alza di un po’ per il costo della mediazione, e vende al prezzo così fiduciosamente stabilito, col consenso, pare, della giudice. Sembra quindi più che legittimo ritenere che almeno i casi così sorprendenti meritino verifiche istituzionali esterne ed accurate. Quanto al silenzio del resto della stampa, possiamo solo immaginare che le testate non indipendenti possano avere degli imbarazzi a metter sotto inchiesta giornalistica elementi dell’ambiente giudiziario e decine di giovani leve di quello forense, figli d’arte inclusi.

(Il Tuono n. 18 del 25.9.10, p. 4) Anche uno sfratto estorsivo (14.a lettera pubblicata) In relazione agli articoli sul giornale riguardanti gli Amministratori di Sostegno, anche io ho avuto modo di imbattermi in una di queste persone. Tra i vari problemi che ho come: poco lavoro, qualche debito che prima o poi dovrò sanare - il denaro è sempre poco soprattutto per un’addetta alle pulizie - un giorno mi viene recapitata una raccomandata dall’AdS della mia locatrice: “Le comunico, preliminariamente, di aver richiesto presso i locali Uffici dell’Agenzia delle Entrate copia del contratto di locazione indicato in oggetto (all.), da Lei sottoscritto nel mese di aprile 2003 ed attualmente rinnovato sino al 31 marzo 2011. A tal proposito, in nome e per conto della locatrice, Le comunico ad ogni effetto di legge la formale disdetta dal suddetto contratto che, alla prossima scadenza sopra specificata, dovrà intendersi non rinnovato automaticamente. A far data dal giorno 1 aprile 2011, pertanto, l’immobile in oggetto dovrà essere lasciato libero da persone e cose. Premesso un tanto, con la presente Le intimo formalmente, altresì, di voler provvedere con decorrenza immediata al pagamento dei canoni di locazione che, dalla data della mia nomina ad oggi, non risultano mai pervenuti a mie mani. Detto pagamento, infatti, come espressamente previsto dall’art. 5 del contratto, deve avvenire presso il domicilio del locatore che attualmente, in virtù del decreto di nomina di AdS, è presso lo scrivente.” In poche parole io dovrei ridare 4.800 euro, già pagati, perché questo signore è stato nominato AdS il 1° luglio 2009, nonché sgombrare da casa. La proprietaria dell’immobile non ha mai espresso un simile desiderio, tanto meno di farsi ripagare i canoni che io ho già versato, puntualmente, fino ad oggi. Detto questo, i figli di questa signora, che sono miei amici ormai da molti anni, hanno ricevuto anch’essi la convocazione da parte dell’AdS perché ne venisse assegnato uno anche a loro. Sia i genitori che i figli vivono in proprietà di famiglia, casualmente. Ora si cerca di capire cosa succederà e mi chiedo come sia possibile che una persona possa esercitare tanto potere sugli altri solo perché ha giurato la sua “formuletta” davanti al giudice tutelare? L’interdizione è una grave offesa alla persona e alla sua capacità di agire, pensare e lavorare, come in questo caso assurdo dove le persone sono completamente autosufficienti. E che dire di tutte le spese legali affrontate e da affrontare per salvare il salvabile? E chi non se lo può permettere, da chi verrà tutelato? (lettera firmata)

- Giuste domande. Conosciamo anche questo caso, che è documentato, e sul quale risultano già in corso indagini giudiziarie. Come su altri.

Altri casi da documentare (15.a lettera pubblicata). Il Tuono continua l’inchiesta sugli abusi dell’amministrazione di sostegno. è legittimo sperare che ne diventi un punto di riferimento nazionale perché a Basaglia City la cancrena ha allungato le radici in tutte le direzioni; e quell’infaticabile ex giudice tutelare di Trieste non teme paragoni nella produzione di amministrati. Possiamo documentare alcuni soprusi gravissimi: gli psichiatri di alcuni Csm hanno fatto imporre l’amministratore di sostegno a persone autosufficienti, sicuri dell’immediato provvedimento giudiziario, che veniva emesso anche senza che in Tribunale si fossero mai visti i “beneficiari” nemmeno in fotografia. Verrà il momento in cui renderò pubblici i casi più gravi. La legge è del 2004 e fino ad adesso il sistema funzionava a pieno ritmo praticamente all’oscuro di tutti. L’inchiesta del Tuono è iniziata il 26 giugno di quest’anno. E improvvisamente spunta un’associazione, AsSostegno. Guarda un po’! Che la coraggiosa campagna del settimanale abbia toccato i sentimenti di valorose persone che insorgono per le prepotenze inflitte a chi non può difendersi? Macché. Qui siamo a Trieste, non scherziamo. È sorta praticamente l’associazione degli amministratori, in sostanza avvocati che difendono o proteggono altri avvocati. La lobby difende se stessa, un po’ come alcuni psichiatri che celebrano se stessi da quarant’anni e ci autoproclamano capitale della psichiatria con l’appoggio incondizionato e acritico dell’establishment. Hanno fatto scuola. Una delle piccole oligarchie arroganti e incapaci che spingono Trieste alla deriva e al degrado, e reclamano senza vergogna diritti parassitari. Mario, papà di Giulio al quale queste cose sono costate la vita.

- Come detto sopra, le indagini istituzionali risultano già avviate.

(Il Tuono n. 19 del 2.10.10, p.5) Abusi drammatici (16.a lettera pubblicata) Egregio Direttore, molte persone sono grate a Il Tuono, per la possibilità di far sentire la propria voce a chi è perseguitato e ignorato da tutti i mezzi di informazione. Vivo per mia disgrazia a Trieste, dove senza aver commesso nessun reato mi vengono imposte condizioni di vita disumane. Le mie disgrazie sono cominciate per aver avuto bisogno del pronto soccorso a causa del fumo prodotto dalla combustione di materiale elettrico dovuto a un cortocircuito. Inspiegabilmente sono stata portata al reparto di diagnosi e cura, cioè psichiatria, con cui non avevo niente a che fare. Di lì a poche ore venne a prelevarmi una vettura del servizio sanitario; pensavo mi accompagnassero a casa, e invece mi portarono in un Centro di salute mentale. Volevo immediatamente andarmene ma venni trattenuta con la forza. Mi dicevano che dovevano trattenermi per alcuni giorni, mi sequestrarono il telefonino e i documenti. Intimai la restituzione del telefonino, intendevo chiamare aiuto, ma loro mi fecero un’iniezione di psicofarmaci attraverso i vestiti. Mi chiedevo terrorizzata in quali mani fossi caduta. Riuscii a scappare con l’aiuto di un conoscente. Lo psichiatra R., responsabile delle violenze, comunicò al tribunale di Trieste una richiesta per assegnarmi un amministratore di sostegno; le motivazioni erano assolutamente false. Una giudice emise il provvedimento senza darmi nessuna possibilità di oppormi. Da quel momento la mia condizione di vita è di riduzione in schiavitù. Non posso disporre dei miei soldi, gestiti da estranei. Una amministratrice di sostegno, (avv. G.), l’anno scorso ha prelevato dal mio conto un importo di 1.400 euro. L’attuale amministratrice di sostegno, (avv. F.) mi “concede” una quota settimanale dei miei soldi, e devo andare ogni settimana a prelevarli in banca malgrado le mie difficili condizioni di salute e di movimento. Adesso mi ha cambiato la banca: ha scelto una che è più comoda per lei. Per piccoli problemi devo andare nel suo studio dove spesso non si fa trovare e mi fa tornare più volte. Sono angherie, perché mi è molto difficile; non ho potuto curarmi per tempo con i miei soldi perché me li tengono bloccati. Con quella cifra non ce la faccio, sono costretta a mendicare qualche pasto alla Caritas e a un’altra fondazione. Il mio medico di base, dr C., è stato convocato in tribunale dallo psichiatra R. e dalla giudice. Gli hanno ordinato cosa può e cosa non deve prescrivere a me, sua assistita. Il dr C. è rimasto sconvolto; stenta a credere che tutto questo realmente avvenga a Trieste nell’anno 2010. Sono stata alla stazione dei Carabinieri per denunciare un episodio di violenza, prima che siano passati i 90 giorni, ma mi hanno detto che essendo “seguita” dal Centro di salute mentale non posso fare denunce. lo non sono una paziente degli psichiatri, non sono seguita da nessuno, questo marchio me l’hanno messo addosso loro e in nessun modo riesco a liberarmene. Perché a Trieste possono compiere impunemente queste prepotenze? Una donna mi telefona e mi dice che verrà da me per farmi compagnia, a pagamento: 15 euro all’ora. Sono saltata su: come si permette? Chi le ha dato il mio numero di telefono? E’ stato lo psichiatra R. So che ha rovinato l’esistenza di altri innocenti. Ho chiesto di parlare con un giudice. Ma pochi giorni fa un altro psichiatra, C., dello stesso Csm, ha voluto venire a trovarmi. Mi ha chiesto: “Quando ha l’appuntamento con il giudice D.?” Sbalordita gli ho chiesto: “Chi glielo ha detto?” E lui: “Non si preoccupi”: Ma io mi preoccupo eccome! Sono come un capo di bestiame marchiato: e alle mie spalle c’è gente che segnala i miei movimenti, le mie telefonate, anche se contatto un giudice? Non voglio descriverle nei dettagli le sofferenze e la disperazione per essere sottoposta a queste prepotenze. Sopravvivo anche grazie all’aiuto di alcuni generosi amici. Il suo giornale ha dato notizia di un signore che è riuscito a liberarsi dalla schiavitù dell’amministratore di sostegno dopo anni di sopraffazioni. Anch’io sono in possesso delle perizie di integrità mentale; voglio che mi sia tolto il marchio impostomi illegalmente e con la violenza da quegli psichiatri, e rientrare immediatamente in possesso dei miei diritti umani, civili e costituzionali. E dei miei soldi. Egregio Direttore, spero che essendo resi noti tanti abusi venga fatta un’inchiesta. E che qualche avvocato onesto si renda disponibile per avviare richieste di risarcimento. A.G. (lettera firmata)

- Grazie per la fiducia nel giornale e nei suoi lettori, anche istituzionali. Provvediamo subito ad aggiungere il suo caso agli altri documentati che sono già in denuncia ed in indagine da parte delle sedi competenti. Il quadro che ne emerge conferma purtroppo tutto quanto abbiamo scritto sinora e l’estrema gravità di una situazione delle amministrazioni di sostegno che non si comprende come possa essere degenerata sino a questo punto, sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno intervenisse.

(Il Tuono n. 20 del 9.10.10, p.5) Altri abusi in segnalazione (17.a lettera pubblicata) Ho avuto l’occasione, purtroppo, di conoscere altri casi che mi sembrano di abusi avvenuti qui a Trieste nelle amministrazioni di sostegno, ma anche in almeno un caso di tutele. Se desiderate posso mandarvi le informazioni che possiedo. Pare anche che alcuni dei giovani avvocati ai quali sono state affidate le amministrazioni di sostegno ne hanno cumulate addirittura decine a testa, in tribunale ho sentito dire addirittura una cinquantina, e se come nel caso che avete citato nell’ultimo o penultimo numero si prendono 7.000 euro annui per ciascuna diventa una rendita considerevole. (lettera firmata)

- Grazie, tutte le informazioni ci saranno senz’altro utili per il seguito nella nostra inchiesta, e potremo inoltrarle come le altre anche agli Organi inquirenti.

(Il Tuono n. 21 del 16.10.10, p. 6) Un anziano ingiustamente limitato e deriso (18.a lettera pubblicata). Si dice che ognuno ha ciò che si merita: a Udine hanno il Messaggero, a Pordenone addirittura il Gazzettino, Trieste non so che colpe abbia, ma si trova un quotidiano come “IL PICCOLO”. Grande spazio è stato dato dal quotidiano giuliano allo “scandalo” della sponsorizzazione della Barcolana tipicamente friulana (vergogna, hanno finanziato un evento triestino ... che i triestini NON finanziano), dimenticandosi di quella sponsorizzazione “giusta” fatta da Gas Natural che distruggerà il golfo con il rigassificatore. Punta di diamante del quotidiano locale è stato l’articolo che è stato pubblicato il 2 ottobre a pagina 16, dal titolo “Sciopero della fame contro la pensione contingentata”. Per come è stato affrontato il caso ho inviato subito una lettera di protesta alle segnalazioni, ovviamente non presa in considerazione. Perciò, visto che il vostro settimanale è più obiettivo e non fa facile clientelismo prendendo per default la posizione di chi può fare la voce più grossa, ho pensato fosse giusto girare anche a voi la mia lettera al Piccolo: «Un giornale che si definisce il giornale di Trieste, non può abbassarsi per comodità a prendere posizione a favore “dei forti” deridendo una delle tante vittime dell’assurda legge sugli A.d.S. solo perché non ha altro mezzo per far sentire il suo dolore che col digiuno. Si parte da considerazioni tipo “... ha perso una decina dei suoi abbondanti chili...”, dove viene deriso per la sua scelta che in base a una logica propria del giornalista è stata alla fin fine utile visto che era sovrappeso; si continua spiegando che l’uomo avrebbe speso quel denaro in donnine, cioccolata e casinò, omettendo volutamente che così, invece, buona parte di tale cifra servirà per pagare il suo aguzzino e sopratutto che il denaro che lui scialacquava (secondo il giornalista) o spendeva per rendere meno triste la sua vita seguendo i suoi desideri, è denaro che gli viene dato con una pensione frutto del suo lavoro; si finisce paragonando il poverino ad un matto di un film di Fellini, dimenticandosi che è una persona in carne ed ossa con i suoi disagi reali nettamente peggiorati dalla sentenza del tribunale di Trieste. Sono figlio di due persone che hanno avuto purtroppo lo stesso trattamento: senza che lo volessero si sono trovate da un giorno all’altro uccise giuridicamente da una giudice che ha imposto loro un padrone che può usarle e disporre dei loro beni come vuole. In poco tempo i loro risparmi messi via in una vita di lavoro sono stati bruciati mentre si è iniziato a svendere a prezzi ridicoli i loro cespiti e sono state fatte spese folli all’infuori di ogni logica di mercato (ad esempio per la pulizia della casa a circa 1000 euro al mese per due ore al giorno, per far fare la dichiarazione dei redditi è stato assunto un commercialista quando bastavano i sindacati, ...). Certo mi si dirà che è stato fatto per il loro bene e per dare loro una vita più dignitosa, ma mi si spieghi dove sta la dignità se dopo anni di lavoro, devono vivere in due con 600 euro chiedendo razioni di cibo alle parrocchie o aiuti a me perché non arrivano a fine mese, mentre il loro aguzzino dopo sei mesi si è già iniziato ad arricchire con i “premi” trattenuti dai loro risparmi con tanto di approvazione della giudice che gli ha dato la procura di amministrarli.» Do la mia massima solidarietà al pensionato vittima dell’articolo e sono pronto ad aiutare chiunque si trovi in quella situazione o rischi di finirci, visto la mia esperienza (imposta) dove io stesso ho dovuto affrontare un udienza per essere interdetto e dove per salvarmi ho dovuto spendere alcune migliaia di euro tra avvocato e perizie mediche. Franz Rizzi

- Condividiamo la solidarietà al pensionato e a tutte le vittime di queste distorsioni del sistema delle amministrazioni di sostegno e delle altre assistenze alle persone in difficoltà. Come vedete, la nostra battaglia in loro aiuto continua.

(Il Tuono, n. 25 del 13.11.2010, p. 3) UNA SENTENZA RECENTISSIMA A TUTELA DEI SOGGETTI PIÙ DEBOLI, SOPRATTUTTO ANZIANI Trattamento sanitario obbligatorio: il sindaco risponde civilmente e penalmente degli abusi Criteri che si estendono agli abusi nell’imposizione di amministratori di sostegno. Come i lettori dei nostri numeri precedenti già sanno, a Trieste si è verificata una serie rilevante di abusi dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno. Alcuni dei casi meglio documentati sono oggetto da tempo di denunce ed indagini giudiziarie, oltre che delle nostre indagini giornalistiche (mentre il resto della stampa locale li ha sinora coperti: ci asteniamo da commenti). Secondo legge l’amministrazione di sostegno dovrebbe sostituire, in forma blanda, amichevole e collaborativa l’interdizione e la curatela di persone che non siano in grado di provvedere alla cura di se stesse e dei propri beni. A Trieste invece vi risulta esser stato imprudentemente sottoposto un numero abnorme e crescente di persone, in particolare anziane ed anche autosufficienti, o loro parenti che protestavano, sottoponendole a regimi di privazione delle libertà morali e materiali duri quanto quelli dell’interdizione ma senza le sue garanzie di legge. Con affidamento degli incarichi per lo più a giovani avvocati o praticanti, e vendite a conduzioni discutibili o dannose di beni degli amministrati. Creando così una specie di industria anomala delle tutele in una città dove sono particolarmente elevati sia il numero degli anziani che vi sono esposti, sia quello dei giovani avvocati e praticanti senza lavoro. Sul che abbiamo già preannunciato una nostra inchiesta complessiva, dopo avere pubblicato denunce documentate di alcuni casi eclatanti. Considerando inoltre che per parte dei casi già in indagine l’imposizione dell’amministratore di sostegno risulta avvenuta partendo da un T.s.o., il Trattamento sanitario obbligatorio ordinato dal sindaco. Che cos’è il Trattamento sanitario obbligatorio L’ordinamento italiano (leggi 180/1978. 833/78 artt. 33-35) consente infatti che in casi di particolare urgenza e necessità, su ordine del sindaco dietro richiesta motivata di un medico, una persona ritenuta o dichiarata malata di mente possa venire con la forza pubblica prelevata, ricoverata per sette giorni prolungabili e sottoposta a dei trattamenti sanitari che essa rifiuta o sono altrimenti impossibili. Sono norme che hanno sostituito il vecchio ricovero coatto di difesa sociale (legge 36/1904), privilegiando invece formalmente la salute della persona debole. Ma nella pratica è cambiato ben poco, e gli abusi non sono difficili se il sindaco firma l’ordinanza di T.S.O. dando corso automatico alla richiesta medica, senza esercitare doverosamente tutti controlli sulla sussistenza effettiva delle condizioni di legge. Tanto più necessari per un atto che priva, anche temporaneamente, la persona di libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Quest’automaticità, che risulta purtroppo e pericolosamente prassi ordinaria quasi dappertutto, risulta qui documentata anche nei casi sopra detti. Come abbiamo già scritto mettendone in evidenza le responsabilità morali, civili e penali, senza che i sindaci ed il servizio sanitario pubblico della provincia di Trieste mostrassero di prenderne nota. Ma ora dovranno farlo, e subito. Una sentenza chiarificatrice recentissima È intervenuta infatti una sentenza chiarificatrice recentissima del Tribunale di Pordenone (n. 893/10, depositata il 21 ottobre) in una causa civile di risarcimento promossa da una danneggiata, ex infermiera, col patrocinio del capace e tenace avvocato pordenonese Gianni Massanzana. Che ha ottenuto la condanna del sindaco sospeso di Azzano Decimo, Enzo Bortolotto, e del Ministero della Salute a rifondere i danni – impregiudicate le conseguenze penali – per avere nel 2005 il sindaco emesso, e due psichiatri dell’Ospedale di Sacile richiesto, un’ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio senza che ve ne fossero i presupposti di legge. Massanzana aveva già ottenuto nel 2005 dallo stesso Tribunale l’annullamento tempestivo dell’ordinanza per difetto di motivazione, liberando così in soli 17 giorni la persona indebitamente trattenuta in ospedale con la forza. Su richiesta dei due psichiatri ed ordine del sindaco, era stata infatti prelevata da casa coi carabinieri e tradotta – di fatto reclusa – nel reparto psichiatrico dell’ospedale. Il tutto senza nemmeno visita medica ed in relazione ad una controversia coi vicini di casa (la vicenda è simile ad una triestina di cui abbiamo pubblicato recentemente la denuncia, e che è prossima in questi giorni a decisione liberatoria del Tribunale di Trieste). La sentenza di Pordenone chiarisce in particolare che “il provvedimento disponente il trattamento sanitario obbligatorio costituisce un provvedimento restrittivo della libertà personale e pertanto necessita di una puntuale motivazione”, per la quale non sono sufficienti il richiamo stereotipato alle norme di legge e la dichiarazione dell’esistenza di un disagio psichico senza fornire riferimenti precisi al caso concreto (da parte dei medici richiedenti: anamnesi ed esatta documentazione delle sintomatologìe, degli accertamenti sanitari specifici effettuati e dell’impossibilità di alternative). Il giudice sottolinea infatti che la legge vieta che il Trattamento sanitario obbligatorio venga disposto in presenza di tali carenze di motivazione, senza accertamenti medici nell’immediatezza della proposta, e che esso venga proposto e convalidato senza che la persona sia stata posta nelle condizioni di scegliere terapie alternative. E rileva che pertanto “il Sindaco, nell’emettere il provvedimento, è tenuto a verificare che dalla certificazione medica allegata risultino tutti i requisiti previsti dalla legge, nell’ambito dell’esercizio di un controllo non solo formale che si limita ad un mero richiamo delle attestazioni sanitarie” le quali altrimenti costituiscono mera motivazione apparente (come tale insufficiente, illegittima ed illecita). Quanto alla valutazione dei danni, vengono considerati “l’impatto del trattamento sofferto, come soggettivamente percepito, e il discredito che il T.s.o. socialmente provocò sulla sfera della dignità” della persona ingiustamente colpita, tenendo conto anche “della durata del trattamento sanitario obbligatorio, delle modalità della restrizione e degli altri effetti pregiudizievoli personali e familiari scaturiti dalla misura”. E si precisa che la lesione della sfera soggettiva consiste nella “privazione del diritto, costituzionalmente garantito, di scegliere o meno di sottoporsi ad un trattamento sanitario”. Il valore della sentenza Si tratta dunque di una pronuncia fondamentale per difendere una quantità di persone, soprattutto anziane, esposte in situazioni deboli ad analoghi, frequenti abusi del T.s.o. Ma anche per difenderle da imposizioni di amministratori di sostegno arbitrarie perché fondate su T.s.o immotivati, o su richieste mediche analogamente carenti. Dato che le Autorità giudiziarie competenti, quella tutelare ed il pubblico ministero, hanno anch’esse, per i medesimi motivi ed a maggior ragione, il dovere di verificarne non solo formalmente le motivazioni, sia in atti che con adeguati riscontri peritali ed in contraddittorio. Come invece al Tribunale Trieste risulta purtroppo non sempre accaduto, anche se abbiamo motivo di ritenere che da alcuni mesi si stia operando per ricondurre questa situazione incresciosa sui giusti binari. P.G.P

(Il Tuono n. 28 del 4.12.10, p. 7) L’amministratrice non mi ha ancora dato i soldi per le cure necessarie (19.a lettera pubblicata). In data 21 novembre sono stata presa da un malore e il giorno 23 portata all’ospedale di Cattinara dove mi sono stati diagnosticati: uno scompenso cardiaco, dolori addominali causati da cisti pancreatiche e tra l’altro un’iperglicemia dovuta a diabete. Ho rifiutato il ricovero, anche seguendo i consigli di alcuni medici, poiché desidero farmi curare presso la clinica privata Salus. Mi sono stati prescritti alcuni prelievi del sangue per il controllo frequente della glicemia e altri disturbi, ma la mia amministratrice di sostegno la dottoressa Barbara Fontanot non mi ha ancora dato i MIEI soldi spettanti per le cure prescritte. Chiedo ai lettori di questo giornale sempre pronto a dare voce ai bisognosi se i miei soldi sono stati immobilizzati per pagarmi le esequie quando le mie malattie degenereranno. Alba Giacomelli

L’amministratore scialacqua i nostri soldi e li lesina a noi (20.a lettera pubblicata). Mio marito ha assunto una ragazza universitaria che si era offerta come pulitrice a un prezzo molto minore di quelle della cooperativa scelta dal nostro amministratore di sostegno che, invece, ha deciso di sua volontà di licenziare la ragazza senza pagarle (con i nostri soldi che lui ha bloccato e amministra a suo piacere) il periodo che ha lavorato, costringendo mio marito a pagarla togliendo il dovuto dai 600 euro mensili in due che riceviamo da lui come disponibilità per le nostre spese e per il cibo rimanendo così con più o meno 400 euro per mangiare, pulizia e vestiti. Ora considerando che questo mese ha 30 giorni questo significherebbe che ognuno di noi due si dovrebbe pagare i due pasti giornalieri e le spese ordinarie con 6,60 euro al giorno circa, cosa quasi impossibile. Visto che prima dell’arrivo dell’amministratore di sostegno percepivamo circa 2.450 euro di pensione in due al mese, chiederei che almeno paghi lui con i nostri soldi la pulitrice senza costringerci a pagarla noi con i miseri 600 euro che ci vengono dati per vivere in due al mese. Gradirei che inoltre agisse tenendo conto delle nostre volontà e non di testa sua come se fosse diventato non l’amministratore ma il padrone di tutto. Anche se siamo una coppia di pensionati autosufficienti e abitiamo in un appartamento di circa 100 metri quadrati, ciononostante il nostro amministratore di sostegno ha deciso di aumentare le ore della pulizia giornaliera da due a sei (per sei giorni alla settimana), mettendoci in conto tale costo assurdo. Già dal terzo giorno ci siamo trovati davanti al problema di non aver più niente da far fare alla ragazza costretta a stare a casa nostra a bruciare il suo tempo sicuramente più prezioso altrove. Un altro problema è dato dalla presenza di un’estranea a casa nostra che non ci permette né di uscire né di riposare a nostro piacimento. Alle nostre lamentele l’amministratore è riuscito a risponderci solo dandoci un foglio con gli orari delle pulizie fino a tutto marzo. Il nostro reale fabbisogno è di due ore al giorno di pulizie più un’ora per eventualmente aiutarci a fare la spesa. Vorremmo sapere fino a quando continuerà questo assurdo sistema che porta il nostro amministratore a fare di noi ciò che vuole indipendentemente dalla nostra volontà e a disporre, scialacquando, dei nostri beni. Silvia Marasso Rizzi

- Queste sono soltanto due delle lettere che ci segnalano disfunzioni o abusi gravi e documentati nella gestione delle amministrazioni di sostegno a Trieste. Come già scritto, sono in corso indagini delle sedi giudiziarie competenti. Ed almeno questo dovrebbe consigliare i responsabili a comportamenti più consoni al mandato giudiziale che esercitano.

(Il Tuono n. 31 del 25.12.10, prima pagina e p. 4) TRIESTE: APPELLO-DENUNCIA DOCUMENTATO DELLA RETE PER LA LEGALITÀ Accertamenti sul sequestro istituzionale di una bambina Vicenda a assurda e straziante su cui è intervenuta anche Margherita Hack. Abbiamo ricevuto dalle organizzazioni firmatarie quest’appello-denuncia pubblico, che per i suoi contenuti pubblichiamo doverosamente integrale e con priorità assoluta, associandoci alla loro richiesta di indagini e provvedimenti immediati da parte di tutte le Autorità competenti. La scorsa settimana Il Tuono ha dedicato due pagine centrali ai minori: “L’Unicef a Trieste” e “ANFAA (Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie) al servizio dei minori”. “In un riquadro compare anche un dato numerico: “Sono 2.000 i minori seguiti dai servizi sociali di Trieste”. Molti penseranno alla meritoria opera dei servizi sociali sul nostro territorio. Altri magari conoscono i dati Istat sull’argomento, e possono trovare poco lusinghiero sapere che a Trieste la percentuale del numero di minori affidati alle istituzioni è quasi pari a quello di tutta l’Italia: (246,5 su 263,6 ogni 100 mila abitanti). Altri ancora, infine, possono trovare preoccupante l’informazione conoscendo aspetti sconvolgenti di alcune sottrazioni di minori, bambini, ai genitori, e della sorte che può essere loro riservata. Riteniamo perciò doveroso denunciarne un caso limite, salvaguardando l’identità dei protagonisti con l’evitare qualsiasi dato che possa farli identificare dal pubblico, anche se sono ovviamente ben noti ai responsabili della vicenda. Dalla serenità all’orrore Una mamma ed un papà in attesa di una bambina decidono di preparare una casa che sia la più adatta per farla crescere sana e serena, vicino al mare, in zona tranquilla. Genitori ideali, ambiente ideale. Tanto affetto e tanta salute, la bambina nasce felicemente e cresce che è un incanto. Ma ad otto mesi, ancora in allattamento al seno, succede un’apocalisse: mamma e bambina con un pretesto vengono praticamente sequestrate. Da chi? Da uno psicologo coadiuvato dai vigili urbani. Il marito ignaro viene informato con una telefonata sul lavoro e si precipita dove trattengono la moglie e la figlia. Un ambiente che ospita madri in condizioni di disagio. A sera rimandano ambedue i genitori a casa, ma trattengono la bambina, chiudono le porte e nessuno risponde alle loro suppliche disperate. Ed inizia una tremenda via crucis. Dopo due giorni richiamano urgentemente la mamma perché la bambina, che si nutriva solo al seno, sta morendo di fame. Internano così la mamma e la bambina, portate via dalla loro bella casa, in uno di quei tuguri di cui le istituzioni dispongono. Il marito e sua madre cercano di alleviare le condizioni della mamma della bambina che deve allattare, ma non è nemmeno permesso consegnarle cibi e bevande. Intanto alla mamma i responsabili vogliono però imporre psicofarmaci, nonostante l’allattamento. Poco dopo viene interdetta e allontanata dalla figlia. Anche il papà perde la patria potestà. Perché? Vogliono obbligarlo a riconoscere che la moglie è gravemente malata, ma lui non vuole e non può farlo perché non è vero. Numerosi soci del nostro Comitato triestino per la legalità ed i diritti fondamentali, ed altre persone amiche, compresa Margherita Hack, sono a conoscenza delle successive vicende che hanno privato la bambina del bene supremo dei genitori, della famiglia e della casa in quest’età tenerissima. Non si sa invece quali e quante persone estranee si sono intanto avvicendate nella cura di questa bambina, in che modo e con quali conseguenze su di lei. È da tre anni che i genitori, costretti dapprima a brevi visite cosiddette protette alla figlia, in presenza di persone per lo più sconosciute in ambienti estranei alla famiglia, non possono vedere la loro piccola, che cresce senza di loro. Anche alla nonna è stato vietato di esercitare il naturale rapporto affettivo con la nipotina. Non risultano motivazioni valide. Ma nel leggere gli atti relativi del Tribunale di Trieste si ha l’impressione che ci sia soltanto un mostruoso equivoco kafkiano, e che non si tratti nemmeno delle persone che conosciamo. Chiunque conosce i genitori della bambina non può infatti riconoscerli nelle descrizioni fornite dai servizi sociali e riportate nei documenti del Tribunale. È insensato trovare in quella mamma e in quel papà carenze affettive, o addirittura difficoltà economiche. E chi li conosce non può credere a una qualsiasi forma di pericolosità conoscendone l’attitudine affettiva ed ai normali rapporti con le persone, l’intelligenza e il buon livello di cultura, la buona educazione, la gentilezza delle maniere. Non c’è inoltre negli atti alcuna documentazione medica tale che possa giustificare questi provvedimenti di natura eccezionale e di estrema gravità, soprattutto per le conseguenze già subite dalla bambina e tuttora in atto, ma anche da tutta la famiglia. Negli atti le descrizioni della supposta malattia della mamma della bambina non risultano supportate da niente, se non da chiacchiere di persone sprovvedute senza alcuna qualifica o da uno psicologo e da una assistente sociale, nessuno dei quali è abilitato a diagnosticare patologie, e nemmeno a svolgere attività mediche. Sembrano piuttosto maldicenze paesane espresse con parole assunte da letture mal digerite di vecchi testi di psicologia. Mentre, all’esatto contrario, la madre della bambina è stata riconosciuta mentalmente integra da un’importante specialista della nostra regione, che ha raccomandato l’immediato ricongiungimento della bambina alla mamma. Perché per quei nostri magistrati, a fronte dei suddetti pareri non specialistici tuttavìa accreditati, perizie specialistiche favorevoli sembrano non avere invece valore, o quantomeno non hanno avuto seguito adeguato e tempestivo? Solo uno psichiatra di un discusso Centro di salute mentale risulta avere avuto un ruolo decisivo nello screditare la mamma della bambina. Ma è entrato in scena solo una settimana dopo il sequestro, cioè a fatto compiuto. Gli è stato poi richiesto più volte di stendere una diagnosi, ma non l’ha mai fatta. Ed ha infine rifiutato ogni responsabilità dicendo alla mamma di rivolgersi ai Servizi sociali. Una spirale d’inferno. Cosa che la signora ha fatto. Ma l’assistente sociale la cui azione ha causato tutto ha risposto che le decisioni le prendono i magistrati. Ed i magistrati? Le hanno detto che loro si basano sulle relazioni dei servizi sociali. In una vera spirale assurda d’inferno, dunque, tanto più inammissibile sulla pelle di una bambina piccolissima e dei suoi genitori, cui viene così impedito di essere una famiglia sana e normale. Ed intanto sono passati quattro anni! Cosa è successo in quattro anni, mentre la bambina cresce privata forzosamente dei suoi genitori? Avvocati, psicologi, i quiz degli psicologi, udienze in tribunale. Finché, nel giugno 2009, la Cassazione annulla e fa rifare tutto: uno schiaffo clamoroso al Tribunale, come ci ha spiegato un insigne giurista. La bambina viene allora restituita subito alla mamma? No, riprende il girone infernale: gli psicologi, i quiz, gli avvocati, le udienze in tribunale. E per quale reato imputabile? Nessuno. Eppure dopo l’intervento della Cassazione i genitori sono stati convocati già quattro volte dal Tribunale, che è anche stracarico di lavoro, sicché ad ogni rimescolamento delle carte può passare un anno, nessuno sa più bene di cosa si tratta e, ancora peggio, nessuno sa più nemmeno dove si trova la bambina. Sembra non interessi davvero a nessuno: discutono sulle loro carte. Quei bravissimi genitori avevano preparato una casa fuori città, sul mare, per quella figlia desiderata ed amatissima. Finiranno col dover vendere la casa per pagare gli avvocati, e con l’ammalarsi e morire di dolore. Cosa hanno dunque che non va? Niente: non c’è nessuna diagnosi se non a loro favore, non c’è niente; ma avevano persino costretto la mamma a psicofarmaci, e volevano farglieli assumere anche in allattamento.

L’indifferenza dei corresponsabili. Un anno fa in un convegno pubblico sui diritti dei minori il presidente del Tribunale dei minori non ha permesso che si toccasse questo caso: “C’è un procedimento in corso”. Che vuol dire? Non si deve intervenire proprio quando un procedimento è in corso? O bisogna attendere inerti che si compiano errori giudiziari così nocivi e mostruosi? Occorrerebbe piuttosto spiegare a noi comuni mortali perché una bambina piccolissima, negli anni formativi più delicati e bisognosi di affetto, cure e sicurezze da parte dei genitori, può essere condannata ingiustamente all’ergastolo dell’esserne privata, sequestrandola e recludendola altrove in mano ad estranei, e perché dei genitori possono essere condannati ingiustamente al supplizio atroce della sottrazione della figlia così piccola, e nessuno dovrebbe dire una parola. Al convegno pubblico c’erano anche due persone “targate” Unicef, contattate sul posto, ma si sono allontanate senza mostrare alcun interesse. C’è un tutore regionale dei minori, che era anche presidente del consiglio regionale. Ma non risponde. Eppure anche lui partecipava agli eventi pubblici sui diritti dei minori. Mentre la sempre coraggiosa Margherita Hack, che conosce bene il papà della bambina ed i fatti, ha lanciato un appello in video che si trova su Youtube ed in Aipsimed. È già passato più di un anno, in cui le televisioni si sono contese la presenza di Margherita, ma non per questo caso. Lo strazio della piccola, le conseguenze psicologiche che ne può derivare nell’età formativa più delicata, e quello dei suoi genitori, pare continuino dunque a non interessare, incredibilmente, a nessuno, nemmeno a chi ha l’autorità ed il dovere di rimediare. Bambina e genitori vengono trattati, di fatto e da anni, come se fossero pratiche cartacee, cose inerti, peggio che animali. Eppure è una vicenda ormai nota, ed alcuni “addetti ai lavori” ne parlavano in giro già negli anni passati. Anche il celebre pediatra Andolina sa tutto da anni, ma sembra avere maggiore interesse, ovviamente lodevole, per i bambini e genitori di altri Paesi che per questi di casa nostra. Sanno tutto anche il Sindaco, massima autorità sanitaria del Comune della provincia di Trieste dove la vicenda si svolge, ed i consiglieri comunali. Ma cosa fanno per aiutare la bambina ed i genitori? E cosa fanno le autorità sanitarie regionali? E quelle di controllo e mediazione dello Stato, rappresentate dal Prefetto? Questa è una denuncia pubblica. Alcuni soci del nostro Comitato per la Legalità ed i Diritti Fondamentali si occupano invece da tempo del caso e ritengono, alla luce obiettiva dei fatti a loro conoscenza e dei documenti esaminati, che si tratti di una situazione scandalosa, delittuosa ed intollerabile dal punto di vista umano, ed inammissibile da quello medico e giudiziario. Chiedono perciò tramite questo giornale, con valore di pubblico esposto, l’intervento immediato di tutte le Autorità competenti ad accertare quanto più rapidamente, attraverso l’esame degli stessi atti giudiziari, la verità dei fatti qui segnalati. E chiedono ad esse di prendere doverosamente di conseguenza i necessari provvedimenti tempestivi, disponendo per prima cosa l’immediata riconsegna della bambina ai genitori. Proprio questi giorni tante famiglie amano allestire il presepe con la figura centrale del Bambino, frequentare le funzioni religiose del Natale, o comunque dedicarsi maggiormente agli affetti familiari ed a buoni pensieri ed azioni, mentre chi non ha la fortuna di poter vivere queste atmosfere e sentimenti ne sente più vivo il bisogno o la nostalgìa. Noi denunciamo quindi pubblicamente anche alla sensibilità di tutti loro questo caso straziante, invitando tutte le persone di cuore alla solidarietà con la bambina così ingiustamente sottratta ancora neonata alla famiglia, che presto farà cinque anni senza che le abbiano mai concesso di trascorrere un Natale con la mamma e il papà. E sta addirittura rischiando di esserne privata definitivamente nonostante tutti i loro sforzi e le loro sofferenze per riaverla con sé secondo amore, natura e giustizia. Rete per la Legalità e per i Diritti fondamentali: Comitato per la Legalità Trieste Extreme Democratic Appeal Greenaction Transnational DI.A.PSI.- Roma Associazione Mondiale Amici, Familiari e Malati Mentali (fondata a Rio de Janeiro) Associazione Nazionale Pensionati - sezione di Trieste

[Nota della Voce di Trieste: il successivo numero 32 del settimanale Il Tuono non potè uscire perché il 7 gennaio 2012 l’editore, Daniele Pertot, ne bloccò d’imperio la stampa e ne cessò le pubblicazioni come giornale d’inchiesta, espellendo direttore e redazione. I quali hanno perciò fondato autonomamente La Voce di Trieste come giornale d’inchiesta indipendente, prima soltanto in rete e poi anche come periodico quindicinale a stampa, dove hanno ripreso questa e le altre campagna d’informazione e denuncia.]

Voce n. 8, 22 giugno 2012, pp 1 e 3. Allarme anziani sulle amministrazioni di sostegno: indagini in corso Denunciati abusi e gravi sofferenze degli assistiti. L’anno scorso ha fatto scandalo anche a livello nazionale ed all’estero il caso dell’abbandono di alcuni cavalli da corsa nelle scuderie dell’ippodromo di Trieste in condizioni di degrado ed inedia tali che uno ne era morto. La proprietaria avrebbe smesso di pagarne il mantenimento all’addetto che avrebbe perciò cessato di prendersene cura, e nessuno di coloro che da mesi vedevano o sapevano è intervenuto tempestivamente. Sulla stampa era poi comparsa la notizia la Procura avrebbe iscritto proprietaria ed addetto nel registro degli indagati. Ed il caso si sarebbe chiuso lì, a livello di cronaca, se non avesse mostrato implicazioni diverse e ben più ampie. Domande senza risposta alla Procura Era pure, infatti, notizia pubblica che i beni della proprietaria, cavalli inclusi, erano affidati ad un amministratore. Che come tale ne disponeva lui, rispondendone civilmente e penalmente. E se non era nominato dalla proprietaria, ma imposto dal Tribunale come amministratore “di sostegno” aveva anche il ruolo e gli obblighi (in caso di reati le aggravanti) del pubblico ufficiale, ed il suo operato era assoggettato ai controlli di legge da parte degli stessi Tribunale e Procura, che vi hanno perciò delle corresponsabilità. Le domande d’interesse pubblico che ponemmo quindi doverosamente come giornalisti non furono sulla sorte ormai definita dei poveri cavalli, ma se l’amministratore in questione fosse ordinario o giudiziario, se la Procura abbia provveduto ad iscrivere tra gli indagati anche lui, ed in caso contrario perché no. Non avendo però accesso diretto agli atti relativi fummo costretti a rivolgerle alla Procura stessa, rimettendoci alle risposte che avrebbe ritenuto o meno di poter dare. Ma non ne arrivò mai nessuna. Chi era l’amministratore La legittimità delle nostre domande venne rafforzata dall’avvenuta pubblicazione del nome dell’amministratore, che risultò essere una commercialista e figura chiave notoria dell’organizzazione degli amministratori di sostegno a Trieste, e cofondatrice, nonché dirigente dell’apposita associazione “AsSostegno” assieme a Paolo Cendon, padre della legge specifica, alla giudice ‘specializzata’ Gloria Carlesso e ad altri dodici operatori del settore. E non si trattava di questione di poco conto, perché l’istituto dell’amministrazione di sostegno è nato proprio a Trieste, dove ne sono stati anche segnalati e denunciati abusi gravi proprio durante l’ora cessata gestione Carlesso. Sui quali sono in corso dal 2010 indagini di sedi giudiziarie esterne, e noi siamo stati sinora i soli ad avviare, col precedente settimanale a stampa, una delle nostre campagne d’inchiesta giornalistiche scomode, poi troncata improvvisamente dall’editore con la sospensione e l’azzeramento del giornale. Gli abusi nelle amministrazioni di sostegno Anche il caso paradossale dei cavalli poteva dunque inserirsi nello schema specifico già individuato su basi documentali attraverso le nostre tranches d’indagine precedenti. In sintesi, l’amministrazione di sostegno è nata per evitare la privazione radicale di diritti civili che si verifica nell’interdizione e nella curatela, assegnando invece alla persona in difficoltà non gravi un ‘consigliere’ che la assista nelle scelte amministrative. Ma per far funzionare correttamente e sotto controllo un istituto di tale delicatezza occorrerebbe dotarlo di una quantità di magistrati, funzionari ed amministratori con attitudini e formazione specialistica adeguate. Invece il tutto è stato scaricato, come al solito utopisticamente, su strutture giudiziarie sotto organico e già sovraccariche di lavoro, riducendo formazione e valutazione attitudinale a corsi palesemente insufficienti. E così, nel concreto, a Trieste oltre ad una proliferazione esorbitante di amministrazioni di sostegno risulta essersene innescata una serie particolare: decise su richiesta di operatori sanitari senza controperizia, sottoponendo gli amministrati a privazioni dei diritti civili simili a quelle dell’interdizione ma senza le sue garanzie di legge, ed affidandoli abitualmente ad un gruppo particolare di giovani praticanti, neoavvocati e commercialisti, pagati con compensi non irrilevanti prelevati dalle risorse economiche dei loro stessi assistiti. Ed appoggiati dal solito quotidiano locale Il Piccolo. Una sorta di piccola industria della tutela, in crescita rapida che secondo dichiarazioni entusiastiche dei promotori (la predetta giudice Carlesso) dovrebbe raggiungere addirittura i 25.000 amministrati solo a Trieste. Il 13% della popolazione dunque, e circa metà degli anziani. Per i quali l’allarme è perciò concreto e sempre più diffuso, portando in luce situazioni veramente abnormi. Nei casi d’abuso documentati e già denunciati che abbiamo esaminato risulta persino che proteste ed opposizioni di parenti siano state neutralizzate imponendo anche a loro un amministratore di sostegno (anche lo stesso), e che i periti indipendenti e persino l’amministratore e la giudice responsabili ne abbiano riconosciuta e dichiarata infine immotivata ab origine l’imposizione. Ne possiamo anche pubblicare i documenti qui a stampa ed in rete. E questo non accade a chi non possiede nulla, ma a persone che hanno qualche immobile o rendita anche modesta, e nel frattempo si sono trovate espropriate d’imperio e per anni del diritto di disporre dei propri denari, beni, e addirittura della corrispondenza, e ridotte a vivere con somme insufficienti anche per mangiare, mentre loro immobili venivano spesso venduti contro la loro volontà, a trattativa privata e prezzi discutibili, senza stima né asta giudiziali. Un incubo, insomma, ed una violenza concreta imposti sistematicamente soprattutto a persone anziane o comunque in difficoltà a difendersi, spesso terrorizzate dal potere dell’amministratore e dal timore del Tribunale. Ed è anche un pericolo che rimane incombente su moltissime altre come loro, se non si chiedono pubblicamente e con energìa agli organi giudiziari revisioni e correzioni di criteri concrete e tempestive. Delle quali non abbiamo purtroppo ancora notizia malgrado le nostre precedenti inchieste e denunce stampa dal giugno scorso. Stiamo perciò preparando la pubblicazione di un’inchiesta più completa e dettagliata. E non rimarremo più in attesa delle risposte istituzionali richieste. Paolo G. Parovel

Voce n. 9 – 14 luglio 2012, pp. 1 e 3. TROPPI TABÙ MEDICO-SOCIALI E GIURIDICI SUGLI ABUSI. Psichiatria giudiziaria, tutele e amministrazioni di sostegno Dove sta il nucleo del problema e come difendersi. Le drammatiche violazioni di diritti umani che, come abbiamo segnalato sullo scorso numero della Voce, vengono segnalate in buona parte d’Italia, ed in particolare a Trieste, nell’applicazione delle norme sull’amministrazione di sostegno non spuntano dal nulla. L’impianto giuridico imperfetto di questo strumento ed i suoi abusi sono infatti la conseguenza più recente di alcune distorsioni della gestione pubblica della sanità mentale vistose ma sottaciute, che stanno vanificando significati ed esiti della vantata riforma della psichiatria pubblica. Quella avviata negli dalla fine degli anni ‘70 a Gorizia e Trieste da Franco Basaglia e dal suo staff proprio in nome dei diritti umani e delle libertà fondamentali, e recepita perciò a modello anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. La riforma, concretata con la leggequadro n.180 del 1978, aveva imposto la chiusura dei manicomi, regolamentato il trattamento sanitario obbligatorio su ordinanza del sindaco con vaglio successivo del giudice tutelare, ed istituito i servizi di igiene mentale territoriali. Doveva garantire, in sostanza: il diritto ad assistenze e cure psichiatriche nel rispetto della personalità e della dignità umane; il diritto alla libertà delle persone prima rinchiuse senza motivi o necessità clinici in strutture psichiatriche di concezione carceraria; l’assistenza medica e sociale esterna del disagio psichico compatibile; l’intervento sulle cause sociali di disagio psichico. Ma non tutto funziona come dovrebbe, anche a fronte di successi indubitabili, e sui problemi più gravi si è instaurata purtroppo una sorta di tabù per cui non si dovrebbe scriverne né parlarne ufficialmente per non danneggiare la riforma stessa. A Trieste è accaduto di recente che ad un incontro pubblico sostanzialmente celebrativo un dissidente intervenuto nel dibattito con ottime ragioni, anche se con toni comprensibilmente accesi, è stato letteralmente e brutalmente zittito ed espulso. Sono dunque questi questi comportamenti censori repressivi a minacciare i significati positivi della riforma, accentuandone quelli negativi a spese delle non poche persone che ne sono vittime. Il tabù va quindi, terapeuticamente per tutti, spezzato. Senza estremismi, ma anche senza compromessi ruffiani. Teoria e pratica Il limite attuativo degli schemi astratti è sempre quello dei mezzi pratici, delle debolezze umane e delle cognizioni scientifiche, e sotto questo aspetto la psichiatria è per sua stessa natura la disciplina medica più empirica, disordinata, incerta e confusa. A fronte dei risultati positivi si producono perciò anche fallimenti e distorsioni. Come quando la denuncia della vecchia psichiatrizzazione ideologica del disagio sociale viene rovesciata ed estremizzata in negazione ideologica altrettanto assurda delle patologie cliniche, e nella loro conseguente non-cura. Sostituendo perciò sistematicamente l’abominevole contenzione fisica con la sedazione farmacologica (‘camicia di forza chimica’) e trascurando la necessaria psicoterapia personalizzata fatta di competenza, attenzione, empatia e parola. E rilasciando in queste condizioni anche di malati psichici gravi e realmente pericolosi a sé ed agli altri, con esiti non meno dolorosi e delittuosi di quelli della reclusione manicomiale. La fabbrica dei pazienti-clienti Le nuove strutture esterne della sanità mentale hanno finito inoltre per manifestare la tendenza ad arrogarsi il diritto di psichiatrizzare la società per intero condizionandovi, giudicando e controllando le scelte individuali e collettive di vita e di pensiero delle persone secondo un nuovo relativismo vincolato alla sperimentazione psichiatrica. E trattando come disagio mentale anche le difficoltà ed oscillazioni normali della vita psichica e spirituale quotidiana con le quali ognuno deve imparare a confrontarsi per trarne forza ed esperienza di vita. Il risultato é quello di deresponsabilizzare la persona agganciandola ad una dipendenza pseudo-psichiatrica istituzionalizzata e consolidata con l’assuefazione a sedativi, in un ciclo perverso dove la struttura si espande e giustifica nella società creandosi gli assistiti, assorbe denaro pubblico in proporzione ed utilizza quest’accumulo di potere economico ed elettorale per ottenere protezioni politiche, mediatiche, giudiziarie. E per costruire attraverso di esse un meccanismo sociale di repressione delle critiche. Autoalimentandosi, in sostanza, come una fabbrica di pazienti-clienti psichiatrici che così tradisce in concreto tutti gli ideali e le aspettative della riforma di cui continua ad ammantarsi. Ideologizzazioni dannose Nel concreto politico italiano è accaduto inoltre che l’ideologizzazione iniziale a sinistra della riforma psichiatrica, nei climi estremizzanti degli anni Sessanta e Settanta, le abbia scatenato contro le ostilità della destra. Generando a tutt’oggi diatribe irresponsabili fra una sinistra che santifica il sistema rifiutando di ammetterne i troppi difetti, ed una destra che lo demonizza rifiutando di ammetterne i molti successi. E praticando così ambedue uno sfruttamento politico rispettivamente dei voti dei beneficati e delle vittime, che al livello reale delle persone in difficoltà danneggia tutti senza risolvere nulla. Occorre quindi ritornare direttamente all’essenza del problema, che rimane quella fondamentale del rispetto dei diritti umani L’essenza del problema è il diritto di difesa Tutti sanno che nel caso di sospetta commissione di reati non è lecito ritenere colpevole la persona e punirla con limitazioni durevoli del diritto a disporre della propria vita e dei propri beni se e finché la colpevolezza non sia definitivamente provata attraverso equo giudizio. E che per essere equo il giudizio deve offrire anzitutto in ogni sua sede e grado piene garanzie di difesa e di terzietà dei giudici. Ad analoga e maggior ragione dunque in uno Stato di diritto non si deve poter decretare la privazione giudiziaria di quei diritti fondamentali per sospetta malattia mentale senza che ne siano accertate con garanzie di pari completezza e rigore la sussistenza effettiva e le necessità obiettive conseguenti. Sia nella prassi psichiatrica italiana pre-riforma che in quella riformata i provvedimenti restrittivi delle libertà personali potevano e possono venire invece assunti, anche all’insaputa dei destinatari, direttamente sulla base di attestazioni dello stato di malattia mentale fornite da operatori sanitari o sociali al giudice o sindaco tecnicamente imperiti. Che come tali si limitano a ratificarli in fiducia, e rimangono anche i destinatari e decisori di eventuali ricorsi o reclami contro i propri stessi provvedimenti. Mancano cioè le garanzie costituzionali primarie dell’equo giudizio: la nomina obbligatoria di un difensore di fiducia o d’ufficio e di consulenti tecnici di parte (ctp), il contraddittorio pubblico ed il ricorso a giudice terzo. Tutte le altre distorsioni possibili nei provvedimenti sono subordinate e conseguenti a questa clamorosa violazione dei diritti umani garantiti univocamente dall’ordinamento italiano, comunitario europeo ed internazionale. E perciò reclamabile a tutti questi livelli, trattandosi di diritti insopprimibili ed irrinunciabili, poiché non vi è altra garanzia concreta possibile della correttezza, competenza ed affidabilità dell’agire degli operatori sanitari, sociali e giudiziari coinvolti nella decisione. Che non possono certo essere presunte in materia di manipolazione della vita e dei beni di soggetti deboli. Tantopiù in presenza notoria di una casistica di abusi specifici e del quadro sopra delineato di devianze dell’assistenza psichiatrica. L’interdizione e l’inabilitazione, istituti classici sperimentati di tutela del soggetto totalmente o parzialmente incapace per infermità mentale di provvedere personalmente alle proprie necessità, offrono almeno migliori garanzie istruttorie e prevedono maggiori controlli anche sull’operato rispettivamente dei tutori e curatori nominati dall’autorità giudiziaria. La privazione o compressione illegittima del diritto di difesa si accentua invece praticamente fuori controllo nei provvedimenti legati alla riforma psichiatrica ed alle sue carenze. A cominciare dal Trattamento sanitario obbligatorio, Tso, previsto dalla legge 180/78, col quale il sindaco dispone su segnalazione il ricovero forzato di un soggetto (che viene così catturato, rinchiuso e sottoposto a sedazione ed altro anche contro la propria volontà). Anche se una provvida sentenza ottenuta nel 2010 dall’avvocato pordenonese Gianni Massanzana ha perciò stabilito che il sindaco non possa firmare l’ordinanza di ricovero sulla sola base della richiesta specialistica senza procedere ad una verifica tecnica autonoma della sua veridicità. Difetti evidenti della legge 6/2004 Non così ancora nell’amministrazione di sostegno, ideata ed introdotta dagli stessi ambienti della riforma psichiatrica nel codice civile con la legge n. 6/2004 presentandola come una forma di tutela giudiziaria più blanda, rispettosa ed elastica dell’interdizione e dell’inabilitazione. Che come tale potrebbe funzionare, ed in molti casi funziona, benissimo se la legge non contenesse delle trappole logico-giuridiche che consentono anche di utilizzarla brutalmente come strumento di interdizione impropria su qualsiasi soggetto debole ed in violazione radicale dei diritti di difesa e dell’equità del giudizio. La norma (art. 404 c.c.) estende infatti smisuratamente ed al di là dell’infermità mentale le categorie di persone sottoponibili al provvedimento, perché stabilisce che il giudice tutelare possa sottoporre ad Amministratore di sostegno, su richiesta o segnalazione, la persona afflitta da una “infermità o menomazione fisica o psichica” che la renda “anche” parzialmente e temporaneamente impossibile provvedere ai suoi interessi. Una formula che può dunque sembrare adeguata ed elegante, ma è invece così incautamente ed antigiurdicamente generica da poter coprire casi che vanno dall’estremo dell’infermità psichica con incapacità permanente totale (propria dell’interdizione) o parziale (propria dell’inabilitazione) sino al semplice stress, alla comune depressione od al banale impedimento fisico temporaneo per una qualsiasi malattia od esito d’incidente che impediscano di far la spesa e pagare le bollette. E non offre infatti la minima certezza giuridica sulla tipologia ed il grado dell’infermità e dell’incapacità necessarie e sufficienti a limitare le libertà della persona (perché di questo si tratta) sottoponendone la vita ed i beni ad un’amministrazione di sostegno. Che può diventare così una forma di limitazione o privazione dei diritti umani attivabile per legge, e su semplice segnalazione ritenuta credibile dal giudice fuori da rituale contraddittorio, a peso di qualsiasi persona che possieda beni mobili od immobili trovandosi in difficoltà reali o presunte, ed anche temporanee, ad amministrarli. La tipologia degli abusi Nel concreto, quello che sta perciò documentatamente accadendo a Trieste ed altrove in Italia in maniera episodica o sistematica è che: vengono sottoposte ad amministrazione di sostegno anche persone capaci di gestirsi; il provvedimento viene assunto contro la loro volontà o addirittura a loro insaputa su segnalazioni non adeguatamente verificate di alcuni operatori sociosanitari; il tribunale non affida il ruolo di amministratore di sostegno a parenti o persone amiche adatte e gratuitamente disponibili, ma ad avvocati, commercialisti od ai predetti operatori, ed anche con onorari a spese dell’amministrato; tali amministratori ricevono dal giudice poteri totalitari, analoghi a quelli dell’interdizione, che giungono a privare l’asserito “beneficiario” non solo dell’amministrazione dei suoi beni ma anche della gestione della propria salute e addirittura della corrispondenza.

Voce n. 11 – 8 settembre 2012, pp 1 e 2. Abusi nelle amministrazioni di sostegno: illegittime decine o centinaia di nomine. Per violazione del diritto di difesa ed eccesso di poteri. La Voce di Trieste continua l’inchiesta sugli eccessi ed abusi – coperti sinora da silenzi pubblici abnormi – nell’imposizione e conduzione del recente istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno. Che è stata introdotta nell’ordinamento italiano con legge n. 6/2004 per tutelare in forma meno rigida dell’interdizione e dell’inabilitazione, cioè «con la minore limitazione possibile della capacità di agire» e «mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente» le persone che si trovino fisicamente o psicologicamente «prive del tutto o parte di autonomia nell’espletamento della vita quotidiana» ed assegnandone l’incarico di preferenza, salvo casi eccezionali, a famigliari, parenti o persone comunque gradite all’interessato. La forma attuale dell’amministrazione di sostegno è stata concepita a Trieste negli ambienti della riforma psichiatrica, ad opera principalmente del docente di diritto privato Paolo Cendon, e qui ha tuttora il suo terreno di collaudo giudiziario nazionale intensivo, con proliferazione straordinaria di casi, ad opera notoria in particolare della dott. Gloria Carlesso anche nella funzione operativa iniziale di giudice tutelare, ora affidata a più magistrati. Ma a Trieste si riscontra anche particolare disattenzione giudiziaria ed ambientale sia alle carenze normative ed alle segnalazioni di abusi su cui sono intervenute invece altre sedi giudiziarie italiane, sia ai principi di diritto garantisti stabiliti dalle conseguenti pronunce dalla Corte Costituzionale e dalla Suprema Corte di Cassazione. Che confermano, dal 2005 ad oggi, la nullità originaria assoluta dei decreti di nomina con cui il giudice tutelare abbia conferito all’amministratore di sostegno poteri che incidono su diritti e libertà inviolabili della persona senza garantirle la difesa ed il contraddittorio nel giudizio, nonché per violazione di legge quando tali poteri risultino eccessivi identificandosi con quelli propri dell’interdizione e dell’inabilitazione. Queste due caratteristiche corrispondono agli abusi primari segnalati, cioè quelli nell’assegnazione e nomina dell’amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare. Dai quali discendono poi gli abusi secondari che possano venire commessi dall’amministratore di sostegno nell’esercizio di poteri eccessivi ed indebitamente conferitigli. Gli abusi primari e secondari dei quali abbiamo avuto ad oggi segnalazione documentata da Trieste ed altre località italiane colpiscono soggetti deboli in prevalenza anziani, ma anche di media età o giovani, uomini e donne, che siano titolari di redditi, risparmi e beni mobili ed immobili da amministrare, ed anche se risultino capaci di provvedervi autonomamente. Gli abusi primari Nelle forme d’abuso primario tipiche sinora riscontrate, l’assegnazione dell’amministrazione di sostegno risulta originata da richieste di operatori psichiatrici o sociali che drammatizzano la situazione del soggetto e ne screditano gli eventuali famigliari o fiduciari. Il giudice tutelare accoglie queste relazioni come veritiere senza controperizia, non riconosce alla persona il diritto alla difesa tecnica in contraddittorio tramite un avvocato e periti di parte, e le impone senza o contro sua espressa volontà, o a sua insaputa, un amministratore di sostegno estraneo. Scegliendolo tra giovani praticanti, avvocati o commercialisti che hanno seguito un breve corso apposito, palesemente inadeguato a formare i requisiti umani, professionali e di esperienza per così delicato incarico, ed a differenza a differenza dai famigliari o fiduciari dell’amministrato avranno diritto a compensi professionali a carico delle sue risorse. Ed il giudice assegna loro poteri che incidono sulle libertà fondamentali della persona (di amministrarsi, ricevere la corrispondenza, decidere sulle cure mediche), sino a coincidere con quelli previsti per l’interdizione o l’inabilitazione. Che invece competono al Tribunale collegiale d’iniziativa del Pubblico Ministero, e con garanzia di difesa in contraddittorio. L’amministrazione di sostegno risulta così trasformata arbitrariamente interdizione od inabilitazione impropria e sottratta alle garanzie difensive. E senza contestazione efficace del Pubblico Ministero, che ha l’obbligo di intervenire anche nella nomina dell’amministratore di sostegno e proporre reclamo quando il decreto del giudice tutelare risulti contrario alla legge. Gli abusi secondari Queste forme di abuso primario della legge e di diritti fondamentali della persona aprono a loro volta la possibilità di abusi secondari, dolosi o colposi, da parte dello sconosciuto amministratore di sostegno che il soggetto debole si vede imposto dal giudice con poteri abnormi, che annullano la sua capacità materiale e morale di disporre dei propri beni e della propria vita. Gli abusi secondari tipici sinora osservati consistono anzitutto in peggioramenti drastici della vita della persona che si trova privata della sua autonomia, sottratta al soccorso di famigliari ed amici e sottoposta ad un estraneo, che spesso accumula amministrati anche a decine e tende ad eludere o forzare le loro necessità morali, sanitarie ed economiche. Mentre le risorse finanziarie della persona amministrata vengono erose dai prelievi di compensi per l’amministratore e soggetti scelti da lui (badanti, medici, periti, artigiani, agenti immobiliari, ecc.) per fornire assistenze, servizi ed interventi anche non necessari. Ne consegue la vendita a trattativa privata della casa d’abitazione e di altri eventuali beni immobili, con ricovero dell’amministrato in ospizi o strutture sanitarie che ne ricavano ingenti contribuzioni assistenziali pubbliche e private. E sono a volte le stesse che hanno promosso l’amministrazione di sostegno. Il giudice tutelare ha il potere e l’obbligo di impedire gli abusi verificando le relazioni periodiche degli amministratori, inclusi rendiconti, stime di beni, modalità di vendita e relazioni di operatori sanitari, psichiatrici o sociali. Ma nel concreto non ne ha il tempo né i mezzi, e finisce per autorizzare o lasciar compiere anche operazioni quantomeno discutibili. Il terzo livello Vi è infine un terzo livello di abusi, che associa operatori sanitari e sociali proponenti, giudice tutelare ed amministratori "professionali". Quando le proteste di famigliari che si oppongono agli abusi su un amministrato vengono paralizzate sottoponendo anche loro ad amministratore di sostegno con la medesima procedura restrittiva. Esattamente come in noti regimi totalitari. Sul numero 10 della Voce abbiamo pubblicato anche i documenti di prova principali di un caso che integra tutti e tre i livelli di abuso ed appartiene alla gestione tutelare Carlesso. Complicità ambientali In sostanza, uno strumento giuridico di assistenza moderata a soggetti deboli viene invece utilizzato coercitivamente in violazione dei loro diritti fondamentali, di libertà, proprietà e difesa. A lucro di terzi e con le necessarie complicità ambientali attive e passive. A Trieste, nonostante proteste e denunce, queste prassi intollerabili appaiono ancora ufficialmente ignorate, e di fatto coperte, a tutti i livelli pubblici tenuti ad intervenire: istituzioni, partiti, sindacati e stampa ‘di sistema’, Presidenza del Tribunale e Procura della Repubblica. Mentre sta indagando in merito la competente Procura esterna e la questione è sottoposta al Ministero della Giustizia. Le difese dirimenti immediate Rimane intanto il problema di difesa sul campo dei soggetti abusati o minacciati, cui può giovare la sintesi di una disamina, che ci è stata cortesemente fornita, della giurisprudenza di Corte Costituzionale e di Cassazione sui casi di nomine viziate di nullità, che è dirimente a prescindere dalla prova di abusi secondari dell’amministratore. Già nel 2004, appena entrate in vigore le norme specifiche, il Giudice Tutelare presso la sezione di Chioggia del Tribunale di Venezia ne aveva sollevate due questioni di illegittimità costituzionale rilevando che esse «non indicano chiari i criteri selettivi per distinguere l’amministrazione di sostegno dai preesistenti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, lasciando di fatto all’arbitrio del giudice la scelta dello strumento di tutela da applicare al caso concreto, così violando gli art. 2, 3 e 4 della Costituzione, che garantiscono la sfera di libertà ed autodeterminazione dei singoli, e gli watt. 41, 1° comma e 42 della Costituzione, che garantiscono il pieno dispiegarsi della personalità del disabile nei rapporti economici e nei traffici giudici». e che inoltre « non prevedono strumenti di composizione delle divergenze eventualmente insorte tra il giudice tutelare (cui sono attribuiti i provvedimenti in tema di amministrazione di sostegno) e il Tribunale collegiale (cui sono attribuiti quelli in tema di interdizione ed inabilitazione), così violando gli art. 41, 1° comma, 42 e 101, 2° comma, della Costituzione». I limiti giuridici La Corte ha rigettato con set. n. 440/2005 i rilievi di anticostituzionalità fornendo però interpretazione della legge su ambedue i punti. Sul problema dei limiti giuridici conferma infatti che «l’ambito di operatività dell’amministrazione di sostegno non può coincidere con quelli dell’interdizione o dell’inabilitazione», mentre il giudice tutelare deve scegliere tra questi differenti istituti a tutela della persona quello che «limiti nella minore misura possibile la sua capacità» e far rientrare l’amministrazione di sostegno in un ambito di poteri che sia «puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto». Rimanendo i poteri tipici delle «misure ben più invasive dell’interdizione e dell’inabilitazione» riservati, con esse, ai casi dove quelli più blandi dell’amministrazione di sostegno non garantiscano tutele sufficienti alla gravità del caso. Il giudice tutelare non può dunque far coincidere integralmente i poteri dell’amministratore di sostegno con quelli del tutore o del curatore, che come tali possono venire assegnati soltanto dal Tribunale con gli istituti e le procedure dell’interdizione e dell’inabilitazione. Quanto alla composizione di divergenze tra giudice tutelare e Tribunale, la Corte Costituzionale ha affermato che i provvedimenti di ambedue gli organi sono impugnabili dinanzi alla Corte d’Appello, rispettivamente con reclamo e avverso il decreto del giudice tutelare e con appello avverso la sentenza del Tribunale. La sentenza sottolinea inoltre i ruoli di vigilanza e coordinamento del Pubblico Ministero. I limiti giuridici dell’amministrazione di sostegno così fissati dalla Corte Costituzionale sono stati ribaditi da numerose ed inequivoche pronunce della Corte Suprema di Cassazione (sentenze nn. 13584/2006, 25366/2006, 9628/2009, 17471/2009, 4866/2010, 22332/2011, ed altre), stabilendo sin dalla prima il principio di diritto che: «l’amministrazione di sostegno […] ha la finalità di offrire a chi si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quale la interdizione e la inabilitazione, non soppressi ma solo modificati. [...]». Il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno che gli attribuisce poteri esorbitanti tale funzione giuridica risulta dunque emesso in patente e contraddittoria violazione di legge. E lo stesso Tribunale di Trieste risultava avere recepito quest’orientamento sin dal 2005 (28.10), affermando che la persona soggetta ad amministrazione di sostegno «conserva la pienezza della capacità di agire anche rispetto al pacchetto gestionale attribuito all’amministratore». Il diritto alla difesa violato Sempre nel 2005 il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Venezia è ricorso in Cassazione per violazione dell’obbligo giuridico di assistenza legale, contro un provvedimento del giudice tutelare che aveva nominato un amministratore di sostegno senza garantire all’interessato un difensore ed eventuali periti di parte. Con sentenza n. 25366/2006 la Cassazione, riaffermando i principi delle sentenze qui sopra richiamate, ha precisato che l’amministrazione di sostegno copre un arco di ipotesi di incapacità che va dalle minime alle maggiori, le quali possono perciò anche richiedere “determinati effetti, limitazioni o decadenze, previste da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato [...]”, ma che queste possono coprire soltanto singole attività specifiche, e non una condizione di incapacità generale dell’amministrato, la quale comporta invece l’interdizione o l’inabilitazione. Ed ha contemporaneamente stabilito che quando il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno vada comunque ad incidere su diritti fondamentali dell’uomo, il giudice tutelare non può procedere senza invitare il destinatario a nominarsi un difensore. Il principio di diritto così affermato dalla Corte è nuovamente chiarissimo: «il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno, il quale si distingue, per natura, struttura e funzione, dalle procedure di interdizione e inabilitazione, non richiede il ministero del difensore nelle ipotesi, da ritenere corrispondenti al modello legale tipico, in cui l’emanando provvedimento debba limitarsi ad individuare specificamente i singoli atti, o categoria di atti, in relazione ai quali si chiede l’intervento dell’amministratore; necessitando, per contro, difesa tecnica ogni qual volta il decreto che il giudice ritenga di emettere, sia o non corrispondente alle richieste dell’interessato, incida sui diritti fondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni e decadenze, analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio.» In pratica: se i poteri dell’amministrazione di sostegno si limitano a quelli di una blanda assistenza ordinaria non occorrerebbe garantire all’assistito la difesa legale, che diventa invece obbligatoria se intaccano la sua capacità giuridica di agire, configurandosi altrimenti violazione di diritti umani fondamentali garantiti dall’ordinamento, e dunque nullità originaria ed assoluta dell’atto. Che come tale può essere fatta valere in ogni momento e sede, incluse quelle comunitarie ed internazionali: si vedano anche i principi corrispondenti introdotti nell’ordinamento dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13.12.2006 e ratificata dall’Italia con L. n. 18/2009. Conclusioni Questo significa che decine, se non centinaia o più, di decreti di nomina di amministratori di sostegno, a Trieste ed altrove, risultano giuridicamente nulli, e con essi i poteri e gli atti conseguenti degli amministratori. L’interrogativo è a questo punto se l’Autorità giudiziaria, ed a quali livelli, intende provvedere d’ufficio ad interrompere ed annullare le procedure di nomina illegittime liberandone gli amministrati, o se occorreranno valanghe di ricorsi individuali dei danneggiati, o class actions. Attendiamo dunque le risposte, a cominciare da quelle del Tribunale e della Procura di Trieste. E nel frattempo proseguiremo con la pubblicazione delle nostre analisi e prove. [P.G.P.]

Voce n. 15 – 10.11.2012, p. 1. Scandalo Amministrazioni di sostegno a Trieste: siamo alla predazione giudiziaria dei diritti umani. Lo scandalo montante di alcune prassi illegittime nelle amministrazioni di sostegno a Trieste sta raggiungendo, nell’incredibile silenzio generale rotto soltanto dalla Voce, il parossismo: ora risulta che le amministrazioni decretate a Trieste sono tante che il Giudice Tutelare responsabile autorizza persino la custodia dei fascicoli d’ufficio presso lo studio degli stessi legali nominati Amministratori di sostegno (Ads). Simile prassi, pur non configurando probabilmente in sé un reato, oltre ad essere al limite della legalità giustifica sospetti d’incredibile leggerezza sia nelle assegnazioni che nella gestione delle amministrazioni di sostegno. Leggerezza che ha come risultato l’appalto di tutta la gestione della procedura della amministrazione di sostegno a soggetti privati, singoli e come sistema: gli avvocati che fanno gli amministratori di sostegno, i medici e le cooperative di assistenza, nei cui comportamenti le inchieste della Voce hanno evidenziato non pochi abusi gravissimi. Il ruolo del Giudice rimane così solamente quello di firmare i provvedimenti a lui richiesti agli AdS i quali, molto spesso, secondo prassi avvocatile frequente predispongono essi il provvedimento al posto del Giudice, chiedendogli appunto solo di firmarlo. Giudice che secondo prassi invalsa a Trieste ha nominato l’AdS senza riconoscere all’assistito i diritti fondamentali di difesa garantiti dall’ordinamento, ed assegnando al professionista poteri analoghi a quelli dell’interdizione: sui beni, sulla scelta di cure, sulla corrispondenza e su ogni atto giuridico rilevante. Ed allora siamo al cospetto di una procedura che vìola radicalmente il principio del contraddittorio e del diritto alla difesa, risolvendosi in una vera e propria predazione giudiziaria di diritti umani fondamentali. Facciamo un esempio: se la persona amministrata ha il legittimo sospetto che nella gestione del suo patrimonio o della sua persona l’AdS commetta qualche irregolarità, dovrebbe andare presso lo studio dell’AdS, quindi in condizioni di soggezione ambientale, a chiedergli di consultare il fascicolo d’ufficio e la possibilità di estrarne copie; oppure dovrebbe andare alla cancelleria del Tribunale ed attendere l’autorizzazione dell’AdS, per poi tornare presso il suo studio e lì fare le copie, ed attendere che l’AdS vada in cancelleria e se le faccia timbrare con il timbro di conformità... insomma, i tempi sarebbero tali per cui chiunque potrebbe nascondere facilmente le prove di qualche irregolarità, oppure indurre l’amministrato a desistere. Per difendersi dagli abusi sospettati l’amministrato dovrebbe poi formulare un’istanza al Giudice, il quale però non ha il fascicolo custodito nella sua disponibilità e si limiterebbe (nella migliore delle ipotesi) a chiedere conto della denuncia all’amministratore di sostegno sospettato, il quale parlerebbe col giudice in assenza dell’amministrato. Che inoltre sarebbe privo di un proprio avvocato difensore, perché se volesse nominarlo dovrebbe farne prima richiesta all’AdS contro cui lo vuole assumere, e potrebbe pagarlo solamente previo consenso dell’AdS medesimo. Ed è esattamente grazie a questa trappola giudiziaria perfetta che nelle amministrazioni di sostegno a Trieste si è potuta anche consolidare una una consociazione di fatto di operatori sociosanitari, giovani avvocati e praticanti, e qualche commercialista, che chiedono ed ottengono arbitrariamente senza contraddittorio da magistrati assegnati alla funzione di Giudice tutelare decine di amministrazioni di sostegno con poteri equivalenti all’interdizione. Che esercitano senza alcun controllo reale del Giudice o del Tribunale, disponendo in toto della vita e dei beni delle persone, per lo più anziane, così arbitrariamente predate dei diritti civili fondamentali costringendole in condizioni da riduzione in schiavitù inaudite nella civiltà del diritto. E ciononostante con l’omertà di tutti coloro che avrebbero il dovere giuridico e/o etico di impedirlo. La Voce sta perciò valutando con legali di fiducia azioni di denuncia e di difesa delle persone e della legalità ancora più energiche delle precedenti. Ed intende proporre quest’ennesimo ‘caso Trieste’ anche alla Corte di Giustizia Europea per l’apertura di un procedimento specifico d’infrazione contro l’Italia qualora il Ministro della Giustizia non assumesse provvedimenti efficaci e tempestivi per porre fine a questo scandalo di soprusi sotto forma giudiziaria ai danni di soggetti tra i più deboli. Paolo G. Parovel

Voce n. 16 – 7 dicembre 2012. pp. 1 e 2. Scontro con la Presidenza del Tribunale sugli abusi nelle Amministrazioni di sostegno. A seguito delle nostre inchieste e denunce su abusi documentati nelle amministrazioni di sostegno (Ads) il facente funzioni di Presidente del Tribunale di Trieste, dott. Raffaele Morvay, mi ha inviato una lettera di smentita inattesa e pesantemente conflittuale, chiedendomene la pubblicazione. Alla quale come direttore responsabile provvedo volentieri, ma esercitando il diritto di replica per quanto la lettera contiene od implica di offensivo per il giornale e nei miei confronti. Con l’osservazione preliminare che una cosa simile non è mai accaduta nella storia di questa città, e questo vorrà ben dire qualcosa. Rispondo dunque in prima persona alla domanda del Presidente vicario su “di cosa sta parlando il giornalista Paolo G. Parovel? ” quando scrive che le carenze normative e gli abusi, colposi o dolosi, nell’imposizione e gestione delle amministrazioni di sostegno a soggetti deboli stanno determinando a Trieste situazioni di “predazione giudiziaria dei diritti umani ” e “condizioni di riduzione in schiavitù inaudite nella civiltà del diritto”, ed alle altre gravi accuse professionali e personali che egli ha almeno, rispetto ad altri, l’apprezzabile franchezza di muovermi ufficialmente per iscritto. E che possono in effetti apparire credibili persino in Tribunale a chi non abbia approfondito la vicenda. Essendo ovvio che chiunque compia, consapevolmente o meno, abusi non di per sé palesi di un istituto giuridico o di funzioni giudiziarie e forensi in questa od altra materia, non va certo a raccontarlo o renderlo evidente alla Presidenza del Tribunale, né a colleghi estranei ai fatti. Perché è la copertura degli abusi che consente di compierli, perpetuarli ed estenderli coinvolgendo in corresponsabilità attive e passive un numero di persone sempre maggiore, sino a farsi “sistema”. Cioè rete di interessi anomali che crescendo acquista forza, credibilità ed impunità nel tessuto istituzionale, sociale e mediatico rendendo sempre più difficile e rischiosa l’azione di chi osi indagare e denunciare la verità. Il dott. Morvay sa inoltre bene, come altri, che io ho avuto sempre il massimo rispetto della Magistratura italiana e delle straordinarie difficoltà ambientali e materiali in cui essa si trova ad operare. Ma che proprio per questo, oltre a prenderne le difese da accuse infondate, ne ho anche sempre denunciato i casi documentati di effettivo errore e degrado. Esattamente come raccomanda non da oggi la stessa Associazione Nazionale Magistrati, anche con manifesti affissi nei Tribunali. E se egli mi avesse perciò convocato formalmente prima di accusarmi pubblicamente del contrario avrebbe potuto esaminare tutti gli elementi di prova da me anche e sempre offerti. In sostanza la lettera del Presidente vicario, che potete leggere qui di seguito, si limita ad affermare od implicare, in ovvia buona fede anche se con rilevanti incongruenze, che nelle ormai 1500 amministrazioni di sostegno sinora decretate intensivamente dal Tribunale di Trieste non vi sia nessuno degli abusi da me denunciati, che tutti i decisori e conduttori delle procedure siano dunque infallibili ed irreprensibili, e che il Tribunale stesso possa garantirlo con un controllo adeguato di tutte le pratiche. Mentre continua a non esservi nessuna iniziativa pubblicistica o giudiziaria del Tribunale o della Procura di Trieste, né di magistrati o di altri soggetti coinvolti, che affronti l’analisi concreta dei casi e dei fatti giuridici documentati e di rilevante interesse pubblico che come giornalista investigativo continuo a denunciare pur clamorosamente da oltre due anni, su questa ed altra precedente testata, mettendone tutte le prove a disposizione della Magistratura perché intervenga doverosamente. Questa è anche la prima volta che la Presidenza del Tribunale invece mi contesta, e per iscritto anche se in forma apodittica, con accuse che ritengo ingiuste oltre che eccessive, ma per l’autorevolezza istituzionale della fonte potrebbero convincere facilmente gli ignari. Preciso dunque come prima cose che le nostre inchieste e denunce non si riferiscono, come la lettera potrebbe far supporre, alla totalità delle amministrazioni di sostegno in quanto tali, ma ad un numero rilevante, ed in particolare a Trieste, di casi di abuso resi possibili da carenze legislative, applicazioni discutibili delle norme, attività ed interessi di terzi, nonché di assenza od inefficacia di controlli e correzioni da parte di quanti vi sono tenuti. E poiché da essi non ho sinora avuta udienza, ma solo diffamazioni e persino ritorsioni personali, invito gli Organi giudiziari competenti territoriali, quelli esterni ex art. 11 c.p.p., il Ministero della Giustizia ed il Parlamento ad aprire infine un’inchiesta seria sui fatti sinora e qui stesso denunciati. Oppure nei miei confronti, se riterranno davvero di poter sostenere che non si tratti di indagini giornalistiche legittime e doverose, ma addirittura di scritti “scandalistici, calunniosi od errati” e di “un cumulo di menzogne e disinformazioni“ del genere “che solo un giornalismo deteriore può inventare e pubblicare”. Mentre ad una lettura più attenta questa stessa lettera accusatoria mostra di confermarle in misura significativa, attraverso una serie di travisamenti, illogicità e contraddizioni invero sorprendenti. Travisamenti, illogicità e contraddizioni È infatti travisamento significativo ed illogico delle norme l’affermazione si possa ritenere una persona incapace di decidere di sé per difficoltà fisiche, invece che psichiche. Mentre è contraddittorio dichiarare regolari le procedure di Ads ammettendo contemporaneamente che esse in molti casi privano l’amministrato, in tutto o in parte della gestione dei suoi beni, cioè in condizioni proprie non dell’Ads ma dei due diversi istituti giuridici della tutela e della curatela. Come è illogico sostenere che per sottrarre i beni della persona a rapacità di parenti od altri se ne debba affidare l’amministrazione a giovani professionisti estranei, che come tali e quali principianti nelle rispettive professioni non offrono affatto maggiori garanzie di sensibilità, capacità, disinteresse ed esperienza. Illogico e contraddittorio è inoltre sostenere l’evidente improbabilità statistica che su 1500 amministrazioni non si verifichi alcuna irregolarità. E che ciò sia garantito da controlli dei giudici tutelari e degli uffici, ammettendo nella stessa lettera che i primi sono oberati anche da funzioni giudiziarie diverse, e che la Cancelleria è letteralmente sepolta dall’eccesso di fascicoli. Risulta perciò anche complessivamente contraddittorio che la Presidenza del Tribunale possa dichiarare che non sia vero quanto denunciamo noi, se e finché il Tribunale non ha affatto la possibilità concreta di esercitare i controlli necessari per affermarlo. E nemmeno ci chiede di vedere le nostre prove. Travisa inoltre la realtà dei fatti qualificare quei professionisti soltanto come dei "competenti e valorosi volontari dell’Associazione amministratori di sostegno. Perché il volontariato è attività gratuita e del tutto differente, mentre costoro vengono autorizzati dai giudici tutelari ad utilizzare le risorse degli amministrati anche a beneficio proprio, prelevandone indennità considerevoli, nonché di fornitori di beni ed servizi di propria scelta. Dai casi di sospetto o constatato abuso dei quali possediamo le documentazioni queste indennità risultano oscillare a Trieste fra i 5.000 ed i 10.000 euro l’anno. E siccome la gran parte di questi giovani professionisti ha ormai accumulato decine di amministrati, da ogni decina potrebbe ricavare un reddito annuo dai 50.000 ai 100.000 euro. Senza nemmeno più necessità di far carriera nella sovraffollata professione ordinaria d’avvocato o commercialista. Ma questi denari creano pure problemi di possibile, scandalosa ed annosa evasione fiscale sotto copertura giudiziaria. Sono stati infatti ed in parte vengono ancora liquidati dai Giudici Tutelari come compensi non imponibili ed esenti da IVA, e spesso non sono stati nemmeno fatturati. Mentre l’Agenzia delle Entrate li ha ritenuti con pronunciamento di quest’anno 2012 redditi professionali imponibili a tutti gli effetti. Un giro di beni, compensi ed affari milionario Ed è in particolare Trieste - culla vantata di ideazione e sperimentazione nazionale dell’amministrazione di sostegno ad opera principale notoria del docente veneziano di diritto privato Paolo Cendon e della giudice Gloria Carlesso, attorno ai quali si è raccolta tutto un corteggio di giovani professionisti aspiranti e beneficati - che l’amministrazione di sostegno è stata estremizzata e professionalizzata a livelli industriali. Trasformando così questi compensi e disponibilità di beni altrui in un giro di lavoro ed d’affari anomalo da centinaia di milioni di euro, che ingigantisce qui anche il problema di possibile evasione fiscale. Ed è un vero miracolo di ‘trasparenza’ che nessuno nelle istituzioni di competenza operativa od investigativa sembri vedere questo giro di soldi e beni od accorgersene. Perché qui i conti sono presto fatti, a differenza dal resto d’Italia dove non c’è una così straordinaria concentrazione professionistica di pseudo-volontariato. Che secondo dati recenti pubblicati dai suoi stessi apologeti amministrerebbe a Trieste con qualche decina di giovani professionisti ormai Ads-dipendenti, nel bene e nel male, circa il 65% dei casi, cioè attorno alle 800 persone. Per un ammontare quindi, se è così, di compensi valutabile attorno ai 4 milioni di euro, con gestione di un patrimonio ipotizzabile sul migliaio di unità immobiliari (dunque attorno ai 100 milioni di euro di valore complessivo), più beni mobili in proporzione, oltre ad introiti da pensioni od altre rendite degli amministrati stimabile da un minimo 800.000 euro (mille in media a persona) ad un milione di euro o più. Ed oltre ai redditi diretti ed indiretti (da contributi assistenziali pubblici) che ne ricavano badanti, cooperative, medici, artigiani, periti, ed altri fornitori di beni e di servizi che ogni ‘giovane professionista volontario’ sceglie a proprio arbitrio, sempre a spese degli amministrati e per cifre complessive altrettanto ingenti. Ad occhio, il giro complessivo che appare così curiosamente invisibile a tutti fuorché a noi (ricordando la favoletta del re nudo) può dunque valere almeno 200 milioni di euro. In una città di soli 200mila abitanti, ed alla faccia del volontariato vero che altri fanno anche in questo settore. Il cardine giuridico degli abusi La smentita inattesa del Presidente vicario non tocca inoltre cardine giuridico abnorme degli abusi da noi denunciati. E cioè il fatto che il Tribunale di Trieste assegni sistematicamente amministrazioni di sostegno a quei professionisti con poteri abnormi, poiché incidono su diritti umani fondamentali e sono invece propri dell’interdizione (amministrazione dei beni, scelta delle cure, ricevimento della corrispondenza) e senza garantire alla persona la difesa tecnica in contraddittorio benché confermata obbligatoria, in questi casi, da giurisprudenza univoca di Corte Costituzionale e Cassazione. Per essere ancora più chiari: nel caso tipo degli abusi riscontrati una persona, sia anziana o giovane, in modeste difficoltà viene privata per decreto del Tribunale dei suoi beni e dei diritti fondamentali con uno strumento giuridico improprio, su perizia tecnica unilaterale che il giudice avalla senza contraddittorio negando all’interessato la difesa di un avvocato e di periti di parte; la perizia proviene da un numero ristretto di tecnici dell’assistenza psichiatrica e sociale, e punta all’esclusione dei parenti ed alla nomina di uno dei professionisti ‘volontari’ di uno stesso gruppo; la disponibilità dei beni mobili ed immobili dell’amministrato viene così sottratta a lui, alla famiglia ed agli eredi e va ad alimentare il giro di compensi ai predetti ed ai fornitori di beni e servizi che ruota loro attorno, e gli immobili finiscono venduti quanto prima a trattativa privata ed a condizioni e prezzi spesso discutibili. Mentre l’interessato, definito ipocritamente “beneficiario” anche per questo genere abnorme di Ads, finisce ridotto concretamente ad una larva civile senza più dignità e diritti di cittadino, a vegetare tra i centri di assistenza del medesimo ambiente che la controlla, per lo più sedata con psicofarmaci, od a tentare gesti estremi. Ed è anche accaduto che figli o genitori che protestavano troppo siano stati neutralizzati dal “sistema” sottoponendoli al medesimo genere di Ads. Il tutto, come ci conferma la stessa lettera ed opinione del Presidente Vicario, per decreto del Tribunale e fuori da qualsiasi sua possibilità realistica di controllo efficace. Le coperture interne ed esterne Questo “sistema”, che non si identifica con le amministrazioni di sostegno in toto ma vi è incistato come un bubbone con solide metastasi, risulta protetto e prospera sotto tre generi principali di copertura che si intrecciano nel tessuto sociale ed istituzionale triestino. Il primo è il già detto coinvolgimento attivo e passivo del maggior numero di persone possibile nel “sistema”; il secondo è l’offrire e fornire voti a chi lo appoggia, ed il terzo è il mimetizzarsi negli ambienti della psichiatria libertaria d’origine basagliana, della quale è invece una degenerazione concettuale e la negazione ed inversione pratica. È così che questo “sistema” finisce bovinamente ed opportunisticamente protetto anche dalla politica. In particolare, purtroppo, dalla sinistra che da quell’ambiente attinge una quantità di voti e legittimazioni in regime di quasi monopolio. E sembra perciò disposta anche a fingere di non vedere violazioni tanto perfide e gravi dei diritti umani e della legalità, rendendosene quindi complice di fatto. Perché, altrimenti, non accetta nemmeno di discuterne sulla base dei documenti? Lo chiediamo qui ai Cosolini, Dell’Acqua, Rotelli, Dolcher e quant’altri, sia fuori che dentro l’ambiente giudiziario, sanitario e dell’assistenza sociale. E così, se qualcuno pensava che una lettera aggressiva della Presidenza del Tribunale potesse far smettere me e la Voce di scrivere verità scomode, ora è servito. Il direttore responsabile della Voce di Trieste (Paolo G. Parovel)

Il Tuono 13 novembre 2010. Una sentenza recentissima fa chiarezza a tutela dei soggetti più deboli, soprattutto anziani. Trattamento sanitario obbligatorio: il sindaco risponde civilmente e penalmente degli abusi I criteri della decisione si estendono agli abusi nell’imposizione di amministratori di sostegno Come i lettori dei nostri numeri precedenti già sanno, a Trieste si è verificata una serie rilevante di abusi dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno. Alcuni dei casi meglio documentati sono oggetto da tempo di denunce ed indagini giudiziarie, oltre che delle nostre indagini giornalistiche (mentre il resto della stampa locale li ha sinora coperti: ci asteniamo da commenti). Secondo legge l’amministrazione di sostegno dovrebbe sostituire, in forma blanda, amichevole e collaborativa l’interdizione e la curatela di persone che non siano in grado di provvedere alla cura di sè stesse e dei propri beni. A Trieste invece vi risulta esser stato imprudentemente sottoposto un numero abnorme e crescente di persone, in particolare anziane, anche autosufficienti, o loro parenti che protestavano, sottoponendole a regimi di privazione delle libertà morali e materiali duri quanto quelli dell’interdizione ma senza le sue garanzie di legge, con affidamento degli incarichi per lo più a giovani avvocati o praticanti, e vendite o conduzioni discutibili o dannose di beni degli amministrati. Creando così una specie di industria anomala delle tutele in una città dove sono particolarmente elevati sia il numero degli anziani che vi sono esposti, sia quello dei giovani avvocati e praticanti senza lavoro. Sul che abbiamo già preannunciato una nostra inchiesta complessiva, dopo avere pubblicato denunce documentate di alcuni casi eclatanti. Considerando inoltre che per parte dei casi già in indagine l’imposizione dell’amministratore di sostegno risulta avvenuta partendo da un T.s.o., il Trattamento sanitario obbligatorio ordinato dal sindaco. Che cos’è il trattamento sanitario obbligatorio L’ordinamento italiano (leggi 180/1978. 833/78 artt. 33-35) consente infatti che in casi di particolare urgenza e necessità, su ordine del sindaco dietro richiesta motivata di un medico, una persona ritenuta o dichiarata malata di mente possa venire con la forza pubblica prelevata, ricoverata per sette giorni prolungabili e sottoposta a dei trattamenti sanitari che essa rifiuta o sono altrimenti impossibili. Sono norme che hanno sostituito il vecchio ricovero coatto di difesa sociale (legge 36/1904), privilegiando invece formalmente la salute della persona debole. Ma nella pratica è cambiato ben poco, e gli abusi non sono difficili se il sindaco firma l’ordinanza di T.S.O. dando corso automatico alla richiesta medica, senza esercitare doverosamente tutti controlli sulla sussistenza effettiva delle condizioni di legge. Tanto più necessari per un atto che priva, anche temporaneamente, la persona di libertà fondamentali garantite dalla Costituzione. Quest’automaticità, che risulta purtroppo e pericolosamente prassi ordinaria quasi dappertutto, risulta qui documentata anche nei casi sopra detti. Come abbiamo già scritto mettendone in evidenza le responsabilità morali, civili e penali, senza che i sindaci ed il servizio sanitario pubblico della nostra provincia mostrassero di prenderne nota. Ma ora dovranno farlo, e subito. La sentenza chiarificatrice recentissima È intervenuta infatti una sentenza chiarificatrice recentissima del Tribunale di Pordenone (n. 893/10, depositata il 21 ottobre) in una causa civile di risarcimento promossa da una danneggiata, ex infermiera, col patrocinio del capace e tenace avvocato pordenonese Gianni Massanzana. Che ha ottenuto la condanna del sindaco sospeso di Azzano Decimo, Enzo Bortolotto, e del Ministero della Salute a rifondere i danni – impregiudicate le conseguenze penali – per avere nel 2005 il sindaco emesso, e due psichiatri dell’Ospedale di Sacile richiesto, un’ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio senza che ve ne fossero i presupposti di legge. Massanzana aveva già ottenuto nel 2005 dallo stesso Tribunale l’annullamento tempestivo dell’ordinanza per difetto di motivazione, liberando così in soli 17 giorni la persona indebitamente trattenuta in ospedale con la forza. Su richiesta dei due psichiatri ed ordine del sindaco, era stata infatti prelevata da casa coi carabinieri e tradotta – di fatto reclusa – nel reparto psichiatrico dell’ospedale. Il tutto senza nemmeno visita medica ed in relazione ad una controversia coi vicini di casa (la vicenda è simile ad una triestina di cui abbiamo pubblicato recentemente la denuncia, e che è prossima in questi giorni a decisione liberatoria del Tribunale di Trieste). La sentenza di Pordenone chiarisce in particolare che “il provvedimento disponente il trattamento sanitario obbligatorio costituisce un provvedimento restrittivo della libertà personale e pertanto necessita di una puntuale motivazione”, per la quale non sono sufficienti il richiamo stereotipato alle norme di legge e la dichiarazione dell’esistenza di un disagio psichico senza fornire riferimenti precisi al caso concreto (da parte dei medici richiedenti: anamnesi, esatta documentazione delle sintomatologìe, degli accertamenti sanitari specifici effettuati e dell’impossibilità di alternative). Il giudice sottolinea infatti che la legge vieta che il Trattamento sanitario obbligatorio venga disposto in presenza di tali carenze di motivazione, senza accertamenti medici nell’immediatezza della proposta, e che esso venga proposto e convalidato senza che la persona sia stata posta nelle condizioni di scegliere terapie alternative. E rileva che pertanto “il Sindaco, nell’emettere il provvedimento, è tenuto a verificare che dalla certificazione medica allegata risultino tutti i requisiti previsti dalla legge, nell’ambito dell’esercizio di un controllo non solo formale che si limita ad un mero richiamo delle attestazioni sanitarie” le quali altrimenti costituiscono mera motivazione apparente (come tale insufficiente, illegittima ed illecita). Quanto alla valutazione dei danni, vengono considerati “l’impatto del trattamento sofferto, come soggettivamente percepito, e il discredito che il T.s.o socialmente provocò sulla sfera della dignità” della persona ingiustamente colpita, tenendo conto anche “della durata del trattamento sanitario obbligatorio, delle modalità della restrizione e degli altri effetti pregiudizievoli personali e familiari scaturiti dalla misura”. E si precisa che la lesione della sfera soggettiva consiste nella “privazione del diritto, costituzionalmente garantito, di scegliere o meno di sottoporsi ad un trattamento sanitario”. Il valore della sentenza Si tratta dunque di una pronuncia fondamentale per difendere una quantità di persone, soprattutto anziane, esposte in situazioni deboli ad analoghi, frequenti abusi del T.s.o. Ma anche per difenderle da imposizioni di amministratori di sostegno arbitrarie perché fondate su T.s.o immotivati o su richieste mediche analogamente carenti. Dato che le Autorità giudiziarie competenti, quella tutelare ed il pubblico ministero, hanno anch’esse, per i medesimi motivi ed a maggior ragione, il dovere di verificarne non solo formalmente le motivazioni, sia in atti che con adeguati riscontri peritali ed in contraddittorio. Come invece al Tribunale Trieste risulta purtroppo non sempre accaduto, anche se abbiamo motivo di ritenere che da alcuni mesi si stia operando per ricondurre questa situazione incresciosa sui giusti binari. P.G.P.

(Un documento che il settimanale non ha fatto in tempo a pubblicare). Stimatissimo direttore, è necessario che il ministro della giustizia e il parlamento siano messi a conoscenza delle prepotenze che causano tante sofferenze a onesti cittadini, che vengono privati dei diritti umani e costituzionali. Ma a Trieste non è possibile rivolgersi a nessuno, vengono protetti i prepotenti, specialmente se occupano posti istituzionali o esercitano professioni importanti; non le persone per bene, specialmente se non sono importanti. Io, mia moglie e mia figlia siamo stati perseguitati per anni dagli psichiatri e operatori del centro di salute mentale di Barcola, dalla giudice tutelare Gloria Carlesso, dalle amministratrici di sostegno. Mia moglie era ammalata, ma non ha avuto l'assistenza sanitaria che ci si aspetta in un paese civile. Lo psichiatra Roberto Mezzina del csm di Barcola doveva fare un certificato per il riconoscimento di invalidità di mia moglie. In quell'occasione mi disse in tono minaccioso che avrebbe messo a posto anche me. Non avrei mai immaginato che avrei realmente subito gravi conseguenze. La giudice Carlesso "visto il ricorso presentato dal dottor Mezzina responsabile del csm Barcola-Aurisina per la nomina di una amministratore di sostegno" nominava l'avvocato Astrid Vida amministratore di sostegno di mia moglie con poteri esclusivi sul patrimonio e sulla cura della persona, escludendo me, mia figlia e tutti i familiari. Per escludermi aveva inventato una conflittualità con mia moglie che non era mai esistita, perchè ho sempre avuto tutte le premure per lei anche organizzando viaggi e vacanze per risollevarla nei periodi di depressione. Il nostro reddito ce lo permetteva. Io ho lavorato tutta la vita, ho fatto l'imprenditore anche all'estero e ho viaggiato in tutto il mondo. Ma quando le condizioni di mia moglie erano diventate più difficili e la giudice Carlesso mi relegava al ruolo di estraneo, io sono quello che si prendeva tutto il carico di accudire a una incontinente totale, a cambiarla e lavarla, a fare cinque o sei lavatrici al giorno, a stendere, asciugare e stirare, a tenere pulita la casa, a fare la spesa, cucinare, servire, sparecchiare e a risolvere tutte le cose necessarie per la gestione della famiglia, della casa, dell'orto, del giardino, degli animali domestici. Operatori del centro di salute mentale? Ho dovuto fare delle denunce per la sparizione di oggetti preziosi. Operatori domiciliari? Non facevano quello che l'amministratrice Astrid Vida affermava, come ho fatto mettere a verbale. Non si facevano vedere per mesi con la scusa che non aprivo: Altro che avrei aperto, se fossero venuti per fare qualcosa di utile. E quando sono venuti cosa hanno fatto? Devo riferire del caso di un'operatrice della cooperativa La Quercia, certa Andreina. Questa signora era così invadente che voleva comandare e criticava tutto quello che faceva mia figlia. Sanno che quando si è sottoposti ad amministratori di sostegno possono maltrattarci come vogliono. Un giorno ha detto a mia figlia: "Vedrai che ti chiamerà la giudice. E così è stato. Mia figlia è stata convocata in tribunale per un vero e proprio processo. C'era la Andreina, il capo della Quercia, la Astrid Vida. Mia figlia era nel terrore, perchè aveva già conosciuto la signora Carlesso. Come l'aveva conosciuta? Era venuta in casa, al pian terreno. Mi chiese l'estratto conto della mia banca e i dati della pensione. Poi uscì dal tinello, c'erano anche l'avv. Astrid Vida, l'avv. Chiara Valle, mia moglie con una sua amica, io, e mia figlia. La giudice, uscita dal tinello, sul corridoio alla sinistra vicino alla porta d'entrata si è messa a strattonare la porta perchè era chiusa. Io le dissi che l'altra porta più avanti era aperta e lei è messa a visitare tutte le stanze in pian terreno, poi è salita su per le scale al primo piano e ha voluto visitare tutte le stanze, gridando con arroganza di levare tutti i tappeti dai pavimenti. Ha voluto vedere la stanza di mia figlia, e ha deciso che era in disordine e si è messa a gridare sia a me che a mia figlia, offendendola. Poi e' andata di nuovo nel tinello lasciando mia figlia traumatizzata, gridando che sente puzza. Ma dove siamo? Come si permette quella signora giudice di invadere con simile prepotenza la nostra casa? E' evidente che è abituata a fare questo. Le persone normali non fanno questo in casa degli altri. Mia figlia ne ha risentito a lungo. Ecco che quando è dovuta andare in tribunale in mezzo a quelle persone ostili, io, suo padre, mi sono sentito in dovere di non lasciarla completamente sola. Ho chiamato al telefono la giudice che, quando mi ha riconosciuto, ha detto: "Ecco che spunta il diavolo con le corna" e ha messo giù il telefono. Ma è normale questo modo di comportarsi di una giudice? Nessun rispetto per le persone. Quando mi aveva convocato in tribunale, stanza 90, mi interrogava come se fossi un detenuto, e parlando con altre persone faceva sentire che diceva di me che vado a prostitute. E poi mi costrinse a firmare un documento che aveva scritto senza permettermi di leggerlo. Non esiste più la democrazia in Italia? Una volta in casa mia, nel giardino, ci imponeva nuove condizioni di vita. Per esempio non dovevo più comprare l'olio d'oliva che aveva visto in casa, ma quello di bassa qualità che aveva deciso lei! A quelle scene era presente il medico di famiglia, quello che abbiamo adesso, che cercò inutilmente di moderare l'atteggiamento intimidatorio della signora Carlesso. Questa invadente signora azzardò perfino a interrogarmi sulle mie abitudini sessuali, e mi chiese cosa facevo quando.... non mi sento di ripetere qui le sue esatte parole. Mia figlia mi confidò che aveva rivolto anche a lei simili domande, mortificandola e offendendola. Un giorno vado alla banca dove mi versavano la pensione per ritirare dei soldi. Ma il cassiere mi dice che non posso ritirare nemmeno un centesimo. Cos'era successo? La giudice Carlesso aveva affibbiato anche a me un amministratore di sostegno. E lo scoprii così, a fatto compiuto. La giudice aveva sequestrato oltre alla pensione anche i miei risparmi di circa 5.000 euro. Le aveva dato supporto lo psichiatra Mezzina, che in quel modo aveva eseguito l'oscura minaccia di tempo prima: "poi sistemerò anche lei". Da allora per avere una parte della mia pensione, meno della metà, devo andare a elemosinare dalla "mia amministratrice" avv. Chiara Valle. A suo tempo la psichiatra Santoro, sempre del csm di Barcola, aveva dato ordine al mio medico di famiglia, dottor Paoletti, di farmi una visita e di prescrivermi psicofarmaci. Quindi una psichiatra ordina al medico cosa deve fare ai suoi assistiti? Quando vidi che si trattava appunto di psicofarmaci li rifiutai. La Carlesso ha subito messo per iscritto che ho rifiutato gli psicofarmaci prescritti dal dottor Paoletti. Mi costrinsero a fare ben quattro visite psichiatriche a pagamento. Ma la Santoro è quella che a mia moglie faceva assumere 300 mg per tre volte al giorno di Seroquel, cioè 900 mg! Ricoverata in ospedale, a Cattinara, le ridussero a 100 mg al giorno, di mattina. E la Santoro non potè che adeguarsi. Cosa volevano fare di mia moglie? Hanno fatto che è deceduta per tutta una serie di sventure dovute a questa spietata persecuzione del sistema delle amministrazioni di sostegno. Mia moglie aveva scritto alla Carlesso una dichiarazione di piena fiducia in me, che avevo sempre gestito con oculatezza i beni di famiglia, e voleva che fosse revocata l'amministrazione di sostegno. Ma invece la imposero anche a me, delegittimandomi totalmente. Così quando aggravandosi mia moglie decideva di recarsi con frequenza alla chiesa, malgrado le sue condizioni di incontinenza e di instabilità, io non potevo oppormi, ridotto com'ero a un estraneo; mi avevano detto che sarebbe stato sequestro di persona. E a questo sono dovute le numerose cadute di mia moglie per la strada, con le varie contusioni alla testa, fra le quali due molto gravi alla nuca, che sono state decisive per il suo tracollo. Mi avevano impedito di agire nell'interesse della vita di mia moglie. Anche questo è un grave elemento di denuncia, condivisa da parte di mia figlia. Finalmente a fronte di una perizia psichiatrica che dimostra la mia integrità mentale, il mio avvocato ha ottenuto la revoca dell'amministratore di sostegno. Il documento di revoca è costituito da una breve dichiarazione della amministratrice, nel quale aderisce alla richiesta di revoca. Anche in queste poche righe non sono mancate le calunnie nei miei riguardi. In meno di due righe l'avvocato Chiara Valle dispone la stessa adesione anche per quanto riguarda e a nome del centro di salute mentale. La giudice tutelare se la sbriga con un timbro e una firma. Ma allora perchè sono stato perseguitato per anni? Dove sono finite le dichiarazioni calunniose della giudice tutelare, che si arrogava anche il ruolo di perito psichiatrico, che mi hanno imposto un regime di schiavitù? Se una persona innocente fa cinque anni di carcere duro per errore ha diritto a essere risarcita? P. G.

Trieste - Il Tuono 11 dicembre 2010. L’udienza di Alba A seguito della pubblicazione sul Tuono del mio esposto (firmato per esteso) sui gravi impedimenti a curarmi la salute che mi derivano dall’imposizione dell’amministrazione di sostegno, le persone che mi conoscono sono sbalordite di scoprire che io sia praticamente interdetta, priva dei fondamentali diritti dei cittadini. I più sorpresi sono i medici che mi conoscono. In realtà non solo mi viene impedito di acquistare, con i miei soldi, i medicinali di cui ho bisogno. Desidero che si sappia l’ultimo episodio, di questi giorni. Ero convocata dalla giudice Fanelli; è lei che ha deciso che io debba dipendere totalmente dalla avvocatessa Barbara Fontanot. Motivo della convocazione? Io voglio essere liberata dalle catene che mi impediscono di vivere una vita normale, e per questo sono ricorsa a dei professionisti per ottenere dei certificati legali che dichiarino la mia integrità mentale. Dispongo da molti mesi di perizie psicologiche e psichiatriche che testimoniano esattamente questo. I cittadini che non sono ancora incatenati (ma fino a quando? la giudice tutelare Carlesso annunciava 25.000 “beneficiari” a Trieste) non sanno quanto sia difficile ottenere queste perizie. Perchè, sono tutti matti? No, perchè dal momento in cui si viene messi al guinzaglio di un amministratore di sostegno viene vietato l’uso dei propri soldi. Questi amministratori nominati da un giudice, quasi tutti giovani avvocati o praticanti, non permettono che il “beneficiario” disponga dei soldi per visite mediche, medicinali (come ho esposto), figuriamoci per perizie psichiatriche e psicologiche, che ovviamente hanno lo scopo di revocarli. Ho consegnato le perizie al mio avvocato di fiducia, il quale le ha allegate alla richiesta di revoca dell’amministrazione di sostegno. Ebbene, con quale esito? Ho ottenuto la revoca? No, la mia amministratrice ha chiesto alla giudice di nominare un perito giudiziale, nel cosiddetto ruolo di CTU. Non gradisce le perizie che mi valutano assolutamente normale; ci tiene a continuare a farmi da angelo custode. La giudice l’accontenta. Mi fissano un’altra udienza, alla quale mi dicono che non occorre che io sia presente, e assegnano questo compito, cioè di decidere della mia vita, al dr. Capodieci del Centro di salute mentale della Maddalena. Arriviamo all’udienza, fissata alle ore 9. Ovviamente mi presento, perchè mai dovrebbero decidere della mia vita in mia assenza? All’ora stabilita la porta della giudice Fanelli è chiusa. La segretaria del mio avvocato mi dice che probabilmente dentro c’è il dr. Capodieci per il giuramento. Dopo lunga attesa suono; dentro non c’è nessuno. Verso le 9.30 fuori della porta si crea un piccolo affollamento. Alle 9.45 arriva la giudice, apre l’ufficio e si crea un andirivieni delle persone che erano in attesa. Lentamente, a spizzico, l’avvocatessa Fontanot, arrivata dopo la giudice (lei era informata?), mi spiega. Visto che ci sono anch’io! Ecco cosa decidono per me. Il dr Capodieci ha rifiutato l’incarico; mi dicono perchè già mi conosce. Cosa significa? Se già mi conosce, che è vero, perchè non testimonia che sono “normale”? Lui lo sa benissimo, mi aveva addirittura suggerito anche lui di chiedere la revoca. Forse veniva ingaggiato solo se dichiarava che sono matta? Hanno proposto l’incarico a un altro psichiatra, il dr Ottolenghi; il quale mi risulta aver lavorato per decenni alla clinica psichiatrica. Il dr Ottolenghi ha rifiutato. Allora l’avvocatessa Fontanot ha detto che ne dovranno trovare un altro. Sembra proprio che non voglia perdere la sua beneficiaria, che sono io. Troppo buona. Custodisce accuratamente i miei soldi in modo che io non possa scialacquarli in medicinali e beni di prima necessità. Pongo ora pubblicamente alcuni interrogativi ai quali persone più qualificate di me forse troveranno risposta. Perché la mia amministratrice deve impegnarsi a “trattenermi” in tutti i modi? Perché per la giudice Fanelli non hanno valore le perizie di due professionisti? Quando l’avvocatessa Fontanot troverà un perito che mi dichiarerà matta, avrà maggior valore delle perizie che ho consegnato alla giudice Fanelli? Perché il signor P. che ha ucciso il fratello a coltellate nel 2009 può andare libero e non sarà mai chiamato in tribunale, grazie alle perizie degli psichiatri Ottolenghi e Marsili, e io continuo a essere condannata senza aver mai compiuto alcun reato? Se anche fossi matta, ma so gestire le mie cose meglio di molti avvocati che fanno gli amministratori di sostegno, perché la giudice vuole farmi amministrare da un’estranea? Dal momento che a Trieste questi celebri psichiatri sono paladini della riforma Basaglia, perché lo psichiatra Riolo del csm della Maddalena ha fatto una segnalazione anni fa al tribunale per farmi togliere i diritti che Basaglia ha fatto restituire ai matti? E perché il suo collega Capodieci non ha voluto o potuto testimoniare quello che già sa, da anni? Perché si vuole impedire con ogni mezzo che una persona riacquisti i suoi diritti, e si rende così l’amministrazione di sostegno una condanna a vita? Perché infine non si sottopongono l’avvocatessa Fontanot e la giudice Fanelli ad accertamenti per l’ingiustificato accanimento che stanno dimostrando in questo modo nei miei riguardi? Alba Giacomelli * * * I meccanismi giudiziari possono essere macchinosi e complessi, ma la disattenzione alle necessità immediate di persone in difficoltà non è mai giustificabile, ed ancor meno quando le difficoltà sono imputabili anche a decisioni dell’autorità giudiziaria (pur di diverso giudice) che si sono dimostrate quantomeno discutibili e certamente non sufficientemente o male verificate nei presupposti. La riparazione degli errori è notoriamente efficace quanto più è rapida in proporzione allo stato di bisogno: bis dat qui cito dat.

Il Tuono 9 ottobre 2010. Amministratori di sostegno Trieste, 2 ottobre – Un pensionato fa lo sciopero della fame perché gli è stato assegnato un amministratore di sostegno che gestendogli i soldi gli impedisce di prendersi le poche soddisfazioni che possono ancora dargli quel po’ di felicità che è diritto di ognuno. Altra stampa ci ironizza sopra. Ma in realtà si tratta di un problema d’esercizio o violazione di diritti fondamentali, che riguarda un numero crescente di persone anziane. E la pretesa di metterle senza necessità assoluta sotto il controllo di terzi è un progetto sostanzialmente ideologico, sul quale stiamo acquisendo documenti chiarificatori indubitabili, che pubblicheremo quanto prima. Ho avuto l’occasione, purtroppo, di conoscere altri casi che mi sembrano di abusi avvenuti qui a Trieste nelle amministrazioni di sostegno, ma anche in almeno un caso di tutele. Se desiderate posso mandarvi le informazioni che possiedo. Pare anche che alcuni dei giovani avvocati ai quali sono state affidate le amministrazioni di sostegno ne ano cumulate addirittura decine a testa, in tribunale ho sentito dire addirittura una cinquantina, e se come nel caso che avete citato nell’ultimo o penultimo numero si prendono 7.000 euro annui per ciascuna diventa una rendita considerevole. (lettera firmata)

- Grazie, tutte le informazioni ci saranno senz’altro utili per il seguito nella nostra inchiesta, e potremmo inoltrarle come le altre anche agli Organi inquirenti.

Il Tuono - 11 settembre 2010 Amministratori di sostegno. Il sottoscritto A.d.S. Marco Marcon chiede scusa nel voler rubare nuovamente spazio prezioso a questa rubrica, ma vi si trova costretto a causa dell’ironia fuoriluogo degli avvocati autori della missiva pubblicata sul n. 5. Il sottoscritto si definisce “indipendente, in quanto non iscritto o collaborante con organizzazioni o enti sociali quali i patronati, sindacati, associazioni di consumatori; né tantomeno facente parte di studi legali. Invece di sbeffeggiare il sottoscritto, farebbero meglio a preoccuparsi, del crescente degrado della professione forense a Trieste. Nella quale non di rado la deontologia professionale lascia il posto ad una squallida ricerca di vantaggi personali anche ai danni dei propri clienti. È doveroso informare l’opinione pubblica (cosa che questa testata libera fa correttamente) che il giudice tutelare nomina guarda caso un avvocato o praticante tale in caso di conflitti tra parenti. Ma sulla nomina dell’avvocato e di un eventuale protutore ci sono in alcuni casi, parecchie anomalie. La nomina di un legale poi, porta alle volte ad una secretazione pressoché totale nei confronti dei parenti esclusi. Sul fatto che questo sia uno stato di diritto, forse è meglio sorvolare (vedi leggi ad personam). È ovvio che le leggi vengono fatte rispettare dalla magistratura e dalle forze dell’ordine e da altri pubblici ufficiali, ma non certo dagli avvocati, che rimangono soggetti privati. E se questo fosse uno stato di diritto, molti di più sarebbero già stati radiati dall’albo. Tengo inoltre a precisare che al sottoscritto, non interessa farsi leggere, ma segnalare un certo malcostume in questo settore, spiacente per voi ma regolarmente documentato. In merito poi all’affermazione che tutti i magistrati locali sono sempre stati pronti a sventare gli abusi, scusate ma per esperienza diretta sarebbe stato più opportuno a mio avviso usare il tlermine alcuni. Inoltre dallo scritto si evince che in sostanza secondo quegli avvocati, tutti gli A.d.S. non-avvocati sarebbero degli incapaci se non peggio, mentre loro sono tutti bravi e onesti. Un’immagine alquanto semplicistica che non fotografa di certo la realtà, fatta si di avvocati onesti, ma anche di avvocati disonesti, così come ci sono A.d.S. e tutori non avvocati onesti e altri che si approfittano della situazione e della mole di lavoro alla quale il tribunale è sottoposto con la mancanza di mezzi e personale. In merito agli indennizzi a favore di chi svolge questo compito la differenza sta nel fatto che se non sei avvocato forse otterrai il rimborso del trasporto pubblico perché lo fai per un parente o amico perché sei un pensionato, quindi hai tempo da perdere: vuoi mettere un avvocato, che “deve” sottrarre tempo alla sua attività. Infine sull’affermazione c che gli avvocati non si sottraggono agli uffici ai quali sono chiamati: forse perché sono praticanti, quindi non possono rifiutarsi, oppure scaricano il peso dell’amministrazione e/o tutela sui famigliari (ladri e incapaci),inviando la propria segretaria al disbrigo di questa o quella pratica burocratica per il beneficiario. E a questo punto mi chiedo chi è realmente tale, l’avvocato o il beneficiario stesso. Ovviamente il sottoscritto è sempre disponibile ad un libero scambio di opinioni sull’amministrazione di sostegno e tutela a Trieste anche in un’altra sede, ma dubito fortemente che lorsignori avranno il coraggio di accettare. Marco Marcon - Amministratore di Sostegno

- Ne dubitiamo anche noi.

Testo interrogazione a risposta scritta. Atto a cui si riferisce: C.4/08693 [Relazione fiduciaria tra beneficiario e amministratore di sostegno]. Atto Camera seduta mercoledì 22 settembre 2010. Seduta n. 372. Delia Murer. - Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. - Per sapere - premesso che:

la legge n. 6 del 2004 norma la figura dell'amministratore di sostegno, fissando il diritto per una «persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi», di essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio;

la norma prevede che il beneficiario conservi la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministratore di sostegno e che questi nello svolgimento dei suoi compiti deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario;

la norma tutela il beneficiario prevedendo che gli atti compiuti dall'amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge, od in eccesso rispetto all'oggetto dell'incarico o ai poteri conferitigli dal giudice, possono essere annullati;

risulta che molti Amministratori di sostegno lamentino enormi difficoltà burocratiche in ordine allo svolgimento del loro mandato, soprattutto nel rapporto con gli istituti di credito;

nello specifico molte banche, nell'aprire un conto corrente specifico per l'amministratore di sostegno di un soggetto beneficiario, rifiutano la concessione della carta bancomat, negano l'accesso al banking on line, e consentono prelievi solo direttamente allo sportello e previo sblocco del conto con una nota giustificativa scritta sull'uso del denaro;

tali procedure vengono giustificate con la necessità di una gestione rigorosa dei beni del beneficiario, onde evitare contestazioni dello stesso o dei suoi eredi, al fine, al tempo stesso, di proteggere il patrimonio da eventuali azioni di annullamento degli atti;

questa rigidità, di cui peraltro non si trova ragione nel dettato normativo che crea tutti i presupposti nella relazione di fiducia tra beneficiario e amministratore di sostegno, crea non pochi problema nella gestione quotidiana di una relazione che già presenta le sue ovvie criticità;

nello specifico, tali vincoli sembrano davvero eccessivi rispetto a relazioni beneficiario-amministratore di sostegno basate spesso su vincoli parentali e talvolta su assenza totale di patrimoni, laddove i movimenti economici sono relativi alla

sola fruizione di sussidi e indennità utilizzate esclusivamente per il benessere e il sostentamento del beneficiario -:

dal Ministro se sia a conoscenza dei casi di critica gestione delle procedure burocratiche tra gli amministratori di sostegno e gli istituti bancari e se non ritenga necessaria un'iniziativa normativa o esplicativa della corretta applicazione del dettato normativo della legge n. 6 del 2004, aprendo, almeno per le situazioni di grosso disagio economico e di assenza di grandi patrimoni, la possibilità di una gestione meno burocratica e più fluida della relazione fiduciaria tra beneficiario e amministratore di sostegno. (4-08693)

Quando il femminicidio inventa mostri....Di Riccardo Ghezzi, il 8 maggio 2014 su qelsi.it. Pubblicato da Giulio Celso a il il 8 maggio 2014 comeulisse.blogspot.com. In tempi di “femminicidio” è facile sbattere il mostro in prima pagina. Ancora prima di essere giudicato da un tribunale, Luigi Corrias fu definito dalla stampa come un ingegnere che “per anni ha fatto subire alla madre ogni tipo di angherie”. Un mostro che “le ha impedito pure di mangiare”, l’ha “schiavizzata” e addirittura le ha “fratturato una mandibola” durante una lite. Ma non era vero. In realtà avrebbe dovuto essere chiaro fin dall’inizio come non ci fossero prove delle accuse a carico dell’uomo, la cui vita e reputazione è stata rovinata. Luigi Corrias, difeso dall’avvocato Giuseppe Caccamo del Foro di Genova, ha patito un lungo periodo di detenzione nell’inferno del Carcere di Marassi finché il 20 gennaio 2014 il Tribunale di Genova, presieduto dal Dott. Marco Panicucci, ha assolto l’imputato perché “I fatti non sussistono”. In sintesi questi i fatti emersi dal processo. Luigi Corrias vive da sempre ed assiste la madre, malata di tumore, che rifiutava le terapie tra infinite difficoltà. La madre è una donna anziana che ha sempre trascurato gravemente la propria salute. Il male le fu scoperto dopo un drammatico ricovero per una pancreatite che rifiutava di curare e che la stava uccidendo. All’inizio l’unica cura prescrittale fu il biglietto da visita dell’associazione per le Cure Palliative Gigi Ghirotti, escludendo qualsiasi terapia pure prevista dai protocolli terapeutici. Luigi Corrias ha lottato per la salute di sua madre mettendo a punto, con il consulto di oncologi qualificatissimi, uno schema terapeutico efficace. Non solo, questa tragedia avveniva in quella che gli inquirenti hanno definito una famiglia “conflittuale”: congiunti che lo avevano ammonito, sostenendo che fosse il figlio responsabile e che non dovesse fare richiesta di cure strampalate. Consapevole di trattare una situazione esplosiva, Luigi Corrias ha intrapreso la sua lotta su due fronti: mettere a punto le cure più efficaci ed approdare ad un Giudice Tutelare che avrebbe dovuto affidare la madre ad una figura di tutore, in maniera tale che fosse garantita da buone leggi, protetta da se stessa e dai conflitti famigliari. L’udienza si concluse disastrosamente. Senza la tutela di un buon avvocato famigliarista, male assistiti dai servizi sociali, sono stati “lavati i panni sporchi in piazza”. Il Giudice Tutelare non ha saputo interpretare la situazione ed ha respinto l’istanza lasciando scoperta una situazione esplosiva. Pochi giorni dopo l’udienza, la mamma rifiutava la visita oncologica di controllo e per convincerla a farsi visitare è stato necessario chiedere l’intervento di sacerdoti, amici di famiglia, il medico.  I congiunti hanno poi praticamente sequestrato la madre, impedendo ogni contatto e portandola per ritorsione a denunciare Corrias. La denuncia è andata avanti ed il PM Walter Cotugno ha chiesto l’arresto circa un anno dopo. La madre era rimasta senza cure durante la permanenza dei parenti, il male era riesploso ed il Corrias si è dovuto raccomandare ai Carabinieri che lo arrestavano, affinché qualcuno la seguisse per la chemioterapia che doveva effettuare nei giorni successivi. Luigi Corrias è stato indagato, mentre si trovava nel Carcere di Marassi, dalla Dott.ssa Adriana Petri, il gip, la prima persona che cercando le ragioni della colpevolezza ha trovato le prove della sua innocenza. Gli indizi gravi che hanno giustificato l’arresto erano privi di qualsiasi fondamento: “Gli inquirenti non hanno letto le carte e hanno confuso il mio nome con quello di un parente, paziente psichiatrico pluripregiudicato, oltre ad aver dato retta alle calunniose dichiarazioni dei congiunti ed alle dichiarazioni incoerenti della mamma” sostiene Corrias. Nessuno durante le indagini si è mai neppure reso conto che è impossibile procurare lesioni ad una malata di cancro che viene sottoposta a continui esami medici senza lasciare tracce. Durante il processo l’anziana madre ha rilasciato numerose dichiarazioni contraddette dai fatti ed ha addirittura lamentato lesioni che la certificazioni mediche hanno dimostrato inesistenti. Una perizia ha certificato che Luigi Corrias è sano di mente, privo di significativi disturbi della personalità, capace di intendere e volere e quindi imputabile. Lo psichiatra che lo ha visitato, il dott. Gian Luigi Rocco, è il medesimo specialista che ha visitato Donato Bilancia, Stefano Diamante, Katerina Mathas. Dopo la scarcerazione, una istanza restrittiva impediva al Corrias di riavvicinarsi a casa e contattare la mamma. Una volta assolto, Luigi Corrias avrebbe finalmente potuto tornare a casa, riprendersi professionalmente e rivedere la madre. Ha trovato però la proverbiale porta di legno: da gennaio la madre è praticamente scomparsa e sono stati disdettati in pochissimi giorni affitto, utenze gas, luce ecc. Luigi Corrias vive dei risparmi di una vita fatti di lavori a tempo determinato. Non vi è lavoro a Genova ed addirittura i suoi computer, strumenti del suo lavoro con inestimabili ricordi che erano stati sequestrati, gli sono stati restituiti sfasciati. “Sto cercando disperatamente mia madre che è sempre più confusa e malata. Temo sempre possa succedere qualcosa a causa della malattia. L’angoscia che nel carcere diventa residenza, luogo che ti circonda e ti costringe sempre, adesso da libero ed assolto me la porto dentro continuamente. Passo dei momenti terribili. Vorrei che la gente sapesse cosa succede nell’Inferno di Marassi. Vorrei che i miei parenti lo ripetessero ora che sono il figlio responsabile” commenta oggi Corrias.

‎Facebook Luigi Corrias‎ a Trio Medusa il 10 dicembre 2014. Mi chiamo Luigi Corrias e sono stato arrestato due anni fa per violenza domestica ho patito un lungo periodo di detenzione nell’inferno del carcere di Marassi e lo scorso gennaio sono stato assolto, in primo grado, perché i fatti non sussistono. Tutto quello che racconto può essere assolutamente provato da fatti emersi durante un processo. Vivo da sempre con mia madre, oggi una anziana difficilissima malata di tumore che ha sempre trascurato gravemente la propria salute. Il male le fu scoperto dopo un drammatico ricovero per una pancreatite che rifiutava di curare e che la stava uccidendo. Ero, non fraintendetemi, quasi contento che si ricoverasse perché un medico mi aveva spiegato che viveva di rendita dopo questi ricoveri. Per spiegare quanto fosse difficile da trattare la mamma racconto un breve episodio: durante l’attesa degli esami per confermare l’esito del tumore la mamma, allo scopo di non farmi preoccupare, aveva firmato una nota che io non fossi informato delle sue condizioni di salute. La mamma diceva che venivo a trovarla e mezzogiorno e faceva caldo e se non venivo non sudavo e non mi sarei raffreddato…Nessuno, nonostante l’obbligo di informare il paziente delle sue reali condizioni di salute in maniera comprensibile, aveva spiegato alla mamma che cosa le stesse succedendo. La notizia della malattia le fu data dopo il rifiuto di sottoporsi alla prima flebo di chemioterapia. I medici esasperati l’aggredirono verbalmente e le dissero che se non si curava aveva sei mesi di vita. La mamma compresa alla fine la situazione e pianse per tutta la notte...All’inizio l’unica cura prescritta per il cancro fu il biglietto da visita dell’Associazione Gigi Ghirotti, escludendo qualsiasi cura pure prevista dai protocolli terapeutici. Alla richiesta di una visita con il primario mi fu risposto con cattiveria: “Che cosa vuoi che ti faccia il primario?” Per il tumori non esiste ancora una soluzione definitiva: il farmaco da banco...Esistono diverse terapie che possono diventare più o meno efficaci a seconda dell’intelligenza del medico che le applica. Considerata la complessità della situazione ho fatto visitare la mamma da diversi oncologi qualificatissimi che hanno messo a punto uno schema terapeutico efficace. Una via crucis che è ben nota a molte persone che vengono colpite da questa tragedia. La mamma rispose meravigliosamente alle cure. Auguro a tutti i malati ed ai loro parenti di avere una gioia del genere. La mamma come ho accennato è una anziana difficilissima rifiuta le terapie e sarebbe diventato una vera impresa solo sottoporla alle visite periodiche di controllo. Esami medici terribili, a volte falsi allarmi o false speranze, che alla fine diventano una sentenza di morte. Questa tragedia avveniva in quella che gli inquirenti hanno definito una famiglia “conflittuale”: contatto i miei parenti, alcuni veri pazzi criminali, per informarli della situazione e cercare un aiuto ed una pacificazione. Mi ammoniscono sostenendo che sono il figlio responsabile e che non dovevo andare a rompere le palle con le mie richieste di cure strampalate. Queste scenate venivano fatte anche in corsie d’ospedale dove la gente moriva o soffriva tremendamente. Per sfottermi mi viene ripetuto: “Che cosa vuoi che ti faccia il primario” e tante altre cattiverie o idiozie. Mi trovo incastrato tra mia madre, il cancro, l’infinita sofferenza per la malattia di mia madre e la sua possibile morte, i miei parenti e cerco una via d’uscita, un punto di equilibrio. La soluzione che trovo è mettere a punto le cure più efficaci ed approdare ad un Giudice Tutelare che avrebbe dovuto affidare mia madre ad una figura di tutore, in modo da renderla gestibile, garantita da buone leggi, protetta da sé stessa e dai conflitti famigliari. Ritengo che questa mia iniziativa sia la via da seguire, la soluzione, per tutte le persone coinvolte in queste tragedie. L’udienza con il Giudice si concluse disastrosamente. Senza la tutela di un buon avvocato, male assistito dai servizi sociali, commetto una serie di gravi errori e “lavo i panni sporchi in piazza”. Il Giudice Tutelare non ha saputo interpretare la situazione ed ha respinto l’istanza lasciando scoperta una situazione esplosiva. Ritengo che la principale responsabile della tragedia che sto vivendo sia appunto quel Giudice tutelare che non mi ha consentito di parlare, non ha letto le carte che presentavo e le ha addirittura inviate ad un Pubblico Ministero...Ritengo che il carattere di elevata pericolosità sociale che mi fu attribuito nel primo mandato di cattura sia senza dubbio da riferire a quel Giudice. Per questa vicenda sono stato sottoposto a diversi interrogatori, anche durissimi, in carcere e fuori, ho subito arresti ma nessuno mi ha trattato con la negligenza di quel Giudice tutelare! Ho paura ogni volta che penso che questa persona quotidianamente da udienza e tenta di risolvere tragedie analoghe alla mia. Tutti i problemi che denunciavo sono diventati capi di imputazione contro di me! Avevo presentato diversi fascicoli: in uno parlavo di un mio parente, un pazzo criminale. Gli inquirenti non hanno letto le carte e mi hanno confuso con lui affibbiandomi i suoi precedenti. Addirittura durante il processo un Pubblico Ministero continuava ad accusarmi agitando quelle carte con un nome diverso dal mio e chiedendo al Giudice di farmi tacere mentre io, costretto al banco degli imputati neppure fiatavo. Il Pubblico Ministero ha richiesto che questo parente, pazzo criminale, venisse a testimoniarmi contro mentre era detenuto per estorsione! Ancora un episodio: Dietro mio interessamento assisteva la mamma un tale che millantava di essere Assistente domiciliare del Comune di Genova. Questo tale faceva promesse a vanvera e creava scenate estremamente penose.

Ricordo ad esempio che mi urlava contro che era inutile che mi dessi tanto da fare tanto la mamma sapeva che doveva morire. Ho portato dal giudice il numero di cellulare dello psicologo che seguiva questo tale, lettere di personalità del sociale che mi dicevano che facevo bene a tutelare mia madre da quello che poteva essere un millantatore malato, lettere del Comune di Genova che confermavano che questo tale era uno sconosciuto. In carcere mi venne notificato che, tra i numerosi capi di imputazione, avevo anche allontanato questo sedicente “Assistente domiciliare” del Comune di Genova. Il Giudice Tutelare riuscì anche a scrivere: “In vista di eventuali peggioramenti della mamma..” come se il cancro fosse una malattia dell’infanzia e non dovesse mai più ripresentarsi…Riuscì a Dimenticare una neoplasia. Pochi giorni dopo l’udienza, la mamma fatalmente rifiutava la visita di controllo e per convincerla a farsi visitare è stato necessario chiedere l’intervento del sacerdote, amici di famiglia, ed il medico curante che, alla fine, ha risolto la situazione. È facile immaginare la mia esasperazione. C’è stata poi una lite ed i miei congiunti hanno praticamente sequestrato mia madre, impedendo ogni contatto e portandola per una pazzesca ritorsione a denunciarmi. Hanno portato una vecchia di 80 anni che rifiuta di curarsi il cancro in una caserma dei Carabinieri, a denunciarmi che lo sto rovinando la vita con le medicine! La denuncia è andata avanti ed un PM ha chiesto il mio arresto circa un anno dopo. hanno dato retta alle calunniose dichiarazioni dei congiunti che temevano eventuali azioni del Giudice Tutelare ed hanno dato retta alle dichiarazioni incoerenti della mamma anziana difficilissima che malediceva me ed i medici che l’hanno in cura. Per avere notizie della mamma in quell’occasione dovetti denunciare la scomparsa di persona. Mia madre rimase senza cure adeguate durante la permanenza dai parenti e, con buona pace del Giudice Tutelare, il male riesplose ed io mi sono dovuto raccomandare ai Carabinieri che mi arrestavano, affinché qualcuno la seguisse per la chemioterapia che doveva effettuare nei giorni successivi. Elenco brevemente molte prove della mia innocenza immediatamente a disposizione degli inquirenti che avrebbero potuto risparmiarmi l’arresto. Avevo inviato al Giudice tutelare un certificato medico che diceva che la mamma rifiutava le terapie ed aveva bisogno di sostegno psicologico per i conflitti tra i famigliari. Questo documento rimase ignorato. Durante le prime indagini nessuno tra le Forze dell’ordine si è mai neppure reso conto che è impossibile procurare lesioni ad una malata di cancro che viene sottoposta a continui esami medici senza lasciare tracce. Noto che il capitano della Stazione dei Carabinieri che ha proceduto al mio arresto mi confidò che suo padre era mancato di leucemia a 59 anni ma, procedendo con le indagini su indicazioni del PM, non gli è venuto in mente di richiedere la documentazione medica. Sarebbe stato sufficiente vedere i certificati medici ai medici per provare ancora una volta la mia innocenza. Mi hanno anche accusato di essere stato paziente per anni in un Centro di Salute Mentale. Ho dovuto provare che durante quel periodo ero un brillante studente universitario quindi non potevo essere in preda ad un grave esaurimento nervoso ed io ho poi scoperto in carcere che il Centro di Salute mentale indicato nel Mandato di cattura nemmeno esiste! Mi fu spiegato da una psicologa molto gentile invitandomi a considerare che la verità sarebbe emersa. Hanno interrogato una vicina di casa che io invitavo per tenere compagnia alla mamma ed a me e che veniva a fare le iniezioni. Ha detto che ero una persona molto gentile e premurosa e che sul corpo della mamma non vi erano tracce di alcuna lesione. Potrei continuare a lungo. Per queste ragioni ero un soggetto di elevata pericolosità sociale, un pericolo pubblico che meritava l’arresto! Mentre mi trovavo nel Carcere di Marassi il Giudice Istruttore, un inquisitore terribile è stata la prima persona che cercando fanaticamente le ragioni della colpevolezza ha trovato le prove della mia innocenza. Alla fine quando non sapeva nemmeno più di cosa accusarmi mi ha contestato che scaricavo film da internet! Per potere essere ascoltato, per ripetere ancora come stavano davvero le cose le cose ho dovuto essere indagato in carcere! I giornali cittadini mi danno spazio e scrivono cose assurde esaltando il mandato di cattura: “Ingegnere schiavizza la madre, gli rompe la mandibola” è così via. Per quanto mi riguarda ho assistito a come si svolgono i fatti, a come i fatti possono essere stravolti in tribunale ed ancora sui giornali. Il risultato di questo processo è l’inferno del carcere italiano. Vorrei potere raccontare che cosa succede nell’inferno di Marassi e che cosa soffrono i detenuti che spesso poi sono solo dei disgraziati o addirittura persone innocenti come il Dott. Antonio Vozza il mio compagno di cella. Accenno solo ad alcune cose che ho visto di persona: Lo Stato Italiano viola l’articolo 27 della sua Costituzione e quello che nel nostro tempo sono definiti “Diritti Umani”, il trattamento riservato alla popolazione detenuta spesso non ha nulla da invidiare a quello veniva riservato nei Lager nazisti, nei Gulag o nelle moderne carceri americane di alta sicurezza Abu Grahib e Guantanamo. Vittime non sono solo i detenuti, dei quali non importa a nessuno, ma anche gli agenti di Polizia Penitenziaria: Vi sono tra queste persone figure eccezionali, come l’ispettore del Sesto braccio del carcere di Marassi, criminali aguzzini che non hanno nulla da invidiare ai delinquenti che custodiscono e moltissime persone per bene che, costrette in quell’inferno, si suicidano. I caduti della Polizia Penitenziaria non sono gli agenti vittime dei detenuti ma gli agenti medesimi vittime del Sistema Penitenziario. Le cure mediche in carcere sono impartite in maniera assolutamente approssimativa, ritengo anzi che spaventare i detenuti con diagnosi approssimative faccia parte della pena. Personalmente mi fu riscontrato un difetto cardiaco congenito che una volta libero risulta inesistente. Un detenuto in preda ad ischemia non venne soccorso perché il medico immagina che fingesse per essere scarcerato. Vengono somministrati psicofarmaci per reggere l’incubo della prigionia senza alcun vero criterio medico. Il risultato è che i detenuti, solo per questo motivo, sono ridotti in condizioni disumane. Ho riflettuto che sarebbe sufficiente costringere i delinquenti ai moderni psicofarmaci piuttosto che alla detenzione per distruggerli e punirli a sufficienza. La medesima psicologa che con me era molto gentile, per verificare il ravvedimento del mio compagno di cella, il Dott. Antonio Vozza e concedergli il permesso di vedere la moglie lo prendeva a schiaffi spingendolo a confessare finalmente delitti che non aveva commesso. Lui la invitava a non bestemmiare e subiva l’aggressione con una dignità che probabilmente io non sarei stato capace di mantenere. Dopo un mese di detenzione sono passato ai domiciliari proprio nell’abitazione del parente pazzo criminale che mi ha ridotto alla fame e torturato. Ho perso un controllo dei Carabinieri e sono stato processato per direttissima venendo assolto perché i fatti non sussistono. Sono stato rinchiuso in una camera di sicurezza per circa una giornata. La camera di sicurezza è una delle numerose torture offerte nelle prigioni italiane: un luogo blindato, assolutamente spoglio e sempre illuminato reso ancora più alienante dal continuo e monotono ronzio dell’aria condizionata. Ho compreso perché la gente in un luogo di quel genere, spinta dalla solitudine inizia a parlare da sola o con gli insetti che immagina di trovare. I carabinieri che procedevano al mio fermo sono stati gentilissimi ed estremamente corretti ma uno di questi mentre mi veniva offerto l’unico pasto decente della mia detenzione mi diceva che dovevo mangiare tutto entro cinque secondi contandoli. Mancavano solo quattro giorni alla scadenza della mia carcerazione preventiva ma sono stato arrestato nuovamente! Un altro giudice per le indagini preliminari, mentre il titolare della mia inchiesta era in ferie, aveva preso in mano il mio fascicolo privo dell’assoluzione per l’evasione. Anche in questa occasione un giudice per le indagini preliminari non ha letto le carte. Il risultato di questa criminale negligenza sono gli arresti privi di ragione. I carabinieri che procedevano al mio arresto non hanno contattato il mio avvocato che era andato in ferie. Ho protestato la mia innocenza in macchina e sono stato minacciato che mi sarebbero state messe le manette anche ai piedi e questa volta le mani mi sarebbero state bloccate dietro. Ho preferito tacere. Giunti a Marassi i Carabinieri dando l’ennesima prova di correttezza si sono raccomandati agli agenti di polizia penitenziaria affinché io avessi il trattamento più umano possibile. La cella migliore di Marassi pare essere quella recentemente riservata agli omosessuali affinché non fossero violentati dai compagni di cella. Io non sono omosessuale. Alla fine mi hanno rigettato ancora nel braccio dei mostri e degli infami, nella medesima cella in cui ero stato imprigionato la prima volta molto vicina a quella dove era stato Don Seppia, il sacerdote che violentava i bambini in difficoltà. Vedere i detenuti che mi salutavano con affetto e si ricordavano di me è stato agghiacciante. Ero di nuovo nell’incubo di Marassi e non capivo perché e cosa stava succedendo. Alcuni agenti di polizia penitenziaria hanno tentato di aiutarmi ma sono stato dimenticato in quell’inferno per circa un mese. La mia ragione ha vacillato... Ricordavo di essere stato assolto per il reato di evasione ma la realtà assolutamente mi confermava che ero di nuovo in carcere. Ho preso degli psicofarmaci ed anche io ne sono stato distrutto... Solo adesso a distanza di tempo riesco ad avere una idea del danno nervoso che mi hanno prodotto... Per gran parte di quel tempo infinito l’unico spazio che ho avuto a disposizione era quello occupato dal mio corpo. Chiesi ad un agente di Polizia penitenziaria se mi apriva lo spiraglio di una finestra ma mi disse: "No, fai la galera". Un altra frase che mi rivolta durante la mia detenzione: "Tu non puoi nulla, tu devi tutto!" Un altro giudice per le indagini preliminari ha riletto le mie carte ed ha ordinato la mia liberazione ma “Ora che sapevo in che cosa consisteva la massima sanzione” non mi dovevo avvicinare alla mia casa né a mia madre malata riducendomi così all’uscita del carcere come un barbone. Mi ero ridotto e sono ancora oggi un preoccupatissimo barbone. Nessun amico mi ha dato una mano in quel momento. Ritengo che l’atto giudiziario scritto da quel magistrato avesse poco a che fare con il Diritto ma fosse, più semplicemente, una minaccia che un giudice rivolge ad una persona detenuta. Per rivedere mia madre il Giudice titolare dell’inchiesta ha preteso che fossi visitato da uno psichiatra affinché io capissi quale fosse il mio ruolo famigliare! Cosciente di come ero stato distrutto dalla detenzione, dagli psicofarmaci e dalla tragedia che stavo vivendo ho naturalmente accettato. Ho subito in carcere e fuori circa una decina di visite psichiatriche. Una perizia alla fine ha certificato che ero sano di mente, privo di significativi disturbi della personalità, capace di intendere e volere e quindi imputabile. Lo psichiatra che mi ha visitato è il medesimo specialista che ha visitato Donato Bilancia, Stefano Diamante, Katerina Mathas e tanti altri. Per Natale il Giudice mi concesse finalmente il permesso di vedere mia madre ma non lo firmò e se ne andò in ferie. Intervenne ancora un altro Magistrato che prima firmò il permesso e successivamente andò a leggere gli atti, cambio idea, e nel giro di un ora lo ritirò. Mi sentì male e protestai con i carabinieri che fecero un drammatico rapporto al Tribunale contro di me. Per quanto mi riguarda, quattro dei Giudici per le Indagini Preliminari del Tribunale di Genova sistematicamente non leggono le carte e spesso quando alla fine prendono atto non hanno idea su che cosa devono decidere. Spinto dalla disperazione, poiché pareva che non potessi vedere più mia madre, ho dovuto violare l’istanza restrittiva ed incontrarla. Un gesto che per me significava ritornare ancora in carcere. Un gesto che ha rivelato un coraggio che nei fatti non ero certo di avere. Il Giudice scoprendo alla fine una clemenza ed una umanità eccezionale non mi ha risbattuto in galera ma mi ha rinviato a giudizio. Durante il processo gli indizi gravi che dovevano giustificare il mio arresto si sono finalmente dimostrati privi di qualsiasi fondamento: la mamma, che è venuta a testimoniarmi contro mentre era in chemioterapia, ha rilasciato numerose dichiarazioni confuse, contradditorie, prive di riscontri obiettivi ed addirittura contraddette dai fatti. ha addirittura lamentato lesioni prodotte da percosse che la certificazioni mediche hanno dimostrato prodotte da malattia cioè inesistenti. Tutti quanti si sono rimangiati le accuse agghiaccianti che hanno causato la mia detenzione ed il Giudice ha fatto finta di accorgersene. Sono stato assolto perché i fatti non sussistono. Avrei finalmente potuto tornare a casa, riprendermi professionalmente e rivedere mia madre in questo drammatico momento. Ha trovato però la proverbiale porta di legno: da gennaio mia madre è praticamente scomparsa e sono stati disdettati in pochissimi giorni affitto, utenze gas, luce ecc.. Sto cercando disperatamente mia madre che è sempre più confusa e malata. Passo dei momenti terribili. Temo sempre possa succedere qualcosa a causa della malattia. Vivo con enormi difficoltà dei risparmi di una vita fatti con lavori a tempo determinato. Non vi è lavoro a Genova ed addirittura i miei computer che erano stati sequestrati, strumenti del mio lavoro con inestimabili ricordi, mi sono stati restituiti sfasciati. Ho denunciato diverse volte i miei parenti per il loro comportamento odioso e criminale, per le loro dichiarazioni false calunniose e diffamatorie che hanno distrutto la mia vita ma il Tribunale di Genova in questo caso pare non accorgersi di nulla e rimane immobile. Il processo non è ancora finito e spero che in appello sia fatta Giustizia confermando la mia innocenza e incriminando i miei parenti.

Facebook Luigi Corrias 6 giugno 2018. Oggi sono stato ancora assolto in Appello per il reato di violenza domestica contro la mia povera madre. I miei parenti sono stati condannati a pagare le spese processuali. Dopo oltre sei anni vedo la fine di questa tragedia che ha distrutto la mia vita.

·         Il punto su Bibbiano.

«A Bibbiano c’è chi cerca vendette invece di chiedere giustizia…». Simona Musco su Il Dubbio il 18 dicembre 2020. L’avvocato Mazza, difensore di Anghinolfi: «Accusatori privati vogliono indossare i panni del giustiziere». I legali del sindaco: «Stritolato dalla Giustizia show». Nessuna decisione sugli atti mancanti. «Questa è la teratologia del processo, lo studio dei mostri processuali. Si vedono talmente tante distorsioni… Era difficile trovarle tutte insieme». Oliviero Mazza, difensore di Federica Anghinolfi, ex assistente sociale dell’Unione della Val d’Enza, ne è convinto: il processo “Angeli e Demoni”, quello dei cosiddetti “fatti di Bibbiano”, quello sui “ladri di bambini”, non si può svolgere serenamente. E non solo perché l’ambiente è compromesso dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni, ma anche perché quanto avviene in aula, solo alla terza udienza preliminare, può essere definito un unicum nel panorama giudiziario. L’udienza di ieri, apparentemente semplice ed interlocutoria, ne è un esempio lampante: la sola richiesta di costituzione di parte civile ha dimostrato quella che, agli occhi di Mazza, appare come l’ennesima cannibalizzazione di una vicenda gravissima, sotto ogni punto di vista. Perché sono diverse le associazioni e i comitati nati dopo l’inchiesta, senza dunque alcuna possibile pretesa, col solo ed esclusivo scopo di chiedere i danni agli imputati. «Non possono aver subito un danno nemmeno indiretto spiega Mazza al Dubbio -, sono nati ad hoc per venire a chiedere il risarcimenti di un danno derivante da reati commessi prima della loro creazione. Sono, dunque, privati cittadini che hanno deciso di partecipare al processo. Ma nel processo penale i cittadini sono già rappresentati dal pm. La pubblica accusa c’è già. Non c’è bisogno che arrivino gli accusatori privati, che vogliono indossare i panni del giustiziere». Queste associazioni, dunque, «non vengono tanto a chiedere un risarcimento, ma la condanna degli imputati», con il conseguente problema della «distorsione delle figure processuali». Lo scopo, per il legale, è uno solo: «Placare quella sete di vendetta che ormai domina la società».

LA DIFESA ANGHINOLFI CHIAMA IN CAUSA L’UNIONE E REGIONE. Mazza e Rossella Ognibene hanno anche chiesto di essere ammessi dal giudice alla citazione, come responsabili civili, della Regione Emilia- Romagna e dell’Unione dei comuni della Val d’Enza. «La legge stabilisce che il datore di lavoro risponde per i fatti illeciti commessi dal dipendente a livello civilistico – sottolinea Mazza -. La Regione e l’Unione si sono costituite parte civile, asserendo di essere state danneggiati, da un punto di vista dell’immagine e da un punto di vista patrimoniale. Ma c’è un conflitto di interessi, perché da un lato chiedono il risarcimento del danno, dall’altro dovrebbero rispondere in solido con Anghinolfi nei confronti delle parti civili private. Come se ne esce? O si interpreta l’articolo 83 del codice di procedura penale attribuendo a questi enti pubblici un doppio ruolo nel processo, oppure c’è un problema di legittimità costituzionale. Se c’è stato un problema nei servizi sociali la responsabilità è anche di chi doveva vigilare sul loro lavoro: l’amministrazione pubblica non può chiamarsene fuori».

ATTI SPARITI, IL GIUDICE RINVIA LA DECISIONE. Ma c’è anche un’altra notizia tra le pieghe dell’udienza di ieri. Perché il gup Dario De Luca ha deciso di rinviare a gennaio la decisione sull’eccezione sollevata nel corso della prima udienza dai difensori di Anghinolfi, ovvero la presunta «arbitraria selezione degli atti d’indagine» operata dal pm Valentina Salvi, che avrebbe «occultato elementi a discarico», di fatto «rendendo impossibile l’esercizio del diritto alla prova». Il 30 ottobre scorso, infatti, i due difensori avevano dichiarato in aula che molti degli atti indicati dal pm come fonti di prova nel fascicolo non ci sono. Atti «suscettibili di incidere senz’altro in senso favorevole sulla posizione» di Anghinolfi. Proprio per questo motivo hanno chiesto la declaratoria di nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, della richiesta di rinvio a giudizio e di tutti gli atti conseguenti, compreso il decreto di fissazione dell’udienza preliminare iniziata ieri, con la restituzione del fascicolo al pm. Il giudice, però, ha deciso di discutere preliminarmente la costituzione di parte civile, senza risolvere la questione. Una decisione che, da un punto di vista logico, lascia intravedere come si pronuncerà sul punto: «Se il procedimento non è validamente instaurato – osserva Mazza -, che senso ha discutere delle parti civili? C’è una priorità logica nelle decisioni. Quindi c’è una pre- valutazione da parte del giudice, una pregiudizialità logica: è chiaro che rigetterà l’eccezione. Sono tutte cose che metterò nella mia richiesta di rimessione del processo».

CARLETTI VITTIMA DEL PROCESSO SHOW. A contestare la richiesta di costituzione di parte civile ieri c’erano anche Vittorio Manes e Giovanni Tarquini, difensori del sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, diventato, suo malgrado, il volto di un’indagine nella quale il politico ricopre un ruolo marginale. Ma a spingerlo nel tritacarne è stata la sua appartenenza politica, quella tessera del Pd che ha trasformato una questione giudiziaria in vicenda politica. «Il danno di immagine vantato da alcuni – tra i quali il ministero della Giustizia e la Regione – è, per loro stessa dichiarazione, derivante dalla cronaca, più che dai fatti. La deformazione sulla cronaca non è attribuibile certamente al dottor Carletti. Che ne è anzi vittima», spiega Tarquini. Carletti è imputato per abuso d’ufficio, un reato che nulla ha a che vedere con il presunto allontanamento illecito dei minori dalle loro famiglie. «Il problema è che quello che è avvenuto qui non è normale, non è una cosa che accade sempre – sottolinea il legale -. Abbiamo già presentato diverse querele, ma lo sfruttamento della sua immagine come simbolo di questo procedimento giudiziario continua ad andare avanti. Sentirselo addosso è pesantissimo: è costantemente criminalizzato». Nei mesi scorsi il sindaco ha depositato una querela contro 147 persone, ovvero tutte coloro che lo hanno additato, insultato e minacciato. Tra questi anche Luigi Di Maio, che in un post su Facebook accusava Carletti di fare affari con i bambini. Nonostante le azioni legali, spiega però Tarquini, i messaggi d’odio non si sono fermati. «Ci sono state altre esternazioni e messaggi, minacce e attacchi sui social – spiega -. Facendo il sindaco, per quanto misurato e attento, è comunque esposto e capita saltuariamente che queste esposizioni diano luogo a post, messaggi e iniziative che riguardano questa vicenda». In merito alle denunce già depositate, la procura ha identificato per il momento 57 persone, in primis proprio Di Maio. «Il post del 27 giugno 2019 è ancora sul suo profilo – conclude Tarquini -, non ha mai chiesto scusa. E probabilmente nemmeno se ne ricorderà».

«Io, condannato a morte nel processo mediatico, sono felice che ne inizi uno vero». Il Dubbio il 15 novembre 2020. Lo sfogo di Claudio Foti, lo psicoterapeuta considerato “guru malefico” di Bibbiano. «In qualche caso sono stato condannato a morte, dalla valanga di violenti insulti e messaggi di minaccia che sono state pilotati contro di me e contro gli indagati di Bibbiano da una regia politica che ha utilizzato una massa di account anonimi e anomali, come è stato dimostrato da Report e da un hacker fra i più esperti in Italia, Alex Orlowski, in un’intervista alla Gazzetta di Reggio per lanciare la campagna mediatica “Parlateci di Bibbiano”». Si sfoga così, sul suo profilo Facebook, Claudio Foti, lo psicoterapeuta coinvolto nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, considerato un vero e proprio guru della cattiva psicoterapia, fatta di manipolazioni e ricordi finti inoculati nelle menti di minori, al punto di convincerli di aver subito abusi in realtà mai esistiti. Foti, nei giorni scorsi, ha partecipato ad una conferenza stampa organizzata dal Partito Radicale, dove si è discusso della “mostrificazione” della sua figura: al di là delle possibili responsabilità penali in un processo ancora nemmeno iniziato, lo psicoterapeuta è già stato condannato dall’opinione pubblica e messo al centro di un sistema rispetto al quale avrebbe solo un ruolo marginale. Il 30 ottobre scorso, davanti al giudice Dario De Luca, è partita l’udienza preliminare, al termine della quale si stabilirà chi, tra i 24 imputati, finirà a processo. Nel corso di quell’udienza le difese hanno però richiesto la nullità della richiesta di rinvio a giudizio e dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, in quanto tra gli atti del fascicolo del pm risultano assenti molti documenti indicati come fonti di prova. «Si è avviata l’udienza preliminare finalizzata a verificare se gli indagati del caso di Bibbiano dovranno andare a dibattimento. Io sono accusato di tre capi d’imputazione su circa 105 che pendono complessivamente sugli indagati. Su queste accuse mi difenderò all’interno delle aule di giustizia. Sono veramente contento che il procedimento stia facendo un passo in avanti, perché ho fiducia nella giustizia e ho fiducia nella logica del diritto penale, che prevede che il punto di vista della difesa possa confrontarsi e scontrarsi col punto di vista dell’accusa davanti ad un giudice terzo – sottolinea Foti -. Il processo mediatico che si è celebrato in Italia da oltre un anno contro di me ha una logica completamente diversa da quella del processo penale. Nel processo mediatico non c’è contraddittorio, non puoi difenderti, manco te ne accorgi e sei già condannato, condannato come professionista, condannato come persona». «I tempi del processo mediatico rispetto al processo giudiziario sono immediati e senza appello – prosegue Foti -. Il processo mediatico ha bisogno per una narrazione più coinvolgente di semplificazione ci vuole un capo, un guru, una mente: e sono stato arbitrariamente scelto per questo ruolo! La mia immagine è stata associata a tutte le cose peggiori che sono state ipotizzate in questa vicenda di Bibbiano. Ho fiducia nel percorso giudiziario che farà certamente chiarezza per quanto mi riguarda sulle gravi distorsioni del processo mediatico».

Promosso dal Csm il giudice linciato (a torto) su Bibbiano. Simona Musco Il Dubbio il 12 novembre 2020. Era presidente a Bologna dal 2013. Voto unanime del Csm: «Un vero e proprio amore per la funzione». Il plenum del Csm ha approvato all’unanimità la nomina di Giuseppe Spadaro a presidente del Tribunale dei minori di Trento. Finisce, dunque, l’esperienza alla guida del Tribunale dei minori di Bologna, dove il magistrato calabrese è arrivato nel 2013 e dove, nell’ultimo anno, si è trovato a dover respingere gli attacchi di chi, erroneamente, gli attribuiva responsabilità per i fatti contestati nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Dopo la gogna arriva, dunque, la gloria. Con un vero e proprio atto di coraggio da parte del Csm, che ha cancellato con un colpo di spugna ogni residuo dubbio sulla professionalità di Spadaro. Un primo passo lo aveva fatto, nei giorni scorsi, il ministero della Giustizia, che con la sua richiesta di costituzione di parte civile nel processo “Angeli e Demoni” aveva, di fatto, cristallizzato il ruolo di parte offesa del Tribunale. Nessuna connivenza, dunque, con eventuali reati commessi dai servizi sociali che hanno messo in atto gli allontanamenti cautelari dei bambini coinvolti nell’inchiesta dalle loro famiglie. Eppure un anno fa, quando scoppiò il presunto scandalo degli affidi illeciti, gli effetti di quello tsunami che travolse i servizi sociali ricaddero anche su Spadaro e i suoi colleghi, in prima linea per salvare i più piccoli da situazioni potenzialmente pericolose. Al punto che in via del Pratello, sede del Tribunale dei minori emiliano, il ministro Alfonso Bonafede spedì gli ispettori, per verificare eventuali connivenze tra giudici minorili e servizi sociali dei Comuni della Val d’Enza, protagonisti dell’inchiesta. E quell’ispezione piombò tra capo e collo a Spadaro proprio il giorno prima che il Csm si determinasse per la sua nomina a procuratore minorile di Roma, per la quale era in netto vantaggio sulla collega concorrente, Giuseppina Latella, poi scelta al suo posto per motivi di opportunità, in attesa dell’esito di quella indagine interna. Che l’esito sia stato positivo, ormai, è un dato di fatto. Tant’è che il nome di Spadaro è stato indicato all’unanimità dalla Quinta Commissione del Csm, su proposta dell’allora consigliere Piercamillo Davigo. Nella relazione di presentazione viene sottolineata una «non comune caratura» e una capacità «di condurre e definire una notevolissima quantità di procedimenti», con la celebrazione di tre udienze settimanali, con le quali «supera ampiamente il 50 per cento di competenza del dirigente e testimonia un “vero e proprio amore della funzione”, come indicato nell’ottobre 2015 nel rapporto informativo del Presidente della Corte di appello di Bologna». E anche la qualità del lavoro giudiziario, si legge nella relazione, «è di particolare valore». Tutto ciò, secondo il Csm, assume ancora più rilievo, considerate le conclamate difficoltà dell’ufficio minorile emiliano, a causa dell’esiguo numero dell’organico e per la scopertura del 45 per cento del personale amministrativo, soprattutto tenuto conto del bacino di utenza del tutto sproporzionato, che colloca la dotazione organica del Tribunale dei minori di Bologna «tra le più basse dell’intera nazione, se non la più bassa». Nonostante ciò, dall’anno 2014 sino all’anno 2016, la sua produzione è arrivata «complessivamente a triplicarsi quasi nel settore civile e ad aumentare in misura pari circa al 150 per cento nel settore penale, malgrado la scopertura pressoché costante di una unità su sei magistrati». Un livello di merito e di preparazione tecnico- giuridica di assoluto spessore, si legge ancora nella relazione, «ma anche non comuni attitudini organizzative e direttive, nello specifico settore specializzato dei minorenni che lo rendono il candidato certamente più idoneo, nel confronto con gli altri aspiranti». Il plenum di ieri ha anche portato all’approvazione a larghissima maggioranza – con sole due astensioni -, della nuova circolare relativa ai criteri di nomina e conferma dei giudici onorari minorili per il triennio 2023- 2025, all’esito dell’istruttoria in Ottava Commissione promossa dal laico della Lega Stefano Cavanna proprio dopo l’inchiesta “Angeli e Demoni”. La nuova circolare mira a garantire la «massima trasparenza» nell’attività del Csm di nomina e conferma dei giudici onorari minorili, grazie a «criteri prefissati e non derogabili», previsti dalla Commissione costituita ai fini della valutazione delle domande degli aspiranti. «Ciò significa – ha spiegato il relatore togato di Magistratura Indipendente, Antonio D’Amato – che non sarà più possibile derogare alla graduatoria in ragione di particolari competenze professionali, come invece accadeva in passato». La circolare introduce, da un lato, l’obbligo per i giudici onorari minorili di comunicare immediatamente al dirigente dell’ufficio eventuali situazioni che incidano o possano incidere sulla permanenza dei requisiti per la nomina, dall’altro, il dirigente dell’ufficio avrà un costante dovere di vigilanza sulla permanenza di tali requisiti.

 Bibbiano, inizia il processo: 24 imputati. "Angeli e Demoni" arriva in aula: cento capi d'accusa per aver allontanato ingiustamente i minori dalle famiglie. La Repubblica il 30 ottobre 2020. Il "caso Bibbiano" per la prima volta arriva in un'aula di tribunale. Si parte questa mattina davanti al gup di Reggio Emilia chiamato a decidere sulle posizioni dei 24 imputati di "Angeli e Demoni" per cui la Procura ha chiesto (nel giugno scorso) il processo al termine dell'inchiesta su presunte irregolarità nell'affido di minori in Val d'Enza. Sono oltre 100 i capi di imputazione, 155 i testimoni citati dall'accusa e 48 le parti offese, tra cui il ministero della Giustizia, la Regione Emilia Romagna e l'Unione dei Comuni della Val d'Enza. Coinvolti assistenti sociali, psicoterapeuti e amministratori locali. Minori allontanati ingiustamente dalle famiglie d'origine per un tornaconto economico, attraverso perizie falsificate, disegni manipolati, storie inventate o sedute di psicoterapia per fare il 'lavaggio' del cervello ai bimbi: questo l'impianto accusatorio confermato dalla Procura reggiana nei vari passaggi dell'inchiesta (dalle prime misure cautelari, al fine indagini fino alle richieste di rinvio a giudizio). Gli indagati, dal canto loro, si sono difesi sostenendo, in sostanza, di aver agito per il bene dei bambini e negando che alla base degli affidi ci fosse un business. L'udienza preliminare si terrà nell'aula 'bunker' costruita per il processo Aemilia (contro la 'ndrangheta) che viste le dimensioni e le caratteristiche offre le garanzie anti-Covid necessarie per quanto riguarda, ad esempio, il distanziamento. Oggi, con ogni probabilità, verranno presentate davanti al giudice le richieste di costituzione di parte civile. L'approdo in aula di "Angeli e Demoni", sarà (forse) anche l'occasione per contenere nel 'perimetro' di un tribunale una vicenda che spesso è uscita dagli argini della cronaca giudiziaria, diventando, appunto, un caso politico, una mobilitazione di piazza e un processo sul web.

Bibbiano, in ministero della Giustizia parte civile: “assolto” il Tribunale dei minori. Simona Musco su Il Dubbio il 29 ottobre 2020. Il Ministero si costituisce come parte civile nel processo “Angeli e Demoni”, una scelta che conferma un dato: il Tribunale dei minori, presieduto da Giuseppe Spadaro, non fu carnefice, semmai vittima. Il ministero della Giustizia chiederà di costituirsi parte civile nel processo “Angeli e Demoni”, che domani vedrà celebrare la prima udienza preliminare nell’aula bunker di Reggio Emilia. Via Arenula, dopo un primo parere negativo da parte dell’avvocatura dello Stato, che aveva sconsigliato il ministero di partecipare al processo come parte offesa, ha deciso, dunque, di spedire i propri difensori, a tutela dei propri interessi e della propria immagine. Una decisione, questa, che conferma ancora una volta il ruolo di “vittima” del Tribunale dei minori di Bologna, presieduto da Giuseppe Spadaro, ora in attesa della decisione del plenum del Csm per la sua nomina a capo del Tribunale dei minori di Trento. Un anno fa, quando scoppiò il presunto scandalo degli affidi illeciti, che trovò la sua sintesi nella fallace espressione “Sistema Bibbiano”, a risentire dello tsunami che travolse i servizi sociali fu anche chi, come Spadaro e i suoi colleghi, lavorava in prima linea per salvare i più piccoli da situazioni potenzialmente pericolose. Al punto che in via del Pratello, proprio il giorno prima che il Csm si determinasse per la nomina di Spadaro a procuratore minorile di Roma, per la quale era in netto vantaggio sulla collega concorrente, Giuseppina Latella, il ministro Alfonso Bonafede spedì gli ispettori, per verificare eventuali connivenze tra giudici minorili e servizi sociali dei Comuni della Val d’Enza, protagonisti dell’inchiesta. Dell’esito di quell’ispezione non si è mai saputo nulla. Documenti segreti, riservati, di cui solo via Arenula deve conoscere, per ragioni di riservatezza, il contenuto. Ma la costituzione di parte civile del ministero, oggi, dà conto di un fatto: il Tribunale dei minori, con i reati ipotizzati dal pm Valentina Salvi a carico di 24 imputati, non c’entra nulla. Semmai ne è vittima, potenzialmente raggirato da quegli assistenti sociali che per i magistrati minorili svolgono un ruolo assimilabile a quello della polizia giudiziaria. La conferma che il Tribunale dei minori fosse un’eventuale vittima dei reati contestati era già arrivata a giugno, quando la procura chiuse le indagini. Inizialmente tirato in ballo da chi riteneva che ci fosse quantomeno negligenza da parte di magistrati, è passato, dunque, all’essere riconosciuto come parte danneggiata, vittima di frode processuale, depistaggio ed induzione in errore in oltre una decina di capi d’accusa. «Dall’inizio di questa bruttissima vicenda, ho sempre detto in ogni sede che chi ha sbagliato e ne sia accertata la responsabilità penale, che è sempre personale, deve essere punito ed anche severamente, senza sconti aveva commentato all’epoca al Dubbio Spadaro -. E questo perché i bambini sono sacri e le loro le famiglie pure, quando però funzionanti. Se dovessero risultare colpevoli sarei profondamente indignato, perché loro sanno di essere la nostra longa manus sui territori e le loro relazioni fanno prova fino a querela di falso. Spero davvero che nessuno, in nome di un interesse economico o di una perversa ideologia, possa giungere a tanto». Spadaro, avuta la notizia dell’indagine, rivisitò autonomamente ed immediatamente, uno ad uno, i fascicoli che vedevano coinvolti gli operatori ora a processo «e questo perché a me e a tutti i giudici minorili di Bologna stanno veramente a cuore quei bambini, come stanno a cuore tutti quelli per i quali siamo chiamati ad intervenire». Un’attenzione ora confermata, con i fatti, anche dal ministero.

Bibbiano, dopo la gogna il processo: “Ma le prove che scagionano gli accusati sono sparite”. Simona Musco su Il Dubbio il 31 ottobre 2020. Dopo mesi di massacroi mediatico inizia il processo di “Bibbiano”. L’accusa degli avvocati difensori: «La procura ha operato una arbitraria selezione degli atti d’indagine», «occultando elementi a discarico», di fatto «rendendo impossibile l’esercizio del diritto alla prova». «Hanno sempre detto “parlateci di Bibbiano”, adesso iniziamo a farlo. Finalmente nella sede giusta». Oliverio Mazza e Rossella Ognibene sono sicuri: nei confronti di Federica Anghinolfi, ex assistente sociale dell’Unione della Val d’Enza, principale imputata del processo “Angeli&Demoni”, c’è «un pregiudizio diffuso ed effettivo» da parte dell’accusa. Un pregiudizio che, secondo i due difensori, trasuda da ogni pagina del fascicolo del pm Valentina Salvi, rea, a loro dire, di aver operato «una arbitraria selezione degli atti d’indagine», «occultando elementi a discarico», di fatto «rendendo impossibile l’esercizio del diritto alla prova». Ovvero: molti degli atti indicati dal pm come fonti di prova nel fascicolo non ci sono. Spariti. Forse proprio perché – questa la tesi della difesa – tali atti sono «suscettibili di incidere senz’altro in senso favorevole sulla posizione» di Anghinolfi. Proprio per questo motivo ieri i due legali hanno chiesto la declaratoria di nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, della richiesta di rinvio a giudizio e di tutti gli atti conseguenti, compreso il decreto di fissazione dell’udienza preliminare iniziata ieri, con la restituzione del fascicolo al pm.È questo, senza dubbio, l’evento clou della giornata di ieri nell’aula bunker del tribunale di Reggio Emilia, davanti al quale una decina di persone esibiva gli striscioni di quella che fu la campagna elettorale di Matteo Salvini per le regionali con gli slogan su Bibbiano. Un clima sicuramente meno feroce, caratterizzato dal rammarico dei presenti per l’assenza degli imputati, a loro dire «troppo vigliacchi per presentarsi» e da volantini con su impresso l’ingresso del municipio di Bibbiano e la scritta “La valle oscura” a caratteri cubitali. Niente scontro, dunque, ma le dif2ese, nel chiuso di un prefabbricato enorme, in passato destinato al maxi processo “Aemilia, hanno contestato un’indagine “piena di buchi”. Per chiedere la nullità della richiesta di rinvio a giudizio Mazza e Ognibene si sono rifatti ad una sentenza della Corte costituzionale, la 142/2009, secondo la quale quando il fascicolo del pm è incompleto c’è un vulnus del diritto di difesa. È stata Ognibene a fare uno screening di tutti gli atti d’indagine, dal quale sono emerse numerose «omissioni». Tra gli atti mancanti c’è l’archiviazione del filone modenese dell’indagine sull’abuso d’ufficio, un documento importante, ma non disponibile, sebbene fosse alla base delle analisi delegate dal pm al consulente. «A nostro avviso – spiega Mazza al Dubbio -, non si tratta di mere dimenticanze, perché sono tutte prove a discarico». Una selezione «arbitraria e illegittima», contestano i due difensori, che elencano ben venti atti di assunzione a sommarie informazioni testimoniali di cui non si ha traccia, tra i quali alcuni molto importanti. Come ad esempio quello del maresciallo Andrea Berci, ex comandante della caserma dei Carabinieri di Bibbiano, ovvero colui che ha segnalato ai servizi sociali diversi casi di possibile abuso su minori. Berci fu sentito dal pm proprio sull’attività dei servizi sociali oggi finiti sotto accusa. «Si dice che questa “associazione criminale” andasse a cercare falsi abusi per costruirci sopra i propri interessi – afferma Mazza -, la verità è che molti casi partivano dalle segnalazioni delle forze dell’ordine, in questo caso da un maresciallo dei Carabinieri. C’erano abusi veri e coperture nei confronti degli abusanti che non dovevano essere scoperti. E questo Berci lo sa e quando verrà sentito sono sicuro che lo dirà». Altro atto mancante è la copia forense dei device sequestrati, che non è stata né depositata né consegnata alla difesa, che pure ne ha fatto richiesta tre volte. Ma non solo: mancano intercettazioni, decreti di autorizzazione e le registrazioni fatte da una delle minori durante un incontro con l’assistente sociale. Registrazioni di cui manca la trascrizione, «audio che è a nostra difesa», afferma Ognibene. E manca la sit in verbale stenotipico di Maria Stella D’Andrea, parte del gruppo degli assistenti sociali e degli psicologi del servizio per lo studio dei casi. «Era la medico legale del gruppo e lo chiameremo come teste a discarico», aggiunge. Mancano, poi, i tabulati di 16 numeri di telefono, compresi voci e dati, ma anche i disegni della bambina del caso da cui tutto è scaturito. Si tratta del disegno che dimostrerebbe la sessualizzazione della minore, disegno che raffigura «l’organo genitale di un cavallo». Ma ciò che balza agli occhi è l’assenza dei fascicoli dei servizi sociali sui minori coinvolti, acquisiti dal pm su richiesta della difesa dopo l’avviso di conclusione delle indagini. «Questa mia istanza doveva avere una sua indicizzazione nel fascicolo del pm – spiega Ognibene -, invece è finita tra le istanze di copia fatte dalla segretaria e, quindi, tali documenti non sono inseriti nel faldone. E quelle relazioni sono importanti, perché il pm inserisce solo dei pezzi, disancorati dal contesto integrale della storia dei bambini. Ma è da questo che si capisce perché questi minori, che erano in carico ai servizi sociali da anni, qualcuno dalla nascita, vengono allontanati dalla famiglia. La storia integrale del minore ha una sua logica per capire le relazioni. Così è impossibile riuscire a ricostruire il caso». Sul punto il gup deciderà probabilmente nella prossima udienza, fissata il 23 novembre. Sono 24, in tutto, gli imputati per il presunto business sugli affidi, tra i quali lo psicoterapeuta Claudio Foti e il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti, vittima sacrificale della gogna pre elettorale. Otto le famiglie coinvolte, ma non tutte si sono costituite parte civile. Ci sono, invece, tra gli altri (48 il totale), il ministero della Giustizia, la Regione, l’Unione dei Comuni della Val d’Enza, l’Unione dei Comuni modenesi, l’Asl di Reggio Emilia, l’ordine nazionale degli assistenti sociali e quello degli psicologi e sette associazioni. Mazza ha anche chiesto l’astensione del gup Dario De Luca. La questione ha a che fare con il provvedimento firmato dalla presidente del Tribunale, che a settembre aveva, di fatto, indicato il collegio giudicante prima ancora che iniziasse l’udienza preliminare. «De Luca ha confermato che già a settembre aveva chiesto quale fosse la data del dibattimento, ma sostiene che ciò che non è significativo di un pregiudizio di colpevolezza, in quanto è una prassi utilizzata per tutti i processi», spiega Mazza. Richiesta respinta, dunque. Ma trattandosi «di un atto contra legem», la difesa si riserva di proporre ricusazione, «fondata sulla indebita manifestazione del suo convincimento. Ma è un terreno difficilmente sondabile – conclude Mazza – perché bisogna entrare nel campo psicologico del giudice».

Così la bimba di Bibbiano denunciò i genitori: «Pronto carabinieri, mamma e papà mi hanno lasciata da sola…» “Angeli e Demoni”, ecco le carte mancanti del “caso uno”: furono i militari a portare la bambina dai servizi sociali per «abbandono di minore». Il Dubbio il 3 novembre 2020. C’è un buco nero nel fascicolo del processo “Angeli e Demoni”. Un buco fatto di documenti mancanti, che le difese, adesso, chiedono a gran voce. Anche perché da quei documenti potrebbe venire fuori una versione dei fatti diversa o, perlomeno, più complessa. A partire dal “caso uno”, quello da cui tutto è cominciato. La vicenda riguarda Martina (nome di fantasia), di 8 anni che, secondo l’accusa, i servizi sociali della Val d’Enza avrebbero strappato via alla famiglia senza un motivo. Ma che, stando agli atti, fu affidata a quei servizi sociali dai Carabinieri, le cui dichiarazioni, oggi, mancano dal fascicolo approdato in aula e al vaglio del giudice per le udienze preliminari. Tutto comincia il 7 giugno del 2016, quando alla stazione dei Carabinieri di Bibbiano arriva una telefonata. All’altro capo del telefono c’è proprio Martina: è lei a chiedere ai militari di recarsi a casa perché, dice, mamma e papà l’hanno lasciata da sola. Sul posto arrivano il brigadiere Romeo Tanchis e il carabiniere Giorgio Biccirè. Ai due la bambina spiega che era stato il padre, poco prima di uscire, a dirle di chiamare i Carabinieri nel caso in cui la madre, partita la sera prima per lavoro, non fosse tornata a casa. E così accade, alle 9,50. A quel punto, il comandante della Stazione, Andrea Berci, contatta i servizi sociali, stilando un verbale (del quale Il Dubbio è in possesso) nel quale dichiara di aver rinvenuto la minore «in situazione abbandonica e/o di grave pregiudizio, in quanto materialmente e/o moralmente abbandonata». Da questo momento, dunque, la bambina passa in carico ai servizi sociali. Ma non si tratta della prima volta: Martina già ad un anno viene presa in carico dagli assistenti sociali di un’altra città, in quanto assieme alla madre, per alcuni mesi, viene collocata in una casa famiglia. La madre, infatti, pochi mesi dopo la nascita della bambina si era rivolta ai servizi chiedendo di essere aiutata a trovare un nuovo alloggio, dicendosi «spaventata» e dichiarando di non voler tornare a casa del marito. Una situazione determinata dal rapporto conflittuale tra madre e padre – con tanto di denunce per lesioni dolose in famiglia – e un percorso di convivenza molto difficile, al punto che più volte i Carabinieri di Bibbiano sono chiamati ad intervenire per sedare le liti tra i due. La prima segnalazione alla procura dei minori arriva, dunque, nel 2008, da un’assistente sociale che non risulta indagata: «si ritiene sussistano elementi di preoccupazione sia rispetto alle condizioni di vita della minore sia rispetto al ruolo delle figure genitoriali». Elementi, questi, risalenti dunque a 12 anni fa, che non sono stati però valutati dal pubblico ministero. Agli atti dell’indagine, infatti, non è stato inserito il fascicolo integrale della ragazzina, pur esistente presso i servizi sociali di Bibbiano. Il pubblico ministero ha invece chiesto al tribunale ordinario il fascicolo integrale della separazione tra i genitori, questo sì finito agli atti dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, ma non integralmente. E tra i documenti che mancano, ad esempio, c’è anche il ricorso introduttivo di separazione proposto dal padre.

Nella relazione di quel giorno di giugno 2016, dunque, i servizi sociali – che allontanano la ragazzina per abbandono di minori, così come indicato dai Carabinieri intervenuti sul posto – raccontano del loro arrivo a casa di Martina. Una casa «trascurata», con «cibo avariato lasciato sui mobili da diversi giorni e disordine generale». Secondo l’informativa consegnata al pm dagli investigatori del caso “Angeli e Demoni”, sul punto non vi sarebbe, però, alcuna conferma da parte dei militari che si trovano lì assieme ai servizi. Una circostanza che, però, non concorda con quanto contenuto nel dvd in allegato all’informativa datata novembre 2018. Lì dentro, infatti, sono contenute le sit dei due carabinieri, che concordano con quanto appuntato dagli assistenti sociali nella relazione redatta quel giorno stesso: Tanchis, ad esempio, nel verbale di sommarie informazioni parla di «un disordine diffuso composto da stoviglie non lavate e non riordinate e residui di cibo su alcuni piatti lasciati all’interno del lavandino e sul piano di lavorazione della cucina». Insomma, proprio quanto riportato dalla relazione a firma dell’assistente sociale Francesco Monopoli, contestata come falsa. E proprio le sit di Tanchis e Biccirè sono tra quelle di cui non c’è traccia nel fascicolo del pm e contenute in quell’unico dvd solo in formato word, non scansionato e senza firma.

Ma non solo: stando all’informativa, la madre sarebbe stata vista in casa da una vicina di casa almeno un’ora prima della telefonata della bambina, presenza confermata anche dal padre. Una circostanza contraddetta, però, da quanto dichiarato dalla stessa madre al consulente tecnico nominato dal gip, così come dimostra la relazione da lui firmata e consegnata al giudice: «io non ero a casa quella sera lì, ero fuori perché ero più vicina al lavoro – si legge nel documento -. All’improvviso ero in autostrada e… erano i carabinieri che mi hanno detto che c’era la bambina da sola». Ma che la bambina fosse spesso da sola è circostanza riferita anche da alcune vicine, una delle quali, una notte, fu chiamata dalla stessa Martina, che lamentava di non trovare la madre a casa. Ma anche di questi verbali, denuncia la difesa, nel fascicolo del pm non c’è traccia.

Bibbiano, quelle perizie psicologiche senza ascoltare i bambini. Simona Musco su Il Dubbio l'11 novembre 2020. Le anomalie dell’inchiesta: ecco come ha lavorato il consulente ingaggiato dall’accusa. Si può giudicare la tenuta psichica di un bambino senza nemmeno parlarci? Col caso Bibbiano è successo. C’è una perizia lunga 160 pagine sui casi dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Una perizia che passa al setaccio ogni storia, cercando di rispondere ad un quesito: i bambini hanno subito dei traumi dall’allontanamento dai loro genitori? E la risposta è chiara: per tutti, in futuro, ci saranno disturbi borderline di personalità, disturbi antisociali e dell’umore, con note di ansia e autolesionismo. Un destino segnato, terribile. Ma a questa conclusione l’autrice della perizia ci arriva senza ascoltare i bambini, analizzando soltanto il materiale fornito dalla procura. Nemmeno uno sguardo ai fascicoli dei servizi sociali finiti sotto accusa e, soprattutto, nessuna valutazione diretta dello stato psicologico dei minori. Nessun contraddittorio. E ciò per volere della stessa pm che le ha affidato l’incarico, Valentina Salvi, come chiarisce la psicologa a pagina 15 della sua perizia. «Non si è provveduto a incontrare i minori su richiesta della procura», scrive la psicologa nelle premesse metodologiche del suo lavoro. Una metodologia in conflitto con quanto esplicitato dall’articolo 8 delle linee guida deontologiche per lo psicologo forense: il professionista incaricato, si legge, «esprime valutazioni e giudizi professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta, ovvero su documentazione adeguata e attendibile. Nei procedimenti che coinvolgono un minore è da considerare deontologicamente scorretto esprimere un parere sul bambino senza averlo esaminato». Quest’ultimo appunto rimanda alla Carta di Noto, ovvero proprio quel documento che, nell’inchiesta, è stato usato come Bibbia metodologica da contrapporre al metodo Cismai, quello dello psicoterapeuta Claudio Foti, per il quale l’accusa ha chiesto il rinvio a giudizio. La vicenda è nota al mondo intero come “caso Bibbiano”, quello dei servizi sociali accusati di aver inventato abusi sui bambini da parte dei genitori per alimentare il business degli affidi. La perizia sposa la teoria avanzata dalla procura di Reggio Emilia, arrivando a sostenere che l’allontanamento avrebbe comportato «un danno maggiore di quello che avrebbe potuto provocare l’esposizione ad un abuso sessuale». Un’eresia per Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, fondatore del Centro studi di terapia familiare e relazionale, che ha deciso di scrivere un “parere pro veritate” per gli imputati dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Per svolgere l’incarico la psicologa ha preso visione dei soli documenti «presenti nel fascicolo del pubblico ministero, compreso il materiale riguardante gli esiti delle attività intercettive e le registrazioni delle attività stesse», inclusa la consulenza di un altro dei periti incaricati dalla procura. Materiale, dunque, di una sola delle parti in causa. Solo con due dei minori coinvolti la psicologa ha avuto incontri diretti, ma tutti in momenti precedenti all’inchiesta della procura di Reggio Emilia, ovvero «nei procedimenti penali presso la procura della Repubblica di Reggio Emilia riguardanti i presunti abusi sessuali subiti dalle stesse». Per il resto, l’analisi si basa su quanto appreso dalle persone a contatto con i bambini o che hanno con loro un significativo legame affettivo e dalle informazioni desunte dalle intercettazioni ambientali svolte nel corso delle indagini. La psicologa parte da un assunto: «L’allontanamento di un figlio dalla famiglia e dal contesto d’origine rappresenta una frattura non meno rischiosa per il suo processo di identificazione e di costruzione del senso di appartenenza e, quindi, per l’intero complesso della sua personalità, rispetto ai rischi patologici per lo sviluppo psicofisico ed affettivo- relazionale derivanti da violenze fisiche, sessuali, morali e gli stati di grave trascuratezza perpetrati da genitori nei confronti di figli minorenni». Una convinzione sposata nonostante «non vi sia ancora un numero significativo di ricerche sugli effetti dell’allontanamento familiare e del collocamento tutelare», richiamandosi ad «alcuni studi, soprattutto nordamericani», i quali «tendono a dimostrare come questo intervento possa favorire esiti dissociali, quali delinquenza, gravidanze precoci, marginalità socio- economica». Una vittimizzazione secondaria legata «proprio agli effetti degli allontanamenti forzati». Tale vittimizzazione, per la psicologa, potrebbe riscontrarsi con forte probabilità anche nei casi dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Ed è questa la risposta alla domanda del pm, che ha chiesto di stabilire se, sulla base «della documentazione in atti in atti ed ogni ulteriore documentazione acquisita nel corso delle indagini», i minori «abbiano subito, a causa delle condotte poste in essere dagli indagati, disfunzioni psicologiche e relazionali ovvero una alterazione nel normale sviluppo della personalità in costruzione, idonea a determinare disfunzioni psichiche future, correlate alla mancanza delle figure genitoriali di riferimento, nonché alla ingenerata ed erronea convinzione di essere vittime di abusi sessuali o maltrattamenti da parte di questi ultimi e quant’altro utile ai fini di giustizia». Ciò per comprendere «se sia attuabile in capo ai minori una malattia nella mente grave ovvero probabilmente insanabile». Una domanda sbagliata, per Cancrini, secondo cui la questione giusta sarebbe stata un’altra: se quegli allontanamenti avevano o meno ragione di esistere, se quegli abusi ci sono stati o meno. E la risposta, per lui, è sì.

Guido Crosetto, nel nome di Bibbiano. "La fondo io", il meloniano scende in campo: nuova clamorosa sfida politica. Libero Quotidiano il 17 settembre 2020. La chiamata alle armi di Guido Crosetto. Il fondatore di Fratelli d'Italia si potrebbe presto impegnare in un nuovo gravoso progetto, a metà tra politica e sociale. E chiama in causa due possibili sostenitori, Mario Giordano e Rita Dalla Chiesa. Dopo aver visto Fuori dal coro e i servizi sui minori strappati alle loro famiglie naturali dai servizi sociali, il "gigante buono" scende in campo su Twitter e annuncia: "Vorrei aiutare, finanziare, lavorare nel tempo libero per l’associazione, se esiste ed è seria, che si occupa di tutelare i minori strappati alle famiglie per la negligenza o la follia, dei servizi sociali. Se non esiste, fondarla con chi ci sta". L'appello a Giordano, padrone di casa di Fuori dal coro, e alla ex conduttrice di Forum non sembra destinato a cadere nel vuoto. 

«Meglio abusati che dati in affido». Simona Musco su Il Dubbio il 24 agosto 2020. La relazione shock dei periti di Bibbiano. Ecco il parere degli esperti interpellati dalla Procura sui bambini allontanati dai genitori. «L’allontanamento della bambina (…) l’ha certamente esposta a quelli che in letteratura vengono considerati dei danni iatrogeni, provocando un danno maggiore di quello che avrebbe potuto provocare l’esposizione ad un abuso sessuale». Quello appena riportato è uno dei passaggi contenuti nelle perizie tecniche disposte dalla procura di Reggio Emilia nel “caso Bibbiano”. Un’affermazione sulla cui base l’accusa è arrivata alla conclusione che i servizi sociali della Val d’Enza abbiano agito con dolo, con l’intenzione, cioè, di strappare dei bambini a genitori innocenti. Una mostruosità insopportabile, al punto da considerare meno dannoso rischiare di subire un abuso. E questa per Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, fondatore, negli anni ‘ 70, del Centro studi di terapia familiare e relazionale, una delle più importanti scuole di psicoterapia in Italia, è una teoria «sconcertante». Tanto da decidere di scrivere un “parere pro veritate” per gli imputati dell’inchiesta “Angeli e Demoni”, non richiesto, né retribuito, ma «frutto delle cose in cui credo», in difesa dell’azione di Claudio Foti, psicoterapeuta coinvolto con tre capi d’accusa nell’inchiesta. Ma, soprattutto, «in difesa dei bambini», sottolineando che «nella giustizia il divario di poteri tra abusanti e abusati è troppo ampio». Alcuni punti di tale relazione sono stati enucleati ieri nel corso della conferenza stampa organizzata dal Partito Radicale sul cosiddetto “Caso Foti”, ovvero la storia della «costruzione di un mostro», di un processo mediatico, ancor prima dell’inizio di un processo vero e proprio. La premessa è d’obbligo: Cancrini, come Foti, è socio del Cismai, il Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia, le cui linee di indirizzo non sono riconosciute a livello nazionale. Così come quelle della Carta di Noto, che critica aspramente il cosiddetto “metodo Foti”. Due approcci scientifici ritenuti controversi, che qualcuno, secondo i Radicali, vorrebbe giudicare non in accademia, ma in tribunale. Alla conferenza stampa, oltre Cancrini, hanno preso parte Foti, l’avvocato radicale Giuseppe Rossodivita – uno dei difensori dello psicoterapeuta -, Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale, Antonello D’Elia, presidente di Psichiatria Democratica e Marco Scarpati, avvocato, indagato e prosciolto nell’inchiesta “Angeli e Demoni”.

Il parere di Cancrini. Leggendo le carte del caso, lo psichiatra rimane sconcertato. A partire dalle consulenze tecniche richieste dal pm che rivolge un quesito, a suo dire, assurdo: chiarire se i minori abbiano subito «disfunzioni psicologiche e relazionali» o «un’alterazione nel normale sviluppo della personalità» a causa dell’allontanamento dai genitori. Il primo errore, per Cancrini, sta qui: la domanda giusta sarebbe stata, infatti, se quegli allontanamenti avevano o meno ragione d’esistere. La risposta, per Cancrini, è sì. Ma i consulenti, scrive, «stanno sempre e solo dalla parte di chi li ha interpellati» e utilizzando solo i documenti da essa forniti. Nessun contraddittorio, nessuna analisi degli atti dei servizi sociali incriminati. Insomma, una piena adesione alla tesi dell’accusa. Che parte da un assunto sbagliato: un numero di allontanamenti, in Val d’Enza, superiore alla media regionale. Una notizia «del tutto falsa»: la media, scrive Cancrini, è di tre l’anno. E dopo 40 anni d’esperienza, afferma, «credo di poter affermare senza ombra di dubbio che vi sono casi in cui l’allontanamento del bambino dalla sua famiglia d’origine è non solo opportuno, ma assolutamente necessario». Per Cancrini, inoltre, nessuna indagine tecnica è stata effettuata per valutare l’opportunità di effettuare tali allontanamenti, lavorando solo sulle testimonianze dei genitori – arrabbiati con i servizi -, le intercettazioni e alcuni testimoni. Inoltre, le consulenze sono state affidate a periti che, sugli stessi casi, avevano manifestato idee diverse da quelle dei servizi. Insomma: le conclusioni erano scontate. Ma soprattutto Cancrini non comprende come si possa parlare di dolo: «C’era forse un premio in denaro per il terapeuta che otteneva false dichiarazioni?».

La creazione del mostro. «Ogni volta che qualcuno viene “mostrizzato” cerchiamo di mettere le cose al loro posto», sottolinea Turco. Secondo cui si è di fronte ad un tentativo della giustizia di processare la scienza, con sentenza già emessa. A partire dalla marea di insulti, minacce e auguri delle peggiori disgrazie piovuti sul Partito Radicale per la scelta di indire la conferenza stampa di ieri. «Siamo convinti che Foti ne possa uscire anche in udienza preliminare – spiega Rossodivita -, ma ci vuole coraggio da parte del giudice dopo questa montagna di fango e disinformazione», che ha completamente «distorto la sua immagine e la sua reputazione». Foti è stato collocato al centro dell’inchiesta pur non essendolo. Definito come «il guru di Bibbiano», è stato proposto agli italiani come il colpevole di ogni fatto contestato, attraverso una campagna mediatica fatta di intercettazioni coperte da segreto rese pubbliche addirittura prima che arrivassero in mano alle difese. Perfino quelle relative alla sua vita privata, che nulla avevano a che vedere con l’inchiesta. «Abbiamo raggiunto abissi mai visti», commenta Rossodivita, costretto a chiarire, nonostante l’evidenza degli atti, che «Foti non ha mai affidato bambini: il suo ruolo era quello di psicoterapeuta per la cura del trauma, dopo un provvedimento del Tribunale dei minori». Dietro la «costruzione del mostro» ci sarebbero «interessi politici, partitici, elettorali, tutti strumentalizzati in questa vicenda e fatti cadere come un macigno sulle spalle di un cittadino innocente, perché tale è fino a sentenza». Accusato di essersi arricchito tramite il “rapimento” di bambini, Foti ha ricevuto, in tre anni, compensi per 12mila euro, spese incluse. Ma non solo: per l’accusa avrebbe manipolato lo stato psicologico di una ragazza per trarre in inganno «il giudice penale, che doveva verificare eventuali abusi da parte del padre. Peccato, però spiega Rossodivita -, che quando Foti ha iniziato la psicoterapia il processo penale era già stato definito, come ha fatto notare il tdl». A raccontare la sua storia anche Scarpati, indagato in quanto legale dei servizi sociali e prosciolto durante le indagini. Costretto, però, a subire la gogna, che ancora continua. «Un giornale, pochi giorni fa, ha scritto che sono stato ai domiciliari, ma questo non è mai accaduto – racconta -. Così come sarei un estimatore di Foti: invece è noto che spesso siamo stati su posizioni opposte. E non è mai stato consulente della difesa, interveniva, come psicoterapeuta, su specifico ordine del tribunale». Per Cancrini tutto parte anche da un concetto sbagliato: «Sono i bambini che vanno difesi, non l’idea di famiglia. Le accuse a Foti di aver indotto ricordi non esistenti hanno aspetti di assoluta ridicolaggine – spiega -. Le cose che quella ragazzina ha dette in seduta erano già state raccontate anni prima, come si fa a dire che sono frutto della terapia?». Una vicenda emblematica, secondo D’Elia, «di dove stiamo andando rispetto ai diritti», con un dominio dell’adulto e la priorità della famiglia rispetto ai suoi membri. Durante la conferenza stampa Foti non parla. Ascolta, salvo sfogarsi un po’ alla fine. «Sono stato colpito da una tempesta di fango, l’attività della “Hansel& Gretel” ( il centro studi da lui diretto, ndr), che non è perseguita nel processo, è stata sospesa e i conti bancari bloccati, abbiamo subito aggressioni fisiche e un processo di demonizzazione. Sono sopravvissuto alla tempesta conclude – cercando, in ogni modo, di non provare rabbia».

C’è già un giudice a Bibbiano anche se non c’è un processo. Simona Musco su Il Dubbio il 15 Settembre 2020. Nessun rinvio a giudizio, anzi, nessuna udienza preliminare si è ancora svolta. Ma a Reggio Emilia le udienze del processo – dato per certo – “Angeli e Demoni” hanno già un giudice. Il tutto nonostante non sia dato sapere, ancora, se e quante persone verranno rinviate a giudizio e chi sceglierà riti alternativi a quello ordinario. Nessun rinvio a giudizio, anzi, nessuna udienza preliminare si è ancora svolta. Ma a Reggio Emilia le udienze del processo – dato per certo – “Angeli e Demoni” hanno già un giudice. Il tutto nonostante non sia dato sapere, ancora, se e quante persone verranno rinviate a giudizio e chi sceglierà riti alternativi a quello ordinario. A stabilirlo un documento, firmato dal presidente del Tribunale Cristina Beretti, che ha spinto uno dei difensori dell’assistente sociale Federica Anghinolfi, figura principale dell’indagine, ad annunciare l’istanza di rimessione del processo, a causa delle eccessive pressioni ambientali. E ad associarsi all’indignazione di Mazza e della collega Rossella Ognibene è anche l’Unione delle Camere penali italiane, convinta come i due penalisti che tale documento costituisca «l’ennesima» violazione di due principi sacri: «la presunzione di non colpevolezza e la precostituzione del giudice naturale». «Non voglio comprendere quali siano i motivi – spiega Mazza al Dubbio – ma questo provvedimento è un atto grave, in quanto dà per scontato che gli imputati siano colpevoli e che verranno rinviati a giudizio, considerando praticamente inutile l’udienza preliminare». Il documento, che rappresenta una «proposta di variazione tabellare provvisoriamente esecutiva», riorganizza le assegnazioni, compresa quella relativa ad “Angeli e Demoni”. Che, oltre tutto, viene anche indicata in maniera alquanto semplificata come il «complesso procedimento riguardante i noti fatti di Bibbiano». Bibbiano, città amministrata dal sindaco Andrea Carletti, coinvolto nella vicenda per un’accusa di abuso d’ufficio e una di falso. Nulla a che vedere, dunque, con quel presunto rapimento di bambini per mano di assistenti sociali senza scrupoli. Una cittadina violentata da partiti e media durante le regionali in Emilia, dunque, per una sola “colpa”: essere il Comune capofila dei servizi sociali della Val d’Enza. La scelta del presidente del Tribunale per il “caso Bibbiano” cade sul giudice Simone Medioli Devoto, «in violazione del principio costituzionale che impone la precostituzione per legge del giudice», affermano Mazza e Anghinolfi. Il tutto senza esser passati per il via: l’udienza preliminare è fissata il 30 ottobre, mentre il documento a firma del presidente Beretti è datato 7 settembre, quindi quasi due mesi prima. «In questo modo – prosegue Mazza – viene condizionato, magari in maniera non voluta, anche il giudice dell’udienza preliminare, perché viene dato per scontato l’esito che ci si attende da quell’udienza, non prevedendo nemmeno che qualcuno possa decidere di scegliere riti speciali». Secondo Mazza ciò è sintomo di una situazione ambientale tale da riflettersi anche sull’operato della magistratura. Ed è per questo che già il 30 ottobre presenterà la richiesta di spostare il processo ad Ancona, sede naturale in casi di rimessione. Anche perché questo, sottolinea, «è solo l’ultimo dei provvedimenti giudiziari anomali su questo caso». Il riferimento è, ad esempio, all’indagine avviata dalla procura su denuncia della difesa Anghinolfi, che ha lamentato la violazione del segreto investigativo, relativamente alla diffusione in tv delle intercettazioni del caso prima ancora che le stesse venissero depositate. «Ebbene – spiega Mazza -, il procuratore Marco Mescolini ha assegnato la titolarità di questa indagine allo stesso pm del procedimento, ovvero la dottoressa Valentina Salvi. Un’altra anomalia è la notifica dell’avviso di conclusione indagini una settimana prima delle elezioni in Emilia, nonostante le stesse fossero state chiuse da tempo». Insomma, a Reggio Emilia mancherebbe «la serenità necessaria per celebrare il processo. E nella sua abnormità – continua Mazza – questo provvedimento ne è la prova». E sul punto anche l’Ucpi è d’accordo: «Questo provvedimento presidenziale non solo ci fornisce la notizia che un processo non c’è ancora stato, ma che sicuramente ci sarà, al punto che il Presidente del Tribunale ha preparato quanto necessario perché ci siano i giudici del caso. Il problema, però, è che nessuno degli imputati è ancora stato rinviato a giudizio». Un provvedimento, continua la Giunta dell’Ucpi, fonte «di grave imbarazzo il giudice dell’udienza preliminare, il quale ora conosce quali siano le aspettative del capo dell’ufficio giudiziario al quale appartiene». Ma non solo: l’Unione evidenzia come «nella prassi quotidiana i più rilevanti principi a cui deve ispirarsi il processo penale siano in concreto ignorati. Ritenere che una udienza preliminare possa sfociare unicamente in un decreto che dispone il giudizio e non invece in una sentenza di non luogo a procedere, evidenzia non solo una concezione formalistica e sostanzialmente abrogativa di tale momento processuale – conclude la Giunta -, ma soprattutto l’assenza della minima considerazione per la funzione della difesa ed in ultima analisi della presunzione costituzionale di innocenza». Ma la replica di Beretti non si è fatta attendere: «Il provvedimento a mia firma datato 7 settembre 2020 è una proposta di variazione tabellare, provvedimento imposto dalla circolare del Csm sulla formazione delle tabelle dell’ufficio ogni qualvolta si presenti la necessità di una riorganizzazione – spiega -. La variazione del 7 settembre specifica solo che non è ad oggi possibile stabilire la composizione di questo eventuale collegio posto che uno dei suoi membri è in astensione per maternità e non è prevedibile la data del suo rientro in servizio». E aggiunge: «Non si comprende quale sarebbe la situazione “di grave imbarazzo” del giudice dell’udienza preliminare posto che quel giudice già da tempo era a conoscenza della data e dell’ora dell’eventuale udienza dibattimentale poiché da lui stesso richiesto ex art. 132 disp. att. c. p. p.». Un versione che Mazza smentisce: «Le indicazioni del Csm prevedono che il gup chiede la data dell’udienza dibattimentale all’esito dell’udienza preliminare. Se fosse vero che il gup ha chiesto in anticipo la data del dibattimento sarebbe ancora più grave, in quanto anticiperebbe il giudizio».

Lo scontro sul caso. Bibbiano, scontro tra camere penali e presidente del tribunale. Angela Stella su Il Riformista il 15 Settembre 2020. L’inchiesta sui presunti affidi illeciti, nota anche come “Caso di Bibbiano”, torna a far parlare di sé per un provvedimento del Presidente del Tribunale di Reggio Emilia che ha suscitato la critica della Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiani. La premessa è che l’udienza preliminare è fissata per il prossimo 30 ottobre e il Gup di Reggio Emilia dovrà decidere se rinviare a giudizio le 24 persone coinvolte nell’indagine “Angeli e Demoni” – altro nome con cui è stata ribattezzata l’indagine – per le quali il pm Valentina Salvi ha chiesto il processo. Secondo l’Ucpi il provvedimento organizzativo del Presidente del Tribunale di Reggio Emilia darebbe per scontato l’esito dell’udienza preliminare. Vediamo perché: il provvedimento che abbiamo avuto modo di leggere è datato 7 settembre e firmato dalla Presidente del Tribunale Cristina Beretti. Con esso sono state disposte alcune variazioni tabellari al fine di redistribuire il carico di lavoro tra i giudici. La peculiarità di tale provvedimento consisterebbe, secondo l’Ucpi, nel fatto di essere motivato, tra l’altro, dalla circostanza per cui «nei prossimi mesi inizierà la celebrazione del complesso procedimento riguardante i noti fatti di Bibbiano». Invece al momento è ovvio che nessuno degli indagati è ancora stato rinviato a giudizio. «Infatti – dice la Giunta – non è nemmeno iniziata l’udienza preliminare, il cui giudice, come è noto, dovrà (rectius, dovrebbe) stabilire chi può subire il processo richiesto dall’accusa e chi, invece, merita di essere prosciolto». Come leggere da entrambi le parti – accusa e difesa – tutto questo? «Certamente – sottolineano gli avvocati dell’Ucpi – si tratta di una previsione che, nel tranquillizzare la Procura, getta nello sconforto le difese, ma soprattutto pone in una situazione di grave imbarazzo il giudice dell’udienza preliminare, il quale ora conosce quali siano le aspettative del capo dell’ufficio giudiziario al quale appartiene. I difensori sapranno valutare adeguatamente quali conseguenze processuali abbia un simile provvedimento, anche sotto il profilo della precostituzione del futuro giudice dibattimentale». Abbiamo chiesto anche una replica alla dottoressa Cristina Beretti, Presidente del Tribunale di Reggio Emilia che ci ha inviato una nota di due pagine; per questione di spazio estraiamo quanto segue: «Questo Presidente non ha “preparato quanto necessario perché ci siano i giudici del caso”, come si legge nel documento dell’Unione Camere Penali per chissà quali illegittimi scopi, né ha ritenuto che il procedimento debba necessariamente sfociare in un decreto che dispone il giudizio. La data e il giorno dell’udienza dibattimentale è già stata richiesta ed indicata da tempo, come impone la legge, per il caso in cui debba essere celebrato il dibattimento. Questo Presidente ha unicamente riorganizzato una sezione penale dando atto del fatto che il collegio presieduto dal collega al quale, per ben altri motivi esplicitati nel provvedimento del 7 settembre è stato riequilibrato il ruolo, sarà quello che, secondo le disposizioni tabellari, celebrerà il processo c.d. Bibbiano laddove dovessero essere disposti rinvii a giudizio»: dunque secondo la Presidente si tratterebbe di una prassi consolidata di organizzazione degli uffici giudiziari. Proprio sulla prassi, si è espresso con noi Eriberto Rosso, Segretario dell’Ucpi: «Diamo volentieri atto alla dottoressa Beretti delle sue dichiarazioni, è un magistrato noto per l’attenzione ai diritti della difesa. Il problema però è che il magistrato fa riferimento ad una prassi consolidata nel richiedere la data del giudizio molti mesi prima dell’udienza preliminare. È una consuetudine sulla quale vorremmo interloquire perché è comunque una strana procedura, una anomalia che merita una riflessione. Si tratta di una prassi consolidata anche in altre sedi giudiziarie? Non abbiamo interesse ad una grossa polemica ma abbiamo ritenuto necessario evidenziare questo dato».

Il giudice Spadaro: «Gogna su Bibbiano, a farne le spese la tutela dei minori». Simona Musco su Il Dubbio il 12 settembre 2020. «La campagna mediatica su quel caso fu molto dannosa. Ma ora bisogna lavorare per migliorare il sistema e salvare i bambini in pericolo». Parla il presidente del Tribunale dei minori di Bologna Giuseppe Spadaro. Un anno fa, quando scoppiò quello scandalo che trovò la sua sintesi nella fallace espressione “Sistema Bibbiano”, a risentire dello tsunami che travolse i servizi sociali e il mondo degli affidi fu anche chi, in prima linea, lavorava per salvare i più piccoli da situazioni potenzialmente pericolose. Ovvero il Tribunale dei minori di Bologna, presieduto da Giuseppe Spadaro, che a seguito dell’ispezione inviata dal ministero perse, per questione di opportunità, la poltrona da procuratore minorile a Roma. E ora, terminata quell’ispezione, i cui esiti non sono ancora formalmente noti, per Spadaro arriva la proposta unanime da parte della V Commissione del Csm per la nomina a Presidente del Tribunale dei minori di Trento. Il tutto mentre il mondo degli affidi cerca di tornare, lentamente, alla normalità. «La campagna mediatica su quel caso – spiega Spadaro al Dubbio – fu molto dannosa. Ma ora bisogna lavorare per migliorare il sistema e salvare i bambini in pericolo».

A un anno di distanza dall’inchiesta “Angeli e Demoni”, alcuni dei partiti che fecero campagna elettorale sul tema degli affidi hanno ammesso che fu un errore. Quanto ha influito sul mondo della giustizia minorile?

«Purtroppo si assistette ad una campagna mediatica, e non solo, totalmente sbilanciata in una sola direzione, poiché noi giudici abbiamo un obbligo di riserbo e non potevamo e possiamo replicare ad invettive, che hanno prodotto sentimenti di rabbia, accompagnati da una crescente sfiducia nei confronti dei giudici minorili e dei servizi sociali che venivano dipinti come i “ladri di bambini”. Questo ha fatto sì che, nei mesi a seguire, tra gli operatori, specie quelli dei servizi sociali, vi fosse quasi il timore a notiziare di situazioni pregiudizievoli per la paura di essere, loro stessi, denunciati. Anche con le famiglie affidatarie è stata ed è molto dura, perché per quanto si tratti di persone straordinarie sono terrorizzate. E anche all’interno delle aule di udienza, abbiamo dedicato quanto più tempo possibile per ragionare assieme ai genitori e ai loro avvocati, adoperandoci per tentare di trasmettere loro la fiducia di essere lì solo per garantire il benessere del bambino. Sono stati mesi molto duri».

Il suo Tribunale, poi risultato parte lesa, è stato sottoposto ad una verifica da parte del ministero. Quali sono stati gli esiti?

«L’avere la Procura di Reggio Emilia, correttamente, identificato il ministero della Giustizia – e dunque anche il Tribunale dei minori di Bologna – parte lesa è confermativo che qualora venga accertato, a conclusione del processo penale, che i reati contestati siano stati commessi, gli imputati ci hanno tratto in errore, rappresentandoci situazioni non vere. Se così fosse, dovranno essere puniti con pene non severissime, come molti affermano, ma “giuste” e il ministero dovrà essere risarcito per il grave danno derivato. Ciò è confermato dal fatto che, ancora, dopo un anno, sulla stampa si legge “sistema Bibbiano”. In quel contesto, per l’eco mediatica e non solo, l’inchiesta ministeriale era atto dovuto. I miei giudici e io per primo – che avevo già attivato una auto- ispezione interna esaminando fascicolo per fascicolo – ci siamo messi a completa disposizione degli ispettori».

Alcune intercettazioni ancora coperte da segreto sono state rese pubbliche prima della discovery. Non sarebbe stato necessario fare delle verifiche anche in quel caso? E perché il suo Tribunale non è stato informato dell’indagine?

«Questa domanda non va posta a me».

L’inchiesta ha riaperto la discussione sul tema degli affidi e portato a una proposta di modifica della legge. Quali sono gli aspetti da cambiare?

«Auspico, in tempi brevi, una nuova norma che disciplini con rigore il rito minorile processuale. Più il legislatore prevede l’osservanza di regole rigide, più è garantita tutela a tutti, compresi gli stessi giudici che hanno il compito delicatissimo di prendere decisioni in materie così complesse in una primissima fase in cui gli elementi di giudizio sono ancora pochi e fumosi. Il principio del contradditorio, la presenza dell’avvocatura e una stringente procedura potranno sicuramente ridurre il margine d’errore portandolo idealmente a zero. Peraltro non dimentichiamo che tutti i protagonisti di questi procedimenti hanno l’ingrato compito di mettere in sicurezza i minori ma anche adoperarsi per consentire ai genitori inadeguati di recuperare al più presto la loro piena capacità genitoriale».

Nella proposta di legge si ipotizza anche l’abolizione dell’articolo 403 del codice civile, che consente l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È d’accordo?

«È doverosa una riflessione che conduca ad un intervento normativo di riscrittura dell’articolo 403 cc. Si deve introdurre uno strumento di immediato controllo della decisione amministrativa dei Servizi di allontanamento del minore, ad opera dell’autorità giudiziaria, da espletare nel pieno contraddittorio con la famiglia e sentendo, con la massima celerità tutte le figure che hanno ‘ vissuto’ il minore. Non dico di eliminare questa possibilità per i servizi perché non va dimenticato che, purtroppo, vi sono situazioni oggettivamente gravi che impongono, per la salvaguardia del minore, il suo allontanamento immediato, ma subito una sorta di convalida da parte del giudice e in presenza dei difensori. Altra cosa introdurrei in quasi tutti i procedimenti l’avvocato del bambino».

Cosa ci dicono i casi di cronaca degli ultimi tempi?

«Ci confermano che di fronte all’esistenza di una situazione che possa mettere a rischio il bambino è necessaria, senza indugio, la segnalazione alle competenti autorità giudiziarie minorili, che bisogna intervenire, anche in urgenza, mettendolo in protezione. Uno Stato civile non può girarsi dall’altra parte. Quei bambini oggi potrebbero essere ancora tra noi».

La Giustizia minorile sembra interessare solo quando fa cronaca. C’è’ sottovalutazione?

«Sì, è considerata quasi una giurisdizione di serie B, mentre le garantisco che si tratta di funzioni delicatissime. Io ho svolto gran parte della mia esperienza in tribunali ordinari affrontando processi penali in Calabria, ma questo è il ruolo più difficile che un magistrato possa svolgere. C’è la necessità, senza dubbio, di una maggiore e più costante attenzione, per assicurare quella celerità processuale dovuta ai bambini. Occorre, in primis, aggiornare, come questo ministero sta facendo, le piante organiche degli Uffici e garantire un numero di giudici minorili togati, presso ogni Tribunale dei minori, correlato alle effettive esigenze di ogni singolo territorio. Per non dire poi del personale amministrativo, assolutamente indispensabile. Occorre attribuire più poteri al Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza e a quelli regionali».

L’inchiesta sugli affidi ha fermato la sua nomina a procuratore minorile a Roma, in attesa dell’ispezione voluta dal ministero. Oggi il Csm ha proposto al plenum all’unanimità la sua nomina alla Presidenza del Tribunale Minori di Trento. È la conferma che il suo ufficio ha lavorato al meglio?

«Sono sempre stato sereno, perché so di aver lavorato per 30 anni sempre con il massimo dell’impegno. E so bene che anche i miei colleghi minorili lo han fatto, sia pure in condizioni oggettivamente difficilissime. L’eco mediatica e altri interventi che si sono avuti a quel tempo, taluni davvero fuori luogo in quanto espressi da chi non aveva conoscenze in quanto non poteva averle, ha inevitabilmente – ed è comprensibile – determinato ad avere prudenza. Inoltre la collega nominata vantava giustamente una maggiore attitudine avendo svolto funzioni requirenti che io non ho mai svolto. L’unanimità con cui la V commissione ha condiviso la proposta del giudice relatore Pier Camillo Davigo mi onora. Qualora il Plenum dovesse decidere positivamente, dedicherò al mio nuovo ufficio tutto me stesso, portando in quella sede anche questa pesante esperienza, continuando a garantire la massima e più scrupolosa attenzione alla tutela dei minori».

Bibbiano un anno dopo. Quando il prezzo della caccia alle streghe lo pagano i bambini. Simona Musco su Il Dubbio il 27 agosto 2020. L’allarme dell’avvocato Marco Scarpati: «Gli assistenti sono stati delegittimati e gli allontanamenti da situazioni pericolose non vengono più svolti». Ci sono i “casi Bibbiano”, da un lato. E poi i casi come quello dei piccoli Evan e Gioele. In mezzo un mare di approssimazione e facili deduzioni, la demonizzazione dei servizi sociali, la loro assenza sul territorio e il circo mediatico che inquina tutto. A rimetterci, in ogni caso, sono loro, i bambini. La storia di Evan, massacrato, secondo l’accusa, dal compagno della madre, anche lei finita in manette e già in precedenza indagata dalla procura di Siracusa per i ricoveri anomali del bambino, con una denuncia ignorata fatta dal padre del piccolo in Liguria, riapre la questione e pone nuovi interrogativi. Domande pesanti, avanzate, ad esempio, da Marco Scarpati, avvocato ed esperto di protezione dei diritti dei minori, il cui nome è finito ingiustamente nel vortice dell’inchiesta “Angeli& Demoni”. Criminalizzato e poi risultato innocente, oggi si chiede se la caccia alle streghe partita più di un anno fa abbia intaccato pericolosamente la tutela dei diritti. «Un anno fa le polemiche sui cosiddetti affidi facili e sul “parlateci di Bibbiano” scrive sul suo profilo Facebook -. Queste sono le conseguenza: gli affidi extrafamigliari, l’allontanamento dai genitori non viene più svolto ( per paura delle conseguenze e delle critiche) e i bambini e i loro diritti vengono calpestati. Quando un Tribunale per i Minorenni toglie un bambino a un genitore lo fa a ragion veduta, come scelta protettiva per un bambino che non trova, nei suoi genitori naturali, persone adatte ( almeno in quel momento o in quella situazione) ai suoi bisogni. E nessun servizio sociale fa segnalazioni facilmente o per motivi frivoli, ma sempre dopo avere cercato una soluzione interna alla famiglia, dopo avere cercato di sostenere le possibilità autoriparative degli adulti responsabili di quella famiglia. Chi ha le colpe della vergognosa campagna di odio lanciata a suo tempo dovrebbe ragionarci e chiedere scusa ai tanti piccoli Evan». Parole che conferma al Dubbio, denunciando quello che, personalmente, vede ogni giorno con il suo lavoro. «C’è una situazione di corposa difficoltà nella gestione della materia – spiega -. Da un anno non si trovano psicologi che si prendano la responsabilità di casi dove esistono possibili procedimenti giudiziari in corso. La iper responsabilizzazione che c’è stata rispetto agli interventi degli psicologi e dei terapeuti come possibili modificatori della prova, così come ipotizzato nel caso Bibbiano, hanno provocato ritardi e tentennamenti che mettono in secondo piano il diritto alla salute del bambino rispetto al diritto di giustizia». Insomma, senza rassicurazioni, la paura di intervenire, sbagliare e finire in un tritacarne è tanta. Il clima è incerto, le notizie inesatte o imprecise, le accuse prese per buone a prescindere. E basta un giornale che faccia da megafono ad una sofferenza magari giusta o anche solo comprensibile per far crollare tutto quanto. Al di là di cosa sia giusto fare o meno. «Le richieste dei pm diventano automaticamente legge stampata sulle tavole di Mosè – continua Scarpati -. Ovviamente si tratta di ipotesi, ma il messaggio che arriva agli operatori è che il gioco non valga la candela, considerato che si ipotizza il dolo rispetto alla terapia svolta». Ciò porta ad una maggiore difficoltà ad agire sulla base dell’articolo 403 del codice civile, secondo cui «quando il minore si trova in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione». Scelte che espongono a responsabilità sia civile sia penale e che ora risultano molto più faticose. E ciò, per l’avvocato reggiano, è anche frutto dello strascico mediatico del caso Bibbiano. «Non ci si deve difendere dai processi, ma nei processi. E chi svolge un mestiere delicato con i bambini deve stare molto attento sottolinea -, perché va a toccare un interesse primario rispetto a qualsiasi altro interesse. Gli errori ci sono, ne ho visti tanti, ma non si può pensare che il sistema sia composto da demoni». La soluzione, spiega, è velocizzare l’iter: «Se arriva una segnalazione su un possibile abuso o maltrattamento non può essere ignorata: la prima cosa da fare è sottrarre il bambino dal pericolo. Non si può perdere tempo. Dunque – sottolinea – bisogna riformare il 403, velocizzando tutto. Bisogna prevedere che la fase di processualizzazione arrivi molto velocemente, in pochi giorni, che le carte vengano contestualmente inviate ai genitori, che l’udienza non sia fissata tre mesi dopo, ma una settimana dopo e che la cosa venga risolta con un procedimento tra le parti e quindi con un avvocato del minore. Se immediatamente la questione viene messa in mano ad un dibattito tra gli esperti, nessuno potrà dire che la propria voce è stata ignorata». Gli strascichi mediatici del caso Bibbiano hanno dunque fatto male ai servizi sociali. «E li abbiamo pagati tutti, a cominciare dai bambini», dice al Dubbio Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio Nazionale dell’ordine degli assistenti sociali. «Nel momento in cui distruggo la credibilità di un’intera fetta istituzionale è chiaro che il rischio è che la gente si allontani e che non si rivolga agli assistenti sociali quando ne ha bisogno. Quel che serve – aggiunge – è un investimento strutturale. Gli ultimi veri risalgono alla legge Turco del 2000». E poi ci sono ancora molti territori sguarniti di assistenti sociali: nonostante la legge preveda la presenza di un operatore ogni 5mila abitanti, in almeno due terzi d’Italia se ne conta uno ogni 40mila. E ciò soprattutto al Sud. «Molte amministrazioni fanno bandi a titolo gratuito – aggiunge – ma ciò non è possibile. I problemi non sono solo economici, ma è più facile sborsare un assegno che investire in servizi». Ma non solo. In uno degli ultimi decreti è stato approvato un emendamento che prevede l’istituzione, da parte delle Regioni, di un piano per i servizi, proprio perché nella fase più acuta del lockdown in molti territori tutto è rimasto fermo. Ma al momento nessuna Regione si è adeguata alla direttiva. Ma nonostante le difficoltà e le incertezze, continua Gazzi, «non voglio neanche pensare che i colleghi si ritraggano dalle loro responsabilità. Il contesto in cui si esercita si prende in considerazione, ma mai e poi mai, se c’è un intervento da fare, credo che qualcuno si tirerebbe indietro. Non mi pare ci siano state segnalate situazioni del genere. Va detto, però, che nei mesi successivi al caso Bibbiano le minacce e le aggressioni sono aumentate. E non si può assistere a polemiche strumentali di quel tipo, né accettare battaglie ideologiche sulla pelle dei bambini».

Milano “come Bibbiano”, procedimento disciplinare per un’assistente sociale. Rec News il 17/07/2020. Dopo la segnalazione di un papà al CNOAS, è scattata la misura a carico di Silvia De Lorenzi per la presunta violazione di due articoli del Codice Deontologico. Secondo il genitore avrebbe redatto relazioni false. Non c’è solo Bibbiano quando si parla di allontanamenti ingiusti di minori dai loro nuclei familiari, di relazioni false e in alcuni casi sparsi qua e lá in Italia, di abusi. Il vaso di Pandora milanese, per esempio, l’ha scoperchiato in questi mesi Rec News (di seguito gli altri articoli) e sembra che ora la matassa stia per essere sbrogliata. Lo scorso 18 giugno è stato aperto un procedimento disciplinare a carico di Silvia De Lorenzi, l’assistente sociale già indagata per diversi possibili reati tra cui falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, calunnia e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Stando a quanto dichiarato da diversi genitori, l’interessata avrebbe redatto delle relazioni false, che negli anni sarebbero state la causa dell’ingiusto allontanamento di diversi bambini e bambine dalle loro famiglie. È un papà – il 31 gennaio di quest’anno – a inviare una segnalazione all’Ordine degli Assistenti Sociali, come riportato dal documento (firmato dalla Presidente facente funzione Francesca Megni) in cui si dà conto dell’avvio del procedimento disciplinare. “Quanto contenuto nella segnalazione – scrive il Consiglio Territoriale di Disciplina del CNOAS – descrive fatti ed episodi ritenuti di rilevanza disciplinare ai ni del procedimento. Il segnalante – procede il documento – dichiara che l’assistente sociale ha prodotto relazioni con contenuti falsi, attribuendo comportamenti delittuosi all’esponente”. Non ci sono – scrive il Collegio – elementi sufficienti ed esaustivi per una valutazione”. È scattato, dunque, il procedimento disciplinare a carico dell’assistente sociale per la presunta violazione degli articoli 26 e 30 del Titolo V (Capo I) del Codice deontologico. L’atto è stato dichiarato immediatamente esecutivo. Il procedimento, si legge, dovrà concludersi entro 540 giorni dalla data dell’atto, cioè a decorrere dal 18 giugno 2020.

"Mi hanno attaccato al muro e...". Vent'anni di orrore al Forteto. Vent'anni di vita passati dentro la comunità lager Il Forteto. Una vittima di Rodolfo Fiesoli racconta a IlGiornale.it i maltrattamenti che è stato costretto a subire. Costanza Tosi, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. “Mi hanno portato in una stanza, erano Rodolfo Fiesoli, i miei genitori affidatari e altre due persone che conoscevo da anni. Mi hanno attaccato al muro e con un coltello puntato alla gola mi hanno minacciato. Se avessi parlato, se mi fossi permesso di denunciare quello che avevo vissuto se la sarebbero rifatta sulla mia bambina. Mi avrebbero portato via la mia ragione di vita”. Era il 2017. Da qualche anno la comunità Il Forteto era finita nell’occhio del mirino. Da lì a poco, il vaso di pandora sarebbe stato scoperchiato e i racconti dei ragazzi che per anni hanno vissuto tra le mura della cooperativa di Barberino del Mugello iniziavano, a poco a poco, a delineare i contorni di una realtà da film degli orrori. Quello stesso giorno Emanuele si era presentato in tribunale, al banco dei testimoni, dalla parte dell’accusa. Quando scoppiò il caso le denunce nei confronti dei gestori della comunità parlavano di maltrattamenti e violenze sessuali sui ragazzi affidati alla comunità dai servizi sociali. “Prima di agire sul corpo loro agivano sulla mente”, racconta con lo sguardo nel vuoto Emanuele. Come se la sua mente non riuscisse ancora a respingere i fotogrammi di quell’incubo durato vent’anni. E così, quel giorno, su Emanuele aveva vinto la paura. Di nuovo. Dopo le minacce di Fiesoli e i suoi, il ragazzo accettò di fargli da spalla. “Negai di aver visto qualsiasi cosa mi venisse chiesta, ma non ce la feci a smentirla. La sera mi ritrovai con il coltello alla gola”. Ma quello per Emanuele fu l’ultimo giorno al Forteto. Chiamò la sua compagna di allora, si fece venire a prendere e scappò via chiudendo dietro di sé la porta di un calvario durato tutta una vita.

La storia di Emanuele. Era il 1996 quando Emanuele entrò al Forteto assieme ai suoi fratelli dopo aver compiuto il suo decimo anno di vita. “La più grande era mia sorella, di 12 anni, poi c’erano i piccini. 7 e 8 anni”, ricorda la vittima. I servizi sociali lo avevano fatto allontanare dalla sua famiglia. La situazione a casa era difficile, diretta conseguenza di un padre violento e aggressivo che spesso picchiava la madre dei suoi figli e chi di loro provava a fermarlo. “Ero sempre io quello che si metteva in mezzo senza riuscire a restare fuori dai guai e papà mi picchiava ogni volta”, continua Emanuele. I ragazzini vennero dati in affidamento ad una coppia che faceva parte della comunità di Rodolfo Fiesoli. Trasferiti a Vicchio iniziarono a vivere in questa nuova casa. “Eravamo tanti. I “genitori” in media erano una 70ina di persone. Altrettanti i ragazzi”. Tutti dovevano fare tutto e in quegli anni Emanuele ha cambiato decine di lavori. Ma il fulcro della convivenza forzata erano le teorie sulle quali venivano costruiti i rapporti tra le persone. Ogni azione si basava sulla falsa storia del superamento dei traumi subiti prima di entrare nella cooperativa. “La chiamavano terapia d’urto per liberarti da quello che avevi vissuto. Nei fatti erano violenze sessuali,” ammette Emanuele senza riuscire a fermare il tremore delle mani sul tavolo della cucina. Con gli occhi bassi e qualche pausa di riflessione ci spiega che, nel luogo degli orrori, si prediligeva l’omosessualità. Secondo i capi era “una sorta di amore puro che ti liberava dalle cose materiali”.

Le Violenze. “Ricordo quel giorno come se fosse adesso. Ero entrato in comunità da appena due mesi quando dovetti affrontare il primo chiarimento”, spiega il ragazzo. Era così che i boss della setta chiamavano gli incontri a porte chiuse con i singoli bambini. Le sedute di plagio. Le violenze psicologiche che servivano a fare il lavaggio del cervello ai piccoli. “Rodolfo Fiesoli mi guardò e mi disse che avevo il viso bianco e quindi vi era in me una paura, serviva affrontarla in un chiarimento. Provai a dire che non c’era niente che non andava, ma loro in maniera forzata mi misero a sedere, in castigo. In quei momenti, persino un bambino di 11 anni riusciva a capire alla velocità della luce che avrebbe dovuto fingere altrimenti sarebbe finita male. Il giorno prima ero andato a cavallo, dissi che quello mi aveva impaurito. Fu la prima di tante bugie”. Bugie per scappare alle violenze, bugie per allontanare le percosse. Falsità urlate a gran voce per evitare di essere deriso di fronte a tutti. L’umiliazione era l’arma più forte. “Ti facevano sentire matto, ti umiliavano davanti a tutti se solo non confermavi quello che loro sostenevano o se provavi a ribellarti alle violenze psicologiche”. Inizialmente la storia delle paure, poi le "bestie" arrivavano all’argomento cardine: la famiglia di sangue. “Quando parlavano della mia famiglia sapevo che avrei preso le botte. Mi raccontarono che mia madre non mi voleva che sapevano di incesti con i miei nonni. Io ero certo che non fosse vero, l’unico problema della mia famiglia era stato mio padre che ci picchiava, ma loro volevano allontanarmi da tutti e ce la fecero”. L’ultima volta che vidi mia mamma era dicembre del 1996. Emanuele arrivò a dichiarare davanti ad un giudice cose mai avvenute all’interno delle mura di casa sua nei primi anni di vita. “Per colpa delle accuse da parte mia nei confronti di mia madre nel '98 le hanno tolto mi sorella più piccola, che io non ho mai conosciuto. É una cosa che non so se riuscirò mai a perdonarmi”. Eppure, prima di arrivare a questo, Emanuele aveva provato a lottare. Si era ribellato. Si era opposto alle costrizioni. “Il padre a cui ero affidato in comunità veniva chiamato "Thai", era un picchiatore. Più di una volta sono stato picchiato a sangue. Calci, pugni. Non ti portavano mai in ospedale, ma nella loro infermeria. Andai lì con due costole incrinate e poi, a 16 anni, quando mi ruppero il naso”, racconta ancora Emanuele.

La vita al Forteto. Infanzia, adolescenza, maturità. Emanuele ha affrontato tutte e fasi più importanti della sua vita nella setta toscana. Prima la scuola e poi il lavoro, infine l’amore e la famiglia, l’ennesimo sogno stroncato da falsità e bugie. “Dopo aver terminato gli studi ho iniziato a lavorare, negli anni ne ho fatte di tutti i colori. Lì dentro dovevi saper fare qualsiasi cosa. Ma la mia passione era le macchine”, racconta Emanuele con il sorriso. Negli ultimi anni prima della fuga era quello che il ragazzo, ormai quasi trentenne, faceva. Si portava a casa la pagnotta facendo il meccanico e lo stalliere. Nello stesso periodo conobbe quella che sarebbe diventata la madre della sua bambina. “Ci sposammo nel 2012, le prime denunce erano già arrivate e gli indagati cercavano di rimettere a posto le cose. Dare la parvenza che tutto fosse normale per smentire chi aveva raccontato le atrocità che accadevano là dentro”. Per questo Emanuele e la sua compagnia si sposarono nello stesso anno in cui lo fecero altre coppie del Forteto. Una strategia per sostenere la tesi che all’interno della comunità su cui i ragazzi avevano puntato il dito in realtà vivessero persone che potevano farsi la propria vita, dopo essere riusciti a superare i propri traumi grazie alle tecniche del Fiesoli. “La realtà è che a me sono stati provocati dei traumi psicologici che ancora oggi fatico a superare. Non ho mai avuto un rapporto sessuale sereno fino a circa due anni fa. Non riuscivo a togliermi dalla testa le loro parole di quando mi dicevano che ero come mio padre. Ogni cosa riguardante la sfera sessuale la associavo ad una violenza”, spiega Emanuele.

La lotta per avere giustizia. Dopo il matrimonio, quando scoprì di essere incinta, anche la moglie di Emanuele entrò in comunità, pronta a vivere la stessa vita del compagno, ma la loro permanenza al Forteto come famiglia fu leggermente diversa dagli anni passati. Nel frattempo Rodolfo Fiesoli era stato arrestato e all’interno della tenuta la situazione era tornata ad assumere sembianze più vicine ad una realtà normale. “Mia moglie ha stretto rapporti con la mia famiglia affidataria e non ha mai assistito alle violenze che io avevo subito anni prima”. L’attesa della figlia per Emanuele non fu un momento facile. "Avevo un'idea di famiglia che non mi permetteva di vivermela in maniera serena", racconta. Da lì iniziarono le liti tra la coppia. Un periodo di crisi durante il quale la mamma si scagliò dalla parte dei carnefici, la famiglia affidataria di Emauele, che la ragazza aveva conosciuto al Forteto nel periodo di "redenzione". Tutt'oggi continua la lotta senza tregua per cercare di portare via dalle braccia del paddre la piccola. Tutto per aver dato ascolto alla persona sbagliata, senza mai credere alla verità del papà. Verità che, nel 2017, il padre è riuscito a denunciare ai pm. "Ho raccontato tutto. Ho denunciato i miei genitori affidatari e tutte quelle persone che ancora nessuno aveva mai citato, ma che sono parte integrante di quel lager che mi ha rovinato la vita. Oggi voglio giustizia." Una giustizia che fatica ad arrivare. Dopo tre anni dal giorno della denuncia questa sembrava svanita nel nulla. "Ho fatto un video sul mio profilo Facebook denunciando la cosa. Esattamente due giorni dopo ecco che arriva la richiesta di archiviazione - racconta Emanuele - per me è stato l'ennesimo colpo al cuore".

Comunità rossa del Forteto, il pm: “Ho pianto scoprendo quello che hanno fatto ai bambini”. Carlo Marini lunedì 22 giugno 2020 su Il Secolo d'Italia. “La vicenda dibattimentale è iniziata il 4 ottobre 2013. Io sono entrata nel processo alla fine delle indagini preliminari. Ho partecipato alla redazione di avviso di conclusione delle indagini preliminari”. Ricordo “l’estate del 2012 come quella in cui ho le gli atti e le carte e l’ho passata spesso piangendo. Da sola nella mia stanza quando leggevo gli atti che riguardavano bambini mandati al Forteto. Atti, spesso del tribunale per i minorenni. Più brevi e meno motivati dei miei decreti di sequestri di droga relativi a ignoti indagati”. Lo ha detto il sostituto procuratore presso il Tribunale di Firenze, Ornella Galeotti. Il magistrato è intervenuto in Commissione parlamentare di inchiesta sui fatti accaduti presso la comunità “Il Forteto”. “Il processo del Forteto ha attraversato la vita del mio ufficio e del tribunale di Firenze in maniera insolita per un processo che non riguarda l’area Dda”, ha sottolineato Galeotti. “Il tribunale di Firenze ha assicurato il massimo dello sforzo e siamo riusciti ad arrivare in fondo, nonostante una serie di turbative importanti, gravi e difficili da neutralizzare”.

“Per trent’anni lo scandalo pedofilo in Toscana è stato coperto”. “Come ho detto anche in aula, in Toscana per 30 anni si è assistito alla sospensione di tutte le regole e le leggi in questa materia”. Nel corso dell’audizione Galeotti ha inoltre sottolineato che i “servizi sociali avvisavano prima di andare”. E che “non c’era nessun tipo di controllo istituzionale”. Il motivo? Perché il Forteto era solo una cooperativa agricola. Non era una casa famiglia, né un istituto per minorenni”. Ma “nei confronti del Forteto nessuno ha sollevato una sola questione”, ha proseguito. Coronavirus: 23 morti, mai così pochi dal 2 marzo. Il virologo Clementi: “Entro luglio zero contagi”.

Scandalo rosso del Forteto: le verità nascoste. Il Forteto nasce negli anni ’70 dalla spinta ideologica del ’68. L’idea di una vita comunitaria a contatto con la terra e la natura si è trasformata presto in un luogo dove si sono commesse le peggiori angherie. Bambini con situazioni difficili affidati dai magistrati e poi abusati. Non si parla solo di abusi fisici, ma anche psicologici e sociali che hanno coinvolto anche le persone entrate in buona fede per lavorare e scappate per disperazione. E pensare che per anni le istituzioni della sinistra l’hanno incensata presentandola come un esempio. Il Forteto è stata una vera e propria setta.

Il guru Fiesoli, pluricondannato. Rodolfo Fiesoli (nella foto), 78 anni, fondatore della comunità ”Il Forteto”, al centro di varie inchieste per maltrattamenti e violenza sessuale, è stato condannato a pene che complessivamente superano i venti anni di reclusione. La comunità è sempre stata sostenuta (e coperta) dalla sinistra toscana, tanto da avere fino a qualche tempo fa anche uno stand alla Feste dell’Unità fiorentine.

Bibbiano, chiusa inchiesta sugli affidi illeciti: chiesto il rinvio a giudizio per 24 persone. "Angeli e demoni", l'accusa cita 155 testimoni; una cinquantina le parti offese. L'avvocato di Anghinolfi: "Finalmente potrà difendersi davanti a un giudice". La Repubblica il 23 giugno 2020. La Procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio per 24 persone nell'ambito dell'inchiesta 'Angeli e Demoni' sugli affidi illeciti a Bibbiano, in Val d'Enza. Sono 155 i testimoni citati dall'accusa, 48 le parti offese, tra cui l'Unione dei Comuni Val d'Enza, i Comuni di Gattatico e Montecchio, ministero della Giustizia e Regione Emilia-Romagna. L'inchiesta è stata seguita dai carabinieri, coordinati dal pm Valentina Salvi. L'udienza preliminare è fissata per il 30 ottobre davanti al Gup del tribunale di Reggio Emilia Dario De Luca Tra i testimoni citati dall'accusa, oltre agli investigatori dei carabinieri che hanno seguito l'indagine, il giornalista-scrittore Pablo Trincia, la direttrice della fondazione emiliano-romagnola per le vittime di reato Elena Buccoliero, l'ex giudice minorile di Bologna Francesco Morcavallo, il direttore generale dell'Ausl di Reggio Emilia Fausto Nicolini. In sede di udienza preliminare "Federica Anghinolfi potrà esercitare appieno il suo diritto di difesa. Questo avverrà finalmente davanti ad un Giudice in Tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino ad ora", scrive l'avvocato Rossella Ognibene, legale dell'ex responsabile dei Servizi sociali dell'Unione Val d'Enza reggiana, una delle figure chiave dell'inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi. "In quella sede affronteremo, tra l'altro e in prima analisi, tutte le anomalie delle accuse rivolte alla dottoressa Anghinolfi. Sarà un Tribunale a valutare accuse e difese e sarà la decisione di un giudice a stabilire l'eventuale rinvio a giudizio che, nel caso, darà luogo a un legittimo processo nella aule di Giustizia", prosegue la difesa.

“Angeli e Demoni”, dallo show mediatico al Tribunale: «Finalmente potremo difenderci». Simona Musco su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Il presidente del Tribunale dei minori: «Noi parte lesa, ora lasciamo che siano le sentenze a parlare». L’inchiesta sui presunti affidi illeciti, da tutti conosciuta impropriamente come “Caso Bibbiano”, arriva per la prima volta davanti ad un giudice. Con l’udienza preliminare fissata il prossimo 30 ottobre davanti al Gup di Reggio Emilia, che dovrà decidere se rinviare a giudizio le 24 persone coinvolte nell’indagine “Angeli e Demoni” per le quali il pm Valentina Salvi ha chiesto il processo. Uno snodo cruciale, dopo mesi di polemiche e di campagne elettorali, costruite dalla destra col pretesto della presenza, tra gli indagati, di un sindaco del Pd – Andrea Carletti – per il quale ora è stato chiesto il giudizio. Ma lungi dall’essere accusato di “traffico di bambini”, Carletti rischia il processo per falso e abuso d’ufficio. Nulla a che vedere, dunque, con l’identikit del mostro cucitagli addosso e che gli è valso mesi di gogna mediatica, cavalcati dalla Lega in vista delle regionali – poi perse -, senza sfiorare minimamente il campionario degli orrori ipotizzato dai capi d’imputazione, che sono in totale 107.

“Angeli e Demoni”: si va verso il processo. Il dibattimento si preannuncia mastodontico, con 155 testimoni citati dall’accusa e 48 parti offese, tra le quali il ministero della Giustizia, la Regione Emilia Romagna e l’Unione dei Comuni della Val d’Enza. L’inchiesta, a giugno dello scorso anno, è stata presentata come un film horror fatto di lavaggi del cervello, con ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, per alterare «lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari» e sottrarre bambini a famiglie innocenti col solo scopo di guadagnare col sistema degli affidi, per un business da circa 200mila euro. Nelle 78 pagine firmate dal pm Salvi l’imputata principale risulta essere Federica Anghinolfi, ex dirigente dei servizi sociali della val d’Enza, che porta sul groppone una sessantina di capi d’imputazione sui 107 messi nero su bianco dalla procura: dal falso ideologico alla frode processuale, passando per violenza privata, falsa perizia ed abuso d’ufficio. Trattata pubblicamente come un orco senza diritto al contraddittorio, adesso, afferma Rossella Ognibene, componente del collegio difensivo, «Federica Anghinolfi potrà esercitare appieno il suo diritto di difesa. Questo avverrà finalmente davanti ad un Giudice in Tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino ad ora. In quella sede affronteremo – tra l’altro e in prima analisi – tutte le anomalie delle accuse rivolte alla dottoressa Anghinolfi. Sarà un Tribunale a valutare accuse e difese e sarà la decisione di un Giudice a stabilire l’eventuale rinvio a giudizio che, nel caso, darà luogo a un legittimo processo nella aule di Giustizia».

Tribunale dei minori parte lesa. L’altro aspetto riguarda il Tribunale dei minori, inizialmente tirato in ballo da chi riteneva che ci fosse quantomeno negligenza da parte di magistrati e giudici e ora riconosciuto come parte lesa, vittima di frode processuale, depistaggio ed induzione in errore in oltre una decina di capi d’accusa. «Dall’inizio di questa bruttissima vicenda, ho sempre detto in ogni sede che chi ha sbagliato e ne sia accertata la responsabilità penale, che è sempre personale, deve essere punito ed anche severamente, senza sconti – ha commentato Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minori -. E questo perché i bambini sono sacri e le loro le famiglie pure, quando però funzionanti. Se dovessero risultare colpevoli sarei profondamente indignato, perché loro sanno essere la nostra longa manus sui territori e le loro relazioni fanno prova fino a querela di falso, spero davvero che nessuno, in nome di un interesse economico o di una perversa ideologia, possa giungere a tanto. Personalmente, avuta la notizia dell’indagine rivisitai autonomamente ed immediatamente, ad uno ad uno, tutti i fascicoli che vedevano coinvolti quegli operatori di quel servizio sociale assumendo, ove si imponeva, ogni necessaria decisione, e questo perché a me e a tutti i giudici minorili di Bologna stanno veramente a cuore quei bambini, come stanno a cuore tutti quelli per i quali siamo chiamati ad intervenire. La circostanza che la richiesta di rinvio a giudizio degli imputati sia stata notificata al ministero, con ciò ravvisando, di fatto, nel Tribunale che presiedo, la parte offesa, è un elemento più che significativo di conferma e non aggiungo altro. Ora occorre lasciare lavorare in serenità i giudici penali e attendere l’esito del processo, sino alla Cassazione. Saranno le sentenze penali a parlare».

Violenze sui bimbi di Bibbiano. "Processate il sindaco dem". A Carletti contestati abuso d'ufficio e falso ideologico. Chiesto il rinvio a giudizio per altri 23 indagati. Chiara Giannini, Mercoledì 24/06/2020 su Il Giornale. C'è anche il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, tra le 24 persone per cui la Procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio nell'ambito dell'inchiesta «Angeli e Demoni» sugli affidi illeciti in Val d'Enza. Uno dei capitoli più brutti della storia di un'Italia in cui i bambini dovrebbero essere tutelati e, invece, venivano strappati alle famiglie con scuse e sotto violenza psicologica. I testimoni citati dall'accusa sono 155, le parti offese 48, tra cui i Comuni di Gattatico e Montecchio, l'Unione dei Comuni della Val d'Enza, il ministero della Giustizia e la Regione Emilia Romagna. Oltre al sindaco, per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio per reati legati alla sua funzione di amministratore e che si era autosospeso dal Partito democratico, risultano imputati, nell'inchiesta condotta dai carabinieri sotto il coordinamento della pm Valentina Savi, altri protagonisti dello scandalo legato a Bibbiano. Tra tutti Federica Anghinolfi, ex responsabile dei servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, ma anche la psicoterapeuta Nadia Bolognini e il marito Claudio Foti della Onlus Hansel&Gretel, oltre che l'ex sindaco di Montecchio Paolo Colli e la funzionaria del Comune di Reggio Daniela Scrittore. Per Carletti i reati contestati sono l'abuso d'ufficio e il falso ideologico, per aver affidato il servizio della psicoterapia al personale di «Hansel&Gretel» «senza procedura pubblica» e per aver fatto attestare il falso all'Unione dei Comuni negli anni che vanno dal 2016 al 2018. Il sindaco aveva vinto il ricorso al Tribunale del Riesame e aveva ottenuto la revoca del provvedimento dei domiciliari. Per tutti gli altri si parla, a vario titolo, di abuso d'ufficio, peculato d'uso, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia anche attraverso l'altrui inganno, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. A gennaio la Procura aveva notificato a 25 persone la chiusura delle indagini, quindi la posizione di uno degli indagati sarà sicuramente archiviata. L'inchiesta era però partita con 27 nomi su cui i carabinieri hanno fatto approfondimenti, alcuni dei quali hanno chiarito le loro posizioni. Agli atti, nell'inchiesta, restano le tremende violenze psicologiche subite dai bambini, allontanati dalle famiglie d'origine dopo un lavaggio del cervello che li convinceva di aver subito molestie anche sessuali. Ma anche una chat in cui è palese che ai minori non venivano fatti arrivare i regali delle famiglie naturali e che venivano convinti che i genitori li disconoscessero e non li volessero più.

Un'inchiesta che ha sconvolto l'Italia e che ha fatto iniziare una dura battaglia politica anche da parte del centrodestra che da mesi chiede giustizia. «La nostra battaglia per chiedere verità e giustizia - ha commentato la leader di Fdi Giorgia Meloni - non era campata in aria. La sinistra ha tentato in tutti i modi di minimizzare e insabbiare lo scandalo». E la capogruppo al Senato di Fi, Anna Maria Bernini: «La notizia della richiesta di rinvio a giudizio è positiva. Sui fatti di Bibbiano abbiamo bisogno di verità e giustizia». Il leader della Lega Matteo Salvini ha aggiunto: «Non era un raffreddore, dal Pd e dintorni dovrebbero farsi un esame di coscienza per l'arroganza e la superficialità con cui hanno liquidato il dolore di troppe famiglie». L'udienza per i rinviati a giudizio è stata fissata per il prossimo 30 ottobre. Il legale della Aghinolfi ha chiarito: «Potrà esercitare appieno il suo diritto di difesa. Questo avverrà finalmente davanti a un giudice in Tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino ad ora».

Maurizio Tortorella per "La Verità" il 24 giugno 2020. Chissà come si sarà sorpreso Nicola Zingaretti, scoprendo che tra le 24 richieste di rinvio a giudizio presentate ieri per i presunti allontanamenti illeciti di Bibbiano c'è anche quella del sindaco del Pd, Andrea Carletti. Lo scorso dicembre, quando la Cassazione aveva annullato gli arresti domiciliari del sindaco, il segretario del Pd aveva tratto da quel passaggio tecnico la certezza di un'assoluzione: «La campagna indecente contro Carletti e contro il Pd non si dimentica», s' era indignato Zingaretti: «Ora chi chiederà scusa a lui e alle persone messe alla gogna ingiustamente?». Invece la Procura di Reggio Emilia, per mano del sostituto Valentina Salvi, ha chiesto il processo anche per Carletti. Gli vengono contestati l'abuso d'ufficio aggravato e il falso ideologico, gli stessi reati per i quali il 27 giugno 2019 era finito agli arresti domiciliari. Anche i capi d'accusa sono sempre quelli: senza una regolare gara, Carletti avrebbe messo a disposizione degli psicologi del Centro Hansel e Gretel di Moncalieri la struttura comunale «La Cura» di Bibbiano, e avrebbe poi assicurato loro «l'ingiusto profitto di 135 euro l'ora per ogni minore, a fronte del prezzo medio di mercato delle medesime terapie di 60-70 euro l'ora, e nonostante l'Azienda sanitaria di Reggio Emilia potesse farsi carico gratuitamente del servizio». Non si tratta di cifre da poco: soltanto per le terapie, la Procura stima una spesa di oltre 200.000 euro dal 2014 al 2018. Da mesi, un po' anche per l'insistente minimizzazione del caso (e per la scarsa copertura mediatica decisa da tv e «giornaloni»), lo scandalo di Bibbiano e le dure polemiche che ne erano seguite parevano finiti nel nulla. Non si sapeva più niente dei bambini strappati alle loro famiglie, e a volte maltrattati dagli affidatari. Sembravano evaporate anche le sconvolgenti intercettazioni delle sedute di terapia, spesso trasformate in terrorizzanti messe in scena dagli psicologi, travestiti da personaggi cattivi delle fiabe al solo scopo d'instillare nei piccoli pazienti la falsa rappresentazione di genitori violenti. In silenzio, invece, malgrado la pandemia e la lunga chiusura degli uffici giudiziari, il pm Salvi e i carabinieri di Reggio Emilia hanno continuato a lavorare. L'udienza preliminare, da cui usciranno gli eventuali i rinvii a giudizio e il processo vero e proprio, inizierà venerdì 30 ottobre davanti al giudice Dario De Luca. Sono 155 i testimoni citati dall'accusa, e sono 48 le parti offese, tra cui l'Unione dei Comuni della Val d'Enza e il ministero della Giustizia in rappresentanza del Tribunale dei minori di Bologna. Tra le parti civili sarà anche la Regione Emilia-Romagna, che pure nell'autunno 2019 aveva varato una commissione tecnica su Bibbiano, il cui presidente Giuliano Limonta aveva definito il caso «un raffreddore». Dopo il Coronavirus, forse, la giunta di Stefano Bonaccini ci ha ripensato. Gli indagati principali, oltre a Carletti, sono gli stessi personaggi descritti dalle torride cronache dell'estate e dell'autunno 2019: Federica Anghinolfi, l'ex responsabile dei Servizi sociali dell'Unione dei Comuni della Val d'Enza; il suo «vice» Francesco Monopoli; lo psicologo di Pinerolo Claudio Foti, fondatore della onlus piemontese Hansel & Gretel; sua moglie Nadia Bolognini, a sua volta psicoterapeuta. Gli indagati per cui la Procura chiede il rinvio a giudizio sono 24, per oltre 100 capi d'imputazione. I reati contestati loro, a vario titolo, sono molti e gravi: peculato, abuso d'ufficio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Per Foti, in particolare, alle accuse iniziali di concorso in abuso d'ufficio e di frode processuale s' è aggiunta una terza ipotesi di reato: le lesioni personali gravissime nei confronti di una piccola paziente. A fornirne la «prova tecnica», paradossalmente, sono state le video-registrazioni delle sedute dello psicologo con alcuni bambini, depositate in tribunale dal suo avvocato. Rispetto ai 25 indagati individuati lo scorso 13 gennaio, all'atto della chiusura delle indagini preliminari, ce n'è uno in meno perché è stata stralciata la posizione di Matteo Mossini, lo psicologo dell'Asl di Montecchio distaccato presso i servizi sociali della Val d'Elsa e accusato di falso ideologico. La Procura pare intenzionata a chiedere l'archiviazione. Il suo ruolo era obiettivamente secondario, rispetto a quello di altri indagati, ma di Mossini le indagini e le cronache avevano sottolineato un aspetto «ideologico», racchiuso nella sprezzante frase «una roba scritta da quattro pedofili» con cui (in un dialogo intercettato) aveva definito la «Carta di Noto», cioè il protocollo deontologico per gli psicologi che devono occuparsi di presunti abusi su minori. Un'altra indagata già uscita dal procedimento è l'ex assistente sociale Cinzia Magnarelli, che aveva ammesso di avere redatto in modo distorto i verbali relativi ad alcuni bambini. Lo scorso febbraio la donna ha patteggiato 1 anno e 8 mesi di reclusione: con lei la Procura inizialmente aveva concordato una pena più generosa, 1 anno e 4 mesi, ma il giudice Andrea Rat l'aveva ritenuta incongrua. Era stata lei a descrivere puntualmente il «metodo Bibbiano», sostenendo le fosse stato imposto dai superiori e in particolare dall'ex dirigente dei Servizi sociali Federica Anghinolfi. Che ieri è stata la prima a commentare la richiesta di rinvio a giudizio: «Potrà finalmente esercitare appieno il suo diritto di difesa davanti a un giudice in tribunale e non in piazza o sul web, come purtroppo è accaduto sino a ora», hanno dichiarato suoi difensori. Le garanzie sono fondamentali, è ovvio. Ma altrettanto fondamentale è che su Bibbiano, e sulle tante patologie della giustizia minorile, non cada di nuovo il silenzio.

Bologna, il pg: «A Bibbiano nessun sistema: politica c’ha messo del suo». Errico Novi l'1 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Pesante invettiva del procuratore generale De Francisci all’inaugurazione dell’anno giudiziario nella Corte d’appello del capoluogo emiliano: «Le suggestioni su "Angeli e demoni" favorite anche da un giornalismo pressappochista». E dal presidente della Corte d’Appello Aponte «no a messaggi che sviliscono Tribunale minori». «Si è trattato di casi circoscritti territorialmente, peraltro tutti ancora al centro di un procedimento penale giunto alla fine delle indagini» e «quindi pronto per la verifica dibattimentale». Il pg di Bologna Ignazio De Francisci riporta l’ordalia sull’inchiesta “Angeli e demoni” sulla terra dell’accertamento giudiziario. La tira giù dall’iperuranio dello scandalismo mediatico, con una acuminatissima stoccata a chi ha strumentalizzato politicamente il caso dei minoro in affido. Lo fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto del capoluogo emiliano. Proprio quella “concentrazione territoriale, dice il pg, «ha diffuso l’idea che esista un generalizzato sistema Bibbiano, complice una informazione giornalistica non sempre misurata e a volte pressapochista. La polemica politica poi ci ha messo del suo, ma su questo è meglio tacere», è appunto la chiosa tagliente di De Francisci. Sull’attività giudiziaria civile minorile del distretto, comunque, l’indagine sugli affidi in Val d’Enza «ha avuto forti ripercussioni», secondo il procuratore generale, innanzitutto perché «ha imposto un doveroso controllo sui casi interessati», in tutto «otto». Due di questi sono stati definiti con decreto del Tribunale non impugnato dai genitori, in cinque casi si sono avuti collocamenti extra familiari». Il pg, infine, ha spiegato che «si è operato da parte della Procura minorile una attenta valutazione in merito agli effetti sulle decisioni giudiziarie delle ipotizzate azioni delittuose. Ebbene», ha chiarito, «l’esito di tali valutazioni autorizza a ritenere che l’esercizio dell’attività giudiziaria non abbia subito compromissioni di rilievo derivanti dalle condotte oggetto di indagine penale». Una considerazione di grande peso. Così come quelle di Roberto Aponte, presidente vicario della Corte d’appello di Bologna: ««L’unico ed essenziale dato che va in questa sede fortemente ribadito è che va combattuto il messaggio volto a svilire l’istituzione Tribunale per i minorenni, descritto», ha incalzato Aponte, «come uno strumento cieco di coloro che vogliono togliere i figli ai genitori. Viceversa uno scopo perseguito» dal Tribunale per i minorenni, secondo il presidente, è «quello di salvaguardare i minori, se è assolutamente necessario, anche nei confronti della famiglia naturale, ipotesi questa purtroppo non infrequente». Aponte ha quindi concluso che «è sicuramente necessario rafforzare i servizi di sostegno alla genitorialità,  investire nella formazione e supervisione di chi opera nel campo delle fragilità famigliari, evitando decisioni troppo solitarie o basate sugli stereotipi del buon genitore e soprattutto della buona madre». Così come, secondo il presidente vicario della Corte d’appello di Bologna, «è anche necessario non adagiarsi nell’idea che la famiglia naturale sia sempre e comunque il luogo più sicuro e migliore in cui crescere. Non sempre purtroppo è così».

A Bibbiano nessun rapimento: gli interventi dei servizi sociali erano doverosi. Simona Musco il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. In almeno due casi la decisione del tribunale dei minori non è stata contestata. Nessun rapimento a Bibbiano. E nessuna complicità da parte del Tribunale dei minori di Bologna, che ha agito sempre in autonomia, a prescindere dalle conclusioni dei servizi sociali. Una certezza arrivata, nei giorni scorsi, dalle parole del procuratore generale di Bologna, Ignazio De Francisci, che nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ha chiarito che, in almeno un paio di casi, non solo i minori non sono stati allontanati dalle madri, ma i padri, una volta stabilita la decadenza della patria potestà, non hanno fatto alcun tipo di ricorso. Di fatto accettando di non essere più considerati, legalmente, i genitori dei propri figli. Nella sua relazione, De Francisci ha difeso il presidente del Tribunale dei minori Giuseppe Spadaro, preso di mira per aver smentito l’esistenza di un sistema e aver parlato piuttosto, di anomalia, senza, dunque, avallare la delegittimazione di tutti i servizi sociali e dell’intera giustizia minorile. Una posizione a difesa delle istituzioni condivisa anche dal pg, secondo cui il sistema sarebbe invece frutto di un’informazione «pressapochista» e della «polemica politica». Ma le sue parole hanno anche fatto chiarezza su alcuni degli otto casi finiti nell’inchiesta. Partendo da una precisazione: le segnalazioni sulle difficoltà dei minori arrivavano da contesti scolastici o sanitari e, dunque, ben prima del coinvolgimento dei servizi sociali della Val d’Enza. Gli interventi del Tribunale, dunque, «sono risultati del tutto doverosi». Il primo caso è quello di Angelo e Sara (i nomi sono di fantasia), finiti nel circolo dei servizi sociali a seguito di una denuncia della madre nei confronti dell’ex marito nel 2013, poi archiviata per insostenibilità dell’accusa in giudizio. In quell’occasione, la donna riferì ai Carabinieri una confidenza fattale da Angelo, ovvero di aver subito abusi dal padre nel periodo in cui vivevano in un’altra regione. Da qui il coinvolgimento, da parte del Tribunale dei minori, dei servizi sociali, con i bambini sempre in custodia alla madre e con l’organizzazione di incontri protetti con il padre. Per l’accusa, gli assistenti sociali avrebbero forzato la mano nelle relazioni, documentando un falso affido di sostegno smentito sia dalla presunta affidataria sia dalla madre dei ragazzi. Ma dai documenti emerge anche come di fronte alla pronuncia della decadenza del padre dalla responsabilità genitoriale lo stesso non abbia presentato alcuna eccezione difensiva, limitandosi a proporre appello, salvo poi non comparire in udienza e costringendo, dunque, i giudici a dichiarare improcedibile il ricorso. E nessun’altra forma di protesta sarebbe giunta al Tribunale dei minori. Situazione simile a quella dei casi contestati allo psicoterapeuta Claudio Foti, accusato di aver condotto le proprie sedute con modalità «suggestive e suggerenti», di fatto inducendo la minore a confessare un abuso successivamente negato davanti ai magistrati. Il caso riguarda due sorelle, Veronica e Viola (anche qui nomi di fantasia), affidate ai servizi sociali dopo la segnalazione, da parte della scuola, circa comportamenti autolesionistici e aggressivi da parte di Viola. Da qui, ancor prima dell’intervento di Foti, sono partiti gli accertamenti del Tribunale, davanti al quale le due giovani hanno affermato di vedere il padre solo perché obbligate dalla madre e non per volere personale. Le successive relazioni dei servizi sociali hanno documentato i presunti abusi subiti da Veronica a 4 anni da parte di un amico del padre e, successivamente, un rapporto non completamente consenziente con un fidanzatino, nonché atteggiamenti ambigui da parte del padre nei confronti di Viola. Il Tribunale ha così sospeso la potestà genitoriale del padre, disponendo un intervento psicologico, il tutto mentre le ragazze sono rimaste sempre insieme alla madre, così come prima del coinvolgimento dei servizi sociali. Madre che, in un colloquio preliminare con Foti, aveva riferito le circostanze sospette, compresi gli abusi confidati dalla figlia, confessioni poi attribuite dalla stessa al “metodo Foti”. Nel 2017 la pronuncia del Tribunale: decadenza della responsabilità genitoriale per il padre. Una decisione, anche in questo caso, di fronte alla quale nessuno ha opposto resistenza.

Bibbiano, la fake dei “bimbi rapiti” e quel padre che ammise: «Sono stato violento». Simona Musco il 6 febbraio 2020 su Il Dubbio. Il piccolo era stato segnalato al tribunale dei minori dalla scuola, dopo un disegno che faceva riferimento a presunte violenze subite dalla madre per mano dell’uomo. C’è un bambino, nell’inchiesta “Angeli e Demoni” sugli affidi in Val d’Enza, tirato in ballo per costruire una polemica tra la Procura di Reggio Emilia e il Tribunale dei minori di Bologna. Una diatriba fabbricata sui giornali, assieme al “sistema Bibbiano”, poche settimane dopo l’esecuzione delle misure cautelari e che ha contribuito a creare la fake news dei rapimenti. Il caso è quello del piccolo Giulio (nome di fantasia), segnalato per una presunta violenza assistita che ha messo in moto la macchina della giustizia minorile. Un sospetto comunicato dalla scuola al Tribunale, che ha così allontanato per sette mesi il bambino dal padre – che poteva vederlo in modalità protetta -, lasciandolo assieme alla madre per tutto il periodo degli accertamenti. Mai, dunque, è stato separato dai genitori. E nemmeno è stato “restituito” alla propria famiglia dopo l’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare, intervenuta quando l’iter si era già concluso. Ma non solo, nell’ordinanza manca un passaggio, forse quello fondamentale: ovvero le ammissioni fatte dal padre davanti al Tribunale dei minori. Tutto comincia ad ottobre del 2018, quando il Tribunale dei minori decide di collocare il bambino, assieme alla madre, in una struttura protetta, con la possibilità di vedere il padre in modalità controllata. In mano ai magistrati che lavorano al caso ci sono le segnalazioni delle insegnanti del piccolo, allarmate da un disegno che, stando a quanto affermato dallo stesso bambino, si riferisce ad un momento di violenza del padre sulla madre. Un bambino descritto dalle stesse insegnanti come molto triste, malnutrito e con denti cariati fino alle gengive. Da qui l’accertamento presso la procura di Reggio Emilia circa i precedenti penali dell’uomo. La comunicazione tra i due uffici risiede in questo passaggio: è in quel momento che il pm Valentina Salvi, titolare dell’indagine “Angeli e Demoni”, invia a Bologna la nota che certifica che il padre del bambino non ha precedenti per violenza in famiglia. Una nota che, dunque, non aggiungerebbe nulla sulle indagine a carico degli assistenti sociali.Sull’uomo, in mano alla procura di Reggio Emilia, come accerta la stessa ordinanza, ci sono solo alcuni precedenti datati nel tempo per guida in stato di ebbrezza. E più volte, nel ripercorrere la storia del bambino, il gip afferma che «non è possibile certamente escludere, alla stregua degli atti, che effettivamente il bambino abbia assistito ad un’aggressione violenta ad opera del padre in danno della madre». Ma il dato principale è che a muovere il Tribunale dei minori non sono le relazioni – giudicate, almeno in parte, «difformi dal vero» – dei servizi sociali. Alla base del provvedimento, infatti, c’è l’istruttoria effettuata dai magistrati minorili, davanti ai quali il padre del bambino ammette di essere stato segnalato più volte per rissa, al punto da sottoporsi volontariamente ad un percorso di recupero presso un centro per uomini maltrattanti. Una ammissione pacifica, dunque, del problema che ne giustifica l’allontanamento. Ma non solo: l’uomo ammette anche l’abuso di alcol e le liti con la moglie davanti al piccolo, deprecando il proprio stesso comportamento e promettendo di redimersi. E in effetti ce la fa: il percorso di recupero dell’uomo si conclude dopo qualche mese, a maggio, consentendo, dunque, il rientro della famiglia a casa. Riunita, dunque, un mese e mezzo prima del blitz che ha sconvolto l’Emilia Romagna e il mondo degli affidi. Nessun rapimento e, soprattutto, nessuna complicità nei reati contestati a servizi sociali da parte del Tribunale di Bologna. Che però ha pagato per tutti: con la mancata promozione del presidente Giuseppe Spadaro alla procura minorile di Roma e con il procedimento disciplinare a carico del pm Simone Purgato. “Colpevole” di aver reagito con troppa foga all’accusa di aver ignorato la comunicazione arrivata da Reggio Emilia.

Teorema Bibbiano: «Vi racconto il mio inferno». La storia dell’avvocato indagato e archiviato nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Simona Musco il 7 febbraio su Il Dubbio. Marco Scarpati per tre mesi si è sentito chiamare “mostro”. Il suo nome è finito nell’indagine “Angeli e Demoni”, che ha acceso i riflettori su un presunto giro di affidi illeciti. Una vicenda sfruttata dal centrodestra per la campagna elettorale delle regionali in Emilia, contro un presunto “sistema Pd” in realtà inesistente. Perché la politica, in questa vicenda, non c’entra nulla. Se non con la sua strumentalizzazione, costata a Scarpati – totalmente scagionato dalle accuse e uscito dalla vicenda con un’archiviazione – mesi di gogna mediatica, isolamento e sofferenza. Tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, l’avvocato Scarpati era accusato di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza e per singoli incarichi per la difesa di minori. E anche ora che tutto è finito gli effetti della macchina dell’odio, dice, continuano. 

Quando per il pm quei “demoni” erano gli angeli di Bibbiano. Simona Musco l'8 febbraio su Il Dubbio. Gli stessi assistenti sociali dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza avevano aiutato la Procura a scoprire una madre che faceva prostituire la figlia. C’è un caso zero, a Bibbiano, dal quale tutto, forse, è partito. Un caso di prostituzione minorile accertato, dove la vittima è una ragazzina di 15 anni, costretta dalla madre ad avere rapporti sessuali con uomini adulti. Un vicenda finita con la condanna della donna, proprio grazie all’intervento dei servizi sociali della Val d’Enza, oggi travolti dallo scandalo “Angeli e Demoni”. Gli stessi protagonisti, gli stessi personaggi, ieri ritenuti credibili, oggi, invece, in aula come imputati, accusati di aver strappato i bambini alle proprie famiglie solo per lucrare con affidi non necessari dalla Procura di Reggio Emilia. Sara – nome di fantasia – vive a Bibbiano, vuole imparare a gestire un negozio e va a scuola. Ma le sue assenze, nel 2012, sono sempre più frequenti, tanto che la scuola si vede costretta a segnalarla ai Servizi sociali. A seguirla è Francesco Monopoli, uno degli assistenti sociali tra gli imputati dell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Sara non racconta subito la sua storia: i primi approcci con i servizi lasciano intravedere lo spaccato di una famiglia difficile, nota anche ai Carabinieri per la situazione conflittuale, che non si placa nemmeno dopo la separazione dei genitori. Ma tutto sembra limitarsi a questo. La verità viene fuori solo un anno e mezzo dopo, a ottobre 2013: la psicologa del Servizio famiglia segnala un sospetto abuso, ammesso dalla giovane dopo qualche seduta. E ciò che rivela è raccapricciante: ovvero di essere costretta a prostituirsi dalla madre, per far quadrare i conti a fine mese. Tutto comincia con un annuncio pubblicato su una rivista locale, nella sezione escort, consegnato alla redazione proprio dalla madre, con tanto di carta di identità allegata. Una 18enne di bella presenza, si legge, offre compagnia a uomini e donne italiani, tra i 20 e i 35 anni. La madre guarda la segretaria, giura che non si tratta della ragazzina vicino a lei, lascia l’annuncio pronto per la stampa e va via. Pochi giorni dopo arriva la prima chiamata, la prima di una lunga serie, che fa scivolare Sara in un inferno dal quale non riesce a svincolarsi, legata com’è alla madre da affetto e senso di colpa, incapace di opporsi alle sue richieste. Sono circa venti le persone che incontra, alcune più volte, per un totale di circa 8mila euro. Soldi che Sara consegna sempre alla madre, senza tenere per sé nemmeno uno spicciolo. La regola è una, la stessa che si sente ripetere sin da bambina: «quello che ti chiedono devi farlo». Una regola che le viene imposta anche quando viene costretta ad avere il suo primo rapporto con il fidanzatino, a soli 12 anni. Solo quando racconta tutto ai servizi sociali, dunque, Sara va via di casa, senza tornarci mai più. A confermare la storia sono le intercettazioni, le testimonianze dei clienti – alcuni dei quali non consapevoli della minore età della ragazza – e, soprattutto, la testimonianza di Sara, il cui racconto, appuntano i giudici in sentenza nel 2016, presenta le caratteristiche di «coerenza, linearità, precisione, assenza di enfatizzazione». Parole supportate, per i giudici, dalle relazioni di Monopoli, della psicologa e della psicoterapeuta della onlus “Hansel& Gretel” Nadia Bolognini, anche lei indagata nell’inchiesta “Angeli e Demoni”. Preziosissimi, secondo il tribunale e la procura, che testimoniano un disturbo post traumatico da stress, provocato da un vissuto molto pesante accompagnato da profondi sensi di colpa. E quelle conclusioni vengono vidimate anche dal consulente della procura che, testualmente, mette nero su bianco la «condivisione di pensiero». Lo stesso consulente oggi utilizzato dalla Procura di Reggio Emilia contro i Servizi sociali. Ma non solo: anche in questo caso, come negli altri casi del “sistema Bibbiano”, i servizi sociali decidono di non dare a Sara i regali spediti dalla madre. «Si trattava di tre completi intimi in pizzo, accompagnati da orecchini vistosi, un profumo e un biglietto con scritto “Sara quando li indossi pensami” – si legge nella sentenza -. Tale atteggiamento sessualizzato e seduttivo della madre nei confronti della figlia era parso talmente inadeguato che i servizi sociali non consegnavano tali oggetti alla giovane». La conclusione dei giudici è lapidaria: la madre di Sara «ha organizzato la prostituzione della propria figlia, allora non ancora sedicenne, facendo leva sul sentimento che la ragazza provava nei suoi confronti, così come descritto dalla stessa» Sara «e dagli esperti che l’hanno in cura». Con lo scopo «di sfruttarne l’attività dal momento che i guadagni derivanti le venivano consegnati». Da quel caso, la Procura di Reggio Emilia parte alla ricerca di un possibile giro di prostituzione minorile, indagando anche tra personaggi facoltosi della Val d’Enza. Un’indagine enfatizzata dai giornali nel 2015 ma della quale, da un certo momento in poi, non si parla più. Se non nei dialoghi intercettati nell’inchiesta “Angeli e Demoni”, quando Francesco Monopoli e Federica Anghinolfi, anche lei assistente sociale, tra le figure chiave dell’inchiesta, condividono il loro sospetto: quello dell’esistenza di una rete di pedofili attiva nella Val d’Enza dalla quale salvare i bambini. «Il gip ha rilevato – aveva sottolineato giorni fa al Dubbio Oliviero Mazza, difensore di Anghinolfi – la preoccupazione seria, da parte dei due indagati, della presenza di una rete di pedofili operante sul territorio. Lo scenario iniziale parla di bambini sottratti per ragioni economiche alle loro famiglie, mentre da qui emerge che i servizi sociali avevano motivo di ritenere che ci fosse un rischio per questi minori. La verità di Bibbiano è ancora tutta da scrivere».

Bibbiano, la storia sconosciuta dei bambini abusati. Il caso zero: una bambina prostituita dalla madre. Poi altre violenze sessuali in famiglia, i servizi sociali che intervengono. Infine la campagna per delegittimarli. Con tanti lati oscuri. Floriana Bulfon e Giovanni Tizian il 06 febbraio 2020 su L'Espresso. La piazza della Repubblica a Bibbiano, davanti al municipio, si raggiunge percorrendo in sequenza due strade alberate con case a tre piani, che si chiamano rispettivamente via Lenin e via Gramsci. La toponomastica è il sigillo sul passato rosso di questa terra. È in questa piazza anonima che Matteo Salvini ha chiuso la sua campagna elettorale per le regionali, nel pomeriggio glaciale del 23 gennaio: Bibbiano usato come una clava per distruggere le ambizioni del Pd, che qui e in tutta l’Emilia ha ereditato il potere dal Pci. Il paese medaglia d’oro per i 22 mesi di Resistenza, terra di asili e scuole celebrate come modello, diventato l’orrore fatto sistema. La patria dei demoni. Dominata dal “partito di Bibbiano” che qui comanda dall’alba della Repubblica. L’Espresso è tornato a Bibbiano. Dopo la tempesta. Tornata la quiete, passate le elezioni, i comizi e le contromanifestazioni, restano loro: i bambini. Perché di certo in questa storia c’è solo la loro sofferenza. Sono loro le vittime, comunque vada a finire l’indagine. Vite già fragili, contese, abusate. E poi infrante dall’onda mediatica e dallo sciacallaggio politico. La propaganda che ha usato ogni mezzo, esibendo sui palchi dei comizi i loro drammi e le loro ferite. Ma Bibbiano è davvero un girone dell’inferno? È soltanto l’incarnazione di un sistema che per fame di profitto strappa i figli ai genitori biologici? O è anche un luogo in cui molti minori sono stati effettivamente abusati? Storie, per esempio, non conteggiate nell’inchiesta della procura di Reggio Emilia, che mira, invece, solo a dimostrare l’esistenza di un business sugli affidi.

Bibbiano, la piazza  contesa dove le sardine sfidano il Carroccio. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. Una volta qui era tutto parliamo di Bibbiano. Adesso sta diventando una gara per parlare a Bibbiano. Come se la tremenda storia accaduta in quel paesino della Val d’Enza fosse ormai ridotta a semplice brand, un marchio buono per convenienze elettorali. Ci cascano tutti, non solo Matteo Salvini. Anche le sardine, che nell’ansia di inseguire il capo leghista ormai stanziale in Emilia-Romagna, lo hanno addirittura superato, arrivando per primi al traguardo di piazza Repubblica, lo spazio antistante il municipio. La Lega aveva preannunciato il suo comizio di chiusura per giovedì prossimo 23 gennaio, presenti sul palco Salvini e persino la candidata presidente Lucia Borgonzoni. Al momento di organizzare il comizio, la sorpresa. Quello spazio era già stato richiesto dal movimento nato lo scorso novembre, con modulo depositato due settimane fa in prefettura e firmato da Mattia Santori. Nessuna soffiata, a quanto pare. Semplicemente le sardine avevano intuito dalla comunicazione della Lega dove Salvini sarebbe andato a parare per chiudere la campagna d’Emilia-Romagna. «Scendiamo in piazza della Repubblica, luogo simbolo della strumentalizzazione politica e dello sciacallaggio messi in atto dalla Lega per puri fini elettorali». La contromossa leghista è arrivata appena sbollita la rabbia, con un ricorso ideato da Gianluca Vinci, parlamentare di Reggio Emilia, avvocato. Secondo lui, un protocollo firmato tra partiti locali, questura e prefettura imporrebbe che i comizi elettorali debbano essere prenotati da cinque a due giorni prima dell’evento. E le sardine non sono un movimento politico, quindi, non avrebbero diritto di fare quella richiesta. La patata bollente passa alla prefettura, che dovrebbe esprimersi oggi. Ma non è escluso un altro colpo di scena. Già soddisfatte del colpo messo a segno, le sardine infatti potrebbero fare un passo indietro. Intanto ieri a Barco di Bibbiano, nella sede dei Comuni della Val d’Enza una voce maschile ha annunciato al centralino il lancio di una bomba. Gli uffici sono stati evacuati. Era un falso allarme, ma l’aria pesante invece è vera. Proprio per questo i sindaci hanno chiesto «buon senso» ai due litiganti, invitando a non fare nessuna manifestazione. La piazza contesa è solo il primo di una serie di sgarbi e colpi bassi che ci accompagneranno al fatidico 26 gennaio. In questo filone la Lega inserisce, citandone «la tempistica sospetta», un servizio trasmesso ieri da «Piazzapulita», su La7, che invece sembra semplice giornalismo. «Un contratto a tempo indeterminato da dipendente comunale, 1.400 euro al mese con quattordicesima... Così non ti vedo più. Tu sai che è incompatibile con il ruolo da consigliere... Nicola è d’accordo, ne ho parlato con Alan e mi ha detto “se a lei va bene, a me va bene”». Al telefono parla Stefano Solaroli, vicecapogruppo della Lega a Ferrara, noto per aver girato un video dove andava a letto con la sua pistola. È lui a fare l’offerta che prefigura un baratto a spese dei contribuenti, impiego nel pubblico in cambio delle dimissioni, alla consigliera comunale leghista Anna Ferraresi, in rotta con il suo partito dopo la storica vittoria dello scorso maggio. Ci sono due problemi. Il primo è che «Nicola» è il celebre Naomo Lodi, ispiratore nel 2016 della rivolta contro i migranti a Gorino, e oggi uomo forte della giunta comunale. Mentre «Alan» è il nome del sindaco Fabbri, che si dichiara «non a conoscenza» dei dialoghi avvenuti tra i due consiglieri. Il secondo problema è che appena una settimana fa Salvini aveva indicato proprio Ferrara come esempio di una regione dove non lavorano «solo i tesserati, gli amici e i parenti». Mancano nove giorni alle elezioni. E pare di capire che non saranno brevi.

Bibbiano, telefonata shock: «Vi faccio saltare in aria». Simona Musco il 17 gennaio 2020 su Il Dubbio. Evacuato il municipio dopo l’avvertimento anonimo. La minaccia è arrivata allo sportello dei servizi sociali, quello finito al centro dell’inchiesta “Angeli e demoni”. «Fra 20 minuti vi lancio una bomba». La voce al telefono è quella di un uomo e prima di lanciarsi in ingiurie e offese fa questa promessa: una bomba, da scagliare contro il famigerato Municipio di Bibbiano, per tutti, ormai, cuore pulsante degli orrori descritti nell’inchiesta “Angeli& Demoni”. La telefonata è arrivata ieri intorno alle 8 del mattino, proprio all’ufficio incriminato: quello dello sportello sociale del Comune, ente capofila dei servizi sociali dei Comuni della Val d’ Enza. «Vi faccio saltare tutti in aria», ha annunciato la voce anonima. Sul posto sono arrivati i carabinieri, che dopo l’evacuazione degli uffici hanno proceduto alla bonifica dei locali, che hanno dato esito negativo. Tre gli edifici svuotati: la sede dei servizi sociali del Comune, quelli dell’Unione a Barco e il municipio. «C’era stata un’escalation di minacce, poi le acque si erano calmate. Dopo la chiusura delle indagini è ripreso questo clima di odio insostenibile intorno a noi – ha commentato Francesca Bedogni, sindaca di Cavriago e attuale delegata ai Servizi sociale per l’Unione Val d’Enza -. Abbiamo ritenuto di non prendere sottogamba questo episodio. Siamo preoccupati per l’incolumità di operatori e operatrici. Non possiamo non notare che questa nuova escalation accade a 10 giorni dalle regionali e non possiamo non chiedere a tutte le forze politiche di riprendersi il buon senso e aiutarci a garantire a questi territori serenità e sicurezza». Una richiesta caduta, però, nel vuoto: «Il gesto del folle che ha chiamato è la conseguenza di quanto produce “’ il negare” non “’ il parlare” di Bibbiano», ha commentato il consigliere della Lega in Regione Emilia- Romagna e capolista a Reggio Emilia e provincia del Carroccio, Gabriele Delmonte, dopo aver «preso le distanze e stigmatizzato la telefonata» in Municipio. «Siamo al cospetto di una vicenda, tutta da verificare sul piano giudiziale, terribile, pertanto è inevitabile che si presti alla follia di qualcuno – ha aggiunto -. Detto questo, mi preme ribadire come la Lega abbia sempre avuto un approccio garantista alla vicenda, tanto che, nonostante abbia rivendicato a gran voce l’istituzione di una Commissione speciale regionale, ha accettato, pur di addivenire alla verità dei fatti per senso di giustizia nei confronti dei minori e delle loro famiglie, di essere messa ai margini della Commissione».

Io, avvocato di Bibbiano ho difeso i servizi sociali in tribunale e sono stato aggredito. Il Dubbio il 27 febbraio 2020. L’intervento di Marco Scarpati, avvocato di Diritto minorile il cui nome è finito ingiustamente nel vortice dell’inchiesta “Angeli&Demoni”: ” Si sono gettati semi velenosi nel processo minorile”. Pubblichiamo l’intervento di Marco Scarpati, avvocato di Diritto minorile il cui nome è finito nel vortice dell’inchiesta “Angeli&Demoni”. Criminalizzato e poi risultato innocente, scagionato da ogni accusa, racconta le ripercussioni quotidiane della gogna mediatica e i rischi corsi dal sistema della giustizia minorile, delicato quanto importante e, oggi, costretto a subire le conseguenze di mesi di strumentalizzazione.

Lo scrivo a futura memoria. Oggi in una Corte d’appello. Processo di appello su una sentenza che ha dichiarato lo stato di adottabilità di un bambino. Io rappresento il bambino, nominato dal tutore. I genitori decaduti hanno impugnato la sentenza. Il loro avvocato, azzardando un po’ troppo, li ha fatti venire in udienza dove non saranno mai sentiti, e con toni molto accorati perora la sua causa: i servizi sociali sono formati da criminali, il sistema Bibbiano (Leggi qui tutte le notizie), genitori incolpevoli a cui hanno strappato il figlio appena nato, mai avuto problemi di alcun tipo…In udienza chiedo, con tono pacatissimo, so di camminare sulle uova, il rigetto del ricorso, e spiego che i fatti, documentalmente accertati, purtroppo sono completamente diversi da quelli descritti dai ricorrenti. Che non si può sempre pensare che i servizi sociali siano degli incompetenti criminali, che può capitare, come in questo caso, che i genitori, dopo averne tentare tante, siano irreparabilmente inadeguati per il bambino, e che nel suo interesse sia corretto allontanarli e mettere il bambino in adozione. Ovviamente vengo spesso interrotto e i genitori piangono e anche loro cercano di intervenire. Il pm chiede, anche lei, il rigetto del ricorso. La Corte si riserva. Usciti vengo aggredito dai genitori che mi urlano offese e minacce…Altri avvocati vedono e sentono, imbarazzati. Io aspetto che escano, poi mi “rifugio” da una amica Pm a chiacchierare. La prudenza… La prudenza, la pacatezza, la riservatezza che richiede il rito minorile… Io lo insegno sempre ai miei studenti che non si deve mai mettere il sangue su questioni così delicate. Ne esco, come al solito, addolorato. Forse ho davvero buttato via tanti anni di studio. Si sono gettati semi velenosi nel processo minorile, che danno frutti avvelenati, generosamente, ogni giorno. Marco Scarpati

«Io, trattato da demone. Ma l’inchiesta di Bibbiano è un teorema». Simona Musco il 25 gennaio 2020 su Il Dubbio. Intervista all’avvocato Marco Scarpati, scagionato da ogni accusa nell’inchiesta ” Angeli e demoni”: «Mi hanno minacciato e non lavoravo più: era come se mi avessero dichiarato morto». Lo studio dell’avvocato Marco Scarpati sta in un palazzo che guarda in faccia la Procura di Reggio Emilia, che per tre mesi lo ha fatto sentire un mostro. Una parola che non compare nelle carte di “Angeli e Demoni”, ma che molti, nelle settimane che lo hanno separato dall’archiviazione delle accuse, hanno preso proprio da lì, per scagliargliela contro. Scarpati, tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, era finito nell’inchiesta con l’accusa di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza. E anche ora che tutto è finito, gli effetti della macchina dell’odio continuano. «Qualche giorno fa, davanti al tribunale, un uomo, passandomi vicino, ha sputato per terra insultandomi – racconta al Dubbio -. E tutto questo è spaventoso».

Avvocato, com’è stato per lei il 27 giugno 2019, giorno degli arresti?

«Stavo dormendo. Alle 7 mia moglie mi ha svegliato dicendomi che c’erano i carabinieri alla porta. Sono uscito in pigiama e mentre i vicini mi guardavano dai palazzi di fronte mi hanno consegnato un foglietto di carta: era un avviso di garanzia per abuso d’ufficio. Non sapevo altro. Alle 9 sono arrivato in studio e dopo poco mi ha telefonato un giornalista, chiedendomi se volevo commentare. Gli ho detto che non sapevo nemmeno di cosa fossi accusato e lui mi ha risposto: ma come, io ho 280 pagine in mano, tu non hai niente? Avevano già letto tutto in anticipo».

Quando ha capito in cosa era finito?

«Leggendo gli articoli su internet ho capito cosa fosse questa inchiesta e che si chiamava “Angeli e demoni”. Non ho il phisique du role dell’angelo, ho pensato, quindi probabilmente sarò tra i demoni. Da lì è esploso tutto un mondo spaventoso: dicevano che avevo lucrato sui bambini, che li avevo maltrattati, che avevo commesso abusi sull’infanzia e ascoltato bambini cercando di modificare le loro testimonianze. Ma io non ho mai ascoltato un bambino, io faccio l’avvocato. E l’idea che qualcuno potesse associare il mio nome a qualcosa di non assolutamente perfetto rispetto all’infanzia per me è stata una cosa spaventosa».

L’hanno minacciata?

«Sì, ho ricevuto diverse telefonate allo studio. Ho dovuto chiudere tutte le pagine sui social per non far leggere alla mia famiglia di quei matti che dicevano che avevo violentato bambini. Io, che ho fatto della mia vita l’esatto contrario. Poi è successa una cosa spaventosa. Mi trovavo dall’altra parte nel mondo, nel sud est asiatico, con un ministro che mi aveva chiesto di collaborare con lui per alcune normative e che ad un certo punto mi disse: mi è arrivato questo materiale. Ovvero gli articoli usciti in Italia su di me, già tradotti. Mi disse che sapeva chi sono, ma che non poteva farsi vedere con me. Questa cosa fu molto umiliante. Mi avevano dichiarato morto, non avevo alcuna possibilità di continuare a lavorare. Non ho avuto nessun cliente nuovo e molti di quelli vecchi mi hanno abbandonato. Il reddito dello studio si è dimezzato e se va bene riusciremo a pagare tutte le spese. Per mesi non sono riuscito a dormire di notte, nemmeno coi farmaci. E non riuscivo a mangiare, avevo la nausea».

Come si passa dall’essere una persona per bene ad essere un mostro?

«Intanto quel nome, “Angeli e demoni”. Una follia. Chi chiama un’inchiesta con quel nome sta già emettendo una sentenza. Io sono figlio di un poliziotto, orgoglioso di esserlo. E mio padre mi ha sempre detto una cosa: ricordati che quando arresti una persona gli hai tolto la libertà, il bene supremo. E non devi togliergli altro, come la dignità, perché quell’uomo è un tuo prigioniero. Ora non ti tengono più prigioniero, cercano di toglierti la dignità. Sono state date alla stampa registrazioni che nessuno degli avvocati aveva, su questioni assolutamente irrilevanti, facendo di questo marciume elemento di indagine, forse per vedere se qualcuno avrebbe capitolato e confessato chissà che cosa».

Che idea si è fatto dell’inchiesta?

«L’inchiesta è un teorema, ma nel diritto penale ci sono prove, fatti. Si sono confuse le terapie con la psicologia forense, le prove con le teorie. C’è tanta confusione. Ormai si è creato il diritto di usare strumenti di garanzia come strumenti di sputtanamento della persona sottoposta alle indagini. E questo è spaventoso e come avvocati non possiamo lasciar perdere. Il pm mi ha sempre detto di non avercela mai avuta con me, però ha chiesto due volte il mio arresto, sulla base di nulla, perché gli incarichi fiduciari agli avvocati sono slegati dalla legge sugli appalti. Ma in procura non lo sapevano».

Cosa c’entra la politica con “Angeli e Demoni”?

«C’entra con quel nome lì. Con la distruzione del welfare per l’infanzia, del processo minorile e del ruolo dei magistrati minorili. C’è chi sta cercando di riportare il diritto minorile al 1950, confondendo lo stesso col diritto di famiglia, il ruolo del bambino con quello dei genitori. Il bambino va difeso come soggetto del diritto e non come ammennicolo della sua famiglia».

Come finirà?

«Potrebbero anche essere condannati tutti quanti, ma la finalità di quelle persone non è mai stata né quella di arricchirsi né di far del male, ma solo di proteggere bambini che ritenevano essere stati abusati e maltrattati. Non esiste nessuna persona che possa essere distrutta in questo modo, senza un minimo di rispetto del suo nome, della sua storia, della sua persona, solo perché esiste questo spaventoso Moloch della giustizia».

Bibbiano, Borgonzoni attacca: “Il Pd voleva sminuire fatti agghiaccianti, oggi c’è la conferma”. Redazione mercoledì 15 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Bibbiano ancora al centro del dibattito politico. Interviene anche la leghista Lucia Borgonzoni, candidata del centrodestra per le regionali in Emilia Romagna. “Chi aveva il dovere di controllare e non lo ha fatto dovrebbe chiedere scusa. Da mesi invochiamo chiarezza, trasparenza, giustizia per bambini e famiglie. Dal Pd c’è stata colpevole leggerezza politica su fatti gravissimi, hanno derubricato a un raffreddore l’inchiesta di Bibbiano. Poche ore fa le indagini si sono chiuse con 108 capi di imputazione, 26 indagati, tra cui due sindaci ed ex sindaci che sono o erano del Pd. IL tutto tra intercettazioni agghiaccianti e accuse terribili da parte dei pm, che ringraziamo per il loro lavoro”. “Dopo il terribile caso Veleno non si sono messi in campo anticorpi, tanto che alcuni protagonisti di quella vicenda li ritroviamo nell’inchiesta Angeli e demoni. Noi vogliamo giustizia e verità per quanto accaduto e faremo massima chiarezza sul sistema degli affidi in regione” conclude. Poche ore fa era intervenuta anche Forza Italia. ”La chiusura delle indagini sui fatti di Bibbiano offre uno spaccato di presunzioni di reato che lascia sconcertati. I 108 capi di imputazione, infatti, non dimostrano alcuna colpevolezza ma certamente fanno riflettere e inquietano”. Lo dichiara la deputata di Forza Italia Annagrazia Calabria. ”Fermo restando il principio secondo il quale è doverosa la presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva, ovviamente. Ma il legislatore non può non soffermarsi sull’ipotesi di un vero e proprio sistema criminale la cui intelaiatura prendeva corpo sulla vita di intere famiglie, e soprattutto su quella di bambini indifesi. Tutto è da monito per quei ritardi sulla tutela dei più deboli di cui la politica è responsabile”, conclude Calabria.

“Vergogna, volevano insabbiare Bibbiano”. Poche ore fa era intervenuto anche il leader della Lega. Per le vicende della Val d’Enza ci sono “26 indagati per 100 capi di imputazione, una vergogna mondiale che il Pd ha cercato di insabbiare. Io ci sarò, giovedì prossimo, a Bibbiano”. Così il leader della Lega, Matteo Salvini, da Bologna. Riguardo le motivazioni uscite ieri dalla Cassazione che ha stabilito che al sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, non doveva essere applicata la misura cautelare dei domiciliari e, poi, dell’obbligo di dimora, Salvini ha commentato. “Non mi sostituisco ai giudici ma Carletti, comunque, è ancora indagato. Ci sono stralci degli atti in cui si parla di assistenti sociali che chiedevano di non dare i regali dei genitori ai bimbi e di gente che si vestiva da lupo mannaro per spaventarli. Qualcosa che neanche negli incubi di notte a uno verrebbe in mente”. “Da papà leggere alcuni atti è impressionante. E in questa vicenda c’è qualcuno che, se condannato, dovrà finire in galera e il Pd non lo può liquidare come un raffreddore o qualche errore tecnico, quando ci sono di mezzo i bimbi non ci sono raffreddori”. “Il sistema degli affidi in Val d’Enza – aggiunge – è marcio, corrotto e infame ed entra nelle case delle famiglie con l’inganno. Al di là dei processi e della galera, se qualcuno a sinistra l’ha definito un raffreddore, mi auguro che qualcuno chieda scusa”.

Il punto su Bibbiano: verso la fine delle indagini preliminari. A giorni la pm Valentina Salvi dovrebbe depositare gli atti. Le richieste di rinvio a giudizio verranno dopo il voto regionale in Emilia-Romagna. Maurizio Tortorella il 13 gennaio 2020 su Panorama. Si avvicina l’avvio vero e proprio del processo per i presunti allontanamenti illeciti dei bambini di Bibbiano. Tra pochi giorni, secondo quanto risulta a Panorama.it, il pubblico ministero di Reggio Emilia, Valentina Salvi, dovrebbe depositare l’avviso della conclusione delle indagini preliminari, l’atto formale previsto dal Codice di procedura penale che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. Secondo il Codice, entro 20 giorni da quel momento i 28 indagati di “Angeli e demoni” dovranno entrare in possesso del fascicolo del pm e a quel punto potranno decidere come difendersi: potranno scegliere se chiedere un interrogatorio, oppure depositare una memoria difensiva, o ancora chiedere ulteriori indagini da parte del pm. Al termine di questa fase, la cui durata al momento è indefinibile, la Procura di Reggio Emilia potrà a sua volta chiedere il rinvio a giudizio degli indagati al Giudice per l’udienza preliminare, il quale poi deciderà se meritano o no il procedimento. Questo passaggio fondamentale, però, di certo avverrà dopo le elezioni regionali di domenica 26 gennaio, e quindi (fortunatamente) saranno evitate nuove strumentalizzazioni politiche su una vicenda giudiziaria che ha già fin troppo diviso gli italiani. Dallo scoppio dell’inchiesta “Angeli e demoni”, emersa alle cronache lo scorso 27 giugno, sono trascorsi oltre sei mesi. Nel frattempo, due dei dieci bambini di Bibbiano non sono ancora tornati a casa: hanno però ripreso gli incontri con i genitori, che erano interrotti da tempo, e a breve il Tribunale dei minori di Bologna dovrebbe decidere sul loro destino. Le segnalazioni di disagio nei loro confronti non venivano soltanto dagli indagati di Bibbiano, ma anche da docenti o pediatri: quindi la cautela pare giustificata. Panorama.it ha avuto intanto modo di approfondire la controversa questione delle 100 relazioni che i Servizi sociali di Bibbiano e della circostante Val d’Enza avevano inviato alla magistratura minorile dal 2014 al primo semestre 2019. Di quelle 100 relazioni aveva parlato per la prima volta a metà ottobre proprio il presidente del Tribunale per i minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, il quale ha trascorso la scorsa estate impegnato a verificare i fascicoli scaturiti da segnalazioni dei Servizi sociali di Bibbiano. Ha detto Spadaro: “Avrei potuto limitarmi ai casi di allontanamenti individuati dall’inchiesta penale di Reggio Emilia e invece mi sono attivato per vederci chiaro più in generale, e anche in tempi precedenti”. Un impegno meritorio, che Panorama.it ha già riconosciuto. Sulla questione e sui numeri di quella verifica, peraltro, si era poi accesa una questione interpretativa. In un primo momento, infatti, era parso che si fosse trattato di 100 esplicite richieste di allontanamento di bambini, avanzate dagli assistenti sociali e in 85 casi respinte dai giudici minorili. Da quei dati, parte dei mass media aveva tratto la conclusione che il sistema dimostrasse di essere perfettamente efficiente. Al contrario, proprio l’alta quota di “errore” nelle valutazioni (l’85%) aveva convinto altri osservatori che in realtà il problema sussistesse, e che fosse concentrato soprattutto nei Servizi sociali dell’area. In novembre il presidente Spadaro, interrogato dalla commissione d’inchiesta su Bibbiano varata dalla Regione Emilia Romagna, aveva poi rettificato in parte la questione: “Non si trattava di 100 richieste di allontanamento sei Servizi sociali, altrimenti sarei stato io il primo ad allarmarmi” aveva spiegato l’alto magistrato. “In realtà si trattava di relazioni nelle quali si segnalavano situazioni di potenziale pregiudizio per minori”. Spadaro aveva anche spiegato alla Commissione regionale d’inchiesta che in realtà non può essere il Servizio sociale a “chiedere l’allontanamento” di un bambino al Tribunale dei minori. Perché è vero che in certi casi, particolarmente gravi e urgenti, il Servizio sociale può agire direttamente (in base all’articolo 403 del Codice civile) e allontanare dalla sua famiglia il minore “in stato di pericolo”. Ma la procedura ordinaria è un’altra: come aveva specificato Spadaro in Commissione, “il Servizio sociale può segnalare una situazione di potenziale pregiudizio alla Procura minorile, che ne fa un vaglio e chiede al Tribunale dei minori di accertare che cosa sia accaduto”. In base alla ricostruzione di Spadaro, quindi, si può capire come siano andate effettivamente le cose: le 100 famose relazioni di potenziale disagio erano state inviate dai Servizi sociali di Bibbiano e della Val d’Enza alla Procura presso il Tribunale per i minorenni di Bologna. Che le aveva trasformate in altrettanti ricorsi per la limitazione o la decadenza dalla responsabilità genitoriale: gli articoli del Codice civile cui si erano appoggiati i sostituti procuratori minorili bolognesi erano stati - alternativamente - il 333 e il 330, che in effetti prevedono entrambi la possibilità dell’allontanamento del minore. I ricorsi erano stati quindi indirizzati al Tribunale minorile per la decisione. I cui giudici, alla fine, avevano optato per un allontanamento soltanto in 15 casi. Mentre negli altri 85 casi avevano deciso diversamente.

Vendetta del Csm: mancata promozione di Spadaro a Roma, vittima sacrificale dell’inchiesta Bibbiano. Giovanni Altoprati l'8 Gennaio 2020 su Il Riformista. Giuseppe Spadaro, attuale presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna, pagherà per tutti: sarà lui la vittima sacrificale dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Con un ribaltone di fine anno, il Csm ha stroncato la sua aspirazione di andare a dirigere la Procura dei minorenni di Roma. Per lui un solo voto su cinque, quello della togata di Magistratura indipendente Loredana Micciché. Eppure a luglio la strada per Roma sembrava spianata: a suo favore si era espresso addirittura Piercamillo Davigo. Strano destino, dunque, per l’ufficio giudiziario bolognese e per il suo presidente, sempre elogiato durante ogni ispezione ministeriale, soprattutto per aver innalzato la produttività eliminando arretrato, nonostante carenza di personale amministrativo e sottodimensionamento dell’organico dei giudici. Durante la sua presidenza sono stati anche emessi provvedimenti innovativi, ad esempio in materia di stepchild adoption. Un modello, insomma, nel complesso mondo della giustizia minorile. Fino a quest’estate quando esplode, appunto, l’inchiesta “Angeli e demoni” e Spadaro finisce sotto i riflettori dei mass media per i presunti allontanamenti illegittimi dei bambini di Bibbiano. Nato 55 anni fa in Calabria, magistrato dal 1990 e dal 2013 a Bologna, Spadaro per il Csm è un giudice con «un vero e proprio amore per la funzione». «Senza dubbio – si poteva leggere nel parere redatto per la sua domanda – il magistrato più idoneo, per attitudini e merito» ad occupare il posto a Roma. Scoppiato lo scandalo, lui ed il suo ufficio si dichiarano le “prime vittime” degli assistenti sociali coinvolti nell’inchiesta. All’inizio dell’estate il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede avvia un’indagine amministrativa sul Tribunale dei minorenni di Bologna. L’11 novembre il Guardasigilli richiede una nuova d’indagine «sui rapporti tra giudici e operatori che potrebbero aver determinato situazioni d’incompatibilità, e sulle misure adottate dal presidente». Il supplemento d’ispezione è motivato dal fatto che nelle intercettazioni di “Angeli e demoni” erano emersi rapporti di vicinanza tra uno dei giudici bolognesi e gli psicologi Claudio Foti e Nadia Bolognini, al centro delle indagini. Il 27 agosto Spadaro aveva comunque sostituito il magistrato in questione. Ma oltre all’ispezione ministeriale, Spadaro deve fronteggiare l’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia che aveva inviato a Bonafede e al Csm un rapporto sulle presunte inadempienze del Tribunale bolognese. Ci sono procedure di sospensione della potestà genitoriale, e addirittura di adottabilità dei bambini, «in cui da oltre un anno non vengono fissate le udienze». Si evidenzia «il sistematico, mancato reperimento dei fascicoli in cancelleria e negli uffici dei magistrati» e lo «smarrimento di fascicoli». La presidente dell’Ordine, Celestina Tinelli, ha sostenuto che spesso «gli avvocati non possono nemmeno partecipare alle udienze». Il 14 novembre Spadaro si presenta allora davanti alla Commissione d’inchiesta sugli affidi minorili, varata dalla Regione Emilia-Romagna. «Mi hanno chiamato sequestratore di bambini», ricorda, raccontando le offese e le minacce ricevute sui social media. «Siamo tra i migliori in Italia», aggiunge con orgoglio, illustrando i numeri del suo ufficio. Un dato, però, insospettisce la Commissione: tra il 2018 e 2019 i Servizi sociali avevano chiesto al Tribunale 100 allontanamenti e i suoi giudici ne avevano respinti ben 85. Come mai gli assistenti sociali avevano chiesto allontanamenti infondati nell’85 per cento dei casi? E come mai, davanti a questi errori, i giudici non avevano preso provvedimenti? Spadaro risponde: «Perché i Servizi sociali non chiedevano 100 allontanamenti, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante e io stesso sarei andato in Procura a segnalarlo». Gli assistenti sociali avevano presentato 100 «segnalazioni di potenziale pregiudizio», cioè relazioni assai meno definitive. E non così preoccupanti. Tutto chiarito? Affatto: per l’opinione pubblica e per il Csm ormai è lui il colpevole.

Puniti i magistrati che hanno smontato il sistema Bibbiano. Simona Musco l'11 gennaio 2020 su Il Dubbio.  Procedimento disciplinare per il pm Simone Purgato, mentre è ormai quasi impossibile la nomina di Giuseppe Spadaro a procuratore minorile di Roma. Il processo per i presunti affidi illeciti in Val d’Enza non è ancora iniziato e, anzi, le indagini non sono ancora state chiuse. Ma le prime punizioni sono arrivate. E sono arrivate per chi in quei fatti non è stato mai coinvolto: Simone Purgato e Giuseppe Spadaro, rispettivamente pm e presidente del Tribunale dei minori di Bologna. Ed entrambi, ora, vedono le loro carriere, fino ad oggi specchiatissime, messe a rischio dalla gogna mediatica generata dopo l’inchiesta “Angeli& Demoni”. Il primo, infatti, è stato sottoposto a provvedimento disciplinare. Il secondo, invece, ha visto sfumare davanti ai propri occhi l’ormai sicura nomina a procuratore minorile di Roma. E tutto sembra partire dalla revisione fatta da Spadaro su tutte le cause degli ultimi quattro anni, grazie alla quale aveva smentito l’esistenza di un “sistema Bibbiano”, estrapolando, su cento procedimenti, nove casi sospetti in totale, sette dei quali erano già stati “risolti” dal Tribunale dei minori con il ricongiungimento dei bambini con le rispettive famiglie. Il procedimento a carico di Purgato. La vicenda riguarda una notizia shock lanciata a luglio: il Tribunale dei Minori, scriveva un giornale locale, era stato avvisato dalla procura di Reggio Emilia che uno degli affidi era illecito e che le relazioni che avrebbero allontanato il minore dai genitori contenevano dei falsi. Ad avvisare il pm Mirko Stifano sarebbe stato il sostituto procuratore di Reggio Emilia Valentina Salvi, titolare dell’inchiesta “Angeli& Demoni”, che gli avrebbe inviato gli atti che avrebbero dimostrato la falsità dei servizi sociali. Una richiesta, riportavano i giornali, caduta nel vuoto, tant’è che il bambino sarebbe comunque finito nel centro “La Cura” di Bibbiano, fino all’esecuzione dell’ordinanza. Notizia categoricamente smentita dal Tribunale: la Procura di Reggio Emilia, giurava in una nota Stifano, che ha anche dato mandato ai propri legali per difendere la propria onorabilità, non avrebbe «mai segnalato falsità poste in essere dai servizi sociali», né «fatto richieste o dato indicazioni di alcun genere perché i decreti del Tribunale dei minori non fossero eseguiti». Tant’è che il bambino è tornato dalla propria famiglia proprio su iniziativa del Tribunale stesso, il 13 maggio, molto prima, dunque, del blitz. Storia chiusa? Nient’affatto: la procura generale della Cassazione ha infatti esercitato l’azione disciplinare nei confronti di Purgato, al quale Salvi avrebbe inviato quel famoso fax. E non per aver ignorato la comunicazione, bensì per aver preteso, con toni non consoni ai rapporti tra magistrati, che il procuratore di Reggio smentisse la notizia. Il tutto senza accertare se quella comunicazione fosse mai avvenuta o meno e senza verificare, dunque, eventuali responsabilità per non aver impedito l’interruzione di gravissimi reati. Il caso Spadaro. Ma di mezzo ci è andato anche Spadaro, che pure aveva fatto ordine in un Tribunale per anni dominato dal caos. La sua nomina a procuratore doveva arrivare il 13 novembre scorso, dopo quattro voti favorevoli contro i due accordati alla sua concorrente, Giuseppina Latella, procuratore per i minorenni di Reggio Calabria. Ma l’annuncio dell’invio degli ispettori ministeriali negli uffici da lui diretti ha congelato tutto. Gli uomini di via Arenula sono stati spediti lì dal ministro Alfonso Bonafede per verificare eventuali connivenze tra giudici minorili e servizi sociali dei Comuni della Val d’Enza. E dopo l’inchiesta amministrativa – dopo una prima ispezione, dalla quale era emersa la natura di “parte offesa” del Tribunale dei minori – è arrivato uno stop momentaneo alla carriera del magistrato calabrese. Il plenum del Csm, 48 ore dopo l’annuncio di Bonafede, aveva rinviato infatti la delibera in quinta Commissione, per «aspettare l’esito dell’indagine ispettiva, che ha durata di una settimana, negli uffici giudiziari di Bologna». Ma oggi, senza gli esiti di quell’ispezione, le carte in tavola sono cambiate: la quinta Commissione, a fine dicembre, ha infatti ribaltato il giudizio, accordando cinque voti per Latella e uno per Spadaro. E ora la nomina da parte del plenum, per il presidente del Tribunale di Bologna, appare un miraggio. «Ho un profondo rispetto per le istituzioni e per il Csm. Credo profondamente nelle istituzioni e le rispetto sempre. Specie chi vi appartiene e, sia pure nel suo piccolo, le rappresenta, deve sempre rispettarne le decisioni anche quando non le condivide – ha commentato Spadaro al Dubbio -. La quinta commissione ha inteso ribaltare la precedente votazione perché non ho mai svolto le funzioni requirenti. Ho provato a dimostrare in audizione che la gran parte del lavoro svolto dalle procure minorili è costituito dal settore civile e non da indagini penali, quindi forse in ambito minorile non si applica lo stesso criterio previsto per le procure ordinarie. Ma se il Csm ritiene che non sia così evidentemente ha ragione l’organo di rilevanza costituzionale che deve interpretare ed applicare la circolare in materia di incarichi direttivi e non certo io che sono un semplice magistrato. Il proporsi per un incarico di presidente o di procuratore deve essere una disponibilità di servizio. Così è stato per me: quindi non l’ho vissuta come una sconfitta personale. Hanno indicato una collega valorosissima che evidentemente possedeva maggiori attitudini specifiche direttive cui farò i complimenti quando il plenum deciderà». 

Bibbiano, il giudice: misure cautelari? Inutili, basta la gogna mediatica. Simona Musco il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il gip: «Distrutta l’immagine degli indagati». Definita a rischio l’incolumità delle persone coinvolte, il cui isolamento sociale viene considerato sufficiente ad escludere l’inquinamento delle prove. Le misure cautelari? Inutili quando la gogna mediatica ha già trasformato gli indagati in mostri, rendendoli “infetti” agli occhi dell’opinione pubblica. Una conclusione che si trae leggendo le motivazioni con le quali il gip Luca Ramponi ha rimesso in libertà l’ex dirigente dei servizi sociali della val d’Enza, Federica Anghinolfi, e l’assistente sociale Francesco Monopoli, indagati nell’inchiesta “Angeli& Demoni”, per tutti, ormai, il caso Bibbiano. Nel provvedimento, con il quale lo scorso 23 dicembre il giudice ha disposto l’interdizione per un anno dalla professione per i due, si legge come sia per il pm che ha chiesto la sostituzione delle misure evitando, così, la scadenza dei termini di fase – sia per il giudice non sussista più il pericolo di inquinamento delle prove, venendo meno, dunque, l’esigenza di tenere i due indagati ai domiciliari. Ma è tra le righe del provvedimento, nel quale il gip rimarca comunque gli indizi di colpevolezza, che emerge tutto il potere della gogna mediatica subita da Anghinolfi e Monopoli assieme agli altri indagati: «concordemente con il pm – si legge – deve ritenersi che allo stato, proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando». Una conferma, dunque, dei devastanti contorni mediatici assunti dalla vicenda. Ma la parte più pesante sta in un passaggio successivo del provvedimento, dove, appunto, la gogna mediatica assurge ad ulteriore e forse più efficace misura cautelare: «i contatti ( eventualmente di possibile riallaccio da parte degli indagati) con il mondo politico e ideologico di riferimento – scrive il gip -, proprio in ragione dell’ampio risalto negativo dato dai mass media alla vicenda, non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi per la genuinità dell’acquisizione probatoria in un futuro giudizio, posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe ( se scoperto) costituirà un adeguato “cordone sanitario” più di qualsivoglia altra misura cautelare». Insomma, inutile preoccuparsi: accostarsi agli indagati, oggi, equivale ad una condanna a morte sociale. Una sovraesposizione mediatica, commenta al Dubbio Oliviero Mazza, difensore di Anghinolfi, «che non è stata determinata dagli indagati, ma dall’autorità procedente». La richiesta di revoca da parte del pm, ora, rende impossibile la richiesta di giudizio immediato, per cui toccherà ancora attendere la chiusura delle indagini, per le quali il pm ha chiesto una proroga. Il gip ha riportato nel provvedimento anche il cosiddetto «complotto della pedofilia», di cui gli investigatori hanno sentito parlare ascoltando le intercettazioni e dalla quale, ad avviso degli indagati, bisognava salvare i bambini. «Il gip ha rilevato – aggiunge Mazza – la preoccupazione seria, da parte dei due indagati, della presenza di una rete di pedofili operante sul territorio. Lo scenario iniziale parla di bambini sottratti per ragioni economiche alle loro famiglie, mentre da qui emerge che i servizi sociali avevano motivo di ritenere che ci fosse un rischio per questi minori. La verità di Bibbiano è ancora tutta da scrivere e il fatto che la corsa al giudizio immediato sia stata abbandonata la dice lunga». «Si sta discutendo di diverse concezioni scientifiche sulla credibilità del minore – sottolinea Nicola Canestrini, difensore di Monopoli -. Abbiamo da una parte la comunità scientifica delle Carte di Noto, dall’altra esperti che non concordano ancora sul considerare le dichiarazioni dei minori sempre frutto di possibile inquinamento. Io credo che un problema del genere vada discusso seriamente, in uno Stato di diritto, dalla comunità scientifica, arrivando a delle linee guida condivise, altrimenti si trascina a processo chi la pensa diversamente, che diventa un mostro o un criminale. Non credo che in un tribunale si possano chiarire questioni scientifiche». Il problema, evidenzia però il legale, è anche un altro. L’inchiesta contesta il fatto che i servizi sociali della Val d’Enza si servissero sempre degli stessi psicologi privati, per ovviare la carenza di professionisti in forza all’Asl. «Ma le procure di quali consulenti si servono? – si chiede il legale – Nel 90% dei casi degli stessi professionisti, o magari dei loro colleghi di studio con i quali si scambiano il ruolo dei periti negli stessi processi. Ho chiesto a varie procure, sulla scorta del Freedom act of information, gli elenchi dei consulenti tecnici scelti dall’accusa, peraltro pagati da tutti noi, e la percentuale di utilizzo. Ma mi sono stati negati, in virtù di ragioni di ordine pubblico e anche perché la scelta di un consulente tecnico è un’attività giurisdizionale. Non sapevo che un pubblico ministero facesse attività giurisdizionale. Ciò vuol dire che in Italia non è possibile conoscere i criteri con i quali vengono scelti i consulenti dell’accusa».

DA ilrestodelcarlino.it il 14 gennaio 2020. Fine indagini per l'inchiesta "Angeli e demoni". Le forze dell'ordine hanno raccolto tutti gli elementi che ritengono necessari e si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio per le persone che ritengono implicate nell'impianto accusatorio. L'avviso di fine indagini è stato notificato a 26 persone e tra loro c'è anche il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti prima finito agli arresti domiciliari poi scarcerato dalla Cassazione e tornato a fare il sindaco. I capi di imputazione contestati dalla Procura reggiana nell'atto che di solito prelude a una richiesta di rinvio a giudizio sono 108. "La massiccia attività istruttoria svolta successivamente all'esecuzione della misure cautelari, attraverso l'escussione di ulteriori persone informate sui fatti, le nuove consulenze tecniche svolte, gli interrogatori resi da alcuni degli indagati, appositamente corroborati da mirati riscontri e, non da ultimo, l'analisi del materiale informatico e documentale in sequestro anche a seguito di alcune udienze davanti al Gip e in contraddittorio tra le parti" ha consentito "non solo di confermare le ipotesi accusatorie già riconosciute dal Gip in fase cautelare", di "integrare il quadro probatorio in relazione a talune non riconosciute dal Gip stesso in fase di emissione misura e anche di individuare nuove fattispecie". Lo scrive il procuratore della Repubblica di Reggio Emilia, Marco Mescolini. La notizia arriva nel giorno in cui la Cassazione ha pubblicato le motivazioni del verdetto che il 3 dicembre ha annullato senza rinvio la misura cautelare proprio per il sindaco Carletti. Non c'erano gli elementi per imporre la misura coercitiva dell'obbligo di dimora nei confronti del sindaco. I supremi giudici rilevano "l'inesistenza di concreti comportamenti", ammessa anche dai giudici di merito, di inquinamento probatorio e la mancanza di «elementi concreti» di reiterazione dei reati. Ma arriva anche a meno di due settimane dal voto per la presidenza della Regione Emilia-Romagna, con Salvini che ha già annunciato di volere fare di Bibbiano una delle ultime tappe del suo lungo tour elettorale. Sul rischio di inquinamento probatorio, gli “ermellini” sottolineano che l'ordinanza del riesame di Bologna - che il 20 settembre ha revocato i domiciliari a Carletti imponendo però l'obbligo di dimora - non si è basata su "una prognosi incentrata sul probabile accadimento di una situazione di paventata compromissione delle esigenze di giustizia". Anzi, il riesame - prosegue il verdetto - "pur ammettendo l'inesistenza di concreti comportamenti posti in essere dall'indagato, ne ha contraddittoriamente ravvisato una possibile influenza sulle persone a lui vicine nell'ambito politico amministrativo per poi inferirne, astrattamente e in assenza di specifici elementi di collegamento storico-fattuale con la fase procedimentale in atto, il pericolo di possibili ripercussioni sulle indagini". Tutto "senza spiegare se vi siano, e come in concreto risultino declinabili, le ragioni dell'ipotizzata interferenza con il regolare svolgimento di attività investigative ormai da tempo avviate". Di "natura meramente congetturale" anche il rischio di reiterazione. "Già in sede di applicazione dell'originaria misura cautelare", ossia gli arresti domiciliari, i giudici di merito, a fondamenta delle loro motivazioni, si erano serviti di "elementi" messi "in relazione con altro passaggio motivazionale, di non univoca e quanto meno dubbia interpretazione, direttamente tratto dalle dichiarazioni rese da Carletti al Pm". Interrogato dal magistrato, il sindaco di Bibbiano, sottolinea la Suprema Corte, "genericamente ed in via del tutto ipotetica, si limitò ad affermare che, qualora fosse tornato a rivestire la carica di sindaco, avrebbe potuto prendere in considerazione la proposta, proveniente da un interlocutore serie ed onesto, di un investimento su un terreno privato per la progettazione di una struttura, parallela a quella gestita dalla Asl, per la tutela di minori ed anziani". "Questo ci dice due cose: che la gogna a cui è stato sottoposto Carletti e il tentativo di certa politica di strumentalizzare sono stati indegni. E che la giustizia deve fare il suo corso", è il commento di Simona Malpezzi, sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento.

Bibbiano, chiuse le indagini: pure l'ex sindaco dem tra i 26 indagati. La Procura chiude le indagini dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti nel reggiano. Salgono da 102 a 108 i capi d’imputazione. Costanza Tosi, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. La procura chiude le indagini dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti nel reggiano. Salgono da 102 a 108 i capi d’imputazione. Tra gli indagati rimane anche Andrea Carletti, il sindaco di Bibbiano a cui il Riesame ha appena ritirato la misura cautelare che prevedeva l’obbligo di dimora nel suo comune di residenza, Albinea.

Cos'è l'inchiesta "Angeli e Demoni". L’ordinanza della procura di Reggio Emilia che analizzava i casi di alcuni minori che sarebbero state vittime di un sistema di affidi illeciti era stata la scintilla che, il 27 giugno scorso, aveva fatto scoppiare il caso Bibbiano. Dall'inchiesta è emersa una serie di accordi sottobanco e favoritismi che svela un'enorme rete formata da enti privati e pubblici e collegata anche dalle istituzioni. Un sistema fatto di intrecci e atrocità che, per anni, sarebbe servito a favorire un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro. Dall'inchiesta della procura sono emerse finte relazioni, falsi documenti e pressioni psicologiche utilizzate dagli psicologi per riuscire a plagiare i minori. Vere e proprie opere di convincimento, meccanismi di persuasione e storie di fantasia per screditare le famiglie dei piccoli. Una volta "plagiati" i bambini avrebbero dovuto denunciare i genitori, raccontando di aver subito violenze mai avvenute. I reati contestati sono, a vario titolo, peculato d’uso, abuso d’ufficio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia anche attraverso l’altrui inganno, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. A sei mesi dallo scoppio dello scandalo oggi la procura conferma tutti i capi di imputazione, altri sono stati aggiunti grazie alle ricerche dettagliate degli ultimi mesi. Quattro capi d’imputazione sono stati stralciati. Si tratta del direttore dell’Ausl reggiana, Fausto Nicolini, l’addetta stampa dell’azienda sanitaria locale Federica Gazzotti, l’ex sindaco di Cavriago nonché già presidente dell’Unione Val d’Enza Paolo Burani e l’avvocato Marco Scarpati. Per uno tra gli indagati le indagini del nucleo investigativo coordinate dal pm Valentina Salvi e dal procuratore Marco Mescolini hanno portato alla consenso alla richiesta di patteggiamento. É stata fissata l’udienza per il 27 gennaio di fronte al giudice per le indagini preliminari. Al via i 20 giorni di tempo per gli interrogatori a cui saranno sottoposti gli indagati, poi la Procura sarà chiamata a decidere se procedere con le richieste di rinvio a giudizio.

GLI INDAGATI AL CENTRO DELL'INCHIESTA. Tre i capi d'imputazione nei confronti del guru della "Hansel e Gretel". Concorso in abuso d'ufficio l'accusa nei confronti di Claudio Foti alla quale si sono aggiunte, sulla base delle registrazioni delle sedute da lui sostenute con alcuni minori presentate dal legale dello psicologo in sede di tribunale, frode processuale e lesioni personali gravissime. Tra i destinatari dell'avviso di chiusura delle indagini anche Andrea Carletti. Il sindaco di Bibbiano e delegato dell'Unione Comuni Val d'Enza alla specifica materia delle politiche sociali, che si conferma indagato per abuso di ufficio e falsità ideologica. Secondo quanto redatto dai pm l'ex sindaco dem avrebbe lavorato assieme a Foti alla creazione di un progetto volto a consentire, allo psicologo, la prosecuzione illecita del servizio di psicoterapia. Una comunità per minori che, sotto proposta proprio del sindaco dem, sarebbe nata nel paesino dove operava il primo cittadino. A Bibbiano. Un'idea già andata in porto e prota a prendere forma e la cui gestione degli spazi, in assenza di qualsivoglia procedura ad evidenza pubblica, era già stata interamente affidata al centro studi Hansel e Gretel. Tra i principali indagati rimane anche Federica Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali della Val d'Enza. Secondo quanto contestato dalla procura nel provvedimento, la capa degli affidi, avrebbe, minacciato i genitori di uno dei bambini, intimidando che gli avrebbe permesso di vedere i figli "a condizione che rilasciasse ai Servizi Sociali il suo consenso a che il figlio minore fosse sottoposto ad un percorso di psicoterapia specialistica con Foti". Per i pm, Anghinolfi avrebbe compiuto "atti idonei diretti in modo inequivoco a costringerlo a prestare il predetto consenso". Tutto, al fine di procurare a Foti Claudio, profitti in denaro, "pari al corrispettivo richiesto per le sedute terapeutiche di euro 135 ogni ora". Un atteggiamento intimidatorio che si sarebbe materializzato in una mail recapitata al genitore da parte di un'assistente sociale dietro ordine della dirigente Anghinolfi. "Rispetto alla richiesta del suo assistito di vedere i figli, dopo essermi confrontata in équipe, le comunico che il Servizio non è d'accordo a svolgere tale incontro. Lo stato di malessere per quanto successo è ancora molto presente e disturbante per la vita dei minori. Poiché si rende necessaria una psicoterapia specialistica, chiedo che il suo assistito possa trasmettere, tramite il suo aiuto, un'autorizzazione al servizio scrivente ai percorsi terapeutici necessari, forse una volta avviato il percorso e ristrutturato il trauma subito ci potranno essere maggiori spazi".

Bibbiano, Cassazione blinda ex sindaco Pd e gli revoca le misure cautelari. Secondo la Cassazione "non vi erano gli elementi per disporre la misura dell’obbligo di dimora" nei confronti dell'ex sindaco di Bibbiano. Costanza Tosi, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Non c’erano gli elementi per disporre la misura dell’obbligo di dimora nei confronti del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti nell’ambito delle indagini sugli affidi illeciti in Val d’Enza. A dirlo è la Cassazione che riporta, nelle motivazioni espresse il 3 dicembre per l’annullamento della misura cautelare, la mancanza di “elementi concreti” di reiterazione dei reati e “l’inesistenza di concreti comportamenti” di inquinamento probatorio. Il 20 settembre era arrivata la decisione dei giudici sulla revoca della misura cautelare degli arresti domiciliari per Carletti. Il Riesame aveva però predisposto, per l’indagato nell’ambito dell’inchiesta "Angeli e Demoni", l’obbligo di dimora nella sua casa di Albinea, sempre nel Reggiano. Un provvedimento sul quale gli avvocati difensori Giovanni Tarquini e Vittorio Manes, avevano presentato ricorso. Secondo l’ultimo verdetto non vi sono rischi di inquinamento probatorio. I giudici sottolineano che l’ordinanza del riesame di Bologna non si è basata su “una prognosi incentrata sul probabile accadimento di una situazione di paventata compromissione delle esigenze di giustizia”. Secondo il Riesame, “pur ammettendo l’inesistenza di concreti comportamenti posti in essere dall’indagato, ne ha contraddittoriamente ravvisato una possibile influenza sulle persone a lui vicine nell’ambito politico amministrativo per poi inferirne, astrattamente e in assenza di specifici elementi di collegamento storico-fattuale con la fase procedimentale in atto, il pericolo di possibili ripercussioni sulle indagini”. Il provvedimento dell’obbligo di dimora è stato preso, si dichiara, “senza che vi siano le ragioni dell’ipotizzata interferenza con il regolare svolgimento di attività investigative ormai da tempo avviate”. Risultato di supposizioni inaccettabili, anche il rischio di reiterazione. Sindaco di Bibbiano del Partito Democratico, Carletti è accusato di abuso d'ufficio e falso ideologico. Ciò che si contesta al primo cittadino è di aver affidato gli spazi della struttura pubblica "La Cura" ad un ente privato. Un affidamento che avrebbe conferito senza gara e, per di più, a titolo gratuito. Finito nel registro degli indagati per l’inchiesta della procura di Reggio Emilia, Carletti era stato arrestato il 27 giugno scorso. Su decisione del Prefetto, il primo cittadino era stato sospeso dal ruolo. Dopo poco è arrivata l’autosospensione del sindaco dal partito.

Bibbiano, la sinistra santifica Carletti e si dimentica dei bambini. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva prende le difese dell'ex sindaco di Bibbiano e si indigna per il massacro mediatico subito dal primo cittadino dimenticandosi delle vere vittime dello scandalo. Costanza Tosi, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. I giudici revocano le misure cautelari all’ex sindaco di Bibbiano e la sinistra punta il dito contro i media che hanno parlato dello scandalo sugli affidi. A questo giro a commentare in tempi record la notizia del nuovo provvedimento del tribunale del Riesame ci pensa Roberto Giachetti. Il deputato di Italia Viva grida allo scandalo dalle sue pagine social e indignato commenta su Facebook: "C’è bisogno di aggiungere qualcosa? Una persona massacrata sui media e sui social per mesi. Chi lo ripagherà mai per tutto quello che ha subito? Ecco dove porta la cultura di manette e galera. Meditate gente, meditate". Beh, in realtà qualcosa da aggiungere ci sarebbe. Ad esempio, si potrebbe sottolineare che l’aver sollevato Andrea Carletti dall’obbligo di dimora ad Albinea non equivale a dichiarare la sua innocenza. A dirlo è la stessa Cassazione che sottolinea riguardo al provvedimento preso il 3 dicembre, la mancanza di “elementi concreti” di reiterazione dei reati e “l’inesistenza di concreti comportamenti” di inquinamento probatorio. Non ci sono elementi evidenti che possano far dedurre il rischio di inquinamento delle indagini ancora in corso e per questo, l’ex sindaco del Partito Democratico è libero di viaggiare fuori dai confini della sua casa. Nonostante rimanga ancora in attesa di giudizio. A ribadirlo sono anche i suoi legali, che seppur contenti della decisione presa evidenziano il significato delle misure restrittive con chiarezza. ”E' un grande risultato - ha commentato l'avvocato di Carletti, Giovanni Tarquini all'AdnKronos -, perché si riconosce che, fin dall'inizio, non c'erano i presupposti e le motivazioni per la misura cautelare. Le misure cautelari sono uno strumento molto forte e di fatto un'anticipazione del giudizio e, in questo caso, erano una forzatura". A rincarare la dose anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. Che con un tweet ha puntato il dito contro gli avversari politici. "La Cassazione spiega che l'arresto del sindaco di Bibbiano era infondato. Ci sarà qualche coraggioso grillino o leghista pronto a scusarsi per lo squallido sciacallaggio?" Anche l'ex piddino si scaglia dalla parte dell'indagato e azzarda pure un poco calzante reato di sciacallaggio. Esorta gli esponenti di Lega e Cinque Stelle, che dallo scoppio dell'inchiesta si erano schierati dalla parte dei piccini esortando i vertici del Partito Democratico a prendere provvedimenti e fare chiarezza sulla accuse dei loro, ad avere coraggio di chiedere scusa. Viene da domandarsi se, viste le rinnovate accuse agli indagati dell'inchiesta emerse dalle indagini ormai giunte a conclusione, qualcuno del Pd avrà mai il coraggio di scusarsi per aver completamente ignorato la sofferenza delle famiglie colpite dal sistema illecito della Val d'Enza. Sebbene ogni individuo sia innocente fino a prova contraria, i media non possono certo esimersi dal riportare i fatti di un caso eclatante che ha scosso gli animi di un intero Paese e che potrebbe aver scoperchiato un sistema, ben collaudato e intriso di illeciti, capace di distruggere intere famiglie lucrando sulla pelle di decine di bambini. Si scandalizzano gli esponenti di Italia Viva, prendono le parti del sindaco Dem. Definiscono un massacro le parole dei media e i commenti dei leoni da tastiera. Si domandano addirittura chi lo ripagherà mai per tutto questo supplizio. E ancora una volta si dimenticano che riportare le accuse degli indagati è servito a fare luce su una storia che se fosse confermata sarebbe la descrizione di un massacro reale. Che supera di gran lunga un’offesa sui social. Che parla di sedute psicologiche in cui i bambini sarebbero stati plagiati al fine di confessare abusi mai avvenuti per poi essere allontanati dalla propria famiglia accusata con finti pretesti e prove inesistenti di violenze e abusi sull’amore della loro vita. Non una parola spesa riguardo le ultime valutazioni del gip che ha evidenziato nei fatti di Bibbiano “un programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Per questo tra i garantisti della sinistra nessuno si indegna. Fedeli al loro silenzio tombale sull’inchiesta della Procura giustificato dall’odio verso la strumentalizzazione politica dei fatti di cronaca. Fino a quando, un passo indietro dei giudici nei confronti di uno degli indagati, non diventa l’ennesimo pretesto per insinuare che Bibbiano non è altro che una favola creata ad arte da chi ha voluto guadagnarsi consensi politici. Di un tratto, pur di salvare l’immagine, ecco spuntare vittime inesistenti. Santificare chi ancora non è stato dichiarato innocente non è forse strumentalizzazione volta a salvarsi la faccia? E per l’ennesima volta l’indignazione fasulla dei Dem è uno schiaffo alle vere vittime di questo scandalo. I bambini.

Bibbiano si scaglia contro il presidente Bonaccini. Le famiglie del caso affidi pronte per il flash-mob di protesta davanti al municipio, ma Bonaccini annulla l'incontro in paese. Costanza Tosi, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. Bibbiano si scaglia contro il presidente della Regione Stefano Bonaccini. Mamme e papà organizzano un flash-mob per protestare contro il Pd emiliano dopo gli scandali sugli affidi illeciti. Bonaccini sarebbe dovuto essere a Bibbiano per un incontro “a porte chiuse”. Assieme ai volontari che hanno organizzato il “Festivald'Enza”. Niente di fatto. Dopo che la notizia dell’incontro ha iniziato a circolare, famiglie di tutta Italia hanno aderito alla proposta di organizzare un flash-mob davanti al municipio proprio in concomitanza dell’incontro fissato dal presidente del Pd, che ha poi deciso di annullare il confronto. Tutto era partito da un messaggio whatsapp, rimbalzato sui cellulari di gran parte degli abitanti del paese, nel quale il segretario locale del Pd avvertiva militanti e simpatizzanti. “Ciao ragazzi, - scriveva Stefano Marazzi - domenica al parco Manara ci farà visita il nostro presidente della Regione nonché nostro candidato Stefano Bonaccini. Vista la delicatezza della ormai prossima scadenza elettorale, vi preghiamo di non mancare... Non faremo una divulgazione pubblica per evitare il sorgere di speculazioni politiche di cui non abbiamo bisogno... Vi chiedo pertanto di fare un passa parola via telefono o via mail a tutti coloro che, iscritti, elettori, simpatizzanti o volontari, ritenete possano essere interessati a questo evento... Vi aspettiamo!!!”. Eppure, nonostante l’espressa volontà di tenere “semi-segreto” l’incontro tra gli uomini della sinistra, per scappare da contestazioni o critiche, la notizia è arrivata a molti. Tra questi, anche alcune presunte vittime del caso affidi che, ancora una volta, hanno deciso di rispondere all’invito con una dimostrazione pacifica volta a ribadire la loro richiesta di giustizia. I genitori si sono messi in contatto con il comitato “Famiglia e Vita” di San Felice sul Panaro. Che, ormai da mesi, aiuta e supporta le famiglie in difficoltà. Il gruppo di militanti e genitori hanno organizzato il flash-mob davanti alla sede del comune di Bibbiano, esattamente lo stesso giorno e alla stessa ora in cui sarebbe dovuto avvenire l’incontro tra Bonaccini e i suoi. Il presidente del comitato, Franco Rebecchi, ha fatto partire il passa parola. Nel messaggio, inoltrato via whatsapp, si dava appuntamento per tutti coloro che volessero partecipare, domenica 5 gennaio alle 16. “Tutti con un giocattolo per i bambini che, secondo le indagini, sono stati tolti ingiustamente alle famiglie d’origine. Questo mentre Bonaccini sarà a Bibbiano tra gli elettori del Pd, probabilmente ad affermare che, proprio là, a Bibbiano, non è successo nulla.” Dopo tutto, per il Pd emiliano, questa volta non era facile scappare. Difficile non trovare il filo conduttore tra i fatti di Bibbiano e la presenza del presidente Bonaccini nel paese finito al centro degli scandali sui bambini. Proprio lui, che ha istituito la commissione d'indagine regionale sugli affidi dalla quale è emerso che, i fatti di "Angeli e Demoni”, sono stati solo un raffreddore all’interno di un sistema che, in realtà, funziona bene. Parole che hanno lasciato un segno indelebile nella mente di tutte quelle famiglie che hanno dovuto vedere il loro dolore minimizzato da chi prometteva giustizia e ha alla verità ha preferito, ancora una volta, il silenzio. E così, dopo l’annuncio della dimostrazione delle famiglie, Bonaccini ha deciso di annullare l' incontro. “Chiaro che vogliamo evitare di far alzare i toni ancora una volta sul tema affidi”, ha commentato l' onorevole reggiano Andrea Rossi, coordinatore del comitato elettorale di Bonaccini. Rapida la risposta di Rebecchi, del comitato “Famiglia e Vita”, che non usa mezzi termini e si scaglia contro gli esponenti del Pd. “È vergognoso quanto sia impavido Bonaccini. Ha avuto paura di essere a 1 km di distanza da noi. Il Pd di Bibbiano sapeva che noi facevamo un presidio davanti al comune di Bibbiano e non saremmo andati ad incontrare Bonaccini nella sede locale del Pd. Bonaccini, che all'apparenza sembra molto sicuro di sé si è dimostrato più pauroso di un coniglio. A quanto mi risulta nessun esponente politico del Pd locale, provinciale, regionale, nazionale e uomini di governo del PD hanno incontrato almeno una famiglia a cui hanno rubato i figli, per conoscere i fatti e condividere il suo dolore poi vogliono parlare che il sistema affidi va tutto bene”.

Il legale di Foti che difende gli scandali di Bibbiano crede ai marziani che rapiscono i bambini. Andrea Coffari avvocato difensore e collega di Claudio Foti, oltre a condividere l'ideologia dei "demoni" di Bibbiano si fida di Robert David Steele, americano che denuncia l'esistenza di sette sataniche che spediscono i bambini su Marte. Costanza Tosi, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Quando l’ideologia sfocia nel complottismo si rischia di credere ad evidenti assurdità. Parlando del caso Bibbiano, abbiamo scritto più volte che, a muovere le fila dello scandalo sugli affidi illeciti fosse proprio l’ideologia degli indagati. Dietro i casi dei bambini strappati alle proprie famiglie d’origine, portati alla luce dalla procura di Reggi Emilia, con il tempo e le ricerche, è diventato quasi impossibile negare l’esistenza di un sistema e di un’ideologia estrema che cerca di distruggere la famiglia naturale. E così i “demoni” di Bibbiano portavano avanti i loro gioco illecito, autoconvincendosi e raccontando al mondo che gli assurdi pretesti con i quali toglievano i bimbi alle famiglie non erano altro che il tentativo di liberarli da feroci sette sataniche. Ci credevano davvero Federica Anghinolfi, la dirigente dei servizi sociali, il collega Francesco Monopoli e il guru della "Hansel e Gretel" Claudio Foti. A raccontarlo sono i testimoni in tribunale. Che ammettono di essere stati plagiati dai racconti sui mostri dei bambini nella Val D’Enza ripetuti come un disco rotto per ogni caso che si trovavano a seguire. Banale scoprire che a condividere questa falsa realtà da film dell’orrore fosse anche Andrea Coffari. Legale di Claudio Foti e collaboratore dello psicologo torinese. Secondo gli inquirenti non esisterebbe nessuna setta di pedofili dalla quale salvare bambini abusati e secondo le ultime valutazioni del gip è possibile riscontrare, nelle operazioni di cui sono accusati gli indagati, un “programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Eppure, il dottor Coffari, a questa versione non ci sta. E resta lontano dall’abbandonare le sue radicate convinzioni. Lo si apprende da un post, pubblicato il 29 dicembre sul suo profilo Facebook. "C'è un filo rosso che lega il potere alla pedofilia e alle sette più o meno sataniche o rituali. C'è chi ha interesse che questa amara verità sia svelata e c'è chi ha interesse ed opera perché rimanga nascosta". Scrive Coffari. Ma non basta. A riprova della sua tesi sconclusionata allega al suo commento un video. A parlare è un certo Robert David Steele. Un signore che figura tra i rappresentanti di un gruppo, con sede a Londra, chiamato International Tribunal of Natural Justice. L’associazione porta avanti da anni una battaglia contro i poteri forti, ma soprattutto cerca di illuminare l’opinione pubblica attraverso ricerche basate su criteri sconosciuti che porterebbero all’evidenza di sette di pedofili che sfruttano i bambini. Nel discorso Mr Steele ne dice di tutti i colori. Dopo aver affermato di essere un americano ex agente Cia inizia a raccontare del commercio di bambini gestito da sette di pedofili. “Abbiamo persone negli Stati Uniti d’America che facevano bambini per venderli - dichiara Steele - Bambini che quando non vengono venduti arrivano senza certificato di nascita il che significa che così è più facile ucciderli e nessuno si chieda dove si trovino. Importiamo anche bambini con dei carichi enormi, e ancora, bambini senza documentazioni. Non è solo schiavitù di bambini o abuso sessuale di minori si tratta di una tortura, perché i piccoli servono agli uomini delle sette per il sangue adrenalizzato che bevono durante i loro riti.” Storie da non credere raccontate con la massima disinvoltura e senza mezza prova alla mano. “Si fa uso anche di bambini per procurare organi del corpo. E poi abbiamo le cerimonie rituali oltre agli omicidi accidentali". Insomma, secondo l’americano esistono enormi organizzazioni che lavorano al solo scopo di torturare i bambini. Una storia da far accapponare la pelle. E sapete quanti sono, secondo Steele questi minori? “Tra i 600.000 e gli 800.000 all’anno solo in America”. E questo senza contare quelli nati e mai registrati. Ma come sono stati dedotti questi dati non è dato sapere. Nessuno straccio di prova viene presentato all’“evento educativo”. Come lo chiama Steele. Ma nonostante non possa portare evidenze di questo film costruito ad arte e figlio di un’ideologia smisurata secondo l’uomo: “La pedofilia è anche il collante di induzione. É il modo in cui lo stato nascosto recluta e controlla le persone. É anche il tallone d’Achille dello stato nascosto: il pubblico si deve rendere conto che i governi non proteggono i loro bambini e allora tutto il resto riguardo al governo sarà messo in discussione.”. Come se non bastasse anni fa l’uomo condiviso da Coffari l’aveva sparata ancora più grossa. Come riporta Pablo Trincia, in un suo post sulla pagina Facebook: “David Steele, due anni fa è arrivato a dire che un numero impressionante di bambini vengono rapiti e portati addirittura sul pianeta Marte, dove ci sarebbero colonie di piccoli schiavi di cui nessuno sa nulla. Era serio.” Ebbene sì. Robert David Steele, intervistato dal sito Infowars, ha dichiarato: “In realtà crediamo che ci sia una colonia su Marte che è popolata da bambini che sono stati rapiti e inviati nello spazio nell' arco di 20 anni”. Secondo Steele, questi bambini sarebbero stati strappati alle famiglie “in modo che, una volta arrivati su Marte, non avessero altra alternativa che essere schiavi della colonia”. In un mondo in cui l’opinione pubblica è sottoposta ad un’overdose di notizie e una conseguente scarsa verifica di queste perfino il Washington Post ha dovuto smentire la castroneria detta a tutta voce dal presunto ex agente Cia, pubblicando un articolo in cui riportava la smentita della Nasa. È vero che alle storie da Guerre Stellari è molto difficile credere e questo allontana i rischi di danni reali. Ma la stessa persona che crede nei marziani schiavisti non si è fatta problemi neanche nel sostenere che “molte organizzazioni (umanitarie) finiscono per essere usate per predare i bambini. L’Oxfam è un esempio recente - Afferma Steele - Tutte le organizzazioni delle Nazioni Unite quello che attraggono sono i pedofili che alla fine finiscono nei ranghi e controllano queste organizzazioni. Quindi queste organizzazioni che nascono per aiutare i bambini diventano organizzazioni che cercano i bambini.” Siamo davanti all’ennesima teoria del complotto. Quando tutto è trainato da un’ideologia spasmodica la situazione diventa pericolosa. Credere in assurdità mai esistite, in alcuni casi, ha portato a tragedie inimmaginabili. Venti anni fa, in Val D’Enza, il caso dei "Diavoli della Bassa" in cui decine di famiglie furono accusate di fare parte di una setta satanica che violentava i bambini, portò alle distruzione di intere famiglie, al suicidio di indagati innocenti, alla perdita dei genitori per decine di bambini. A Bibbiano fortunatamente la falla sembrerebbe essere stata scoperta prima, ma ancora una volta, troppi bambini hanno sofferto inutilmente. Vittime di un ideologia e di un circolo vizioso che fa paura.

Quei bambini tolti alla mamma per un disegno mal interpretato. I servizi sociali tolgono tre figli alla mamma sulla base di un disegno fatto in classe, le accuse di maltrattamento sui piccoli si sono poi rivelate infondate. Costanza Tosi, Domenica 05/01/2020 su Il Giornale. Quando una mamma viene maltrattata dal marito, quando qualcuno subisce delle violenze che lo costringono a vivere nel terrore. Nella paura. La prima cosa che si consiglia di fare è denunciare tutto alle autorità. Nonostante i lividi e i racconti delle vittime non è sempre facile per chi interviene stabilire le colpe del “mostro”. Ci vogliono prove schiaccianti per privare qualsiasi individuo delle proprie libertà. Lo si deve cogliere in flagrante. O magari, appurare che non sia stato un evento singolo su cui si è costruito un castello di carta. Accertarsi, insomma, che per mesi la vittima abbia vissuto nella paura. Un calvario necessario per chi prova a chiedere aiuto, ma giusto. Trovarsi accusati di qualcosa che non si è fatto per un essere umano che nulla può contro la legge sarebbe un’irrecuperabile ingiustizia. Un errore giudiziario a cui nessun risarcimento in denaro riuscirebbe a mettere una toppa. Gli anni di vita nessuno riesce a renderteli indietro. Eppure, ci sono casi in cui l’accusa si confonde con la colpa accertata. Ancora prima di un processo. Ancora prima delle prove. Il paradosso è enorme. Coloro che dovrebbero proteggere le presunte vittime si trasformano, in un batter d’occhio, nei carnefici. È successo in Ciociaria, a Ceccano. Ancora una volta a dei minori. Ancora una volta ad una famiglia di persone per bene. Ancora una volta, l’accusa parte da un'interpretazione farlocca di un disegno fatto a scuola. Siamo nella primavera scorsa quando, due genitori, lui quarantenne che lavora come corriere, lei casalinga, finiscono nella trappola dei servizi sociali. Attaccati dal Tribunale dei minori e accusati di violenze sui loro tre bambini. Tutto parte da una segnalazione. Un giorno, mentre si trovava a scuola, la primogenita della coppia, una bimba di 5 anni con qualche deficit di apprendimento e per questo affiancata da una maestra di sostegno, disegna su un foglio la mamma con in mano un mattarello. Probabilmente la immaginava a cucinare, a stirare la pasta di qualche torta preparata a casa. Verrebbe da pensare. Non a tutti a quanto pare. Perché, quel disegno, è stato interpretato come un campanello d’allarme. Il matterello è diventato l’arma con cui la madre avrebbe maltrattato la piccola e questo le è costato l’allontanamento dai suoi tre figli. Alcuni giorni prima del fatidico disegno, la piccola era arrivata a scuola con alcuni graffi, e aveva raccontato di esserseli procurati mentre giocava a pallone col cuginetto. Una versione a cui la maestra già non aveva creduto e che ha lanciato i sospetti sulla famiglia della bimba. Il disegno del matterello è stato subito accolto come la prova schiacciante dei dubbi dell’educatrice, che ha segnalato la questione ai servizi sociali. In quattro e quattr’otto è scattata la denuncia alla Procura e al Tribunale dei minori che ha disposto l'immediato allontanamento dei tre figli dalla coppia. Persino l'ultimo, nato da pochi giorni e ancora ricoverato all'ospedale Gemelli di Roma per l'ittero neonatale. È stato portato in un istituto di Roma dove ha continuato le cure. Con il tempo e le indagini, le accuse si sono dimostrate completamente infondate. A dimostrarlo è stata la dottoressa Francesca Coppola, specialista di neuropsichiatria infantile, che ha lavorato sull' incidente probatorio e stilato una relazione che ha tolto i dubbi sull’innocenza della mamma. Ma la decisione affrettata del Tribunale i suoi danni li aveva già fatti. E adesso recuperare il colpo potrebbe non essere banale. Sopratutto per il più piccino. Che non ha mai abbracciato i suoi genitori e a cui non è stato concesso neanche di essere allattato dalla propria madre. Tutto per un’interpretazione errata di un disegno di una bambina.

Affidi illeciti, la preghiera di Natale dei genitori: "Gesù riportaci i nostri figli". In Piemonte, la regione record per allontanamento di minori, l'iniziativa di Natale per denunciare presunti affidi illeciti e abusi nelle comunità. Sui casi indaga una commissione regionale. Elena Barlozzari, Venerdì 03/01/2020, su Il Giornale. Ci sono case dove il Natale non è mai arrivato. Sono le case senza bimbi, quelle dove gli abeti sono sguarniti di doni. Le case dei genitori che stanno risalendo la china più dura: riabbracciare i propri figli. Chi associa lo scandalo sui presunti affidi illeciti a Bibbiano sbaglia. Bibbiano non è solo quel luogo fisico diventato tristemente famoso in seguito all’inchiesta Angeli e Demoni. Bibbiano è ovunque una famiglia denunci l’ingiusto allontanamento dei figli. Proprio come accade a Torino, dove il network "No alla violenza sui bambini" ha raccolto decine di segnalazioni. Storie sottotaciute che da questa mattina adornano simbolicamente l’albero di Natale della stazione Porta Nuova con foto, disegni e lettere dei bimbi sottratti. Lo straziante messaggio associato all’iniziativa è: “Gesù Bambino riportaci i nostri figli”. A fornire il materiale ai volontari di "No alla violenza sui bambini" sono stati gli stessi genitori. “L’idea è partita da loro, noi gli abbiamo solo dato una mano a realizzarla, perché - ci spiega Barbara Scaglia, che ha curato il progetto - questo è il periodo dell’anno in cui la mancanza di un figlio si sente di più”. Barbara, biologa di professione e filantropa per vocazione, assiste da anni i bimbi in casa famiglia con progetti di volontariato. È a lei che si sono rivolte alcune famiglie di Torino e provincia per denunciare i soprusi subiti. “Le segnalazioni principali - racconta - riguardano la sottrazione di minori con modalità poco ortodosse e senza cause gravi da giustificare l’allontanamento”. Come è stato per Lucia, nome di fantasia della giovane mamma che abbiamo incontrato nell’hinterland torinese un paio di mesi fa. Lei ci aveva raccontato di essere stata vittima di una vera e propria rappresaglia da parte dei servizi sociali, che le hanno strappato dalle braccia tre figli minori. La sua colpa? Aver denunciato sui social network i maltrattamenti subiti nella comunità mamma-bambino dove risiedeva. Un caso, sottolinea la Scaglia, tutt’altro che isolato: “Nelle strutture di accoglienza per minori, spesso, si consumano episodi gravi, ma sono poche le mamme che hanno il coraggio di metterci la faccia e denunciare perché la maggior parte di loro teme ripercussioni”. Non solo maltrattamenti e violenze psicologiche, stando alla documentazione messa insieme dalla Scaglia, in alcuni centri di accoglienza le condizioni igienico sanitarie sarebbero da incubo: tra infestazioni di scarafaggi e ratti e cibi avariati. Indagare quello che accade all’interno di questi luoghi protetti però non è facile, come dimostra quello che è capitato lo scorso settembre all’assessore regionale al welfare Chiara Caucino. Quando si è presentata davanti ai cancelli di una comunità terapeutica per minori nell’Astigiano per un controllo ispettivo è stata lasciata alla porta. “Ci sono strutture - prosegue la Scaglia - dove vengono somministrati antidepressivi e ansiolitici ai minori all’insaputa dei genitori”. “Tutte le segnalazioni che abbiamo raccolto in questi mesi - chiarisce - verranno valutate dalla commissione di indagine regionale e siamo fiduciosi che se ne venga a capo”. L’organo in questione, come vi abbiamo già raccontato, si è insediato a Palazzo Lascaris ad ottobre scorso su iniziativa del consigliere regionale di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone. Lui è uno dei primi a sostenere che Bibbiano sia solo la punta dell’iceberg. E che il presunto “sistema Foti” affondi le sue radici proprio qui, nella regione dove ha sede la Hansel e Gretel e dove il terapeuta è nato e cresciuto professionalmente. “Stiamo approfondendo storie da incubo - racconta il consigliere - di neonati allontanati per abusi mai provati, minori non restituiti nemmeno dopo l’archiviazione delle accuse, bambini riempiti di psicofarmaci nelle comunità terapeutiche e molto altro ancora”. “In questi mesi - prosegue Marrone - mi sono convinto sempre di più che le radici del cosiddetto 'sistema Bibbiano' si trovino in Piemonte”. “È bene ricordare - aggiunge - che questa è la regione record per allontanamenti di minori, con la percentuale al 4 per mille rispetto alla media nazionale del 2,7 per mille”. Nasce da qui l’esigenza di fare luce attraverso una commissione regionale che dia impulso alla magistratura. “La fine dei lavori è prevista a primavera, gli esiti dell’indagine - chiarisce Marrone - confluiranno in una relazione conclusiva che diventerà un atto formale della Regione Piemonte”. “Il dossier verrà quindi inviato alle procure piemontesi interessate per territorio, nella speranza - conclude il consigliere - che partano dei procedimenti giudiziari veri e propri. Famiglie e bambini esigono giustizia”.

Bibbiano, il gip affossa gli indagati: "Un tasso potenziale di criminalità". Secondo il gip, i fatti di Bibbiano sono frutto di un “programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Costanza Tosi, Domenica 29/12/2019, su Il Giornale. Due dei principali indagati dell’inchiesta Angeli e Demoni, condotta dalla procura di Reggio Emilia sui casi dei presunti affidi illeciti, sono tornati in libertà, ma le valutazioni del gip sui loro profili fanno emergere circostanze sempre più preoccupanti. Federica Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza da mesi al centro delle indagini sui fatti di Bibbiano con l’accusa di aver stilato false relazioni per togliere i bimbi alle proprie famiglie sulla base di fatti mai accaduti, adesso non è più agli arresti domiciliari. Così anche Francesco Monopoli, collega di Anghinolfi finito nel registro degli indagati. Le motivazioni del ritiro delle misure cautelari nei confronti dei due assistenti sociali stanno nell’impossibilità, considerando la fase finale a cui sono ormai giunte le indagini, di inquinare le prove. L’inchiesta sulle storie dei bambini di Bibbiano sta arrivando a conclusione e gli elementi di prova raccolti “cristallizzati” e “solidi”, secondo le ultime valutazioni del gip aprirebbero scenari che descrivono i principali indagati come le menti di un “programma criminoso unitario finalizzato a sostenere l’esistenza di abusi in realtà mai avvenuti”. Secondo le carte, Monopoli, Anghinolfi, ma anche Nadia Bolognini della Onlus Hansel e Gretel guidata dal guru Claudio Foti e la psicologa Imelda Bonaretti, lavoravano per smascherare una rete di pedofili che agiva nella Val d’Enza e, sulla base dei fatti avvenuti nella Bassa Modenese circa venti anni fa, cercavano di confermare attraverso falsi racconti l’esistenza dell’organizzazione pericolosa. Un film creato ad arte. Di fatto, la rete di pedofili non sarebbe mai esistita. E il meccanismo, ben collaudato, messo su dagli indagati per riuscire a denunciare abusi mai avvenuti e così strappare i figli dalle proprie famiglie naturali porta il gip ad una sola conclusione. Secondo le valutazioni, la personalità di Anghinolfi “risulta mostrare un peculiare atteggiamento che denota il suo tasso potenziale di criminalità”. Per il giudice, la capa dei servizi simpatizzante delle famglie arcobaleno: “È fortemente corrispondente per indole anche per inclinazione personale e comunanza ideologica alle posizioni aprioristiche di cui risulta ispiratrice (al pari di Monopoli, Foti e Bolognini)” e, sarebbero “la sua stessa condizione personale e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la causa dell'abuso da dimostrarsi a ogni costo”. E in effetti, per riuscire a dimostrare l’esistenza dei mostri immaginari con i quali combattevano, gli indagati erano arrivati ad insinuare perfino che tra gli orchi che stupravano i bambini fossero coinvolti giudici, magistrati e forze dell’ordine. A raccontarlo alcuni testimoni. “Monopoli mi disse che vi era una cerchia di persone, che mi lasciò intendere essere molto potenti, dedita alla pedofilia. Una cerchia a cui le famiglie dei bambini da loro protetti avevano venduto i propri figli per soddisfare le pulsioni sessuali del gruppo”. Ha raccontato Anna Maria Capponcelli, consulente tecnico del Tribunale per i minorenni di Bologna. Una storia completamente inventata. Non la sola, secondo le testimonianze di Cinzia Magnarelli, che ha invece ammesso che Monopoli le aveva parlato di “racconti dei bimbi da cui emergeva la sussistenza di omicidi di altri bambini, ma anche episodi di cannibalismo e rituali religiosi satanici”. Il sequel dei Diavoli della Bassa era il filo conduttore dei racconti di Monopoli. A parlare delle storie degli stupratori di bambini all' ex comandante della polizia municipale Cristina Caggiati, era stata invece Anghinolfi che, racconta la testimone, “da diversi anni mi parlava di una rete di pedofili che, la stessa, ipotizzava essere operante anche nel territorio della Val d' Enza”. Ma c’è di più. Questa volta la Anghinolfi aveva cercato di ampliare ulteriormente la cerchia. Nel racconto aveva menzionato, oltre a magistrati e forze dell’ordine, anche gli “ecclesiastici”. E, come se non bastasse, parlò di intrecci con la 'ndrangheta per poi arrivare a sostenere che anche il piccolo Tommaso Onofri, rapito e ucciso nel 2006 a Parma da un muratore per chiedere un riscatto, fosse tra le vittime di questa rete di pedofili. Storie dell’orrore senza un pizzico di verità ma che servivano ai protagonisti dell’inchiesta per giustificare la loro ossessione nell'accusare i genitori di abusi mai avvenuti e arrivare a togliere i bimbi alle famiglie. A confermarlo sono due psicologhe le cui testimonianze sono finite a verbale: “Loro (riferendosi ad Anghinolfi e Monopoli, ndr), tenevano in mente prevalentemente l'obiettivo abuso sessuale, tutto ruotava attorno a tale obiettivo e su di esso ci veniva chiesto di orientare i nostri accertamenti anche quando vi erano versioni alternative all' abuso su cui lavorare e da approfondire”. E sebbene i due indagati siano tornati ad essere uomini liberi, il gioco illecito è stato smascherato e i due non potranno continuare a rovinare la vita alle famiglie a causa delle loro ossessioni ideologiche. Monopoli e Anghinolfi sono stati infatti sospesi dall’attività. Dopo tutto, osserva il gip, “i contatti con il mondo politico e ideologico di riferimento, proprio in ragione dell'ampio risalto dato dai mass media alla vicenda non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi (...), posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe costituirà un adeguato cordone sanitario più di qualsivoglia altra misura cautelare”.

Allontanata da casa dai servizi sociali ora ritira le accuse: "Papà, scusami: ho sbagliato". I servizi sociali la affidarono ad una casa famiglia dopo che la ragazzina riuscì ad accusare il padre di violenze fisiche mai avvenute. Dopo un lungo calvario il papà è stato assolto. Costanza Tosi, Lunedì 09/12/2019, su Il Giornale. Era stata allontanata dal padre dai servizi sociali dopo averlo accusato di violenza verbale e fisica nei suoi confronti. Oggi ha vent’anni e chiede perdono: “Papà, scusami. Ho sbagliato”. Sono passati 9 anni da quando Sara (nome di fantasia, ndr), allora 11enne, iniziò a denunciare il papà che la maltrattava. In quattro e quattrott’otto il padre, un 55enne straniero che vive a Reggio Emilia finì a processo per maltrattamenti e lesioni aggravate alla figlia. La ricostruzione investigativa metteva nero su bianco fatti atroci. Si sosteneva che la ragazza avesse ricevuto, nel 2012, minacce di morte da parte del papà. “Ti taglio la gola”. E poi ancora calci e pugni. Tanto che la ragazzina era costretta a chiudersi in camera per la paura. Poi, l’aggravante del coltello, che il padre avrebbe puntato addosso alla figlia minacciandola. Una storia orribile che, a poco a poco si è rivelata una messa in scena dolorosa. Un racconto montato di vicende mai avvenute. Tutte “menzogne”, così adesso le descrivono i giudici d’Appello. Che parlano nella sentenza, come riporta La Nazione, di bugie “frutto di un rifiuto della figura paterna derivante dalle limitazioni che le venivano imposte”. Le accuse sono poi cadute, tutte, dopo la sentenza di primo grado nel 2017, in cui il giudice Luca Ramponi, rigettò la richiesta di tre anni di condanna da parte del magistrato e ribadita anche dalla Procura generale di Bologna. Troppo tardi però, per risparmiare al padre, che si è sempre dichiarato innocente, la sofferenza di vedersi allontanare la sua bambina. Nel 2013 Sara è stata portata via da casa e affidata, dai servizi sociali della Val d’Enza, ad una comunità. Il tribunale dei minori aveva accettato la richiesta degli operatori dei servizi, decretando che la piccola doveva stare lontana dal padre perché vittima di “violenza verbale e psicologica dei genitori, continui litigi, mancanza di accudimento materiale e affettivo”. I genitori vennero accusati “di vedere il loro modello culturale come l' unico possibile, senza porsi in un' ottica di confronto” con la figlia. Un verdetto che ha portato la bambina a vivere nella casa famiglia fino allo scoccare dei suoi diciotto anni. Sette anni lontana dai propri affetti e con la possibilità di vedere mamma e papà di tanto in tanto, per periodi brevi e incontri sporadici. Una decisione che ha costretto il papà a vivere nella sofferenza per anni. “Stavo morendo di dolore. I servizi sociali hanno distrutto la mia famiglia - ha raccontato al suo avvocato difensore Ernesto D' Andrea - io volevo bene a mia figlia, ma se lei, così giovane, mi chiedeva a mezzanotte di uscire io le dicevo di no”. Nel periodo in cui si trovava affidata alla casa famiglia, Sara, attraverso il curatore speciale, ha chiesto al padre 50mila euro di risarcimento. A testimoniare, in aula di tribunale, era stata chiamata Cinzia Magnarelli. L’assistente sociale finita nel registro degli indagati per l’inchiesta su i bambini di Bibbiano, che ha ammesso di aver falsificato le relazioni sui minori. “Mi ha parlato di numerose percosse”, del “coltello puntato contro”, e mi ha detto che “la madre e le sorelle fossero a conoscenza degli episodi, a cui non era mai stato posto fine, e che anzi erano loro stesse vittime”. Aveva raccontato l’indagata in aula. Ma la madre e le sorelle si opposero ai racconti fantasiosi per far emergere la verità e, come racconta l’avvocato, “hanno smentito Magnarelli e discolpato il padre”. Ad essere ascoltata dal giudice, in udienza, anche un’altra delle indagate per l’inchiesta “Angeli e Demoni”, Federica Anghinolfi. La responsabile dei servizi sociali della Val D’enza dichiarò che “la personalità non serena e non del tutto sviluppata della ragazza è certificata anche dell' Ausl. Queste ferite si possono anche rimarginare se ci si lavora e se ci sono ambienti idonei”. E quali fossero gli ambienti idonei lo avrebbero deciso proprio loro. Gli stessi servizi sociali che mandarono la piccola Katia (una delle bambine finite nelle carte dell’ordinanza della procura nell’ambito dell’inchiesta sugli affidi illeciti) a vivere con le due amiche di Anghinolfi di cui, noi de IlGiornale.it, abbiamo raccontato le assurde vicende che la coppia di mamme affidatarie ha fatto vivere alla piccola. Scaraventata in strada sotto la pioggia con urla e minacce, solo perchè non voleva accusare il papà di abusi mai avvenuti.

Bibbiano, tutto quello che c'è da sapere. L'inchiesta "Angeli e Demoni" dalle carte della Procura alla questione politica. Tutto quello che c'è da sapere sullo scandalo di Bibbiano. Costanza Tosi, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. L'inchiesta coordinata dalla procura di Reggio Emilia che prende il nome di "Angeli e Demoni" vede al centro della indagini la rete di servizi sociali della Val D'Enza e del comune di Bibbiano. Secondo quanto scritto nell'ordinanza del tribunale, alcuni degli operatori dei servizi sociali avrebbero falsificato le relazioni da consegnare al Tribunale dei Minori in modo da riuscire ad allontanare i bambini dalle proprie famiglie per poi darli in affido ad amici e conoscenti. Un meccanismo messo in piedi per interessi economici. E non solo. Dietro a questi traffici, si legge nelle carte, ci sarebbe un "fattore ideologico". Dall'inchiesta è emersa una serie di accordi sottobanco e favoritismi che svela un'enorme rete formata da enti privati e pubblici e collegata anche dalle istituzioni. Un sistema fatto di intrecci e atrocità che, per anni, sarebbe servito a favorire un business illecito di diverse centinaia di migliaia di euro.

Le indagini. Tutto è iniziato nell'estate del 2019. Quando il pm di Reggio Emilia Valentina Salvi, insospettita dall’alto numero di denunce fatte dai servizi sociali nei confronti di genitori accusati di compiere violenze in famiglia, ha deciso di far partire le indagini, che hanno coinvolto avvocati, psicologi, assistenti sociali e politici. Tra le segnalazioni sospette, vi era un gran numero di accuse di abusi sessuali e maltrattamenti che, nella maggior parte dei casi, erano state archiviate perché infondate o prive di prove. Dall'inchiesta della procura sono emerse finte relazioni, falsi documenti e pressioni psicologiche utilizzate dagli psicologi per riuscire a plagiare i minori. Vere e proprie opere di convincimento, meccanismi di persuasione e storie di fantasia per screditare le famiglie dei piccoli. Una volta "plagiati" i bambini avrebbero dovuto denunciare i genitori, raccontando di aver subito violenze mai avvenute.

Lavaggio del cervello e torture. Secondo quanto emerge dai documenti, i bambini, venivano manipolati nel corso delle sedute di psicoterapia alle quali erano tenuti a sottoporsi, come indicato dai servizi sociali. Per condizionare le dichiarazioni dei minori, i terapeuti utilizzavano anche dei macchinari. A confermarlo uno strumento trovato, e poi sequestrato, durante le perquisizioni presso il centro "La Cura", luogo in cui si svolgevano gli incontri tra le piccole vittime e gli psicologi. Lo strumento, definito dagli stessi terapeuti "macchinetta dei ricordi", avrebbe aiutato i bambini a eliminare dalla mente le brutte vicende del passato, come si evince dalle intercettazioni. Quei ricordi "riposti in cantina, ma sempre pronti a tornare fuori". Inizialmente si era parlato elettrochoc, diffondendo la bufala degli elettrodi attaccati alle mani e ai piedini dei bambini, che venivano assaliti da scosse elettriche. In realtà, come avevano specificato gli investigatori di Reggio Emilia, le cose non stavano proprio così. I macchinari sui corpicini dei bambini sono stati utilizzati, ma non si trattava di scosse elettriche. Bensì di una terapia utilizzata pur non essendo idonea a nessuno dei casi in questione. Su una bambina in cura è stato utilizzato un dispositivo chiamato Neurotek. Si tratta di un macchinario inventato negli Usa, che non produce scosse, bensì trasmette piccole vibrazioni. La terapia per la quale sarebbe stata utilizzata la macchina è chiamata Emdr. Letteralmente significa desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari e si tratta di "un approccio terapeutico utilizzato per il trattamento del trauma e di problematiche legate allo stress, in particolare allo stress traumatico". Nelle 277 pagine dell’inchiesta esaminate da ilGiornale.it, vengono riportate ore e ore di intercettazioni fatte dai carabinieri di Reggio Emilia, che testimoniano i lavaggi del cervello ad opera dei medici nei confronti dei bambini. Secondo quanto registrato durante gli incontri con gli psicologi, i minori venivano spinti a confessare episodi mai avvenuti (nella maggior parte dei casi, abusi sessuali o violenze fisiche). Per rendere ancora più credibili le violenze, venivano addirittura "manomessi" i disegni fatti dai bambini. È successo infatti che, gli psicologi, infatti, aggiungessero particolari inquietanti, spesso con una chiara connotazione sessuale. Durante le ore di terapia, gli operatori mettevano in scena anche "giochi di ruolo" per influenzare i bambini, dove i terapeuti si travestivano da personaggi delle fiabe per rappresentare i loro genitori intenti a far loro del male.

Il giro di soldi e le mazzette. Questi, secondo l'indagine "Angeli e demoni", erano solo alcuni dei metodi adottati nei confronti dei bambini con l'obiettivo di allontanarli dai genitori, per poi darli in affido e sottoporli ad un circuito di cure private a pagamento della Onlus piemontese Hansel e Gretel. L’associazione, gestista da Claudio Foti assieme alla moglie Nadia Bolognini, si sarebbe aggiudicata l’utilizzo di ambienti pubblici senza partecipare a nessuna gara d’appalto e occupando lo stabile senza pagare alcun canone d’affitto. Foti è da molti considerato uno specialista in materia di trattamento di minori vittime di abusi. Tema su cui, ha scritto persino molti trattati e tenuto lezioni, in tutta Italia, per formare, con il suo metodo, altri psicoterapeuti. Secondo le accuse, una volta affidati alle cure della Hansel e Gretel, i bambini sarebbero stati sottoposti a sedute di psicoterapia pagate, dal Comune, circa 135 euro l’una, "a fronte della media di 60-70 euro e nonostante il fatto che l’Asl potesse farsi carico gratuitamente del servizio". Un meccanismo che avrebbe causato un danno economico per l’Asl di Reggio Emilia e per l’Unione, quantificabile in 200mila euro. Funzionava così. Il pagamento del lavoro di psicoterapia avveniva senza rispettare le solite procedure d’appalto: "Gli affidatari venivano incaricati dai Servizi Sociali di accompagnare i bambini alle sedute private e di pagare le relative fatture a proprio nome", si legge. Ma questi soldi venivano poi ricevuti dagli affidatari attraverso rimborsi, sotto una finta causale di pagamento. Così venivano falsificati anche i bilanci dell'Unione dei Comuni coinvolti. Dietro questo meccanismo intriso di illeciti sarebbe stato individuato, per prima cosa, un interesse economico che legava i dipendenti dell’Unione ai responsabili della onlus privata. Da una parte la Onlus diventava affidataria dell’intero servizio di psicoterapia voluto dall’Ente e, dall’altra, alcuni dipendenti dello stesso Ente ottenevano incarichi di docenza retribuiti per master e corsi di formazione tenuti sempre dalla Onlus. Un sistema talmente consolidato da aver portato all’apertura di un Centro Specialistico Regionale per il trattamento del trauma infantile derivante da abusi sessuali e maltrattamenti. Risultato poi, di fatto, una costola della Onlus. E, proprio all’interno di questo centro specialistico, veniva garantita ai minori l’assistenza legale. L’avvocato, selezionato dai Servizi Sociali, era sempre lo stesso. Anche lui indagato per "concorso in abuso d’ufficio". Per favorire il legale, inoltre, sarebbero state create false gare d’appalto, gestite sempre dalla dirigente del Servizio.

Bambini nelle mani di amici e conoscenti. Secondo quanto emerge dall'ordinanza della procura di Reggio Emilia non sono pochi i casi in cui gli affidatari, a cui venivano dati i bambini, avevano relazioni amicali o, addirittura, sentimentali con i responsabili dei servizi sociali. Spesso coppie arcobaleno. Ed è proprio in quei casi che molte volte i soldi per il mantenimento che venivano dati alle coppie di affidatari superavano la soglia minima consentita. Il tutto giustificato da falsi documenti che sostenevano che il bambino in questione avesse bisogno di maggiori cure in quanto problematico. Tra i casi riportati nell’ordinanza vi sarebbe, infatti, una bambina data in affido a Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, una coppia omosessuale unitasi civilmente nel 2018. Federica Anghinolfi, capo dei servizi sociali finiti sotto accusa, aveva avuto relazioni amicali con la coppia, e con Bassmaji risulta esserci stata persino una relazione sentimentale.

Gli indagati di Bibbiano. È finito agli arresti domiciliari il sindaco del Partito democratico di Bibbiano, Andrea Carletti. Nei suoi confronti, il gip Luca Ramponi, ha rifiutato per due volte la richiesta da lui avanzata di liberazione. Al momento, sospeso dal suo incarico pubblico dalla Prefettura e autosospeso dal Pd, il primo cittadino attende le decisioni che saranno prese sulla misura cautelare dal Tribunale del Riesame nella prossima udienza. Oltre a lui, si trovano agli arresti anche una coordinatrice dei servizi sociali finiti sotto accusa, un’assistente sociale e due psicoterapeuti della Onlus coinvolta: Claudio Foti e Nadia Bolognini. Foti è stato accusato di aver indotto con la forza una ragazza a testimoniare contro il proprio padre. L’uomo venne accusato dalla figlia di abusi sessuali. Storia che poi la ragazza ha smentito con decisione in aula di tribunale. Nei confronti del terapeuta anche l’accusa di abuso d’ufficio in concorso. Si suppone che Foti fosse a conoscienza del fatto che il lavoro all’interno de "La Cura" doveva essere preceduto da una regolare gara pubblica. Al momento, per lui gli arresti domiciliari sono stati revocati, sostituiti dall’obbligo di dimora a Pinerolo. Si trova agli arresti domiciliari anche la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d’Enza, Federica Anghinolfi. Per altre otto persone sono state eseguite misure cautelari di natura interdittiva ed è stato imposto il divieto temporaneo di esercitare attività professionali. Si tratta di operatori socio-sanitari, dirigenti comunali e anche educatori. Nei confronti di una coppia affidataria accusata di maltrattamenti, sono state applicate misure coercitive di divieto di avvicinamento al minore. Gli indagati sono in totale 29. Tra loro ci sono anche nomi noti, come l'avvocato Marco Scarpati e il direttore generale dell'Ausl Fausto Nicolini. Per loro non sono state applicate misure cautelari. I due sono al momento accusati di abuso d'ufficio in concorso con il sindaco Andrea Carletti. Nell’inchiesta sono indagati anche gli ex sindaci del Pd di Montecchio Emilia e Cavriago, Paolo Colli e Paolo Burani, in carica all’epoca dei fatti. Tra i reati contestati frode processuale, depistaggio, abuso d’ufficio, maltrattamento su minori, lesioni gravissime, falso in atto pubblico, violenza privata, tentata estorsione e peculato d’uso. Intanto continuano le indagini su settanta casi di affido.

Bibbiano e la questione politica. “Verrà creata una banca dati e nascerà una squadra speciale per la protezione dei minori. Si confronterà con i ministeri, e la commissione parlamentare che verrà istituita, per avere un monitoraggio del percorso dei piccoli affidati. Tutti gli operatori dovranno sentire il fiato sul collo da parte della magistratura che farà i controlli”. Così annunciò il pentastellato ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede poco dopo la pubblicazione dell’inchiesta "Angeli e Demoni". Fu forse il primo a pronunciarsi sul caso, dando il via ad uno scontro politico che ancora non ha trovato soluzione. L’inclusione nel registro degli indagati di tre sindaci targati Pd ha da subito scatenato l’ira dei partiti. Dalla Lega, al Movimento Cinque Stelle, fino a Fratelli d’Italia (uno dei partiti che più ha condotto la lotta per tenere accesi i riflettori sulla vicenda), tutti si sono scagliati contro il Partito democratico, accusando i vertici per non aver preso subito provvedimenti nei confronti dei propri sindaci e di aver messo davanti il garantismo, tutelando gli indagati, ancor prima di spendere due parole nei confronti delle presunte vittime. Un silenzio, quello dei dem, che ha scatenato l’ira del leader del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, che in un video messaggio pubblicato sui suoi canali social arrivò a definire gli allora avversari di governo "il partito di Bibbiano". Un appellativo incettabile per i vertici del Pd che, a suo tempo, minacciarono querele a tutti coloro che, come Di Maio, si fossero permessi di associare il nome del partito all’orrenda vicenda (di cui però i dem hanno continuato a parlare poco o nulla).

Nel frattempo, da luglio, l’ex governo in carica composto da Lega e Cinque Stelle decise di far partire una commissione d’inchiesta parlamentare sugli affidi dei minori, per cercare di fare chiarezza sulle vicenda e puntare la lente d’ingrandimento sul tema degli affidamenti in tutta Italia. Decisi e compatti, i due partiti avevano deciso di indagare sullo scandalo mentre, il Partito Democratico, sviava l’argomento, tanto da far infuriare l’opinione pubblica. Nei mesi successivi alla pubblicazione della vicenda, per tutte le strade d’Italia si è diffuso lo slogan "Parlateci Di Bibbiano", con le lettere delle prime due parole che ricordano il simbolo dei dem. Ma, se prima dello strappo dell’ex vicepremier Matteo Salvini, il Movimento Cinque Stelle aveva incluso nei punti che descrivevano le priorità dei pentastellati nel programma di Governo la riforma sugli affidi. Dopo solo due mesi e con un alleanza capovolta, le cose sembrano essere cambiate. Nei punti presentati nel programma dal neo governo giallorosso, la riforma sugli affidamenti dei minori è del tutto scomparsa. Una sorpresa, che considerato il precedente silenzio del Partito Democratico sulla questione, fa pensare che i gialli si siano piegati al volere dei dem e abbiano deciso di cucirsi la bocca. Un cambio di rotta che riaccende le polemiche.

Bibbiano, quegli esorcismi sulla minore per convincerla di falsi abusi sessuali di gruppo. Secondo la procura, la compagna di Foti anche lei psicoterapeuta a Bibbiano, "fomentava i racconti inerenti incredibili omicidi plurimi e riti sessuali di gruppo su bambini da parte di uomini mascherati". Costanza Tosi, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. A Bibbiano gli psicologi di Claudio Foti effettuavano esorcismi sui bambini per convincerli di a confessare di aver subito abusi mai avvenuti. Storie dell’orrore raccontante ai piccoli per inculcare nella mente dei bimbi di aver subito abusi, in passato, da parte dei propri genitori. Storie inventate ad arte e raccontate ad una minore per incutere paura alla vittima e arrivare a convincerla di doversi liberare di finti ricordi sepolti in una parte della loro mente che la piccola avrebbe manifestato in atteggiamenti aggressivi verso i suoi coetanei. Nell’avviso di chiusura delle indagini preliminari, consegnato dalla procura di Reggio Emilia il 13 di gennaio, sui casi dell’inchiesta “Angeli e Demoni” spuntano nuovi dettagli agghiaccianti sulle sedute di psicoterapia tenute da Nadia Bolognini. Psicologa che operava a Bibbiano per la Hansel e Gretel e ex compagna del guru torinese, Claudio Foti. Bolognini, avrebbe cercato di sviare le indagini relative al procedimento a carico di un papà accusato di maltrattamenti nei confronti di una delle sue figlie durante le sedute di psicoterapia effettuate con la minore, presunta abusata, alterando “lo stato psicologico ed emotivo della predetta”. Meschini giochi psicologici per plagiare la mente della vittima messi in atto in maniera costante ad ogni incontro per più di un anno. Precisamente dal settembre del 2017 a dicembre del 2018. La psicologa, amica di Foti e Anghinolfi, voleva convincere a tutti i costi la bambina di aver subito atti sessuali da parte del padre e persino da un gruppo di amici di lui. Per farlo, aveva messo in piedi tecniche di persuasione più vicine a riti di stregoneria che non alle regole terapeutiche riconosciute dall’Ordine degli psicologi. Bolognini, sostiene la procura, “convinceva e ribadiva più volte e con convinzione alla bambina che all’interno del suo corpo, a seguito degli abusi e dei maltrattamenti assertivamente subiti, si era creata una doppia personalità malvagia che riusciva a prendere il sopravvento sulla “parte buona” inducendola a compiere atti aggressivi e ingiuriosi nei confronti dei coetanei; effettuava, inoltre, anche una sorta di atto esorcistico in cui tentava di interloquire con tale entità malvagia presente nella bambina, chiedendo che quest’ultima autorizzasse “fisicamente” la bambina a rispondere alle sue domande muovendo una parte del corpo". Un teatrino messo in atto per intrappolare la minore nelle convinzioni dei “demoni” e portare il procedimento penale a carico del padre innocente ad un finale catastrofico che avrebbe, con ogni probabilità, privato per sempre la piccola dell’amore dei suoi genitori naturali. Un’assurdità che, ormai un ventennio fa, portò decine di famiglie della Val d’Enza a finire vittime di uno dei più grandi scandali giudiziari italiani. L’inchiesta su "I Diavoli della Bassa". Gli episodi di quello scempio, poi ripresi dal giornalista Pablo Trincia attraverso il suo podcast Veleno, oggi sembrano essere stati d’ispirazione alle assurde credenze degli indagati di Bibbiano. Non solo perché ancora una volta si sono compiuti atti atroci per strappare i bambini dalle proprie famiglie accusando ingiustamente decine di persone innocenti di aver compiuto uno degli atti più riprovevoli che esistano nei confronti di bambini indifesi, ma anche perché, pure a Bibbiano si era arrivati a parlare di finte sette sataniche di pedofili. Aleggiava tra i professionisti del settore, nel paesino della Val D’Enza, la storia dei satinasti che abusavano i piccini. A raccontarlo sono state alcune assistenti sociali che, attraverso le loro testimonianze in aula di tribunale, hanno ammesso di essere state plagiate attraverso le storie dell’orrore raccontate, con convinzione, della capa dei servizi sociali, Federica Anghinolfi (ora indagata). La conferma della comune e malata convinzione la ritroviamo anche tra le righe dei capi d’accusa in cui la procura trascrive, a titolo esemplificativo, alcuni incontri tra Nadia Bolognini e una minore in cura presso di lei. “Fomentava i racconti riportati alla terapeuta dall’affidataria, inerenti incredibili omicidi plurimi e riti sessuali di gruppo su bambini da parte di uomini mascherati, amici del padre, avvenuti la notte di Halloween (con il sangue dei bambini sarebbero stati poi truccati i bambini presenti ai fatti, i quali venivano poi accompagnati in giro presso altre abitazioni per il consueto rito “dolcetto scherzetto”). A queste storie inventate la psicologa attribuiva la prova degli abusi subiti dalla bambina. Erano questi, secondo Bolognini, i momenti atroci che la piccina nascondeva nella propria memoria. La riprova “di ciò che di sadico e tremendo la bambina aveva vissuto in passato, ormai in parte dimenticato”. Dopo aver raccontato le oscenità del gruppo di pedofili ecco che la psicologa passava allo step successivo e “ribadiva sistematicamente alla bambina del pregiudizievole vissuto presso l'abitazione dei relativi genitori, sottolineando che la sua era una famiglia di merda”. Ora, la compagna di Foti dovrà rispondere a ventuno capi d’accusa tra cui, la frode processuale.

Bibbiano, quelle falsità scritte dagli assistenti sociali per confermare gli abusi. A Bibbiano i regali dei genitori non vennero mai consegnati ai minori e sulle relazioni stilate per il Tribunale dei Minori falsità e bugie per confermare gli abusi. Costanza Tosi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. A Bibbiano i minori venivano tenuti "isolati". Come se dovessero essere reclusi in un mondo a parte. Convinti del completo disinteresse dei propri genitori verso la loro sofferenza e plagiati a credere di essere stati salvati dai familiari a cui niente o poco importava di loro. Mentre mamma e papà gridavano giustizia dalle loro case. Impotenti davanti alle decisioni dei servizi sociali e del tribunale dei minori. Intrappolati in false accuse che solo il tempo avrebbe potuto smentire. Era questo il calvario che minori e famiglie erano costretti a vivere, in attesa che gli operatori dei servizi sociali, assieme agli psicologi della Hansel e Gretel istruiti da Claudio Foti, tentassero di inculcare nella mente innocente dei piccini di aver subito abusi e violenze dai propri genitori. Ogni minimo pretesto diventava la prova di un abuso mai avvenuto e da innocenti fogli bianchi si costruivano castelli di carta abitati da mostri creati ad arte. Storie create per lucrare sulla pelle dei bambini e portare avanti una battaglia in nome di un’ideologia malata. É così che a Bibbiano i “demoni” della Val d’Enza avevano messo su il sistema di affidi illeciti. A confermarlo è proprio la procura di Reggio Emilia. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari riguardo a un assistente sociale, indagato per falsa perizia, i pm riportano le gravità commesse da uno degli operatori finito nel registro egli indagati con l’accusa di falsa perizia. L’assistente avrebbe raccontato di un sogno fatto da uno dei piccoli che seguiva "in maniera non conforme al vero e con univoca connotazione sessuale". Nelle relazioni, stilate durante il periodo di osservazione del minore, lo psicologo “ometteva di riferire del desiderio della bambina di rivedere il padre”. Nessuno era a conoscenza secondo, la procura, "dell'isolamento a cui la avevano sottoposta" attraverso "il mancato recapito dei messaggi di affetto inviati" dai genitori. Secondo quanto riportato nelle ultime carte della procura, l’assistente sociale, avrebbe raccontato "in maniera non conforme al vero e con univoca connotazione sessuale, il contenuto di un sogno rivelato dalla bambina ad un'amica di famiglia, che in realtà era stato raccontato dalla bambina in maniera differente e con diverso significato”. Il modus operandi era sempre lo stesso. Si partiva da una teoria di base: a priori il minore era stato abusato. L’unica cosa che psicologi e assistenti sociali avrebbero dovuto fare era portare in tribunale le prove dell’abuso. Meglio se, attraverso la “spontanea” denuncia del piccolo. Anche se le prove non c’erano e non ci sarebbero mai state, convincere il bambino di aver subito violenze in casa tramite lavaggi del cervello e sedute psicologiche persuasive, sarebbe bastato a confermare le loro malate convinzioni e strappare definitivamente il piccolo dalla propria famiglia di origine per affidarlo ad una comunità o ad una coppia di genitori affidatari. Seguendo questo preciso schema l’assistente sociale, si legge, "sosteneva, dialogando con il perito, che la minore fosse stata vittima in passato di condotte abusanti che ancora dovevano essere scoperte; descriveva gli atteggiamenti della bambina di improvviso distacco dalla realtà correlati alla relativa situazione familiare ed ometteva di riferire al perito delle crisi epilettiche di cui era a conoscenza perché già diagnosticate". A smentire la versione dell’indagato durante il periodo di osservazione della piccola che, era stata affidata in maniera provvisoria ad una coppia, erano state proprio le affidatarie. Che non esitarono a riferire all’assistente sociale che “gli incubi della bambina non erano correlati a situazioni traumatiche vissute in passato, bensì all'uso dell'i-pad ed alla visione di alcuni cartoni animati, essendo gli incubi della bambina diminuiti proprio dall'interruzione dell'uso di quest’ultimi”. Dettaglio omesso nelle relazioni stilate dall’indagato.

QUEI PACCHI REGALO MAI CONSEGNATI. A confermare l’isolamento forzato dei minori, decine e decine di pacchi regalo recapitati dai genitori ai bambini affidati ai servizi sociali e mai arrivati a destinazione. Un dono per far sentire la vicinanza al proprio figlio. Un modo per far capire al bambino “mamma e papà ti pensano e non ti hanno abbandonato”. Ma come sarebbe stato possibile convincere i piccoli che era giusto portarli via dalle persone che li avevano messi al mondo se non facendogli credere che, ai genitori non importava niente di loro? In questo gioco malato e intriso di falsità e orrore i doni ai piccoli erano solo d’intralcio e quindi non vennero mai portati ai bambini. A confermarlo è un passaggio dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari nell'ambito dell'inchiesta "Angeli e Demoni" su un presunto sistema di affidi illegali. Uno scambio di messaggi su whatsapp rilevato attraverso i telefono sequestrati degli indagati. ”Avviso tutti i colleghi - si legge nell'avviso della procura di Reggio Emilia - che i pacchi con regali per bambini allontanati dalle famiglie continuano ad aumentare sempre più e siccome non vengono consegnati per diversi motivi anche nella maggior parte dei casi perché è meglio non farli avere ai bambini direi che la regola per il 2019 è quella che per salvare capre e cavoli diciamo ai genitori che il servizio non accetta alcun pacco da consegnare ai propri figli a meno che non lo facciano loro durante gli incontri protetti dove ci sono. Siete d’accordo?".

Bibbiano, nuovi dettagli choc su Federica Anghinolfi. Dagli ultimi documenti della procura sui fatti di Bibbiano emergono nuovi particolari agghiaccianti che incastrano gli assistenti sociali e le due donne omosessuali a cui Anghinolfi aveva affidato una bambina. Costanza Tosi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Non solo aveva affidato una delle bambine strappate ai propri genitori ad una coppia di amiche omosessuali evidentemente affette da squilibrio mentale, Federica Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali della Val D’Enza e tra le principali indagate nell’inchiesta Angeli e Demoni, avrebbe fatto di tutto pur di stradicare completamente la piccola dalla sua famiglia d’origine omettendo i segnali di sofferenza che la minore lanciava nel periodo in cui viveva con le due donne. Dagli ultimi documenti consegnati della procura di Reggio Emilia per la conclusione delle indagini preliminari (come riporta Il Resto del Carlino) emergono nuovi particolari agghiaccianti che incastrano gli assistenti sociali e le due donne. Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli avrebbero cercato, in tutti modi, di sospendere gli incontri tra la bambina, affidata a una coppia di donne omosessuali Daniela Bedogni e Fadia Bassmaj, indagate, e i genitori naturali, "senza alcuna motivazione, isolando la piccola e impedendo altresì lo scambio di corrispondenza e regali". A confermare il metodo meschino degli assistenti sociali dediti a spezzare definitivamente il legame affettivo tra i piccoli e i propri genitori sono alcuni messaggi ritrovati dagli inquirenti tra i due. "Come giustifichiamo la sospensione degli incontri protetti?", Domanda Monopoli alla capa. "Relax della minore...vacanza", risponde lei. Che un momento prima aveva palesato l’intenzione di "spostare l’attenzione per spostare l’emozione". La bambina doveva dimenticarsi dei propri genitori non venendo mai a conoscenza delle dimostrazioni d’affetto che questi cercavano di farle arrivare, nonostante la lontananza fisica alla quale erano costretti da mesi. Un giorno, il padre della piccola scrive all’educatrice Maria Vittoria Masdea (anche lei finita nel registro degli indagati), un messaggio da far recapitare alla figlia: "Non riesco a portarti fuori a mangiare il sushi, ti voglio un mondo di bene". Il pensiero, scritto dal papà, arriva nelle mani di Federica Anghinolfi che sentenzia: "Bene... questo messaggio non lo diremo alla bimba". Dietro lo scudo della tutela dei piccoli, gli assistenti facevano di tutto pur di allontanarli dalle persone che amavano. Pur di convincerli che le uniche persone con cui avrebbero dovuto imparare a convivere erano quelle a cui erano stati, forzatamente, affidati. Bugie e omissioni inondavano il processo dal principio. Per allontanare la piccina da casa infatti, secondo i pm, Francesco Monopoli e Federica Anghinolfi avrebbero anche relazionato che, nella casa paterna, era stato trovato del cibo avariato "lasciato sui mobili da diversi giorni". Circostanza smentita dai carabinieri che hanno proceduto ai sopralluoghi. Accusate dalla procura anche le due donne affidatarie, che avrebbero "omesso di riferire al perito particolari rilevanti relativi alla vita della minore". Se ogni singola parola detta sulla vita passata veniva interpretata dagli psicologi in modo tale da essere considerata una prova del disagio da cui la bimba doveva essere salvata, i racconti sulle giornate con la nuova famiglia, nel caso destassero preoccupazioni, venivano completamente ignorati. Le due donne non avrebbero mai consegnato "un disegno della bambina con le donne mano per mano con la frase ‘Vai via perché se ci sei tu non possiamo fare l’amore’". Così come la scritta sul disgusto provato "nel ricevere la buonanotte" da una delle due indagate "nuda", oltre che nell’assistere a un’effusione tra le due. Mai emersi, fino a che non sono finiti nelle mani degli inquirenti, nemmeno i sogni "descritti (dalla minore ndr) in fogli sequestrati, su spettacoli teatrali pornografici’ con ‘peni finti’ messi in scena dalle affidatarie". Non si fa fatica a crederci, se si pensa ai dettagli emersi nelle intercettazioni trascritte nella prima ordinanza. Dove si descrivono i comportamenti malati di una delle due donne, Daniela Bedogni. Ad emergere con evidenza è lo squilibrio mentale della donna che, in più occasioni e, mentre si trovava da sola nella sua auto, "instaurava lunghe conversazioni con soggetti immaginari". E tra le urla di totale delirio la donna alternava bestemmie, canti eucaristici e forti liti in cui si immaginava di sgridare bambini. Le donne sono indagate anche "per aver omesso di riferire al perito dell’intenso rapporto di amicizia tra Fadia Bassmaji e Federica Anghinolfi, e della condivisione di iniziative per la difesa dei diritti lgbt anche sugli affidi a omosessuali". Ad Anghinolfi contestati ancora altri favoritismi nei confronti di amici e conoscenti al fine di procurare vantaggi economici a questi. La direttrice dei servizi sociali infatti, avrebbe anche procurato all’ex compagna Cinzia Prudente, indagata, "un ingiusto profitto di 250 euro al mese per l’affido di una minore, in assenza di una reale necessità, anche dopo che la bambina era diventata maggiorenne, per incontrarla due volte al mese per due ore per prendere un caffè e chiacchierare, come indicato dalla stessa ragazza". L’atteggiamento intimidatorio della donna nei confronti di genitori e bimbi era diventato per lei l’arma di persuasione più forte per portare a termine il suo sporco gioco illecito. Ora indagata anche per violenza privata nei confronti di un’assistente sociale, la donna, avrebbe approfittato della posizione di debolezza di una neoassunta a tempo determinato, per costringerla "a redigere relazioni finalizzate ad allontanare minori contendenti circostanze false od omesse che avrebbero permesso all’autorità giudiziaria una valutazione ulteriore e diversa".

Bibbiano, spazi pubblici affidati alla Onlus di Foti. Secondo i pm, l'ex sindaco di Bibbiano Carletti, Federica Anghinolfi e altri indagati "procuravano un ingiusto vantaggio patrimoniale al centro studi Hansel e Gretel". Costanza Tosi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Spazi pubblici destinati agli operatori dell’Asl e gestiti, senza passare dalle obbligate gare d’appalto, dalla onlus Hansel e Gretel, al fine di avvantaggiare l’associazione di Claudio Foti e permettergli di guadagnare ingenti somme di denaro attraverso le sedute di psicoterapia ai minori individuati dai servizi sociali della Val D’Enza. In barba alla legge, i “demoni” di Bibbiano, avrebbero organizzato, di comune accordo, gli step per mettere in atto il progetto che sarebbe stato il fiore all’occhiello del sistema di affidi illeciti. Tra le menti del gioco illegale, secondo quanto emerso dalle ultime affermazioni dei pm, anche l’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Secondo le indagini della procura coordinate dal pm Valentina Salvi e dal procuratore Marco Mescolini, e ormai giunte a conclusione, il primo cittadino di Bibbiano (nonchè delegato dell'Unione Comuni Val d'Enza alla specifica materia delle politiche sociali), avrebbe favorito l’indagato Claudio Foti “al fine di consentire a quest'ultimo la prosecuzione illecita del servizio di psicoterapia”. Secondo il pubblico ministero, Carletti avrebbe portavano avanti il progetto, già avviato in precedenza, di una comunità che avrebbe ospitato ben 18 minori in affido. I piccoli sarebbero stati affidati alle cure "malsane" di Claudio Foti perchè individuati, dagli operatori dei servizi sociali, come presunte vittime di maltrattamenti o abusi sessuali. Sarebbe stato proprio Andrea Carletti a proporre di implementare l’idea del piano, che avrebbe dovuto prendere il nome di “Utopia”, a Bibbiano. Ora il sindaco Dem si ritrova indagato per abuso di ufficio e falsità ideologica. Per questo progetto, sottolinea l'avviso di conclusione indagini, "era stato già predisposto il progetto planimetrico, la suddivisione dei ruoli e concordata la retta giornaliera di 250 euro a minore in cui risultava già incorporato il servizio di psicoterapia specialistica”. Terapia che era stata già interamente affidata al centro studi Hansel e Gretel il quale avrebbe occupato con la propria sede un edificio adiacente alla nuova comunità di minori, curando, “verso corrispettivo, la formazione degli operatori sociali”. La nuova comunità, figlia del sistema di affidi da sempre portato in alto da Carletti e sponsorizzato come un esempio di eccellenza nell' ambito della lotta agli abusi sui minori, sarebbe stata gestita dalla Onlus "Rompere il Silenzio", del cui direttivo anche alcuni indagati, tra cui lo stesso Claudio Foti e il suo attuale legale difensore Andrea Coffari. Mentre le attività del centro, riportano i pm, sarebbero state finanziate “dall'Ente Pubblico per il tramite delle rette-affido”. Rette che avrebbero portato un incasso annuale, già calcolato, di circa 130.00 euro di cui 30.000, “secondo gli accordi già presi, sarebbe stato versato, a titolo di contributo, per le attività della stessa 'Rompere il Silenziò”. Un bottino non da poco, se si considera che quei soldi entravano nelle casse della Hansel e Gretel nonostante una legge regionale prevedesse, per la gestione del servizio di psicoterapia della Val d'Enza, la competenza della Asl di Reggio Emilia. I cui professionisti avrebbero potuto offrire il servizio "gratuitamente". E così facendo, l’accordo sottobanco per l’assegnazione degli spazi comunali alla onlus di Foti, sarebbe costato alla pubblica amministrazione ben 200mila euro. Con l’aggravante che, secondo i pm, i protagonisti dell’inganno avrebbero “intenzionalmente” raggirato la legge omettendo di effettuare una procedura ad evidenza pubblica per l'affidamento del servizio di psicoterapia avente un importo superiore a 40.000 euro. Così, a quanto si legge nel provvedimento, secondo la procura, "Anghinolfi, in qualità di dirigente del servizio sociale integrato Val d'Enza, Monopoli, in qualità di assistente sociale dell'Unione Val d'Enza, Carletti, in qualità di Sindaco di Bibbiano, Colli, Sindaco di Montecchio Emilia e Presidente dell'Unione Val d'Enza dall'aprile 2015 all'aprile 2018, Campani, in qualità di responsabile dell'Ufficio di Piano dell'Unione Comuni Val d'Enza e Canei, in qualità di istruttore direttivo, procuravano un ingiusto vantaggio patrimoniale al centro studi Hansel e Gretel i cui membri Foti Claudio, Bolognini Nadia e Testa Sara esercitavano sistematicamente, a nessun titolo, il servizio di psicoterapia, a titolo oneroso, con minori assertamente vittime di abusi sessuali e/o maltrattamenti, consentendo ai medesimi l'utilizzo gratuito dei locali della pubblica struttura "La Cura" di Bibbiano, messi a loro disposizione dall'Unione Comuni Val d'Enza (che pagava il canone annuale di locazione e connesse spese di gestione)”. In questo modo i professionisti ideatori dell’inganno avrebbero “assicurato l'ingiusto profitto corrispondente a 135,00 euro l'ora per ogni minore (a fronte del prezzo medio di mercato della medesima terapia del valore di 60/70,00 euro l'ora) nonostante la Asl di Reggio Emilia potesse farsi carico "mediante i propri professionisti" e "gratuitamente" del predetto servizio pubblico.”

Bibbiano, «Io ingannata nell’affido ho chiesto scusa alla vera mamma della bimba». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. «I genitori naturali della piccola? Li ho conosciuti per la prima volta la scorsa primavera. Ho capito che non erano certo le persone inadeguate descritte dagli psicoterapeuti della Val d’Enza: la mamma è una donna molto dolce così come lo è il padre, pur nelle sue difficoltà. I nonni sono generosi e accoglienti. A un certo momento mio marito e io ci siamo vergognati dell’idea che ci eravamo fatti di questa famiglia e abbiamo deciso di chiedere scusa». La testimonianza viene da una donna di 47 anni che vive nel Modenese e che da anni accoglie bimbi in affido. Dopo un colloquio con i servizi sociali di Bibbiano poi azzerati dall’inchiesta coordinata dal procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, nel giugno 2018 le venne segnalata «una piccola di 10 anni la cui situazione familiare, mi riferirono, era molto grave, tanto da essere stata messa in una struttura. Poi la portarono a casa mia nel suo ultimo giorno in quarta elementare». Poche settimane prima – era l’11 aprile, verso mezzogiorno – la nonna della piccola ricevette questa brusca telefonata: «Non venga più a prendere sua nipote a scuola, non ce n’è bisogno: la bambina è stata trasferita in un altro istituto e ora penseremo noi a tutto. Non vivrà più con lei». Clic. Conversazione finita. Da una parte una voce che proveniva dai servizi sociali di Bibbiano. Dall’altra la sbigottita nonna della nipotina che aveva in affido: questo perché suo figlio era diventato papà assai giovane, a 17 anni. Mentre la sua compagna partorì a 14. Una coppia considerata inadatta dagli assistenti sociali a crescere un figlio. È il «caso pilota» — per usare l’espressione del gip Luca Ramponi — dell’intera inchiesta sui falsi affidi. Alla base c’è quel disegno fatto dalla bimba in cui si vede lei accanto al nuovo compagno della mamma. Secondo le accuse contenute nell’indagine dei carabinieri di Reggio diretti dal colonnello Cristiano Desideri ci fu una modifica da parte di una psicoterapeuta della Ausl. Le due lunghe braccia della piccolina andarono innaturalmente a toccare in modo ambiguo l’adulto. Un’aggiunta che doveva dimostrare abusi (inesistenti) da parte di lui. Sulle carte giudiziarie c’è scritto che i genitori-ragazzini della bimba si lasciarono dopo tre anni dalla nascita di lei. Per questo venne affidata alla nonna. «Poi però ci hanno ripensato: strappandola anche all’anziana» racconta Natascia Cersosimo, 45 anni, consigliera 5 Stelle a Cavriago e capogruppo del Movimento all’Unione Val d’Enza, l’associazione amministrativa di otto comuni nel Reggiano. Cersosimo conosce bene la nonna della piccola, sono amiche da tempo e soprattutto conosce bene la vicenda dei falsi affidi tanto da aver chiesto, un anno fa, spiegazioni per quei numeri che le suonavano strani: «Troppe denunce per violenze familiari. E soprattutto troppi affidi: oltre 1.000 nel 2016 in Val d’Enza, che conta 50 mila abitanti. Gli stessi di Bologna che ha 400 mila residenti. Mi risposero che era perché il servizio funzionava». Non così dovette pensarla la nonna. Che subito dopo la brutale telefonata denunciò ai carabinieri ciò che le parve «una mostruosità incomprensibile». Oggi la «mamma» affidataria ricorda che gli psicoterapeuti della Val d’Enza erano «assai disponibili con noi, nel senso che non ci hanno mai trascurato. Una volta a settimana accompagnavo la bimba agli incontri con i genitori e con i nonni, a cui io non partecipavo». Poi però, durante altre sedute di psicoterapia, iniziò ad ascoltare «ritratti negativi della famiglia. Ci venne detto che la madre era inadeguata e anche il padre era problematico». Poi le brutte parole sui nonni – con lui «scorbutico e irascibile» – che trattavano la nipotina come «una bambola da sofà» e che «non si erano accorti del presunto abuso commesso dal nuovo compagno della madre». Scenario dipinto in termini assai peggiorativi nell’avviso di fine indagine di martedì in cui si legge che gli operatori avevano cercato di convincere la bimba come la nonna fosse a conoscenza dei presunti abusi commessi sulla minore. Abusi peraltro inesistenti e procedimento archiviato. Nel complesso, un’atmosfera pesantemente in contrasto con l’idea che dei genitori naturali stavano maturando i due affidatari «sempre più amareggiati: avevamo aiutato una bambina che poteva contare su una bella famiglia vittima però di un’ingiustizia». Il lieto fine nella storia è giunto con il via dell’inchiesta. Coordinandosi con la Procura, il Tribunale dei minori di Bologna diretto da Giuseppe Spataro ha ricontrollato tutti gli atti del fascicolo. Compreso il disegno, falsificato pure secondo una perizia voluta dall’accusa. Dopo il decreto firmato dai giudici minorili, la piccola è tornata a casa. «I suoi genitori e i nonni durante le feste – sorride la donna di Modena – siedono alla nostra tavola. È come se fossimo diventati un’unica grande famiglia».

·         La Tratta dei Minori.

Il caso. Strappato alla famiglia a un anno, la mamma si dispera: “Ridateci Domenico”. Rossella Grasso su Il Riformista l'8 Settembre 2020. “Ridateci il nostro piccolo Domenico“. È questo l’appello disperato di mamma Morena a pochi giorni dell’udienza del processo in Appello che stabilirà le sorti del bambino, se sarà affidato a una nuova famiglia o potrà tornare dalla sua. Oggi Domenico ha soli 3 anni e da due vive in una casa famiglia lontano dai suoi. Morena ha affidato Domenico ai suoceri, Raffaele e Maria Bocchetti, già pochi giorni dopo la sua nascita. La storia d’amore tra Morena e il suo compagno, era sempre stata travagliata, fatta di urla e liti. Poi nel 2018 il padre del piccolo, in un raptus accoltellò la donna e subito dopo il bimbo è stato tolto alla famiglia dagli assistenti sociali e dato in custodia a una casa famiglia. Il compagno sta scontando una pena in carcere, e del piccolo, ospite in una casa famiglia, i familiari non hanno più notizie. “Mi fu sospesa la patria potestà per il trauma che avevo subito dopo la coltellata – racconta Morena che è distrutta dal non sapere più nulla del suo piccolo – Ora voglio che Domenico torni a casa o con me o con i miei suoceri che lo hanno sempre amato e coccolato come se fosse un principe. Gli hanno sempre dato un amore incondizionato”. Il papà del bambino deve scontare 7 anni di carcere ma la sua famiglia assicura che, quando tornerà in libertà, non tornerà sotto lo stesso tetto e che anzi, si sottoporranno volentieri anche a un tutoraggio per il bene di Domenico. “Quello che ha fatto il mio ex non è giustificabile – dice Morena – ma sono certa che non farebbe mai del male al bambino”. Non si da pace mamma Morena, come la famiglia Bocchetti, nonni e zii compresi. La loro casa è piena delle sue foto e dei suoi giochi: continuano a sperare che il piccolo ricompaia da un momento all’altro e che la prossima udienza dinanzi alla Corte d’Appello del 18 settembre possa definitivamente riportarlo a casa. “Assistenti sociali, maestre, persone del quartiere hanno testimoniato sempre che i miei genitori erano nonni amorevoli – racconta Salvatore, lo zio di Domenico – poi ci è stato detto che erano persone fragili, per cui gli è stato tolto l’affidamento. Ma non è così, noi possiamo tenerlo con noi”. “Non siamo brutte persone – continua Morena – non siamo drogati o malavitosi. Perchè non ridarci il bambino? Va bene se torna da me o dai nonni, perchè stare da una famiglia di sconosciuti?”. “Dopo quello che è successo a Bibbiano – continua Morena – non mi dò pace. Lontano da Domenico e senza sapere nulla di lui stiamo sopravvivendo, non viviamo più. Chiediamo di metterci alla prova: mettessero un assistente sociale per 24 ore sempre con noi per capire quanto amore possiamo dare”. Il peggio è che nessuno dei familiari ha più notizie del bambino da due anni: “Sappiamo dove si trova ma non possiamo guardarlo nemmeno da lontano e non ci vogliono dare nessuna informazione su di lui, nemmeno se sta bene, se mangia, cosa fa”. Ora attendono con il fiato sospeso il giorno della sentenza che potrebbe stabilire definitivamente che Domenico deve essere affidato a persone estranee alla famiglia. Tutta la comunità di Chiaiano, dove risiede la famiglia Bocchetti, si è stretta intorno a mamma Morena, ai nonni e gli zii che chiedono a gran voce ai giudici di osservare con attenzione il loro caso e a rimediare a quella che sembra un’ingiustizia di cui sta soffrendo tutta la famiglia. Anche il parroco ha scritto una lettera accorata ai giudici: “Quello che io e la mia comunità non riusciamo a spiegarci è l’accanimento e la rigidità nell’attuazione di regole che impediscono da più di un anno il ricongiungimento anche se solo per brevi lassi di tempo di Domenico coi suoi congiunti”.

Picchiata dal marito lo denuncia per proteggere i figli: “Me li hanno tolti, voglio rivederli”. Amedeo Junod su Il Riformista il 28 Luglio 2020. Luisa è una mamma giovane, ma negli occhi ha la pena e la sofferenza di chi ha già vissuto molte vite. Vittima di ripetute violenze, nel 2016 denuncia il suo ex marito per maltrattamenti rivolti a lei e ai 3 figli. Nonostante il repentino arresto dell’uomo, dopo 10 giorni i servizi sociali hanno deciso di affidare i bambini proprio ai genitori del marito. Minacciata dalla famiglia dell’ex compagno, Luisa decide allora di annullare la denuncia, e di continuare a far visita ai suoi 3 bambini nella casa poco sicura dove abitavano, in presenza dell’ex e dei suoceri. Nemmeno in questa circostanza le cose vanno meglio, e Luisa continua a ricevere violenze, insulti e minacce anche durante le visite. Cominciano le cause, e nel frattempo rimane incinta una quarta volta: è la piccola Denise, con cui vivrà in una casa protetta di Marcianise per circa un anno, dove sarà messa in condizione di seguire dei percorsi formativi e dove, finalmente, sembrerà trovare un trattamento decoroso e un ambiente adeguato per far crescere la sua nuova creatura. Dopo appena 6 mesi però, Luisa e Denise vengono nuovamente trasferite, questa volta a Casandrino, e il calvario ricomincia, a suon di violenze psicologiche e maltrattamenti di ogni sorta. I suoi primi 3 figli vengono ritenuti ora adottabili, e mamma Luisa perde anche la possibilità di vederli a colloquio. Dopo tante sofferenze, il colpo di grazia: anche la piccola Denise, nonostante gli occhi di Luisa brillino di una luce di inconfondibile amore solo a parlarne, viene strappata alla adorata mamma. Da allora sono passati ben sei anni, e nonostante i numerosi percorsi di crescita personale che hanno condotto Luisa a diventare una OSA (Operatrice Socio Assistenziale), la Legge continua a descriverla come una madre non idonea, troppo apprensiva e poco autorevole nel prendersi cura dei suoi figli. La lunga e inscalfibile depressione che da allora l’attanaglia non ha spento il desiderio di conoscere le sorti dei suoi 4 pezzi di cuore, di cui segue la crescita come può, in virtuale, sui social network. “Non mi spiego perché dopo aver denunciato il mio ex per proteggere i miei figli, abbiano deciso di portarmeli via. Cosa ho fatto di male per perderli?” Non trova pace né ragione Luisa, il cui amore sincero e spontaneo non è bastato a scongiurare una perdita tanto dolorosa, la perdita dell’affidamento di ben quattro figli. Vittima di violenza, con le sue coraggiose denunce ha ottenuto altro dolore, altre incomprensioni, altra solitudine, senza che i servizi sociali e le istituzioni in generale valutassero con rispetto i suoi meritevoli tentativi di emergere da un contesto inadatto e pericoloso in cui ha messo al mondo i suoi pargoli, per metterli al sicuro e garantire loro un futuro migliore.

Il dramma di Sabrina, strappata alla madre a 9 anni: “Non ho più alcuna notizia di lei, aiutatemi”. Roberta Caiano su Il Riformista il 22 Luglio 2020. “L’unica cosa che chiedo è di rivedere la mia bambina e di riaverla di nuovo con me”. Rabbia, sconforto e tristezza sono gli stati d’animo che fanno da cornice ad una storia dolorosa e drammatica. Graziella è una giovane donna di 28 anni nata e cresciuta ad Acireale, in provincia di Catania, ha un marito amorevole da cui ha avuto quattro splendide figlie e una vita apparentemente felice. Ma così non è. Il peso di un passato turbolento non le permette di viversi la vita in maniera tranquilla da quando la sua prima figlia, avuta da una precedente relazione, è stata data in affido ad un’altra famiglia più di un anno fa. La piccola, che ora ha 12 anni, ha avuto contatti con la madre fino allo scorso anno quando non l’ha più vista né sentita. Venuta al mondo quando Graziella aveva solo 15 anni, il loro rapporto è stato minato nel momento in cui il padre della bambina è stato arrestato. Come racconta la stessa Graziella al Riformista, “ero molto piccola per occuparmi da sola di una bambina. Per questo sia io che mia figlia siamo cresciute insieme a casa dei miei genitori. Il mio ex marito è stato in detenzione per 9 anni. Quando ha scontato la sua pena ed è uscito dal carcere voleva rivedere sua figlia, ma mia madre si è opposta”. Ed è qui che è cominciato l’incubo di Graziella.

LA STORIA -La voce di Graziella è rotta dall’emozione e dal dispiacere. La sua più grande paura è quella di non poter rivedere più sua figlia Sabrina (nome di fantasia), con cui non ha contatti da più di un anno. Ma facciamo un passo indietro. Tutto ha inizio quando Graziella resta incinta in età adolescenziale: “La bambina è cresciuta con me e la mia famiglia, a casa dei miei genitori. Io ed il mio ex compagno ci siamo separati, così negli anni che ha scontato in carcere siamo rimaste a casa mia. Una volta uscito di prigione, voleva rivedere nostra figlia. I nostri rapporti si erano già deteriorati e le stesse famiglie erano in conflitto, fino al punto che il mio ex ha allertato gli assistenti sociali per poter rivedere la bambina”. Come ci racconta la stessa Graziella, la nonna materna si è opposta a questo ricongiungimento tra padre e figlia, in quanto accusava l’uomo di non essersi preso cura della bambina. “Io ero piccola, avevo 23 anni e mi affidavo a mia mamma. Lei mi diceva che il mio ex compagno dopo tutto questo tempo pretendeva di vedere la figlia, pur non avendole dato le giuste attenzioni neanche attraverso la sua famiglia. I suoi genitori hanno un’azienda, sono benestanti e potevano dunque occuparsi della bambina e darle ciò che le spettava per il mantenimento. Ma così non è stato e mia mamma si era opposta in maniera categorica ad un loro riavvicinamento”. La nonna della piccola, infatti, non voleva che lei avesse contatti con suo padre o con la sua famiglia paterna, “minacciando” la figlia di cacciarla via di casa se non avesse rispettato questa volontà. Nonostante Graziella avesse la potestà genitoriale della bambina, assecondava la madre in tutto e per tutto per non perdere un posto dove stare e il suo sostegno. Spesso per non incappare in problemi di natura conflittuale con la famiglia del proprio ex, prendeva la sua bambina e si recava di nascosto dai suoi ex suoceri. Per quanto si sforzasse di non creare attriti, si atteneva sempre a ciò che le diceva sua madre. La doccia fredda, però, è arrivata nel momento in cui il suo ex marito senza parlare prima con Graziella o con la sua famiglia si è avvalso direttamente dei servizi sociali per trovare un accordo tra le famiglie. I servizi sociali hanno così provveduto a monitorare costantemente la condizione della bambina attraverso un’educatrice domiciliare, ovvero una figura professionale che una o più volte a settimana si reca a casa per passare del tempo con la minore e constatare se la famiglia è adatta nel prendersi cura di lei e dei suoi progressi. Giovane e ormai matura per affrontare una nuova vita, Graziella si è risposata e ha avuto altri quattro figli ma la piccola è rimasta a casa dei nonni materni. “Cresciuta con la nonna e vedendola come una figura di riferimento, erano molto legate e io non mi sono mai opposta nel farle stare insieme. Ma l’educatrice ha più volte fatto rapporto segnalando che mia madre non era adatta a stare con mia figlia – racconta la giovane donna –. Ha fatto delle relazioni negative sulla piccola e sulla famiglia. A mio padre non faceva piacere vivere una situazione in cui era costantemente sotto il giudizio di un’educatrice domiciliare e non voleva che i servizi sociali invadessero la loro privacy. Questo ha portato a dei litigi, ad essere sfrattati varie volte con la conseguenza che la bambina ha dovuto cambiare spesso scuola, ed è bastato questo per far sì che Sabrina fosse affidata ad una casa famiglia”. Graziella ci spiega che i servizi sociali hanno preso in considerazione soltanto i comportamenti dei nonni, ma non il suo, che è la madre. “Sono riuscita a raggiungere una posizione tale da poter riavere la bambina con me. Una volta appurato che mia madre non era idonea, gli assistenti sociali non hanno preso in considerazione l’idea che potessi prendermi cura io di mia figlia, pur avendo una casa adeguata, una famiglia e una condizione dove non le mancherebbe nulla – spiega la donna –. Tuttora, proprio per la mia situazione passata, ho un’educatrice domiciliare che mi monitora ma le relazioni sono tutte positive. Sono idonea come madre, ho dimostrato nei vari processi di avere dei rapporti tutti positivi, che mi prendo cura in ogni aspetto delle mie figlie e nonostante ciò Sabrina è stata portata in una casa famiglia, poco distante da dove abito”. La bambina, ormai diventata una ragazzina, è rimasta lì per circa un anno. Inizialmente Graziella poteva vederla una volta a settimana, ma un giorno le è arrivata la comunicazione che non può più avere contatti con la bambina poiché è stata data in affido ad un’altra famiglia. Ora Sabrina ha 12 anni e in totale sono circa tre anni che non vive più con la sua famiglia d’origine. “Non posso né vedere né sentire più mia figlia. Non c’è più modo di comunicare con la mia bambina, senza un motivo valido. Sono una mamma idonea, posso gestire i miei figli nel modo migliore possibile. Ho un marito che ha un buon lavoro, riusciamo a tenere uno stile di vita in modo che non ci manchi nulla. Io non so dov’è e non so perché non posso riaverla con me. Se la nonna è stata dichiarata non idonea, perché non l’hanno data a me che sono la madre?”. E il padre della bambina? “Inizialmente ha smosso mari e monti, da quando si è sposato e ha avuto altri figli se n’è altamente fregato. Prima ha tirato in ballo gli assistenti sociali e ora non gli interessa più di questa situazione. So che la bambina è ancora qui in Sicilia, il mio desiderio è di vederla e sperare di riuscire ad averla di nuovo con me”.

Il dramma del piccolo Domenico, strappato alla famiglia: “È il nostro principe, riportatelo a casa”. Rossella Grasso su Il Riformista il 8 Giugno 2020. “Voglio poter riabbracciare mio nipote Domenico”. Raffaele Bocchetti non desidera altro da oltre un anno e non passa giorno senza che insieme a sua moglie Maria e i suoi figli Salvatore e Lucia ne pianga la lontananza. Gli era stato affidato dalla mamma già pochi giorni dopo la sua nascita. La storia d’amore tra i due giovani genitori, era sempre stata travagliata, fatta di urla e liti. Poi nel 2018 il padre del piccolo, in un raptus accoltellò la donna e subito dopo il bimbo è stato tolto alla famiglia dagli assistenti sociali e dato in custodia a una casa famiglia. “Lo abbiamo sempre trattato come un principe, con noi era davvero felice, a casa, con la sua vera famiglia. Adesso non ce lo fanno nemmeno vedere qualche volta”, dice tra le lacrime Lucia, la zia 22enne che viveva insieme al piccolo Domenico e i nonni. “Mio figlio ha sbagliato, ha fatto un gesto terribile e bruttissimo che non si deve mai fare ma non è giusto che perché lui ha sbagliato adesso deve pagare tutta la famiglia e anche il bambino che oggi ha solo 3 anni”, continua nonna Maria. I Bocchetti non si danno pace. La loro casa è piena delle sue foto e dei suoi giochi: continuano a sperare che il piccolo ricompaia da un momento all’altro e che la prossima udienza dinanzi alla Corte d’Appello del 3 luglio possa definitivamente riportarlo a casa. “Assistenti sociali, maestre, persone del quartiere hanno testimoniato sempre che i miei genitori erano nonni amorevoli – racconta Salvatore – poi ci è stato detto che erano persone fragili, per cui gli è stato tolto l’affidamento”. Anche la mamma, dopo i primi scontri, avrebbe più volte segnalato la sua volontà di affidare il piccolo ai nonni paterni. Il papà del bambino deve scontare 7 anni di carcere ma la sua famiglia assicura che, quando tornerà in libertà, non tornerà sotto lo stesso tetto e che anzi, l’intera famiglia si sottoporrà volentieri anche a un tutoraggio per il bene di Domenico. Tutta la comunità di Chiaiano, dove risiede la famiglia Bocchetti, si è stretta intorno ai nonni e gli zii che chiedono a gran voce ai giudici di osservare con attenzione il loro caso e a rimediare a quella che sembra un’ingiustizia di cui sta soffrendo tutta la famiglia. Anche il parroco ha scritto una lettera accorata ai giudici: “Quello che io e la mia comunità non riusciamo a spiegarci è l’accanimento e la rigidità nell’attuazione di regole che impediscono da più di un anno il ricongiungimento anche se solo per brevi lassi di tempo di Domenico coi suoi congiunti”.

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2020. Era una giornata di sole a Xi' an, quel 17 ottobre 1988. Faceva ancora caldo e il piccolo Mao Yin, due anni, aveva tanta sete mentre il papà lo riportava a casa dall' asilo. Il signor Mao si fermò, lasciò la carrozzina davanti al portone di un albergo ed entrò, giusto il tempo di farsi dare dell' acqua. Si girò e il passeggino era vuoto. Yin era stato rubato. I genitori lo hanno cercato in tante province della Cina, seguendo mille tracce e false segnalazioni, hanno diffuso 100 mila volantini con la sua foto, rimasta uguale anche cinque, dieci, venti anni dopo, ferma nel tempo e pesante nei loro cuori. Mao Yin è tornato a casa a Xi' an, 32 anni dopo. È un uomo e si chiama Gu Ningning. Lo hanno chiamato così i genitori adottivi, quelli ai quali il piccolo era stato venduto dopo il rapimento. Come un oggetto rubato: per 6 mila yuan, 750 euro di oggi. I signori Mao hanno dedicato il resto della loro vita alla ricerca del figlio scomparso. La madre ha lasciato il lavoro, ha viaggiato in villaggi vicini e città lontane, sempre con quei manifestini con la foto del piccolo di due anni in braccio. Ha ricevuto 300 segnalazioni in 10 province, le ha seguite tutte, senza mai arrendersi. L' ultima pista l' ha portata nel Sichuan, mille chilometri da Xi' an. Qualcuno ha raccontato alla polizia che la famiglia Gu aveva adottato un bambino in quell' autunno del 1988. La polizia ha preso la foto di Gu Ningning, l'ha inserita nel suo database dei casi non risolti e con un programma di riconoscimento facciale ha invecchiato il faccino di Mao Yin. Somigliante. È stata fatta la prova del Dna: quello del giovane di 34 anni combaciava con quello dei Mao. Yin, diventato Ningning, è tornato a Xi' an. La tv di Stato ha trasmesso l' evento in diretta. La signora Mao ha aperto per il figlio ritrovato l' album con i ritagli di giornale che raccontavano la loro storia. Una storia che potrebbe essere accaduta in qualsiasi parte del mondo, dove i bambini vengono portati via per gli scopi più orrendi. Ma questa vicenda ha caratteristiche molto cinesi: perché da quando nel 1979 fu introdotta la legge del figlio unico, nella Repubblica popolare si è aperto un mercato dei bambini maschi da rapire e consegnare a famiglie che non potendo concepire un secondo bimbo lo adottavano. A Pechino si è costituita l' associazione «Baobei Huijia» (Bimbo torna a casa), che si occupa dei piccoli scomparsi: si calcola che siano almeno 20 mila ogni anno in Cina. Nel 2007 la signora Mao decise di mettere la sua esperienza dolorosa al servizio di altri genitori nelle sue condizioni e si è messa a lavorare a tempo pieno per «Baobei Huijia». Ha aiutato a risolvere i casi di 29 famiglie come la sua, incrociando migliaia di dati raccolti dall' organizzazione. E finalmente è venuto anche il suo giorno. Il giovane di 34 anni deve ancora decidere se tornerà ad essere Mao Yin o resterà Gu Ningning. Fa il decoratore di interni, non sospettava di essere stato rubato, non aveva idea che per 32 anni qualcuno lo avesse cercato. «Voglio restare qui con loro, per un po' non voglio pensare al futuro».

·         Tra moglie e marito non mettere…lo Stato.

I figli maggiorenni tornano a casa nel fine settimana, la casa rimane assegnata. Marzia Coppola il 6 novembre 2020 su Libero Quotidiano.

Marzia Coppola. Avvocato matrimonialista, educata alla resilienza e alla libertà. Laureata in Italia e in Francia, ho continuato gli studi per diventare anche avvocato della Sacra Rota. Lavoro con l'Avv. Annamaria Bernardini de Pace e mi occupo di diritto di famiglia a 360 gradi (e più!). Convinta che anche dalla relazione peggiore si possa imparare qualcosa. Nel contesto della separazione o del divorzio il principio generale imposto dalla legge, prevede che la casa familiare debba rimanere assegnata al genitore con il quale i figli vivono per la maggior parte del tempo (il c.d. genitore collocatario). Indipendentemente da chi sia il proprietario dell’immobile (addirittura i proprietari possono essere i nonni che hanno concesso in comodato l’abitazione che, in caso di assegnazione, non potranno averla indietro per molti anni). Il genitore che vive prevalentemente con i bambini, nella maggior parte dei casi la mamma, potrà dunque continuare a vivervi fino a quando durerà la convivenza con i figli. Non è prevista una durata massima/ minima specifica oppure un’età entro la quale il diritto all’assegnazione della casa viene meno, ma si tiene conto della vera e propria convivenza dei figli con il genitore collocatario. Quindi: finché i figli vivono con il genitore collocatario, quest’ultimo avrà diritto a vivere nell’abitazione familiare. Pertanto quando il figlio, per esempio di 28 anni, decide di trasferirsi altrove per andare a convivere con la propria fidanzata, verrà meno il diritto della madre collocataria a vivere nell’immobile familiare che era stato a lei assegnato. In un’ipotesi come questa non ci sono dubbi nell’individuare il momento nel quale il figlio effettivamente vive con la mamma nella casa familiare e quando, invece, sarà altrove e in un’altra abitazione avrà costruito la propria quotidianità, avrà tutti i propri indumenti, il computer per il lavoro e così via. Ma non tutte le storie sono così chiare e lampanti e, quindi, in alcuni casi, è difficile individuare il confine tra un momento e l’altro. La situazione che crea maggiori conflitti e punti interrogativi è quella nella quale un figlio, che viveva nella casa familiare con un genitore, inizia l’università e, quindi, si trasferisce per qualche notte alla settimana a vivere altrove. Senza, tuttavia, “sradicarsi” completamente dalla casa d’origine dove, per esempio, torna ogni fine settimana oppure dove tiene la maggior parte dei propri effetti personali (abbigliamento, libri, attrezzatura sportiva e così via) o dove porta i propri indumenti sporchi a lavare.  In ipotesi come questa la giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche con una recentissima sentenza di pochi giorni fa, si è pronunciata affermando che il diritto all’assegnazione della casa permane anche quando il figlio è maggiorenne (ma non è autosufficiente economicamente) e torna a casa nel fine settimana. La Suprema Corte, ha argomentato questa decisione ritenendo che si può parlare di convivenza con il genitore collocatario anche qualora il figlio, sebbene non dorma tutte le notti nella casa familiare, vi faccia ritorno con frequenza mantenendo, in questo modo, le consuetudini di vita e le relazioni sociali che in quell’ambiente si sono radicate. Riassumendo, quindi, la possibilità del genitore collocatario di vivere nell’abitazione familiare verrà definitivamente meno solo nel momento nel quale il figlio avrà completamente trasferito altrove il centro delle proprie attività e dei propri interessi. Avv. Marzia Coppola

Michela Allegri per ''Il Messaggero'' il 7 novembre 2020. Lei ha una nuova relazione stabile, da anni, ma non convive ufficialmente con il nuovo compagno. E l'ex marito, che da anni paga l'assegno mensile di mantenimento, sostiene che, nonostante i diversi indirizzi di residenza e di domicilio, la ex consorte, di fatto, viva insieme all'uomo con cui si vede ogni giorno e con il quale trascorre più notti nel corso della settimana. Tradotto: il mantenimento deve essere rimodulato, o addirittura revocato. Con una pronuncia rivoluzionaria, la Corte di Cassazione ha dato ragione all'ex marito: il diritto all'assegno di divorzio può venire meno nel caso in cui la donna abbia una relazione sentimentale con periodi più o meno lunghi di convivenza, tanto da rendere stabile la nuova unione. Con l'ordinanza del 16 ottobre 2020 è stato accolto il ricorso dell'ex che chiedeva la revoca del contributo, considerando il legame ufficiale e ormai datato della ex consorte. Nel testo i supremi giudici sottolineano che il rapporto era consolidato, come provato dalla frequentazione quotidiana, con periodi più o meno lunghi di piena ed effettiva convivenza. Circostanza che basta per ritenere la relazione fosse più che stabile. L'avvocato Daniela Missaglia, divorzista e matrimonialista, spiega che molto spesso «i coniugi separati o divorziati, destinatari di assegni di mantenimento mensili, escogitano trucchetti per non perderli». Uno dei più gettonati, sostiene la legale, è quello di nascondere le nuove relazioni sentimentali stabili, che in molti casi comporterebbero la revoca dell'assegno: «Spesso vengono nascoste anche le convivenze di fatto, strutturando un sistema di pernotti random, distribuiti in modo da evitare quella continuità che potrebbe convincere un giudice a riconoscere, appunto, una convivenza o una relazione stabile: i compagni vengono ospitati per qualche giorno, a giorni alterni, nei week end, e il dato della residenza non viene mai modificato». La pronuncia di ottobre, spiega ancora l'avvocato, specifica che i periodi di convivenza con il nuovo compagno non devono essere considerati singolarmente, ma complessivamente: «La somma porta ad integrare il requisito della stabilità e della continuità che porta alla decadenza dell'assegno». Nel caso specifico, la Corte d'appello di Reggio Calabria aveva disposto per un uomo l'obbligo di corrispondere alla ex 400 euro al mese e aveva respinto l'appello nel quale lui chiedeva la revoca dell'assegnazione della casa coniugale. La richiesta alla Cassazione era di annullare la sentenza in questione, mentre quella della ex moglie era di ottenere 700 euro mensili, sostenendo di non avere nessun reddito e che la relazione stabile e continua con un altro uomo non era mai stata dimostrata. Per il marito, i giudici avevano sbagliato nel «qualificare la fattispecie giuridica di famiglia di fatto»: pur non essendoci una convivenza sancita dalla legge o dalla comune residenza, la relazione della donna doveva considerarsi stabile e pure datata, perché lei e il compagno, oltre a frequentarsi quotidianamente, trascorrevano molti giorni - notti comprese - nella stessa casa. Nella sentenza si legge che si trattava di un rapporto pluriennale e consolidato, «pure caratterizzato da ufficialità, nonché fondato sulla quotidiana frequentazione con periodi più o meno lunghi di piena ed effettiva convivenza». Se per la Corte d'appello si trattava di una relazione «non sufficiente per ipotizzare la creazione di quella nuova famiglia di fatto», per la Cassazione sembrano non esserci dubbi: si tratta di un rapporto stabile e consolidato. Circostanza che ha portato all'annullamento della decisione di secondo grado.

Luca Fazzo per ilgiornale.it il 5 novembre 2020. Ci aveva creduto, la signora F., che lo Stato sarebbe arrivato in suo soccorso. Come darle torto, dopo gli impegni solenni presi a ripetizione contro i femminicidi, le violenze di genere, lo stalking? Così un giorno di dicembre si presentò in Procura e denunciò l'uomo che aveva reso la sua vita un inferno. Sono passati otto anni, e la signora ha scoperto sulla sua pelle di avere sbagliato a fidarsi dello Stato. L'indagine non è mai nemmeno cominciata, il fascicolo non si è mosso dal tavolo del pubblico ministero, gli ordini inviati dal pm alla polizia si sono persi per strada. Quando la signora, attraverso il suo avvocato, ha chiesto notizie ufficiali sul suo fascicolo, ha scoperto che la Procura aveva chiesto l'archiviazione. Motivo: il reato era prescritto. Si è prescritto durante gli interminabili anni in cui nessuno ha mosso un dito. Tutto accade a Prato, con una appendice a Roma, davanti alla Corte Costituzionale: perché - ciliegina sulla torta - quando la signora ha chiesto almeno di venire risarcita per la durata assurda del processo, ha scoperto che, non essendo il processo in realtà mai iniziato, lei per legge non aveva diritto ad alcun indennizzo. Norma così assurda che la Corte d'appello di Firenze ha trasmesso d'ufficio gli atti alla Consulta, perché rimediasse. Si vedrà nei prossimi giorni cosa decideranno i giudici costituzionali. Ma intanto a lasciare basiti è quanto accaduto negli otto anni trascorsi dalla denuncia. E soprattutto, quanto non è accaduto. Dietro c'è una storia d'amore finita male tra due individui ormai non più giovani. A luglio del 2012, F. decide che non è più il caso di andare avanti. Ma quando lo comunica al compagno, si trova davanti ad una reazione brutale. Iniziano gli insulti, le telefonate a ogni ora del giorno e della notte, le minacce. Poi l'uomo passa alle vie di fatto. Una mattina, F. si trova le gomme dell'auto squarciate. Fino al giorno in cui l'uomo riesce ad intercettarla per strada, le mette le mani addosso, la colpisce spedendola in ospedale. La signora non si fa intimidire, e l'indomani va a denunciare l'aggressore, l'uomo che un tempo amava e che ora è divenuto il suo incubo. E poi? E poi più nulla. L'inchiesta non fa neanche finta di partire. Intanto le persecuzioni non sono finite, a gennaio F. deve presentarsi in Procura per raccontare a verbale che le chiamate minatorie continuano. Ma neanche questo smuove l'inchiesta. Agli atti risulta che il pm ha delegato a indagare la polizia. Ma ci sono atti sconcertanti con cui anni dopo la Questura risponde che le indagini non sono state fatte perché «la delega emessa da codesta autorità giudiziaria non risulta mai pervenuta a questa divisione», e il fascicolo in archivio risulta irreperibile. Il colmo si raggiunge quando si scopre che il fax con cui il pm ordinava alla polizia di mettere dei telefoni sotto controllo non è mai arrivato «perché questo mezzo di comunicazione è stato dismesso a favore della posta elettronica certificata». Ma questo lo si scopre molto tempo dopo. Nel frattempo in Procura non si sono chiesti come mai quel fax alla polizia fosse rimasto senza risposta? Eppure la vittima continua a farsi sentire, sollecitando il pm a muoversi: il 3 dicembre 2013 gli scrive, inviando copia dei referti medici sulle lesioni subite durante l'aggressione: non accade nulla. Il 17 marzo 2015, altra richiesta perché lo stalker venga inquisito: di nuovo nulla. Nel 2018, quando i reati sono ormai a ridosso della prescrizione, le chiedono: «Ma perché non ritira la querela?», modo elegante per chiudere il fascicolo senza che emergano le inspiegabili lungaggini dell'indagine. «Non ci penso neanche», risponde secca F. il 7 luglio alla polizia giudiziaria, ribadendo la sua richiesta che l'indagine finalmente si muova. Risultato: il 29 novembre 2018 le arriva una lettera dalla Procura di Prato: «si notifica, quale persona offesa, richiesta di archiviazione dalla Procura della Repubblica di Prato in quanto le violazioni ipotizzate risultano estinte per prescrizione».

Da ilmessaggero.it il 4ottobre 2020. Dovrà essere risarcito con 150 mila euro dalla ex moglie per avere mantenuto per una ventina d'anni i due figli che, è emerso nel corso della separazione, in realtà non erano suoi, un piccolo imprenditore dell'alta Umbria: lo ha stabilito il tribunale civile di Perugia. La notizia è riportata oggi dalla Nazione. «Tecnicamente è stato riconosciuto un danno endo-familiare legato al comportamento ritenuto illegittimo del coniuge per avere fatto credere all'altro che i figli fossero stati i suoi» ha spiegato all'ANSA il legale dell'uomo, l'avvocato Marcello Pecorari. La coppia si era separata nei primi anni del 2000 e nell'ambito della procedura era stato assegnato al padre il mantenimento dei due figli, ora maggiorenni. Nel corso della procedura è stato inoltre eseguito il test del Dna che ha portato al disconoscimento formale della paternità, nel 2018. Di qui la decisione del tribunale civile, in primo grado, di disporre il risarcimento di 150 mila euro per il mantenimento dei figli durato una ventina d'anni.

I genitori separati che si denigrano perdono l'affidamento dei figli. Marzia Coppola su Libero Quotidiano il 16 ottobre 2020.

Marzia Coppola. Avvocato matrimonialista, educata alla resilienza e alla libertà. Laureata in Italia e in Francia, ho continuato gli studi per diventare anche avvocato della Sacra Rota. Lavoro con l'Avv. Annamaria Bernardini de Pace e mi occupo di diritto di famiglia a 360 gradi (e più!). Convinta che anche dalla relazione peggiore si possa imparare qualcosa.

Troppe volte la separazione e il divorzio diventano il contesto perfetto per una gara di caduta rapida verso il basso. Insulti, cattiverie, offese, ritorsioni e ripicche. Tutto senza esclusione di colpi, senza scrupoli e, purtroppo, senza curarsi del fatto che gli spettatori di questa irruenta tragicommedia siano i figli. Litigare, urlare, piangere, denigrare e discutere davanti ai minori può danneggiare l’equilibrio psicofisico dei bambini. Può creare in loro traumi che si porteranno dietro anche quando saranno grandi e che si ripercuoteranno nelle loro relazioni. Da molto tempo, ormai, questi comportamenti sono considerati veri e propri maltrattamenti in famiglia e assumo rilevanza penale. Si parla, in particolare, di violenza assistita che è una forma di abuso minorile che obbliga il minore ad assistere passivamente alle discussioni di mamma e papà e a subirne le conseguenze dal punto di vista psicologico. Nei casi più drammatici, i bambini possono anche iniziare a provare ansia, paura, nervosismo, attacchi di panico e così via. Proprio per la gravità di questi comportamenti, di recente, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è pronunciata sostenendo che va negato l’affidamento condiviso a quei genitori che litigano violentemente e continuamente davanti ai bambini e che si denigrano a vicenda svalutando l’altro. I giudici, infatti, che vedendo mamma e papà talmente accecati dall’odio reciproco da non essere più in grado di scindere la sfera coniugale da quella genitoriale, hanno ritenuto opportuno limitare la loro “sfera d’azione”. Questo perché se mamma e papà litigano, si insultano e lo fanno davanti ai loro bambini senza rendersi conto di quello che i piccoli potrebbero “assorbire” da queste discussioni, come potranno sviluppare una solidarietà genitoriale tale da riuscire a decidere, per esempio, quale scuola individuare per l’iscrizione dei bambini? Come potranno scegliere il medico al quale affidarsi o più banalmente chi e a che ora debba andare a prendere/portare i figli? Allora questi genitori si troveranno, da un lato, a tenere comportamenti tali da pregiudicare il benessere psichico dei figli, dall’altro, comunque, a non riuscire a prendere le decisioni più importanti per loro. Ecco perché in ipotesi come quella descritta il Giudice si è pronunciato per la sospensione della responsabilità genitoriale (almeno finché mamma e papà non deporranno le armi e dimostreranno che la conflittualità è scemata). In parallelo il Giudice nominerà un tutore (temporaneo) che avrà il compito di assumere le decisioni di “straordinaria amministrazione”. Mamma e papà dovranno occuparsi delle decisioni di ordinaria gestione dei figli nei periodi di rispettiva permanenza. Ora, chiaramente, decisioni di questo tenore non possono essere generalizzate e non è pensabile che per ogni coppia litigiosa corrisponda la nomina di un tutore. In ogni caso, alla luce di questa possibilità ormai conclamata dalla Corte Suprema, mamma e papà potranno essere più accorti e riflettere sul fatto che ogni bambino cresce in risonanza con i propri genitori. Nel bene e nel male.  

Divorzi, separazioni e ripicche: quando i nonni devono mantenere i nipotini. Marzia Coppola su Libero Quotidiano il 27 agosto 2020. Marzia Coppola. Avvocato matrimonialista, educata alla resilienza e alla libertà. Laureata in Italia e in Francia, ho continuato gli studi per diventare anche avvocato della Sacra Rota. Lavoro con l'Avv. Annamaria Bernardini de Pace e mi occupo di diritto di famiglia a 360 gradi (e più!). Convinta che anche dalla relazione peggiore si possa imparare qualcosa. La legge prevede un espresso diritto dei nipotini a mantenere un rapporto stabile e significativo con gli ascendenti. Da quando questa norma è entrata in vigore molti nonni si sono fatti avanti in tribunale per far valere il proprio amore nei confronti dei nipoti e per tutelare il loro rapporto a prescindere dalle separazioni, dai divorzi, dalle ripicche e dalle liti tra i genitori. Nonni che, dopo qualche discussione davanti al giudice, sono quasi sempre riusciti a ottenere il risultato ambito. Al di là di questo diritto che regala emozioni ai nonni ed esperienze ai nipotini, capita che gli ascendenti siano coinvolti anche a titolo di obbligati al mantenimento dei bambini. Naturalmente questo dovere – primariamente – è a carico dei genitori e sono loro a dovervi adempiere. Tuttavia, la legge prevede che i nonni intervengano economicamente quando i genitori non abbiano i mezzi sufficienti. Quindi, se la mamma e il papà non sono oggettivamente in grado di mantenere i loro figli, i nonni dovranno fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere e far fronte ai costi dei minori. Per esempio, se la mamma perde il lavoro, i suoi genitori (quindi i nonni materni) dovranno aiutarla mettendole a disposizione una somma di denaro che la donna possa usare per mantenere i propri figli. In ogni caso, questa disposizione normativa non può tradursi in una situazione di comodo che permette ai genitori di “sedersi sugli allori” e rivolgersi indistintamente all’aiuto dei nonni. Sarebbe ingiusto. Deve trattarsi, infatti, di situazioni nelle quali oggettivamente i genitori non abbiano un lavoro, la possibilità di reperirne uno e non abbiano qualsivoglia altra entrata o guadagno o risparmio. Peraltro, e questo principio è stato recentemente ed espressamente chiarito dalla Corte di Cassazione, l’obbligo di mantenimento dei figli spetta primariamente e integralmente ai loro genitori. Quindi, se uno dei due non può provvedervi, dovrà farvi fronte per intero l’altro genitore. Solo quando anche l’altro genitore non sia in grado di provvedere da solo al mantenimento della prole allora sarà possibile rivolgersi all’aiuto dei nonni. In altre parole, l’intervento degli ascendenti è secondario rispetto a quello primario dei genitori. Questo chiarimento della Corte di Cassazione è molto importante perché permette sì di fare affidamento sull’aiuto degli ascendenti, ma solo come ipotesi del tutto marginale e prima di aver tentato di cavarsela con le risorse della mamma e del papà dei bambini. Chi vorrà chiedere l’intervento dei nonni al mantenimento dei nipoti, quindi, dovrà dimostrare – numeri e spese alla mano – che il denaro e la capacità lavorativa di uno solo dei genitori non bastano per far fronte a tutte le esigenze dei figli. Oltre, naturalmente, a dover dimostrare che l’altro genitore non lavora e non contribuisce al mantenimento dei minori.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2020. Avviso ai coniugi traditi: tollerare un partner fedifrago preclude la separazione con addebito. Il principio non è nuovo, ma repetita iuvant : soprattutto per quelle donne che hanno sempre abbozzato perché sono state educate a farlo. Ed è questo, forse, lo spirito con cui si potrebbe leggere adesso l' ordinanza numero 16691/2020 della prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione che ha rigettato il ricorso di una settantunenne pesarese contro il marito dopo trent' anni di matrimonio e quindici, a detta di lei, di scappatelle. Troppi, secondo gli ermellini, per giustificare un nesso eziologico tra i (presunti) tradimenti e la fine del matrimonio. Perché «laddove la ragione dell' addebito sia costituita dall' inosservanza dell' obbligo di fedeltà coniugale, questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile». Di fatto, al termine delle sedici pagine firmate il 30 gennaio scorso dal presidente Antonio Valitutti e depositate in cancelleria il 5 agosto, la signora marchigiana si è ritrovata pure senza assegno di mantenimento (di 700 euro al mese) e senza l' agognata metà della casa coniugale. «L' ex moglie del mio assistito disponeva già di un suo reddito personale», spiega Claudia Cardena, civilista del Foro di Ancona già legale dell' ex patron della Ternana Edoardo Longarini, che ha seguito il presunto fedifrago per la Cassazione. Presunto, perché dei tradimenti del bancario di 74 anni, l' ex moglie non è riuscita a portare alcuna prova. Il che è servito una volta di più, e definitivamente, a smontare il famoso nesso di causalità. La storia, di cui ha scritto ieri il Resto del Carlino , non sorprende Valeria De Vellis, l' avvocato con cui Silvio Berlusconi è riuscito a ottenere in Cassazione l' inimmaginabile nella causa di divorzio da Veronica Lario, cioè l' eliminazione dell' assegno di mantenimento con efficacia retroattiva, facendo nascere un credito restitutorio in favore del fondatore di Forza Italia. Anche quella tra l' allora premier e la sua seconda moglie era nata come causa di separazione con addebito, ma poi entrambi avevano rinunciato all' addebito. De Vellis, per telefono, insiste (a beneficio di future o futuri querelanti) sul collegamento tra il tradimento e la fine del matrimonio e fa notare come possa essere labile il confine: «Se un marito tradisce la moglie, lei lo perdona, poi il marito la tradisce una seconda volta e la moglie a quel punto decide subito di separarsi, può chiedere la separazione con addebito in quanto c' è un rapporto di causa/effetto tra la relazione extraconiugale e la fine del matrimonio. Se, invece, la moglie tollera per anni i ripetuti tradimenti del marito senza separarsi, in questo caso non può più dimostrare che il matrimonio è finito a causa dell' infedeltà, quindi sarà difficile far accogliere la domanda di addebito». Sopportare un tradimento per amore può valere il prezzo. Farlo per interesse, non vale più.

L'ex moglie ha un nuovo compagno? Stop all'assegno di mantenimento. Marzia Coppola su Libero Quotidiano il 24 luglio 2020.

Marzia Coppola. Avvocato matrimonialista, educata alla resilienza e alla libertà. Laureata in Italia e in Francia, ho continuato gli studi per diventare anche avvocato della Sacra Rota. Lavoro con l'Avv. Annamaria Bernardini de Pace e mi occupo di diritto di famiglia a 360 gradi (e più!). Convinta che anche dalla relazione peggiore si possa imparare qualcosa. Il provvedimento che determina la separazione o il divorzio può prevedere a carico di una delle due parti un assegno di mantenimento a favore dell’altra parte.  È davvero raro che il coniuge tenuto al mantenimento sia felice e deliziato dall’obbligo di corrispondere l’assegno. Al contrario, spesso, questo dovere porta con sé il senso di ingiustizia e di iniquità. Sentimento che è certamente amplificato quando chi riceve l’assegno, instaura una nuova relazione e una nuova convivenza. Pensiamo, per esempio, al marito che deve mantenere la moglie con un assegno di € 2.400,00 al mese, magari lei gode dell’assegnazione della casa coniugale – di proprietà del marito – e in quell’abitazione va a vivere il nuovo fidanzato. Non è difficile intuire come possa sentirsi “fregato” l’ex marito. Sul punto la Corte di Cassazione è ormai chiara e unanime nel sostenere la definitiva perdita del diritto al mantenimento ogni qualvolta l’ex coniuge che riceve l’assegno instauri una nuova convivenza e/o coltivi una relazione che si possa definire stabile. La ragione che ha portato i giudici a questa decisione sta nel fatto che l’inizio di una relazione, anche se non fondata sul matrimonio, implica sempre l’assunzione di un rischio che non può certo ricadere sul precedente coniuge. Gli ex coniugi decidono con chi andare a vivere e, in base a un principio di autoresponsabilità, ne devono accettare tutte le conseguenze. Per questo il collegamento tra la nuova convivenza e la revoca dell’assegno di mantenimento rappresenta, oggi, un automatismo che trova come unico ostacolo – superabilissimo – la prova della convivenza. Ecco, quindi, che il coniuge che è tenuto al mantenimento e vuole minare alla radice questo impegno dovrà attivarsi con ogni fantasioso stratagemma per poter provare la relazione e la convivenza dell’altro. Via libera, quindi, alle fotografie ricevute ingenuamente dall’ex coniuge, agli investigatori privati, ai certificati di residenza e chi più ne ha più ne metta. Tutte prove che dovranno essere portate all’attenzione del giudice il quale si pronuncerà per la revoca dell’assegno. Alcune sentenze della Corte Suprema, addirittura, autorizzano la revoca dell’assegno di mantenimento quando chi ha diritto a riceverlo instaura una nuova relazione, a prescindere dall’effettiva convivenza. Se è vero, infatti, che sono sempre più frequenti le coppie di sposi che non abitano costantemente nella stessa casa (pensiamo a chi viaggia per lavoro, a chi si divide tra due città per motivi familiari e così via), non si vede perché anche una coppia di fatto non possa instaurare una vera e propria relazione senza convivenza stabile. 

In ogni caso, è bene chiarire, la revoca dell’assegno di mantenimento non è una “punizione” per essersi costruiti una nuova vita. Ma è ovvio che se una persona decide di costruire una nuova famiglia, è lì che dovrà cercare la solidarietà materiale (e anche morale naturalmente) ed è con il nuovo compagno/la nuova compagna che si dovranno fare i conti a fine mese. Non può certo continuare indistintamente a essere un onere dell’ex coniuge che, al più, dovrà continuare a provvedere al mantenimento dei figli.   In conclusione, quindi, largo alle nuove relazioni, ma largo anche all’autoresponsabilità che impone a tutti di essere cauti e consapevoli delle proprie scelte e delle relative conseguenze. 

Il tradimento: addebito e risarcimento del danno. Come non finire "cornuti e mazziati". Marzia Coppola su Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. Marzia Coppola. Avvocato matrimonialista, educata alla resilienza e alla libertà. Laureata in Italia e in Francia, ho continuato gli studi per diventare anche avvocato della Sacra Rota. Lavoro con l'Avv. Annamaria Bernardini de Pace e mi occupo di diritto di famiglia a 360 gradi (e più!). Convinta che anche dalla relazione peggiore si possa imparare qualcosa. C’è chi pensa che non esista il traditore, il tradito, il giusto e l’empio. Che esista solo l’amore finché dura.  Su un aspetto, però, concordiamo tutti: quando c’è un tradimento il rapporto tra due persone, e più che mai tra coniugi, è compromesso e anche quando si tenta di “rammentare” la relazione il segno rimane indelebile. Nel matrimonio, la fedeltà è un dovere e, quindi, il tradimento assume rilevanza in sede di separazione. Infatti, la legge prevede espressamente che al coniuge fedifrago possa essere addebitata la separazione quando la relazione extraconiugale rappresenta proprio ciò che ha causato la fine del matrimonio. Dunque, non vi sarà addebito quando la relazione clandestina sarà, al più, l’effetto di un rapporto coniugale già compromesso. Non è mai semplice provare che è stato proprio il tradimento a comportare – con diretto nesso di causa effetto – la fine del matrimonio e, comunque sia, l’infedeltà può essere fatta valere solo in sede di separazione (e non di divorzio) e solo quando vi è una causa giudiziale (e non consensuale). Ecco perché, spesso, l’ex coniuge tradito è frustato dalla sensazione di essere “cornuto e mazziato”: da un lato è stato ingannato e, dall’altro, non sarà così facile far valere la relazione clandestina del partner. Anche perché, dal momento che la pronuncia del giudice sull’addebito richiede un giudizio, prove, udienze, testimoni e così via, capita spesso che il coniuge tradito preferisca risparmiare la fatica (emotiva ed economica) e cercare di raccogliere i cocci per continuare la propria vita.  In ogni caso, quando vi è una pronuncia di addebito, il coniuge traditore perderà il diritto al mantenimento ed uscirà immediatamente dall’asse ereditario dell’altro (circostanza che, altrimenti, avverrebbe solo con il divorzio). Un’altra strada che il coniuge tradito può percorrere è quella della richiesta del risarcimento del danno (domanda che richiede l’instaurazione di un diverso giudizio rispetto a quello di separazione). Infatti, chi è stato tradito potrà rivolgersi al giudice e chiedere che venga disposto a proprio favore un risarcimento quando l’infedeltà gli ha causato un danno effettivo (fisico o psichico) alla salute oppure quando sia stata lesa la propria dignità. Quest’ultimo caso si verifica quando il tradimento è stato così palese e spudorato da provocare una concreta lesione della dignità della persona offesa. Per fare un esempio, la moglie che tradisce il marito sfacciatamente frequentando insieme all’amante gli amici e gli ambienti sociali propri del marito. E’ necessario, ed è una valutazione che opererà il giudice sulla base delle prove fornite, che il tradimento posto in essere superi la soglia della tollerabilità e che si traduca, per le sue modalità e per la gravità dello sconvolgimento che provoca nell’altro coniuge, nella violazione del diritto alla salute e/o alla dignità personale e/o all’onore. In conclusione, quindi, il fatto che l’infedeltà sia un’azione infelice è un’affermazione ovvia. L’addebito al coniuge fedifrago della separazione e il diritto al risarcimento del danno, invece, non lo sono e per ottenere giustizia è necessario raccogliere prove consistenti, rivolgersi a professionisti specializzati che possano cogliere tutte le sfaccettature della relazione, i punti di debolezza e quelli di forza. Indubbio, poi, che per chi vuole perseguire questa strada sia necessaria tanta determinazione. 

Maria Novella De Luca per ''la Repubblica'' il 7 giugno 2020. «Mi gridava: "muori, muori" il mio ex marito, mentre mi incendiava con la benzina. Ero impazzita dal dolore, il fuoco mi mangiava la carne, ma dentro di me c' era una voce che urlava: non muoio, no, vado dai miei figli. Correvo con le fiamme addosso, c' era una pozzanghera, ricordo di aver messo la faccia in quell' acqua sporca cercando di spegnere le ustioni che mi laceravano, correvo con la volontà disperata di restare viva». Maria Antonietta Rositani parla con voce affaticata dal suo letto nel reparto di chirurgia generale agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Infermiera, quarantadue anni, due figli, Anny e William, un matrimonio lungo vent' anni fatto di sevizie quotidiane, l' ex marito, Ciro Russo, che evade dai domiciliari, la bracca, le dà fuoco, Antonietta è una vittima "viva" di femminicidio. Sopravvissuta a una giustizia sorda che aveva "dimenticato" le sue denunce, sopravvissuta a oltre quattrocento giorni di ospedale e a cento interventi chirurgici, Antonietta oggi dice di essere diventata un fantasma per lo stato italiano.

Un fantasma, perché?

«Se fossi morta i miei figli di 19 e 10 anni sarebbero "orfani speciali" e avrebbero diritto almeno a un fondo per studiare. Sono sopravvissuta, per fortuna, ma per noi, morte a metà, questa è la beffa, non esistono né aiuti né sostegni. Sarò disabile a vita, non potrò più lavorare. Ma se oggi oltre il 50 per cento del mio corpo è coperto di ustioni è perché nessuno ha fermato il mio ex marito".

Chi poteva fermarlo?

«Le forze dell' ordine. Ciro Russo era agli arresti domiciliari a casa dei suoi genitori a Ercolano. Il 12 marzo del 2019 è evaso. Ha preso la macchina e si è messo in viaggio per Reggio Calabria. Suo padre ha denunciato l' evasione. Ma i carabinieri di Ercolano non hanno mai avvertito i carabinieri di Reggio. E nessuno ha avvertito me. Perché? Mi sarei salvata».

Racconti.

«Avevo accompagnato a scuola i ragazzi. La sua auto ha speronato la mia. Sono scesa, cercando di fuggire, mi ha raggiunta, mi ha cosparsa di benzina e mi ha dato fuoco, gridandomi: muori. Poi è scappato. Il giorno dopo era nel centro di Reggio a mangiare una pizza, spavaldo».

Un passo indietro Antonietta. Com' è cominciata?

«Per anni, come molte donne che scambiano la violenza per amore, ho sopportato ogni tipo di sopruso. Ci eravamo sposati da giovanissimi, ma lui era un uomo arrabbiato con il mondo. Tossicodipendente, ho scoperto poi. Mi pedinava, mi sequestrava il telefono, venivo picchiata, insultata, mi sbatteva la testa contro il muro, poi sputi, pugni».

Un calvario. Un giorno però lei reagisce.

«Quando ha alzato le mani contro Anny e ho visto la sua faccia piena di sangue ho trovato la forza di denunciare. Era il 19 dicembre del 2017. Tutto inutile. Ricordo le parole del carabiniere: "Signora, cosa vuole che sia uno schiaffo?"».

E la denuncia?

«Sepolta nel cassetto di quella caserma, come scoprì in seguito mio padre. Non mi avevano creduta. Intanto lui diventava un carnefice sempre più spietato».

Fino al 4 gennaio del 2018.

«La polizia mi trovò accasciata a terra. Non so più quante volte aveva sbattuto la mia testa contro il muro. Finalmente l' hanno portato in carcere. Ma nessuno mi ha avvertito, poi, del trasferimento ai domiciliari. Ci ha chiamato lui. Iniziando di nuovo a perseguitarci».

Quanto è dura la battaglia per tornare vivere?

«Sono in ospedale dal 12 marzo del 2019. Ho fatto trapianti, innesti di pelle. Il mio corpo è bruciato ovunque. A volte il dolore è insopportabile, ma i medici sono meravigliosi. Sto imparando di nuovo a camminare. Voglio giustizia. Tra poche settimane ci sarà la sentenza contro il mio ex marito. E lo Stato che ha armato la sua mano lasciandolo evadere, adesso deve aiutare la mia famiglia».

Il fidanzato di Gessica Notaro è stato condannato in appello a 15 anni e 5 mesi, quello di Lucia Annibali a 20 anni. Mentre la sfregiatrice di William Pezzullo, dopo una condanna ridotta a 8 anni, si è fatta pochi giorni di carcere poi subito ai domiciliari. Simona Pletto per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2020. «Non c' è giustizia per chi come me, come Jessica Notaro, Lucia Annibali o Willy Pezzullo, viene sfigurato con l' acido da un ex. Sette anni e dieci mesi sono una condanna davvero lieve. Io sono amareggiato, deluso, mi sento sfregiato per la seconda volta. Se fossi stato il figlio di un magistrato, a lei avrebbero dato almeno trent' anni». Scuote la testa Giuseppe Morgante, mentre commenta la sentenza letta alcuni giorni fa nel Tribunale di Busto Arsizio (Varese). Imputata a processo in rito abbreviato e grande assente in aula era lei, Sara Del Mastro, la 38enne con cui il giovane aveva avuto una breve storia e che un anno fa lo aggredì e lo sfregiò con l' acido solforico.

La donna è stata condannata a 7 anni e 10 mesi di carcere. Sentenza che è stata più clemente rispetto all' accusa che aveva chiesto una condanna di 10 anni.

«Ha scritto e depositato una lettera di scuse che io non voglio assolutamente leggere», spiega il giovane sfregiato, «considero quella donna un mostro che mi ha rovinato la vita», aggiunge. E continua: «La mia pelle tra qualche anno magari guarirà, non sarò più costretto a medicarla ogni due ore. Ma il mio occhio forse non si riprenderà mai. Di certo, io non tornerò mai più come prima, né dentro né fuori. Lei, invece, magari farà appello e tra un paio di anni sarà libera per come va la giustizia in Italia».

Morgante, che il prossimo 7 giugno compirà 31 anni, porta ancora sul corpo (occhio, volto, torace e una mano) le bruciature dell' acido. Si è già dovuto sottoporre a una decina di interventi, e altrettanti ne dovrà subire in futuro. La Del Mastro, dopo averlo chiamato a un appuntamento con la scusa di chiarimenti, aveva aggredito il giovane con cui aveva avuto una breve relazione e che si era conclusa con pedinamenti e telefonate ossessive messe in atto per settimane. Si parla di centinaia di messaggi, gomme dell' auto forate, minacce. L' ex l' aveva denunciata per stalking due settimane prima dell' aggressione, ma questo non aveva impedito alla donna di incontrarlo sotto casa e di rovesciargli addosso un bicchiere colmo di acido. Si era poi costituita in caserma a Legnano ed era stata arrestata la sera stessa della violenza.

 «Quando lunedì ho sentito la sentenza», spiega Giuseppe, «mi sono sentito così deluso, depresso. L' ho presa malissimo. Mi ha dato fastidio quella lettera, che è stata un chiaro tentativo di impietosire il giudice. Sì perché era datata 9 gennaio e se proprio ci teneva a chiedermi scusa, avrebbe potuto spedirla al mio indirizzo di casa visto che la conosce bene, con tutti i pedinamenti che mi ha fatto prima di sfregiarmi...». «Ho sbagliato, non mi crederai, ma ogni giorno mi sento uno schifo perché ho rovinato per sempre la vita di un ragazzo di trent' anni anni», ha scritto nella lettera l' imputata. Il documento è stato depositato in aula, poco prima che il gup emettesse la sentenza. «Il gesto che ho fatto è imperdonabile, ma è stato a seguito di alcune tue promesse che avevi fatto per tenermi tranquilla», si legge nella missiva. «Non credo al suo pentimento», precisa la vittima che, nonostante le ferite aperte, prova a uscire anche da se stesso. «Il giorno dopo», aggiunge, «ho saputo della sentenza minima inflitta all' autista ubriaco che ha ucciso i due fratellini. La vita di due angioletti per la giustizia valeva nove anni appena. Mi sono detto: io almeno sono vivo, loro invece no. Ma l' interrogativo resta: è giustizia questa?».

L' avvocato di parte civile Domenico Musicco puntava a 12 anni di reclusione con l' aggravante della premeditazione, che non è stata riconosciuta. «È una cosa che trovo inconcepibile», ha dichiarato Musicco. «Del Mastro ha confessato di aver comperato l' acido il giorno prima, ditemi chi va in giro in auto con l' acido sotto il sedile», ha commentato il difensore del ragazzo, «ci aspettavamo il massimo della pena previsto per questo reato».

E ancora: «Nel corso del processo i periti hanno certificato che la donna era capace di intendere e di volere al momento dell' aggressione, una circostanza che ci soddisfa. Lei aveva anche chiesto di patteggiare (cinque anni), ma la richiesta le è stata negata dal giudice», ricorda il legale che si prepara ad affrontare anche la causa civile. Sara Del Mastro, che si trova chiusa in carcere a San Vittore, è stata condannata per lesioni gravissime e stalking. «Io mi aspettavo una pena di almeno quindici anni», confessa Morgante, «non solo per me, ma per tutte le persone che sono state e che in futuro saranno fregiate con l' acido. Questo è un reato gravissimo, un terribile trauma che ti rovina per sempre la vita. A te e a tutti i familiari che ti stanno vicino. Sono convinto che servirebbero condanne esemplari, per far sentire che lo Stato c' è, che ci protegge da certi crimini. Come accade in Germania, in Belgio. Invece tra poco la vedrò uscire dal carcere, con tutte le paure che questo comporterà non solo per me, ma per i miei familiari. Una donna che fa una cosa come questa, è socialmente pericolosa e nessuno mi garantisce che abbia domato la sua violenza».

Sfregiò l'ex, la compagna di carcere: “Fece prove con l'acido”. Le Iene News il 09 giugno 2020. Sara Del Mastro è stata condannata in primo grado a 7 anni e 10 mesi per aver sfregiato con l’acido l’ex. Un anno fa abbiamo seguito il dramma di Giuseppe Morgante praticamente in diretta e continuiamo a farlo. Ora una compagna di cella della donna fa a Veronica Ruggeri delle rivelazioni che se confermate sarebbero davvero preoccupanti: “Ha un innamoramento epistolare con un detenuto di cui è gelosa. Lei è diabolica”. “Mi aspettavo una pena esemplare per far capire che questi atti non vanno più ripetuti” dice Giuseppe Morgante, sfigurato un anno fa con l’acido gettato dall’ex Sara Del Mastro. La donna di Legnano, in provincia di Milano, è stata condannata in primo grado a 7 anni e 10 mesi di reclusione. “Una cosa del genere non l’avrei fatta neanche a un cane. Significa che volevi sfigurare una persona”, commenta Giuseppe che oggi chiede solo giustizia. Ma per i giudici non c’è stata premeditazione e per questo hanno dato una pena ridotta. “Questo è un omicidio di identità che non ti porta a non avere più una tua vita sociale. Praticamente sei morto”, dice Giuseppe. “Nessuno va in giro con un bicchiere d’acido in macchina che lei stessa dice di essersi procurata il giorno prima”, sostiene Domenico Musicco, l’avvocato che difende Giuseppe. Oltre a pedinamenti, chiamate e messaggi, Del Mastro sarebbe arrivata a creare profili social falsi. Con nomi davvero inquietanti come Peppemorto91, Peppemorto79 da cui partivano messaggi con minacce: “Devi morire viscido”, “Non sei ancora morto? Peccato”, “Boom. E lo farai presto”. Di segnali preoccupanti ce ne sono stati tanti ma nessuno si sarebbe mosso per proteggerlo. Neanche quando la sera dell’aggressione ha chiamato i carabinieri senza che nessuno gli rispondesse. “Lei vuole concludere qualcosa che ha iniziato”, dice Giuseppe che vive nella paura, nonostante Del Mastro si trovi in carcere. E durante il processo settimana scorsa, gli ha mandato un messaggio. “Ho sbagliato anche se non crederai. Non c’è giorno in cui non mi sento uno schifo. Il gesto che ho fatto è imperdonabile, ma è stato a seguito di alcune tue promesse…”, scrive Sara che sembra quasi voglia incolpare Giuseppe. “Capisci che quando esce può succedere ancora qualcosa. Una che ti scrive così, fa paura”, dice lui. E lei ne è consapevole. “Puoi dormire sonni tranquilli, quando dici che hai paura e che io possa ritornare a importunarti no. Ti auguro il meglio anche se non mi crederai”. Nella lettera dice di avere dei progetti per quando uscirà dal carcere. “Mi hanno fatto arrabbiare le scuse”, dice Giuseppe. “Sono convinto sia una cosa dettata dal suo avvocato”. Nei mesi scorsi lei ha provato a difendersi in tutti modi. Ha chiesto anche una perizia psichiatrica per non stare in carcere. Quel giorno in tribunale c’eravamo anche noi. “Hanno chiesto la consulenza psichiatrica”, ci ha detto Giuseppe. E in più sono emersi nuovi indizi per capire meglio se Sara sia stata in grado di intendere e di volere oppure no. Ma soprattutto è emersa una testimonianza clamorosa. “Ho vissuto con lei in carcere. Mi ha raccontato dello stalking, dei profili falsi su Facebook… Era premeditato perché te lo confermo”, sostiene la testimone. “Lei è andata a comprare l’acido due giorni prima dicendo che aveva otturato un lavandino. Poi è tornata a casa e ha fatto delle prove su dei petti di pollo e su della carne. È stato un gesto calcolato, lei era irritata perché probabilmente Giuseppe aveva un’altra. Lei quando uscirà potrebbe fare qualcosa. È diabolica”. Questa donna però ha chiesto di non partecipare al processo. Che lei fosse consapevole di quello che faceva emerge da un’altra registrazione fatta dallo stesso Giuseppe. “Ti ho fatto il mondo, non lo nego. Volevo che passavi un quarto del male che avevo io dentro”, le dice. Un dettaglio che ha confermato anche a noi, quando l’abbiamo incontrata la prima volta qualche tempo prima dell’aggressione.  “Nel momento in cui mi sono ritrovato solo c’eravate voi. Tutto questo si poteva evitare”, dice Giuseppe. Ora lui non può più fare nulla per cambiare la sentenza. Chi può chiedere di rifare il processo è proprio Sara. Ma c’è un altro dettaglio. “Sono fortemente preoccupata. Sara sta facendo le stesse cose che ha fatto con Giuseppe nei confronti di un ragazzo”, sostiene la compagna di cella di Sara. Si tratterebbe di un detenuto del carcere di Opera, i due si sarebbero innamorati per corrispondenza. “In carcere non si è molto ricchi, quindi si riciclano i francobolli”, racconta la donna. Secondo questo racconto, sembra che Sara per rispondere alle lettere utilizzerebbe più volte lo stesso francobollo. “Lei un paio di volte ha notato che quel francobollo era già stato usato. Così è andata su tutte le furie. Credeva avesse usato quel francobollo per un’altra donna”. Insomma, sembra che in lei sia tornato il chiodo fisso della gelosia. “Un’incazzatura spropositata per una cazzata”, dice la compagna di cella. “Questa persona è fortunata che lei si trova a San Vittore”. 

Sopravvissuta alla benzina del marito: dov'era lo Stato? Le Iene News il 09 giugno 2020. Nina Palmieri ci racconta l’orrore passato da questa donna e il suo coraggio. Il marito, nonostante le sue tante denunce cadute nel vuoto, le ha dato fuoco con la benzina dopo anni di violenze. Lei, dopo 500 giorni d’ospedale e più di 20 operazioni, riesce a sorridere. Ma ha ancora paura. “Ho visto la sua faccia, una faccia tranquillissima fiera di sé come per dire: finalmente ora te la faccio pagare. Mi ha detto: ‘muori’ e mi ha buttato la benzina, in faccia soprattutto e poi dappertutto. Sentivo il calore, il fuoco, ero una palla di fuoco”. Nina Palmieri ci racconta una storia che mette a nudo fin dove può spingersi l’odio di un essere umano, la storia di Maria Antonietta che parla, dopo più di 20 operazioni, dal letto di un ospedale e ha ancora paura del suo ex marito. Aveva 19 anni quando perse la testa per Ciro Russo, un aspirante carabiniere che conquista la fiducia anche dei parenti. Lei resta incinta dopo pochi mesi e papà Carlo la accompagna felice all’altare. Nel sogno iniziano ad affacciarsi però ombre inquietanti. “Un giorno ci bisticciammo, ero al nono mese e lui mi diede un calcio”, racconta Maria Antonietta. “Ero sconvolta, ma provai a dimenticare, ero innamoratissima”. Purtroppo è l’inizio di una vita fatta di urla, schiaffi e spintoni. La figlia Annie ricorda a Nina quei 15 anni di violenze sulla madre da parte di quell’omone di due metri e più di centro chili che minacciava tutti, anche lei. Intanto arriva anche un altro figlio, il piccolo William. Nel 2016, al 17° anno di violenze e soprusi, Maria Antonietta racconta di aver chiamato polizia e carabinieri per sette volte. Dopo l’ennesima lite violenta, Annie affronta il padre: “Basta, devi andartene”. Lui le dà uno schiaffo che le fa perdere tantissimo sangue. La madre, che aveva appena ricevuto una prognosi di dieci giorni per policontusioni, chiama la polizia davanti a Ciro. Le due donne ci dicono che l’arrivo di due agenti non le rassicura. Maria Antonietta ha paura anche per i figli e denuncia per la prima volta il marito in caserma: “Ho chiesto aiuto ma i carabinieri non sono mai venuti”. Ciro picchia più forte sentendosi impunito: la casa diventa un inferno. Annie una volta sente “Adesso io ti ammazzo”: avverte il padre Carlo che va da carabinieri. L’uomo racconta che i militari si sarebbero dimenticati in un cassetto la denuncia della donna. Arriva nella stanza lo zio Danilo: “Papà, corriamo, che Ciro sta ammazzando Maria Antonietta”. “Chiesi al maresciallo: andiamo subito?”, dice Carlo. “Mi disse: non possiamo venire noi, lei deve telefonare”. A casa il padre trova la polizia che ha arrestato Ciro per maltrattamenti in presenza del bambino. A Ciro viene dato un divieto di avvicinamento, lui però si fa vedere lo stesso. Viene condannato a tre anni ma si fa soltanto qualche mese di carcere e finisce ai domiciliari dai genitori. Inizia a chiamare a madre e figlia: vuole tornare. Il 12 marzo 2019: Ciro Russo fugge dai domiciliari a Ercolano (Napoli). Il padre se ne accorge la mattina e lo denuncia ai carabinieri temendo per Maria Antonietta maa nessuno avrebbe avvertito le forze dell’ordine a Reggio Calabria, dove Ciro è già arrivato alle 6. La telecamera automatica di un distributore lo riprende mentre riempie tre bottiglie di benzina. Chiama per 13 volte la moglie. Il suocero riesce a far arrivare comunque la notizia dell’evasione del figlio. Maria Antonietta chiama subito la polizia, passano tre minuti al telefono mentre lei è terrorizzata in auto fuori di casa. Ciro la trova e le taglia la strada e dà fuoco alla sua macchina. Maria Antonietta esce, lui le lancia benzina addosso e dà fuoco anche a lei, come vedete dalle terribili immagini del servizio. Lei si butta un po’ d’acqua in faccia da una pozzanghera. Fugge in un locale, si vede in uno specchio “viva, con il volto deformato”. E Ciro? Scappa in auto e, secondo le indagini, va poi dai familiari del suo migliore amico Davide, che sarebbe arrivato dopo un quarto d’ora e poi lo avrebbe accompagnato in un “covo”, una casa abbandonata in cui resterà latitante per quasi due giorni. La notte del 13 marzo Ciro se ne va tranquillamente in pizzeria, un cittadino lo riconosce: chiama la polizia, che lo arresta. Per Maria Antonietta intanto è iniziato un lungo calvario in ospedale di giorni, settimane, mesi, operazioni su operazioni. Per 5 volte ha rischiato la vita, ma ora può tornare a sorridere grazie ai medici di Bari e Reggio Calabria. Dopo 500 giorni è ancora sul letto di un ospedale, il sogno è quello di potere di ritornare a casa. La famiglia si è pure indebitata per alcune cure, anche perché alla figlia non spetta niente come risarcimento. Non esistono fondi appositi per aiutare queste vittime. Mentre la paura resta: e quando Ciro tornerà libero?

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2020. Questa è la storia della compagna Laura e di Andrea, il suo fascio-fidanzato. Un amore finito male, perché lei, di sani principi democratici, quando ha scoperto con quale "orrendo" estremista di destra si stava per congiungere, ha mandato all' aria il matrimonio. Niente "compromesso storico". Manco sotto le lenzuola. Ed è un fatto inedito. Perché oggi le coppie scoppiano per corna, noia, scazzi o "modestie" sessuali. La pregiudiziale ideologica (ammesso che sia vera) è una cosa nuova. Però non è per questo che la coppia è finita sulla stampa locale. È successo perché Andrea, ferito nei sentimenti e nel portafoglio, ha chiamato in giudizio Laura per farsi restituire i soldi della mancata cerimonia e degli arredi di casa. E il tribunale gli ha dato ragione, condannando lei a un risarcimento di 30mila euro. Con ordine. I due - come riporta il Giornale di Vicenza - si conoscono sul traghetto per la Sardegna. È il 2014. Si piacciono, si fidanzano. Laura lavora nel commercio elettronico di prodotti di bellezza ed è un' attivista per la tutela dei diritti umani. Andrea è di Bologna e fa l' operaio. Città rossa e lavoro politicamente corretto: agli occhi di lei, vicentina, deve sembrare l' uomo perfetto. Così dopo tre anni di fidanzamento decidono di sposarsi. Sei mesi prima della cerimonia, però, succede un fatto. Mentre guardano vecchie foto di lui, viene fuori il suo passato da camerata. Andrea le spiega che con la politica ha chiuso. Erano pulsioni giovanili. Laura sul momento si placa. Ma poi inizia a indagare sui trascorsi del suo futuro marito. E boom: la cooperante scopre che il suo bello apparteneva a un' organizzazione di estrema destra. E, peggio ancora, a suo carico c' è anche una vecchia denuncia per omofobia. Una aggressione a due ragazzi gay. Chiamato a riferire davanti al "tribunale del popolo", Andrea spiega la sua versione. «A quei due ragazzi non ho fatto niente, l' inchiesta a mio carico è stata archiviata». E infatti le cose stanno così. Quanto alla sua affiliazione, il ragazzo giura di aver tagliato ogni legame con i neo-fasci bolognesi: «È roba di vent' anni fa, non li ho mai più visti». Niente da fare, Laura non transige. Un neo-nazi è per sempre, come i diamanti. Ma - ed è questo il motivo per cui è stata condannata - invece di mollarlo, lo lascia a bagnomaria. È fredda e sfuggente sì, ma non fa parola della sua decisione, mentre lui va avanti con i preparativi del matrimonio. La nostra Carola Rackete si decide ad annunciare il due di picche solo a una settimana dal giorno del fatidico "sì", lasciando il Balilla come un fesso. Gli scrive anche una lettera. Spiegando che, tra chi saluta col pugno chiuso e chi con il braccio teso, non ci può essere futuro. La decisione di emarginare il fascio risaliva a mesi prima. Ma lei non aveva avuto il coraggio di affrontare l'argomento, mentre il "nero" andava avanti come un wedding planner, acquistando confetti e la cucina da Ikea. Scema, lei. Perché Andrea porta in tribunale quel pezzo di carta olografo. Il dolore ora è diventato rabbia. Vuole essere risarcito. Ci sono le spese per il banchetto nunziale, gli addobbi della chiesa, le bomboniere, il vestito, l' appartamento dove avrebbero dovuto vivere una volta sposati. E poi che dire della figura di merda con i parenti? Fascista (ex) sì, fesso no: l' uomo vuole essere pagato sia per il danno materiale che per quello morale. E il Tribunale di Vicenza gli dà ragione. Laura dovrà versare ad Andrea 30mila euro. Non solo per rifondere le spese del matrimonio mancato. I giudici hanno riconosciuto all'uomo bolognese anche il danno per la perdita di chance. Se egli avesse saputo prima delle intenzioni della donna di mollarlo, nel frattempo si sarebbe potuto mettere su piazza, trovando un' altra fidanzata. Magari una di Casa Pound.

G.D.S. per “il Corriere della Sera - Edizione Roma” il 26 maggio 2020. Dal 2014 ha interrotto «arbitrariamente» di versare l' assegno di mantenimento dei figli minori. «Condotta discutibile», tale persino da aver «esasperato» l' ex moglie, scrive il giudice nelle motivazioni della sentenza con cui, però, assolve l' imputato dal reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. «Il fatto non sussiste», si legge nel provvedimento, perché «nonostante gli omessi adempimenti l' uomo non ha deprivato i figli minori dei mezzi di sussistenza primari, facendo fronte direttamente egli stesso alle esigenze morali ed economiche dei suoi ragazzi». Per esempio, ricorda il giudice, «consegnando brevi manu il denaro agli stessi per le spese mediche e di abbigliamento». La tesi tuttavia non è stata condivisa dal pm, che invece aveva avanzato una richiesta di condanna a quattro mesi di reclusione. Certo il giudice stigmatizza il comportamento dell' uomo: «La condotta dell' imputato è discutibile perché ha arbitrariamente deciso di non versare più gli ordinari mezzi di pagamento al coniuge». Però l' addebito da elevare a carico dell' imputato va ridimensionato in quanto ha comunque provveduto alle esigenze del nucleo famigliare relative alla crescita, all' educazione e al mantenimento dei figli. La vicenda ha inizio nel 2014 quando l' imputato, imprenditore a Ostia, smette di versare l' assegno di mantenimento di 650 euro al mese per i figli, pur essendovi obbligato come stabilito dal Tribunale civile all' esito del giudizio di separazione. A quel punto l' ex moglie lo denuncia perché si trova ad avere «delle difficoltà a provvedere alle incombenze a suo diretto carico inerenti il mantenimento dei figli». L' uomo finisce sotto processo. In aula il resoconto della moglie - come nota il giudice - appare esasperato proprio dalle complicazioni nate dalle scelte dell' ex compagno. La signora però ammette anche che l' ex marito le ha dato 58 mila euro per l' acquisto della casa. Interrogato, l' imprenditore- difeso dell' avvocato Pablo De Luca - confessa le sue mancanze: «È vero, materialmente non ho più consegnato i soldi per i miei figli alla mia ex moglie, ma non perché non li avevo: forse ho sbagliato ad agire così di testa mia, ma io penso ai miei figli tutti i giorni della mia vita». Anzi l' imputato prova a rovesciare in aula la situazione: «Mai mi sarei aspettato di trovarmi qui, perché la mia ex moglie sa benissimo che io ho fatto da padre e da madre. Penso a tutto per i miei figli». Fa anche un esempio: «In vacanza, mio figlio lo porto cinque volte all' anno. Gli devo pagare anche la vacanza con la mamma?». Nell' interrogatorio è senza freni: «Il completo per il calcio glielo laviamo al 50 percento io e al 50 percento mia madre. Quando la mia ex mi diceva di avere difficoltà a fine mese, ho dato 100 o 200 euro ai miei figli perché glieli portassero». E infine l' imprenditore conclude: «Ho la coscienza pulita al cento percento». E il giudice, assolvendolo, gli ha creduto, ritenendo la sua testimonianza documentata.

Da "ilmessaggero.it" il 21 aprile 2020. Nozze annullate se la moglie è gay. L'omosessualità della moglie, anche nel caso di un matrimonio durato più di dieci anni e arricchito dalla nascita di tre figli, è stato riconosciuto dalla Cassazione come motivo valido per la delibazione di una sentenza ecclesiastica di annullamento delle nozze, in questo caso di una coppia pugliese, insieme all'esclusione della indissolubilità del vincolo da parte del marito. Invano il Pg si è opposto parlando di decisione «discriminatoria» della libertà sessuale e affettiva della donna considerata affetta da «malattia psichica».

Da  dirittoegiustizia.it il 14 maggio 2020. Nessun dubbio sulla colpevolezza di un uomo, che ha presentato una denuncia assolutamente falsa nei confronti della coniuge separata. Evidente per i giudici l’offesa arrecata alla reputazione della donna, attribuendole una inesistente relazione extraconiugale. Guerra totale tra i coniugi ormai in separazione. Pessima idea, però, quella dell’uomo, cioè addebitare alla moglie una inesistente relazione extraconiugale. Legittima la sua condanna per diffamazione (Cassazione, sentenza n. 13564/20, sez. VI Penale, depositata il 4 maggio). Dignità. Linea di pensiero comune per i giudici di merito: così, prima in Tribunale e poi in Corte d’appello, l’uomo viene ritenuto colpevole «dei delitti di diffamazione e di calunnia in danno della moglie separata», delitti commessi attraverso una regolare denuncia, centrata anche sul presunto tradimento ad opera della consorte. L’uomo prova a ridimensionare la propria condotta, soffermandosi sulla difficile, a suo dire, «configurabilità della lesione alla reputazione della persona offesa». Per i giudici della Cassazione, invece, la condanna va confermata senza dubbio. Nessun dubbio, in sostanza, sulla «falsità delle accuse formulate dall’uomo nella denuncia a carico della moglie». Logico, quindi, parlare di «calunnia derivante dalla formulazione nei confronti della persona offesa di accuse prospettate in termini volutamente diversi da quanto accaduto realmente e dunque non spiegabili soggettivamente sulla base di diversi apprezzamenti del reale». Evidente, poi, la diffamazione subita dalla donna, alla luce dell’«ingiustificato addebito» a suo carico «di intrattenere una relazione extra-coniugale con un altro uomo», elemento, questo, «intrinsecamente idoneo a vulnerare non l’opinione che la persona offesa ha di sé, bensì, oggettivamente, l’apprezzamento da parte della storicizzata comunità di riferimento del complesso dei valori e delle qualità che la vittima esprime, quale dinamica sintesi della sua dignità personale, apprezzamento cui si correla la lesione dell’altrui reputazione, che integra il delitto di diffamazione», concludono i giudici.

La Cassazione: "No al pendolarismo dei figli dei genitori separati". Sentenza su una coppia in Veneto. La Corte dà torto al padre: "La bambina non può spostarsi nel fine settimana di 90 chilometri". La Repubblica il 10 marzo 2020.  No al pendolarismo dei figli di genitori separati: l'interesse preminente, in questi casi, è sempre quello dei minore. Questa la posizione che emerge da una sentenza con cui la Cassazione ha regolato l'affido condiviso di una bambina, evitandole il continuo passaggio dal comune di residenza del padre a quello della madre e fissando in una sola città il luogo in cui vivere per metà settimana con l'uno e poi con l'altro genitore, in due case diverse. Il caso preso in esame dalla Corte riguarda una famiglia veneta: dopo la "rottura" tra i due genitori, la piccola abitava con il padre, in una casa messa a disposizione dalla mamma, per poi passare con quest'ultima, in una cittadina a quasi 90 chilometri, il fine settimana. Queste, infatti, erano state le disposizioni fissate in primo grado dal Tribunale per i minorenni di Venezia, modificate però in appello, quando, alla luce dell'esame di un perito, si era deciso che la bambina vivesse in modo stabile nella città della mamma, la quale si era impegnata a prendere in affitto una casa nello stesso comune nella quale il papà potesse trascorrere i giorni a lui spettanti. Contro il decreto emesso dai giudici di secondo grado, l'uomo si era rivolto alla Cassazione ritenendo violata la propria "libertà personale", di "movimento" e di "residenza", perché la decisione impugnata aveva "subordinato la possibilità di frequentare la figlia imponendogli un domicilio forzato". La Suprema Corte, prima sezione civile ha rigettato il ricorso del papà. Con queste motivazioni: "E' evidente che, essendo entrambi i genitori residenti in luoghi diversi e desiderosi entrambi di mantenere un regime di piena condivisione dell'affidamento della figlia, che, a sua volta, non può sobbarcarsi, se non altro per le sue esigenze scolastiche, a un pendolarismo fra i due luoghi di residenza dei genitori, la soluzione adottata dalla Corte d'appello viene necessariamente ad operare un bilanciamento fra gli interessi e le esigenze dei due genitori, che tiene conto degli impegni lavorativi della madre e della maggiore disponibilità di tempo del padre, cui viene incontro imponendo la messa a disposizione di una residenza da parte della madre". Dunque, il provvedimento della Corte d'appello veneziana, secondo i giudici di Piazza Cavour, non può considerarsi "restrittivo della libertà personale e di residenza del padre" perché "adottato per rispondere alle esigenze di una piena frequentazione della figlia con entrambi i genitori". Nell'ipotesi in cui il papà rifiuti tale soluzione, conclude la Corte, "imporrà di fatto la stabile residenza" della bambina "presso la madre, in attesa della eventuale revisione del collocamento, da valutare sempre alla luce del preminente e migliore interesse della minore".

Giu.Sca. per “il Messaggero” il 7 marzo 2020. I padri - e in generale i genitori non collocatari - che non esercitano il diritto di visita stabilito dal giudice, non possono essere puniti con sanzioni economiche che li spingano a frequentare i figli. Lo sottolinea la Cassazione che ha annullato le multe da cento euro a un padre renitente per ogni incontro saltato con il figlio minore. Per gli ermellini, il diritto di visita non si può «monetizzare» ed «è destinato a rimanere libero nel suo esercizio». Meglio pensare a percorsi «condivisi» per migliorare i rapporti. Con questo verdetto i supremi giudici hanno accolto il ricorso di un papà impreparato che ha protestato contro le sanzioni da cento euro per ogni incontro mancato - o meglio evitato - con suo figlio, nato nel 2003 e oggi adolescente, riconosciuto dopo una lunga causa sulla paternità. L'uomo rifiutava il rapporto e non frequentava Lorenzo, ormai diciassettenne, sottraendosi al diritto di visita stabilito dal Tribunale di Chieti che, per costringerlo ad occuparsi del figlio, aveva deciso che il padre sfuggente versasse alla madre del ragazzino cento euro per ogni incontro saltato. Anche la Corte d'appello de L'Aquila nel 2018 aveva confermato le sanzioni. Il padre multato ha protestato sostenendo che il diritto di visita è libero e «non coercibile». Gli ermellini gli hanno dato ragione: non è prevista la «coercibilità in via indiretta», meglio azionare progetti condivisi, e solo in casi eccezionali arrivare all'affidamento esclusivo o alla decadenza della potestà genitoriale. Monetizzare, dice la Cassazione, significherebbe «banalizzare un dovere essenziale del genitore». «La questione che viene in esame da questa Corte - spiega il verdetto, relatrice Sara Scalia - è quella di stabilire se il diritto-dovere del genitore non collocatario, ferma l'infungibilità della condotta, sia suscettibile di coercibilità in via indiretta», ossia se fermo restando che non si possono pretendere prestazioni alternative, in quanto il ruolo del genitore è insostituibile, sia possibile prendere provvedimenti che lo spingano ad esercitarlo. Spiega il verdetto che il diritto-dovere di visita «costituisce una esplicazione della relazione fra il genitore e il figlio che può trovare regolamentazione nei suoi tempi e modi, ma che non può mai costituire l'oggetto di una condanna ad un facere sia pure infungibile». Infliggere multe «si pone in evidente contrasto con l'interesse del minore il quale viene a subire in tal modo una monetizzazione preventiva e una conseguente grave banalizzazione di un dovere essenziale del genitore nei suoi confronti, come quello alla sua frequentazione». Ciò non significa che se il genitore che rifiuta il suo ruolo «permanga nel suo comportamento», non ci sia nulla da fare. «Possono essere non solo modificati i provvedimenti de potestate sino alla decadenza stessa dalla responsabilità genitoriale». In proposito, la Cassazione sottolinea che non si possono fare le multe, ma si possono prendere contromisure. «All'inerzia del genitore non collocatario» si può rispondere, nei casi più gravi, con l'affidamento esclusivo all'altro genitore, la decadenza della patria potestà, l'adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale. Fino ad arrivare alla «responsabilità penale» per violazione degli obblighi di assistenza familiare quando il disinteresse per il figlio si traduce nella «sostanziale dismissione delle funzioni genitoriali» che mette «seriamente in pericolo il pieno ed equilibrato sviluppo della personalità del minore».

Da “la Stampa” il 2 marzo 2020. Basta poco per far scattare la separazione con l' addebito, tornato di moda nei tribunali dopo un periodo di soffitta, per punire il presunto colpevole dell' affossamento del matrimonio. Sono sufficienti delle foto che mostrano uno dei coniugi in un «atteggiamento di intimità» non meglio specificato, ma che «secondo la comune esperienza induce a presumere l' esistenza di una relazione extraconiugale». Il via libera a questo tipo di prove senza appello - non corredate da sms, ricevute sospette, testimoni della scappatella - arriva dalla Cassazione.

La presunzione. I supremi giudici - verdetto 4899 - hanno confermato la "colpa" di un marito romano, Roberto R., accusato di tradimento dalla moglie Isabella per alcune foto che lo mostrano vicino ad una donna. Immagini, quelle in questione, che non danno conferma immediata e palmare di una relazione adulterina ma la fanno «presumere» non si sa da quali indizi, se non il riferimento al dato di «comune esperienza», criterio assurto ad ago della bilancia per accollare la colpa morale di aver infranto l' obbligo di fedeltà. Sulla base della labile traccia di una «produzione fotografica» che lo ritraeva nei pressi di una donna «in un atteggiamento di intimità che secondo la comune esperienza induce a presumere l' esistenza tra i due di una relazione extraconiugale», la Cassazione non ha creduto a Roberto che sosteneva che si trattava solo di un «atteggiamento puramente amicale». Magari camminava a braccetto con una compagna del liceo incontrata per caso, o toglieva un capello dalla giacca di una collega in pausa pranzo. Gesti di «intimità» che, sembrano far capire i giudici, non finiscono lì, c' è dell' altro, è «comune esperienza». La coppia, scoppiata per delle foto che sembrano solo un grande punto interrogativo, non ha in ballo nessun interesse patrimoniale, ognuno è autosufficiente e non ha chiesto nulla all' altro. Roberto e Isabella hanno un' unica figlia maggiorenne e quasi del tutto autosufficiente alla quale il padre deve dare 200 euro al mese per aiutarla. I due non hanno litigato per la casa, l' affido dei figli, l' entità dell' assegno, i periodi di villeggiatura e il gatto. Hanno pagato avvocati e scomodato giudici per delle foto che sono solo un sospetto. Magari una bufala come Bradley Cooper e Lady Gaga a cantare "Shallow" la notte degli Oscar.

Massimo Sanvito per “Libero quotidiano”l'11 febbraio 2020. Storia singolare, quella che vi raccontiamo. Storia di liti e tribunali, e con un verdetto che - come spesso accade - non chiarisce a noi "spettatori" da che parte sia davvero la ragione. Con il "colpevole" accusato di aver messo la madre malata davanti alla moglie nella gerarchia della priorità. E la consorte furiosa che lo cita in giudizio. Succede che a Messina ci sia una famigliola composta da papà, mamma e figlioletta. La madre di lui, però, è gravemente malata e ha assoluto bisogno di cure. Dall' altra parte c' è una moglie, definita dall' uomo gelosa e possessiva. Proprio lui decide che non può mica fregarsene di chi l' ha messo al mondo, e dunque lascia casa sua per trasferirsi da lei ad assisterla. Allora scoppia il finimondo, con la moglie che si presenta in Tribunale per fargliela pagare: pretende la separazione, e che sia da addebitare solo la marito, ragion per cui è lui che dovrebbe pagare le spese di mantenimento a lei e alla bambina. Succede poi che il Tribunale, la Corte d' Appello e pure la Cassazione diano ragione alla donna. La colpa è solo dell' uomo, perché ha violato il dovere di coabitazione coniugale. Poco importa che non se ne sia andato di casa per scappare con l' amante, ma per l' appunto per curare la mamma malata. Il colpevole della rottura del matrimonio è solo lui. E deve pure pagare gli alimenti, nonostante la (ex) moglie abbia una borsa di studio da 800 euro al mese. Di fatto, secondo i giudici il marito avrebbe potuto prendersi cura dell' anziana anche senza venir meno ai doveri coniugali. Perché tra i principi del matrimonio, oltre alla fedeltà nella cattiva e nella buona sorte, c' è pure il dovere di vivere sotto lo stesso tetto. In effetti, lasciare la casa coniugale è un reato previsto dal codice penale, che prevede anche la reclusione fino a un anno di galera o una multa compresa tra i 132 e 1.032 euro. Tutto comprensibile, ma - come detto - qui non si tratta di un fedifrago che abbandona moglie e figlia per scappare con la ventenne di turno. Possibile che, al netto di screzi forse precedenti di cui non siamo a conoscenza, non possa decidere di assistere la mamma malata? Per andarsene da casa senza rischiare nulla, secondo la legge, il partner deve provare che ci siano stati "infedeltà, violenza fisica, verbale e psicologica, il venir meno dei rapporti sessuali, le inconciliabili incompatibilità caratteriali". Per tutto il resto non esistono giustificazioni. Ma in tema di violazioni degli obblighi famigliari, i casi curiosi e a dir poco discutibili non mancano. A inizio anno, per esempio, una donna di Sassari è stata condannata dalla Cassazione perché se n' era andata di casa per due giorni. Dopo vent' anni di matrimonio ha deciso di prendersi una pausa di riflessione e allontanarsi dal marito e dai due figli. Mai una scappatella, mai una sbandata, mai un tradimento. Il tempo di capire che voleva proseguire la sua vita insieme alla sua famiglia e si è ripresentata a casa. Peccato che la serratura era già stata cambiata e il suo compagno di una vita si è rifiutato di darle una seconda possibilità. La magra consolazione è stato l' affidamento congiunto del figlio più piccolo, che ora vive con lei. Ma intanto la donna ha perso l' assegno di mantenimento e la casa coniugale, oltre a vedersi confermato l' addebito. I giudici non hanno fatto sconti: alla donna sono bastate 48 ore per rovinarsi.

Patrizia Maciocchi per ilsole24ore.com il 13 febbraio 2020. La notorietà del marito non è una buona ragione per mantenere il suo cognome dopo il divorzio. Neppure se con il nome dell’ex la signora è nota nei salotti buoni. La Corte di cassazione (3454) respinge il ricorso della donna che, dopo il divorzio, non si poteva rassegnare a riprendere il suo nome da “signorina”, mandato in soffitta, ancora prima del fatidico sì, per barattarlo con quello del suo più famoso consorte, che rifiutava però di lasciarglielo come trattamento di fine rapporto.

La luce riflessa. Inutilmente la ricorrente cerca di convincere i giudici dell’importanza di continuare a chiamarsi con il nome acquisito dopo le nozze. Un diritto che considerava anche nell’interesse della figlia, per il disagio che avrebbe provato nell’ambiente scolastico se la madre fosse stata costretta a presentarsi come la signora tal dei tali. Ma, pregiudizi per la figlia a parte, gli argomenti usati dalla ricorrente sono essenzialmente ”mondani”. Utilizzando il suo nome avrebbe perso certamente la luce “riflessa” che le derivava dalla notorietà del marito, nelle frequentazioni sociali. In più ai giudici la ricorrente chiedeva di tenere conto, sapendo di non poter contare su un matrimonio lunghissimo, anche del periodo di fidanzamento durante il quale si presentava già come la signora X.

Solo la vedova può. La Cassazione non è sensibile al tema. I giudici della prima sezione civile, ricordano che per conservare, di regola, il cognome del marito è necessario essere vedove, salvo poi perderlo se si convola a nuove nozze. Negli altri casi servono delle ragioni eccezionali che sta al giudice valutare. E nel caso esaminato i giudici non trovano proprio nulla di eccezionale. La figlia si troverà in una situazione analoga a quella vissuta da tutti i figli di divorziati. E la signora, che si era sposata a 38 anni, potrà tornare al nome che utilizzava prima di incontrare il brillante marito e con il quale, vista l’età delle nozze, avrà acquisito, anche se lei per prima sembra non crederci, una sua identità. Dunque nessun diritto di ”usucapione” del nome.

Il pregiudizio per l’ex marito. Mentre l’uso, anche dopo lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, malgrado l’opposizione dell’uomo, si può tradurre in un pregiudizio per l’ex marito che intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale, un nuovo nucleo familiare rendendolo riconoscibile come attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente. Quanto alle frequentazioni mondane, certamente sapranno già tutto sulle vicende della coppia.

Divorziare? Fino a sette anni di attesa per la sentenza di primo grado. In Italia i tempi per le separazioni e i divorzi sono particolarmente lunghi. Il problema è strutturale e una riforma di questo tipo di processi si può e si deve fare per dare alle persone risposte rapide e certe sulla propria vita. Alessandro Simeone Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre, il 19 Novembre 2019 su La Repubblica. Una delle prime domande che chi vuole separarsi rivolge all’Avvocato è: “ma quanto tempo ci vuole?”. Le reazioni alla risposta sono più o meno standard: occhi sbigottiti e imprecazioni. Perché separarsi (e divorziare) è un percorso lunghissimo, oltreché - molto spesso - assai doloroso e costoso. Se si trova un accordo - e questo accade grazie al lavoro di mediazione di quegli avvocati poco desiderosi di rimanere invischiati in procedimenti eterni - i tempi sono accettabili: dai tre ai nove mesi per separarsi e altrettanti per divorziare. Usando poi la negoziazione assistita, procedimento con cui si salta il passaggio in Tribunale, ci si può separare in un mese e divorziare in sette. I problemi cominciano quando l’accordo è impossibile. Secondo le statistiche del Ministero di Giustizia, un processo di primo grado dura in media tre anni, quello in Appello due anni e tre mesi, quello in Cassazione (dati del 2017) altri tre anni e quattro mesi. Totale 3.130 giorni. Per le separazioni e i divorzi la situazione può anche essere peggiore. La legge, infatti, prevede che ai tre anni di media del processo civile ordinario, siano aggiunti quelli della prima fase “speciale”, prevista solo per chi vuole lasciarsi; una fase che dura dai quattro mesi (nei Tribunali virtuosi e per le situazioni urgenti) ai dodici di quelli più in affanno; il che porta a una durata complessiva che non difficilmente è inferiore a tre anni e mezzo/quattro, periodo che è destinato ad aumentare nelle situazioni particolarmente complesse. I tempi raddoppiano se si vuole anche divorziare. Facendo due rapidi calcoli, per arrivare a una sistemazione (più o meno) definitiva non è difficile impiegarci sette anni solo per il primo grado. Quali sono i motivi di questa lunghezza? Sarebbe falso dare la colpa agli avvocati che, nel procedimento civile, non hanno alcun potere di dettare i tempi. Sarebbe facile – e superficiale - dare la colpa ai magistrati che certamente non si divertono a dilatare a dismisura i tempi. Il problema, almeno per il diritto di famiglia, è proprio strutturale: alla naturale litigiosità dei coniugi – molti dei quali vedono nel conflitto giudiziario il modo per prolungare la loro relazione - il legislatore dovrebbe rispondere con l’accorciamento dei tempi per il processo, sforbiciando drasticamente molti passaggi perfettamente inutili (come quello dell’ultima udienza in cui gli avvocati non fanno altro che ribadire le loro richieste), privilegiando (come accade nel penale) la discussione orale, a scapito di quella scritta. Di tutto questo, però, non v’è traccia nei numerosi processi di riforma del processo civile di tutti gli ultimi governi. Forse perché si ritiene che separazioni e divorzi non incidano sulla competitività del sistema; un’opinione che ha come presupposto la mancata comprensione di quanto, invece, sia importante per le persone avere risposte rapide e certe sulla loro vita. Sapere, in tempi accettabili, chi vivrà nella casa, se si deve pagare (o ricevere) un assegno di mantenimento, quando si possono vedere i figli, contribuisce a una maggiore stabilità, con le conseguenti ricadute positive, non solo sulle persone in sé ma sulla loro capacità di essere buoni cittadini ed efficienti produttori di ricchezza personale e collettiva.

Ha un figlio ma lo scopre solo dopo diversi anni: condannato al risarcimento. Per la giurisprudenza, infatti, basta aver consumato rapporti sessuali all'epoca del concepimento per essere comunque colpevoli: non conta quanto tempo sia passato e l'essere a conoscenza della paternità. Alessandro Simeone, Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre,  l'08 Febbraio 2020 su La Repubblica. Un giovane all’età di 14 anni scopre di essere nato da una relazione tra sua madre e un uomo all’epoca sposato con un'altra donna. Passati oltre 23 anni senza aver fatto nulla, il ragazzo, ormai diventato un uomo adulto, agisce contro il padre non solo per il riconoscimento ma anche per il risarcimento del danno. Il padre si è difeso ammettendo di aver avuto rapporti, 38 anni prima, con l’amante ma replicando che per lungo tempo nessuno si era fatto sentire e che, dunque, lui non aveva fatto il genitore per non essere stato messo nella condizione di esserlo. Nulla da fare per lui, perché il Tribunale di Bergamo non solo ha accertato la paternità (dopo perizia genetica) ma lo ha anche condannato a versare al figlio 70 mila euro. Una sentenza, quella orobica, che potrebbe anche stupire, se non fosse che si pone in linea con l’atteggiamento rigorosissimo (e per certi aspetti punitivo) dei nostri Tribunali e della Corte di Cassazione, per i quali non conta il tempo trascorso, non conta il fatto di non aver la certezza della paternità e non conta neppure il fatto che un figlio, pur raggiunta la maggiore età, non abbia mai mosso alcuna obiezione al presunto padre e abbia  preferito aspettare così tanto tempo prima di “presentare il conto”, incolpando il genitore dei suoi fallimenti professionali e personali. Per la giurisprudenza, infatti, per essere condannati basta l’aver consumato rapporti sessuali all’epoca del concepimento e non conta quanto tempo sia passato. In questi casi, infatti, la prescrizione del risarcimento del danno (solitamente quinquennale) comincia a decorrere solo dopo la sentenza che abbia accolto la domanda di riconoscimento da parte del figlio; domanda che, a sua volta, non è soggetta ad alcun termine e può essere presentata anche dopo la morte del padre. Un meccanismo che equipara chi rimane in silenzio per anni e aspetta il momento giusto per agire a tutti quei figli che, seppure riconosciuti legalmente, hanno patito il dolore delle assenze e delle angherie di un genitore (padre o madre non fa differenza) che, consapevolmente, non ha adempiuto ai propri doveri. Potrebbe non essere un desiderio malsano quello di vedere, prima o poi, qualche giudice invertire la tendenza e condannare solo chi, colpevolmente, non ha voluto fare il genitore. 

Tradimento, se la prova arriva dai social può non bastare nel processo per divorzio. Due sentenze del Tribunale di Catania e della Corte d'appello di Palermo hanno portato alla ribalta i social media come "prova" a carico in un processo per divorzio. Ma non sempre gli screenshoot incriminati sono sufficienti in tribunale per dimostrare l'infedeltà del coniuge o il tenore di vita. Alessandro Simeone Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare in materia di diritto di famiglia di Giuffrè Francis Lefebvre, l'08 Ottobre 2019 su La Repubblica. Nelle cause familiari uno dei punti più controversi è sempre stato quello leagato alla prova del tradimento. L'avvento dei social network, ma soprattutto l'uso spesso incauto che i coniugi che si lasciano ne fanno, hanno cambiato lo scenario. Un tempo gli amanti clandestini si rifugiavano nei motel o si appartavano di notte. Oggi, invece, non sono infrequenti i casi di persone che, prese dall'ebrezza dell'apparire, postano fotografie che li ritraggono in ristoranti di lusso - magari seguite da una recensione su Tripadvisor - o impegnati in vacanze da sogno, con immancabile foto al tramonto su Istagram con una bottiglia di champagne sullo sfondo; così come capita che qualche status o tag sbagliato possano far sorgere più di un sospetto su eventuali relazioni extraconiugali. La Rete non perdona ma soprattutto non dimentica. Se è praticamente impossibile risalire al momento in cui una fotografia è stata scattata, i social sono impietosi nel testimoniare che in quella data, a quell'ora si era in un determinato posto con una certa persona. Ed è così che gli screenshot sono diventati un ottimo strumento per provare l'addebito in una separazione o per aiutare a ricostruire il tenore di vita familiare (valido oggi solo per la separazione ma non per il divorzio). Ma non sempre i post su Facebook o Instagram sono sufficienti. Proprio di recente due sentenze lo hanno ribadito a chiaramente: nel primo caso, affrontato dal Tribunale di Catania, erano state depositate nel fascicolo della causa le fotografie pubblicate ritraenti il marito abbracciato teneramente a un'altra donna; nel secondo caso, discusso dalla Corte d'appello di Palermo invece, la moglie accusata di tradimento, si era limitata ad accettare il cybercorteggiamento di un altro uomo. Entrambe le decisioni hanno precisato che le fotografie, gli status e i messaggi pubblici sui social network possono servire a livello indiziario, ma non bastano a ritenere comprovata una relazione adulterina. Sia il marito catanese che la moglie palermitana l'hanno scampata. Rimane però necessario ribadire che un maggior rispetto della propria privacy e la consapevolezza che usare i social equivale a "mettere in piazza" la propria intimità e quella del proprio partner dovrebbero indurre a una maggior prudenza nella condivisione con gli estranei della propria vita. Il prezzo della vanità 2.0 può anche essere molto caro.

Viviana Persiani per “Libero quotidiano” l'8 gennaio 2020. «L' Epifania molti matrimoni si porta via». Sarà anche vero, infatti, che quello di Natale è, tradizionalmente, il periodo consacrato alla famiglia, ma, dati alla mano, è anche il momento nel quale le coppie in crisi rischiano definitivamente di scoppiare. Il perché è presto detto. Il lungo periodo di vacanza obbliga, tanti, a dover convivere, 24 ore al giorno, sotto lo stesso tetto, facendo acuire i dissapori e le tensioni, fino al fatidico «facciamola finita». Non a caso, a Milano, tra il 7 e il 30 gennaio, si registra un incremento del 35,1% delle richieste di separazione. Come spiega il sessuologo e psichiatra Marco Rossi: «Passare più tempo insieme, rispetto al solito, fa emergere tutte le incompatibilità. Anche perché molti si sentono sotto pressione: pensano di dover trascorrere un Natale perfetto, proprio come quelli dei film delle feste. E così, anche quando si rendono conto che il rapporto è irrimediabilmente compromesso, si sentono obbligati a rimanere con il partner fino alla fine delle vacanze. Questo periodo dell' anno evoca una risposta così emotiva che a volte le persone vogliono dissimulare le negatività della loro vita e concentrarsi sulle cose felici. Ma solo fino a quando le vacanze finiscono». Insomma, a leggere le statistiche e queste dichiarazioni, si farebbe bene a mettere in chiaro le cose prima del 24 dicembre, per evitare di dover affrontare quindici giorni da "arresti domiciliari". Da questo punto di vista, è interessante il libro La matematica del cuore (Piemme), scritto da Alessandro Nicolò Pellizzari e da Eliselle, testo che si occupa anche di questo problema nel capitolo "Diario di sopravvivenza per le feste". Come spiega la sua autrice: «Le coppie in crisi fanno in genere due errori capitali, cercando di sistemare i loro guai sentimentali, ma ottenendo il risultato contrario: cercare un figlio e programmare una vacanza insieme. In particolare, la vacanza si dimostra letale perché la coppia in crisi spesso sopravvive grazie alla scarsa condivisione del tempo, vuoi per il lavoro vuoi per le incombenze familiari. Le distanze tengono sopiti i problemi che continuano a covare sotto la cenere, ma non appena si ricomincia a stare più insieme, bastano un paio di settimane scarse per innescare i meccanismi classici provocati dalla frustrazione e dal disamore, con l' unica conclusione possibile: fuoco, lapilli e distruzione». Pellizzari aggiunge che «il fondo lo toccano soprattutto coloro che prima delle feste hanno iniziato una storia clandestina. Avere l' amante avrà trasformato i momenti col coniuge in una sorta di tortura. Soprattutto per le donne, da sempre più convinte e coinvolte quando scelgono un altro uomo. Gli uomini invece avranno tirato fuori la cattiveria alimentata dal rancore per il coniuge, visto ormai come principale impedimento per coronare il nuovo sogno d' amore. Tutto ciò si traduce in litigi quotidiani che proseguono anche dopo la Befana». Insomma, appare evidente come la soluzione più logica, sia quella di non trascinarsi i problemi di coppia durante le vacanze natalizie. Che poi, non serve essere in crisi per farsi mandare di traverso il panettone. Avere a casa il marito per 14 giorni, mentre siete alle prese con il cenone della vigilia, con quello di Natale, con quello di San Silvestro, con il pranzo di Capodanno, ovvero quando gli chiedete di andarvi a comprare il sale che sta finendo e lui torna dopo un' ora e mezza come se avesse fatto la Parigi-Dakar, metterebbe a dura prova la resistenza di ogni moglie. Per non parlare della suocera che durante il cenone ti liquida con un «buoni i ravioli di carne, li hai comprati vero?» o un «almeno il brodo è caldo, anche se insipido», cercando di sminuirti agli occhi del figlio. Ecco, diciamo che, a volte, una moglie vorrebbe divorziare da tutta la sua famiglia, indipendentemente dal periodo dell' anno. Altro che Epifania.

Da ilmessaggero.it  il 21 gennaio 2020. Moglie e marito litigano e lei decide di andarsene di casa dopo 20 anni di matrimonio e due figli. Poi, dopo 48 ore, ha deciso di tornare a casa ma non ha potuto rientrare perché il marito, nel frattempo, ha cambiato la serratura della porta d'ingresso dell'abitazione. Il marito, dopo quell'episodio, ha deciso di chiedere il divorzio e i giudici hanno deciso di addebitare la separazione alla donna. La vicenda che ha visto coinvolta una casalinga di Sassari è descritta oggi dall'Unione Sarda: la Cassazione ha confermato le sentenze del Tribunale di Sassari e della Corte d'Appello di Cagliari, addebitando alla donna, "colpevole" di una breve latitanza, la separazione. La donna non sarebbe fuggita con l'amante, ma questo non ha cambiato la decisione dei giudici. Allontanarsi di casa per due giorni, a fronte di due decenni vissuti sotto lo stesso tetto, è una colpa non scusabile quando, come in questo caso, non ci sono state "pressioni, violenze o minacce del marito", scrive l'Unione Sarda. Così, la donna è andata a vivere da sua madre, ha perso ogni diritto alla casa e all'assegno familiare.

La Cassazione: Niente affido al papà che lascia i figli ai nonni. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. Per l’avvocato Massimiliano Gabrielli, coordinatore nazionale dell’Associazione padri separati, si tratta è «una sentenza che non tiene conto del tempo presente». È un punto “a sfavore” del papà separato che chiede l’affidamento dei figli l’accertamento, da parte di giudici ed operatori sociali, del fatto che, invece di passare assieme i momenti stabiliti, il genitore lasci i bambini in accudimento ai nonni. La sentenza, depositata ieri dalla prima sezione civile della Cassazione, riguarda una causa di separazione tra due coniugi, dalle cui nozze sono nate due figlie. La Corte d’appello aveva stabilito l’affidamento delle minori alla madre, nonché modificato il regime di visita tra le bambine e il padre, incaricando gli operatori del Comune di monitorare la situazione con la possibilità di intervenire «a limitazione o ad ampliamento» degli incontri tra le bimbe, il papà e i nonni paterni». Nella sentenza, con cui i giudici della Cassazione hanno confermato la decisione di secondo grado, si fa riferimento alla «scarsa presenza del padre in casa nei periodi in cui avrebbe dovuto tenere con sé le figlie» e della «delega dallo stesso operata delle sue funzioni genitoriali alla propria madre» : il padre, avevano verificato i giudici, «trascorre poco tempo con le figlie che lascia con i propri genitori allontanandosi dalla loro casa, presso cui egli continua a portare le figlie, per tutti il giorno e tornando solo la sera». Per l’avvocato Massimiliano Gabrielli, coordinatore nazionale dell’Associazione padri separati, si tratta è «una sentenza che non tiene conto del tempo presente».

Figli troppo tempo coi nonni? Affido a rischio per i separati. Per i giudici i papà non possono delegare ai parenti la funzione genitoriale, neanche per impegni di lavoro. Redazione de Il Giornale Mercoledì 22/01/2020. Attenzione a lasciare troppo tempo i figli ai nonni se si è un padre separato che chiede l'affidamento dei pargoli, soprattutto se c'è una ex moglie non proprio ben disposta. Per i giudici della Corte di Cassazione, infatti, non è una buona prassi delegare la funzione di genitore a mamma e papà. Non importa se ormai i nonni sono un aiuto prezioso per tutte le famiglie con bambini piccoli. Nei periodi in cui i minori devono stare con il papà, non è possibile che siano i nonni a provvedere a loro tutto il giorno e che il genitore si limiti a vederli soltanto la sera al momento di tornare a casa. Per la Suprema Corte è un punto a sfavore del papà separato che chiede l'affidamento dei figli l'accertamento, da parte dei giudici e degli operatori sociali, del fatto che, invece di passare assieme i momenti stabiliti, il genitore lasci i bambini in accudimento ai nonni. Che un tale comportamento remi contro il tentativo di ottenere più tempo da trascorrere con i figli, risulta da una sentenza depositata ieri in Cassazione relativa ad una causa di separazione tra due coniugi. Un'unione dalla quale sono nate due figlie, che ora - come spesso accade - sono oggetto del contendere tra i due ex. La Corte d'Appello aveva stabilito che le minori fossero affidate alla madre. Nel modificare il regime di visita tra le bambine e il padre, gli operatori del Comune erano stati incaricati di monitorare la situazione con la possibilità di intervenire «a limitazione o ampliamento» degli incontri tra le bimbe, il papà e i nonni paterni. I giudici della Suprema Corte hanno deciso di confermare la sentenza di secondo grado e nella decisione hanno stigmatizzato la «scarsa presenza del padre in casa nei periodi in cui avrebbe dovuto tenere con sé le figlie» e la «delega delle sue funzioni genitoriali operata alla propria madre». Secondo le toghe del Palazzaccio il papà «trascorre poco tempo con le figlie che lascia con i propri genitori allontanandosi dalla loro casa, presso cui egli continua a portare le figlie, per tutto il giorno e tornando solo la sera». «Una sentenza non in linea con tempi», secondo l'avvocato Massimiliano Gabrielli, coordinatore nazionale dell'Associazione Padri Separati. «Va sicuramente interpretata - sostiene il legale - ma come al solito non viene riproposta al contrario, verso la madre. Si contesta il fatto che i bambini stiano con i nonni, che il padre cioè deleghi le funzioni di cura e studio a loro, ma non avviene mai il contrario nel caso in cui a farlo sia la madre. È una sentenza che non tiene conto del tempo presente». «Molto spesso - aggiunge il legale - le disposizioni stabilite dai tribunali non tengono conto delle disponibilità di tempo dei genitori e delle difficoltà economiche dei padri per tenere i figli: il padre che esce dalla casa coniugale a volte non ha abitazione adeguata ad accogliere la prole e se è fortunato può appoggiarsi alla casa dei genitori».

Eugenio Pendolini per nuovavenezia.gelocal.it il 21 gennaio 2020. E' entrata in tribunale con addosso un cartellone, su cui era vergato il numero di una sentenza e la foto della figlia. Accanto il nome del marito, trevigiano. D'un tratto è uscita, andandosene. Dopo pochi minuti è tornata: in un attimo si è cosparsa di benzina, dandosi fuoco. Una giovane mamma si è data fuoco davanti alla sede del Tribunale dei minori di Mestre. Il gesto, secondo le prime informazioni, è da mettere in relazione ad un procedimento della giustizia civile che la vede coinvolta. La tragedia si è consumata oggi, lunedì 20 gennaio, sul piazzale di fronte al tribunale dei minori. Immediati i soccorsi da parte dei dipendenti del tribunale che sono accorsi dalla donna con gli estintori e hanno spento le fiamme. La mamma è stata soccorsa e portata all'ospedale. Le sue condizioni sono gravi. Su quanto accaduto indaga la Polizia. È stata ricoverata all'ospedale all'Angelo di Mestre in gravi condizioni. Fonti del nosocomio fanno sapere che la paziente è stata immediatamente presa in cura dai sanitari e intubata. Il cartello che aveva con sé la donna che stamani si è data fuoco davanti al Tribunale dei minori di Mestre fa esplicito riferimento al marito, «un tipo di padre che ha violentato l'infanzia della sua bambina». La giovane ustionata è di origini marocchine. «Ha fatto il massimo - si legge sempre nel cartello - per allontanare la piccola e mandarla in comunità: che vergogna».

"VORREI SOLO UN REGALO DAL 2020: VEDERE I MIEI FIGLI, UNA SOLA VOLTA, TUTTI INSIEME”. Dagospia il 4 gennaio 2020. Da “I Lunatici - Radio2”. Telefonata da brividi nella notte di Rai Radio2. Con i Lunatici Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio in diretta, poco dopo l'una e trenta una signora di nome Veronica ha composto lo 063131 per raccontare la sua storia. "Vi chiamo per ringraziarvi per tutta la compagnia che mi fate ogni notte. Sono da sola. Spero che la vostra trasmissione possa aiutarmi. Ho tre figli, il più grande di 34 anni. Mi furono tolti dai servizi sociali tanti anni fa. Una storia lunga e brutta. Il loro papà mi picchiava, sono successe delle cose che non è il caso di raccontare qui e ora. Vorrei solo un regalo dal 2020 e dalla Befana che sta per arrivare: vederli una volta, una sola volta, tutti insieme. Loro sanno di essere fratelli. Mi ricordo ancora il momento in cui me li tolsero dalle mani. Dalle braccia. E' una cosa orribile per una mamma. Una cosa che non auguro a nessuno. Vi chiamo da Riva del Garda. I miei figli si chiamano Alessandro, Matteo e Luca".  La telefonata si è poi chiusa con la signora Veronica in lacrime.

Telefono Rosa al ministro Bonafede: «Il nome è sbagliato e un bimbo con la leucemia non ottiene l’invalidità». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Rosa Gabriella Carnieri Moscatelli. Illustre ministro, ogni anno le volontarie si riuniscono per fare un escursus dell’anno appena trascorso. Durante l’incontro è inevitabile che si affronti il grande problema della difesa legale delle donne che si rivolgono alla nostra associazione. Il senso di impotenza che pervade tutte noi quando leggiamo alcuni provvedimenti. Ci siamo poste molte domande che giriamo a Lei signor ministro. Perché ad oggi non c’è un progetto di rivisitazione e riorganizzazione dei Tribunali? Le criticità che hanno presentato quest’ultimo anno i tribunali dei minori, le difficoltà oggettive dei giudici di pace non le suggeriscono una accurata analisi? Per essere più chiare le parliamo di episodi avvenuti nei tribunali minorili, impegnati con la parte più fragile della nostra società: i bambini e gli adolescenti. Pochi mesi fa una nostra avvocata ci ha comunicato che su un provvedimento di affido dei minori alla madre hanno sbagliato il nome dei figli. Sappiamo già che un semplice errore per essere corretto ha una procedura lunga e contorta. L’ultimo ha colpito un nucleo di mamma con tre figli, il più piccolo ammalato di leucemia. Il provvedimento con nome sbagliato risale al giugno 2018, a causa di ciò l’Inps ha rigettato la richiesta di pensione di invalidità. Appena arrivata la notifica Inps, nel settembre 2019, si è fatta richiesta di correggere il nome sul decreto. Il 19 dicembre 2019 è stata presentata una nuova richiesta perché dopo tre mesi la correzione non è stata eseguita. Un atto che richiede pochi secondi, atto che deve porre rimedio ad un errore del tribunale, purtroppo dopo tre mesi giace ancora inevaso. Il bambino non può prendere la pensione di invalidità, ogni pratica che la mamma deve aprire non procede perché il provvedimento è sbagliato. Ma questo è uno stato che rispetta il cittadino o lo tratta da “suddito”? E ancora ministro, posso farla partecipe delle dolorose vicende che hanno dovuto affrontare alcune delle donne ospiti delle case rifugio e che ci hanno confermato che viene ignorata completamente la convenzione di Istanbul oggi legge dello Stato italiano. Abbiamo letto l’appello al presidente Mattarella della signora Merighi che denuncia il trattamento che il tribunale dei Minori di Roma le ha riservato. Possiamo affermare, senza temere di essere smentite, che lo stesso trattamento è stato riservato, recentemente, ad una madre ospite di una nostra casa che ha denunciato il marito violento e con un ordine di protezione è entrata in una delle nostre case. Il marito ha ottenuto dal Tribunale dei minori un decreto provvisorio che ignora la decisione del Tribunale Penale di Roma. Solleva la giovane mamma dalla responsabilità genitoriale e colloca la bimba di 14 mesi, presso una casa famiglia. La mamma può seguire se vuole la bambina! Abbiamo scritto a tutte le istituzioni interessate al provvedimento. Nessuna ha risposto. Non basta, il genitore ha chiesto al Tribunale Penale la revoca del provvedimento di “protezione”. Il Tribunale Penale di Roma, con grande professionalità, ha immediatamente avviato il procedimento. A gennaio è stata fissata l’udienza. A lei ministro, chiediamo di far luce su episodi che troppo spesso vedono bimbi strappati alle loro madri che hanno una sola colpa: quella di aver denunciato un marito violento. 

Chiede l’affido del figlio di sei anni, ma l’ok arriva  quando è maggiorenne. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Gianni Santucci. Il punto chiave di questa odissea burocratica e giudiziaria sta in un aggettivo, quello che identifica il provvedimento: «Decreto definitivo». È quel definitivo che bisogna fissare, se si considera la domanda: un uomo che nel 2006, dopo la separazione dalla moglie, si rivolgeva al Tribunale per chiedere d’urgenza l’affidamento condiviso del figlio e una regolamentazione del proprio «diritto di visita» del bambino. Il piccolo, all’epoca, aveva 6 anni: ma la decisione del Tribunale per i minorenni (il «decreto definitivo») è arrivata soltanto nel 2017, quando il bambino era diventato ormai un ragazzo. Ma non è tutto, perché a quel punto, col ricorso del padre in Corte d’appello, i tempi sono andati ancor oltre. E dunque la sentenza che avrebbe dovuto regolare il diritto di visita di un padre a un bambino di 6 anni è stata confermata quando il giovane, ormai maggiorenne, poteva decidere in autonomia della sua vita e dei suoi rapporti con i genitori. È una vicenda della quale il Corriere non rivela altri dettagli per non rendere identificabili le persone coinvolte, ma che, con immediata evidenza, sollecita una domanda: come è stato possibile? Prima di provare a rispondere, bisogna dar conto dell’ultimo passaggio, che risale al 13 dicembre 2019. Porta infatti quella data la lettera con la quale il legale del padre, Gianpaolo Caponi, con il suo collega Francesco Langè, chiede al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia un maxi risarcimento. Un milione di euro: perché «per colpa di un vuoto decisionale», si legge nella lettera, nel quale non sono state emesse «neppure in via temporanea ed urgente delle regole seppur minime che potessero assicurare una frequentazione periodica», all’uomo «è stato precluso, forse per sempre, il diritto di vivere con il proprio figlio». «Siamo di fronte alla violazione di un diritto primario inviolabile, con un danno irreversibile e non quantificabile», riflette l’avvocato Caponi. La vicenda ha inizio nel 2006 e si genera all’interno di un rapporto di conflitto continuo e profondissimo tra madre e padre, da poco separati. Solo nel 2008 i giudici (onorari) incaricano i servizi sociali di fare un’istruttoria, organizzare incontri padre/figlio «in modalità protetta» e valutare le personalità dei genitori. L’esito di quel percorso è una relazione (depositata nel 2009) nella quale gli assistenti sociali spiegano «di non aver rilevato inadeguatezze genitoriali», anzi «evidenziano quanto i genitori siano importanti punti di riferimento per il minore, in grado di offrire allo stesso risorse differenti, ma comunque preziose». Anche il padre «appare affettuoso con il figlio, capace di condividere con lui momenti sereni e divertenti». Il vero problema resta la «conflittualità tra i genitori». Un’altra relazione è datata 2010, ma non arriva ancora la decisione, e una pronuncia non si ottiene neppure nel 2012 e nel 2014, quando la causa viene trattenuta in decisione, ma poi rimessa sul ruolo, con le audizioni che riprendono nel 2016: fino a quella del 2017 in cui il ragazzo si rifiuta di andare in Tribunale. Il passare degli anni è stato scandito da lettere con richiesta di far vedere il bambino al padre, e nei primi periodi alcuni incontri si riuscivano comunque ad organizzare, anche al di fuori di quelli (della durata di un’ora) con gli assistenti sociali presenti. Padre e figlio riuscivano così a tenere un filo di contatto e una volta passarono anche qualche giorno di vacanza insieme, ma tutto questo è sempre avvenuto senza un quadro di regole definito dalla giustizia. Fino a che, come spiegato dal ragazzo in audizione nel 2014, «i rapporti si sono sempre più diradati, fino a interrompersi». Col decreto del 2017 i giudici affidano il ragazzo (ormai 17enne) in via esclusiva alla madre, spiegando di fatto che è sempre stata una «brava madre», pur non essendo stata in grado di assicurare il diritto alla «bi-genitorialità».

In caso di divorzio la casa familiare rimane ai figli. Marzia Coppola, Studio legale Bernardini de Pace, su Libero Quotidiano il 9 Gennaio 2020. Può succedere che una storia d’amore giunga al capolinea. In quel momento le questioni da affrontare sono moltissime. Tra queste, una delle più spinose e problematiche, è quella di determinare chi possa continuare a vivere nella casa dove la vita familiare si è svolta. Nessun problema se non ci sono figli: la casa rimarrà a chi ne è proprietario e, in caso di cointestazione dell’immobile, i comproprietari decideranno – insieme – le sorti (vendita a terzi, vendita della quota di uno all’altro, donazione e così via). La situazione diventa complicata se ci sono figli. La regola principale è che la casa venga assegnata al genitore presso il quale i figli vivranno prevalentemente (il c.d. genitore collocatario), nella maggior parte dei casi la mamma. Indipendentemente dal fatto che l’immobile sia di proprietà di uno solo dei genitori, dal fatto che uno dei due sia stato generoso cointestando, in “tempi non sospetti”, l’immobile anche all’altro o, addirittura, dal fatto che l’immobile coniugale sia di proprietà dei genitori di uno dei partner (quindi i nonni dei bambini) e sia stato previsto un diritto di comodato a favore della giovane famiglia (salvo rare eccezioni). Con la casa vengono assegnati anche gli arredi, le suppellettili e le altre pertinenze: dagli armadi alle poltrone, dagli elettrodomestici alle posate, dai quadri ai tappeti. Dunque, chi dovrà trasferirsi altrove potrà portare con sé solo gli effetti personali (indumenti, gioielli, strumenti di lavoro e così via). Il diritto di proprietà sull’immobile non viene scalfito, ma – nei fatti – temporaneamente limitato. Ed è proprio questa limitazione a creare malcontenti e a nutrire il senso di ingiustizia e di imparzialità. Bisogna, tuttavia, riflettere sul fatto che questa previsione normativa trova la sua ragion d’essere in un bene superiore: l’interesse dei figli a continuare a vivere nel loro habitat familiare ossia nel luogo dove sono cresciuti per evitare, in questo modo, che subiscano un nuovo e ulteriore smarrimento. I minori, d’altra parte, dovranno certamente cambiare la loro quotidianità (zainetto alle spalle ogni fine settimana, giocattoli e abbigliamento sparsi dall’uno e dall’altro genitore, tempi prestabiliti per vedere mamma e papà e così via). È importante, quindi, garantire ai più piccoli certezze, costanza e punti fermi tra i quali, certamente, spicca quello di assicurar loro di poter continuare a vivere dove sino a quel momento sono cresciuti. In termini simbolici, infatti, la casa rappresenta il nostro centro, le nostre radici e la nostra identità psicologica. Mamma e papà, in caso di accordo, possono sempre determinarsi per l’assegnazione dell’immobile coniugale al genitore presso il quale i bambini vivranno prevalentemente cioè optare per la soluzione che viene scelta dai giudici nella maggior parte delle cause giudiziali. I genitori, tuttavia, potranno anche decidere di far cambiare abitazione ai figli, ma è importante che lo facciano accompagnando questa decisione da delicatezza e sensibilità. Rendendo la nuova casa una prospettiva gioiosa (per esempio invitando i bambini a scegliere il loro nuovo lettino o il colore delle pareti della nuova cameretta), anziché occasione di dolore per l’abbandono di quella precedente dove i più piccoli avevano riposto rassicuranti certezze, sane consuetudini e confortevole quotidianità. Una diversa soluzione, ancora, è quella di organizzarsi affinché siano i genitori ad alternarsi presso l’abitazione familiare e, al contrario, decidere che i figli vi rimangano in pianta stabile. Mamma e papà, in altre parole, potrebbero vivere nella casa familiare a settimane alterne e trascorrere il resto del tempo altrove (dai genitori, in un monolocale in locazione, dal nuovo fidanzato/a e così via). Quest’ultima scelta è probabilmente poco frequente, ma certamente molto responsabile da parte dei genitori che dovranno – questa volta loro e non i minori – preparare la valigia, dormire a settimane alterne in un letto diverso e perdere quella quotidianità e comodità che avevano instaurato nell’abitazione familiare. D’altra parte, la scelta di separarsi è loro, non dei minori. In ogni caso, l’assegnazione della casa familiare dipende strettamente dalla convivenza con i figli ed è, dunque, sempre e comunque un diritto temporaneo. Chi si è visto privato dell’abitazione di sua proprietà/comproprietà per alcuni anni, quando i figli si saranno trasferiti altrove (per esempio per studiare o lavorare all’estero), potrà far valere le tutele previste dalla nostra legge e ristabilire, in questo modo, quel diritto che negli anni è stato “intralciato” in forza dell’assegnazione al genitore collocatario. Marzia Coppola

Divorzio e animali domestici, tutto quello che c'è da sapere. Marzia Coppola, studio legale Bernardini de Pace su Libero Quotidiano il 3 Gennaio 2020. Nella nostra società e nelle nostre famiglie gli animali domestici assumono, giorno dopo giorno, un ruolo più importante. C’è chi sceglie generosamente di tenere un cane o un gatto per salvarlo dalla triste sorte dell’abbandono. Chi ha paura di sentirsi solo e vuole garantirsi amore e attenzioni incondizionati. Chi vuole insegnare responsabilità e solidarietà ai bambini e sceglie di farlo con un animale del quale il minore deve prendersi cura. Chi vuole aggiungere amore alla propria vita o alla propria coppia. Chi ripone nell’animale domestico la strategia per fare nuove conoscenze. Qualunque sia la ragione, il risultato è lo stesso: un animale domestico implica tanto amore, calore e tenerezza, ma altrettanta responsabilità, sacrificio e scelte. Anche in caso di divorzio. Come fare, infatti, se l’amore – quello tra gli uomini – finisce, ma quello per l’animale domestico rimane talmente vivo che entrambi non possono pensare di vivere senza il proprio border collie o il proprio certosino? La risposta non è così immediata e, in caso di contestazione, non ci si può limitare a verificare chi sia l’intestatario del microchip. La soluzione più intelligente sarebbe quella di farsi guidare da buon senso e ragionevolezza e decidere - di comune accordo - con quale padrone il cane o il gatto dovrà vivere, prevedendo la possibilità per l’altro di portarlo al parco di tanto in tanto, di trascorrere pomeriggi insieme e di spartire le spese per l’acquisto del cibo e per le cure mediche. Traguardo che può essere raggiunto con l’aiuto di avvocati che indichino al proprio Assistito fino a che punto insistere per evitare pretese infondate e richieste ingiustificate. Ma se non si riesce a trovare un accordo e si rende indispensabile rimettere al giudice la decisione su chi debba tenere con sé il cane o il gatto? Il punto è che, in materia, la nostra legge non fornisce alcuna indicazione che possa guidare le decisioni dei giudici e lo spirito pratico delle parti. Ogni causa, quindi, è a sé e sarà valutata distintamente non solo tenuto conto dei vari orientamenti giurisprudenziali sino a oggi elaborati ma, altresì, in base alla sensibilità di ciascun giudice nei confronti degli amici a quattro zampe. Alcune pronunce, per esempio quella del tribunale di Milano del 2011 o quella del tribunale di Como del 2016, hanno affermato che il “giudice non si debba occupare dell’assegnazione degli animali domestici”. Secondo queste pronunce, la questione potrebbe trovare ingresso nelle aule giudiziarie solo in caso di accordo tra i padroni. Tuttavia, altre sentenze - per esempio una pronuncia del tribunale di Milano nel 2013 e di Roma nel 2016 - hanno “smussato gli angoli” dell’orientamento sopra descritto affermando che l’animale da compagnia è un “essere senziente” al quale deve essere riconosciuto un vero e proprio “diritto soggettivo”. Senza che questo implichi l’equiparazione ai figli. Non è possibile, in altre parole, estendere al cane e al gatto le previsioni del codice civile in materia di filiazione. In un crescendo di decisioni garantiste, nel 2019, il tribunale di Como ha addirittura posto l’accento sul “benessere dell’animale” e sul proprio “miglior sviluppo possibile” come valori che il giudice deve considerare nel determinarsi in un senso o nell’altro. Dal punto di vista legislativo, infine, esiste una proposta di legge che, se approvata, determinerebbe l’aggiunta del seguente articolo nel codice civile: “in caso di separazione dei coniugi, proprietari di un animale familiare, il tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, indipendentemente dal regime di separazione o di comunione dei beni e secondo quello che risulta dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti i coniugi, i conviventi, la prole e, se del caso, esperti di comportamento animale, attribuisce l’affido esclusivo o condiviso dell’animale alla parte in grado di garantirne il maggior benessere. Il tribunale è competente a decidere in merito all’affido anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”. È innegabile, quindi, come negli anni vi sia stata sempre una crescente sensibilizzazione nei confronti degli amici a quattro zampe, ormai considerati preziosi e insostituibili compagni di vita ai quali deve essere riconosciuto – anche giuridicamente – il ruolo fondamentale che ricoprono nella quotidianità di milioni di famiglie italiane. Marzia Coppola, studio legale Bernardini de Pace.

Il dramma di Mariana:  «La mia bambina rapita un’altra volta. Il padre la vuole riportare in Siria». Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 su Corriere.it da Andrea Galli. Tre anni fa la bambina era stata portata via dal padre siriano. Il 28 novembre è stata liberata e affidata alla madre. Il 20 dicembre il padre si è presentato a scuola e l’ha sottratta di nuovo. Lo stesso orario e sempre un giorno di dicembre. Come avvenne nel 2016. Allora, alle 13 del 31 dicembre, il siriano Maher Balle rapì la figlia e sparì. Per tre anni. Fino alla conclusione di una complicata operazione internazionale di polizia, alla liberazione dell’11enne (nascosta in Siria) lo scorso 28 novembre, al suo ritorno a Milano e all’affidamento alla mamma, l’ecuadoriana Mariana Veintimilla, 53 anni, che da quell’uomo, violento e fanatico, si era già separata in passato. Alle 13 di ieri, Balle è andato nella scuola media in zona Porta Romana dove la figlia frequenta il primo anno, il personale dell’istituto — uno dei più famosi in città — non ha posto obiezioni, lui ha preso in consegna la figlia, è uscito e l’ha sequestrata una seconda volta. Una testimone riferisce di averlo visto con due valigie. Una per sé, l’altra per la ragazzina. Il cellulare è spento. E così quello della figlia. Mariana, accompagnata dall’avvocato Angelo Musicco, che le sta dando il massimo dell’appoggio, è corsa in tribunale, dal pm Cristian Barilli, titolare del fascicolo. La caccia a Balle, 42 anni, è subito (ri)partita. Una caccia, se possibile, ancora più difficile della precedente. E nessuno sa dire quali possano essere, questa volta, le intenzioni del siriano. Gli accertamenti stabiliranno le responsabilità: è evidente che Balle non potesse prelevare la ragazzina, ma bisogna vedere se il divieto fosse stato già stabilito dai giudici e comunicato alla scuola, oppure se quest’ultima già sapesse e avesse ricevuto i documenti, e dunque abbia compiuto un errore dalle imprevedibili conseguenze. Al momento la priorità è trovare l’uomo in fuga. Il prima possibile. Immediate le azioni degli investigatori, comunque partiti in ritardo, non per colpa loro: secondo quanto raccontato da Mariana al Corriere, mancava ancora un’ora all’uscita «regolare» della figlia, e infatti la donna, di professione sarta, nel negozio che ha aperto proprio con l’ex, è arrivata in istituto alle 14. Un’ora, dunque: tantissimo. La polizia ha acquisito i filmati delle telecamere posizionate nelle vicinanze della scuola, con l’obiettivo di accertare il percorso di allontanamento di Balle, se a bordo di una macchina, e se sì quale (a noleggio, prestata da un amico, rubata), oppure sui mezzi pubblici. Gli agenti di stazioni e aeroporti sono stati allertati, però non è escluso che, in un piano premeditato, il siriano possa aver organizzato un viaggio a tappe che prevede soste e attese. Magari di un secondo trasferimento in Siria con documenti falsi. All’epoca, s’è detto, l’inseguimento, cui avevano lavorato anche gli investigatori dello Scip, il Servizio di cooperazione internazionale, si era sviluppato lungo un percorso tortuoso. Mariana aveva impegnato i risparmi propri e dei famigliari per raggiungere Beirut, procurarsi un visto ed entrare in Siria: «Avanzavo tra palazzi devastati dalla guerra, i cadaveri per le strade. Avevo trovato dove stava, in un villaggio sul mare, ma quando lo raggiunsi, lui era scomparso. E con lui, mia figlia». Nei giorni scorsi, dopo aver iniziato l’anno in ritardo, ai primi di dicembre, l’11enne aveva completato l’acquisto dei libri di testo. «Non ho mai visto una ragazzina così felice» dice l’avvocato Musicco.

Alice Scaglioni per corriere.it il 20 dicembre 2019. Divorzio e conti correnti, cosa fare? Le formule per il deposito del denaro dei due partner in una coppia può avvenire in diverse forme: una di queste è il conto corrente cointestato. Che sia stato scelto per questione di comodità o per voluta condivisione anche dei soldi, cosa succede in caso di separazione? La legge prevede che le somme siano divise equamente tra i due, ma non sempre questo accade. Secondo l’indagine realizzata per Facile.it da mUp Research e Norstat, il 17% dei divorziati e separati (ossia quasi 280 mila individui) ha dichiarato che l’ex partner si è tenuto tutti i soldi depositati o, ancora peggio, ha prosciugato il conto prima della separazione (9,2% dei casi, pari a oltre 151 mila individui).

I numeri del fenomeno. La gestione del conto cointestato in caso di divorzio è un problema ricorrente: basti pensare che dei circa 2,5 milioni di italiani separati e divorziati, più di 1,6 milioni (65%) ha dovuto gestire questo aspetto. E non si parla sempre di cifre milionarie: mediamente la somma su cui i due ex partner si trovano a discutere è poco meno di 8 mila euro. Ma come ci si deve comportare se il partner non agisce in modo limpido, e cosa conviene fare del conto corrente una volta suddivise le somme?

Cosa fare se il partner si tiene i soldi. Il 7,8% delle persone intervistate ha dichiarato che il partner si è tenuto tutta la liquidità presente sul conto cointestato. E sono le donne a lamentare questa situazione spiacevole: il 9,2% accusa l’ex marito di tale comportamento contro il 6,3% del campione maschile.

Cosa fare se l'ex partner prosciuga il conto di nascosto. Accade inoltre che uno dei due partner prosciughi il conto cointestato prima della separazione (9,2% dei casi). Ancora una volta, sono le donne in proporzione a segnalare maggiormente questa situazione (l’11,8% contro il 6,6% degli uomini 6,6%). E il fenomeno riguarda più le coppie in comunione dei beni (10,9%) che in quelle in regime di separazione (7,2%). «Qualora uno dei due coniugi, senza averne il diritto, prosciugasse il conto prima della separazione o tenesse per sé tutte le somme depositate, sarà tenuto a restituire all’altro intestatario l’importo eccedente la propria quota», spiega Giovanni Zanetti, responsabile dell'ufficio legale di Facile.it. «Per evitare questo genere di problematica, è bene sapere che è possibile chiedere al giudice il sequestro del conto fino all’emissione della sentenza di separazione». Il conto corrente cointestato non è sempre motivo di scontro in fase di separazione. Nel 32% dei casi i rispondenti hanno dichiarato di aver diviso equamente e di comune accordo la liquidità disponibile sul conto, mentre il 17% dei separati o divorziati ha scelto di tenere a disposizione per eventuali spese legate ai figli o alla casa le somme depositate nel conto comune.

Attenzione al conto corrente aperto anche dopo la separazione. Che cosa succede a chi ha il conto cointestato, una volta conclusa la divisione delle somme depositate? Nel 59% dei casi è stato chiuso, mentre nel 16,5% è rimasto aperto, ma intestato a uno solo dei due ex coniugi. Sono poi quasi 370 mila i divorziati e separati che hanno deciso di tenere il conto cointestato per pagare le spese legate a figli e casa. «Attenzione perché in caso di conto cointestato la banca considera i due intestatari responsabili in solido anche se non più uniti in matrimonio», continua Zanetti. «In caso di saldo passivo, quindi, i due titolari saranno responsabili nei confronti dell’istituto di credito che, indipendentemente da chi ha causato il rosso, potrà agire contro entrambi gli intestatari per recuperare le somme mancanti». Comunque, in quasi 1 caso su 4 i due partner non hanno trovato un accordo su come suddividere le somme del conto cointestato, e pertanto hanno chiesto a un avvocato nel 16,1% dei casi o ad un giudice (9.4%).

·         Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Carlo Baroni per corriere.it il 21 dicembre 2020. Li ha sorpresi nel sonno e colpiti con un coltello. I due ragazzini si sono difesi e tentato la fuga per una salvezza impossibile. Il padre li ha raggiunti e uccisi. La tragedia si è consumata a Trebaseleghe nel Padovano. Le vittime sono Pietro e Francesca Pontin, 13 e 15 anni. Il padre Alessandro Pontin, 49, dopo il duplice omicidio si è tolto la vita con lo stesso coltello pugnalandosi mortalmente alla carotide.

Un delitto premeditato. Dietro il delitto premeditato ci sarebbero gli strascichi di un divorzio difficile. All’ex moglie, separata da cinque anni, Alessandro Pontin si rifiutava di pagare gli alimenti. Prima di togliersi la vita ha lasciato un biglietto: «Voglio essere cremato, spargete le mie ceneri». L’orrore di questa tragedia familiare ha sconvolto, in un silenzioso sabato pre-natalizio e di semi-lockdown, il piccolo paese del Nordest. Una villetta a due piani in via Sant’Ambrogio, mentre la madre delle due giovani vittime vive in un’altra casa, poco lontano. Non è ancora stato stabilito se il doppio delitto sia scattato sabato sera, mentre i fratelli si erano appena addormentati nella casa del padre, dove erano andati a passare il fine settimana, o ieri mattina presto. Ma dalle prime ricostruzioni investigative emerge un particolare che rende la tragedia ancora più orribile: pare che i ragazzi abbiamo capito cosa stava succedendo, forse hanno visto il papà già con il coltello in mano e ne avrebbero intuito le intenzioni, e così avrebbero cercato infatti di fuggire. Ma Pontin è stato implacabile e ha raggiunto i due ragazzi, si è avventato su di loro e li ha accoltellati entrambi alla gola.

A scoprire i cadaveri è stato lo zio. Tutto è rimasto avvolto nel silenzio. La villetta è attorniata da altre abitazioni, e all’ingresso si accede tramite un piccolo cortile interno. Ma nessuno dei vicini avrebbe sentito urla o trambusto. A scoprire la tragedia è stato ieri in mattinata un fratello di Alessandro. L’uomo si è recato nell’abitazione, ha aperto la porta e si è trovato di fronte i tre cadaveri. Sotto shock ha chiamato i carabinieri, e di lì a poco la vicenda è venuta a galla in tutta la sua efferatezza. Sul caso stanno indagando i carabinieri del Nucleo investigativo coordinati dal pm Sergio Dini. I militari sono stati molte ore sulla scena della tragedia per repertare ogni traccia utile. «È una vicenda di una tristezza infinita, non ci sono parole che permettano di commentare una tragedia come questa, sono sconvolta» ha detto la sindaca di Trebaseleghe, Antonella Zoggia, che tuttavia non conosceva le tre vittime. La madre avvisata dai carabinieri di quanto successo è stata colta da malore.

Il padre: falegname appassionato di filosofia olistica. Pontin, falegname, con la passione per la filosofia olistica e i massaggi orientali, aveva una nuova compagna. Sul suo profilo Facebook ha lasciato qualche post contraddittorio. «La vita siete voi stessi, se la vita è difficile da sopportare è perché è molto difficile sopportare se stessi». La citazione è di Carl Gustav Jung. Però c’è anche un messaggio di Osho Raineesh, un mistico e maestro spirituale indiano: «Tu non puoi essere altri che te stesso. Allora rilassati. L’esistenza ha bisogno di te così come sei». Alessandro Pontin gestiva anche una pagina di «salute e benessere» sui social che rifletteva la sua attività professionale. L’aveva chiamata «Il mondo riflesso». Il 17 dicembre aveva pubblicato una foto del Buddha e un messaggio che letto adesso sa di presagio oscuro: «Ogni cosa giunge al suo tempo». Chi lo conosce dice che stava attraversando un periodo positivo dopo la dolorosa separazione, ma circolavano anche voci sui contrasti proprio per il mancato pagamento degli alimenti. Nessuno però poteva immaginare il furore che lo ha armato contro i suoi figli.

Enrico Ferro per “la Repubblica” il 22 dicembre 2020. «Ha voluto punirmi così, portandomi via ciò che di più caro avevo al mondo, i miei figli». Roberta Calzarotto è la madre di Francesca, 15 anni, e Pietro, 13, i due figli avuti dall' ex marito Alessandro Pontin che lui ha ucciso domenica scorsa, nel mezzo di un weekend in cui i ragazzi erano andati a dormire a casa sua. La voce incrinata, ancora sotto shock, la donna racconta la sua vita destinata a restare sospesa per sempre tra dolore e rimorsi, un groviglio di tormenti. Da Pontin, 49 anni, morto suicida dopo avere accoltellato i figli, Roberta Calzarotto si era separata undici anni fa «perché era un violento». La scena del delitto è un corridoio lungo quattro metri, con le scie di sangue che disegnano traiettorie di trascinamento, di lotta, di accanimento. Le tracce, facendo il percorso a ritroso, conducono alla cameretta dove dormivano Francesca e Pietro. È cominciato tutto lì, probabilmente all' alba, quando il loro papà si è svegliato. Ogni scia di sangue suggerisce una sequenza di quella feroce aggressione. Ai suoi figli ha assestato i primi colpi alla gola, ma non è riuscito a finirli. I ragazzi sono riusciti a trascinarsi terrorizzati e increduli fuori dalla camera, già feriti, un tentativo di corsa disperata verso la porta d' ingresso per scappare, chiedere aiuto, salvarsi da quei colpi mortali. La loro fuga si è fermata lì, contro una porta chiusa a chiave, a due passi dal tinello. Il padre li ha raggiunti e colpiti ancora fino ad ucciderli. Poi ha puntato la lama contro se stesso e si è tolto la vita. La mattanza dopo una giornata esemplare trascorsa insieme, con la passeggiata il pomeriggio, la cena a tre e il progetto di pranzare insieme alla nonna il giorno successivo. Ora la madre vive un terribile incubo dal quale però non potrà mai svegliarsi.

E dice che questa per lei era una tragedia annunciata Che persona era il suo ex marito?

«Con me è sempre stato aggressivo, con gli altri invece no. Io ho provato a ribellarmi, ecco come è finita».

Dunque lei sostiene che fosse un violento?

«È stato violento fin dall'inizio, subito dopo il matrimonio. Per questo mi sono separata. Si può convivere con un uomo violento che ti incute timore? Io non ce l' ho fatta».

Ha mai chiesto aiuto?

«Certo che l' ho fatto ma gli atteggiamenti che io ritenevo aggressivi non bastavano alle forze dell' ordine. Evidentemente noi donne dobbiamo avere il volto insanguinato per essere credute».

È un' accusa grave la sua.

«Accusa grave? Come si possono uccidere due figli in quel modo? Ciò che mi fa più male è che io lo so che lui voleva colpire me. Non erano loro l' obiettivo, ero io».

Che padre era Alessandro?

«Con loro non è mai stato violento ma non gli è mai importato di loro. Li usava per farsi invitare a cena a casa dei nostri amici. Quell' uomo viveva anche di questi espedienti».

Secondo lei per quale motivo li ha uccisi?

«Nutriva una rabbia profonda perché io mi sono rifatta una vita giusta, con un nuovo compagno. I ragazzi stavano benissimo qua con noi mentre, invece, non erano sempre contenti di andare lì da lui. La vita scorreva bene qui, molto meglio di prima».

E gli alimenti? Qual è il conflitto di cui si parla tanto?

«Dopo la separazione non mi ha dato quasi nulla: cento euro di qua, cento di là. Mai un bonifico fisso, mai un' entrata su cui potessi contare, al di là del mio stipendio da infermiera».

Come mai non le dava i soldi?

«Diceva che non ne aveva e poi ho scoperto che è andato in viaggio in Australia, in Spagna, in Portogallo. Era discontinuo, non rispettava gli obblighi inseriti nella sentenza. Vedeva i figli due giorni e poi saltava tre settimane, un altro giorno e poi spariva. A un certo punto è tornato dicendo che voleva vederli in maniera stabile. E così abbiamo fatto. Ma soldi ancora niente».

Lei l' ha denunciato?

«Sì, il giudice ha stabilito che mi avrebbe dovuto dare 200 euro mensili. Credo sia il minimo che si può chiedere, non esiste cifra minore per provvedere al mantenimento di due figli. E io a tirare su quei due ragazzi da sola, senza aiuti».

Ma i soldi glieli dava o no?

«No, ha saldato il conto solo qualche mese fa, grazie al procedimento penale aperto con la mia denuncia. Per racimolare i soldi ha fatto il giro di amici e parenti, dicendo a tutti che l' avevo denunciato e che lo volevo rovinare».

Dopo il pagamento della somma dovuta si è chiusa anche la vicenda giudiziaria?

«Il giudice ha voluto chiuderla. Tutto archiviato».

Ha mai conosciuto la nuova fidanzata di Alessandro?

«Certo, ricordo ancora la telefonata. Mi ha detto che è un padre perfetto e che io sono una brutta persona. Diceva che con la querela lo volevo soltanto incastrare».

Quando ha visto i suoi figli per l' ultima volta?

«Sabato pomeriggio, quando li ho accompagnati a casa del padre, l'assassino che nessuno ha fermato e che me li ha portati via per sempre».

La verità scomoda sui bambini uccisi dai padri. In Italia crescono in maniera esponenziali i figlicidi: uno ogni dieci giorni. Ammazzati in ambito di separazione, divorzio o violenza domestica. Ma per le istituzioni il problema sembra non esistere. Emanuela Valente il 23 settembre 2020 su L'Espresso. Il numero dei bambini uccisi dai propri genitori rappresenta un dato allarmante, in continua crescita. Le cronache non mancano di raccontare fin nei dettagli i drammatici epiloghi di famiglie dilaniate, ma c’è una sorta di velo che impedisce di affrontare la questione nei modi dovuti, analizzando senza indulgenze le dinamiche sociali che provocano il costante aumento dei figlicidi. “La verità scomoda” la chiamano i giornalisti americani. Ma in qualche modo, bisognerà pur affrontarla. Sono oltre 500 i bambini uccisi in famiglia negli ultimi 20 anni in Italia, uno ogni 10 giorni, con una media annuale crescente in modo preoccupante. Se nel 2014 - ad oggi il peggiore dell’ultimo ventennio - si sono registrati 39 figlicidi, anche nel 2018 si è oltrepassata la media, con 31 casi ed una nuova impennata del 55 per cento rispetto all’anno precedente. Di questi, oltre un terzo sono bambini uccisi da un genitore violento o in concomitanza con la separazione, le cui storie hanno tristemente riempito le pagine di cronaca. Il 51,5 per cento dei figlicidi è stato commesso con armi da fuoco, legalmente detenute nel 65 per cento dei casi. (*dati Eures) Secondo il Global Study on Homicide (2019) dell’UNDOC (United Nations Office of Drugs and Crimes) lo sconcertante numero dei figlicidi in continua crescita (205.153 minori tra 0 e 14 anni uccisi dai propri genitori negli Stati Uniti tra il 2008 e il 2017) è dovuto principalmente a situazioni di violenza domestica e divorzio. Lo studio ha analizzato la storia delle famiglie coinvolte, rilevando che in quasi tutti i casi vi erano condizioni di abuso – fisico, sessuale o emotivo - precedenti. L’analisi ha portato a concludere che la violenza pregressa è uno dei maggiori fattori di rischio nel figlicidio. «Ma non c’è solo la violenza espressa – spiega Laura Onofri, giurista e socia della Camera dei Minori di Torino – Molte volte c'è una zona grigia, senza violenza conclamata, eppure esistono, a un occhio esperto, tutti i segnali del possibile epilogo tragico. Dobbiamo imparare a comprendere questi segnali, capire questo momento grigio, un momento in cui la separazione, che è a tutti gli effetti un lutto, può far passare quel limite tra la depressione e il gesto drammatico. Purtroppo i casi di bambini uccisi dai propri genitori riempiono le nostre cronache, ma questo non provoca alcun dibattito serio su una possibile prevenzione». L’Italia è oggi uno dei paesi del mondo con il minore tasso di mortalità infantile (3,6 per cento ), inferiore alla media europea e a quella degli Stati Uniti (dati Istat – Unicef): un eccellente risultato raggiunto grazie all’imponente opera di prevenzione messa in atto dal nostro sistema sanitario con vaccinazioni, screening prenatale, formazione specializzata e informazioni pediatriche diffuse. Laddove la prevenzione non fosse di tipo medico, si è intervenuti con appositi disegni di legge, come nel caso dei seggiolini antiabbandono. Ora, il numero dei bambini uccisi dai propri genitori è nettamente superiore a quello dei bambini dimenticati nell’auto, ma non ha destato da parte delle istituzioni la stessa celere e particolare attenzione. Eppure vi sarebbero molti interventi possibili, in grado di ridurre in maniera determinante la conta dei bambini uccisi in ambito di separazione, divorzio o violenza domestica. «Uno dei problemi principali in materia di tutela dei minori riguarda i tempi della Giustizia – afferma l’avvocata Francesca Romana Baldacci, esperta di Diritto Minorile e di Famiglia – . Escludendo i casi in cui si può fare ricorso all’art. 403 c.c., con l’intervento della pubblica autorità e l’immediato collocamento del minore in luogo sicuro (articolo a tutela dei minori di cui peraltro è stata ripetutamente chiesta l’abrogazione), e alcuni specifici provvedimenti molto tempestivi del tribunale per i Minorenni, in molti altri casi i tempi dei tribunali non sono compatibili con le esigenze dei minori». I tempi già lunghi sono anche peggiorati con l’emergenza Covid: al Tribunale Ordinario di Roma una richiesta di separazione presentata a febbraio 2020 vedrà la sua prima udienza solo a gennaio 2021, quasi un anno dopo. «Nel tempo che intercorre tra il ricorso per chiedere la separazione e l’udienza presidenziale possono avvenire episodi anche gravi che coinvolgono i minori, e in questo periodo non vi sono efficaci strumenti di tutela neanche per la contribuzione al mantenimento dei figli – prosegue l’Avvocata Baldacci - . Ma anche dopo una sentenza possono verificarsi conseguenze drammatiche». Così può accadere che un bambino rimanga con il genitore violento o pericoloso. «Il nostro sistema è piuttosto disarticolato - prosegue Baldacci - I tribunali (minorile, civile e penale) non parlano tra loro, nonostante l’informatizzazione, e hanno tempi differenti. Non è raro che un genitore venga condannato per violenze sui minori dal tribunale penale solo dopo anni di affido disposto dal tribunale ordinario. Nel frattempo il bambino ha continuato a subire danni». «I bambini, nella maggior parte dei casi, non vengono ascoltati – spiega Laura Onofri –, vengono trattati come oggetti, proprietà da spartire tra i genitori separati. Spesso, anche quando viene richiesto il loro parere, non viene preso abbastanza in considerazione e neanche la figura del curatore – soggetto terzo posto a garanzia del minore – ottiene il dovuto rilievo». Così nonostante negli ultimi anni si sia prestata maggiore attenzione al tema delle violenze in famiglia, i bambini sono rimasti ignorati. «È una situazione a macchia di leopardo, vi sono realtà più efficaci e preparate, altre meno o decisamente inadeguate. Occorrerebbe una formazione specifica diffusa e un aggiornamento anche del codice penale: attualmente l’unico riferimento che abbiamo è l’art. 578, che parla di infanticidio, ed è decisamente molto vecchio».

La storia. “Mio marito mi picchiava ma i giudici gli hanno affidato i nostri figli”, il dramma di Veronica. Viviana Lanza su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Denuncia il marito violento, le tolgono i figli e li affidano a lui. Sì, proprio a quel marito, ritenendo che un cattivo marito può essere un buon padre. Ma se ciò è vero, non si capisce perché una madre che denuncia maltrattamenti, botte e minacce debba invece essere considerata una mamma alienante sulla scorta dell’esistenza di una presunta sindrome di cui nessuna comunità scientifica ha certificato l’esistenza. Eppure succede. È successo a Veronica, donna, mamma e professionista di una cittadina della provincia vesuviana. A lei è accaduto anche di più. È successo che un giudice del Tribunale per i minorenni l’abbia allontanata dai figli concedendole di vederli un’ora soltanto alla settimana e un weekend ogni quindici giorni, dopo mesi in cui non ha potuto vederli né sentirli al telefono e dopo altri mesi ancora in cui poteva vederli per un’ora e soltanto alla presenza di un assistente sociale. E tutto non già per un rischio conclamato, ma per una presunzione di rischio di alienazione parentale. Già, non già l’alienazione (che di per sé nemmeno esisterebbe) ma addirittura per un presunto rischio di alienazione parentale, cioè un sospetto di condizionamento dei figli nei confronti del padre che lei aveva denunciato per le botte prese durante i litigi. La storia di Veronica è una delle tante storie di donne che dopo essere state vittime dei mariti finiscono per essere vittime delle istituzioni, nel senso di dover subire le conseguenze di leggi e modi di applicarle che in nome della bigenitorialità finiscono per mortificare altri diritti. Veronica è la mamma di tre bambini che oggi hanno 12, 9 e 6 anni. Non può più vivere con loro, deve accontentarsi di vederli un fine settimana sì e uno no. Non può condividere con loro compleanni, il Natale e altre festività, i pomeriggi di gioco, la scuola, insomma la vita quotidiana. «Li ho partoriti con tanta sofferenza, accuditi con tanto amore, cresciuti come unica ragione di vita, con enormi sacrifici e con tutta la protezione che solo una madre comprende e sa porre in essere. Ho sempre lavorato, condotto la famiglia nel miglior modo possibile, senza aiuto e sostegno di nessuno, nemmeno dell’uomo che ho avuto al fianco. Per loro sono stata pronta ad affrontare quello che la vita matrimoniale mi ha riservato di brutto, quanto di peggio una donna, una madre, conosce all’interno delle mura domestiche. Grazie a loro, ai loro sorrisi, ai loro occhi, sono riuscita a tirare fuori il coraggio di dire basta», racconta Veronica. «Non avrei mai immaginato che dopo le violenze subite sarei finita in un baratro ancor peggiore. Coloro verso i quali nutrivo fiducia, avvocati, consulenti, giudici, periti e assistenti sociali, sono stati omertosi con il violento sposando teorie astratte. È iniziato un incubo senza fine, dove si invertono i ruoli, dove il violento diventa la vittima e la vittima il carnefice. Da madre accudente sono stata dipinta come alienante. A nulla sono serviti tutti i miei tentati di difesa. Ogni azione, persino la più legittima, di amore, di difesa, di protezione, è stata letta come manovratrice secondo chissà quale malefico artifizio». Veronica non in questi tre anni non si è mai arresa. Sostenuta dal centro antiviolenza Aurora presieduto da Rosa Di Matteo, è pronta a cominciare un’altra battaglia. «Denuncerò i servizi sociali e il Comune dove abito – spiega – Le istituzioni hanno agevolato mio marito. Hanno collocato i miei bambini nel domicilio di lui, nonostante le mie denunce». L’inferno di Veronica comincia con un’escalation di violenze: prima quella economica, poi quella verbale e infine, in cinque occasioni, i calci e i pugni. «L’ultima volta ho pensato di morire, mi strinse le mani al collo, mi salvò mio figlio più grande». Con la separazione comincia per Veronica un nuovo calvario: denuncia le anomalie di relazioni di assistenti sociali e consulenti tecnici, segnala i comportamenti del marito contrari alle disposizioni del giudice. «I bambini – racconta Veronica – hanno vissuto attimi di paura, di ansia, credendo addirittura che la propria madre li avesse abbandonati e questo grazie a un espediente inventato dagli assistenti sociali. Oggi se chiedo a uno dei miei figli di restare da me mi sento rispondere: mamma è meglio di no» dice Veronica, preoccupata per ciò che vivono i suoi bimbi lontano da lei.

La storia. Il piccolo Salvatore strappato dalle braccia di papà Gennaro: “Lo rivoglio, ma a nessuno interessa dei padri”. Amedeo Junod su Il Riformista il 22 Settembre 2020. “Da quando è stato portato via non c’è stato più il calore di un abbraccio, la possibilità di un gesto d’amore dal vivo”. Trattiene a fatica le lacrime Gennaro Palumbo, padre ferito e dimenticato, che da 4 anni non riesce a rincontrare il suo adorato bambino. Sottratto nottetempo dalla madre e condotto in Ucraina, da quella fatidica domenica mattina del 2017 al piccolo Salvatore è concessa solo una figura paterna “virtuale” e non avendo appreso negli anni cruciali della prima infanzia l’italiano ma solo la lingua materna, è costretto a sottostare alla traduzione simultanea anche per un semplice saluto via telefono. Convinto di un pregiudizievole e diffuso disinteresse nei confronti dei padri vittime di sottrazione di minori, Gennaro è ormai sfiduciato riguardo la possibilità di ottenere giustizia a breve. “Mi rivolsi subito ai carabinieri per sporgere denunzia, ma da lì è partito un iter burocratico infinito che per il momento non ha portato a nulla”. Intentata la causa penale per una richiesta di affido esclusivo e richiesta l’ applicazione della Convenzione dell’Aja, Gennaro è prima di ogni altra cosa consapevole di essere nel giusto e di non avere niente da recriminarsi sotto l’aspetto comportamentale. Vive di ricordi, nell’ attesa che qualcuno gli spieghi cosa c’è che non va a voler fare il padre in presenza, non avendo commesso nessun reato o comportamento disdicevole per esercitare la sua funzione di padre. “Ero estremamente legato al mio bambino, eravamo abituati a trascorrere tutto il mio tempo libero insieme, a fare passeggiate e a guardare insieme la tv”. Momenti sacrosanti di una quotidianità negata. “Ancora adesso, quando gli telefono, è sempre sorridente e contento di vedermi”. Il tribunale dei Minorenni ha tuttavia ritenuto opportuno non revocare la responsabilità genitoriale alla madre, che non poteva essere giudicata perché su territorio straniero, nonostante si fosse macchiata di un reato. Il processo penale è entrato nella fase del secondo grado di giudizio. La Convenzione dell’Aja, invece, specifica che le controversie riguardanti le sottrazioni di minori vadano risolte in un tempo di massimo 6 settimane. Sono trascorsi più di tre anni. Un uomo deluso dalla giustizia, Gennaro, sempre più convinto che le madri straniere che portano via illegalmente i bambini dall’Italia non vengano correttamente perseguite dalla legge. “Questa cosa mi fa rabbia, perché non si può pensare che un genitore sia più importante di un altro nella tutela del proprio figlio” . Non c’è equità nel trattare questo tipo di reati, e al clamore mediatico suscitato da una sottrazione di minore operata da parte di un uomo, non corrisponde altrettanto scandalo quando a commettere il reato di sottrazione internazionale di minore è la madre. “L’interesse della giustizia – suggerisce con velata provocazione Gennaro – sembra a volte essere solo quello di allungare i tempi dei processi il più possibile”. Sul tema delle sottrazioni internazionali di minori esiste un evidente corto circuito legislativo. Si susseguono da anni proposte e disegni di legge ma non arrivano mai ad essere realmente calendarizzate e discusse. “Fanno come se il problema non esistesse, nonostante le centinaia di casi che ogni anno si contano di bambini italiano sottratti e portati all’estero”. L’ appello del padre del piccolo Salvatore, che negli occhi ha ancora vivo il ricordo dei magici momenti trascorsi insieme al figlioletto, è che il Ministero della Giustizia e quello degli Affari Esteri prendano atto che non si tratta di un singolo dramma umano ma di un’emergenza sociale diffusa, e che possano al più presto fare pressione sugli omologhi delle altre nazioni in cui sono trattenuti i minori per fare in modo che questi bambini sperduti, ma tanto amati, possano finalmente tornare a casa, nel luogo dove sono nati.

Spara alla moglie, ai figli e al cane e si suicida: tragedia a Carignano.  Notizie.it il 09/11/2020. Spara alla moglie e ai figli e poi si suicida: è quanto compiuto all'alba da un uomo di 40 anni a Carignano (Torino). Tragedia familiare a Carignano, comune in provincia di Torino, dove un uomo ha sparato alla moglie (uccidendola), ai due figli (uno è morto mentre l’altra è gravissima in ospedale) e al cane. Ha poi rivolto la pistola verso se stesso suicidandosi. L’episodio è avvenuto poco prima delle 5 di mattina di lunedì 9 novembre 2020. Secondo le prime ricostruzioni delle forze dell’ordine Alberto Accastello, operaio di 40 anni, ha sparato colpi di arma da fuoco contro la moglie Barbara, impiegata in una ditta della zona morta sul colpo, e i loro due gemellini. Ha poi aperto il fuoco verso di sé morendo poco dopo l’arrivo dei soccorsi. A lanciare l’allarme sul dramma consumatosi in Borgata Ceretto 76 sono stati i vicini di casa, svegliatisi di soprassalto al sentire i colpi dell’arma che, stando a quanto appreso, l’uomo avrebbe detenuto legalmente. Giunti subito sul posto, i Carabinieri hanno sfondato la porta e si sono trovati davanti il cadavere della moglie e i due figli in fin di vita. Trasportati d’urgenza all’ospedale Regina Margherita di Torino, il maschio, Alessandro, è deceduto poco dopo il ricovero mentre la femmina, Aurora, è in gravissime condizioni. Ignote le cause del folle gesto. Sembra che nei giorni precedenti la moglie avesse annunciato al marito una possibile separazione ma è ancora presto per fare ipotesi. Prima di compiere la strage, l’uomo avrebbe anche chiamato il fratello, residente a Racconigi, annunciandogli che a breve sarebbe morto.

Uccide moglie e spara ai figlioletti (uno muore), poi si toglie la vita. L’annuncio al fratello: “Distruggo tutto”. Redazione su Il Riformista il 9 Novembre 2020. Uccide la moglie e spara ai due figli gemellini (uno dei quali muore in ospedale) e al cane, poi si toglie la vita. Dramma all’alba di lunedì 8 novembre a Carignano, comune in provincia di Torino. E’ successo tutto intorno alle 5.30 all’interno della villetta di famiglia. L’uomo, 40 anni, si è poi ucciso sparandosi un colpo alla testa. La donna, Barbara Gargano, 38 anni, è stata trovata già morta dai carabinieri che sono intervenuti allertati dai vicini. I due figli, due gemellini, sono stati trasportati d’urgenza al Regina Elena del capoluogo piemontese in gravissime condizioni. L’omicida, nonostante la pronta assistenza medica del 118, è morto dopo poco: deceduto all’ospedale di Torino uno dei due gemellini. La sorellina rimane in condizioni gravissime all’ospedale Regina Margherita.. Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri: ancora nessuna indicazioni sul movente della strage. Secondo le prime informazioni, sembra che da qualche tempo ormai la coppia non andasse d’accordo e che le liti fossero frequenti. Il 40enne avrebbe annunciato le sue intenzioni al telefono, in una conversazione col fratello che vive a Racconigi (Cuneo). L’uomo, secondo le prime informazioni, faceva l’operaio; la pistola utilizzata era legalmente detenuta. La moglie lavorava in un supermercato.

Spara alla moglie e ai due gemellini poi si uccide: tragedia nel Torinese. Federica Cravero e Carlotta Rocci su La Repubblica il 9 novembre 2020. Uno dei due bimbi è morto all'arrivo in ospedale, la sorellina combatte per vivere. L'omicida ha chiamato il fratello: "Tra poco non ci sarò più". Tragedia familiare all’alba nel Torinese. Alle 5.30 in una villetta nella campagna di Carignano un uomo di 40 anni - Alberto Accastello - ha sparato a moglie, figli e cane, uccidendosi poi con un colpo alla testa. La moglie è morta, i due gemellini, nati nel 2018, sono stati trasportati in gravissime condizioni al Regina Margherita di Torino. Uno dei due purtroppo è morto poco dopo. La sorellina resta gravissima. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati i vicini. Quando gli uomini dell’Arma sono arrivati, hanno sfondato la porta per entrare: la donna - Barbara Gargano, 38 anni - era già morta, mentre l’uomo è deceduto poco dopo. nonostante l'arrivo dei soccorritori. Sul posto i carabinieri stanno effettuando i rilievi scientifici. L’arma era legalmente detenuta dall'uomo che lavorava alla "CerealCeretto" sementi e mangimi, un'azienda di Carignano. Lei era occupata in un supermercato a Moncalieri. "Avevamo visto Barbara ieri sera, era tranquilla, quasi gioiosa", raccontano i vicini di casa dopo  la tragedia. "Noi non abbiamo sentito nulla, ma è stato nostro figlio a svegliarci verso le cinque battendo sulle imposte, per raccontarci quello che era successo". L'omicida ha chiamato il fratello subito prima della tragedia." Tra poco non ci sarò più", gli ha detto. È stato lui a dare l'allarme. Da tempo la coppia era in crisi. Barbara aveva parlato di separazione, voleva lasciare la villetta di Frazione Ceretto 76E che avevano appena finito di costruire. 

Massimo Massenzio per corriere.it il 9 novembre 2020. Ammazzati mentre erano a letto, nel sonno. Un proiettile calibro 9 per ciascuno. Alla testa. Una strage familiare premeditata alle porte di Carignano, in provincia di Torino. Un uomo ha ucciso la moglie, il figlio di due anni e ferito gravemente la sorellina gemella. Poi si è tolto la vita. È successo intorno alle 5.30, per motivi ancora da accertare, nella villetta in cui viveva la famiglia. Alberto Accastello, 40 anni, operaio, ha sparato alla moglie di 38 anni, Barbara Gargano, e ai due gemellini Alessandro e Aurora. Subito dopo ha rivolto l’arma contro se stesso e si è ammazzato. I carabinieri, avvisati dai vicini, hanno sfondato la porta e assieme al personale del 118 hanno soccorso i piccoli, ricoverati d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale Regina Margherita di Torino. Ma per Alessandro non c’è stato nulla da fare. Aurora è in Rianimazione, in condizioni che i medici definiscono «disperate». Avrebbe riportato, tra l’altro, un gravissimo trauma cranico. La pistola ritrovata nell’abitazione era legalmente detenuta e adesso gli investigatori stanno cercando di ricostruire la dinamica dell’accaduto. Un’arma usata anche per ammazzare il cane. Quando i carabinieri hanno sfondato la porta, l’uomo era ancora vivo. È morto prima del trasporto in ospedale. Secondo gli investigatori, l’uomo avrebbe sparato quando moglie e figli dormivano. Tre spari per moglie e figli. Un quarto per il cane. Con il quinto si sarebbe tolto la vita. «A breve non ci sarò più ». Prima di sparare ai familiari, Accastello ha telefonato al fratello che vive a Racconigi, in provincia di Cuneo. Sarebbe stato proprio questi a dare il primo allarme al 112 dopo quelle brevi e sconvolgenti parole cui ha fatto seguito il clic della telefonata riappesa. L’uomo lavorava da 20 anni in un’azienda agricola di Ceretto che produce sementi. «Era un gran lavoratore, viveva per la famiglia — dice una vicina —. Sapevo che tra loro c’erano problemi, ma non pensavo sarebbe finita così». Barbara voleva separarsi, ma il marito non accettava la sua decisione. Ultimamente le liti tra loro sarebbero state frequenti. Lui «lavorava anche al sabato e la domenica per finire la villetta che avevano costruito — continuano i vicini —. Alberto era una persona tranquilla. Sempre attento e gentile. Evidentemente la prospettiva della separazione lo ha sconvolto. Aveva chiesto a Barbara un’altra possibilità, ma lei diceva “quando dico di no è no”. L’abbiamo vista ieri sera era tranquilla, anzi euforica».

Stermina la famiglia e si uccide, ore di angoscia per Aurora. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 9/11/2020. È accaduto all’alba in una villetta di Carignano. L’allarme dato dai vicini che hanno sentito i colpi. L’uomo, 40 anni, ha sparato anche al cane. «Alberto? Era una brava persona, le sue uniche passioni erano la famiglia e il lavoro». A Ceretto, borgata alle porte di Carignano, nessuno riesce a credere a quello che è successo. All’alba di ieri Alberto Accastello, tranquillo operaio agricolo di 40 anni, ha ucciso nel sonno la moglie Barbara Gargano, trentottenne, e ha sparato altri due colpi di pistola alla testa dei due gemellini, Alessandro e Aurora, di soli due anni. Poi ha soppresso il suo chihuahua e infine ha rivolto contro di sé la semiautomatica, puntandola alla tempia. L’unica a sopravvivere alla strage è stata la piccola Aurora, ma le sue condizioni sono disperate. È in coma all’ospedale infantile Regina Margherita, dove il fratellino è arrivato già morto. Un proiettile calibro 22 le ha trapassato il cranio, procurandole lesioni gravissime e i medici non sono in grado di fare previsioni. Lotta fra la vita e la morte nel reparto di rianimazione, diretto da Giorgio Ivani, e un intero paese sta facendo il «tifo» per lei. «L’abbiamo vista domenica pomeriggio, era nel passeggino, assieme ad Alessandro e alla mamma», raccontano gli abitanti del piccolo borgo agricolo arroccato sulla strada provinciale che porta a Saluzzo. Qualche centinaio di residenti, decine di silos per il grano che si stagliano su una sterminata distesa di campi e un solo negozio. Era questo il «mondo perfetto» che Accastello aveva destinato alla sua famiglia. Lui che a Carignano c’era nato, poco prima che chiudessero definitivamente il vecchio ospedale. E che per tutta la vita aveva sempre vissuto nella stessa strada, spostandosi solo di qualche decina di metri. La morte della madre, colpita da una grave malattia l’aveva segnato profondamente, ma aveva cementato il legame con il padre, lo zio, il fratello e la sorella. Ed è stato proprio all’amato fratello Marco che alle 4 del mattino ha inviato un messaggio con il quale annunciava la sua intenzione di farla finita. Ad armare la mano di Accastello sono state la disperazione e la gelosia. La moglie Barbara aveva deciso di lasciarlo e avevano già contattato un legale per cercare di raggiungere una separazione consensuale. Lei voleva rifarsi una vita e lui era convinto che avesse già trovato un altro. «Era troppo innamorato — racconta una vicina —. Le ha chiesto un’altra possibilità, non riusciva a pensare che i suoi figli sarebbero cresciuti da un’altra parte. Non so cosa sia scattato nella sua testa, ma era un bravo ragazzo. Siamo tutti sconvolti». Qualcuno racconta che Alberto avesse addirittura assoldato un investigatore privato per far seguire la moglie, una circostanza che deve ancora essere accertata dai carabinieri di Carignano. Gli stessi che ieri hanno fatto irruzione nella villetta di famiglia dopo l’allarme lanciato dal fratello. Troppo tardi. L’esecuzione preordinata da Alberto era stata metodica: quattro colpi alla testa per la moglie, i due gemelli e il cagnolino Cicco. Li ha freddati nel sonno, poi è tornato in camera da letto per sdraiarsi accanto a Barbara e ha esploso il quinto proiettile, puntandosi la pistola alla tempia.

Spara alla moglie e ai due gemellini poi si uccide: strage familiare nel Torinese. Federica Cravero e Carlotta Rocci su La Repubblica il 09 Novembre 2020. Nella notte tra domenica e lunedì Aurora è stata colpita nel sonno con un colpo di pistola alla testa dal padre, Alberto Accastello, 40 anni, che ha ucciso anche il gemellino Alessandro, la madre Barbara Gargano, 38 anni, e il cane, prima di suicidarsi. La tragedia nella loro abitazione, una villetta di Carignano, nel Torinese. E' stato il fratello del padre, a cui ha confidato l'intenzione di uccidersi al telefono, a chiamare i carabinieri. L'immediato intervento nella villetta, però, è stato vano: dopo avere chiuso la telefonata, alle cinque di mattina, Alberto Accastello ha impugnato una pistola calibro 22, che regolarmente deteneva in casa, e ha fatto fuoco sulla sua famiglia. I militari hanno dovuto sfondare la porta per entrare. La madre, che lavorava in un centro commerciale di Moncalieri (Torino) come impiegata, è stata trovata riversa per terra, già morta, mentre il marito è deceduto poco dopo l'arrivo dei sanitari. I due piccoli, ancora nei loro lettini, sono stati subito soccorsi e trasportati nell'ospedale Regina Margherita, ma per Alessandro non c'è stato nulla da fare. Per la sorellina Aurora le speranze sono finite questa sera. Alberto e Barbara si erano sposati nel 2015 e da poco si erano trasferiti nella villetta, appena ultimata, dopo aver vissuto per diverso tempo insieme al padre e allo zio dell'omicida. Negli ultimi tempi, secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti, litigavano spesso e la donna avrebbe espresso al marito la volontà di separarsi e di voler andare via di casa. Proprio in queste litigate e nella decisione della donna sarebbe da ricercarsi, sempre secondo gli inquirenti, il movente che ha spinto l'uomo a premere il grilletto, a sterminare la sua famiglia e a uccidersi.

E' morta la piccola Aurora, due anni, quarta vittima della strage di Carignano. Federica Cravero su la Repubblica l’11 novembre 2020. Era in condizioni disperate dopo lo sterminio della famiglia compiuto dal padre

Non ce l'ha fatta Aurora, 2 anni appena, gravemente ferita dal padre, che prima di suicidarsi ha ucciso l'altro figlio, gemello della bimba, e la moglie. Ricoverata da lunedì mattina nel reparto di Rianimazione dell'ospedale infantile Regina Margherita di Torino, in coma, la piccola è stata dichiarata deceduta al termine del periodo di osservazione iniziato nel pomeriggio. E alle nove della sera il suo cuore ha smesso di battere.

MASSIMILIANO PEGGIO e MASSIMILIANO RAMBALDI  per la Stampa il 10 novembre 2020. «Vivo in mezzo al nulla. A casa sono sempre in lockdown, non vedo mai nessuno» diceva agli amici, senza rinunciare ai sorrisi. Guardando i campi di mais dal portico di pietra della sua bella villetta color amaranto, costruita da poco, lei vedeva solo solitudine attorno a sé. Suo marito, invece, in quei campi a perdita d'occhio sentiva le sue radici, una famiglia, il lavoro e ancora il lavoro. Qualche settimana fa lei aveva deciso di lasciarlo. «Me ne vado via. Il nostro matrimonio è finito. Mi sono innamorata di un altro uomo. Sono stufa di stare sempre da sola». Ieri mattina, in questa stradina di campagna di frazione Ceretto di Carignano, una ventina di chilometri a sud di Torino, nessuno ha sentito i colpi di pistola. Alberto Accastello, 40 anni operaio agricolo, ha ucciso la moglie, Barbara Gargano di 38 anni e poi ha sparato ai suoi due gemelli di appena due anni. Li ha sorpresi nel sonno, nei loro letti. Poi è uscito in cortile, in mezzo alla nebbia, e ha ucciso il cane Cicco, un meticcio che la donna adorava. Come ultimo atto, è rientrato in casa e si è tolto la vita con un proiettile alla tempia. Pochi istanti prima di impugnare la pistola, una calibro 22 regolarmente detenuta, ha telefonato al fratello, che abita a pochi chilometri da Carignano, in provincia di Cuneo: «Ciao Marco, ho chiamato per dirti che tra poco non ci sarò più». Così è stata scoperta la tragedia. Sono arrivati i soccorsi e i carabinieri. I fratellini, ancora agonizzanti, sono stati portati in ospedale al Regina Margherita. Alessandro, il bimbo, è morto in ambulanza, durante il tragitto verso l'ospedale. La sorellina è ricoverata in coma al Regina Margherita. «La piccola è in condizioni critiche. Non sappiamo se ce la farà», dicono nel reparto di Rianimazione. Il papà e lo zio di Alberto, che abitano in una casetta a una ventina di metri dalla villetta, non hanno sentito i colpi di pistola. «Buon giorno maresciallo, perché è qui di mattina presto? Si accomodi», ha detto il papà, accogliendo i carabinieri in casa. Tutto è accaduto intorno alle 4 del mattino. Barbara lavorava da anni come impiegata in un consorzio di negozi che gestisce una galleria commerciale a Moncalieri, nella prima cintura di Torino. Lì ha conosciuto Federico, un addetto alla sicurezza antincendio. Si è innamorata di lui. E con lui voleva andare a vivere. «Ha il cuore spezzato, è distrutto dal dolore» dice un familiare dell'uomo, sentito a lungo ieri pomeriggio dai carabinieri. Lui ha svelato agli investigatori i progetti della donna, i contatti con un avvocato per gestire la separazione, i dissapori con il marito per la sua vita intrisa di solitudine. Barbara però nascondeva bene le sue sofferenze, mostrando sorrisi ai colleghi, sempre ineccepibile sul lavoro. «Una persona solare, non immaginavamo che si stesse separando». Nessuno, nel centro commerciale, era a conoscenza della relazione con Federico, uno degli addetti alla sicurezza. Alberto lavorava nell'unica grande impresa della frazione, dove tutti si conoscono, allevatori e contadini, e vivono più o meno seguendo gli stessi ritmi della terra, delle semine, dei raccolti. Da vent' anni faceva l'operaio alla «CerealCeretto», azienda di essiccazione di cereali e sementi. All'alba indossava la tuta blu, usciva di casa, faceva pochi passi ed era già al lavoro. Tra trattori, amici, silos di mais. I titolari dell'azienda, anche loro residenti a due passi dalla villetta color amaranto. «Impossibile credere a quello che è accaduto - spiega Giancarlo Cerutti -, l'ho visto crescere, era un lavoratore instancabile, una persona adorabile: per me era come un figlio». Alberto e Barbara si erano sposati 5 anni fa, dopo un periodo di convivenza. Prima di costruirsi la villetta, appena rialzata su un terrapieno, con portici ampi e la fontanella di pietra ai margini del giardino, avevano vissuto nel primo piano della casa del papà di lui. «Alberto - raccontano i titolari dell'azienda agricola - si è costruito la villetta facendo mille sacrifici. Prima il mutuo, poi lavorando di sabato e di domenica, nel tempo libero. Tutto quello che poteva fare da solo, per risparmiare, se l'è fatto da sé». Di recente, sospettando che lei avesse una relazione con un altro uomo, si era rivolto ad un investigatore privato. Trovando conferma ai suoi sospetti. Accompagnati da alcuni amici, Filippo Gargano e la moglie Loredana, i genitori di Barbara, si sono abbracciati a lungo, chiusi nella loro auto, dopo aver appreso la tragedia dai carabinieri. «Ha sparato a Barbara mentre dormiva, e anche ai bambini. Non è possibile». I nonni avevano sentito la figlia e i bambini al telefono l'altra sera. «Stava bene, sapevamo quello che stava succedendo. Ma quello che è capitato è una cosa terribile, che non avremmo mai immaginato. Nessuno poteva immaginare».

IL RITRATTO. Omicidio Carignano, chi era Alberto Accastello. Una vita intera trascorsa nel borgo agricolo di Ceretto, tra famiglia e lavoro. Fino alla strage della notte scorsa, e alla decisione di togliersi la vita. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 9/11/2020. Tutta l’esistenza di Alberto Accastello — l’uomo che, a Carignano, ha ucciso la moglie e uno dei due figli, di due anni, ferendo gravemente l’altra gemellina prima di togliersi la vita — era raccolta in pochi metri. Aveva sempre vissuto nel borgo agricolo di Ceretto, dove abitano ancora il padre e lo zio. Una famiglia molto unita, specialmente dopo la morte della madre: un evento che aveva segnato profondamente Alberto e i suoi fratelli. Dopo aver aiutato il padre nell’azienda agricola di famiglia, era andato a lavorare nella CerealCeretto la grande azienda di sementi e mangimi dall’altra parte della strada. I titolari, che lo avevano assunto come magazziniere quasi 20 anni fa, lo consideravamo come uno di famiglia. Uomo di poche parole, gran lavoratore, dopo il matrimonio con Barbara aveva sottoscritto un mutuo per costruire una nuova casa proprio accanto a quella del padre. Per 5 anni, però, la coppia ha continuato ad abitare nella villa della famiglia Accastello, accanto al fienile e al magazzino degli attrezzi agricoli.

La separazione. Per mesi Alberto aveva impiegato ogni momento libero per lavorare alla villetta, il suo sogno. La casa era stata appena terminata: sotto il patio, ora, ci sono ancora i giochi di Aurora e Alessandro. Dopo che la moglie gli aveva comunicato l’intenzione di separarsi — una intenzione che non aveva accettato — le sue preoccupazioni, confidate a un amico, si erano rivolte al mutuo da pagare e agli eventuali alimenti. Venerdì pomeriggio ha chiesto al suo titolare mezza giornata di permesso «per sbrigare alcune pratiche».

Colpiti nel sonno. All’alba di questa mattina, dopo una notte insonne, Accastello ha tirato fuori dal cassetto la pistola calibro 22, comprata regolarmente molti anni fa, e ha deciso di sterminare la famiglia. Ha sparato alla moglie, mentre dormiva; altri tre colpi li ha riservati ai due figli — gemelli, di appena due anni — e al piccolo chihuahua. L’ultimo, dopo una telefonata al fratello, lo ha tenuto per sé.

Da leggo.it il 21 settembre 2020. Ha preso la pistola e ha ucciso il figlio, poi si è tolto la vita. Tragedia nella notte a Rivara, piccolo comune in provincia di Torino, in un'abitazione di via Beltramo. Un uomo di 47 anni,  Claudio Baima Poma, operaio in un'azienda meccanica, ha utilizzato una pistola non legalmente detenuta per uccidere il figlio di 11 anni. Poi, con la stessa arma, si è tolto la vita. L'allarme è scattato poco prima delle due. Sono in corso gli accertamenti sull'episodio da parte dei carabinieri della compagnia di Venaria Reale (Torino). L'uomo, secondo le prime informazioni, sarebbe stato separato dalla compagna e avrebbe sofferto di depressione. I due sono stati trovati in camera da letto. Un lungo viaggio insieme. Così in un lungo post sui social l'operaio 47enne di Rivara Canavese ha lasciato intendere il gesto che avrebbe compiuto poco più tardi, l'omicidio del figlio e poi il suo suicidio, con la stessa arma, una pistola. Nel post, l'uomo racconta il proprio disagio e il proprio malessere, chiede silenzio e rispetto per la sua famiglia, e spiega che lui e il figlio sarebbero partiti per un lungo viaggio «dove nessuno ci potrà dividere, lontano da tutto, lontano dalla sofferenza». Il post su Facebook non era passato inosservato. Un'amica dell'uomo, circa un'ora dopo la pubblicazione, ha notato quelle righe con cui Claudio annunciava i suoi propositi e ha chiamato il 112. Purtroppo non è bastato: quando i carabinieri hanno raggiunto la casa di Rivara, il 47enne aveva già dato corso ai drammatici propositi.

LA MAMMA "È SOLO UN VIGLIACCO NON PENSAVO CHE FOSSE PERICOLOSO". Estratto dell'articolo di Carlotta Rocci per “la Repubblica” il 22 settembre 2020. (…) Perde la calma solo una volta quando parla del messaggio che il suo ex compagno Claudio Baima Poma, 47 anni, ha pubblicato su Facebook. «Quella è la sua verità, la sua spiegazione, è un vigliacco e un bastardo, non so come definirlo altrimenti » .

Ha mai immaginato che il suo ex potesse essere un uomo violento?

«No mai e mai avrei immaginato potesse fare del male a nostro figlio. Piuttosto avrei pensato che potesse cercare di fare del male a me ma non Andrea, non al suo bambino».

Perché pensava potesse fare del male a lei?

«C' erano stati degli episodi, non mi piace parlarne. Mai niente di davvero violento, mai minacce esplicite. Solo qualche episodio durante alcune discussioni».

(…) Suo marito ha lasciato un lungo messaggio su facebook dove l' accusa di essersi allontanata.

«Lo so, l' ho letto e ora vorrei chiudere quel profilo pieno di falsità. Incolpa me di cose che lui non era in grado di affrontare. Era stato lui a sbattermi fuori di casa quando ci siamo separati. Ma qualunque cosa sia successa allora non spiega nemmeno in parte quello che è accaduto stanotte. Ha ucciso il mio bambino».

(…) Quando ha visto il suo ex per l' ultima volta?

«Domenica sera, erano le 18.15 era passato a prendere Andrea perché lunedì le scuole erano chiuse e avrebbe potuto dormire un po' di più la mattina e il padre aveva il turno di pomeriggio. Claudio sembrava tranquillo, niente di insolito».

Sapeva fosse in cura per depressione?

«Si, aveva iniziato dopo la separazione un anno e mezzo fa, ma i suoi problemi erano cominciati molto prima. Non so con che frequenza vedesse gli specialisti».

Nel suo post lui parla anche di una grave malattia fisica.

«Aveva mal di schiena, non era un disabile».

(…) Il suo ex aveva un' arma, lo sapeva?

«No e non ho idea di come se la sia procurata. Aveva fatto il servizio militare nei carabinieri e all' epoca aveva il porto d' armi ma poi lo aveva lasciato scadere, aveva sempre detto che le armi non gli interessavano».

Gianni Giacomino e Lodovico Poletto per “la Stampa” il 22 settembre 2020. Le moto posteggiate in garage, una accanto all' altra, le due trial. Parallele, in modo quasi maniacale. E poi la grande Harley azzurra, tenuta come una reliquia. Le scatole dei Lego impilate in una stanza lì vicino: ognuna con un appunto scritto a mano. E poi il salone, pulitissimo. I panni appesi allo stendino lasciato sul terrazzo. E quei corpi, riversi sul letto di questa casa troppo grande, e troppo vuota. Quello di Andrea, che forse non si è neanche accorto di nulla. E accanto il papà che quasi lo abbraccia. Pietrificati entrambi dalla morte che ha sporcato tutto di sangue. Rivara è un paese che vive d' acciaio, lavorato nelle fabbriche che si affacciano sulla statale. Un posto della provincia più profonda. Dove tutti sanno e nessuno parla. Dove un uomo che faceva l' operaio in una queste aziende, domenica sera ha ammazzato suo figlio di 11 anni con un colpo di pistola al cuore. Poi l' ha abbracciato e l'ha fatta finita. E non c' è giustificazione che tenga per tutto questo, perché l' amore è un' altra cosa, e con la morte non c' entra nulla. Lui, il papà, si chiamava Claudio Baima Poma, aveva 47 anni; suo figlio si chiamava Andrea, aveva 11 anni, e un viso ancora da bambino, più di quanto non ti aspetti. Era depresso Claudio, dicono, da due anni, o forse di più. Di certo dal febbraio del 2019, quando Iris, la sua compagna se n' era andata di casa. E adesso se ascolti Nandina, la mamma di lui, senti una storia che fa rabbrividire: «Dal giorno che lei se n' è andata lui è diventato un altro. E il bambino era la cosa che amava di più al mondo: lo amava così tanto ce se l' è portato via. Sono andati via insieme». Già, l' amava. Ma poi leggi quel che Claudio ha scritto sui social, e la storia cambia. E non è più il gesto di un depresso, ma una vendetta. Un torto, il peggiore, quello che non puoi accettare. Non serve leggere tutto per capire: bastano le ultime frasi. «Potrai separare i nostri corpo, ma le anime resteranno insieme». E poi quella che racconta di un odio costruito un po' alla volta, giorno dopo giorno, per vendetta: «Ti auguro di vivere 100 anni». Cento anni senza Andrea. Ecco questa storia è tutta lì. Fotocopia di quell' altro gesto atroce e folle in cui un padre ha ammazzato entrambi i figli per vendicarsi della moglie. Era accaduto a Como, ed è la fotocopia di ciò che è successo a Rivara. È andata esattamente così anche qui, dove Claudio il mite, il biker, l' operaio, il figlio depresso è diventato un assassino. «Dobbiamo pregare per loro, dobbiamo riconciliare la comunità, dobbiamo invocare la pietà» dice don Riccardo, il parroco del paese. Che ha già organizzato una veglia di preghiera. Ma poi al bar senti parole diverse. Non è un posto di curiosi Rivara, non c' è via-vai davanti alla casa di Claudio, che è una villa quasi gemella a quella dei suoi genitori, con cui condivide il cortile. Una villa vuota, quasi alla periferia del paese. Sulla buca delle lettere ci sono ancora i nomi di tutti: i nonni, quello di Claudio, quello di Iris la sua ex compagna, e poi ancora quello di Andrea e quello della sorella di lui. E vien da pensare che qui tutto era fermo, tutto congelato al febbraio di un anno fa. Solo che mamma Iris non vive più lì. Ma in poche stanze in una casa che è proprio davanti alle ville: venti metri in linea d' aria. Tutti possono vedere tutti. E quel che non vedi si può intuire. Ecco, Iris si era stabilita in quel posto lì perché il suo Andrea potesse andare e venire tra casa sua e quella del papà e dei nonni. Venti metri, senza neanche dover attraversare una strada. Ecco, Iris adesso se ne sta barricata nel suo appartamento, protetta da tre amici, colleghi di lavoro. La mamma di lei s' affaccia: «Non voglio fare polemiche, con nessuno. Davvero. È tutto così doloroso». E l' uscio si richiude. Al mattino no, quando era ancora complicato capire i contorni di questa storia di vendetta e di malattia, Iris, s' era sfogata: «Avessi pensato, avessi intuito qualcosa, Andrea non lo avrei mai lasciato andare da suo padre. Mai». E ancora: «Pensavo che, al massimo, avrebbe potuto fare del male a me». Di più? No, oggi non è il caso. Oggi è tutto così incredibile, come la lettera che lui ha pubblicato sui social. Ed è quasi un' intrusione nell' intimità, che racconta tutto dalla nascita di Andrea alla depressione di lui, dal suo amore per il bambino e alle frasi i lei: «Mi dicevi curati, ammazzati o bevi». In seimila hanno commentato sul web quella lettera. Hanno tranciato giudizi. Puntato il dito. Condannato senza pietà e senza appello. Ecco, in questa storia non c' è altro di nascosto o di misterioso. Se non l' origine della pistola, una Beretta con matricola abrasa, che Claudio ha adoperato per uccidere, per uccidersi e per fare vendetta. E nessuno sa dove l' abbia presa. I carabinieri che l' altra notte sono arrivati lì, allertati dalla chiamata di una donna della Liguria, che aveva letto il lungo post d' addio, l' hanno sequestrata. Si faranno accertamenti, certo. Magari ha una storia criminale alle spalle: si saprà. È una pistola di trent' anni. Aveva due colpi. Quelli che hanno scritto il finale di questa vicenda folle.

Sms alla moglie: "Non li vedrai mai più". Poi strangola i figli nel sonno. La tragedia si è consumata stamani all'interno di un appartamento di Margno. La disperazione della madre dei dodicenni, ancora sotto choc per l'accaduto. Federico Garau, Sabato 27/06/2020 su Il Giornale. Tragedia familiare avvenuta questa mattina a Margno, piccolo comune della provincia di Lecco localizzato nel territorio della Alta Valsassina: in una fase delicata del passaggio che lo avrebbe portato a separarsi dalla moglie, un uomo ha ucciso i propri due figli, un maschio ed una femmina gemelli di 12 anni, lasciando un messaggio alla coniuge e successivamente togliendosi la vita. Mario Bresso si trovava coi due dodicenni nella casa di villeggiatura di famiglia, in un condominio situato a breve distanza dal piazzale della funivia al Pian delle Betulle e dall'hotel Larice. La moglie, invece, era a Gorgonzola (città metropolitana di Milano), dove risiede tutta la sua famiglia, quando è stata raggiunta da un inquietante messaggio del coniuge: "Non vedrai più i tuoi figli", avrebbe scritto quest'ultimo, come riportato da "Lecco online", scatenando il panico nella donna. Stando a quanto riferito dalla stampa locale, la coppia stava attraversando una fase molto delicata della separazione, che l'uomo non riusciva ad accettare. A causa di ciò, probabilmente, il raptus improvviso che lo ha portato a decidere di eliminare i propri figli come gesto estremo, prima di suicidarsi. Distante dal luogo in cui si trovavano i familiari, la donna si è precipitata in auto a Margno, facendo lei stessa la terribile scoperta e venendo colta da un malore. Inutile il tempestivo intervento dei soccorritori, vale a dire i volontari della Croce Rossa di Premana e l'elisoccorso dell'Agenzia Regionale di Emergenza e urgenza partito da Como. Per i due dodicenni, infatti, era ormai troppo tardi, ed i medici hanno solo potuto constatarne il decesso. Dopo aver ucciso i figli, l'uomo si sarebbe invece allontanato dall'appartamento, lasciandosi precipitare dal ponte della Vittoria di Cremeno (Lecco). "Abito nel piano superiore", racconta un vicino di casa a Valsassinanews, con la voce rotta dal pianto. "Questa notte alle 3 mi hanno svegliato dei rumori, strani, sordi. Ho pensato fossero dei ladri, ma qui è impossibile trovare dei ladri. E poi alle 7 sento delle urla lancinanti, stranissime, che non dimenticherò mai. Faccio la rampa di scale di corsa, e vedo la mamma di questi bambini che era in uno stato... si rotolava per terra, diceva che i bambini non si svegliavano". Il racconto si interrompe per la commozione, poi riprende. "Cerco di entrare in casa di questa famiglia, ma mi interrompe subito un poliziotto. E da lì a poco vengo a sapere che i bambini sono stati uccisi dal padre che è scappato. Il padre non l'ho visto. So che loro erano qui da circa una settimana. Io ho visto i bambini ieri sera, qui nel cortiletto a giocare. Tremendo. Mi dice piangendo quello della croce rossa che cose brutte ne ha viste ma così no... Ho chiesto come fossero morti, mi ha risposto che erano blu", aggiunge ancora. "Hanno pensato allo strangolamento. Allora ho pensato che quei rumori erano... non lo so che cosa... Mi fa star male il pensiero che non ho potuto fare niente. Una rampa e potevo salvarli, forse, ma non li ho sentiti gridare né niente. Potevo far qualcosa. I bambini... sono una cosa sacra. Si consumava questa cosa orribile a pochi metri da casa mia", conclude.

Da lastampa.it il 28 giugno 2020. L’urlo straziante di una donna ha svegliato questa mattina i pochi abitanti di Margno, piccolo comune ai piedi delle Alpi, in provincia di Lecco. Daniela Fumagalli, 45 anni, non ha smesso di piangere e urlare per ore. «Non si svegliano, non si svegliano» ha ripetuto all’infinito contorcendosi di dolore. Elena e Diego, i suoi due figli, gemelli di 12 anni, erano nel letto della loro casa di vacanza. Uccisi nel sonno dal padre, Mario Bressi, impiegato di 45 anni, che poi si è tolto la vita gettandosi dal ponte della Vittoria a Maggio di Cremeno. «Non li vedrai mai più», aveva scritto poco prima alla moglie, da cui si stava separando. Una tragedia senza fine. Non appena ha letto quel messaggio, Daniela Fumagalli si è precipitata nella loro casa di villeggiatura. «Ho fatto la rampa delle scale e sono corso giù ma era troppo tardi: anche i volontari della Croce Rossa piangevano» è il racconto di Vincenzo Rizza, un vicino di casa, che ha riferito di aver sentito nella notte «dei rumori molto strani». Erano circa le 3. «Non ho pensato ai ladri e non sono uscito di casa – ha raccontato con rammarico – Se solo fossero stati più frequenti, forse avrei potuto fare qualcosa. Il pensiero di questo padre che prepara da mangiare ai suoi figli e poi li uccide è qualcosa di mostruoso». Mario Bressi e Daniela Fumagalli si stavano separando. Originari di Gorgonzola ma dal 2003 residenti a Gessate, nell’area metropolitana di Milano, la famiglia Bressi era conosciuta in paese. I carabinieri, che indagano coordinati dal pm Andrea Figoni e dal procuratore Antonio Chiappani, hanno ascoltato per circa tre ore nella caserma di Casargo la madre dei due dodicenni. Ingegnere biomedico e dirigente di un’associazione sportiva, la Asd Freeart di Gessate per cui la figlia pattinava, Daniela Fumagalli si era di recente rivolta a un avvocato di Milano, Davide Colombo, per avviare una separazione anche se la coppia viveva ancora insieme. «La gente - dice il parroco don Bruno – vuole sapere il perché debba essere versato tanto sangue innocente. Ho incontrato quella madre, sembra una bestia ferita agonizzante, urla, è disperata». Il sacerdote stasera dirà una messa «di riparazione. Davanti al male si rimane sgomenti. E’ un dolore che tocca tutta la comunità che conosceva soprattutto i nonni di questa famiglia, qui in vacanza per 40 anni. Dirò una messa di riparazione anche mercoledì nella cappellina in mezzo al bosco: il male è troppo grande, va riparato». Incomprensibile agli amici e ai vicini il gesto di Mario Bressi. Su Instagram l’impiegato ha postato una foto con i figli mentre guardano la cima delle montagne con alle spalle una piccola cappella. «Per sempre insieme» ha scritto sulla foto. I social network di Mario Bressi sono piene di immagini che lo ritraggono sorridente con i figli, fotografie di momenti spensierati scattate soprattutto in montagna. Istantanee ora ancora più drammatiche per gli amici che si sono riversati sui social.

Il grido di dolore della mamma di Elena e Diego: "I ragazzi non si svegliano, cosa gli ha fatto?" L'uomo non aveva precedenti di violenza e ha covato la rabbia in silenzio. Cristina Bassi, Domenica 28/06/2020 su Il Giornale. «Che cosa gli ha fatto...»: Daniela Fumagalli lo ripete più volte piangendo. È in una breve pausa del lungo colloquio con il pm di Lecco Andrea Figoni che l'ha ascoltata nella stazione dei carabinieri di Casargo. A poche centinaia di metri suo marito Mario Bressi ha ucciso i loro figli di 12 anni, i gemelli Elena e Diego, e poi si è tolto la vita. La donna, 45 anni, dirigente di una società sportiva nella sua città, esce un momento dalla caserma per abbracciare gli amici che sono venuti a sostenerla e che poi la porteranno via in un'auto dai vetri oscurati. È con loro che si lascia andare, disperata, e ripete: «Che cosa gli ha fatto...». È toccato a lei trovare i bambini ieri mattina presto nel letto matrimoniale della casa di vacanza a Margno, in Valsassina. Un vicino l'ha vista arrivare insieme ai carabinieri, che lei stessa ha avvisato prima di mettersi in auto da Gorgonzola insieme alla sorella. Dal messaggio che il marito le aveva inviato non aveva dubbi che fosse successo qualcosa di terribile. I gemelli erano stati uccisi alcune ore prima e lei non ha potuto fare nulla: «Non si svegliano», ha ripetuto. Nonostante con Bressi avessero parlato di separazione e avessero contattato un legale, Daniela Fumagalli non aveva avuto niente in contrario quando il marito le aveva detto della breve vacanza solo con i bambini. Desiderava provare a occuparsene lui, aveva spiegato, in vista delle molte occasioni simili dopo la separazione. Da quello che viene riferito in ambienti investigativi, non ci sono tracce di liti violente nella coppia né di denunce. L'iter di separazione era all'inizio, non era ancora stata presa alcuna iniziativa formale e i coniugi vivevano ancora insieme a Gessate, non lontano da Milano. La situazione, seppur dolorosa, non era sembrata conflittuale. Invece, anche se nessuno lo aveva capito, Mario Bressi covava una rabbia profonda e segreta. Non accettava la decisione che, probabilmente, era stata della moglie e che lei gli aveva comunicato da poco. La sera di venerdì, poche ore prima degli omicidi, i due non avevano litigato al telefono. Pero l'uomo ha inviato diversi messaggi e anche alcune mail. Chi indaga ne deduce una prima e parziale motivazione del delitto. Il 45enne avrebbe voluto punire la moglie, vendicarsi dell'abbandono, togliendole il bene più grande. Anche per questo verranno analizzati computer e telefono dell'uomo alla ricerca di altri messaggi e appunti utili a capire di più e a stabilire se stesse preparando gli infanticidi da tempo. «Ho contattato la madre, è sotto choc, sembra una bestia ferita - racconta don Bruno Maggioni, parroco della zona pastorale di Margno - È come se gridasse il dolore, è esasperata. So che ha ricevuto conforto medico, ma non basta. È comprensibile che anche il paese sia sotto choc: siamo 300 abitanti, ci conosciamo tutti e ci vogliamo bene. Come parroco ho il dovere ora di essere vicino a tutti. Io conosco i nonni di queste creature, sono 40 anni che vengono qui in villeggiatura. Il papà sarà venuto qualche volta ma lo conosco di sfuggita».

Le foto con i bimbi in piscina: ​chi è davvero il papà "mostro". Li ha uccisi per vendicarsi della ex moglie. Gli utenti di Facebook lo maledicono. La madre è sotto shock. Valentina Dardari, Sabato 27/06/2020 su Il Giornale. Pioggia di insulti e maledizioni sulla pagina Facebook di Mario Bressi, il 45enne originario di Gessate che prima ha ucciso i suoi due figli e subito dopo si è tolto la vita.

"Non li vedrai mai più". E strangola i figli nel sonno. Sono tante le foto che lo ritraggono in montagna con i suoi gemellini di 12 anni. Sembrano foto di una famiglia felice che ama trascorrere le vacanze insieme. La scorsa notte l’orrore. Mario ha ucciso i bambini nella casa di vacanza a Margno, comune in provincia di Lecco. Poi ha deciso di farla finita gettandosi dal ponte Vittoria a Cremeno. Sportivo, sorridente, un papà modello quello che appare sui social. In una foto è con il figlio Diego, che stringe una coppa. In un’altra è invece vicino all’altra bambina, Elena, sullo sfondo una montagna innevata. Fan di Guccini, appassionato di tennis e calcio, le sue squadre erano l’Ac Monza e la Juventus, di quest’ultima in una immagine indossa la maglia bianconera, sempre accanto ai suoi bambini. Tantissime le foto che li ritraggono insieme: mentre guardano le montagne, durante le loro gite dalla Val d'Ayas all'alta Val Venosta, oppure mentre ridono e posano felici in piscina.

Una pioggia di insulti e minacce. Adesso, sulla sua bacheca, oltre alle sue foto compaiono insulti di ogni tipo. Una pioggia di minacce e maledizioni verso quel apdre killer. "Se esiste un inferno, sei sicuramente lì". O anche: "Maledetto", "Ignobile", "Indegno", "Crepa all'inferno, bastardo". Tanti gli utenti di Facebook che, una volta appresa la tragica notizia, hanno lasciato insulti e minacce sul profilo di Bressi. Salvatore gli augura di essere dannato per tutta l’eternità: "Che tu sia maledetto per l'eternità di un'eternità perenne e senza fine. Indegno uccidere il proprio sangue per far del male a qualcuno! Ignobile pure da morto! E ora marcisci ovunque tu sia perché la pagherai cara, l'universo non dimentica".

Li ha uccisi per vendicarsi della ex moglie. Qualcun altro gli augura di bruciare all’inferno, o di vagare per sempre. Daniele sottolinea che quelle due creature innocenti che ha ucciso lo chiamavano papà, e si fidavano di lui. Molti ricordano anche la madre dei due bambini, e pregano Dio affinché riesca ad alleviare il dolore che la donna sta provando in questo momento. Un’altra utente, Marilena, non si capacita di come abbia potuto un padre uccidere i suoi figli solo per vendetta: “Come hai potuto accaniti sui tuoi bambini per vendicarti con tua moglie. Vi vedo belli e felici... Certamente la tua vendetta non poteva essere più dura". Paolo è più duro e scrive che “la vita è un dono inestimabile del nostro Re dei Re e tu l'hai sprecata in questo modo vile, togliendola anche a due angeli a due creature che avevano tutta la vita davanti a loro! Sei una merda, una schifezza di persona, e meriti veramente di andare all'inferno". Già, perché Mario e la moglie si stavano separando e, nell’ultima lettera, il 45enne ha scritto: “Non vedrai più i tuoi figli”. Subito dopo li ha raggiunti a letto e li ha uccisi. Anche don Bruno Maggioni, parroco di Margno, Casargo, Crandola e Vegno, è sconvolto per la tragedia familiare. Ha chiamato la mamma dei due gemellini e ha detto di averla trovata sotto choc. Sembra quasi in trance, ha avuto bisogno di un supporto medico, quasi non si rende conto di chi le è accanto. Tutto il paese, 300 abitanti, è sconvolto e incredulo. Li conoscevano tutti: 40 anni che i nonni dei bimbi passavano le loro vacanze tra quelle montagne.

Mario Bressi con i figli Elena e Diego. Elena Stancanelli il 28 Giugno 2020 su La Stampa. Anche l’uomo che uccise le figlie di Irina le scrisse nel suo ultimo messaggio “non le vedrai mai più”. Alessia e Livia avevano sei anni ed erano gemelle, anche loro. Era una domenica di gennaio del 2011 e Mathias, il padre, dopo aver scritto quel messaggio si buttò sotto un treno. La storia di Irina l’ha raccontata molto bene Concita De Gregorio in un libro intitolato “Mi sa che fuori è primavera”.

Omicidio dei gemelli in Valsassina, i messaggi del padre nel cuore della notte: "Hai rovinato la nostra famiglia". Pubblicato domenica, 28 giugno 2020 da La Repubblica.it. Tre i messaggi whatsapp che Mario Bressi, l'uomo che ha ucciso i suoi due gemelli di 12 anni nella loro casa di villeggiatura in Valsassina e poi si è tolto la vita, ha inviato tra le 2 e le 3 di ieri alla moglie, Daniela Fumagalli. L'ultimo dei messaggi, da quanto emerge dalle indagini, sarebbe in realtà una lunga lettera in cui l'uomo, 45 anni, lancia pesanti accuse alla moglie ritenendola colpevole di aver rovinato la loro famiglia, si dice in crisi e disperato, e lancia accuse pesanti: "E' tutta colpa tua". Intanto è stata disposta l'autopsia sui corpi di Elena e Diego, che si farà martedì, che dovrà chiarire come sono morti. Saranno anche fatte le analisi tossicologiche per verificare se i bambini sono stati prima sedati e quale è stato l'orario della morte. Stesso esame anche sul corpo di Mario Bressi. Intanto i carabinieri hanno sequestrato il computer dell'uomo nella sua abitazione di Gessate su disposizione della procura di Lecco: l'analisi del pc servirà a capire se la tragedia è stata programmata oppure no. Tante le lettere lasciate dagli amici dei bambini all'ingresso della palazzina di Gessate, dove la famiglia viveva dal 2003. "Dopo la quarantena abbiamo perso un po' il legame ed ecco che oggi 27 giugno abbiamo perso i legami del tutto...". Una verità amara, scritta a pennarello nero su un foglio a quadretti e la calligrafia da bambina, c'è scritto su una di queste. "Il primo giorno che vi ho visti insieme ho pensato: non potremmo mai essere amici... ma poi abbiamo iniziato a legare ed ero molto felice", è scritto ancora nella lettera. Di Elena "ricordo quando mi dicevi di farti le trecce prima di andare in palestra. Vi voglio molto bene, non potete immaginare quanto". Appesi al cancello della villetta, anche alcuni palloncini e un mazzo di fiori. Un'altra lettera, battuta al computer e con un grande cuore rosso racconta i momenti quotidiani dei 12enni con gli amici: "Vi ricordate quando facevamo i compiti insieme che ogni volta voi urlavate e io morivo dal ridere? Vi adoro siete i migliori amici di sempre", scrive una di loro ricordando Elena come "un'amica molto speciale" e Diego come "il mio migliore amico maschio, non me lo perdonerò mai che non ci sei più. Resterete sempre nel mio cuore".

"Ho ucciso le gemelline ma non hanno sofferto". La Voce di Manduria sabato 12 febbraio 2011. Ricerche della polizia sono in corso stamattina in un canalone non lontano dalla stazione ferroviaria di Cerignola Campagna nell'ambito delle indagini sul suicidio di Matthias Schepp e sulla scomparse delle sue figlie, le gemelline Alessia e Livia, di sei anni. L'uomo si é suicidato lo scorso 3 febbraio nello scalo lanciandosi sotto un treno Eurostar. Gli agenti della Squadra mobile della questura di Foggia, a quanto si è appreso, stanno in particolare cercando il navigatore satellitare dell'Audi abbandonata dall'uomo davanti all'ingresso della stazione. Viene ipotizzato che l'ingegnere canadese possa essersene disfatto poco prima di mettere in scena l'ultimo atto della sua fuga dalla città svizzera di Saint Sulpice, iniziata il 28 gennaio. Il ritrovamento del navigatore consentirebbe agli investigatori di rintracciare tutti gli spostamenti dell'uomo e di determinare in maniera più attendibile, dove può aver condotto le figlie o quale presumibilmente possa essere stata la loro sorte. Dall'inviato Ansa Matteo Guidelli SAINT SULPICE (LOSANNA) - ''Malgrado le brutte notizie, il mio cuore di mamma sente che le mie figlie sono vive''. Lontana da Saint Sulpice e dall'orrore di una casa vuota e silenziosa, lontana da quelle strade affacciate sul lago Lemano che l'hanno vista felice, con la forza che solo una madre può avere, Irina Lucidi scaccia i macabri messaggi dell'ex marito e rilancia: ''vi prego, continuate a cercare Alessia e Livia, non può essere che le mie gemelline siano morte''. L'ultima speranza di Irina è' un pacchetto che sarebbe arrivato in Svizzera da Marsiglia: lì dentro, forse, c'è il registratore da cui Matthias Schepp non si separava mai. E lì dentro, forse, c'è la risposta all'unica domanda che conta: che fine hanno fatto le due bimbe di sei anni sparite nel nulla con la sola colpa di essersi fidate di un padre che da ''amorevole e attento'', dicono oggi i suoi genitori, si è trasformato in un mostro capace di pianificare in ogni dettaglio la sua fine e, purtroppo, quella molto probabile delle bimbe. Quel che è' certo, dicono più fonti investigative, è che nelle lettere ''non ci sono indicazioni sul luogo dove cercare Alessia e Livia''. Ma che gli investigatori svizzeri, e francesi, abbiano in mano qualcos'altro, è però lo stesso comunicato della polizia del Cantone di Vaud a lasciarlo ipotizzare, quando si sostiene che tutto ciò che è arrivato via posta ''è stato analizzato minuziosamente per trovare degli elementi utili''. E non è escluso che nel pacco che Matthias ha spedito il 2 febbraio da un piccolo ufficio postale vicino a Tolone, abbiano trovato un altro tassello di questo maledetto puzzle costruito sulla pelle di due bambine innocenti. Non elementi stravolgenti, altrimenti Alessia e Livia sarebbero già state trovate; in ogni caso qualcosa che ha ridato la speranza ad Irina. Tracce che potrebbero portare in Corsica, dove sono già arrivati due investigatori svizzeri e dove ormai troppi elementi fanno convergere le ricerche, l'ultimo la testimonianza di una donna che ha detto di essere sicura ''quasi al cento per cento'' di aver visto l'uomo e le due bambine a Propriano il 1 febbraio. Il giorno dopo, invece, a Tolone Matthias Schepp c'è arrivato da solo: lo confermano i documenti di viaggio, il personale di bordo e anche i rilievi scientifici fatti nella cabina assegnata all'uomo. Gli investigatori svizzeri continuano comunque a dire che ogni sforzo ''è finalizzato a trovare le bambine ancora in vita''. Parole che in realtà vanno a sbattere con la lucida crudeltà che emerge dalle lettere di Matthias Schepp. Fin dall'inizio: ''mia cara, devi sapere che le bimbe riposano in pace, non hanno sofferto. Tu non le vedrai più''. Poi il papà di Alessia e Livia dice alla moglie che ''avrei voluto morire con le mie figlie'' ma che ''non è andata così''. Cosa significhi l'uomo non lo spiega, forse non tutto è andato come aveva pianificato. Ma ciò non ha cambiato i suoi piani: ''Le ho già fatte morire, non hanno sofferto e ora riposano in un luogo tranquillo. Io sarò l'ultimo a morire''. Frasi agghiaccianti anche nella loro composizione: il ''non'' è scritto in maiuscolo e sottolineato. Ma nelle lettere, e nella cartolina inviata da Marsiglia, vi potrebbe anche essere il movente della sua follia: una depressione che l'ha portato ad essere ''stanco della vita'', le sue responsabilità per la fine del matrimonio, la volontà di avere a tutti i costi l'affidamento di Alessia e Livia e la disperazione per non averlo ottenuto. Elementi che non possono in ogni caso giustificare quello che Matthias ha fatto, anche nell'ipotesi remota che le bambine venissero trovate vive. Lo dicono chiaramente anche i suoi familiari, chiusi in casa a trecento chilometri di distanza da Saint Sulpice. ''Solo un disturbo mentale grave'' scrivono in un comunicato, forse per evitare la vergogna di dover spiegare a parole come un uomo normale possa esser diventato un mostro e di dover dire perchè ancora non hanno richiesto la salma di Matthias. Proviamo, aggiungono, ''inquietudine e costernazione'' e si dicono convinti che ''atti tanto terribili'' possono essere compiuti solo ''con la perdita della sua personalità normale''. Dunque meglio ricordarlo come un padre ''amorevole, attento e rispettoso''. E quello che avrebbero voluto fare anche Alessia e Livia. E' quello che spera ancora Irina. Dall'inviata Ansa Chiara Carenini BASTIA - Ascoltare per cercare di capire e comunque cercare, per quanto possibile, dove le tracce, seppur minime, portano. Compito difficile quello della polizia giudiziaria di Ajaccio e di Marsiglia che stanno cercando Alessia e Livia, 6 anni, gemelline scomparse nel nulla il 31 gennaio scorso. Per capire i poliziotti hanno ascoltato tutte le persone che dicono di aver visto le bambine e il loro papà Matthias Shepp: hanno anche scavato nella sabbia della spiaggia di Baracci, a pochi metri dal porto di Propriano, dove papà e gemeline sono scesi dal traghetto proveniente da Marsiglia. L'ultimo luogo dove sono state viste vive le piccole. Loro, bellissime, con papà e una donna bionda, ha detto Olga Ornek una signora di Propriano che è certa fossero loro. Ma non c'era nulla sotto quella sabbia dura, nulla nella macchia mediterranea, nulla tra le grandi rocce piegate su loro stesse. No, non sono qui. Allora, il lavoro della polizia giudiziaria si fa difficile e come su uno scacchiere gli inquirenti cercano di ricostruire il viaggio di Matthias verso quella che è stata la meta finale, Cerignola. Non solo le parole dei testimoni che lo vedono il 2 febbraio prendere il traghetto da Bastia, non solo il suo arrivo a Tolone ne' la missiva inviata da un piccolo ufficio postale nella Regione del Var vicino a Tolone, ne' l'immagine della targa dell'Audi nera impressa nella telecamera del varco autostradale di Ventimiglia. Dietro il lavoro certosino degli inquirenti c'è l'analisi delle parole incise sulle lettere che Matthias Schepp scrive all'ex moglie. Sono convinti che in quelle missive, e specialmente quella inviata dalla Var si nasconda comunque l'unico modo che consentirà di ritrovare le gemelle. Certo è che se è vero che l'uomo ha ucciso le due bambine, lo stesso Schepp potrebbe aver deciso di non far ritrovare i corpi (''non le rivedrai mai più'', scrive nella lettera inviata da Cerignola). E visto che Schepp è arrivato da Propriano a Bastia, tre ore di viaggio non di più, passando da Pianottoli, dove la sua auto è stata vista parcheggiata nel piazzale di un supermercato, potrebbe aver affidato alla natura assolutamente selvaggia della zona i corpi delle piccole. Per questo i poliziotti hanno prelevato alcuni campioni di sabbia e terriccio per compararli con il materiale trovato sull'Audi di Schepp e sul traghetto. Perchè questa potrebbe essere una traccia per riempire quelle 14 ore di buio che hanno ingoiato le gemelline. Questo è il labirinto nel quale si muovono i poliziotti, supportati stasera da alcuni funzionari di polizia arrivati da Losanna e da Marsiglia. Molto interesse sta nel plico impostato nella Var da Schepp. In quel plico potrebbe esserci la soluzione. Ma il capo del Parquet di Marsiglia, Jacques Dallest, su questo non vuol dire nulla. Non perchè non si deve allertare un complice, un'ipotesi che è sempre rimasta nel sottofondo di questa storia, ma perchè la polizia deve avere le mani libere. Fonte. Ansa

Margno, Mario Bressi e i segni sul collo della figlia: agghiacciante sospetto, "forse si è accorta di tutto". Libero Quotidiano il 29 giugno 2020. Aveva pianificato l'orrore, Mario Bressi, ma qualcosa non è andato come voleva. Il 45enne che nella notte tra venerdì e sabato ha strangolato nella loro casa-vacanza di Margno (Lecco) i suoi due figli gemelli Elena e Diego di 12 anni per vendetta dalla moglie Daniela Fumagalli da cui si stava separando forse non aveva calcolato che una delle sue vittime potesse accorgersi della follia del padre. Gli inquirenti indagheranno sulla posta elettronica dell'uomo (che si è suicidato subito dopo l'insano gesto) per capire se i messaggi partiti all'indirizzo della moglie ("Non li rivedrai mai più") siano il segno di una premeditazione o di un raptus, visto che nessuno (nemmeno la moglie) aveva avuto avvisaglie della follia. Secondo il Quotidiano nazionale, l'ipotesi è che Bressi appia soffocato con un cuscino il figlio e poi strangolato a mani nude Elena, sul cui collo ci sarebbero segni: la ragazzina, questo il tremendo sospetto, "potrebbe essersi accorta di quanto stava accadendo". "Oggi verrà invece affidato l'incarico all'anatomopatologo Paolo Tricomi per eseguire domani le autopsie. 

Margno, "la bestemmia prima dell'omicidio". Rondoni e il dettaglio sfuggito a molti su Bressi e i figli. Libero Quotidiano il 29 giugno 2020. Una bestemmia, prima dell'atto più sacrilego, l'omicidio di due figli. A Davide Rondoni, scrittore ed editorialista del Quotidiano nazionale, nell'orrore di Mario Bressi che a Margno ha strangolato Elena e Diego, 12 anni, per vendicarsi della moglie da cui si stava separando, non è sfuggito un dettaglio inquietante ma apparentemente secondario: il selfie del papà con i due gemellini  pubblicato su Instagram poco prima dell'omicidio, "Per sempre insieme", scrive Bressi, "e nella foto si vede, volutamente, inquadrata una edicola o cappellina della Madonna", sottolinea Rondoni. "Infausto, ingiusto, insopportabile cortocircuito tra lacerto di preghiera e bestemmia, tra linea possibile di luce (i figli non sono cosa tua, bastardo! Se sono di qualcuno sono di Dio, appunto) e l'atto sprofondato nel buio, nella demenza oscura, nel dolore che genera solo dolore".

Elena e Diego, il dramma della madre «Mi fidavo del loro papà, li ha uccisi». Andrea Galli e Barbara Gerosa il 29 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. Omicidio dei gemelli in Valsassina, le prime parole della madre Daniela. Il marito dal quale si stava separando, Mario Bressi, e i due figli sarebbero dovuti rientrare a Gessate sabato. La strage pianificata e gli ultimi messaggi. Nel trilocale di Margno, seconda casa di proprietà dei suoi genitori, Mario Bressi e i figli non erano mai stati da soli. Non così a lungo: erano da mercoledì in alta Valsassina, nel paese di quattrocento abitanti e altrettanti turisti a Natale e d’estate, in provincia di Lecco. Bressi aveva chiesto il permesso alla moglie e lei aveva acconsentito. Per quale motivo negare ai gemelli dei giorni d’aria buona in montagna col papà?

Un piano premeditato. La pianificazione dell’assassino, che la sera di venerdì ha soffocato i 12enni Elena e Diego, e si è lanciato da un ponte, potrebbe essere iniziata da lontano. Aveva progettato la vendetta, la più atroce, contro Daniela. Da mesi, nell’elegante appartamento di Gessate, in provincia di Milano, si parlava della separazione. A maggio Daniela aveva contattato l’avvocato. Bressi aveva sollevato istantanee preoccupazioni non tanto per l’interruzione di uno storico rapporto, avviato quand’erano ragazzini, quanto per il timore di non vedere più i figli. «I miei figli», insisteva l’assassino, quei figli che ovunque andasse gli procuravano complimenti e l’appagavano. Daniela aveva subito fugato i timori escludendo categoricamente l’ipotesi, per il bene proprio dei gemelli e anche per la tranquillità del marito, di allontanamenti, ostacoli, scenate, ripicche; le relazioni, aveva giurato, sarebbero rimaste civili, Elena e Diego sarebbero stati più tempo possibile con i genitori insieme. Una gestione da persone adulte. Ad ascoltare i frammenti di resoconti in caserma e ai familiari che in queste ore sono vicini a Daniela, soprattutto sorreggendola fisicamente, dal momento della scoperta dei corpicini, con quell’urlo innaturale che ancora fa tremare i vicini di casa, Bressi non aveva mai sollevato obiezioni. Mai. Non aveva discusso né chiesto ulteriori chiarimenti. Non aveva lasciato filtrare. La finzione totale. Star zitto e pensare. Star zitto e macchinare. Star zitto e preparare. La mente che andava e andava, ideando come punire Daniela e ribellarsi a quella che considerava un’ingiusta punizione di un mondo, il suo, soltanto il suo mondo, che dopo quarantacinque anni d’ordinata diligente esistenza senza problemi, gliene presentava uno.

Gli ultimi sms. Era colpa sua. Ugualmente inutile soffermarsi sugli sms inviati sempre a Daniela quand’ancora l’orrore non era cominciato, sms dove Bressi parlava di futuro, i campi estivi dei gemelli, le gite al mare, per programmare l’agenda familiare in anticipo. Fingeva di nuovo. Forse s’era perfino preso gioco della moglie sapendo che lì a poco l’avrebbe svegliata di notte con quel messaggio: «Ora resterai da sola».Forse aspettava un riscontro sul fatto che fosse già a letto o meno, per calibrare la cronologia. La cena, Elena e Diego che giocano, si stancano, mangiano, si appisolano forse sedati, anche se la Rilievi non avrebbe trovato traccia di sostanze e bustine (domani le autopsie). Il Corriere ha scelto di non indugiare su particolari della scena del crimine. Non aggiungono niente, ma poi cosa c’è da aggiungere? Chi in paese ha incontrato i soccorritori ha raccontato d’aver visto persone che vomitavano ancora, a distanza di ore. Fra i carabinieri più d’uno ha ammesso che credeva di non resistere.

«Mi fidavo di lui». Daniela ha ribadito all’infinito il verbo fidarsi. «Mi fidavo». Del resto, avesse avuto un minuscolo dubbio non avrebbe acconsentito. L’assassino e i gemelli sarebbero dovuti rientrare a Gessate sabato. E sabato, in macchina quando il cellulare del marito suonava a vuoto e così quelli di Elena e Diego, Daniela ha avvisato gli stessi carabinieri ma nell’angoscia non ricordava il nome della via del trilocale, ricordava solo la vicinanza con la funivia che porta ai Piani delle betulle, il luogo dell’ultima gita di Bressi e dei gemelli. La macchina dell’assassino era parcheggiata a breve distanza dal ponte del suicidio. Meticoloso, controllato fino alla fine: l’interno della vettura sembrava quella di una appena acquistata al concessionario; pulita, niente polvere sul cruscotto, il diesel in abbondanza nel serbatoio.

Omicidio dei gemelli in Valsassina, "La coppia si stava separando ma lei non voleva portargli via i figli". Per avviare la pratica la moglie aveva fatto mandare al marito una lettera dall'avvocato Davide Colombo, che dice: "Le cose si stavano muovendo nella massima tranquillità". Ilaria Carra il 28 giugno 2020 su La Repubblica. La signora del posto fa la salita di via Prealpi con qualche fatica, poi si ferma con una conoscente del paesino che sta bagnando le piante: "L'ho visto l'altro giorno correre qui sul piazzale con i suoi bambini, non avevo capito fosse lui, chi avrebbe mai potuto pensare a una cosa del genere". Fino al giorno della tragedia, nella famiglia Bressi si ritraevano solo sorrisi. Come nelle tantissime foto che postava il padre con Elena e Diego in montagna, e poi al mare in Liguria, e ancora sui pattini a rotelle, come la mamma, istruttrice. Questa vacanza a Margno con i due figli Mario Bressi l'aveva voluta per cercare di trascorrere del tempo da solo con loro. Sapeva che la moglie voleva separarsi da lui. Daniela aveva già preso contatti con un avvocato, la prima lettera sulla richiesta di separazione era partita e arrivata al marito prima di questo soggiorno. Lei ingegnere biomedico al lavoro come istruttrice nella società sportiva Free Art di pattinaggio a rotelle di Gessate, lui ex magazziniere poi impiegato come responsabile vendite in una ditta. Erano sposati dal 2003, Mario e Daniela. La coppia viveva ancora assieme a Gessate, nell'hinterland milanese. Chi li conosce racconta che avevano trascorso i mesi di quarantena da coronavirus insieme, nella loro casa, senza particolari tensioni o traumi, tranquilli con i loro figli. "La separazione era davvero agli inizi - dice l'avvocato della donna, Davide Colombo - non eravamo ancora nemmeno agli atti. Non mi risultano tensioni tra di loro, né minacce precedenti. Voglio sottolineare che la moglie non aveva alcuna intenzione di portare via i figli al marito, le cose si stavano muovendo nella massima tranquillità". Cosa sia successo negli ultimi giorni per spingere Mario Bressi a uccidere i suoi figli e poi se stesso è ora materia delicata di indagini. "Cosa gli ha fatto?" urla la donna in caserma quando vede gli amici arrivare a darle supporto. Non risultano finora denunce né minacce precedenti nella loro storia. E nessun litigio recente tra i due, nemmeno venerdì sera quando lui era in montagna con i gemelli e lei agli allenamenti a Gessate. Ma la pista seguita dagli investigatori è quella: Bressi non aveva accettato la separazione ormai alle porte. Anche se cosa sia successo in questi ultimi giorni da solo con i figli in montagna resta un mistero. Chi indaga non esita ad ipotizzare una vendetta. Un duplice omicidio per togliere alla moglie "le cose più preziose che aveva, i suoi figli". Se Bressi lo avesse premeditato, è ancora tutto da capire. Si faranno accertamenti anche sul computer dell'uomo, per cercare se ci fossero altri messaggi che possano far pensare a un piano feroce maturato nel tempo.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 29 giugno 2020. Una furia distruttiva che ha inghiottito tutto. I figli, la moglie, se stesso. Della sua vita familiare Mario Bressi, l'assassino dei due figli gemelli di 12 anni Elena e Diego, voleva cancellare ogni traccia affinché a Daniela Fumagalli non restasse nulla. Nemmeno le foto che i bambini avevano nel telefonino. Quando è stato recuperato il corpo dell'uomo, che sabato mattina si è lanciato dal ponte della Vittoria a Cremeno, non aveva il cellulare addosso né è stato trovato nell'area circostante. E dalla casa delle vacanze di Margno, in alta Valsassina, sono scomparsi anche i telefoni dei bambini. Bressi si è premurato di buttarli in qualche dirupo tra i monti prima di suicidarsi, per non lasciare alla moglie nemmeno il conforto dei ricordi. L'ultima notte dell'impiegato di 45 anni, che gli investigatori stanno ripercorrendo mettendo in fila i messaggi inviati alla moglie, sono un crescendo delirante di rancore e recriminazioni. Tre, in particolare, i WhatsApp che ha spedito tra le due e le tre a Daniela Fumagalli, a casa a Gessate mentre il marito da una settimana era in montagna con i loro bambini. L'ultimo è una lunga lettera in cui Bressi accusa: «Hai distrutto la nostra famiglia». I messaggi precedenti erano dello stesso tenore, una sequenza di frasi cariche di odio nei confronti della donna responsabile «della rovina del matrimonio». La separazione era alle prime battute, ma Bressi era già travolto da un livore incontrollabile che fino a venerdì non aveva manifestato in alcun modo. Tanto che la moglie gli ha affidato i gemelli per la vacanza a Margno. «Non c'era alcun segnale che potesse destare preoccupazione. Tutto stava procedendo con la massima tranquillità. Mi aveva contattato la signora, il fascicolo per la separazione era proprio all'inizio. Nessun atto firmato, né udienze fissate in tribunale», dice Davide Colombo, l'avvocato cui si è affidata Daniela Fumagalli. «È stato un gesto inaspettato, nessuno poteva prevederlo, non c'erano apparenti tensioni che potessero giustificare o far prevedere un dramma del genere». Lei, spiega il legale, «non ha mai presentato denunce nei confronti del marito, non si era arrivato assolutamente a questo. Tra loro due non era in corso nessuna separazione violenta né litigiosa. La signora non aveva alcuna intenzione di portargli via i figli, anzi. Contro il padre non aveva nulla da eccepire. Era intenzionata ad andare fino in fondo con il divorzio? Chi lo sa, in queste cose le dinamiche sono sempre incerte». Ma per Bressi ormai era troppo tardi, il nemico giurato era la moglie e la morte dei figli il piano per punirla. «Che il duplice omicidio sia premeditato non ha importanza sotto il profilo tecnico dell'inchiesta. Semmai lo è per i parenti, che hanno bisogno di sapere la verità», è la riflessione degli inquirenti. Per questo hanno sequestrato il computer dell'impiegato e stanno ricostruendo le ultime ore di vita sue e dei figli. Venerdì sono andati in gita sui monti sopra Margno, li hanno visti prendere la funivia di Pian delle betulle, poi sono rientrati nell'appartamento del residence Il Castagno: Elena e Diego hanno giocato in cortile, raccontano i vicini, lui ha preparato la cena. E, tra la notte e le prime luci dell'alba, li ha uccisi, la bambina strangolata e il fratello soffocato. «Ha lasciato tutto in ordine, compresi i cadaveri. Li ha composti sul letto matrimoniale», è la riflessione amara degli investigatori. Gessate, dove abitava la famiglia, è una cittadina incredula. Diego giocava nella squadra di calcio locale, Elena aveva seguito le orme della mamma e pattinava. «Dopo la quarantena abbiamo perso un po' il legame ed ecco che ora abbiamo perso i legami del tutto», è la verità amara scritta a pennarello su un foglio a quadretti appeso da un compagno di scuola sulla soglia della palazzina dei due bambini.

Gemellini uccisi dal padre, il dramma della mamma: “Mi fidavo di lui, avevo sentito i bambini erano contenti”. Redazione su Il Riformista il 29 Giugno 2020. “Mi fidavo di lui”. Sono queste le parole che Daniela Fumagalli ha ripetuto all’infinito nei confronti del marito Mario Bressi, l’uomo che venerdì sera ha ucciso i loro due gemelli di 12 anni, Elena e Diego, per poi lanciarsi da un ponte. “Alle dieci avevo sentito i bambini per la buonanotte. Erano contenti”, ha raccontato la donna in lacrime agli investigatori ancora sotto shock per quanto accaduto ai suoi figli. Continuano ad emergere dettagli e dolore nella tragedia accaduta sabato nel centro montano di Margno, in Valsassina, in provincia di Lecco, dove Bressi ha strangolato la figlia Elena e soffocato il figlio Diego, secondo quanto riportato dalla ricostruzione dei carabinieri del Ris. Prima aveva preparato per loro la cena e poi li ha uccisi ricomponendoli nel letto matrimoniale come se stessero dormendo. Indiscrezioni dicono che li avrebbe sedati prima di uccidere, girando i volti dei bambini per non guardarli “evitando di attendere l’ora del lavaggio dei denti e della vestizione dei pigiamini. Dopodiché, ha sparecchiato, buttato i rifiuti e sistemato casa”. Inoltre, stando agli ultimi dettagli emersi dalla ricostruzione degli inquirenti, l’uomo avrebbe gettato in qualche dirupo tra i monti prima di suicidarsi i telefoni dei due ragazzini oltre al suo, per non lasciare alla moglie la possibilità di riguardare le loro foto più recenti e avere il conforto dei ricordi.

IL CASO – A provocare i gesti efferati dell’uomo sarebbe stata l’imminente separazione dalla moglie. Tutto pianificato nei dettagli, secondo quanto rivelato dai carabinieri che si stanno occupando del caso. I militari dell’Arma sono coordinati dal Pm Andrea Figoni e dal Procuratore capo di Lecco Antonio Chiappani. Dopo l’omicidio e prima di buttarsi dal Ponte della Vittoria a Maggio di Cremeno, l’uomo ha postato una foto sui social con i bambini (“Con i miei ragazzi … sempre insieme”, ha scritto nel post) e poi ha mandato un sms alla moglie: “Non li rivedrai mai più”. La moglie, che aveva già preso contatti con un avvocato e la prima lettera sulla richiesta di separazione era arrivata al marito prima della vacanza a Margno, ha allertato le forze dell’ordine e intorno alle 9 è arrivata all’appartamento al primo piano del condominio nei pressi della partenza della funivia che porta al Pian delle Bedulle, dove ha trovato i corpi senza vita dei figli. Uno dei punti fondamentali da chiarire è se l’omicidio sia stato preordinato. Anche l’autopsia suoi corpi dei figli e del papà dovrebbe fornire particolari importanti come l’orario della morte, da un primo accertamento è stata collocata tra la tarda sera di venerdì e le prime ore di sabato mattina, e chiarire se i gemelli, anche se non sono emerse evidenze, siano stati o meno sedati. Le testimonianze di amici e parenti raccolte dagli investigatori e inquirenti hanno dipinto un quadro di una coppia in crisi ma senza particolari litigi che potessero lasciar presagire un gesto così efferato. Ad allarmare Daniela sono stati i messaggi whatsapp inviati dal marito la notte dell’assassinio, unici elementi che hanno portato ad ipotizzare che l’uomo, addetto al controllo di qualità in una azienda in provincia di Milano, in quei giorni di vacanza con i bimbi avesse cominciato a covare un rancore cresciuto di ora in ora fino a portarlo a quello che gli investigatori definiscono un ‘cortocircuito’. Il primo messaggio avrebbe riferimenti a questioni di gestione quotidiana dei ragazzi, il secondo sono foto dei gemelli con alcuni dei nomi di luoghi dove Bressi avrebbe voluto portarli in vacanza e il terzo è una sorta di lunga lettera in cui lui avrebbe accusato la moglie di aver rovinato la famiglia e, oltre a dirle che non avrebbe più visto i figli, avrebbe espresso le sue grandi difficoltà per gli attriti che erano sorti in famiglia.

IL DRAMMA – Il caso è subito rimbalzato alle cronache sconvolgendo tutto il Paese. Distrutta e incredula è ovviamente anche l’intera comunità di Gessate, il paese dell’hinterland milanese dove abitava la famiglia. All’ingresso della loro abitazione, appesi al cancello, amici e compagni dei scuola dei ragazzi hanno lasciato fiori, palloncini colorati e lettere ricordano i momenti trascorsi assieme. “Resterete sempre nel mio cuore”. Sui social sono stati molti i messaggi dedicati non solo ai due gemellini ma anche a mamma Daniela, che dovrà convivere per sempre con un dolore atroce. Molte sono state anche le polemiche che hanno travolto il caso sulla separazione e sulla condizione psicologica dell’uomo per indurlo a commettere un gesto simile.

I bambini avevano 12 anni. Prepara da mangiare ai figli e poi li uccide: l’efferato gesto di Mario Bressi. Redazione su Il Riformista il 28 Giugno 2020. Emergono particolari inquietanti sulla tragica vicenda di Margno, in provincia di Lecco. Mario Bressi, padre di due gemelli di 12 anni, ha ucciso i bambini e poi si è tolto la vita. A provocare i gesti efferati dell’uomo sarebbe stata l’imminente separazione dalla moglie. Tutto pianificato nei dettagli, secondo quanto rivelato dai carabinieri che si stanno occupando del caso. I militari dell’Arma sono coordinati dal Pm Andrea Figoni e dal Procuratore capo di Lecco Antonio Chiappani. L’omicidio si è consumato nella serata di venerdì 26 giugno. Secondo i carabinieri del Ris Bressi ha strangolato la figlia Elena e soffocato il figlio Diego. Prima, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, aveva preparato per loro la cena. Indiscrezioni dicono che li avrebbe sedati prima di uccidere, girando i volti dei bambini per non guardarli “evitando di attendere l’ora del lavaggio dei denti e della vestizione dei pigiamini. Dopodiché, ha sparecchiato, buttato i rifiuti e sistemato casa”. Dopo l’omicidio e prima di buttarsi dal Ponte della Vittoria a Maggio di Cremeno, l’uomo ha postato una foto sui social con i bambini (“Con i miei ragazzi … sempre insieme”, ha scritto nel post) e poi ha mandato un sms alla moglie: “Non li rivedrai mai più”. La moglie, che aveva già preso contatti con un avvocato e la prima lettera sulla richiesta di separazione era arrivata al marito prima della vacanza a Margno, ha allertato le forze dell’ordine e intorno alle 9 è arrivata all’appartamento al primo piano del condominio nei pressi della partenza della funivia che porta al Pian delle Bedulle, dove ha trovato i corpi senza vita dei figli.

Omicidio in Valsassina, analisi sui telefoni ritrovati: forse sono dei gemelli. Si cerca ancora lo smartphone con il quale Mario Bressi ha mandato gli ultimi messaggi alla moglie. Domani le autopsie. La Repubblica il 29 giugno 2020. Due telefonini sono stati trovati nella campana per la raccolta del vetro nella piazza della funivia, non lontani dalla casa di villeggiatura a Margno, in Valsassina, di Mario Bressi che la notte tra venerdì e sabato ha ucciso i suoi due figli gemelli di 12 anni per poi togliersi la vita. Mentre domani è attesa l'autopsia sui corpi dei ragazzini e del padre che fornirà dettagli sulle modalità dell'omicidio e potrebbe rispondere a quella che per il momento resta solo un'ipotesi, cioè che Diego ed Elena siano stati sedati prima di essere uccisi. Per quanto riguarda i due telefonini ritrovati appartengono probabilmente ai gemelli, mentre si cerca ancora quello del padre che ha continuato a mandare messaggi whatsapp alla moglie anche tra le 2 e le 3 di notte prima di gettarsi dal ponte della Vittoria a una decina di chilometri dalla casa. Il suo apparecchio, quindi, potrebbe trovarsi vicino al luogo in cui è precipitato ma non è ancora stato trovato. Da lì sono partiti nella notte i messaggi diretti alla moglie, i primi due intorno all'una e trenta, che sembravano più legati all'organizzazione famigliare, poi l'ultimo intorno alle tre in cui la invitava a guardare la mail dove spiegava il suo folle gesto: "E' tutta colpa tua, non rivedrai più i bambini". I telefoni ritrovati per adesso saranno analizzati dai carabinieri che conducono le indagini diretti dal procuratore di Lecco, Antonio Chiappani e dal pm Andrea Frigoni. Altri dettagli sulla eventuale pianificazione dell'omicidio potrebbero venire invece dal computer di Bressi che è stato sequestrato.

Lo schiaffo del papà "mostro": perché ha buttato i telefonini. Mario Bressi, prima di strangolare i figli nel sonno, avrebbe gettato i loro telefonini in un dirupo per privare la moglie dei ricordi. Rosa Scognamiglio, Lunedì 29/06/2020 su Il Giornale.  Una furia distruttiva, un raptus omicida che cancella qualunque traccia del passato. Mario Bressi, prima ancora di strangolare nel sonno i suoi figli, due gemelli di 12 anni, avrebbe gettato via i loro telefonini affinché la moglie, Daniela Fumagalli, non avesse neanche più un ricordo di Elena e Diego.

Spariti i telefonini dei due gemelli. Un delitto dai contorni macabri, viziato da un desiderio cieco di vendetta. A poche ore dal truce delitto, emergono nuovi dettagli sulla vicenda che ha sconvolto l'intera comunità di Margno, piccolo comune in provincia di Lecco dove sabato 27 giugno si è consumata la terribile tragedia. Stando a quanto riferisce Il Messaggero, durante le operazioni di recupero della salma di Mario Bressi, morto suicida dal Ponte della Vittoria a Cremeno, non sarebbe stata trovata alcuna traccia del suo telefono cellulare. Gli investigatori avrebbero setacciato l'intera area circostante senza venirne a capo. Inoltre, mancherebbero all'appello anche i telefonini di Elena e Diego dalla casa delle vacanze. Da una prima ricostruzione dell'accaduto, gli investigatori ne ho dedotto che l'uomo si sarebbe premurato di gettare i due dispositivi in qualche dirupo tra le montagne per non lasciare alla moglie neanche il mero conforto dei ricordi.

Una vendetta. In queste ore, gli inquirenti stanno cercando di ricostruire la dinamica del delitto che, ad oggi, pare sia stato commesso solo ed unicamente per vendetta. Il tono degli sms con cui il 45enne si rivolge alla moglie Daniela, nei giorni precedenti al misfatto, è quasi sempre rancoroso ma non al punto da preludere una tragedia familiare. Accuse pesanti, cariche di un livore che diventerà invece incontrollato costando la vita a due vittime innocenti. Tre, in particolare, sarebbero i WhatsApp al vaglio degli investigatori e, nello specifico, un lungo messaggio in cui l'uomo accusa la madre dei suoi figli di avere ''distrutto la famiglia".

Una separazione pacifica. Tra i due coniugi, in fase iniziale di separazione, il rapporto sarebbe stato pressoché pacifico e cordiale. "Si è trattato di un gesto inaspettato, - spiega Davide Colombo, legale di Daniela Fumagalli a Il Messaggero -nessuno poteva prevedere e non c'erano apparenti tensioni che potessero giustificare o far prevedere un dramma del genere". La donna, spiega il legale "non ha mai sporto denunce nei confronti del marito, non si era mai arrivato a questo. Tra loro due non era in corso nessuna separazione violenta o litigiosa. La signora non aveva alcuna intenzione di portagli via i figli. Anzi. Al padre dei sui bimbi non aveva nulla da eccepire". Intanto, gli inquirenti continuano a cercare la verità nel tentativo di lenire il dolore inconsolabile di mamma Daniela: "Ché sia un duplice omicidio non ha importanza sotto il profilo dell'inchiesta ma lo è per la famiglia".

Autopsia sui bimbi uccisi in Valsassina: Elena strozzata dal padre a mani nude. Pubblicato martedì, 30 giugno 2020 da La Repubblica.it. Strozzata a mani nude.  E' quel che risulta dai primi esiti dell'autopsia sul corpo di Elena, la 12enne uccisa con Diego, il fratello gemello, dal padre Mario Bressi nella notte tra venerdì e sabato scorso nell'appartamento di Margno, in Valsassina, dove erano da qualche giorno in vacanza. L'uomo, che dai primi accertamenti medico legali risulterebbe aver strozzato anche il figlio, dopo il duplice omicidio si è tolto la vita buttandosi dal Ponte della Vittoria. Nel pomeriggio è stato effettuato l'esame autoptico solo sul corpo della bambina. Il pm Andrea Figoni e il procuratore Antonio Chiappani hanno conferito l'incarico all'anatomopatologo Paolo Tricomi, coordinatore degli esami autoptici che andranno avanti anche con quelli di Diego e di Mario Bressi. Riguardo ai due bambini gli accertamenti riguardano l'ossoide, per capire se si sia trattato di strangolamento (in questo caso presenta una frattura) o soffocamento. Inoltre si dovrà accertare se a distanza di tre giorni siano o meno comparsi segni di pressione sui corpi dei ragazzini per capire se sono stati immobilizzati. Intanto vanno avanti le indagini anche sui pc sequestrati a Bressi, per capire se si sia trattato di un gesto preordinato, ipotesi al momento non confermata. Investigatori e inquirenti dovrebbero passare in rassegna le mail in entrata e uscita dalle caselle di posta elettronica e anche cercare se nei suoi computer ci siano appunti che facciano pensare a un gesto premeditato. Intanto domani sera, nella chiesetta di Santa Caterina, che si trova nei boschi di località Bagnala, ci sarà una veglia per pregare per Elena e Diego e per la loro mamma Daniela, straziata dal dolore.

Margno, Mario Bressi e il nuovo orrore: "Ci sono cose che non sappiamo". Crudeltà incomprensibile? Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 30 giugno 2020.  Perché, insomma, poi i padri separati «soffrono» e vengono lasciati fuori dalla porta come i cani che si vogliono abbandonare. I padri che prima erano il centro del mondo, al pari dei super eroi con il mantello magico e i poteri speciali, pronti ad ogni impresa per i loro figli, all'improvviso perdono fascino, carisma, interesse. «Saluta tuo padre che lo vedrai tra quindici giorni». Forse. Così l'esercito degli ex capifamiglia si sente escluso da tutto, messo all'angolo e medita vendetta. Ma un padre, per quanto triste e incazzato con la moglie che vuole separarsi, può uccidere i suoi figli per vendetta? Noi crediamo di no. Questo può appartenere a un mondo lontanissimo e irreale, alle tragedie greche lette ai tempi del liceo, al dramma della paternità consumato tra Atreo e Tieste, raccontato da Seneca, in cui i figli vengono addirittura mangiati anzi mostruosamente bevuti in un calice sotto forma di sangue per punire l'adulterio della moglie. Oppure, a parti invertite, quando è la madre a compiere l'infanticidio, torna alla mente Medea: lei che non sentendosi più amata da Giasone, uccide i loro figli affinché lui si tormenti e non abbia più discendenza. oggi l'autopsia. Ma qui siamo nel 2020 e la storia di Mario Bressi, l'insospettabile 45enne impiegato lombardo che ha strangolato i suoi gemellini perché non sopportava l'idea di essere lasciato, sconvolge e annienta. Nessuno poteva prevedere un simile epilogo. neanche a posteriori: tanta crudeltà è incomprensibile. La moglie Daniela Fumagalli ha trovato i corpicini dei bimbi nella casa in montagna a Margno, in Valsassina. Sabato avrebbe dovuto riabbracciare Elena e Diego, belli, sorridenti e con la vita davanti, ma venerdì sera il padre li ha strangolati dopo una gita sui monti e una cena tranquilla. Oggi l'autopsia dirà se i due fratellini 12enni sono stati sedati e quando è avvenuto l'omicidio. Ma poi a che serve sapere l'ora dello scempio? Più utile conoscere se l'amorevole padre avesse studiato nei dettagli il suo piano di morte (l'uomo si è poi buttato giù da un ponte), se avesse premeditato tutto o se qualcosa è scattato nella sua mente. Il raptus non esiste, dicono gli psichiatri, casomai la sua testa non funzionava più, un interruttore si era spento ma nessuno l'aveva capito. Non lo sapeva la moglie che viveva ancora con lui e che altrimenti non avrebbe acconsentito alla vacanza dei figli soli con il papà. «Se avessi avuto un minimo dubbio non li avrei lasciati andare, mi sono fidata» ha ripetuto nella caserma dei carabinieri, piegata su stessa come una pianta senza più rami. Mai la donna gli avrebbe impedito di vedere i gemelli. Sembrava tutto a posto. i telefonini Gli inquirenti hanno ritrovato i cellulari di Elena e Diego nella campana per la raccolta del vetro nella piazza della funivia, vicino alla casa del massacro. L'uomo ha mandato messaggi WhatsApp alla moglie tra le 2 e le 3 di notte prima di suicidarsi. In una lunga lettera le ha scritto: «Non vedrai mai più i tuoi figli e neanche me perché io prenderò il volo». Per questo i militari diretti dal procuratore di Lecco, Antonio Chiappani e dal pm Andrea Frigoni, stanno cercando il suo telefonino. Altri dati potrebbero venire dal computer dell'assassino sul cui profilo Fb gli insulti e le maledizioni sono mischiate a frasi di compatimento e quasi comprensione. C'è chi lo definisce «un poverino che non ci stava con la testa», chi ritiene che «una donna non può non rendersi conto dell'uomo che ha accanto», come se fosse colpa di Daniela se i gemellini sono morti. Titoli infelici come "Il dramma di un padre separato" hanno raccolto indignazione sui social, ma c'è perfino un sito che provando ad arrampicarsi sugli specchi, come i Bressi facevano quando erano felici sulle pareti di roccia, insiste sul fatto che «nel 99% dei casi il prezzo più alto della separazione è a carico dei padri e non soltanto a livello economico». Mario soffriva, lo giustificano. Mai quanto soffre ora una mamma a cui hanno tolto la ragione di vita. 

Mario Bressi ricoperto di insulti e minacce sui social dopo l'atroce gesto: "Assassino bastardo" e l'amica: "Non era così". Libero Quotidiano il 29 giugno 2020. Su Mario Bressi centinaia di messaggi di insulti e minacce. Sotto alle foto postate dall'uomo nella notte prima di uccidersi e uccidere i due figli, Diego ed Elena, piombano commenti negativi. Da "assassino bastardo", a "meriti le fiamme dell'inferno" fino a "hai voluto punire la Mamma di tuoi due Bambini con questo gesto imperdonabile. Codardo sei già nel Inferno!". Tutti conoscevano la famiglia Bressi, da tempo residente a Gorgonzola vicino Milano: "Sembra che queste cose accadano sempre lontano, invece sono dietro l'angolo. Non ci sono parole", spiega il vicesindaco Valter Falcetti. Mentre don Bruno Maggioni, parroco di Margno, ha parlato con la mamma Daniela Fumagalli e riferisce: "È sotto schock, sembra una bestia ferita. È come se gridasse il dolore, è esasperata. So che ha ricevuto conforto medico ma non basta. Non so se si renda conto di chi ha di fronte". Anche un'amica di famiglia ha voluto dire la sua, negando quanto detto sui social contro di Bressi: "Un gesto così non è né giustificabile né perdonabile, ma Mario lo conoscevo da anni, ed è sempre stato una bravissima persona - scrive  - Nessuno sapeva quello che stava passando, ma non ha mai dato segni di cedimento".

Margno, Mario Bressi non aveva sedato i figli: l'esame tossicologico conferma, nessuna pietà. Libero Quotidiano il 3 agosto 2020. A distanza di un mese emergono nuovi, terrificanti, dettagli sull'omicidio di Margno, dove Mario Bressi uccise i suoi due figli, Diego ed Elena, come "ripicca" nei confronti della moglie da cui si stava separando. Un caso raccapricciante, che ha turbato e sconvolto l'Italia. Ora, dagli esami tossicologici condotti sui corpi dei due bambini, si è scoperto che Diego ed Elena, prima di essere uccisi, strangolati, non erano neppure stati sedati, così come si era inizialmente ipotizzato. I piccolini avevano 12 anni. Insomma, il padre - poi morto suicida - non ha avuto nemmeno la pietà di non farli soffrire. I corpi dei gemelli furono trovati al mattino presto dalla madre, Daniela, arrivata di corsa da Gessate, dove abitava, inquietata dai folli e minacciosi messaggi che le aveva spedito Bressi. Messaggi con i quali, di fatto, annunciava l'orrore che avrebbe compiuto. L'uomo si è suicidato lanciandosi da un cavalcavia nei pressi di Margno.

L’ultimo saluto ai gemellini uccisi dal padre, lo strazio della mamma: "Ciao nanetti. Ora ricordateli sorridendo". Pubblicato sabato, 04 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Ciao nanetti, non riesco ancora  a realizzare che non potrò più vedervi, abbracciarvi, sentire la vostra voce che chiama mamma. Vi abbraccio e vi dico che andrà tutto bene, nonostante il male che vi è stato inferto". È un passaggio della lunga lettera dedicata a Elena e Diego che mamma Daniela Fumagalli ha fatto leggere a un'amica di famiglia al termine dei funerali a Gessate. "Sono stata fortunata a essere la vostra mamma" e "chiedo a tutti di ricordarvi sorridendo non nelle lacrime, avrebbero preferito così". Il campo sportivo di Gessate (piccolo comune in provincia di Milano) era già affollato dalle prime ore della mattina per l'ultimo saluto ai gemelli dodicenni uccisi dal papà, Mario Bressi (che poi si è suicidato), mentre erano in Valsassina. All'inizio del funerale i feretri bianchi di Elena e Diego hanno attraversato il campo accompagnati dalle parole di "Un Senso" di Vasco Rossi, e da un lungo applauso. Nessun fiore sulle piccole bare; una maglia azzurra da calcio su quella del piccolo Diego. "La felicità è una scelta e voi avevate scelto di vivere sereni e felici nella vostra breve vita con i vostri caratteri differenti entrambi accomunati dal sorriso: Elena un vulcano, portavi allegria in ogni luogo, Diego riflessivo e osservatore", ha scritto mamma Daniela. "Sono stata fortunata a essere la vostra mamma: non sono sicuramente stata una mamma perfetta, come voi non siete stati figli perfetti, ma sono stata me stessa e voi, voi stessi. Voi innamorati perdutamente innamorati della vita e io di voi. Finché saprò ancora emozionarmi sentendo il vostro nome Elena e Diego, saprò che questa enorme violenza e ingiustizia non ha vinto. Mi mancherete tantissimo". "So che da ora in poi sarete al mio fianco, il vostro sorriso mi terrà compagnia nei momenti di paura", ha scritto ancora mamma Daniela. "In questo ultimo saluto vi abbraccio e vi dico che andrà tutto bene, nonostante il male che vi è stato inferto. Questa mostruosa esperienza mi sta insegnando che non importa quanto forti possiamo essere, tutti prima o poi abbiamo bisogno di un abbraccio". Il funerale si è concluso con tanti palloncini bianchi liberati in cielo. Le due bare bianche sono state accompagnate lungo il campo sportivo, in cui si erano radunate centinaia di persone commosse e molti ragazzini e amici, con le note di "Ogni volta" di Vasco Rossi e "No One But You" dei Queen. Applausi anche dalle tante persone rimaste fuori dal campo sportivo per evitare assembramenti.

Scomparsa di Alessia e Livia Schepp, ecco come sarebbero le gemelline oggi.  

Mamma Irina Lucidi, la madre delle gemelline, Alessia e Livia Schepp, rapite dal padre, Mathias Schepp, nel 2011, è convinta che le bambine siano ancora vive. Per questo ha lanciato un nuovo appello mostrando le foto con i volti, che oggi, invecchiati digitalmente, delle ragazze, che oggi avrebbero 15 anni. Alessia e Livia, 6 anni all’epoca dei fatti, furono rapite dal padre che poi si suicidò lanciandosi sotto un treno, a Bari. “Le ho uccise”, scrisse prima di morire. Angela Marino il 19 febbraio 2020 su fanpage.it. Missing Children Switzerland , la fondazione creata dalla madre delle due sorelline Schepp, Irina Lucidi, mostra l'aspetto che avrebbero oggi, Alessia e Livia Schepp, le due gemelline scomparse insieme al padre suicida, Mathias Schepp, nel 2011. La fondazione, creata da Irina Lucidi, la madre delle gemelle, ha diffuso le immagini delle due ragazze con l'aspetto che avrebbero oggi, da adolescenti. L'appello è stato lanciato sulla pagina di Missing Children Switzerland, insieme ad alcune indicazioni pratiche su cosa fare in caso di avvistamento. "Scatta una foto se puoi, registra la data, il luogo e l'ora e contattarci. Il processo di invecchiamento per queste immagini non è una scienza esatta, ma un'interpretazione". Alessia Vera Schepp, 6 anni e la gemella Livia Clara sono state rapite dal padre Mathias Schepp, ingegnere svizzero, il 30 gennaio a Saint-Sulpice, sobborgo a 5 km da Losanna (Svizzera), dove sono state viste per l'ultima volta. Le due bambine avevano trascorso il fine settimana con lui, che abitava, separato dalla moglie Irina Lucidi, non lontano dalla casa dove la donna viveva con le bambine. Da quel momento Schepp, che fino a quel momento era stato un padre responsabile, ha fatto perdere le tracce delle bambine, che nessuno ha mai più visto in vita.

Rapite dal padre: la fuga a Bari. L'ingegnere, invece, risulta aver attraversato la frontiera con la Francia il la sera del 30 gennaio ad Annecy, per poi spostarsi l'indomani a Marsiglia, da dove ha spedito una cartolina alla moglie. È verosimile che le bambine, tuttavia, fossero ancora con lui, perché nella città francese, Schepp ha ritirato una grossa somma di contanti da più sportelli bancari e ha acquistato tre biglietti per il traghetto Marsiglia-Propriano, in Corsica. Non ci sono notizie dei successivi due giorni, mentre il 3 febbraio, è sicuramente in Italia, a Vietri sul Mare (Salerno), dove alle 23 dello stesso giorno, si toglie la vita in Italia, lanciandosi sotto il treno Eurostar Milano-Bari in transito sui binari della stazione di Cerignola (Foggia). Davanti alla stazione ferroviaria, viene ritrovata, regolarmente, parcheggiata, la sua Audi A6. Nessuna traccia di Alessia e Livia.

Come è morto Mathias Schepp. “Le ho uccise” scrive in una lettera alla ex Irina Lucidi, “le bambine riposano in pace, non hanno sofferto. Non le rivedrai più". Nella sua casa di Saint Sulpice, dove le gemelline avevano soggiornato con lui l'ultimo weekend prima di sparire per sempre, non vengono trovati indizi del destino delle piccole. Una minuscola traccia di sangue spunta nella Audi dell'ingegnere durante i rilievi, ma è la quantità è troppo scarsa per poter eseguire un esame tossicologico e scoprire se le piccole siano state avvelenate o drogate.

La speranza di mamma Irina. Nonostante l'ultima lettera di Schepp non lasci speranza, Irina Lucidi crede che le gemelle possano essere ancora vive. Supportata dalla Fondazione, la mamma di Saint Suplice continua a lottare nella speranza di poter riabbracciare le figlie.

Bambini uccisi, da Tullio Brigida a Matthias Schepp: i padri assassini. Il Mattino Sabato 27 Giugno 2020. Una lunga scia di orrori si è consumata negli anni tra le mura di tante case che dovrebbero invece essere i posti più sicuri per i bambini. La cronaca registra infatti tanti, troppi, episodi come quello accaduto a Margno, nel Lecchese, nel quale due gemelli di 12 anni hanno perso la vita per mano del padre. Era il 4 gennaio del 1994 quando a Civitavecchia Tullio Brigida uccide i figli Luciana, Laura e Armandino e li sotterra nelle campagne di Cerveteri, dove furono poi ritrovati il 20 aprile 1995 dopo numerose ricerche. Anche in questo caso, come quello registrato oggi a Lecco, la motivazione fu la vendetta nei confronti della ex moglie Stefania Adami, con cui aveva avuto vari scontri a volte sfociati in episodi di violenza Il 7 settembre 1997 l'ex poliziotto Angelo Sinisi, 46 anni, uccide, a Roma, sul viadotto della Magliana, le due figlie di 4 e 7 anni e si suicida con un revolver calibro 38. Non voleva riportarle a casa, dalla ex moglie, dopo una giornata di mare, giochi e regali.

È invece un poliziotto in servizio Ivan Irrera quando, il 17 maggio del 2013, a Palermo uccide il figlio di 7 anni con la pistola d'ordinanza e poi si uccide. Dopo nove anni si cerca ancora una risposta sul destino delle gemelle Alessia e Livia Schepp, 6 anni nel 2011. Il padre, Matthias, allora 44enne, si suicidò a Cerignola (Foggia) il 3 febbraio 2011. Tre giorni prima era partito dalla Francia con le due figlie e in una lettera inviata alla moglie da cui si stava separando l'uomo scriveva: le bimbe «riposano in pace, non hanno sofferto». Sempre una separazione non accettata è il movente che spinse, l'11 febbraio del 2014, Michele Graziano ad accoltellare a morte i due figli, Elena di 9 anni e Thomas di 2, e poi a tentare il suicido nella sua casa a Giussano (Monza e Brianza).

È il 18 luglio 2014 quando Massimo Maravalle, 47enne informatico, soffoca con un cuscino il figlio adottivo Maxim, di origine russa, di 5 anni, nella sua casa a Pescara. L'uomo era affetto da psicosi. Un disturbo mentale sembra essere anche all'origine del gesto, nell'agosto dello stesso 2014, di Luca Giustini, ferroviere di 34 anni, che uccide a coltellate la figlia Alessia di 18 mesi a Collemarino (Ancona). «Una voce interiore mi ha detto di farlo», confessa ai magistrati. E ancora la depressione viene addotta come motivazione ad un altro omicidio, quello del gennaio 2016 a Castiglione del Lago (Perugia): Maurilio Palmerini, 58 anni, accoltella e uccide i due figli di 13 ed 8 anni.

Non mancano però i casi dei padri che sono finiti sotto la lente degli inquirenti per errore. Come nel caso di Ciccio e Tore di Gravina, Bari, che il 5 giugno del 2006 scompaiono nel nulla. Hanno solo 13 e 11 anni, vengono ritrovati venti mesi dopo nella cisterna di una masseria. Il padre dei ragazzini, Filippo Pappalardi, il 27 novembre 2007, viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona, omicidio volontario e occultamento di cadavere. Viene poi dichiarato innocente e scarcerato; la giustizia gli ha anche riconosciuto un risarcimento di 65 mila euro per ingiusta detenzione. Due anni fa Pappalardi ha avviato delle indagini private per riaprire il caso perché non ne ha mai accettato le conclusioni, ovvero che che i due bambini fossero finiti casualmente e soli in quella trappola mortale.

Elena e Diego, Romina e Destà, due pesi e due misure. Marilù Mastrogiovanni il 28 Giugno 2020 su iltaccoditalia.info. Loro sono Elena e Diego Bressi, hanno 12 anni e sono stati uccisi dal padre. Soffocati o strangolati.

Lei è Romina Ashrafi, ha 13 anni ed è stata uccisa dal padre. Decapitata. Romina Ashrafi decapitata a 13 anni dal padre.

Lei è Destà (o Fatima), stuprata a 12 anni da Indro Montanelli.

L’Italia è scossa dall’assassinio dei due gemelli. I giornali titolano e raccontano con parole sbagliate. Ancora una volta l’informazione italiana si dimostra inadeguata, impreparata, nel racconto della violenza. “Il Mattino” scrive sui social: “il dramma dei papà separati”. Un orrore. Due bambini ammazzati, una madre che ha finito di vivere e il post rivolge lo sguardo alla separazione (dramma di tutti i padri) e attribuisce a questa, dunque alla donna, la colpa del figlicidio.

Ansa scrive: “A causare la tragedia la difficile separazione tra il padre e la madre”.

Corriere: “A causare la tragedia sarebbe stata la difficile separazione tra due coniugi”.

La “colpa”, sempre sulla donna, che ha armato la mano dell’uomo: è l’uomo che vuole tenere salda la famiglia, ristabilire l’ordine delle cose. La donna, con la separazione, è caos, disordine.

Siamo sempre di fronte alla narrazione biblica, di Eva ed Adamo.

Si guarda l’uomo, un assassino, ma si vede la donna, una puttana.

Le vittime, i due figli di 12 anni: sono definiti bambini addirittura “figlioletti” (Il Messaggero).

Si descrivono i momenti precedenti il figlicidio: i bambini corrono spensierati sui prati, fanno le gite col papà. Guardiamo due preadolescenti, e vediamo bambini, per rendere ancor più orrorifico l’atto del figlicidio.

Guardiamo ora ad est, in Iran.

Romina Ashrafi ha 13 anni: è più grande di qualche mese di Elena e Diego Rossi.

E’ stata decapitata dal padre.

I giornali italiani lo giustificano: non accettava la “relazione” con un uomo più grande di lei.

Scrivono che lei era “innamorata”, che era un “amore contrastato”.

Lo giustificano con il “dramma della gelosia”, ancora una volta, come sempre.

Poi si va a leggere, e si vede che non si tratta di un amore tra preadolescenti, ma si tratta di un uomo di 35 anni con una ragazzina di 13.

Ma nessuno ci fa caso: la nostra cultura occidentale giustifica la violenza di un uomo di 35 anni su una ragazzina di 13, perché pensiamo che “lì è così” o che magari “lì le ragazze sviluppano prima”.

L’uomo di 35 e la bambina di 13 erano fuggiti. I giornali ne parlano come di una “fuitìna”. Lo stesso episodio, in Europa, sarebbe un rapimento e uno stupro. Ma nessuno pensa che si possa trattare di manipolazione, sottomissione, plagio da parte di un uomo di 35 anni su una ragazzina di 13.

Quando guardiamo Romina vediamo una donna, quando guardiamo ad Elena e Diego vediamo due “figlioletti”. Perché?

E poi pensiamo a Destà: 12 anni. Ma, siccome l’ha detto Montanelli, ci è parso normale, per 40 lunghissimi anni, che lui, così come tutti gli ufficiali fascisti nel corno d’Africa, stuprassero bambine chiamandole “spose”, fino a che il movimento “Black lives matter” ci ha aperto gli occhi.

Quando si tratta di violenza sulle donne, a vedere i fatti, sono sempre i nostri occhi di maschi, bianchi, colonizzatori. Le nostre parole, sono sempre parole di uomini che attingono ad una cultura patriarcale e sessista. Il nostro sguardo colonizzatore ci porta ad usare due pesi e due misure, dinanzi alla violenza, alla morte, allo stupro.

Quando finalmente le nostre parole riusciranno a vedere la realtà per quella che è e a raccontarla in maniera pulita e onesta, senza sovrastrutture? Romina, Destà, Elena e Diego erano bambini. Romina, Elena e Diego sono stati uccisi dai loro padri e i loro padri sono degli assassini. Non ci sono giustificazioni e spiegazioni che tengano.

Mario Bressi e la banalità del male. Simona Musco il 28 giugno 2020 su Il Dubbio. No, la retorica del bravo padre di famiglia che soffre per la separazione non è accettabile. Nemmeno se per anni quell’uomo che ha ucciso i suoi figli è stato un «padre modello». No, la retorica del bravo padre di famiglia non può andar bene. Nemmeno se per anni Mario Bressi – questo il nome dell’uomo che ha ucciso i suoi due figli gemelli, Diego ed Elena, di soli 12 anni prima di togliersi la vita come vendetta per la separazione dalla moglie – è stato uomo e padre modello, «senza mai una parola fuori posto». Il dramma che si è consumato in Valsassina non può trovare giustificazione nel dolore – magari anche sincero, ma ininfluente in tal caso – di un uomo che ha visto la propria storia d’amore finire malamente. Ma in un mondo che tenta a fatica di riconoscere la violenza sulle donne, che ancora stenta ad attribuire al termine “femminicidio” il suo senso sociologico, che ha la capacità di cercare una giustificazione anche di fronte alla morte assurda di due bambini che quell’uomo, il padre senza mai una parola fuori posto, avrebbe dovuto amare a prescindere dalla sua vicenda sentimentale con la moglie, applicare ad un tale orrore una attenuante di fondo è solo la conferma che c’è un problema culturale. Quello che magari anche in maniera inconscia – ma molto più spesso assolutamente consapevole – accetta le logiche del patriarcato, del possesso, della riduzione della donna e dei bambini ad oggetti che esistono solo in relazione al loro rapporto col marito/padre e della famiglia come unità inscindibile, da salvaguardare ad ogni costo. Tutto ciò non è più giustificabile. E i titoli dei giornali, che sempre superficialmente tentano di umanizzare un gesto che non ha giustificazione alcuna, sono la prova che tale problema è culturale e che la violenza, se nasconde un “dramma” (dato per scontato solo perché è lei che decide di lasciare lui), può trovare giustificazione. Sulla pagina Facebook di Bressi, trasformata in mausoleo al quale appoggiare un fiore e manifestare solidarietà all’uomo «distrutto», va in scena la sagra dell’assurdità. «La moglie – si legge tra i commenti – per noia o per capriccio decide di cambiare vita». È colpa sua, dunque. Era disperato e allora, in fondo, lo si può comprendere, dice la gente. «Questo uomo aveva bisogno di aiuto e nessuno lo ha capito, il male oscuro è dentro ognuno di noi quando si impossessa del nostro corpo», oppure «Chissà che cosa t’aveva fatto tua moglie per farti uscire di testa in questa maniera». Chissà se qualcuno si è chiesto se anche lei, Daniela, avesse bisogno di aiuto. Che vita fosse la loro, quanta infelicità nascondesse quel rapporto, quanto fosse meglio, per tutti, che quel matrimonio finisse. Domande che non interessano a nessuno, perché era lui quello che soffriva. E invece no, non esiste giustificazione. Il gesto finale di quest’uomo nasconde la volontà di esercitare, fino all’ultimo e per sempre, un potere su una donna la cui vita è rovinata, anche in questo caso, per sempre. Una vita che sconterà sempre il vuoto enorme e incolmabile di due figli innocenti – e altrimenti non potrebbero essere – che non torneranno più. Una vita innocente anche la sua, quella di Daniela, che si sentirà però sempre marchiata da una colpa che lui, fino alla fine, le ha voluto attribuire, costringendola ad interrogarsi fino all’ultimo dei propri giorni sui propri eventuali – e assolutamente inesistenti – errori. Nessuna separazione, per quanto dolorosa, può fungere da scusa per una brutalità simile. Nessuna vita da bravo padre, da uomo coerente alle aspettative sociali – assolutamente evanescenti di fronte ai comportamenti del singolo nell’intimità della propria casa -, da cordialità distribuita a piene mani ai vicini o agli amici o ai colleghi potrà mai attenuare l’estrema violenza di un gesto che non avrà mai ragione di essere. Scavare nella sua vita per trovare tutti gli elementi che lo rendono un uomo migliore dell’ultimo suo gesto non ha senso. Potrebbe anche esserlo stato, ma non lo è stato in quel momento. Non lo sarà mai più per l’eredità che ha lasciato all’ex moglie, agli amici, ai parenti di quei due ragazzini. E non dovrebbe esserlo per tutti noi. Le parole che giustificano la violenza sono esse stesse violenza. Normalizzano, per chi si ferma alla superficie delle cose, l’orrore. Lo fanno accettare. E ciò è solo il primo passo verso ulteriori violenze.

Padri separati, quelle iene delle ex mogli. Alessandra Faiella, Attrice comica e scrittrice, il 12 maggio 2013 su ilfattoquotidiano.it. La misoginia sta tornando di moda: alle Iene, un tempo programma “progressista” e politicamente corretto, nella puntata del 5 maggio, un’associazione di padri separati accusa le ex mogli delle peggiori nefandezze, prima fra tutte quella di ridurli sul lastrico (anche se la Caritas attesta che le vittime della povertà sono soprattutto donne single e uomini sì, ma extracomunitari). I padri separati, alle Iene, negano tutte le statistiche sulle molestie pedofile, da parte dei padri separati, e sulle violenze contro le ex mogli. Tutto falso, tutte menzogne suggerite dal “club delle prime mogli”. La generalizzazione contro tutte le ex, e di conseguenza contro tutto il genere femminile è evidente, l’odio misogino è palpabile. Del resto, adesso Le Iene è presentato da Teo Mammuccari, conduttore da sempre simpatico come un avviso di sfratto, noto per la sua solidarietà con il genere femminile: le ragazze seminude che posizionava sotto tavoli di vetro, già pronte in posizione “fellatio”, ne sono state fulgido esempio. Che esistano ex mogli perfide e vampire succhiatrici di sangue siamo tutti d’accordo. Io non ne conosco, ma sicuramente esistono. Io conosco una valanga di ex mogli disperate che non ricevono un euro dal loro ex marito, ex marito quasi sempre più ricco di loro, che spesso intraprende lotte all’ultimo sangue a suon di avvocati. Nonostante questo, cioè il fatto che io non ne conosca, sono certa che esistano ex mogli stronze. Che le ingiustizie, o meglio i reati, ai danni delle ex mogli siano un falso, questo invece non lo credo. L’odio misogino è di moda. Non solo alle Iene. Qualcuno, in Italia, sta arrivando a negare che la violenza contro le donne sia un’esagerazione, forse anche una menzogna. I dati Istat parlano chiaro, un femminicidio ogni tre giorni in Italia. Ma sono tutte balle, si sa, anche l’Olocausto non è mai esistito, è un delirio inventato dalle sette ebraiche assetate di potere. In questi giorni è accaduto anche che su Amazon, dopo le proteste, hanno ritirato dal commercio un manichino-zombie, con fattezze femminili. Bisogna puntualizzare che sono in catalogo anche zombie maschi, solo che questi sembrano davvero dei “non -morti” con tanto di facce cadaveriche, capelli unti e vestiti strappati: sembrano Dario Argento un po’ meno impressionante. Invece i manichini donna sono molto più realistici e somiglianti a donne vere con tanto di capelli fluenti e seno prosperoso. Bene, ma che cosa se ne fanno di questo manichino? Perché lo comprano? Semplice: per sparargli addosso e quando gli spari il fantoccio realisticamente sanguina. Guarda caso il manichino-donna, viene subito soprannominato “The ex“. Fantastico! “Beh – ha obiettato qualcuno – ma all’origine non si chiamava “The ex”, era solo un manichino su cui sparare”. Ma certo che c’è di male? Alla mattina quando non sai che cazzo fare ti alzi e scarichi la tua Uzi su un manichino femmina così realistico che si mette a sanguinare. Se poi ti immagini che sia la tua ex, lo sfogo è completo. Tutto normale, che c’è di strano? La misoginia impazza. Le femministe hanno rotto le palle, e con loro tutto il genere femminile, che tornino nel tinello dedite al culto del Fornet. Le donne stressano, troppa libertà le sta rovinando, adesso si permettono anche di guadagnare più dei mariti e pure di lasciarli quando non li amano più. Vergogna! Se poi qualcuno per vendetta spara a un manichino è il minimo, e se spara alla ex in carne ed ossa, beh, il passo è breve.  Alcuni uomini, pochini a dire il vero, cominciano ad interrogarsi se non ci sia qualche seme di psicopatologia nel genere maschile. Gli altri tacciono, continuando tranquilli a tagliarsi le unghie dei piedi col tronchesino davanti alla tv, sfregiando con i monconi di unghia volanti, le piante del salotto. Se in Italia venisse ucciso un maschio ogni tre giorni, se un uomo su tre tra i 16 e i 70 anni fosse stato vittima nella sua vita dell’aggressione di una donna, se 6 milioni 743 mila uomini avessero subito violenza fisica e sessuale da parte di donne, come dicono gli ultimi dati Istat (a proposito del genere femminile ovviamente), se quasi 700mila uomini, avessero subito violenze ripetute dalla partner e nel 62,4% dei casi i figli avessero assistito a uno o più episodi di violenza; se, continuamente, gli uomini fossero vittime di molestie, stalking, palpeggiamenti vari, se tutto questo fosse per assurdo la condizione maschile in Italia, succederebbe il finimondo. Giornali, tv pubbliche e private, riviste, blog e social network, tutti urlerebbero (giustamente) allo scandalo. Bruno Vespa godrebbe come un porco davanti ad un plastico nuovo di zecca, come non gli capita dai tempi di Cogne; persino il Papa scenderebbe in piazza con la kefiah (non so perché ma me lo vedo così). Le donne stesse si martirizzerebbero, anche quelle innocenti espierebbero i loro sensi di colpa con un surplus di lavori domestici, si prenderebbero a schiaffi da sole, andrebbero in massa a messa o a fare terapia di gruppo, infine si darebbero allo shopping compulsivo, ma quello già lo fanno. Se….. Invece la questione continua a riguardare la violenza sulle donne da parte di uomini, una violenza di massa di segno opposto non esiste. Eppure, di fronte a tutto ciò, gli uomini, anche quelli sani, anche quelli non violenti dormono. Gli altri, i malati, se si svegliano è anche peggio. E di fronte a tutto ciò io continuo ancora a sentire questa frase: “Sì, ma le donne usano la violenza verbale“. Verissimo. Infatti mi associo anch’io: “Ma vaffanculo!” Alessandra Faiella (per #Kotiomkin)

Non si parli di dramma dei padri separati. Elisabetta Salvini, Storica, il 28/06/2020 su huffingtonpost.it. Era notte fonda quando il cellulare di Daniela Fumagalli si illumina e sullo schermo le appare questo sms: “Non rivedrai più i tuoi figli”. Forse stava già dormendo Daniela o forse era ancora sveglia, in entrambi i casi si è ritrovata immersa in un incubo e in una corsa contro il tempo, perché lei i SUOI figli li voleva rivedere, riabbracciare, ribaciare. I SUOI figli bellissimi e vivi, gli stessi che Mario Bressi, uomo/padre, ferito e rifiutato, ha alienato da sé, per poter esercitare la sua forma di possesso e di vendetta nei confronti della SUA donna. I SUOI figli, Diego ed Elena, che di colpe non ne avevano nemmeno una e che erano di entrambi o meglio che non erano di nessuno dei due, perché erano persone libere, in crescita e in cerca di realizzazione. Riusciamo, anche solo per un attimo, a metterci nei panni di questa donna? Riusciamo ad immaginarla mentre, disperata e sgomenta, si prepara, mette in moto la sua automobile e corre dai SUOI figli? E ancora possiamo immergerci nei sogni di Diego ed Elena, quei due dodicenni che si sono addormentati nella loro casa, con il loro padre al fianco e che non si sono svegliati più? Chi dei due se n’è andato per primo, almeno non ha dovuto vedere morire l’altro, ma entrambi hanno guardato negli occhi il loro papà mentre stringeva le mani intorno ai loro colli, non per abbracciarli, ma per soffocarli. Le sentite le urla, le preghiere di un figlio e di una figlia che supplicano un padre di non ucciderli? Lo sentite su di voi il dramma? E invece il dramma in questa tragedia è quello dei “padri separati”, uomini feriti nell’orgoglio perché abbandonati, rifiutati. La narrazione di questo dramma, purtroppo, è affidata unicamente al punto di vista maschile e con esso alla ricerca di una colpa assoluta, di un alibi e una giustificazione che possa legittimare, in qualche modo, quel gesto, per farlo diventare “disperato” o “folle” e non, come troppo spesso accade, prevedibile, perché frutto di una cultura specifica che ha un nome e “rituali” che si ripetono uguali. Non follia, non disperazione, ma una volontà di vendetta, una dimostrazione di forza e di potere. “Il dramma dei padri separati” è il dramma di una stampa e di una cultura che ci propone sempre e solo il punto di vista del soggetto forte, privilegiato, bianco e maschio. È il racconto del privilegio, dell’esercizio della forza e del potere, è l’idea che dominio e possesso non siano un abominio, ma l’assoluta normalità. Una normalità che, quando si manifesta nella sua violenza, ci sgomenta, ma che poi, nel momento del racconto, torna ad incardinarsi nelle logiche rese secolari dal patriarcato. E così scompaiono i molteplici punti di vista e ne emerge uno solo: “il dramma dei padri separati”. Gli altri drammi ci sono, ma sono minori. Perché, se “per tutti il dolore degli altri è un dolore a metà” e così anche per il patriarcato che urla il suo dolore e tace quello delle sue vittime.

Uomini incompiuti (solo dopo, separati). Giulio Cavalli il 29 giugno 2020 su Left. Un esempio fulgido l’abbiamo avuto con il titolo de Il Mattino. I fatti, intanto: Mario Bressi decide di punire la moglie che ha deciso di lasciarlo uccidendo i loro due figli e togliendosi la vita. Un infanticidio che in fondo è un femminicidio ancora più vigliacco: uccidere i figli per condannare una moglie è un gesto che nasconde tutta la ferocia possibile. Bressi prima di compiere il suo gesto, nella perfetta premeditazione di chi vuole provocare l’inferno, ha anche scritto alla ex moglie. Torniamo al titolo de Il Mattino: «Il dramma dei papà separati», titolano piuttosto stupidamente. Ovviamente la narrazione è sempre la stessa, quella patriarcale dell’uomo ferito che viene giudicato per il suo dolore come se potesse essere una giustificazione. I figli ammazzati alla fine sono colpa della donna, ovviamente. Si alza lo sdegno e Il Mattino ci riprova, corregge e scrive «Devastato dalla separazione» dimostrando che la stupidità è banale ma è anche soprattutto ripetitiva. Vengono sommersi ancora una volta dagli insulti, ci riprovano: «Papà separato, ha ucciso i figli nel sonno» dimostrando di non capirci proprio niente. C’è solo il dramma dell’uomo, del forte, del padrone che ha deciso di togliere i figli per rivendicarne il possesso dopo avere perso il possesso della moglie. Non esistono i drammi dei bambini uccisi nel sonno, non uccide la distruzione di una madre punita in un modo così orribile. Niente. Tutti gli altri dolori che non siano quelli del maschio sono effetti collaterali tristi, certo, ma solo consequenziali. E in fondo si tratta sempre degli stessi stoltissimi maschi, quelli costruiti in serie secondo le logiche peggiori della fallocrazia, quelli che vengono lasciati e non si chiedono mai cosa hanno sbagliato ma che trovano comodo, vigliacchi come sono, dire che lei “ha rovinato la famiglia”, che lei “si è venduta per un pompino”, che lei la rovineranno, gliela faranno pagare e sono felici solo la vedono sola, povera e pazza. Sono uomini che non hanno fatto i conti con se stessi, incapaci di vedersi completi al di là della punta del proprio organo riproduttivo (su cui sono solitamente fissati) e che non transigono sul fatto di potere avere di fianco persone che si autodeterminano con le proprie scelte. Uomini che di facciata sembrano puliti e che spesso hanno mostri pelosi (che le loro ex mogli hanno provato a curare). Non parliamo del dramma di padri separati (e ce ne sono tanti anche di padri separati che vivono drammi veri, senza bisogno di arrivare all’omicidio) quando ci sono di mezzo assassini. Il dramma vero è quello di certo giornalismo che si appiattisce sulla banalità del male. E come sono ripetitivi e banali tutti questi fallocrati che cercano la giustificazione per giustificare l’ingiustificabile. Mentre il bene, al contrario, si rinnova ogni giorno, si sceglie tutti i giorni e si reinventa se serve per non soffocare.

Uccide i due figli: non è “il dramma dei padri separati” come hanno scritto. È il più terribile degli omicidi. Matteo Gamba su Le Iene News il 28 giugno 2020. Sui social e sui giornali sono usciti errori-orrori che non c’entrano niente, con un tono pure di fatto vagamente assolutorio, per raccontare l’omicidio in Valsassina dei due figli gemelli di 12 anni da parte di Mario Bressi, che poi si è suicidato. Ecco cosa è successo e perché noi non ci stiamo: #leparolesonoimportanti. Ha ucciso i due figli gemelli di 12 anni. Mario Bressi, 45 anni, poi si è suicidato gettandosi da un ponte in Valsassina, nel Lecchese. Prima ha mandato un terribile messaggio alla moglie, da cui si stava separando: “Non rivedrai mai più i tuoi figli”. Rivolgiamo una domanda a tutti. Vi sembra che questo atroce duplice omicidio di due bambini, di due figli, con suicidio e massaggio di crudele premeditazione vendicativa si possa descrivere come “Il dramma dei padri separati”? Purtroppo è successo, con espressioni e toni di fatto vagamente assolutori per l’assassino, come vi mostriamo qui sotto, ad alcuni colleghi che hanno poi corretto e non solo a loro. A noi e, siamo sicuri, a tantissimi altri italiani e italiane non sembra e non sembrerà mai così. E la cosa ci indigna. Per rispetto ai due piccoli, alla loro madre e a tutte le donne offese dalla cultura maschilista ancora fortissima che porta a certi errori-orrori. Pur rispettando i veri drammi che spesso vivono tantissimi padri separati, che non si sognerebbero nemmeno lontanamente di far del male ai figli per vendetta contro la moglie con cui si stanno separando. Ecco qui sotto il primo post del Mattino con lancio “Devastato dalla separazione”, poi cambiato, e il secondo appunto con “Il dramma dei padri separati”, anche questo poi corretto, che ha suscitato anche l’indignazione per esempio di Fiorella Mannoia. Anche l’Ansa, la principale agenzia di stampa, ha lanciato su Twitter la notizia chiudendo con una frase inquietante “A causare la tragedia la difficile separazione tra il padre e la madre”. No, la tragedia è stata causata dalla ferocia di un padre omicida. Poi, come vedete qui sotto, l’Ansa ha cancellato il tweet e ne ha messo uno nuovo.

Valsassina, i tweet dell'Ansa. Al di là di errori-orrori e correzioni c’è tutta una cultura che sta dietro da cambiare, che porta moltissimi a descrivere ancora le atrocità in Valsassina come “dramma familiare” e non come “pluriomicida uccide i figli e poi si suicida”. Per questo, senza dilungarci oltre inutilmente, ci associamo all’hashtag rilanciato in proposito dalla giornalista Manuela Perrone Iacobone del Sole 24 Ore #leparolesonoimportanti. 

Il sistema pro mamma  esaspera i padri soccombenti. Al coniuge, spesso, va la casa coniugale, l’affidamento dei figli ed il mantenimento di tutti. Odio e rancore, sostituisce l’iniziale amore.

La follia omicida di Lecco e il dramma dei papà separati: il dovere di chiedere scusa. Alessio Fanuzzi Domenica 28 Giugno 2020 su Il Mattino. La fretta, si sa, è cattiva consigliera. E per la fretta capita di sbagliare. Ieri è capitato a noi: sui social, nel lancio che accompagnava la terribile notizia di Lecco. Siamo caduti in errore, una banalizzazione sbagliata sul dramma di una famiglia distrutta dalla follia omicida di un papà incapace di accettare la separazione dalla moglie, una semplificazione fuori luogo sul dramma dei padri separati che nulla c’entra con l'omicidio-suicidio come abbiamo evidenziato anche oggi nel commento di Giuseppe Montesano. A nessuno fa piacere commettere errori. Non dovrebbe capitare, ma è capitato e null'altro abbiamo potuto fare se non rettificare il lancio dopo le segnalazioni dei lettori, che ringraziamo. A loro - tutti - chiediamo scusa. Fare meglio è difficile ma possibile ed è questa la nostra missione. Provarci è nostro dovere. 

BUFERA SU IL MATTINO PER LA DESCRIZIONE SULL’OMICIDIO DI MARGNO: “DRAMMA DEI PAPÀ SEPARATI”. Bufera su Il Mattino per la descrizione sull’omicidio di Margno: “Dramma dei papà separati”. Redazione Bufale il 27 Giugno 2020. Bufera su Il Mattino per la descrizione sull’omicidio di Margno: “Dramma dei papà separati” Bufale.net. Sta facendo discutere molto in questi minuti la descrizione da parte de Il Mattino sull’omicidio di Margno. Come tutti sapranno, infatti, la scorsa notte un uomo di 45 anni ha ucciso i suoi due bambini, per poi togliersi la vita gettandosi da un ponte. Il 45enne, secondo quanto riportato da diversi organi di stampa locali, era in procinto di divorziare da sua moglie, ma a quanto pare non ha mai accettato una decisione simile. Anche per questa ragione, la vicenda ha scosso l’opinione pubblica italiana.

Come il Mattino ha descritto l’omicidio di Margno. In particolare, la polemica su Il Mattino nasce da un post pubblicato sui social dalla nota testata. La questione non verte tanto sull’articolo linkato, quanto sulla descrizione social. Ora troverete la versione corretta, vale a dire “Papà separato, ha ucciso i figli nel sonno”. Tuttavia, cliccando sui tre puntini, quindi su altre opzioni e poi sulla cronologia delle modifiche, troverete la descrizione originale: “Dramma dei papà separati“. In tanti, hanno visto dietro questo approccio sull’omicidio di Margno una sorta di giustificazione sullo stato emotivo dell’uomo, prima di uccidere i suoi figli. Fortunatamente, come vi abbiamo appena riportato, dopo qualche ora Il Mattino ha pensato bene di aggiornare quel testo. Resta, comunque, lo scivolone iniziale.

Staremo a vedere nei prossimi giorni cosa ci diranno le indagini sull’omicidio di Margno, per uno dei fatti di cronaca più brutti di questo 2020. Sarà interessante capire se nelle prossime ore ci saranno prese di posizione ufficiali da parte di Il Mattino, dopo le polemiche che sono sorte sui social a proposito della descrizione utilizzata per l’articolo inerente i recenti gravi fatti di cronaca ormai noti al pubblico qui in Italia.

Denigrati e allontanati dai propri figli per mano delle ex mogli. In Italia ogni anno 200 papà si tolgono la vita e nessuno parla di loro. All’origine del dramma, spesso ignorato dai media, vi è il comportamento scorretto delle mamme. TiscaliNews il 25 luglio 2017. Si parla tanto di femminicidio, ma in Italia esiste anche il patricidio, un fenomeno altrettanto preoccupante che spesso non viene preso in considerazione dai media come neppure dalla politica. Tanti papà, a seguito della separazione da quella che fino a poco tempo prima era a tutti gli effetti la “regina della casa” - “l’angelo del focolare” -, si trovano catapultati in una vera e propria guerra dove, in nove casi su dieci, ad aver la peggio saranno proprio loro. In tanti si ritrovano sul lastrico, senza casa, senza soldi e - progressivamente - persino distrutti dall’ex moglie. Stando a quanto riferito dall’associazione “Nessuno tocchi papà”, molte donne (approfittando del fatto che i figli vengono affidati prevalentemente alla figura materna), iniziano un’opera di demolizione e di denigrazione della figura paterna, fino a determinare un rifiuto del bambino di vedere il genitore.

Il problema non tocca la sola Italia ma tutta l’Europa. Mancano norme capaci di tutelare i diritti di visita, di educazione e di un normale rapporto dei genitori separati con i figli minori. Va detto che un comportamento del genere, qualora venisse confutato come in diversi casi è accaduto, porterebbe le madri a perdere l’affidamento. “Quello dei suicidi dei padri separati è un dramma sottovalutato - spiega l’onorevole Tancredi Turco, deputato di Alternativa Libera -. Si parla di 200 suicidi ogni anno solo in Italia e 2000 in Europa, nella stragrande maggioranza dei casi nell’indifferenza generale. Secondo le statistiche sono 4.000 i suicidi in Italia ogni anno e tra questi, appunto, 200 quelli conseguenti ad una separazione e al conseguente allontanamento dai figli. I dati sono stati riportati in alcuni articoli di giornali che a loro volta si riportano in particolare agli studi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)”.

Distrutti dalle ex mogli, i papà hanno le mani legate. “Quello della bigenitorialità - aggiunge Turco - è un argomento di cui si discute poco. Alcuni deputati si sono presi in carico questi problemi e stanno cercando di portare soluzioni pratiche”, anche se la strada da fare è ancora lunga. Allo stato attuale “l’unico rimedio concreto per un papà è quello di una denuncia per inottemperanza di ordine del giudice (art. 388 c.p.), ma nella realtà queste denunce quasi mai portano ad una soluzione concreta”. Qualcuno la chiama Pas, sindrome di alienazione parentale, ma sull’esistenza di una patologia clinicamente accertabile si discute ancora molto. I tribunali però si sono già accorti del grave fenomeno rispondendo con l’allontanamento dei minori dalla madre tiranna.

Il dibattito. Alienazione parentale, la battaglia dei padri rifiutati. Alessandra Capuano Branca  su Il Riformista il 27 Settembre 2020. Si riaccende senza apparente ragione il dibattito sulle sorti giudiziarie dei minori contesi che non ne vogliono sapere di stare con il padre. L’iniziativa si deve ai teorici dell’Alienazione parentale, convinti che quei figli siano malati di mente, o gravemente disturbati. Per curarli, sempre secondo loro, bisogna impedire i contatti liberi con la madre, sicura sobillatrice del rifiuto. Siccome una simile “cura” sembra più una condanna, che riecheggia persino le finalità perseguite dagli autori di certe tragedie familiari, in cui viene colpito il figlio per far soffrire la madre, la maggior parte dei giudici e degli avvocati tende ad ignorarla. Vista la perdita di visibilità e rilevanza in sede giudiziaria della teoria dell’alienazione parentale, perché gli addetti ai lavori non inseguono teorie ma lavorano per garantire l’interesse di ogni singolo minore, individuato caso per caso e ritenuto prioritario rispetto a quello degli adulti, ecco che i difensori di certi padri rifiutati tornano a cercare una ribalta mediatica per riproporre la loro visione autoritaria della famiglia. Anche stavolta, ovviamente, gli alfieri del patriarcato mettono al centro dell’attenzione le frustrazioni dei maschi adulti, ignorando del tutto le paure e i desideri dei figli. Comunque la si voglia pensare sul piano teorico, quel che si può dire senza timore di smentita è che quando il Tribunale si rivolge alla psicologia per risolvere le contese riguardanti i minori, il conflitto si perpetua almeno per tutto il corso del lungo giudizio che ne deriva, con spese che si moltiplicano senza controllo e divengono, a tutti gli effetti, un costo sociale raramente giustificato. Nelle relazioni familiari la Psicologia serve di certo, ma soprattutto prima dell’insorgere del conflitto, per insegnare agli adulti ad essere bravi genitori e ai padri violenti a curarsi senza cercare alibi. Il Tribunale invece ha l’obbligo di accertare i fatti, a cominciare dalla violenza domestica, e non può delegarlo alla Psicologia. Non sarebbe male poi che la Magistratura si munisse di una minima “cassetta degli attrezzi” in campo psico-pedagogico, per fare onore a quel ruolo di peritus peritorum che la Legge attribuisce al Giudice.

Con il dramma dei papà separati non si guadagna, e nessuno ne parla. Francesco Torellini il 23/11/2017 su quotidianoitalia.it. C’è un dramma nel dramma che si vive in un rapporto di coppia, e questo è dettato dalle separazioni. Oggi le separazioni sono a portata di mano, quasi una moda diffusa nella società contemporanea, moderna, evoluta, ma che alla fine è solo figlia di un cattivo costume che mette sotto i piedi i valori della famiglia come nucleo indissolubile. La separazione come atto conclusivo di un rapporto che non va, o forse non si vuole far andare bene, perché ognuno pensa per se e vuole a tutti i costi anche l’impossibile. Le separazioni sono l’anticamera della precarietà, come condizione che apre la strada a una vita comunque più difficile, come punto di partenza per un isolamento crescente, per una situazione esistenziale più fragile, per uno sfaldamento progressivo di tutte le relazioni. E queste, se non gestite alla meglio, creano condizioni di disagio psicologiche che possono ledere la personalità di un individuo rendendolo anche aggressivo, poiché perdere tutto e per via di una separazioni rischia di innescare l’odio capace di creare tragedie. Un terzo degli uomini sperati (30,6%), pagato l’assegno di mantenimento, dichiara di poter contare su un reddito residuo mensile che va dai 300 al 700 euro. Il 17% dai 100 ai 300 euro. E c’è addirittura un 15,1% a cui rimangono in tasca meno di 100 euro al mese, poco più di tre euro al giorno per sprofondare in una sopravvivenza da clochard, se non ci fossero le reti Caritas e degli altri enti assistenziali a soddisfare, almeno in parte, i bisogni più immediati, per queste persone non ci sarebbe nessuna speranza. Punto culminante di una povertà relazionale e di una legislazione profondamente ingiusta che rende la vita dei padri separati decisamente peggiore rispetto a quella delle donne. Ma noi li abbiamo visti questi uomini, li abbiamo Ascoltati, e quando ascolti la disperazione di chi si è ritrovato nel nulla in poco tempo, ti rendi conto che c’è qualcosa che non va. Un uomo che ha perso la casa, il lavoro, gli affetti, rischia di impazzire. Mesi passati in macchina agli angoli delle strade in cerca di qualche riparo.  Il buio delle notti accovacciato sui sedili posteriori per cercare di dormire, l’odore rancido alle prime luci del mattino, i vetri appannati dietro cui nascondersi. Per un padre separato che ha perso tutto, la vergogna non si cancella. Un esercito di uomini che, complice la crisi economica, non hanno i soldi per pagare un affitto e così vivono dentro un’automobile o sono ridotti allo stato di clochard. Papà in giacca e cravatta in fila alla mensa dei poveri, costretti a dormire in macchina e a farsi la doccia in ufficio. Noi queste storie le abbiamo ascoltate con le nostre orecchie. Un dramma silenzioso che confina molti uomini allo stato di indigenza a cui si somma il dolore per l’allontanamento dei figli. Sono alberi abbattuti che un tempo avevano radici forti da renderli indistruttibili, ma la separazione li ha annientati. Il padre separato non fa rumore, non chiede aiuto, si vergogna, e lo riconosci dallo sguardo perso e remissivo con il quale vuole schivare ogni domanda per non sentirsi colpevole. Spesso non hanno la forza morale per affrontare questa situazione. Così si innesca una spirale per cui i papà che non riescono a pagare gli alimenti si sentono in difetto e pensano di non meritarsi l’affetto dei figli. Questo è un altro dramma prodotto dalla società moderna, una società che non ha capito nulla e sta solamente distruggendo i valori veri dell’umanità. Anche questo è un dramma che deriva dal cattivo concetto dell’amore, ma nessuno ne parla, forse perché con il dramma dei papà separati non si guadagna, e non c’è scopo per parlarne.

Auspici per il 2020: salvare i padri separati e i contribuenti dalla Pop Bari. Scritto da Econopoly il 15 Gennaio 2020 su econopoly.ilsole24ore.com. L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, già giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone – Un ultimo pensiero, ma non per importanza va ai nuovi poveri, all’interno dei quali vorrei porre il focus sulla categoria dei mariti separati. Su 4 milioni di separati, 800 mila uomini sono sulla soglia della povertà. In molti fanno la fila per un pasto alla Caritas e dormono in macchina. Devono lavorare per mantenere due famiglie. Basti pensare che dopo aver acceso un mutuo per la casa dove vivevano con la famiglia, costretti ad abbandonarla da una sentenza che la assegna alla mogie, continuano a pagare il mutuo, oltre all’affitto di una camera dove vivono. Senza considerare la cosa più grave, ovvero le ripercussioni che queste crisi familiari hanno sul rapporto con i figli, non sapendo come gestirli e non avendo peraltro le possibilità economiche per inventarsi qualcosa. Nella mia esperienza lavorativa, ho fatto per otto anni il giudice tutelare e in questa veste ho potuto vedere e analizzare il rapporto conflittuale tra ex coniugi che, magari si presentavano da noi con i nuovi compagni, al contempo utilizzando i minori per rivendicazioni, vendette e rimostranze ataviche. Ritengo che la figura del padre separato debba essere rivalutata sotto diversi aspetti, economici ed umani, spendendo un pensiero, forse controcorrente, per questa categoria che passa nella gran parte dell’immaginario come carnefice, ma in molti (troppi) casi è vittima. Molto spesso anche i giudizi su queste questioni si ancorano a retaggi del passato e non considerano minimamente i cambiamenti. Oggi, a differenza di 30 anni fa, la parte debole non è automaticamente la donna, ma in molti casi è l’uomo. È errato, peraltro come in ogni cosa, passare da un estremo all’altro, dove il discriminato diventa l’uomo e non la donna.

Il dramma dei padri separati: "Noi, genitori di serie B abbandonati dalle istituzioni". Depressi e sul lastrico: quella dei padri separati è una vera e propria emergenza sociale. In Italia secondo la Caritas su 4 milioni di papà che si separano 800mila finiscono sotto la soglia di povertà. E c'è anche chi compie gesti estremi. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. “Avevo deciso che mi sarei buttato dal quel ponte, che non sarei tornato indietro, sono salvo soltanto grazie ai carabinieri che passavano di lì per caso”. Il calvario di Michele è iniziato nel momento in cui il suo matrimonio ha cominciato a vacillare. L’insofferenza, le liti e poi la decisione di separarsi. I due figli della coppia restano con la madre. Per Michele, originario di Foggia e trapiantato nell’hinterland bolognese, vederli è sempre più difficile. Arriva la depressione, poi il tentativo di uccidersi e il ricovero in una struttura psichiatrica ad Imola. Ci resta due mesi, nel frattempo perde il lavoro. E così, una volta terminato il percorso di riabilitazione si ritrova in mezzo ad una strada. Deve scegliere, o l’affitto o l'assegno di mantenimento. “Alla fine mi hanno sfrattato e per nove mesi sono stato costretto a vivere in macchina, mangiavo alla Caritas – ci racconta - i miei figli continuavo a vederli un week end sì e uno no e quando mi chiedevano perché non li portavo mai a casa mia dovevo mentirgli continuamente”. Michele ora sta cercando di cambiare vita. Ha trovato una casa e avviato una piccola attività. Fa il falegname e ogni due fine settimana percorre oltre 50 chilometri in auto per andare a prendere i suoi bambini a scuola e passare un po’ di tempo con loro. “Ormai però – ci confessa – mi vedono come un estraneo, non come un papà, e questo fa veramente male”. In Italia i genitori che si trovano nelle sue stesse condizioni sono tantissimi. Secondo l’organismo pastorale della Cei per la carità su 4 milioni di padri separati presenti nel nostro Paese 800mila sarebbero sotto la soglia di povertà. Tra loro c'è anche chi si arrende e si abbandona a gesti estremi come il suicidio. Lo scorso luglio, ad esempio, a Roma un uomo di 45 anni si è lanciato dal tredicesimo piano del palazzo delle Poste, all’Eur, perché non riusciva più a sostenere la sua "difficile situazione familiare”. “I padri separati sono uomini fatti a pezzi, sotto il profilo prima morale e poi finanziario – denuncia Anna Poli, psicologa, blogger e presidente di Ancore (Associazione Nazione Cogenitorialità Responsabile) che incontriamo a Bologna – quando si affronta un divorzio ormai gli uomini hanno soltanto da perdere, sul fronte della separazione non esistono le pari opportunità”. “La verità è che è diventato un grande business, tra avvocati, cooperative e case famiglia”, denuncia Roberto Castelli, padre separato che ha fondato Genitori Sottratti, organizzazione attiva a Bologna, che si occupa di supportare i papà in difficoltà durante e dopo le cause di divorzio. “La legge 54 del 2006 disciplina l’affido condiviso ma lascia ampia discrezionalità al giudice, che nella stragrande maggioranza dei casi decidono di collocare i bambini presso le madri, così – ci spiega – si innesca un processo di alienazione parentale che trasforma i papà in genitori di seconda classe che servono soltanto a pagare il mantenimento”. “Il padre – continua Castelli - diventa una figura di servizio che non riesce più ad avere un vero rapporto con i figli, mentre il diritto dei bambini, che dovrebbe essere garantito proprio da questa legge, sarebbe quello di poter avere entrambi i genitori”. “La separazione spesso viene vissuta come un lutto, e vi assicuro che si muore interiormente”, ci confessa Mariano. Dopo un matrimonio naufragato, due figli da vedere a orari prestabiliti e lo stalking da parte della ex moglie, ha deciso di scendere in campo per aiutare chi ha vissuto il suo stesso dramma attraverso dei gruppi di self-help. “È un percorso molto difficile dal quale non si esce facilmente – precisa – spesso questa gente non può contare su nessun tipo di sostegno, li aiutiamo proprio perché sappiamo bene che chi viene lasciato solo alla fine soccombe”. “Le somme che devono essere versate per gli assegni di mantenimento sono cifre standard che non tengono conto del reddito dei papà, così un genitore si ritrova a dover pagare il mutuo della casa coniugale, l’affitto di una nuova casa, e a fine mese rimangono pochi spicci per vivere – spiega Anna Poli – per questo in più di un caso si finisce a dormire in macchina o in mezzo alla strada”. “Non è possibile che all’interno di una separazione, evento che già di per sé impoverisce la famiglia, ci sia una figura che viene letteralmente annientata”, ragiona la psicologa. A contestare la prassi utilizzata dai giudici in materia di affido è anche Castelli. “Non è possibile spendere migliaia di euro in avvocati e consulenti per vedersi riconosciuta una cosa ovvia: ovvero il diritto di mantenere un rapporto con i propri figli”. “Bisogna fare qualcosa per cambiare questa situazione”, chiosa. Il precedente esecutivo aveva tentato di applicare dei correttivi alla normativa vigente con il cosiddetto ddl Pillon che, tra le altre cose, si proponeva di introdurre l’obbligo per i figli di vedere ciascun genitore non meno di 12 giorni al mese e l’eliminazione dell’assegno di mantenimento. Al suo posto il senatore leghista firmatario della proposta aveva previsto un "contributo diretto" da parte degli ex coniugi che sarebbe stato utilizzato in favore dei figli durante il tempo trascorso insieme. Ma il disegno di legge è stato aspramente criticato da più parti. L'accusa principale è quella di mettere in difficoltà le donne, che spesso si trovano nella situazione economica o lavorativa più svantaggiata e quindi in posizione di sudditanza rispetto ai mariti. Per questo una delle prime decisioni della nuova ministra della Famiglia, Elena Bonetti, è stata quella di chiudere in un cassetto la proposta del senatore della Lega. Ma proprio dalle istituzioni questo esercito di invisibili aspetta una risposta. "Ad oggi non esiste una rete di supporto che si occupi di queste persone", denunciano le associazioni, che chiedono allo Stato di intervenire.

SULLA BIGENITORIALITA’ ED AFFIDO CONDIVISO. Quando le donne fanno lobby e la vittima è l’uomo: ossia stalking e mobbing sottaciuto ed impunito. Il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, stila un dossier, sull’onda delle segnalazioni e delle notizie di stampa, che riportano i casi di suicidi di padri separati. La prevedibile ed infondata accusa di maschilismo non può tacitare una tematica importante e delicata.

Nel mondo occidentale il riequilibrio dei ruoli (famiglia e lavoro) tra uomo e donna ha portato, non poche volte, ad eccessi di segno opposto rispetto al passato. Il caso forse più eclatante in Italia è quello dei padri separati.

Soltanto nel 2006 infatti è stata approvata la Legge 54 denominata “Affido Condiviso”, che ha cominciato a cambiare le cose. Fino a quel momento in oltre il 90% dei casi i figli venivano affidati esclusivamente alla madre. Altre difficoltà, oltre quelle degli affetti, per un padre che si separa sono la casa (assegnata per oltre due volte su tre alla donna), e la questione assegni (nel 95% dei casi erogati dagli uomini).

Il disagio psicologico, morale e materiale a cui è sottoposto l'uomo nelle separazioni lo porta a lasciarsi andare molto più spesso di quanto si crede. Il 93% dei suicidi post-separazione sono di padri (fonte FENBI circa 100 l'anno) e la Caritas in un recente comunicato ha informato che decine di migliaia di padri separati si stanno rivolgendo a loro per un posto letto. I dati riferiti ai suicidi dei padri separati sono contraddittori. Secondo i dati diffusi dall'Armata dei padri, solo nel 2006, sono 2 mila i padri che si sono suicidati perché lontani dai figli.

Ma la maggior parte degli uomini abbandonati (il 74% delle separazioni sono chieste da donne), privati di figli, casa, lavoro, non riesce a reagire, il “sommerso” come si dice in questi casi è molto più vasto di chi invece riesce a reagire, magari entrando in una delle tante associazioni tematiche.

I dati, raccolti sui giornali dall'associazione “Ex”, rivelano che negli ultimi 10 anni sono stati uccisi 158 minori (più di 15 ogni anno) per conflitto tra genitori in fase di separazione. Nello stesso periodo i fatti di sangue legati alla fine di una convivenza sono stati 691 con 976 morti. In oltre il 98% dei casi il delitto riguarda una coppia con figli, mentre solo nell'1,7% la coppia non ha figli. Il 34,5% dei fatti si è consumato al Nord, nel 37,7% al Centro e nel 27,8% al Sud e Isole. Nel 76,6% dei casi è un uomo che ha in media tra i 30 e i 40 anni a commettere il delitto, il 50% delle vittime è donna e il 16,1% è minore. Questi dati sono stati allegati a una mozione presentata alla Camera, in cui si è chiesto al Governo maggiore impegno a favore della bigenitorialità.

L'episodio dell'ennesimo padre separato che si è ucciso perchè non poteva vedere il figlio suscita «dolore e amarezza», ha affermato Maurizio Quilici, presidente dell'Isp, l'Istituto di studi sulla paternità, che rileva come esso sia «la punta di un drammatico iceberg che da molti anni galleggia nell'indifferenza di molti». «Non sono bastate – osserva Quilici in una nota – le battaglie dei movimenti dei padri, la trasformazione della figura paterna così vicina, oggi, ai figli e capaci di accudimento ed empatia; non è bastata una legge – la 54 del 2006 – che impone il condiviso come forma prioritaria di affidamento. I giudici continuano imperterriti a privilegiare le madri, le madri continuano a ostacolare il rapporto dell'ex compagno con i figli, i figli continuano ad essere strumento di battaglia per campioni di egoismo. I padri che si separano continuano a vivere con tremendo dolore la frequente perdita dei figli. E di dolore si può anche morire».

Quando le agenzie di stampa (nel dare la notizia del suicidio di un padre «disperato perché la madre non gli fa incontrare il figlio più di due giorni alla settimana») specificano «appena separato», altre scrivono «in sede di divorzio», altre ancora dicono «cui la moglie aveva chiesto la separazione», deve apparire chiaro a tutti che quei giornalisti non ci hanno informato bene sui fatti.

Infatti, se la madre aveva chiesto la separazione, ma ancora non vi era stata l'udienza presidenziale, e dunque nessuna decisione, seppur provvisoria, di un magistrato, si deve concludere che la madre, nell’abbastanza consueto delirio di onnipotenza materno, abbia deciso con intollerabile arbitrio «il figlio è mio e lo gestisco io»; impedendo così, disumanamente, a padre e figlio lo svolgersi della reciproca affettività. Se, diversamente, un giudice aveva deciso, nella prima udienza di separazione, che il provvisorio regolamento di visite dovesse essere così ristretto, forse la madre, strumentalmente o per tutelare davvero il figlio, aveva esposto tali negatività del padre, anche psichiche, da richiedere cautela nel calendario di visite. In entrambi i casi, però, il giudice avrebbe omesso di essere accurato nella protezione di una famiglia in crisi, non disponendo che almeno i servizi sociali si occupassero della gestione degli incontri. In questo esempio, il suicidio rivendicherebbe la mancanza di una giustizia minimamente dignitosa.

Se, ancora, invece, questa storia triste si inquadra in un giudizio di divorzio o di modifica delle condizioni in essere, c’è da pensare o a un diritto di visita del padre cambiato all’improvviso dal giudice per gravi fatti sopravvenuti, o a una regolamentazione che dura così da anni, cioè da prima dell’entrata in vigore (2006) della legge sull’affido condiviso. Nel primo caso dovremmo tornare all’esempio della madre tutelante o strumentalizzante. Nel secondo, dovremmo pensare a una madre sorda alle esigenze sia del padre sia del figlio e miope di fronte ai cambiamenti sociali e giuridici. Se così fosse, il suicidio sarebbe da interpretarsi come la convinzione del padre di voler attuare egli stesso ciò che la madre stava già facendo: togliere per sempre il padre a un figlio.

In tutti i casi però sarebbero i dettagli a dover fornire la giusta chiave di lettura. Senza poter dimenticare che le difficili storie giudiziarie che coinvolgono le famiglie, non possono essere trattate con pomposa burocrazia o frettolosa acriticità. Che l’espropriazione dei figli non deve essere consentita a nessun genitore a danno dell’altro. Quindi magistrati ed avvocati hanno la serissima responsabilità di non potersi occupare dei protagonisti solamente nei minuti o nelle ore che il ruolo impone di dedicare loro.

Il Cepic, Centro europeo di psicologia investigazione e criminologia, (associazione impegnata nella formazione, ricerca, sostegno e consulenza in ambito criminologico, investigativo e psicologico) ha organizzato un convegno nazionale sulla violenza di genere sul tema “Quando la vittima è lui. La violenza domestica verso l'uomo. Aspetti sociologici, criminologici e legali”. Un evento innovativo nel suo genere, nel quale si sono affrontate tematiche spesso ignorate e sottaciute. Questo secondo convegno nazionale sulla violenza di genere, segue il primo, in cui è stata trattata la violenza domestica verso la donna.

«Ho scelto di organizzare un secondo convegno incentrato sull'uomo – dichiara Chiara Camerani, Psicologa, criminologa, Direttora Cepic – perché ritengo che il concetto di violenza di genere sia spesso inteso come indissolubilmente legato alla figura femminile, ma non può e non deve essere così. I cambiamenti sociali, i traguardi sul versante della parità hanno creato nuove categorie deboli e nuove forme di violenza. A fronte della violenza cieca, diretta dell'uomo, abbiamo una violenza subdola, vendicativa, tipica della donna, che spinge a distruggere non solo il coniuge, ma il suo ruolo genitoriale, la sua posizione sociale, il suo equilibrio psicologico. Pur coscienti che la donna detiene il triste primato di vittima nell'ambito della violenza coniugale, non possiamo dimenticare gli uomini che subiscono forme di violenza, diverse forse, ma altrettanto gravi. Ne sono dimostrazione i numeri allarmanti dei suicidi attuati in Italia da padri separati. Il numero si suicidi commesso da padri separati è aumentato negli ultimi anni, in particolare nel centro e nel nord d'Italia. Secondo i dati della federazione nazionale bigenitorialità, L'uomo commette più frequentemente suicidio a causa di un disagio generato dalle separazioni e dai figli contesi, più di quanto non accada alle donne; con 102 casi su un totale di 110 (93%). Alla luce di questo, riteniamo utile una rivalutazione del concetto di soggetto debole, usualmente applicato al genere femminile, in un'ottica che valuti la persona e non il genere o lo status. A tal proposito ed alla luce dei dati emersi, l'uomo risulta essere il soggetto maggiormente sconfitto, nella coppia che si separa. Il decremento di reddito, l'allontanamento dai figli, che spesso diventa affido esclusivo, arma di ricatto e soppressione della figura paterna, mina gravemente la persona spingendo a comportamenti autodistruttivi, dipendenze, atti disperati. Per questo abbiamo scelto di parlare di violenza di genere, nella convinzione che sia necessario ridefinire o quantomeno rendere maggiormente flessibile il concetto di soggetto debole. Perché se è vero che la donna è più frequentemente vittima tra le mura domestiche, in contesti di coppia normale in crisi e in fase di separazione, è l'uomo a detenere il primato di vittima. Lo stesso accade in considerazione dei diversi standard di valutazione della violenza; quando l'aggressore è uomo ci si preoccupa della vittima femminile, quando è la donna ad essere violenta se ne cercano le cause, o si attribuisce a patologia. Questo è un dato che osserviamo frequentemente, in qualità di centro che si occupa di consulenza psicologica e criminologica. Per quanto sorprendente, esistono uomini maltrattati fisicamente dalle mogli, il numero oscuro a questo riguardo è molto alto, a causa del forte imbarazzo a denunciare. Interessante anche notare che la violenza verso il partner avviene anche tra coppie lesbiche. Il pregiudizio sociale porta ad ignorare la figura maschile nel ruolo di vittima, porta ad identificare l'uomo con il cattivo, con l'aggressore. Le Conseguenze sull'uomo comportano depressione, abbuffate compulsive, dipendenze, uso di alcol, violenza, suicidio, suicidio allargato (omicidio/suicidio)».

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri 'tigri' tutelate dalla legge – accusa Poniz – . Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni… E quanti scontano l’odio e il rancore di figli 'plagiati' dalle madri?»

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale…».

·         Era Abuso…

Bimbo ucciso di botte: ergastolo per il patrigno, sei anni alla madre. La cronistoria della domenica dell’orrore. Redazione su Il Riformista il 9 Novembre 2020. Ergastolo con isolamento diurno di un anno per Tony Essobdi Badre, l’italo-marocchino, oggi 27enne, che il 27 gennaio del 2019, armato di un manico della scopa, ha ucciso di botte il piccolo Giuseppe Dorice, 7 anni, e ridotto quasi in fin di vita la sorellina di un anno più grande. Questa la sentenza della terza Corte di Assise del Tribunale di Napoli presieduta dal presidente Lucia La Posta. Le violenze andarono in scena nella tarda mattinata di domenica in un appartamento di Cardito, in provincia di Napoli, dove Badre viveva con la compagna e i tre figli di quest’ultima. Proprio la madre dei piccoli, Valentina Casa, 31 anni, è stata condannata a sei anni di reclusione per maltrattamenti: la Procura di Napoli Nord, rappresentata dai sostituti procuratori Paola Izzo e Fabio Izzo, chiedeva anche per lei l’ergastolo. Al patrigno è stato contestato l’omicidio volontario di Giuseppe e il tentato omicidio della sorellina, oltre ai maltrattamenti in famiglia aggravati dalla crudeltà e dai futili motivi, dalla minorata difesa e dall’abuso delle relazioni domestiche. Valentina Casa rispondeva di comportamento omissivo perché – secondo l’ipotesi accusatoria – “non interveniva a fermare la furia omicida del compagno, non invocava l’aiuto dei vicini, non contattava i servizi di emergenza delle forze dell’ordine  ma provava invece a ripulire il sangue uscito dalle ferite dei figli con dei teli lasciati in bagno, occultava all’interno della pattumiera le ciocche di capelli strappate dal compagno alla figlia e, all’atto di intervento degli operanti, non riferiva immediatamente che Tony era stato l’autore di quello scempio, negava piuttosto la violenza già perpetrata all’indirizzo dei bambini”. La sentenza è arrivata dopo circa 5 ore di camera di consiglio. IL RAPTUS – “Un raptus di follia, mi si è spento il cervello… ma non volevo ammazzarlo”. Ha provato a giustificarsi così il 27enne nel corso delle precedenti udienze del processo di primo grado. “Mi sono messo nel letto per rilassarmi un po’… verso le 8 e qualcosa, sentii che (i bambini, ndr) saltavano sul letto … mi è venuto un raptus di follia, mi si è spento il cervello, e li picchiai… ma non ho mai voluto ammazzarli”.

IL RACCONTO DELLA MADRE – A parlare nelle precedenti udienze è stata anche la madre dei tre bambini vittime delle violenze del compagno. Nel descrivere la mattinata dell’orrore (era domenica, ndr) vissuta nell’appartamento di Cardito: “Non si fermava più… buttava mazzate e mentre picchiava i bambini le mazze si sono spezzate… In quel momento sembrava un diavolo… picchiava i bambini anche quando sono caduti…”. La stessa 31enne ha poi riferito di aver subito violenze: “Mi ha tirato i capelli e mi ha dato un morso dietro i capelli”.

IL RACCONTO DELLA SORELLINA – Nel corso di una udienza del 30 ottobre 2019, l’agente della Questura di Napoli, intervenuto nell’ospedale pediatrico Santobono in quei drammatici giorni, ricorda l’incontro con la sorellina di Giuseppe, più grande di un anno, miracolosamente sopravvissuta alle violenze del compagno della madre. “Una scena raccapricciante, la bimba era totalmente sfigurata dalle botte, aveva lividi ovunque e faceva fatica anche a vedere”. Le parole della piccola al poliziotto sono state sin da subito chiare: “Dovete portate in prigione mio padre (il patrigno, ndr), la sera beve la birra e ci picchia, e mamma deve chiamare i carabinieri”.

MAESTRE SOSPESE – In questa terribile vicenda lo scorso settembre sono state prima prima sospese (dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca), poi indagate per omessa denuncia due maestre e la dirigente scolastica della scuola elementare nel Napoletano frequentata dai due bambini. Nonostante lividi e tumefazioni che il piccolo Giuseppe e la sorellina avevano quando si presentava in classe, sia le maestre che la preside non avrebbero sollecitato l’intervento dei servizio sociali o quantomeno chiesto chiarimenti alla madre del piccolo.

LAURA ANELLO per la Stampa il 21 ottobre 2020. Forse neanche la tragedia greca che qui ancora si mette in scena, tra le pietre del teatro millenario nel parco archeologico, avrebbe potuto partorire una storia così. Medea, sì, che uccide i suoi figli per vendicarsi del tradimento dell'amore di Giasone. Ma qui non c'è un matrimonio offeso da risarcire, non c'è un onore arcaico da difendere, non c'è la disperazione di una donna ripudiata. C'è - secondo i giudici - solo il desiderio di mettere le mani sui soldi dell'assicurazione del marito che spettava ai due bambini. E la determinazione, feroce, di farli fuori per prenderli lei, lei che quei due piccoli li aveva partoriti. Impallidiscono quasi le tragiche eroine di Eschilo, di Sofocle, di Euripide di fronte a questa giovanissima donna, 26 anni, di nome Paola, che ieri è stata condannata in primo grado a dieci anni e otto mesi di reclusione per avere tentato di uccidere i suoi due bambini. E ucciderli in modo lucido e premeditato, mettendo in scena un incidente dal quale fortunatamente sono rimasti feriti in modo non grave. Bambini che avevano già perso precocemente il padre neanche un anno prima. «Venite, piccoli, andiamo a farci un bel giro», ha detto prima di sistemarli nel sedile posteriore e mettersi alla guida della macchina. Era il marzo dell'anno scorso. Poi ha imboccato una discesa ripida, ha aperto la portiera e si è lanciata fuori dall'abitacolo, neanche fosse la controfigura della scena di un film d'azione. L'automobile è andata a schiantarsi un centinaio di metri dopo su un muro, ma i piccoli erano vivi. Portati in ospedale, è cominciata l'inchiesta su quell'incidente in cui niente tornava, né la dinamica dei fatti né la ricostruzione della donna. È emerso invece che lei aveva già intascato duecentomila euro come risarcimento dell'incidente stradale in cui aveva perso la vita il marito e che - ingolosita dalla possibilità di trovarsi in tasca il doppio, secondo il giudice - ha puntato all'assicurazione stipulata dall'uomo di cui erano intestatari i due figli. Ipotesi atroce che si è consolidata via via che le perizie tecniche escludevano la caduta accidentale di lei, l'errore, il guasto all'automobile. Ieri la sentenza, pronunciata dal giudice a fronte dei dodici anni chiesti dal pm, cui si aggiunge l'interdizione perpetua dei pubblici uffici, l'interdizione legale per la durata della pena, la condanna al risarcimento dei danni e il rimborso delle spese legali in favore delle parti civili, quantificate in poco più di tremila euro. Spiccioli, in confronto a quel che secondo i giudici sperava di guadagnare. L'avvocato, Emanuele Gionfriddo, non è riuscito a dimostrare l'innocenza della donna, e neanche a farle avere le attenuanti. Non era pazza, non era temporaneamente annebbiata, ed era perfettamente in grado di intendere e di volere, secondo i consulenti. È passata la linea della difesa dei bambini, adesso affidati ai nonni paterni, assistiti dall'avvocato Sofia Amoddio, che è riuscita a dimostrare il movente. È il primo grado, e ci si augura quasi che la sentenza possa essere ribaltata, e che ci sia la possibilità di scrivere un'altra storia.

Il dramma dei piccoli. Violenze domestiche, sempre più bambini denunciano i papà. Viviana Lanza su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Sono in aumento le telefonate al numero verde antiviolenza che arrivano da bambini o ragazzi, cioè da figli di donne costrette a subire botte e minacce da mariti o compagni violenti. È il dato che emerge da un recente studio condotto dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) e discusso mesi fa, in sede di audizione dinanzi alla Commissione di inchiesta sul femminicidio, dall’esperta Linda Laura Sabbadini. Nell’ultimo anno il database del numero nazionale antiviolenza e stalking 1522, un numero gratuito messo a disposizione dal Dipartimento per le Pari opportunità, ha consentito di estrapolare 847 casi di telefonate avvenute per segnalare un caso di violenza da parte dei figli della vittima. I dati dello studio fotografano la situazione a inizio 2020, il lockdown ha acuito il fenomeno e si prevede un ulteriore aumento dei casi di violenza domestica. Leggendo i numeri e le percentuali colpisce che il 69% delle vittime che si rivolgono al numero verde ha dichiarato di avere figli, e nel 59% dei casi si tratta di minori. Più della metà delle vittime (il 62%) ha affermato che i figli hanno assistito alla violenza e nel 18% dei casi l’hanno anche subita. Sono cifre che raccontano storie di sofferenza e sopportazione, di paura e dolore, di coraggio e disperazione. Negli ultimi anni l’instabilità coniugale in Italia è apparsa in costante crescita, le separazioni sono state più numerose dei divorzi. La propensione a separarsi è risultata inoltre diversa tra Centro-Nord e Mezzogiorno. La media nazionale annua è di 819 matrimoni ancora in essere dopo i 14 anni su un campione di 1000, il dato diminuisce a 761 nel Nord Italia mentre aumenta a 889 nel Mezzogiorno. Il Sud quindi mostra una maggiore tenuta dell’unione matrimoniale. Ma se si osservano anche i casi di violenza sulle donne lo scenario si fa a tinte fosche. I dati raccolti dall’Istat dicono che nel corso della loro vita quasi 3milioni e 700mila donne italiane hanno interrotto una relazione, anche senza convivenza, perché subivano almeno un tipo di violenza, fisica, sessuale o psicologica. Puntando la lente sugli ultimi cinque anni, è emerso che sono 538mila le donne vittime di violenza fisica o sessuale da ex partner, 131mila delle quali sono separate e divorziate. Un quinto di loro si sono recate presso le forze dell’ordine per denunciare i maltrattamenti e gli abusi ma nel 60% dei casi non hanno firmato il verbale. Nel 4,7% dei casi si sono rivolte a centri antiviolenza o agli sportelli di aiuto contro la violenza di genere, mentre il 13,2% di queste ha dichiarato di non sapere della loro esistenza. Non tutte, alla fine, lasciano i mariti dopo le botte. Il 37,7% ha dichiarato di averlo fatto perché il partner aveva promesso di cambiare, il 30,2% per concedere una seconda possibilità, il 16,4% per amore. Il 27,6% delle donne con figli ha dichiarato di essere tornata con il marito per il bene dei figli. Il panorama umano è estremamente vasto, il tema molto complesso e delicato. Il fattore culturale ha un’importanza decisiva, così come la comunicazione e l’informazione. Sul fronte della conoscenza del fenomeno legato alla violenza di genere ci sono ancora gap da colmare. L’Istat ha condotto uno studio anche su questo aspetto e il risultato è poco confortante: il 25,4% degli intervistati ha detto di ritenere accettabile il controllo dell’uomo sulle attività della compagna o gli schiaffi dati alla propria donna e il 23,9% ritiene che sia la donna a provocare la violenza ai suoi danni.

Lettera di Carla Vistarini a Dagospia il 9 settembre 2020. Teresa Scavelli aveva 46 anni, era madre di tre figli e lavorava come governante-baby sitter per una famiglia di Sankt Gallen, Svizzera. Teresa per proteggere tre bambini da un energumeno si è immolata fino alla morte. Donna meravigliosa, dolore immenso e vicinanza alla famiglia. Era una donna, un'emigrante. Teresa è morta per proteggere tre bambini e un'altra persona dalla violenza inumana di un aggressore. Eppure di questa donna, mamma, lavoratrice in terra straniera, eroina silenziosa, che lascia a sua volta tre figli, nessuno o pochi parlano. Qualche riga sui giornali. Nessuna polemica per carità, ma questa morte, questo sacrificio del cuore, non merita l'attenzione di tutti, il dolore di tutti, la visibilità di altre tragedie, fatti simili, che però hanno l'onore delle prime pagine e l'attenzione di tanti commentatori? Un abbraccio, Teresa. Per sempre.

Uccisa mentre si prendeva cura di una bimba. Così è morta una baby sitter italiana in Svizzera. Pubblicato lunedì, 07 settembre 2020 da La Repubblica.it. Massacrata di botte mentre si prendeva cura della bambina che le era stata affidata. Così è morta una donna di 46 anni, baby sitter, calabrese di nascita e veronese di adozione, che aveva dovuto lasciato a Oppeano il marito e i tre figli per lavorare come tata in Svizzera, nel Cantone di San Gallo. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, mercoledì scorso, attorno all'ora di pranzo, un ragazzo di 22 anni, svizzero, si sarebbe intrufolato nell'appartamento dove lavorava Teresa Scavelli, per poi aggredirla e colpirla violentemente e ripetutamente con una padella al capo. Gli agenti, allertati dai vicini, avrebbero provato a fermare l'aggressore, ma l'uomo avrebbe continuato a colpire la donna. A quel punto i poliziotti avrebbero aperto il fuoco esplodendo diversi colpi nei confronti dell’aggressore. Il giovane è morto sul colpo, mentre la donna è deceduta in ospedale dove era stata trasportata per le ferite riportate alla testa. Troppo grave il trauma cranico con lesioni cerebrali. E' ancora giallo sul movente. L'assassino avrebbe sofferto di problemi psichici. Ma tra i due però non sarebbero emersi legami. Secondo un quotidiano svizzero il ragazzo avrebbe vissuto per alcuni anni nella casa accanto a quella dell'aggressione senza contatti però con la vittima. "Teresa era ben voluta perché era una bella persona. Una fine così è difficile da accettare", ha detto durante il funerale nella chiesa di Palù, il parroco, Don Flavio Silvestri. Attorno al dolore della sua famiglia - il marito Salvatore Elia e i tre figli Giuseppe, Simone e Sarah, riuniti in un silenzioso abbraccio - si è stretta la comunità del comune veronese dove Teresa ha vissuto per una decina di anni. 

Monica Serra per “la Stampa” l'8 settembre 2020. Fino all' ultimo ha lottato col suo assassino per difendere la bambina che le era stata affidata. L' aggressore l' ha uccisa con una pentola. L' ha colpita alla testa come una furia, fino alla morte. All' arrivo della polizia le condizioni di Teresa Scavelli erano già disperate. Baby sitter di 46 anni, calabrese di nascita e veronese di adozione, solo di recente si era trasferita da alcuni parenti in Svizzera per lavorare. A Oppeano, in provincia di Verona, aveva lasciato la sua famiglia per andare a fare la tata nel cantone tedesco di San Gallo. L' omicidio si è consumato all' ora di pranzo dello scorso mercoledì, ma solo ieri è stata resa nota l' identità della vittima, per via dell' estremo riserbo della polizia elvetica. Secondo la ricostruzione degli investigatori, l' aggressore, un ragazzo svizzero di 22 anni, sarebbe riuscito a intrufolarsi in pieno giorno nell' appartamento, mentre Teresa e la piccola erano all' interno, insieme con un' altra donna. Subito e senza un chiaro motivo, il ragazzo si sarebbe scagliato contro la 46enne che per prima cosa ha cercato di mettere in salvo la bambina. L' avrebbe colpita con violenza, prima a mani nude poi con la padella alla testa, mentre la donna era già distesa sul pavimento. I vicini di casa, spaventati da tonfi e urla, hanno lanciato l' allarme. E, all' arrivo degli agenti, l' aggressore era ancora addosso alla vittima e continuava a infierire sul suo corpo. In ogni modo hanno provato a fermare la sua furia ma non ci sono riusciti. Così, secondo quanto è trapelato, i poliziotti hanno tirato fuori la pistola e aperto il fuoco esplodendo diversi proiettili contro il 22enne. Il giovane è morto sul colpo. I soccorsi hanno fatto il possibile per salvare la babysitter. In fin di vita è stata trasportata in pronto soccorso da un' ambulanza, ma non ce l' ha fatta: troppo gravi le ferite riportate, il trauma cranico e le lesioni cerebrali. Resta misterioso il movente dell' omicidio. Da quanto hanno ricostruito le indagini, l' assassino soffriva di problemi psichici, ma tra i due non sarebbe emerso alcun legame. Secondo alcuni quotidiani svizzeri, il ragazzo avrebbe vissuto per qualche anno nella casa accanto a quella dove si è verificata l' aggressione, senza però avere mai contatti con la vittima. «Teresa era ben voluta perché era una bella persona. Una fine così è difficile da accettare». Sono state queste le parole di Don Flavio Silvestri, durante il funerale nella chiesa di Palù, nel Veronese. La comunità intera del paese in cui Teresa ha vissuto per una decina d' anni, si è riunita attorno al dolore della famiglia: il marito Salvatore Elia e i tre figli Giuseppe, Simone e Sarah, stretti in un silenzioso abbraccio.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2020. I primi poliziotti intervenuti sulla scena del crimine sono usciti dall'appartamento in lacrime: e questo è quasi tutto quel che si sa, per ora, di ciò che hanno visto. Nella tarda mattinata di ieri a Solingen, in Nordreno-Vestfalia, una mamma di 27 anni ha presumibilmente ucciso cinque dei suoi sei figli; è fuggita alla stazione centrale di Düsseldorf portando con sé il maggiore, 11 anni, unico uscito illeso dalla carneficina; si è gettata sotto il convoglio del passante ferroviario delle 13:46 sperando di morire, ed è stata soccorsa poco dopo, gravemente ferita ma viva. Ora è in ospedale, piantonata dalla polizia. «Sarà interrogata quando tornerà vigile», ha comunicato il portavoce della polizia della vicina Wuppertal, competente per il caso. «Non sappiamo ancora come, né perché, né quando i bambini sono stati uccisi». E fino al risveglio della donna molte incognite sono destinate a rimanere tali, una su tutte: al momento della carneficina dov' era il padre dei bambini? Solingen è una città di 160 mila abitanti a 35 km da Düsseldorf; Hasseldelle un quartiere di palazzi di edilizia semipubblica tirati su negli anni Settanta, 190 famiglie ciascuno, per il quale la città di Solingen aveva lanciato un piano di riqualificazione dal significativo slogan «Hasseldelle è migliore della sua fama». Il condominio dove i sei bambini abitavano con la madre è uno di questi: un «block» rivestito in pietra grigia, balconi in cemento, una parabolica per balcone. I vicini che restano increduli davanti all'ingresso, sotto la pioggia, a vedere i poliziotti - 40 investigatori al lavoro dal primo pomeriggio di ieri - uscire piangendo dall'appartamento e ripetono ai cronisti dei media locali il consueto ritornello di cronaca: «Era una famiglia tranquilla». Della famiglia faceva parte anche il padre: la polizia comunica solo di averlo contattato, ma non si sa nient' altro. I corpi dei bambini, secondo quanto ha riferito la polizia ieri pomeriggio, sono rimasti nell'appartamento, come gli inquirenti li hanno trovati. E sono misteriose ancora le ragioni che avrebbero spinto questa donna tedesca giovane, bionda, esile (così appare nell'unica sua foto trapelata ieri, pubblicata con una grossa pecetta sugli occhi dalla Bild ), a mettere fine alla vita di due dei suoi figli maschi, 6 e 8 anni, e delle sue tre bambine di 1, 2 e 3 anni; e le modalità con cui è riuscita a farlo, salvo una «diceria», che riportano i cronisti, che possa aver tolto loro la vita avvelenandoli con dei farmaci, o almeno dopo averli storditi. Prima di andare alla stazione di Düsseldorf, dove secondo i suoi piani si sarebbe tolta la vita, la donna deve però avere chiamato la nonna dei bambini: è stata lei, che vive a Mönchengladbach, 60 km dalla famiglia, ad avvertire la polizia, ed è da lei che il figlio più grande, che era con la madre in stazione e ha presumibilmente assistito anche alla strage, è stato portato perché ne abbia cura.

Massimo M. Veronese per “il Giornale” il 4 settembre 2020. Nove volte su dieci a uccidere una bambino è la mamma. Non un assassino che viene dal buio, non qualcuno che non conosci, ma la donna che ti ha messo al mondo, che si è presa cura di te, che ti ama più della sua stessa vita. Sono le armi usate che fanno impressione, le cose di tutti i giorni trasformate in strumenti di morte. A Santa Caterina Valfurva a uccidere una bambina di otto mesi è stata la lavatrice. Mamma l'ha messa lì dentro e poi ha attivato il lavaggio, alla fine ha depositato il corpicino sul cestello come fosse un calzino da asciugare. A Vieste a soffocare due fratellini, uno di cinque, l'altro di un anno è stato il nastro adesivo incollato sulla bocca, a Parabiago a strangolare un bimbo di quattro è il cavo del cellulare. Francesca Sbano, trentunenne, di Carovigno, provincia di Brindisi, alla sua piccola di tre anni ha dato invece da bere del diserbante. Poi si è gettata dal secondo piano di casa, dove da due mesi viveva separata dal marito. Lascia un biglietto: «Benedetta la porto via con me». Al funerale le due bare sfilano insieme, i reni di mamma verranno donati per dare vita a un'altra vita. Daniela Falcone, 43 anni, cosentina di Rovito, ha sgozzato il piccolo con le forbici. Era andata a prenderlo a scuola, gli aveva promesso che lo avrebbe portato in montagna. L'annegamento è la scelta più tragica in questo campionario degli orrori. La vasca da bagno a Lecco, il piccolo aveva solo cinque anni, il pedalò a Grosseto, nelle acque della Feniglia. Mamma aveva già provato sei mesi prima a uccidere il pargolo quando aveva un anno. Alla seconda ce l'ha fatta. ComeMedea, eroina del mito greco che stermina i figli, sono centinaia le donne che negli ultimi quarant' anni hanno ucciso i propri bambini, quasi sempre subito dopo l'hanno fatta finita anche loro, vittime, prima che carnefici, della depressione, della rabbia, della voglia di vendetta nei confronti di un compagno. Nessuno ha dimenticato dopo quasi vent' anni l'omicidio di Samuele Lorenzi, tre anni, ucciso nel letto di mamma in una villetta di Cogne con un'arma mai identificata e mai trovata che gli ha fracassato la testa. Annamaria Franzoni ha sempre negato di essere l'assassina ma la giustizia, che l'ha condannata a 16 anni di carcere, non le ha mai creduto. Dall'aprile dell'anno scorso è una donna libera, nel 2003 ha messo al mondo il terzo dei suoi figli. Anche l'omicidio del piccolo Loris Stival, ritrovato in un canalone a pochi chilometri dalla scuola che frequentava, ha infiammato l'interesse popolare. Veronica Panarello, la mamma, aveva denunciato la sua scomparsa alcune ore prima. Un mese dopo viene arrestata per omicidio aggravato e occultamento di cadavere e condannata a 30 anni di galera. Anche lo scenario fa paura. Christine Rainer ha ucciso il suo bambino a coltellate: stava facendo colazione con pane e marmellata. Poi ha tentato il suicidio gettandosi da una finestra del commissariato. Giovanna Leonetti ha soffocato con un cuscino Marianna, sedici mesi, perchè il suo pianto non la faceva riposare. Ora è il silenzio, la notte, che non la fa più dormire.

Anziano in lacrime maltrattato da due dottoresse a Matera: l'Ordine dei medici le difende. Le Iene News il 21 agosto 2020. Il video di un anziano maltrattato da due dottoresse alla guardia medica è diventato virale, scatenando l’indignazione della rete e anche dell’assessore regionale alla Salute della Basilicata. Ma non quella dell’Ordine dei medici provinciale: “Si stavano attenendo a precise disposizioni”, ha commentato il presidente Severino Montemurro. “Le dottoresse si stavano attenendo a precise disposizioni sanitarie che vietano, ai medici della guardia medica, la prescrizione di ricette in caso di cure croniche”. E’ questa la giustificazione che ha trovato Severino Montemurro, presidente provinciale dell'Ordine dei medici, per il comportamento delle due dottoresse che hanno maltrattato un anziano che si è rivolto alla guardia medica di Villalongo a Matera. Il video è diventato virale ieri sui social, e mostra un anziano che si rivolge alla guardia medica a Matera per chiedere le medicine di cui aveva bisogno: da quello che si può capire dalle immagini, l’uomo aveva terminato le prescrizioni e il suo medico non c’era. A far discutere è stata però la reazione delle due dottoresse, che hanno trattato in modo davvero sgarbato l’anziano. Maltrattato a tal punto che si è messo a piangere, spiegando alle due donne che “sono solo, ho novant’anni”. Alla fine sembra di capire che l’anziano abbia comunque ricevuto quello di cui aveva bisogno, anche grazie all’intervento di un altro uomo che ha assistito alla scena e ne ha preso le difese. Dopo che il video è diventato virale, l’assessore regionale alla Salute della Basilicata Luigi Rocco Leone è intervenuto sui social: “In merito allo spiacevole episodio successo alla guardia medica di Villalongo a Matera dove un nonnino viene maltrattato da due medici che hanno probabilmente dimenticato la mission di tale professione, mi impegnerò affinché questi soggetti abbiano la punizione più severa possibile”. Una posizione che però non è condivisa dal presidente provinciale dell’ordine dei medici: “Sicuramente i toni e l'atteggiamento sono sindacabili ma è pur vero che le dottoresse si stavano attenendo a precise disposizioni sanitarie che vietano, ai medici della guardia medica, la prescrizione di ricette in caso di cure croniche”, ha spiegato. “E nonostante ciò le dottoresse in questione sono venute incontro alla richiesta del signore e gli hanno comunque rilasciato la ricetta, così come in altri antecedenti”.

Ma c’è di più, almeno secondo Severino Montemurro: “Dalle prime informazioni ricevute, siamo a conoscenza che le colleghe in questione erano sotto organico in quanto il terzo collega è stato messo in quarantena per essere stato in contatto, nella stessa struttura, con un paziente Covid-19 positivo e non è stato sostituito”. E, secondo quanto riporta lo stesso Montemurro, la struttura non sarebbe stata sanificata. Insomma la guardia medica era sotto organico e sotto stress, ma noi ci chiediamo: questo giustifica quel comportamento verso un anziano in difficoltà?

Da il "Corriere della Sera" il 19 agosto 2020. I medici che hanno cercato di rianimarlo sono rimasti turbati per quei lividi. Il corpo del piccolo Evan, 21 mesi, appariva segnato. Il sospetto si è acceso subito. Nel giro di meno di 24 ore la polizia ha fermato la madre del bambino e il convivente di lei. Quest' ultimo, secondo l'ipotesi degli investigatori, avrebbe picchiato brutalmente il piccolo mentre la mamma non lo avrebbe fermato. La tragedia è avvenuta lunedì mattina a Rosolini, un centro del Siracusano, in una palazzina delle case popolari. Nello stesso complesso dove tre anni fa si consumò un altro atroce fatto di cronaca, quando Laura Pirri, 32 anni, venne bruciata viva dal compagno, poi condannato all'ergastolo in primo grado. È stata Letizia Spatola, 23 anni, la mamma del bambino, a chiamare il 118. Poi la corsa disperata all'ospedale più vicino, a Modica, nel Ragusano. Ma lì, al pronto soccorso, il piccolo Evan è arrivato già in arresto cardiaco. I medici dell'ospedale Maggiore che hanno cercato di rianimarlo hanno notato i lividi sul collo, sul torace e sulla testa. La straziante scoperta ha spinto il direttore sanitario dell'ospedale Maggiore Piero Bonomo a dare subito disposizione di avvisare la polizia. E così gli uomini del commissariato di Modica, guidati dal vicequestore Corrado Empoli, hanno cercato di ricostruire quanto accaduto. La madre non avrebbe raccontato da principio di maltrattamenti al bambino. Ma i poliziotti hanno ricostruito un quadro di degrado ascoltando anche dei familiari. Già lunedì sera è scattato il fermo per Salvatore Blanco, 32 anni, convivente della donna. Non è lui il papà di Evan, che lavora fuori dalla Sicilia ed è separato dalla moglie. Ieri è stato disposto il fermo anche per la madre, che sarebbe rea, secondo la ricostruzione degli inquirenti, di non avere fermato la violenza del convivente sul figlio. Purtroppo, la tragedia sarebbe stata in qualche misura annunciata. Solo pochi giorni fa, infatti, i servizi sociali del Comune avevano preso in carico questa situazione familiare per una segnalazione, racconta al Corriere il sindaco di Rosolini Giuseppe Incatasciato. Ma il padre del bimbo avrebbe presentato a luglio in Liguria, dove lavora, un esposto per maltrattamenti contro ignoti per lesioni ai danni del figlio. La nonna paterna, infatti, aveva notato dei lividi che il piccolo aveva vicino all'orecchio, documentandoli con delle foto. «Il bambino era malridotto - dice Roberto Amore, compagno della nonna di Evan -. Avevamo parlato agli assistenti sociali, raccontando loro degli ematomi. Ci eravamo rivolti ad un avvocato perché la madre inventava tante scuse per giustificare quei segni. Da mesi ci battevamo, ora vogliamo la verità». Le indagini sono coordinate dalla Procura di Siracusa. I reati ipotizzati sono omicidio volontario in concorso, maltrattamenti e lesioni. L'uomo è stato portato in carcere a Siracusa, la donna a Messina. Nelle prossime ore dovrebbe essere disposta l'autopsia. Intanto, dolore e rabbia a Rosolini: «Rappresento la costernazione della città - commenta il sindaco -. È attonita e affranta».

Da "ilmessaggero.it" il 21 agosto 2020. Evan è morto a 21 mesi per le botte inferte dalla madre e dal compagno, solo il culmine di una serie di violenze perpetrate sul piccolo e che il padre del bambino, Stefano Lo Piccolo, aveva denunciato nei mesi precedenti. L'artigiano genovese di 26 anni aveva ricevuto da Salvatore Blanco, attuale compagno della madre di Evan, dei messaggi di minacce molto espliciti: «Se non togli la residenza da questa casa o mi denunci alle forze dell’ordine tuo figlio muore». A raccontarlo al commissariato di Modica, come scrive Il Secolo XIX, è stato lo stesso padre del bimbo, interrogato come persona informata sui fatti. «Quell’uomo minacciava me o mio figlio in continuazione. Ho vissuto mesi da incubo. Ero terrorizzato da lui», ha aggiunto Lo Piccolo parlando del compagno di Letizia Spatola. Le minacce avvenivano tramite sms inviati dal telefono della donna e che ora sono nelle mani degli inquirenti. Ad aprile, una minaccia che oggi suona tristemente profetica, in risposta alla richiesta del padre di poter vedere il figlio: «Se non togli la residenza, muore». Oggi lutto cittadino oggi a Rosolini, nel Siracusano, dove il piccolo Evan ha vissuto per 21 mesi prima di spegnersi all'ospedale di Modica. Le esequie saranno celebrate nel pomeriggio, alle 16, nella chiesa del Crocifisso, dove un'intera comunità si stringerà al padre del bambino per un ultimo commosso saluto. Per l'omicidio di Evan, morto a causa di un trauma cranico in base alle prime indicazioni fornite dall'autopsia, sono in stato di fermo la madre e il compagno della donna. L'uomo è accusato di avere picchiato il bimbo e di averne causato la morte, la donna di avere taciuto le violenze subite da lei e dal piccolo. Stamani davanti al gip di Ragusa si terrà l'interrogatorio di garanzia: le accuse dalle quali i due dovranno difendersi sono omicidio volontario in concorso, lesioni e maltrattamenti in famiglia. Nel pomeriggio, intanto, è previsto un sopralluogo degli investigatori nell'alloggio popolare di Rosolini dove il piccolo Evan viveva insieme alla madre e al compagno di quest'ultima. 

Siracusa, la mamma di Evan era già indagata per maltrattamenti. La procura aveva aperto un fascicolo sulla donna a luglio dopo il referto dei sanitari che avevano visitato il piccolo morto il 17 agosto. Giorgio Ruta il 25 agosto 2020 su La Repubblica. La mamma del piccolo Evan era già indagata per maltrattamenti. La procura di Siracusa aveva aperto un fascicolo su Letizia Spatola dopo che il bimbo a inizio luglio era finito al pronto soccorso di Noto con una frattura alla clavicola sinistra. I medici hanno mandato il referto ai carabinieri di Rosolini che hanno avviato un’indagine sulla donna. Ma l’inchiesta non è riuscita a impedire l’uccisione del bambino, morto il 17 agosto. Spatola, infatti, è stata arrestata insieme al nuovo compagno Salvatore Blanco con l’accusa di omicidio volontario e maltrattamenti. Secondo gli investigatori l’uomo avrebbe picchiato il bambino, causandone il decesso il 17 agosto, mentre la mamma non si sarebbe opposta. Intanto, filtrano indiscrezioni sul sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nella casa di Rosolini dove il bimbo viveva con la mamma e il compagno. Gli agenti, con il luminol, hanno individuato delle tracce di sangue sul cuscino della culla, cuscino che non era ricoperto dalla fodera: qualcuno l’ha nascosta o non era stata messa? "Vogliamo anche sapere cosa hanno fatto i medici che hanno visitato più volte il bambino » , osserva Antonino Savarino, l’avvocato della nonna di Evan, Elisa Congiu. I referti dei sanitari sono racconti dell’orrore. Il 27 maggio il bimbo arriva in ospedale con una frattura scomposta del femore destro con tumefazioni dell’anca e del ginocchio destro. Il 12 giugno i medici lo curano per una ferita infetta. Il 6 luglio Evan ha una frattura della clavicola sinistra. Negli ultimi due episodi la mamma si è allontanata volontariamente dal pronto soccorso. « Non abbiamo ancora parlato di questo aspetto, le chiederò perché è andata via», assicura il legale di Spatola, Natale Di Stefano. Qualcosa di strano c’era in quel bambino fragile e in quella madre in fuga. La segnalazione, però, sarebbe partita soltanto dopo l’ultimo referto, quello di luglio. Avvertiti dall’ospedale di Noto, i carabinieri di Rosolini hanno acquisito i documenti medici e hanno informato la procura di Siracusa che ha iscritto nel registro degli indagati Spatola. « Quella di Evan era una tragedia evitabile. Non sappiamo se qualcuno si è mosso, ma non è servito per prevenire la fine del bimbo » , continua a ripetere Federica Tartara, la legale che assiste il padre della vittima, Stefano Lo Piccolo. Anche su questo aspetto, sulla macchina inceppata, la procura di Siracusa, guidata da Sabrina Gambino, ha accesso i riflettori, acquisendo gli atti firmati dai servizi sociali di Rosolini. « Gli uffici avevano preso in carico il caso», ha detto subito dopo la morte il sindaco del comune siracusano Giuseppe Incatasciato. E in effetti è così. È successo in inverno: dopo che Letizia Spatola ha sferrato una coltellata a Stefano Lo Piccolo, la procura dei Minori di Catania ha chiesto una relazione ai servizi sociali che hanno risposto con un report che viene definito, da chi l’ha letto, « rassicurante » sulle condizioni del nucleo familiare. Ma di rassicurante c’era ben poco, mettendo in fila gli elementi raccolti dagli investigatori del commissariato di Modica. La notte prima della morte avvenuta il 17 agosto, Evan avrebbe dormito, per qualche ora, insieme a Blanco. La mattina, ha raccontato la mamma, il bimbo tremava e sbavava. Il piccolo aveva la febbre dal giorno prima e un occhio nero da tre. Il 16 agosto, ha raccontato l’uomo, Evan era caduto dal letto, sbattendo lo zigomo mentre era solo a casa. Per gli inquirenti sarebbe soltanto una scusa, come quelle date per giustificare la frattura alla gamba destra del bambino: « Era iperattivo, sbatteva sui mobili».

La madre di Evan era indagata già a luglio per maltrattamenti. Evan, il bimbo picchiato a morte a Modica, sarebbe già stato vittime di maltrattamenti da parte della mamma. La procura di Siracusa aveva già avviato un'indagine a carico della donna lo scorso luglio. Rosa Scognamiglio, Martedì 25/08/2020 su Il Giornale. Non c'è pace per il piccolo Evan, il bimbo di soli 21 mesi picchiato a morte dal patrigno lo scorso 18 agosto, in un appartamento di Rosolini, piccolo centro del Siracusano. La mamma, Letizia Spatola, indagata per omicidio volontario in concorso con il compagno Salvatore Blanco, pare fosse stata già segnalata alla Procura per precedenti maltrattamenti sul figlio.

Evan era finito in ospedale già 3 volte. Un calvario, quello del bimbo, che potrebbe aver avuto inizio molto tempo prima della sera in cui il nuovo compagno della madre lo ha malmenato fino a spezzargli il fiato. Letizia Spatola, 23 anni, in stato di fermo per la morte del figlio, non sarebbe nuova alle autorità. Stando a quanto rifesce l'agenzia stampa LaPresse, la donna sarebbe già stata attenzionata alla giustizia per maltrattamenti sul minore. L'indiscrezione fa riferimento ad un provvedimento emesso dal gip di Ragusa, poi successivamente trasmesso alla procura di Siracusa, a seguito di una segnalazione ricevuta dai medici dell'ospedale di Noto. Nello specifico, l'indagine a carico della 23enne farebbe testo a ben 3 sospetti episodi violenti antecedenti alla circostanza specifica del decesso di Evan. Il primo risalirebbe al 27 maggio, quando il piccolo era stato portato in ospedale con una frattura scomposta del femore destro, tumefazioni all’anca e al ginocchio destro. Il secondo, pochi giorni dopo, il 12 giugno, quando i medici lo avevano curato per una ferita infetta. L'ultima volta, a maggio, Evan era giunto al pronto soccorso dell'ospedale di Noto per una frattura alla clavicola sinistra. La Spatola aveva raccontato che il bimbo era caduto mentre giocava ma il medico di turno non le aveva creduto preferendo, come da prassi in questi casi, segnalare l'accaduto alla polizia. Da lì, l'esposto in Procura e l'apertura di un'indagine per maltrattamenti. "Non eravamo a conoscenza della indagine per maltrattamenti in famiglia a carico di Letizia Spatola", afferma il legale della Spatola assicurando di chiarire la vicenda.

Tracce di sangue sul cuscino. Intanto, procedono gli accertamenti sulla dinamica di quel maledetto 18 agosto. Stando a quanto si apprende da Tgcom24, gli investigatori hanno effettuato un sopralluogo nell'appartamento della coppia, a Rosolini, nel Siracusano, rivenendo tracce ematiche su un cuscino in camera da letto. Spetterà ora alla scientifica esaminare il reperto e stabilire se appartenga o meno ad Evan.

"La mamma estranea ai fatti''. Sono ancora tanti gli aspetti da chiarire sul dramma che ha travolto il piccolo di 21 mesi. Secondo una prima ricostruzione dell'accaduto, il bimbo sarebbe stato percosso in maniera brutale da Salvatore Blanco, 32 anni, in stato di fermo dal 18 agosto per i reati ipotizzati di omicidio volontario in concorso, maltrattamenti e lesioni. Sott'accusa anche la madre di Evan che avrebbe assistito alle botte senza intervenire. "Tra domani e dopodomani con la mia assistita valuteremo l'opportunità di impugnare la decisione del gip sulla misura cautelare con una istanza al tribunale del riesame", rivela l'avvocato Natale Di Stefano. Intanto, la sua assistita continua a proclamarsi innocente rigettando ''di netto'' le accuse che le sono state rivolte. "Nega di avere in qualche modo concorso ai maltrattamenti, sostiene che sono avvenuti in sua assenza e di essere stata manipolata dal convivente. Si rimprovera di avere creduto a quanto le raccontava il nuovo compagno. Anche lei è una vittima- spiega il legale - Quando si è presentata in carcere anche lei era piena di lividi e si è fatta refertare". La donna era seguita dai servizi sociali. "La mia assistita mi ha detto che facevano delle visite a casa, ma Letizia viveva una situazione di difficoltà in famiglia". 

Bimbo di Modica ucciso di botte. Le denunce inascoltate del padre: "Non parlava e aveva i lividi in viso". Pubblicato mercoledì, 19 agosto 2020 da Marco Lignana e Giorgio Ruta su La Repubblica.it. Il piccolo Evan, un anno e otto mesi, è morto lunedì per le percosse. Fermati la madre e il suo nuovo compagno. Il padre il 6 agosto aveva presentato un esposto: "Da tempo non riesco ad avere contatti con mio figlio. E' indietro nello sviluppo rispetto alla sua età e nelle foto ha il volto tumefatto. Sospetto che sia vittima di violenze in famiglia". Adesso non può fare altro che sfogarsi, esprimere rabbia e dolore: “Sono stato abbandonato, siamo stati abbandonati. Con chi me la prendo? Con chi non ha fatto nulla, nonostante avessimo capito”. Perché Stefano Lo Piccolo, il padre di Evan, il bambino di un anno e otto mesi morto a Rosolini, dramma per il quale sono stati fermati la madre del piccolo, Letizia Spatola, e il suo compagno Salvatore Blanco, aveva già preso carta e penna pochi giorni fa. Con parole drammaticamente profetiche aveva scritto: “Ho appreso da mia madre che mio figlio, con il quale da tempo non riesco a parlare, nonostante abbia ad oggi più di un anno e mezzo risulta particolarmente ‘indietro’ rispetto ai suoi coetanei. Non parla, ma soprattutto non cammina. Ho anche ricevuto delle fotografie, dove si nota chiaramente come il piccolo abbia il viso tumefatto, coperto da diversi lividi. Ho il timore sia vittima di violenza all’interno del nucleo familiare”. Sono sospetti tremendi, messi nero su bianco nell’esposto presentato appena il 6 agosto scorso alla Procura di Genova dalla legale di Lo Piccolo, Federica Tartara. Sono accuse di un padre disperato, lontano centinaia di chilometri dal figlio (vive e lavora nel capoluogo ligure) che pure in Sicilia, diverso tempo fa, attraverso la madre e nonna di Evan aveva fatto le segnalazioni del caso ai servizi sociali. Soprattutto per questo, adesso, Lo Piccolo si sfoga. Aveva capito da tempo, dice lui, ma nessuno ha fatto nulla. Lo stesso Lo Piccolo nell’esposto spiega come “non sono in possesso di elementi probatori e non è mia intenzione formulare delle accuse nei confronti di un soggetto specifico, ritengo però doveroso approfondire la situazione. Alla luce delle circostanze sovra descritte e delle difficoltà connesse alla lontananza e alla impossibilità di fare rientro in Sicilia per motivi economici, mi sono visto costretto a ricorrere a questa Procura pregando la stessa di effettuare le indagini ritenute opportune al fine di verificare, anche tramite l’intervento del Tribunale per i Minorenni, se all’interno della abitazione ove vive mio figlio siano occorsi episodi di violenza”. Insomma Lo Piccolo e il suo avvocato hanno presentato la denuncia ai magistrati genovesi sapendo che poi il fascicolo sarebbe stato immediatamente trasmesso in Sicilia, per competenza. Ma “non ci potevamo immaginare – spiega la legale Tartara – che la situazione fosse così grave, che fossimo già sull’orlo del baratro”. I tempi, in effetti, sono strettissimi, fra la ricezione dell’esposto a Genova, l’arrivo sulla scrivania del pm di turno, la trasmissione degli atti in Sicilia. Senza, come specificato nell’esposto, informative o elementi raccolti dalle forze dell’ordine. C’erano però le parole di un padre ad accompagnare le fotografie che ritraggono un bambino con lividi vicino all’orecchio. Un padre che aveva capito quel che stava succedendo al suo bambino. Tanto che c’erano state, diverso tempo fa, quelle segnalazioni ai servizi sociali. Sulle quali, ora, bisognerà fare chiarezza.

Fabio Albanese per “la Stampa” il 21 agosto 2020. La procura di Genova dice di avere spedito ai colleghi di Siracusa l'esposto del papà di Evan agli inizi di agosto. La procura di Siracusa assicura di non avere mai ricevuto nulla. I Servizi sociali di Rosolini avevano preso in carico la vicenda del bambino ma non avevano ancora inviato un rapporto. Per tre volte, il 27 maggio, il 12 giugno e il 6 luglio, Evan era finito in ospedale per lividi, bruciature e perfino per una frattura; in almeno una di queste occasioni l'ospedale Trigona di Noto aveva avvertito i Servizi sociali del comune di residenza del bimbo, Rosolini, ma le azioni conseguenti sono «oggetto di verifica», come dicono i pm. Nella triste e terribile storia di Evan Lo Piccolo, 21 mesi, morto lunedì scorso al suo arrivo all'ospedale Maggiore di Modica e per il quale la madre e il suo nuovo compagno sono in stato di fermo per i reati di maltrattamenti in famiglia e omicidio in concorso, ci sono molti tasselli ancora fuori posto: «Stiamo facendo accertamenti su tutti i profili possibili», dice il procuratore di Siracusa Sabrina Gambino che, con l'aggiunto Fabio Scavone e la pm Donata Costa, guida l'inchiesta. Dalla serie di punti ancora da chiarire emerge una sottovalutazione del rischio a cui il bimbo era esposto da quando la madre, Letizia Spatola, 23 anni, aveva iniziato una nuova relazione, quella con Salvatore Blanco, 32 anni. Da quel momento nella loro casa di edilizia popolare alla periferia di Rosolini, a sud di Siracusa, le botte erano una costante. Non solo al bambino ma anche alla madre, come lei stessa ha raccontato ai pm la notte in cui è stata fermata. Risparmiato solo l'altro suo figlio, 6 anni, avuto da una precedente relazione. Nessuno, almeno ufficialmente, sapeva. Lei, ogni volta che i nonni di Evan chiedevano perché il bambino aveva quei lividi addosso, diceva che era caduto, che aveva sbattuto su un mobile giocando, scuse con cui copriva il compagno, «temuto e del quale era succube» come hanno spiegato gli investigatori. La donna, seppure il fermo sia per gli stessi reati del compagno, è accusata di non «essersi attivata per impedire» all'uomo di picchiare il bambino. Ma in quella casa, e ancora prima che il 6 agosto l'avvocato di Stefano Lo Piccolo consegnasse alla procura di Genova l'esposto e le foto di Evan con il volto tumefatto ricevute dalla nonna del bimbo, i servizi sociali del comune di Rosolini erano già entrati. Senza però che un allarme scattasse. «Avevano in carico il caso ma non dico altro per rispettare il segreto istruttorio, lasciamo fare il lavoro a chi lo deve fare», si arrocca il sindaco del paese, Pippo Incatasciato. Ai servizi sociali, che con il sindaco hanno avuto un confronto nelle ultime ore, dicono seccati «non possiamo parlare». E' evidente che in Comune ci sia imbarazzo per una vicenda che forse avrebbe potuto avere una diversa attenzione. E poi c'è l'esposto presentato dal padre di Evan alla procura di Genova, finora mai arrivato a Siracusa: «Né qui né alla procura dei minorenni», precisa il procuratore Gambino che riferisce anche un particolare: «Genova ha iscritto l'esposto a modello K, cioè fatto non costituente reato» e sottolinea come si tratti di «un esposto generico». Nemmeno la nonna - che i lividi li aveva visti, fotografati e riferiti al figlio - «ha mai pensato di rivolgersi a noi o alla polizia». Da Genova confermano di «avere inviato le carte a Siracusa il 7 agosto». Dove siano, adesso, queste carte, è dunque un mistero. Ieri, nell'obitorio dell'ospedale Maggiore di Modica, il medico legale Maria Francesca Berlich ha compiuto l'autopsia sul cadavere del bimbo e ha accertato numerosi traumi al cranio. Il rapporto con le esatte cause del decesso dovrà essere depositato 60 giorni.

Tommaso Fregatti per “la Stampa” il 21 agosto 2020. Sette mesi di maltrattamenti e angherie con fratture, tumefazioni all'anca e al ginocchio e perfino «il taglio di una parte dell'orecchio», tre referti medici che certificano violenze indicibili e la madre che «per due volte porta il suo bimbo bisognoso di cure al pronto soccorso di Noto e poi si allontana dall'ospedale». Di fatto abbandonandolo. Sono inquietanti le carte d'inchiesta sulla morte di Evan Giulio Lo Piccolo, il bambino di un anno ucciso a botte dalla madre Letizia Spatola e dal compagno Salvatore Blanco. Carte che, oltre a raccontare come il piccolo abbia vissuto un incubo lungo sette mesi, evidenziano come in molti (a cominciare dal personale sanitario che lo aveva avuto in cura) fossero a conoscenza di violenze e soprusi ma nulla abbiano fatto per impedire che i maltrattamenti continuassero. Il sostituto procuratore Donata Costa che coordina l'inchiesta nei capi d'imputazione, messi nero su bianco per eseguire l'autopsia, parla di «reiterate aggressioni fisiche» che madre e compagno avrebbero inferto al piccolo Evan. «Maltrattato più volte» Ma non solo. Allega tre referti ospedalieri che potrebbero rilevarsi molto importanti per lo sviluppo dell'inchiesta. Il pm evidenzia come la mamma Letizia e il suo nuovo compagno «lo abbiano maltrattato provocandogli in più occasioni lesioni personali anche gravi». E in particolare viene citato il referto del 27 maggio 2020 quando il piccolo Evan arriva all'ospedale di Noto «con la frattura scomposta del femore destro, con tumefazioni all'anca e al ginocchio». Il 12 giugno, esattamente quindici giorni dopo, la madre riporta il piccolo in ospedale. Perché Evan non è stato curato come si dovrebbe e le ferite si sono infettate. E però, invece, che stare vicino al suo piccolo di un anno - viene messo nero su bianco nel referto - la madre «si allontana volontariamente dal pronto soccorso». Una circostanza che si ripete nel terzo accesso in ospedale. Siamo al 6 giugno - due mesi e dieci giorni prima della morte del piccolo - e questa volta i medici gli diagnosticano «la frattura della clavicola sinistra». Ma annotano ancora una volta come la madre lasci il piccolo il ospedale «e si allontani volontariamente dallo stesso». E poi, non refertate ma documentate dalla Procura - tanto da essere inserite nel capo d'imputazione per maltrattamenti in famiglia in concorso, ci sono altre violenze choc. Anche ustioni alle mani. Tra queste «un'ustione alla mano destra, un taglio posteriore dell'orecchio, due tagli in regione frontale con copiosa fuoriuscita di sangue, una botta alla fronte, una ferita lacero contusa all'occhio destro e, da ultimo, un trauma cranico in conseguenza del quale il bambino decedeva». Nel capo d'imputazione il pm evidenzia come queste violenze non siano estemporanee come, invece, si era creduto in un primo momento. Ma sono state «reiterate nel tempo». Il magistrato che coordina l'inchiesta ipotizza un inizio «a febbraio 2020» e una fine «il 17 agosto» quando il piccolo Evan muore. È possibile che in sette mesi nessuno tra medici, carabinieri, polizia e servizi sociali si sia accorto delle angherie che subiva il piccolo nonostante le segnalazioni di nonni e papà da Genova? «È incredibile - dice il padre Salvatore Lo Piccolo assistito dall'avvocato Federica Tartara - che mio figlio sia morto in questo modo. Vogliamo giustizia per quello che è successo». - 

Salvo Toscano per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2020. Il calvario del piccolo Evan Giulio è un rosario di ricoveri, referti, lesioni. Tutti incidenti domestici, raccontava la madre, Letizia Spatola, ai sanitari. A luglio però, un mese prima che il bambino di 21 mesi di Rosolini (Siracusa) finisse in arresto cardiaco al pronto soccorso dell'ospedale di Modica pieno di lividi, un medico non ci aveva visto chiaro. Il piccolo era arrivato all'ospedale di Noto con una frattura alla clavicola. I sanitari avevano avvisato le autorità, la vicenda era stata resa nota alla Procura di Siracusa e ai carabinieri di Rosolini e la madre era stata indagata. Un altro tassello che fa pensare che la morte del bambino sia stata in qualche modo una tragedia annunciata. Proprio come denuncia il padre, Stefano Lo Piccolo, tornato ieri a Genova. Dove a fine luglio aveva presentato un esposto ai pm in cui paventava la possibilità che suo figlio fosse vittima di maltrattamenti. Un esposto protocollato ai primi di agosto e arrivato alla Procura di Siracusa qualche giorno dopo la morte del bambino, per la quale la madre e il suo convivente, Salvatore Blanco, 32 anni, sono stati arrestati. Lei è accusata di non aver fermato la violenza di lui. Nel provvedimento che conferma il fermo dei due, il gip ricostruisce il calvario del bambino, finito più volte in ospedale in precedenza: la frattura di un femore prima, poi una ferita infetta, poi la frattura della clavicola. La famiglia del padre, che aveva difficoltà a vedere il bambino come racconta l'avvocato Antonino Savarino, aveva fiutato qualcosa, da qui l'esposto. Non credevano alle giustificazioni della madre, che, riferisce il suo avvocato Natale Di Stefano, sostiene che le violenze del convivente avessero luogo in sua assenza e che solo una volta Evan era stato picchiato sotto i suoi occhi. Oggi la nonna paterna, che aveva allertato il figlio dopo aver notato un livido sul corpo del bambino, sarà sentita dagli inquirenti come persona informata dei fatti. Il caso era finito anche all'attenzione dei servizi sociali di Rosolini, dopo che la madre aveva aggredito il padre del piccolo. Insomma, i campanelli d'allarme c'erano stati eccome. Ma non hanno evitato la morte di un bambino, determinata secondo l'autopsia da un grave trauma cranico. Un incidente, ha sostenuto Blanco. Gli inquirenti non gli credono e vogliono capire adesso se quella tragedia poteva e doveva essere evitata.

Fabio Albanese per "la Stampa" il 26 agosto 2020. I servizi sociali, i medici del pronto soccorso, le famiglie, il pediatra. La mamma finita nel mirino dei pm già prima di quel terribile 17 agosto. E quell'esposto partito da Genova nelle stesse ore in cui Evan moriva. Ogni giorno che passa, l'elenco di elementi su cui fare luce per la morte di Evan Lo Piccolo, 21 mesi, vittima delle stesse persone che avrebbero dovuto prendersi cura di lui, si allunga. Una sequenza di silenzi, sottovalutazioni, burocrazia, che la procura di Siracusa sta man mano valutando per capire e per dare un po' di giustizia a un bimbo indifeso su cui sembra essersi abbattuta un'enorme quantità di circostanze sfavorevoli. Ieri si è saputo che la mamma di Evan, Letizia Spatola, 23 anni - in carcere assieme al nuovo compagno Salvatore Blanco, 32, per maltrattamenti in famiglia e omicidio in concorso - era già finita a metà luglio nel registro degli indagati, dopo che i medici del pronto soccorso dell'ospedale Trigona di Noto avevano segnalato ai carabinieri un caso sospetto: Evan, era il 6 luglio, aveva la frattura della clavicola sinistra. Era la terza volta che il bambino veniva portato al pronto soccorso; la prima era stata il 27 maggio, «frattura scomposta del femore destro con tumefazioni all'anca e al ginocchio»; poi di nuovo il 12 giugno, per alcune ferite infettate. La segnalazione del 6 luglio sottolineava un singolare comportamento della donna, già notato in giugno: portava il bimbo in ospedale e si allontanava. «All'inizio conoscevamo solo lei, non era ancora chiaro chi vivesse con la signora e il bambino», dice ora il procuratore di Siracusa Sabrina Gambino che con l'aggiunto Fabio Scavone e la pm Donata Costa conduce le indagini. In quella casa, in un edificio di edilizia popolare alla periferia di Rosolini, con Letizia e Evan c'era anche il figlio più grande di lei, 6 anni, il nuovo compagno, Salvo Blanco e, si è appreso adesso, pure il padre della donna. Eppure, nella sua autodifesa davanti al gip di Ragusa, la mamma di Evan ha sostenuto di non sapere che il compagno picchiasse il figlio, sebbene abbia poi detto di essere stata lei stessa vittima delle botte. Nessuno in quella casa si sarebbe mai accorto che Evan rischiava la vita ogni giorno di più. E anche la nonna materna Elisa Congiu che, dicono gli investigatori, «poteva vedere il bambino quando voleva», aveva esitato ad informare a Genova il papà di Evan, Stefano Lo Piccolo, se è vero che solo ai primi di agosto la donna mandò al figlio le foto del bimbo con il volto tumefatto scattate in maggio. L'uomo quelle foto le allegò all'esposto presentato alla procura di Genova il 6 agosto e preso in carico il 7. «Un esposto generico - ripete però il procuratore di Siracusa Gambino - che sinceramente non avrebbe cambiato la situazione». L'esposto è arrivato alla procura di Siracusa solo il 21 agosto. Era stato inviato per posta il 14 e, complice il Ferragosto, era realmente partito il 17, il giorno in cui Evan arrivava in fin di vita all'ospedale Maggiore di Modica. L'autopsia ha accertato che Evan è morto per un trauma encefalico, senza alcun segno esteriore nel cranio, e ieri la procura ha nominato un perito traumatologo per capire cosa possa essere accaduto, se la morte è arrivata ad esempio per un forte scuotimento. Al momento, nell'inchiesta gli unici due indagati restano la mamma di Evan e il compagno. Ma il lavoro dei pm è «su diversi profili». E dunque bisognerà capire come mai i Servizi sociali di Rosolini, che avevano in carico la situazione di quella casa già dalla metà dello scorso dicembre, non abbiano lanciato l'allarme, o perché il pediatra abbia detto ai carabinieri che sia Evan sia il fratellino erano «in condizioni ottimali e molto curati». 

Il racconto shock dalla setta: "Una botola nell'armadio del dottore: così entrai nella setta del sesso". Anna è la prima ad aver denunciato la setta psicologica di Novara, scoperchiando un'organizzazione criminale tutt'ora attiva, coinvolta in reati sessuali. Francesca Galici, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Emergono nuovi e inquietanti dettagli sulla setta psicologica scoperta a Novara, attiva già da circa 30 anni. Anna ora è maggiorenne ed è la super testimone che ha denunciato e che ha dato il via alle indagini. È rimasta per ben 16 anni all'interno di quell'ambiente, dove è stata introdotta all'età di 8 anni da uno zio che già la frequentava. Per lei, ancora bambina, era un mondo magico e incantato, nascosto dietro una botola all'interno di un armadio. Era un vero passaggio segreto che la conduceva in una realtà parallela dove tutto era perfetto, colorato e apparentemente a misura di bambina. Adesso, non senza difficoltà, Anna è riuscita a ricostruirsi una vita e a lasciarsi alle spalle quell'esperienza così traumatica ma non tutti hanno avuto e hanno la sua forza. L'ingresso tra "le bestie", come si definivano gli adepti della psicosetta di Novara è avvenuto per lei in età infantile ed è allora che ha conosciuto "Lui", o "Il Dottore", l'uomo che ha dato vita a tutto e che manovrava con i suoi fili le vite di tutte le sue vittime. Era vietato fare il suo nome, che tutt'oggi non è stato ancora rivelato alla stampa, ma era lui a decidere qualunque aspetto della vita di chi aderiva alla setta, dalle frequentazioni al lavoro. Si sa che ora ha 77 anni e vive a Cerano, in provincia di Novara, in una sontuosa villa. Pare sia laureato e abbia a lungo lavorato il una parafarmacia ma non lo si vede molto in giro e quando esce lo fa con un inseparabile bastone, sempre col sorriso sulle labbra. La Squadra mobile di Novara ha finora individuato e indagato 30 persone, perché probabilmente responsabili di reati sessuali anche nei confronti di minori, oltre che di riduzione in schiavitù. Accuse molto pesanti per il 77enne e per gli altri membri responsabili, attualmente denunciati a piede libero. "Lui ti lascia frequentare i 'luoghi fatati', altrimenti ti punisce", avrebbe detto Anna. Non ci sono ancora numeri certi ma le forze dell'ordine hanno individuato circa 50 prescelte, ossia le sue vittime, anche se il numero potrebbe aumentare. I luoghi di reclutamento erano i più vari, dalla scuola di danza all'erboristeria, passando per le botteghe artigiane. C'erano anche alcune psicologhe coinvolte all'interno della setta, che da vittime si erano col tempo trasformate in carnefici, che indottrinavano le nuove prescelte al mondo idealizzato da "Lui", l'unico giusto e contrapposto a quello reale, che invece veniva ritenuto sbagliato. Per entrare nella setta era necessario sottoporsi a pratiche "magiche", spesso anche sessuali, "estreme e dolorose, vere e proprie torture", spiegano gli inquirenti. L'obiettivo, stando a quanto dicevano dalla setta, era di eliminare "l'io pensante e accendere il fuoco interiore". La testimonianza di Anna è stata fondamentale ma ci sono voluti due anni agli inquirenti per raccogliere abbastanza prove per smascherare questo sistema, definito "un'organizzazione criminale impenetrabile tuttora attiva". Dopo Anna, altre due vittime hanno trovato il coraggio di denunciare la setta. Le indagini sono in corso e gli inquirenti sono ora all'opera per analizzare il materiale sequestrato durante l'operazione della scorsa notte a Novara, Pavia, Milano e Genova. Dal 2010 sembra non ci siano stati coinvolgimenti di minori all'interno della setta e l'invito che rivolgono gli investigatori è di collaborare.

Giampiero Maggio per lastampa.it il 21 luglio 2020. A decidere tutto, comprese le sorti delle ragazze, alcune delle quali addirittura bambine, era il “dottore”. Il “dottore”, come lo chiamavano tutte, è un uomo di 77 anni a capo della psicosetta scoperta dalla polizia al termine di un’inchiesta coordinata dalla procura di Torino e partita grazie al racconto confessione di una delle vittime di abusi e angherie, una bambina quasi adolescente ridotta a schiava del sesso. Ecco uno dei passaggi del racconto testimonianza choc della vittima: «Lui decide tutto, lui decide chi puoi frequentare, dove puoi lavorare. Lui sceglie quali ragazze devono farlo divertire. Lui sceglie se puoi o non puoi frequentare i nostri "luoghi fatati". Lui è Lui . Noi lo chiamiamo "Lui" o "il Dottore", perché non possiamo nominare il suo nome, non ci è concesso». 

L’indagine. È il suo racconto che ha portato la polizia di Novara e il Servizio Centrale Operativo della polizia, con la collaborazione della Squadra Mobile di Torino, sulle tracce dell’organizzazione, fino all'esecuzione, domenica 19 luglio, di 26 perquisizioni personali e 21 perquisizioni locali e a numerosi sequestri, nelle province di Novara, Milano e Pavia. Un’attività di indagine assai delicata che ha consentito di accertare l’esistenza di una potente "psicosetta", con base operativa nella provincia di Novara e diramazioni a Milano e nel pavese, i cui adepti si sarebbero resi responsabili di numerosi e gravi reati in ambito sessuale, anche in danno di minori e finalizzata alla riduzione in schiavitù.  

Il dottore. "Lui", oggi 77enne, denominato “il Dottore” viene venerato dai suoi adepti come una sorta di “Dio” al quale tutti devono pedissequamente obbedire, pena l'isolamento dal gruppo settario. Le articolate indagini, durate oltre due anni, hanno permesso di accertare che il leader della setta delle "bestie" (questo è il nomignolo con il quale si chiamavano tra di loro), al fine di raggiungere i propri scopi, veniva coadiuvato  da alcune sue strette collaboratrici, meglio definibili delle vere e proprie aguzzine. Il gruppo criminale, grazie ad un centro psicologico ed una fitta rete di attività commerciali, tutte riconducibili alla setta – come due scuole di danza o una scuola di “Spada Celtica”, diverse erboristerie, una bottega di artigianato, e persino una casa editrice – riusciva a reclutare le ignare vittime da introdurre inconsapevolmente nelle dinamiche settarie. Le “prescelte”, generalmente giovani ragazze, anche adolescenti o addirittura bambine, venivano introdotte alla filosofia della setta ed iniziate a “pratiche magiche”, tra le quali, soprattutto, si annoveravano delle pratiche sessuali, spesso estreme e dolorose, vere e proprie torture, che servivano, nella logica impartita dal leader , ad annullare “l’io pensante”, “accendere il fuoco interiore” ed entrare in un “mondo magico, fantastico e segretissimo”. 

Isolare dal mondo esterno le vittime. La setta finiva così per assorbire ogni aspetto della vita delle adepte, sia per quanto riguarda il loro ambito personale che familiare, e persino la loro formazione. In pratica, così come accaduto per le vittime finora accertate, o i membri della famiglia venivano inglobati nella setta e indotti a sottostare alle volontà del "Dottore", oppure si imponeva alle adepte di tagliare ogni tipo rapporto con loro. Il “Dottore” decideva l’indirizzo di studi, i corsi formativi o il lavoro che le ragazze dovevano effettuare, quasi sempre presso le attività commerciali legate all'organizzazione con il subdolo fine di vincolarle indissolubilmente al gruppo settario. Tutto questo determinava un vero e proprio isolamento dal mondo esterno che privava le adepte di ogni punto di riferimento, rendendole totalmente dipendenti dalla setta la quale, sebbene dannosa, costituiva a quel punto l’unico sostegno sia economico che morale. Dal racconto della denunciante è emerso che la setta aveva avuto origine a metà degli anni 80 dalla fusione di due gruppi paralleli, la cui sede principale è collocata nella provincia di Novara, il luogo dove dimora abitualmente “il Dottore”, e nel quale sono avvenuti i fatti-reato di maggiore rilevanza. Il "Dottore", anche dalla sua dimora, era così  in grado di gestire, in maniera capillare, ogni movimento delle adepte, indipendentemente dalla loro collocazione sul territorio. L'attività d'indagine ha infatti permesso di verificare che "Lui", anche quando le stesse si trovavano nei numerosi appartamenti e locali riconducibili alla setta, prevalentemente siti nel milanese o nel pavese, proprio  grazie alle sue fedelissime, era in grado di impartire le direttive da osservare in maniera imperativa. 

L’organizzazione attiva da 30 anni. Nei circa 30 anni di attività della setta hanno partecipato ed hanno fatto parte di essa, a vario titolo e con vari ruoli, un numero di persone ancora non compiutamente quantificabile, ma certamente elevato. Ulteriori accertamenti sono stati svolti anche sugli aspetti economici, sia per quanto riguarda le attività commerciali legate all’organizzazione, sia in ordine ai versamenti di denaro ai quali erano tenuti i  membri, che erano particolarmente esosi nel caso di condizioni economiche agiate. Spesso, pertanto, i nuovi membri venivano opportunamente scelti fra persone facoltose. 

Psicologhe e adepte. Nessuno poteva ritenersi immune dal pericolo di immissione nell’organizzazione; anche ragazze dal livello culturale molto elevato ed apparentemente esenti da condizionamenti esterni, rischiavano di essere annesse alla setta qualora individuate come “prede”. Questo perché l’organizzazione si serviva di  psicologhe professioniste, a loro volta adepte, le quali, facendo leva su uno stato di fragilità emotiva delle "prede" , anche solo momentaneo, intraprendevano l’opera di indottrinamento ed inclusione, secondo un preciso e dettagliato “schema”: le neofite venivano riempite di attenzioni, di premure e sottoposte ad un vero e proprio “lavaggio del cervello”; ciò le portava ad aprirsi sempre più alle prassi dell’organizzazione, fino ad accettare acriticamente insopportabili violenze e soprusi di ogni genere. Tutto è andato avanti sino a che una delle vittime è stata in grado di superare, in parte, i traumi derivati dalla frequentazione del gruppo, rompendo il muro di silenzio che avvolgeva questo impenetrabile mondo sommerso.

Le province coinvolte. Le numerose perquisizioni e i sequestri sono stati eseguiti nelle prime ore di domenica 19 luglio dalla Squadra Mobile di Novara e dal Servizio Centrale Operativo con la partecipazione del personale delle Squadre Mobili di Torino, Milano, Genova, Pavia, Alessandria, Asti, Biella, Vercelli, Verbania e Aosta, nonché da equipaggi dei Reparti Prevenzione Crimine di Milano e Torino.

 Marco Benvenuti e Chiara Baldi per ''la Stampa'' il 22 luglio 2020. Un centro psicologico in cui le professioniste erano adepte del «Dottore», e poi una lunga serie di attività commerciali riconducibili al gruppo, tutte a Milano, dalla casa editrice alle erboristerie, dal centro olistico alla bottega artigiana e due scuole di danza, una scuola di «Spada Celtica». Erano questi il front-office della psico-setta delle «bestie» (con questo nomignolo erano soliti chiamarsi i membri) scoperta dalla polizia di Novara in due anni di indagini, i canali con cui l'organizzazione riusciva a individuare bambine, ragazze e giovani da avvicinare e coinvolgere nella parte più nascosta, segreta, ovvero gli incontri sessuali di gruppo col capo.

I collettori di prede. Gran parte degli indagati - 26 in tutto, fra cui tre uomini e fra loro il leader, fra le province di Novara, Milano e Pavia - sono persone che gestiscono queste attività. Erano dei veri e propri collettori di «prede», in particolare il centro psicologico a ridosso del centro di Milano, con quattro esperte che organizzano sportelli di ascolto ed eventi divulgativi come conferenze, laboratori, seminari, sportelli e interventi nelle scuole. Si veniva immersi in un modo fatato, avulso dalla realtà. Il passo successivo era l'annullamento della persona, dell'«io pensante». Spesso l'introduzione alla filosofia della setta avveniva proprio nel contatto con queste professioniste, nell'attività di meditazione, o di consulenza, di cura della persona e dei suoi problemi, oppure in quella fisica e sportiva, collegata al benessere psico-fisico. Impressionanti gli intrecci fra le diverse realtà, nomi e indirizzi che ritornano. Il blitz della polizia nella bottega celtica di via Vigevano annessa alla libreria-casa editrice legata al gruppo ha stupito tutti nel quartiere: «Questo negozio è aperto da sempre - dicono i vicini -. Prima c'era un uomo, poi è arrivata una donna e spesso ci sono due commesse». Ieri la bottega «Celtic Siopa» era chiusa. Tra le persone che si sono ritrovate invischiate in questa brutta storia c'è Fulvio Martini, pittore ed erborista: gestisce una piccola erboristeria in via Pisanello 8 a Milano. Il negozio farebbe parte della rete di «Quintessentia», un laboratorio di fitocosmesi e oli essenziali in via Osoppo, a meno di 300 metri. «Sono due giorni che non mangio - dice Martini, che da lunedì ha anche assunto un legale -. Mi è caduta sulla testa questa tegola e io mai avrei immaginato di trovarmi un giorno in una situazione simile». Gli inquirenti hanno perquisito la sua abitazione. Ma, assicura l'avvocata torinese che lo segue, «il mio cliente è cascato dal pero: si ritiene assolutamente estraneo ai fatti». Tanto che Martini avrebbe confessato al legale di non conoscere nessuna delle persone coinvolte. Nelle scorse settimane l'uomo avrebbe fatto richiesta di cambio di residenza, da Milano a Cerano, il piccolo paese in provincia di Novara da cui tutto è partito. La logica seguita dai collaboratori del «Dottore» era quella della facilità con cui la preda poteva allinearsi. Non appena c'era il dubbio che la neofita potesse creare problemi, allora le si diceva che non era adatta. O, in caso di tentennamenti, c'erano minacce e punizioni. In base a quanto raccontato dalla vittima «fuoriuscita», la donna che due anni fa ha denunciato quanto ha subito in tenera età, le prime a essere inglobate nel sistema erano giovani donne. Da loro si arrivava poi a catturare le figlie minorenni. Capitava tuttavia anche il contrario: c'erano situazioni in cui veniva adocchiata una bambina e allora, se non si riusciva a staccarla dalla famiglia di origine, allora si faceva di tutto anche per far entrare nel gruppo anche la madre. Un racconto impressionante il suo, così lontano dalla realtà da non sembrare nemmeno verosimile. E invece la Squadra Mobile di Novara, coordinata dalla Dda di Torino e dal pm novarese Silvia Baglivo, è andata a fondo. Ha trovato almeno due testimoni che hanno confermato il quadro descritto dalla vittima, una situazione di vera e propria schiavitù che andava avanti dalla fine degli anni Ottanta.

Le indagini. Nessuno si era accorto di nulla, sia nelle città sia fra i boschi del Ticino a Cerano, dove qualche residente aveva sì visto delle ragazze in cerca di funghi e erbe, ma nessuno ha mai immaginato che potesse trattarsi del centro logistico di una setta. Grazie alla testimonianza della vittima che ha deciso di rompere il muro di silenzio, la polizia di Novara ha ricostruito il passato della setta. E, grazie ai sequestri e alle perquisizioni di domenica, ha potuto verificare che fino a pochi giorni fa l'organizzazione era ancora operante. Il materiale deve essere esaminato e andrà ad arricchire il materiale probatorio già raccolto in due anni.

Roberto Lodigiani per ''La Stampa'' il 21 luglio 2020. La casetta è nascosta tra gli alberi dell'Ovest Ticino, fuori Novara. Un giardino, la siepe alta, le pareti di pietra, all'interno il soggiorno con le stoviglie, il cibo e gli strumenti musicali. Secondo gli investigatori della questura di Novara era questo il «quartier generale» del «dottore» a capo della psico-setta finita nelle maglie dell'operazione «Dioniso». E qui Davide Melzi, professore di Legnano, docente di Lettere in un liceo di Parabiago, racconta che sì, anche lui è tra gli indagati. «Assurdo, non vedo quell'uomo da dieci anni. Qui ci si vedeva tra amici».

Come si svolgevano gli incontri?

«Con un giro di telefonate si concordava l'appuntamento, chi era interessato raggiungeva la casetta. Nessuno era obbligato, tutti eravamo maggiorenni consenzienti».

Questa era l'abitazione del dottore?

«Assolutamente no. La casetta è a disposizione mia e di un mio amico. Per abitudine ci passo l'estate per stare lontano dal caos».

Agli atti delle indagini emergono testimonianze che parlano di abusi sessuali durante gli incontri...

«Le cene erano solo una parte della serata, suonavamo insieme con quei tamburelli e quei bonghi che vede appesi alle pareti. Accadeva pure che qualche coppia si appartasse, senza costrizioni, nel giardino esterno. Nella assoluta privacy, tra maggiorenni consenzienti. È capitato anche che alle cene partecipassero mamme accompagnate dai figli, ma nego categoricamente che fossero coinvolti dei minori».

Lei ha scritto dei libri per la casa editrice «La terra di mezzo». Sono stati sequestrati anche quelli?

«Sono rimasto esterrefatto per la mole di materiale che hanno portato via, una trentina di volumi. Sono arrivati alle 5, 30 del mattino nella mia abitazione di Legnano, poi la perquisizione è proseguita nella casetta nel bosco di Cerano. L'accusa è associazione a delinquere, un'assurdità bella e buona. Mi hanno portato via il computer, il telefonino e pure due libri che stavo leggendo, "Inni orfici" e "Introduzione alla magia". Mi hanno pure contestato un cimelio a forma di pugnale della Seconda Guerra Mondiale».

Il «dottore», da quanto non lo vede?

 «Non lo vedo e non lo sento da 10 anni. Era abile nel trattare le erbe, ma nulla più. La fandonia della dominazione delle donne non ha senso».

I morti chiedono giustizia, anche se non possono sporgere denuncia. In Italia per il reato di abuso sessuale è previsto l’obbligo della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata uccisa brutalmente, non ha di certo potuto presentare denuncia. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per il crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Michel Emi Maritato il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Pamela Mastropietro, una sorte spietata. L’omicidio della diciottenne nella casa degli orrori di Macerata, culminato con la condanna all’ergastolo di Innocent Oseghale, confermata in corte d’appello, oltre ad aver suscitato la commozione – unita alla riprovazione – di tutto il Paese, pone inquietanti interrogativi. Una ragazza fragile, in difficoltà, della cui debolezza hanno approfittato in molti. Dagli uomini comuni che ha incontrato sulla propria accidentata strada, che non hanno saputo che regalarle denaro al posto di aiuto e comprensione, fino ai violenti spacciatori che ne hanno decretato il supplizio e la morte. Pensiamo al 50enne di Mogliano che le aveva dato un passaggio, intercettandola dopo che si era allontanata dalla comunità di recupero di Corridonia. Oppure al tassista di origine argentina che l’avrebbe ospitata a casa la sera prima del delitto. Nessuno di questi ha pensato alle condizioni di Pamela, sopraffatti dal proprio egoismo di maschi predatori. Se fossero intervenuti per tempo forse la ragazza avrebbe potuto salvarsi dalla furia degli aguzzini nigeriani che su di lei hanno sperimentato quanto di più aberrante possibile: violenza sessuale, omicidio e vilipendio di cadavere. Più di questo non si può. E qui arriviamo ai motivi di sconcerto: nel nostro Paese, per il delitto di abuso sessuale è prevista l’obbligatorietà della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata trucidata e rinchiusa in due valigie, ovviamente non ha potuto denunciare i mostri. Perché esattamente il giorno dopo un mostro l’ha uccisa in un modo orribile. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per questo crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Questa, in sintesi la storia di una ragazza dalla psiche debole, sopraffatta da qualcosa più grande di lei. Non si può tacere, notizie simili non possono passare sotto silenzio. La normativa deve essere adeguata. Se i predatori sessuali di Pamela non sono responsabili per la legge, lo sono per la coscienza morale e la politica sembra sorda e cieca di fronte a tale aberrazione. È evidente come tali previsioni legislative mantengano ancora un’impronta patriarcale ma occorre subito intervenire per colmare il vuoto normativo. Un reato detestabile come l’abuso e la violenza sessuale è punito con pene non commisurate alla gravità dell’evento. Basti pensare allo choc che impedisce alla maggior parte delle donne di denunciare, alla destabilizzazione conseguente a una violenza, che spinge molte di loro in una condizione psicologica devastante. Così, si spiega l’impunità di molti reati, una violenza ulteriore per il genere femminile. E il caso di Pamela, nel novembre 2019 è finito al Parlamento europeo, grazie a un convegno promosso dal gruppo “Identità e Democrazia” in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Proprio in tale circostanza, in cui sono stati sviscerati tutti i retroscena di questo orrendo crimine, si è stabilito un legame tra l’assassinio, l’accanimento sul cadavere della povera diciottenne e la mafia nigeriana, presente ormai in vari paesi del mondo e in Italia, con i suoi delitti e i suoi riti. “Ciò che ha subito Pamela va oltre la violenza contro una donna: è una violenza contro l’umanità intera”, è la convinzione dell’avvocato Marco Valerio Verni, legale della famiglia Mastropietro e zio della ragazza. Per questo il parlamento europeo, così sensibile al rispetto dei diritti umani, dovrebbe battere un colpo, manifestare il proprio disappunto di fronte a tale lacuna legislativa. Basterebbe una direttiva, una raccomandazione, la “moral suasion” (persuasione morale autorevole, ndr) dei rappresentanti Ue perché i Paesi aderenti si adeguino. A condanna comminata, non si può dimenticare la posizione dell’affollato pool di legali del nigeriano, che voleva “difendere l’indifendibile”, secondo quanto dichiarato da Luisa Regimenti, che non ha risparmiato sforzi per smontare tali tesi. Una linea difensiva che, come dichiarò la dottoressa in un’intervista al Secolo D’Italia, era basata “sul nulla, parlando di un quadro probatorio incerto, di destabilizzazione mediatica, di un rapporto intimo consensuale”, arrivando a fornire, nel corso delle udienze, “dati errati e fuorvianti”. Queste, le distorsioni cui si va incontro in un processo che implichi la violenza sessuale. Ne abbiamo avuto fulgidi esempi ma il sacrificio di Pamela non deve restare vano. Deve esserci uno sforzo collettivo da più parti. La politica non può più ignorare tale emergenza.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” l'8 giugno 2020. È di nuovo burrasca fra l'Aeronautica militare e il sergente Giulia Schiff, l'allieva ufficiale dell'Accademia di Pozzuoli che aveva denunciato le lesioni subite durante il cosiddetto rito del «battesimo del volo». La ventunenne veneziana, espulsa dal corso nel 2018 per «inettitudine militare» e reintegrata lo scorso anno dal Consiglio di Stato, ha rimediato una nuova «bocciatura» alla base della quale ci sono sempre ragioni comportamentali. E lei è tornata all'attacco con una vibrante denuncia penale alla Procura militare di Roma: questa volta per essere stata emarginata e ripetutamente punita «in modo ingiusto in un clima di aperta ostilità», scrive l'avvocato Massimiliano Strampelli che la difende. Tradotto in reato militare significa abuso di autorità. L'atto è del 29 maggio e riaccende uno scontro che vede impegnati sulla vicenda, oltre al Consiglio di Stato e al Tar del Lazio, anche due procure: quella militare di Roma e quella ordinaria di Latina dove ha sede la Scuola di volo del «battesimo», tradizione goliardica che si chiude con il bagno dell'aspirante pilota nella piscina del pinguino. Entrambi i magistrati, si apprende ora, hanno chiuso le rispettive indagini per lesioni militari aggravate e violenza privata contro otto commilitoni, che hanno così ricevuto l'avviso di garanzia. L'ultima causa si inserisce in questo contesto. Dopo la rottura del settembre 2018, Giulia era dunque tornata fra i banchi dell'Accademia di Pozzuoli nel luglio dello scorso anno «per il completamento del corso», come disponeva il Consiglio di Stato in attesa della decisione del giudice amministrativo in merito all'espulsione. Veniva così aggregata a un nuovo corso, al termine del quale sarebbe dovuta andare alla Scuola di volo, tappa finale del percorso di formazione necessaria per ottenere l'agognato brevetto di pilota militare di jet, il suo sogno. Giunta a un passo dal traguardo, la doccia fredda. «Non risultano ricorrere i presupposti per avviare il sergente Schiff allo svolgimento delle ulteriori attività presso le Scuole di volo militari», scrive il generale Luigi Casali, capo di Stato maggiore delle Scuole dell'aeronautica militare. «Mi hanno reso la vita un inferno ma non dico nulla perché ho il dovere del silenzio», taglia corto lei ora. L'Accademia ha elencato le punizioni inflitte in otto mesi. «Usava il cellulare in luoghi non consentiti». «Divisa in disordine». «Postura scomposta a mensa». «In piedi dopo il silenzio». «Cubo della divisa non effettuato». «Arrivava in adunata serale mostrandosi aggressiva e irrispettosa con i colleghi accusandoli di averla fatta arrivare in ritardo». E avanti così per 31 giorni di consegna, 4 rimproveri e 3 richiami formali in soli otto mesi. Che sommati ai 60 dell'intero anno precedente costituiscono un record nella storia dell'aviazione italiana. Basti pensare che nell'anno solare i commilitoni hanno collezionato complessivamente più o meno le sue stesse punizioni. «Caso singolare ed eccezionale... Un agire mai posto in essere all'Accademia Aeronautica da nessun frequentatore», certifica il colonnello Antonio Di Matteo, comandante dei corsi, la sua bestia nera. «Insofferenza alla disciplina, all'obbedienza, alla subordinazione, al rigore, alla puntualità e allo spirito di sacrificio necessari per intraprendere una carriera militare», conclude il generale Stefano Fort, incaricato di indagare sul caso all'interno dell'Accademia nell'ambito di un'inchiesta disposta dalla stessa Aeronautica militare. Insomma, tutti contro Giulia Schiff. E lei, sola e ribelle, convinta che si tratti della reazione alla sua precedente denuncia, cosa fa? S' improvvisa un po' investigatore, trova delle confidenze ed entra in possesso di alcune registrazioni. «Veniva così a conoscenza che c'erano stati uno o più briefing nei quali si minacciavano gli allievi dei vari corsi se solidarizzavano con lei», spiega l'avvocato Strampelli. «se scoprono qualcuno che sta parlando con te finisce a rigore - dice testualmente uno dei confidenti in una di queste conversazioni registrate - Tutti dicevano state attenti se vi beccano il comando corsi se la stava facendo sotto la prima volta che vedo il comandante biondo, era più bianco di te ci ha chiamato. Sapete ragazzi le nostre tradizioni, io come vostro padre, ditemi se qualcuno la conosce abbiamo segnato chi ti conosce, chi ti sta parlando, chi è il tuo amico e fidanzato». La palla ripassa alla Procura.

Uccise il padre a Monterotondo, archiviate accuse contro Deborah Sciacquatori: "Legittima difesa". Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Paolo G. Brera su La Repubblica.it. Fu una coltellata data per legittima difesa, dopo l'ennesima lite in famiglia, quella che Deborah Sciacquatori, 20 anni, sferrò contro suo padre, morto a seguito di quella ferita, il 19 maggio del 2019, a Monterotondo Scalo. Lo ha stabilito il gip di Tivoli che ha archiviato l'indagine a carico di della 20enne che colpì a morte il padre Lorenzo nel corso di una colluttazione dopo che l'uomo, ubriaco, si era scagliato contro la ragazza, la madre e la nonna. Il giudice, concordando con l'impostazione della procura guidata da Francesco Menditto, ha ritenuto applicabile la causa di giustificazione della legittima difesa. "Non vi è dubbio alcuno - si legge in una nota della procura di Tivoli - dunque, sulla base dell'inequivoca costruzione dei fatti, che la ragazza si sia trovata di fronte a un pericolo imminente e attuale per la sua vita, per quella della madre e della nonna. Un pericolo derivante dall'escalation violenta della vittima, iniziata all'interno dell'appartamento e proseguita dopo aver interrotto la fuga delle donne e averle affrontate e aggredite". In base a quanto ricostruito dagli inquirenti, "la ragazza, terrorizzata per le aggressioni e sui danni e a quella di parenti, comprensibilmente e istintivamente ha prelevato il pugnale, di certo non immaginando di usarlo o tentando piuttosto di scappare di casa. Solo successivamente, cioè nel momento in cui vede in pericolo imminente la vita della madre di se stessa compie il gesto solo per minacciare. Siamo, quindi, in presenza si una difesa proporzionata all'offesa", conclude la procura ricostruendo le fasi della vicenda.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. È stata «legittima difesa» ma non può «essere un giorno di festa» perché quella coltellata che Deborah sferrò per difendere se stessa, la madre e la nonna dagli schiaffi, dai pugni, dalle spintonate sulle scale, in una palazzina popolare di Monterotondo - hinterland di Roma Nord - uccise il padre la notte del 19 maggio dello scorso anno. Rimane lucida Deborah Sciacquatori, dice che ora può «andare avanti». Anche se quell'equilibrio fragile inseguito per più di 12 mesi nasconderà, senza mai sradicarlo completamente, un dolore profondo. Ciononostante, ieri è arrivata comunque una certezza, un punto da cui ripartire. Quando in mattinata il suo avvocato Sarah Proietti ha chiamato la ragazza e la madre Antonia per comunicare loro la decisione del gip Sabrina Lencioni che ha accolto la richiesta della Procura di Tivoli di procedere con l'archiviazione dell'indagine a carico della giovane - accusata in un primo momento di omicidio volontario derubricato poi in eccesso colposo di legittima difesa - Deborah è rimasta in silenzio per qualche istante: «Non posso gioire» ma solo essere «sollevata». Perché quella notte uccise il padre e allo stesso tempo pose fine ad anni di vessazioni perpetrate tra le mura domestiche fin da quando lei stessa era una bambina, che aveva taciuto per anni agli amici di scuola e a professori. Deborah oggi è una ventenne che lontano da quel teatro dell'orrore porta avanti la sua esistenza, dopo essersi diplomata a pieni voti per iscriversi all'università in una città lontana. «In questa vicenda non ci sono né vinti né vincitori - spiega l'avvocato Proietti - perché ovviamente si tratta di una triste vicenda familiare che ha avuto un epilogo tragico, Deborah e la sua mamma sono sollevate, ma il dolore non è attutito dalla decisione dei giudici; non hanno manifestato gioia nel termine vero della parola, ora devono metabolizzare il loro lutto, la ragazza è una persona che nonostante le vicissitudini familiari ha sempre mostrato forza e voglia di andare avanti». Tutto cominciò la notte di un anno fa quando il padre di Deborah, Lorenzo Sciacquatori, tornò a casa ubriaco e iniziò a inveire contro la compagna, l'anziana madre di lei e la figlia. Prese a calci la porta pur di farsi aprire e una volta entrato, iniziò ad alzare le mani, ad urlare minacciando di ucciderle. Deborah gli si scagliò contro con un coltello, lo ferì mortalmente e subito dopo vedendolo cadere a terra sanguinante lo prese tra le braccia e si disperò: «Papà scusami, ti prego non morire ti voglio bene». Ai carabinieri di Monterotondo e poi al pm la ragazza raccontò tutto: il ritorno a casa del padre a notte fonda, le urla, l'inseguimento per le scale quando Deborah con la madre e la nonna erano riuscite a scappare, e poi le botte in strada fino a quel colpo sferrato con un coltello nascosto nella tasca del pigiama e recuperato da una mensola della camera prima della fuga, per difendersi. Il Procuratore di Tivoli Francesco Menditto nella chiusura delle indagine scrisse: «L'uomo per anni ha imposto il terrore negli animi di tutte le figure femminili della sua famiglia; deve necessariamente concludersi che la reazione esercitata dalla figlia - sia nella forma della minaccia o comunque nella forma dell'aggressione volontaria a mezzo di colpo sferrato all'orecchio - sia stata del tutto proporzionata all'offesa, dovendosi assolutamente escludere l'ipotesi di un eccesso colposo». E il giudice per le indagini preliminari ieri ha accolto la sua richiesta. «Non vi è dubbio alcuno - è quanto afferma il gip - sulla base dell'inequivocabile costruzione dei fatti, che la ragazza si sia trovata di fronte a un pericolo imminente e attuale per la sua vita, per quella della madre e della nonna. Un pericolo derivante dall'escalation violenta della vittima, iniziata all'interno dell'appartamento e proseguita dopo aver interrotto la fuga delle donne e averle affrontate e aggredite». Una decisione che non richiude affatto le ferite.

Dà carne di maiale al bambino: magrebino tenta di strangolare la moglie. Lo straniero non esitava a pestare la moglie anche davanti al figlio. Per sfamare il piccolo, la donna si era rivolta alla chiesa, tornando a casa con degli omogenizzati. E il magrebino aveva tentato di strangolarla. Federico Garau, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. È stato finalmente condannato il cittadino straniero, residente in provincia di Salerno, accusato di aver commesso violenze e ripetute vessazioni nei confronti della consorte. L'uomo, stando alle dichiarazioni della vittima, aveva assunto il totale controllo all'interno del nucleo familiare, e non esitava a punire la donna, picchiandola anche dinanzi agli occhi del loro bambino, spesso motivo di scontro. I fatti contestati, secondo quanto riferito dai quotidiani locali che hanno riportato la notizia, si sono verificati nel comune di San Valentino Torio (Salerno), dove viveva la famiglia. Protagonista in negativo della vicenda un marocchino di 39 anni, ora dichiarato colpevole del reato di maltrattamenti. Dal racconto della donna è emerso che le violenze avevano avuto inizio nel lontano 2011, per poi peggiorare durante il corso degli anni. Tanti gli abusi subiti dalla vittima, una cittadina straniera di nazionalità bulgara. Spesso ubriaco o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, il magrebino non esitava a sfogare su di lei tutta la propria rabbia. Ai maltrattamenti continui, si aggiungeva inoltre anche la totale noncuranza del nordafricano nei confronti della famiglia. Il 39enne non si preoccupava infatti neppure di portare il denaro a casa, così la consorte si era più volte vista costretta a rivolgersi a delle strutture di carità per trovare qualcosa da dare da mangiare al loro figlio. Proprio a causa di ciò si sarebbe verificata una delle aggressioni più violente. Chiedendo aiuto ad un uomo di chiesa, la straniera sarebbe tornata a casa con dei vasetti di omogenizzati con i quali sfamare il bambino. Accortosi che all'interno dell'alimento si trovava anche del maiale, il magrebino aveva dato completamente di matto, avventandosi come una furia contro la moglie. “Il bambino non deve mangiare il maiale”, avrebbe gridato il nordafricano, come raccontato dalla vittima e riferito da “SalernoToday”. Dopo averla gettata a terra, l'uomo aveva continuato ad infierire su di lei, lanciandole addosso bottiglie ed oggetti di vario genere, sino ad arrivare a stringerle le mani attorno al collo nel chiaro tentativo di strangolarla. Soltanto la presenza del figlio, terrorizzato da quanto stava avvenendo davanti ai suoi occhi, aveva impedito al marocchino di commettere qualcosa di irreparabile. Gli attacchi e gli scatti d'ira erano poi proseguiti. Interrogata dagli inquirenti, la moglie del nordafricano ha ricordato un episodio in particolare, avvenuto durante la festa islamica del sacrificio. “Un giorno c’era la festa di loro che ammazzano le pecore, perché è la loro festa di marocchini, e lui davanti al mio bambino ha tagliato la gola alla pecora, e il bambino si è spaventato molto, si è messo a nascondersi sotto la tavola, e diceva il Padre Nostro. E lui si è spaventato: ha detto che non doveva dirla, quella preghiera; doveva dire che non ci sta Gesù”, ha raccontato la vittima. La svolta arriva quando la donna, stanca dei continui soprusi, decide di rivolgersi ai carabinieri della stazione locale, che avviano subito le indagini del caso ed interpellano i servizi sociali. Incastrato dalle prove a suo carico, il 39enne è stato condannato 2 anni e 4 mesi di reclusione dal giudice del tribunale di Nocera (Salerno), che ha disposto ulteriori indagini.

 (ANSA-AFP il 18 febbraio 2020) - I Boy Scouts of America hanno presentato domanda di bancarotta, a causa delle numerose richieste di risarcimento presentate da ex membri del gruppo giovanile rimasti vittime di abusi sessuali. L'organizzazione ha dichiarato di volere istituire un fondo di compensazione. L'avvocato delle vittime Jeff Anderson lo scorso anno ha denunciato che più di 12.000 membri dei Boy Scout sarebbero stati oggetto di abusi sessuali a partire dal 1944. Lo scandalo era esploso per la prima volta in un caso giudiziario del 2012. Fondati nel 1910, i Boy Scouts of America hanno circa 2,2 milioni di membri tra i 5 e i 21 anni, secondo l'organizzazione.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2020. I boys scout d' America hanno perso da tempo l' innocenza. Ora rischiano di essere travolti nei tribunali del Paese da almeno duemila denunce per abusi sessuali. Jim Turley, il presidente della più famosa organizzazione giovanile del mondo, ha dichiarato bancarotta in Delaware: un modo per limitare i danni e pilotare le cause di risarcimento. Turley ha giustificato l' iniziativa con una lettera aperta rivolta alle vittime: «Sappiate che noi vi crediamo, vogliamo riparare e abbiamo un programma per pagare le vostre spese legali». L' organizzazione venne fondata nel 1910 da William Boyce, dal naturista Ernest Thompson Seton e da Daniel Carter Beard, che si ispirarono alle idee del generale inglese Robert Baden Powell, il padre dello scoutismo mondiale. Nel 1916 il presidente Woodrow Wilson riconobbe ufficialmente «il valore educativo» del contatto con la natura e le esperienze di vita collettiva. Da allora la divisa da boy scout diventò parte della formazione di almeno cinque-sei generazioni. Una foto da «lupetto», da «esploratore» o da «avventuriero» si trovava nell' album dei ricordi in tante case americane. Comprese quelle delle personalità più in vista: almeno quattro presidenti, Gerald Ford, Bill Clinton, George Bush, Barack Obama; Neil Armstrong, il primo uomo sulla Luna; Bill Gates e diversi attori, da John Wayne a Harrison Ford. Oggi la popolarità dell' organizzazione non è più quella dei tempi andati. Ancora negli anni Settanta gli iscritti erano circa cinque milioni, oggi sono 2,4, comprese circa 320 mila ragazze, le «girl scout», ammesse dal 2017. Ombre, accuse infamanti. Tim Kosnoff è un avvocato di Houston che da quarant' anni si occupa di pedofilia e di abusi sessuali sui minori. Dopo essersi dedicato a vicende che coinvolgevano i mormoni e la Chiesa cattolica, con altri legali ha fondato il gruppo «Abused in Scouting». È una piattaforma di assistenza che raccoglie storie vecchie e nuove: i testimoni hanno dagli otto ai 93 anni. Kosnoff ha già messo insieme circa duemila denunce, diffuse in maniera capillare in tutto il Paese. È un lavoro di ricostruzione difficile e penoso nello stesso tempo. Si è scoperto, come scrive il New York Times , che i Boy Scout hanno custodito almeno ottomila schede di animatori sospettati di aver molestato bambini e adolescenti. Sono i cosiddetti «The Perversion Files». Sul sito di Kosnoff si legge: «I leader dell' organizzazione presumibilmente crearono un sistema per mantenere riservati questi file e fecero di tutto per evitare che le informazioni fossero scoperte...I predatori sessuali approfittavano dell' innocenza dei ragazzini. Conquistavano la loro complicità consentendo loro di bere alcolici, di guidare le macchine, di guardare immagini pornografiche. Poi gradualmente entravano nella loro intimità, con attività come le docce di gruppo, nuotate senza costume, i pernottamenti in campeggio». La scoperta più sconcertante è che tra il 1970 e il 1991 il gruppo dirigente degli Scout ha coperto quasi tutti gli scandali, senza riferirne alla polizia. I molestatori sono stati semplicemente allontanati dall' associazione. Ma ora la stagione dell' omertà è finita. Le vittime escono allo scoperto, con una convinzione che ricorda la catena di denunce di donne abusate, sull' onda del movimento #MeToo. C' è qualche precedente giuridico. Una ventina di anni fa un tribunale dell' Oregon condannò i boy scout a versare 18,5 milioni di dollari a titolo di risarcimento. Ecco perché il gruppo dirigente dell' associazione ha scelto di proteggersi con la legge sulla bancarotta. I dati di bilancio pubblicati sul sito, e aggiornati al 2017, sono chiari. In cassa ci sono circa 45 milioni di dollari e il patrimonio netto si aggira sui 217 milioni. La maggior parte dei ricavi proviene da finanziamenti pubblici comunali e statali, da donazioni di imprese private. Tutte risorse che consentono di mantenere bassa la quota di iscrizione: solo 33 dollari all' anno. Sarà un problema, dunque, fare fronte alla grandinata di ricorsi e sarà ancora più difficile riprendersi da quella che è, prima di tutto, una bancarotta etico-morale.

Violenta figlie con complicità moglie: genitori "mostro" in galera. L'orrore in provincia di Pescara, dove i coniugi degeneri sono stati condannati per violenza sessuale sulle figlie minorenni. Pina Francone, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. Per anni ha violentato le figlie minorenni nel silenzio complice della moglie. Oggi, i due genitori mostro, sono stati condannati dal giudice in Tribunale a scontare una pena di undici anni di carcere (lui) e quattro anni e sei mesi (lei). L'orrore in provincia di Pescara: a riportare la brutta vicenda l'emittente locale Rete 8 che scrive come il palazzo di giustizia, su decisione del giudice Rossana Villani, abbia comminato la pena al 47enne orco e la compagna con la pesante accusa di volenza sessuale aggravata ai danni delle due figli, all'epoca dei fatti minorenni. Si tratta di una pena inferiore alle richieste del pubblico ministero Andrea Papalia, che nella requisitoria aveva chiesto una condanna a 12 anni e 6 mesi per il padre e a 10 anni per la madre. I fatti risalgono a un periodo compreso fra il 2012 e il 2016, all'interno di un nucleo familiare degradante. Da quanto emerso, peraltro, la moglie non era l'unica a conoscenza degli stupri domestici dell'uomo: già, perché stando a quanto registra Leggo, anche i cugini e gli zii sapevano delle violenze, senza mai denunciarle. Un'omertà totale e disumana che ha costretto le due piccole a vivere un incubo per anni. La svolta arriva con la crescita della più grande delle due: quando diventa teenager e ha il primo fidanzatino, inizia a prendere coscienza. Dunque la confessione alla nonna materna, che nell'agosto del 2017 – appena appreso il tutto – non si tira indietro e squarcia la coltre di omertà con una denuncia alle forze dell'ordine. Le autorità competenti si sono messe subitamente in modo: l'inchiesta ha portato alla formulazione delle accuse di violenza sessuale aggravata nei confronti di ambedue i genitori. Il quotidiano "free press" riporta anche alcune fasi del dibattimento processuale nel quale è venuto fuori il fatto che il papà era solito dormire nel letto della figlia maggiore, abusandola. Lo stesso supplizio toccava anche alla più piccola. A tal proposito, si legge: "L'uomo, che in famiglia si mostrava sistematicamente violento ed aduso a non tollerare rifiuti e frustrazioni, imponeva le sue pratiche perverse con condotta minacciosa". In tutto questo la moglie sapeva e non parlava, come fosse paralizzata. Ma il sui è stato un silenzio tanto complice quanto indifendibile. L'accusa ha infatti inchiodato la posizione della donna, sostenendo la sua scelta di tollerare gli orrori del marito delle quali era assolutamente a conoscenza. Ora, entrambi, sono dietro le sbarre in prigione.

Pescara: coniugi condannati per violenze sessuali sulle figlie minorenni. Gigliola Edmondo il 26/02/2020 su Rete 8. Il tribunale collegiale di Pescara ha condannato due coniugi per violenza sessuale aggravata ai danni delle due figlie, all’epoca dei fatti minorenni. Il tribunale, presieduto dal giudice Rossana Villani, ha condannato un uomo di 47 anni a 11 anni di carcere e la moglie  a 4 anni e 6 mesi di reclusione con l’accusa di violenza sessuale aggravata ai danni delle due figlie, all’epoca dei fatti minorenni. Il pm Andrea Papalia, al termine della requisitoria, aveva chiesto condanne a 12 anni e 6 mesi per il padre e a 10 anni per la madre. Secondo quanto ricostruito dall’accusa, l’uomo abusò sessualmente delle due figlie e la moglie, nonostante sapesse tutto e fosse stata avvertita da una delle figlie su quanto accadeva, e pur avendo più volte assistito alle malefatte dell’uomo, non era mai intervenuta in difesa delle figlie, rendendosi così complice. 

Pescara, dorme nel letto della figlia minorenne e la violenta. La moglie sa tutto ma non parla. Leggo Giovedì 27 Febbraio 2020. Pescara, dorme nel letto della figlia minorenne e la violenta. La moglie sa tutto ma non parla. Una vicenda torbida e agghiacciante, che ha avuto luogo in un paesino dell’entroterra di Pescara, si è conclusa con una sentenza di condanna ad 11 anni di carcere per un uomo di 47 anni, che ha abusato sessualmente delle due figlie minorenni, e a 4 anni e 6 mesi di reclusione per la madre 44enne delle ragazze, che ha coperto per anni il marito. I fatti, risalenti ad un periodo compreso tra il 2012 e il 2016, si sono svolti in un clima familiare degradato e asfissiante. Non solo la madre, ma anche gli zii e i cugini sapevano. Tutti, però, con il proprio comportamento omertoso, diventato addirittura ostile e minaccioso quando la ragazza più grande ha iniziato a mostrare segni di insofferenza, hanno contribuito a disorientare le giovani vittime. Le due ragazze, di conseguenza, sono cresciute facendo fatica a comprendere cosa fosse normale e senza riuscire a distinguere con esattezza il bene dal male. Poi, confrontandosi con un coetaneo, diventato il suo fidanzatino, la figlia maggiore ha iniziato a prendere coscienza di ciò che era stata costretta a subire. Si è confidata anche con la nonna materna, la quale, nell’agosto del 2017, ha deciso di sporgere querela. Subito è scattata l’inchiesta, culminata nella formulazione delle accuse di violenza sessuale aggravata nei confronti di entrambi i genitori. Quanto emerso nel corso del dibattimento lascia senza parole. Il padre dormiva sistematicamente nel letto con la figlia più grande, sottoponendola ad abusi sessuali. Anche la figlia più piccola fu costretta, in diverse occasioni, a subire abusi dello stesso tipo. L’uomo, che in famiglia si mostrava “sistematicamente violento ed aduso a non tollerare rifiuti e frustrazioni”, imponeva le sue pratiche perverse “con condotta minacciosa”. Il tutto senza che la madre muovesse un dito. Come ricostruito dall’accusa, infatti, la donna scelse deliberatamente di tollerare le condotte del marito, “delle quali era a conoscenza”, sia in riferimento “all’anomala condivisione del letto con la figlia maggiore”, sia “per avere assistito in numerose occasioni” agli abusi del marito, sia per “essere stata esplicitamente informata” dalla figlia minorenne circa le condotte dell’uomo, “senza adottare alcuna azione a difesa della stessa” e dunque, di fatto, concorrendo alla violenza sessuale. In alcune occasioni, addirittura, dopo avere assistito agli abusi sulle ragazzine, la donna rise dell’accaduto davanti alle figlie. 

Una vicenda torbida e agghiacciante, che ha avuto luogo in un paesino dell’entroterra di Pescara, si è conclusa con una sentenza di condanna ad 11 anni di carcere per un uomo di 47 anni, che ha abusato sessualmente delle due figlie minorenni, e a 4 anni e 6 mesi di reclusione per la madre 44enne delle ragazze, che ha coperto per anni il marito. Il Messsagero Giovedì 27 Febbraio 2020, I fatti, risalenti ad un periodo compreso tra il 2012 e il 2016, si sono svolti in un clima familiare degradato e asfissiante. Non solo la madre, ma anche gli zii e i cugini sapevano. Tutti, però, con il proprio comportamento omertoso, diventato addirittura ostile e minaccioso quando la ragazza più grande ha iniziato a mostrare segni di insofferenza, hanno contribuito a disorientare le giovani vittime. Le due ragazze, di conseguenza, sono cresciute facendo fatica a comprendere cosa fosse normale e senza riuscire a distinguere con esattezza il bene dal male. Poi, confrontandosi con un coetaneo, diventato il suo fidanzatino, la figlia maggiore ha iniziato a prendere coscienza di ciò che era stata costretta a subire. Si è confidata anche con la nonna materna, la quale, nell’agosto del 2017, ha deciso di sporgere querela. Subito è scattata l’inchiesta, culminata nella formulazione delle accuse di violenza sessuale aggravata nei confronti di entrambi i genitori. Quanto emerso nel corso del dibattimento lascia senza parole. Il padre dormiva sistematicamente nel letto con la figlia più grande, sottoponendola ad abusi sessuali. Anche la figlia più piccola fu costretta, in diverse occasioni, a subire abusi dello stesso tipo. L’uomo, che in famiglia si mostrava “sistematicamente violento ed aduso a non tollerare rifiuti e frustrazioni”, imponeva le sue pratiche perverse “con condotta minacciosa”. Il tutto senza che la madre muovesse un dito. Come ricostruito dall’accusa, infatti, la donna scelse deliberatamente di tollerare le condotte del marito, “delle quali era a conoscenza”, sia in riferimento “all’anomala condivisione del letto con la figlia maggiore”, sia “per avere assistito in numerose occasioni” agli abusi del marito, sia per “essere stata esplicitamente informata” dalla figlia minorenne circa le condotte dell’uomo, “senza adottare alcuna azione a difesa della stessa” e dunque, di fatto, concorrendo alla violenza sessuale. In alcune occasioni, addirittura, dopo avere assistito agli abusi sulle ragazzine, la donna rise dell’accaduto davanti alle figlie. 

Anticipazione da “Oggi” il 19 febbraio 2020. Michela Morellato, la showgirl di Vicenza sposata a un soldato americano che aveva fatto prepensionare il generale della base Usa di Vicenza col quale aveva avuto un flirt e dal quale sarebbe stata molestata, racconta in esclusiva sul settimanale OGGI la sua nuova impresa. La giustizia federale americana ha accettato la sua denuncia contro gli Stati Uniti d’America. «Ho chiesto un risarcimento di 5 milioni di dollari. All’inizio pensavo di chiederne solo 2, ma poi ho scoperto che mi avevano ingannata, promettendo di nascondere il mio nome nella denuncia per molestie, e invece l’hanno spifferato a tutti, ed ero stata bullizzata». E a chi gli fa notare che una causa contro gli Stati Uniti sembra impari, lei risponde: «Gli americani sono così potenti che diventano arroganti. Guardi la vicenda del Cermis, o quella di Chico Forti… Io i piedi in testa non me li faccio mettere da nessuno. E con un’amica americana stiamo portando alla luce tanti casi di molestie che l’esercito ha insabbiato. Anche il New York Times ne ha parlato».

Il boss che uccise la moglie si fingeva pazzo: incastrato dai pizzini ai genitori. Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. È il 20 maggio 2019, carcere di Viterbo. Un detenuto sta parlando con sua madre nella sala colloqui. Gli agenti di guardia notano «un passaggio furtivo e repentino» di qualcosa fra i due. Quando lei esce viene perquisita ed ecco il risultato: nel reggiseno la signora nasconde «due pizzini di carta manoscritti dal detenuto, uno con inchiostro rosso e uno con inchiostro blu». Erano le istruzioni che il figlio detenuto aveva scritto per i genitori su come comportarsi per aiutarlo a sembrare matto, confidando, evidentemente, nella pronuncia dell’infermità o seminfermità mentale. E invece è andata male. Mai pizzini hanno ottenuto effetto più contrario a quello sperato. Con una sola mossa l’autore — e cioè il camorrista Salvatore Tamburrino, 41 anni, ex affiliato del clan Di Lauro e oggi collaboratore di giustizia — è riuscito a perdere credibilità, a creare i presupposti per una condanna a 30 anni nonostante il rito abbreviato e a diventare motivo di guai giudiziari per sua madre (che per la verità si è guardata bene dal negare il favore al figlio). Nel carcere di Viterbo Tamburrino c’era finito per l’omicidio di sua moglie Norina, 33 anni: la uccise a colpi di pistola il 2 marzo 2019 nella casa dei genitori di lei, a Melito (Napoli) e poi andò a costituirsi. Le cronache locali raccontarono che nell’ascensore della questura lui rivelò ad alcuni poliziotti il nascondiglio di Marco Di Lauro, rampollo del potente clan di Scampia e Secondigliano, figlio del boss Paolo Di Lauro e latitante dal 2004. «Vi dico dove si trova Marco» annunciò Tamburrino. Ma in cambio (come scrisse Il Mattino) «vorrei riabbracciare un’ultima volta i miei figli». Non è dato sapere se poi l’abbraccio ci sia stato. Di sicuro c’è stata la sua collaborazione davanti ai magistrati della procura antimafia di Napoli e ci sono stati i provvedimenti per mettere sotto protezione la sua famiglia. Lui si è ritrovato nel carcere di Viterbo, appunto, per l’omicidio di Norina e dopo nemmeno tre mesi di cella ha escogitato il piano per uscirne alla svelta. Tutto scritto nei pizzini per i genitori. Uno dei due fogliettini in particolare dice: «Allora fatemi fare a modo mio. Prossimi colloqui li rifiuto se non c’è Norina. Cioè, voi venite per un paio di volte solo che io rifiuto perché chiedo se c’è mia moglie, poi non venite più finché non ve lo dico io. State sereni, però. Ci vuole un po’ di tempo, stai al mio gioco ok? Mandami mail di conferma che stai al mio gioco. Cioè scrivimi che Norina non è possibile che viene e che venite voi. Poi io rispondo, così capisco e rifiuto, ok? Tienitelo per te papà, non dire niente a nessuno. Lo devono credere così parlano (...) Attenzione, non parlare in auto, no a casa, non con telefono addosso in strada». Missione completamente fallita. Invece di far valere in aula la sua finta seminfermità mentale Salvatore Tamburrino ha ottenuto il risultato dell’ergastolo malgrado il rito abbreviato scelto per avere lo sconto di un terzo della pena (quasi sempre accordato dal giudice dell’udienza preliminare). Ergastolo. Con l’associazione «Al posto tuo» (rappresentata in aula dall’avvocatessa Loredana Gemelli) ammessa come parte civile. E con il gup Barba Del Pizzo che ha preso atto della «scaltrezza criminale» di Tamburrino «nel cercare di rappresentare una realtà ben diversa» della quale cui si parla nelle carte delle indagini. Negli atti d’inchiesta si descrive una Norina che «solo dopo anni, finalmente aveva trovato il coraggio di liberarsi dallo stato di schiavitù che le vietava di condurre una vita serena e di curare la sua persona, come aveva sempre desiderato». Lui la maltrattava «anche in presenza dei figli che intervenivano per bloccare la sua ferocia». La figlia ha raccontato agli inquirenti di quando lui le sbatteva la testa sul tavolo, di quando provò a strangolarla, di quando la umiliava e la feriva a parole, delle volte che buttava tutto per terra e le ordinava di rimettere a posto, della sua soddisfazione nel vederla chinata a pulire come una schiava. Dice la ragazza che il suo fratellino è un ingenuo e invece «mio padre lo voleva molto più cattivo». E allora, quando i comportamenti del ragazzino non gli piacevano perché non abbastanza aggressivi «gli dava pugni nello stomaco tanto forti da farlo piangere». Pugni nello stomaco. Come quello che metaforicamente deve aver ricevuto lui qualche giorno fa sentendo quella parola: ergastolo.

Genitori arrestati per abusi sulla figlia: "Concepita solo per violentarla". Arrestate due donne che avrebbero commesso violenze sulle figlie per produrre foto a carattere pedopornografico. In manette anche il padre di una delle piccole: "Concepita solo per violentarla". Giorgia Baroncini, Venerdì 07/02/2020, su Il Giornale. Avrebbero commesso abusi sessuali sulle figlie fin dai primi anni di età. Atti terribili al fine di produrre foto a carattere pedopornografico.

Il padre-orco "istigava" agli abusi. Con questa accusa, due madri sono state arrestate dalla polizia postale della Toscana. Le due donne, una residente a Terni e l'altra a Reggio Emilia, avrebbero commesso per diverso tempo abusi sulle bimbe che hanno meno di 10 anni. In manette, oltre alle due madri, anche un uomo di 40 anni di Grosseto, padre di una delle piccole vittime. Secondo quanto riporta TgCom24, sarebbe stato proprio l'uomo il destinatario del materiale pedopornografico realizzato dalle due donne e inviato attraverso l'app di messaggistica WhatsApp. I tre sono stati arrestati dalla polizia di Firenze nell'ambito dell'operazione 'Dark ladies' volta al contrasto della pedopornografia. In particolare, al 40enne e alla donna di Terni, che hanno una relazione sentimentale, sono stati contestati i reati di pornografia minorile, per aver divulgato notizie e informazioni finalizzate allo sfruttamento sessuale di minori, prodotto materiale pornografico realizzato con minori, nonché di violenza sessuale nei confronti della propria figlia minorenne. Alla donna di Reggio Emilia e di nuovo all'uomo, sono stati contestati i reati di violenza sessuale nei confronti della figlia minorenne della donna, per averla costretta a compiere e subire atti sessuali, reato contestato in concorso tra i due indagati, con l'aggravante per la donna di aver abusato della qualità di madre, nonché di produzione di materiale pornografico. Le due donne avrebbero violentato le loro bimbe, che hanno meno di 10 anni, sin dalla tenera età. Un orrore al solo fine di produrre immagini a carattere pedopornografico che sarebbero poi finite nelle mani del 40enne, padre di una delle bimbe. Secondo le prime indiscrezioni però, il materiale sarebbe stato diffuso anche in rete sulle pagine frequentate da pedofili. Lo scorso agosto, le indagini avevano portato a una perquisizione nella casa dell'uomo dove è stato trovato un ingente quantitativo di materiale pedopornografico. Gli sviluppi investigativi hanno consentito di scovare diversi gruppi su Telegram e WhatsApp su cui circolavano foto di minori. L'analisi forense dei contenuti dei supporti informatici sequestrati al 40enne ha fatto poi emergere la condotta delle due donne. Ora però vengono alla luce altri inquietanti particolari sulla coppia. Il 40enne e la donna di Terni avrebbero deciso di concepire la loro bimba al solo scopo di abusarne sessualmente. Da una "chat tra i due - ha scritto il gip Agnese Di Girolamo nell'ordinanza - emerge come assolutamente verosimile" che la gravidanza sia stata voluta "con il preciso intento di realizzare le fantasie sessuali condivise". Una dichiarazione choc quella del gip. Le madri sono state arrestate in esecuzione di una misura di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del tribunale di Firenze. In manette anche il 40enne di Grosseto che avrebbe spinto le due madri agli abusi sulle figlie. Le piccole vittime sono già state affidate ai servizi sociali e condotte in luoghi sicuri.

·         Non era abuso…

Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera il 16 luglio 2020. Assolto grazie a una lettera proveniente dall'oltretomba. E a una metodologia di neuroscienze che sostiene di poter indagare il contenuto autobiografico della memoria di una persona, verificando «al 92%» se uno specifico fatto sia presente come memoria vera o falsa nella sua mente. A salvare l'uomo da una condanna ormai definitiva nel 2016 per concorso in violenze sessuali, asseritamente commesse nel 2002 dal suo compagno (poi suicida il 15 luglio 2005) sulla figlia di 4 anni della sorella, per metà ieri in Corte d'Appello a Brescia è stato infatti il drammatico testo, rimasto 15 anni in una busta sigillata in una stazione dei carabinieri, al quale lo zio materno, appena prima di togliersi la vita, aveva affidato il grido postumo di innocenza propria e del compagno; e per metà è stato il peso che la Corte, anche attraverso una propria perizia, ha dato a una variazione degli «aIAT-autobiographical Implicit Association Test» ideati da Anthony Greenwald nel 1998: quella con cui il professore di neuroscienze forensi all'Università di Padova, Giuseppe Sartori, dal 2008 ritiene di poter accertare non la verità assoluta, e nemmeno la verità o meno del racconto di una persona, ma ciò che il cervello del soggetto ricorda come veritiero. Imputato a Busto Arsizio di aver concorso (fotografandole) nelle violenze sessuali, sino all'assoluzione di ieri ha vissuto un'altalena di assoluzione nel 2007, condanna in Appello a 4 anni nel 2009, annullamento in Cassazione nel 2010, di nuovo condanna nel 2014, resa definitiva dalla Cassazione nel 2016. Altalena dovuta alle differenti valutazioni dell'affidabilità scientifica o meno dei ricordi (sotto forma di «brutto sogno») della bimba, visto che per il resto negativi erano stati gli esiti delle perquisizioni (niente materiale pedopornografico) e della perizia sulla pellicola della macchina fotografica. Ma il 6 settembre 2017, nella stazione dei carabinieri dove nel 2005 erano finiti gli effetti personali del suicida, uno dei legali aveva ritrovato una busta chiusa mai aperta sino allora. Lettera il cui contenuto aveva motivato il difensore Guglielmo Gulotta a chiedere la revisione della condanna definitiva, anche in virtù della somministrazione dei test «a-IAT» ad opera del consulente di parte Pietro Pietrini (direttore della Scuola Imt Alti Studi di Lucca), e cioè alla asserita assenza nel cervello dell'imputato di una traccia mnestica del fatto per il quale era stato condannato. L'applicazione di neuroscienze ai processi è molto discussa, e in Italia, oltre a un profilo del caso Cogne nel 2002, ha trovato poche applicazioni (per motivare attenuanti di vizi di mente a Trieste nel 2009 e a Como nel 2011, o per concorrere all'accusa a un condannato a Cremona nel 2012), ma anche secchi disconoscimenti (come a Venezia nel 2013). Anche per questo la Corte ieri ha ritenuto di disporre una perizia per comprendere la metodologia IAT, sulla quale la professoressa Michela Balconi si è espressa in termini di attendibilità.

Genitori accusati ingiustamente di pedofilia, riabbracciano i 4 figli dopo 10 anni: “A oggi nessuna giustizia”. Rossella Grasso su Il Riformista il 14 Luglio 2020. Una famiglia, quattro fratelli e due genitori, ma tutti con cognomi diversi. È questo il risultato di un errore giudiziario e di una tragica vicenda che nel 1996 travolse la famiglia De Stefano di San Giuseppe Vesuviano. Una tragedia nella tragedia che ancora oggi non trova la sua conclusione. Giusy, la maggiore dei quattro figli di Ferdinando e Concetta De Stefano, aveva solo 6 anni quando subì una serie di abusi sessuali da parte di un vicino di casa. Dopo qualche mese ebbe il coraggio di raccontare tutto a sua madre che non perse un attimo e denunciò tutto. Il pedofilo fu arrestato e tutte le attenzioni furono rivolte alla piccola che doveva ritrovare la serenità perduta. A quel punto Gennaro, il secondogenito di un anno più piccolo si ingelosì delle attenzioni rivolte alla sorella maggiore e decise di dire una bugia: anche lui aveva subito violenze e i suoi genitori prendevano soldi dai pedofili che abusavano dei quattro fratelli. Subito Giusy, Gennaro, Salvatore e Antonio furono portati in una casa famiglia mentre i genitori si sottoponevano a processi su processi con la pesante accusa di sfruttamento della prostituzione minorile. Ci sono voluti 4 anni prima che Ferdinando e Concetta superassero tutti i gradi di giudizio risultando innocenti. Intanto però i loro 4 bambini erano stati adottati da altre tre famiglie e separati: Giusy e Antonio erano finiti in una famiglia a Caserta, Gennaro e Salvatore invece in due diverse famiglie a Massa Lubrense. “Il Tribunale non aspettò di sapere l’esito del processo prima di affidarli ad altre famiglie – racconta Ferdinando con le lacrime agli occhi – Ci hanno accusati di essere pedofili, una parola che mi fa stare male solo al pensiero. E il Tribunale che ce li aveva tolti, nonostante fossimo innocenti non voleva ridarci i nostri bambini”. Durante quegli anni ai bambini è stato fatto un vero e proprio lavaggio del cervello: “Ci avevano convinti che i nostri genitori erano dei mostri – racconta Salvatore che quando fu strappato dalle braccia dei genitori naturali aveva solo 4 anni e a stento li ricordava – ci hanno detto che ci avevano venduti, che mamma era una prostituta e papà un tossico. Niente di tutto questo era vero”. Mamma e papà non si sono persi d’animo nemmeno un istante. Hanno cercato i quattro bambini e li hanno trovati diversi anni dopo. “Ci vedevamo di nascosto – racconta Giusy – Ci hanno fatto vedere le carte, le foto, i documenti, ci hanno raccontato com’era andata quella drammatica vicenda e allora noi abbiamo capito e volevamo solo tornare da loro”. Ormai adolescenti, intorno ai 14 anni, uno alla volta iniziarono le fughe dalle case dei genitori adottivi verso quella dei genitori naturali. “Si sa, il sangue chiama il sangue e noi volevamo stare con loro – dice Salvatore – Gli assistenti sociali dopo qualche tentativo di riportarci indietro smisero di cercarci e noi per tutta la nostra adolescenza abbiamo smesso di esistere per lo Stato: niente scuole, niente medici, niente supporto degli assistenti sociali, niente di niente. Eravamo solo numeri su un foglio di carta dimenticato su una scrivania”. Un’infanzia completamente negata. Appena Giusy ha compiuto 18 anni ha denunciato il tribunale per le sofferenze subite. Lo stesso hanno fatto gli altri tre fratelli appena raggiunta la maggiore età. “Poco prima che io e Salvatore compissimo 18 anni ci chiamarono in Tribunale e ci dissero che per evitare altre denunce ci avrebbero riaffidato ai nostri genitori naturali – racconta Antonio – Un’assurdità: gli stessi che erano stati giudicati non idonei a crescere noi bambini. Allora mi chiedo: perchè tanto accanimento contro la nostra famiglia? La nostra infanzia è bruciata e nessuno ce la restituirà mai. Adesso vogliamo che ci ascoltino perchè quello che abbiamo subito è troppo brutto e vogliamo giustizia per tutta questa nostra sofferenza”. Oggi Giusy ha 32 anni, Antonio 28, Salvatore 29 anni e Gennaro 30 ma la loro voce ancora resta inascoltata dai tribunali. Ognuno di loro ha cognomi diversi e per la legge non possono nemmeno riottenere quello della famiglia naturale, De Stefano.

 “Maltratta gli alunni” ma era solo severa. Maestra assolta dopo 4 anni di gogna. Viviana Lanza de il Riformista il 4 Giugno 2020. Quando il caso salì alle cronache scattò subito la gogna mediatica, il nome della maestra finì su tutti i giornali, locali e nazionali, e si gridò allo scandalo. L’insegnante era stata accusata di maltrattamenti ai danni di alcuni alunni della scuola materna “D’Arienzo Prisco” di Tufino, un piccolo centro della provincia nolana. Ieri quella donna è stata assolta, e con formula piena. Difesa dall’avvocato Ugo Raja, Rosanna Caccavale è stata assolta dall’accusa di maltrattamenti. Per arrivare a questa sentenza, emessa dal giudice monocratico Alessandra Zingales del Tribunale di Nola, ci sono voluti quattro anni fra indagini e dibattimento. Il pubblico ministero aveva chiesto per la maestra la condanna a tre anni di reclusione. Alla fine del processo ha prevalso la tesi della difesa e il perché sarà noto con il deposito delle motivazioni previsto tra 60 giorni. In dibattimento, assistita dall’avvocato Raja, la maestra ha provato a sostenere la sua estraneità a quelle accuse che avevano rovinato la sua reputazione di insegnante della scuola materna, accuse giunte dopo tanti anni di esperienza fra i banchi della materna. Caccavale, 60enne, era conosciuta nel paese come una maestra seria e forse anche un po’ severa, ma nulla che avesse a che fare con maltrattamenti e vessazioni fino alla svolta dell’inchiesta che si ebbe nel gennaio 2016 quando la Procura di Nola chiese e ottenne per lei una misura cautelare interdittiva. Le indagini erano nate dalla denuncia di alcuni genitori che raccontarono di malesseri psicologici, mutismi anomali, incontinenza e insonnie notturne dei propri bambini. In classe furono installate le telecamere. La maestra fu monitorata dagli inquirenti per giorni; era dicembre e con gli alunni della materna ci si organizzava per la recita di Natale. Nel corso del processo la difesa ha puntato a sostenere che in oltre dieci giorni di riprese gli episodi in cui l’insegnante rimproverava gli alunni si riducevano soltanto a tre e della durata di una manciata di secondi ciascuno, come a dire che si trattava di rimproveri di una maestra forse un po’ severa e non di maltrattamenti. Tra gli altri argomenti sostenuti dalla tesi difensiva, anche il rischio di inquinamento probatorio dovuto al fatto che i genitori degli alunni sapevano e parlavano delle indagini anche durante l’attività investigativa stessa, e la consulenza di una neuropsichiatra infantile. E ieri, dopo quattro anni di gogna mediatica, si è arrivati alla chiusura del processo di primo grado e all’assoluzione.

I capricci dei bimbi e la gogna per la maestra: “Nessun maltrattamento, era solo severa”. Viviana Lanza de Il Riformista il 7 Agosto 2020. «Le modalità non sono state tra le più ortodosse. L’uso frequente del dialetto e di espressioni dialettali sgradevoli e modalità grossolane sono deprecabili in un ambiente scolastico, ma non può in alcun modo dirsi che abbiano ingenerato nei piccoli alunni quella mortificazione che costituisce l’essenza del delitto». È uno dei passaggi della motivazione della sentenza con cui il giudice Alessandra Zingales ha assolto dall’accusa di maltrattamenti Rosanna Caccavale, maestra all’asilo D’Arienzo Prisco di Tufino, in provincia di Nola. Assoluzione perché il fatto non sussiste: in primo grado il processo si è concluso così e nelle 28 pagine depositate nei giorni scorsi il giudice spiega il perché. Nelle motivazioni della sentenza si ripercorrono i vari passaggi delle indagini e del dibattimento, le testimonianze delle mamme dei piccoli alunni, le conclusioni di due esperte che hanno analizzato con la loro professionalità i comportamenti dei bambini, il racconto della stessa maestra, Rosanna Caccavale, finita d’un tratto alla gogna mediatica e al centro dei sospetti di tutto il paese. Tufino è un piccolo centro ed è facile immaginare quanto rapidamente sia girata la voce delle accuse sul conto della maestra. La sentenza di assoluzione ha messo un punto su quei sospetti, dovrebbe valere anche per le voci di paese: la maestra è stata assolta, così come sostenuto nel processo dai suoi difensori (avvocati Ugo Raia e Claudio Granese). In dibattimento, dalle varie testimonianze esaminate e passate al vaglio dal giudice monocratico è emerso che la maestra aveva modi severi, «un po’ all’antica» come aveva ammesso la stessa Caccavale durante il suo esame in aula, spiegando al giudice che proprio nel periodo delle indagini (le settimane a cavallo tra metà novembre e la vigilia di Natale 2015) viveva una situazione di grande nervosismo per via di alcuni suoi problemi di salute alla schiena e questo l’aveva resa più irascibile anche con i bambini, ma mai violenta. Un dato che il giudice ha riscontrato anche analizzando video e audio delle riprese realizzate dagli investigatori attraverso una telecamera nella classe, spiando le mattinate che bambini e maestra trascorrevano insieme. «Dalla visione delle immagini e dall’ascolto delle riprese video audio non emerge alcuno degli elementi sopra indicati», scrive il giudice analizzando gli elementi ipotizzati dall’accusa. Il solo episodio di un bambino strattonato per un braccio e colpito con uno scappellotto alla testa «per quanto assolutamente deprecabile – si legge nelle motivazioni della sentenza – non è idoneo a integrare il delitto che si configura come reato abituale». L’inchiesta a carico della maestra, 64enne e con una lunga carriera professionale alle spalle, era nata dopo che un poliziotto aveva raccolto lo sfogo di un nonno che aveva lamentato i modi della maestra. E nel calderone del sospetto erano finiti anche normali capricci di bambini di tre o cinque anni.

Denuncia gli abusi della mamma sul figlio, ma i giudici archiviano tutto. Un papà bolognese scopre da una telefonata i presunti abusi della compagna su suo figlio. Le frasi choc in un video: "Vuoi che mi abbasso le mutandine?". Ma per il pm è solo un "gioco". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti venerdì 13/03/2020 su Il Giornale. Nella regione del caso Bibbiano c’è un’altra vicenda con al centro un minore che fa discutere. Questa volta, però, non si tratta di falsi abusi, ma di un caso di violenza sessuale che sarebbe documentato da due video. Filmati che ritraggono Luca, nome di fantasia del bimbo, che ha appena cinque anni, mentre tocca la mamma nelle parti intime. Per lui è una "visita medica" ma il filmato è pieno di doppi sensi, con la madre che ad un certo punto chiede al piccolo se deve "abbassarsi le mutande" o fare a sua volta la "visita" al piccolino. Parole agghiaccianti, che sono risuonate nell’aula di tribunale dove Alessandro, cinquantenne bolognese, sta portando avanti la sua battaglia legale contro la ex compagna. Una donna romena che viene accusata di violenza sessuale sul figlio. I due sono in vacanza in montagna quando Alessandro, che registra le chiamate della compagna con cui è in crisi da un po’ di tempo, scopre qualcosa di terribile. La sua ex sta parlando con una donna toscana. Scherzano a proposito del comportamento di Luca, che "spingeva di continuo con la manina" nelle parti intime della mamma eccitandosi. Il tutto è condito dalle risate delle due donne. "Quella dall’altro capo della cornetta è la compagna di un uomo toscano con cui la mia ex ha una relazione da oltre un anno", ci spiega Alessandro. "La donna lo sa e non ha nessun problema - aggiunge - perché si tratta di una relazione a tre". Non solo. La donna si confida anche con il suo amante. In una chat di Messenger la signora gli rivela dell’attrazione fisica che il bambino proverebbe per lei. "Lui per tutta risposta le chiede di portargli mio figlio per parlarci", spiega preoccupato il papà. Davanti ai giudici la donna si è difesa spiegando come si trattasse di un gioco, e i magistrati, in parte le hanno creduto. Alessandro però è convinto che dietro quelle frasi e quei gesti si celi un abuso sessuale. "Il punto è che i video prodotti in udienza sono stati registrati dopo la telefonata in cui si parlava dell’eccitazione del bambino - ci spiega - come dimostra la data impressa sui file". "Questo significa che gli atteggiamenti promiscui si sono ripetuti in più occasioni, quante?", si domanda questo papà, che in tribunale ha chiesto l’affidamento esclusivo del piccolo. "Siamo in attesa della pronuncia, che dovrebbe arrivare entro un paio di mesi - aggiunge - nel frattempo il piccolo resta collocato presso la madre e io lo vedo soltanto due ore alla settimana". "Anche l’intimazione di non portare il bambino dalla coppia toscana coinvolta nella vicenda - denuncia - è stata disattesa". Secondo Alessandro la mamma lo avrebbe condotto da loro in diverse occasioni. E il timore del padre è che la donna possa decidere di trasferirsi in Romania, portando con sé il bimbo. "Se è vero che esiste una perizia degli psicologi che attesta che il bimbo non manifesta particolari problemi, io che lo conosco profondamente noto che in lui c’è qualcosa che non va", ci confessa Alessandro. "Ultimamente ha ripreso a balbettare e gli sono venuti dei tic oculari", racconta. "Mi domando - continua - se dopo un anno di questo strazio si sia fatto tutto il possibile per tutelare il benessere, la sicurezza e l’interesse di mio figlio". Secondo l’avvocato Francesco Miraglia, che segue Alessandro, l’iter processuale è stato caratterizzato da una buona dose di "superficialità". "A parti inverse, se fosse stata una mamma a denunciare una cosa del genere forse sarebbe già stata emessa una misura cautelare", accusa il legale che da anni si occupa di diritto minorile e ha seguito i casi di diverse famiglie coinvolte nello scandalo di Bibbiano. La denuncia penale di Alessandro, invece, è stata archiviata. "La cosa che ci ha lasciato un po’ perplessi - annota l’avvocato - è l’orientamento del pubblico ministero, secondo cui si è trattato di un gioco e non di un abuso". Il legale se la prende con il sistema che, accusa, "non funziona". "Se da una parte a Bibbiano architettavano gli abusi, qui si fa al contrario, c’è un sospetto ma rimane tale, anzi viene sminuito completamente", osserva in modo provocatorio. Il problema, ci spiega al telefono, è "all’interno dei tribunali dove nessuno controlla niente, comprese le relazioni dei servizi sociali, e dove spesso si emettono provvedimenti senza neppure convocare le parti". "La prudenza ai limiti dell’eccesso che è stata utilizzata sembra essere piuttosto una sottovalutazione del caso", aggiunge papà Alessandro. L’unica speranza che gli resta è che "al termine di questa triste storia il bambino possa vivere in una situazione di sicurezza e che non ci sia più spazio per la promiscuità".

Da orco a vittima per i “falsi ricordi” di moglie e figlia. Le Iene News il 21 febbraio 2020. Nina Palmieri racconta l’incredibile vicenda di violenze in famiglia, per i quali un padre è stato condannato a 5 anni di prigione. Una condanna che nasce dalle terribili deposizioni di mamma e figlia. Ma quei racconti erano reali? Se lo chiede la nostra Iena, che scopre come la mente umana possa fabbricare dal nulla un mostro, da sbattere in prima pagina e in una cella. “Non lo so quanto resisto ancora qua dentro, sono distrutto”. Sono le parole disperate di un uomo, Alessandro Irco, un padre mandato in galera dalle pesantissime accuse dell’ex moglie e della giovane figlia. Una storia drammatica, che però forse non è proprio come sembra. Nina Palmieri raccoglie infatti i ricordi di Erika, la figlia dell’uomo accusato di essere stato un orco violento, tra botte e abusi sessuali. All’inizio la memoria è quella di un padre amorevole, presente e affettuoso. “Era un bambinone, cantavamo sempre insieme”. È con l’adolescenza e le prime uscite tra amici e ragazzini che quel padre sembra cambiare nel ricordo di Erika tra botte e soprusi che non avrebbero risparmiato neanche sua madre. Quando il padre perde il lavoro, inizia un incubo fatto di alcol, violenza, soldi buttati al videopoker. “Ha cominciato a giocare tutti i soldi che avevamo e si arrivava sempre alle mani”, racconta in un primo tempo la ragazza. E così Erika finisce per attaccarsi ancora di più alla sua unica difesa, la madre. Ed è qui che la ragazza, probabilmente, inizia ad assimilare i racconti della madre e a farli propri nella sua testa. “Io ascoltavo la mia mamma che mi diceva che mio padre la obbligava anche ad avere rapporti sessuali, picchiandola e minacciandola”, dice Erika. E sempre come conseguenza dei racconti della madre, la ragazza percepisce di essere in pericolo. La paura la fa chiudere in casa. Per lei quell’uomo adesso è diventato “un mostro”. “Temevo che potesse ammazzarmi o violentarmi”, racconta Erika. La giovane vuole proteggere la sua mamma: “La vedevo sempre con gli occhi ribaltati all’indietro, quasi incosciente”. Un ricordo che la ragazza pensa che sia dovuto “a quelle botte”. O almeno è quello che ha sempre pensato per molto tempo. Si fa coraggio e porta via da quella casa la madre. Decidendo anche di denunciare il padre per le violenze che avrebbe compiuto sulle due donne. La madre mette nero su bianco tutti i suoi racconti: “Da 7 anni mio marito picchiava i nostri figli. Mi obbligava a rapporti orali, la sera prendevo una dose grande di psicofarmaci per stordirmi e per non sentire le sue violenze”. Anche Erika viene chiamata a fare la sua deposizione e conferma tutto quello che la madre ha raccontato, parlando anche di violenze subìte dal padre in prima persona: “Ero molto arrabbiata, volevo solo che sparisse in quel momento”. L’uomo va in carcere: il 18 dicembre 2019 ci entra per scontare una condanna a 5 anni per violenza e maltrattamenti in famiglia. Ma siamo davvero sicuri che tutto quello che è stato raccontato e scritto sulla denuncia sia vero? Forse no, se mamma e figlia arrivano a chiamare Le Iene per salvare in qualche modo l’uomo che hanno mandato in prigione. “In realtà non è la verità, mio padre è innocente ed è in carcere per colpa mia e di mia mamma. Se non lo tiriamo fuori rischia che si ammazzi…”, ci dice Erila. Questa consapevolezza drammatica inizia tre anni fa quando Erika diventa madre. La madre le ha sempre impedito di rivedere l’uomo ma la giovane si fa forza e decide di incontrarlo, anche per dargli l’opportunità di fare il nonno. E lì, a contatto col padre, la giovane capisce che la storia è completamente diversa. “Mio padre mi ha mostrato un telefono in cui c’erano messaggi tra mia madre e lui, messaggi che hanno smontato tutta la mia vita. Ho scoperto che mia madre dice che la denuncia l’avevo fatta io, che io mi sono inventata tutto e scopro anche che loro due avevano una relazione nascosta, dopo la denuncia”. Una scoperta che provoca nella testa di Erika una sorta di blackout della memoria. La giovane capisce che è stata vittima di tutta quell’atmosfera di tensione che si viveva in casa, dei ricordi della madre e di falsi ricordi fatti propri. E così, sbloccata la memoria di quegli anni, Erika cambia versione con Nina Palmieri: “In casa non c’era di certo la pace, ma io di fatto non ho mai visto uno stupro, un calcio, non sono mai stata ammazzata di botte. Qualche schiaffo è volato, perché me lo meritavo…”. La causa delle sue vecchie convinzioni? Lo racconta lei stessa alla Iena: “La mamma raccontava e io credevo a tutto. Quei racconti fermentavano nella mia testa, io ero convinta di quello che dicevo e facevo, pensavo di doverla proteggere da quel mostro”, racconta tra le lacrime. Nella testa di Erika c’è ancora un enorme buco nero: quando Nina le mostra le dichiarazioni contenute nelle denunce nei confronti del padre, non ricorda nulla. Decidiamo di andare a parlare con l’altra metà di questa storia, la madre di Erika. E anche lei conferma, di fatto, che si è trattato di accuse del tutto false: “Se possiamo salvare questo uomo, salviamolo. C’è un innocente in carcere!”. “Eravamo una famiglia felice. Non c’era violenza sessuale, nulla. Io lo amavo”, continua. Quando le facciamo vedere le sue denunce, le spiega in questo modo: “Io ero sotto effetto di farmaci, quando l’ho denunciato ero sotto quell’effetto”. Farmaci che, racconta la donna, sarebbero stati proprio la causa dei racconti di violenze e stupri. Racconti raccolti dalla giovane figlia Erika e poi passati ai carabinieri attraverso le denunce. “È stato un dramma per tutti, ho creato io quel caos. Mi hanno rovinato la vita quegli psicofarmaci, mi dispiace veramente tanto”, cerca di giustificarsi, disperata, la madre di Erika. La donna aggiunge poi anche un’altra circostanza, molto importante: “In seguito ho cercato di ritirare la denuncia, ho dichiarato che non c’è stata nessuna violenza sessuale”. Il processo intanto prosegue e arriva al primo grado di giudizio, che finisce con la condanna dell’uomo. Nonostante la donna in aula racconti che col marito si facesse l’amore senza alcuna costrizione, Alessandro viene condannato a 8 anni di carcere. Erika chiede di parlare ma senza fortuna: “Non mi è stata data la possibilità di farlo”, racconta a Nina Palmieri. La madre in Appello, dopo avere smontato le sue precedenti accuse, presenta un certificato medico che spiega che “quelle pastiglie avevano influenza sulle sue capacità cognitive e mentali. Gli stessi farmaci creavano una realtà diversa da quanto avvenuta con il signore Irco Alessandro”.  E se da un lato la donna chiede che non si proceda penalmente contro di lui, i giudici lo condannano a 5 anni. In Cassazione, tutta la famiglia è di nuovo unita nel desiderio di vedere riconosciuta l’innocenza di Alessandro, ma il tribunale conferma la condanna del secondo grado: l’uomo deve andare definitivamente in prigione.

La madre conferma di non voler abbandonare la sua battaglia a favore del marito: “Sono disposta a qualsiasi cosa per tirarlo fuori dal carcere, perché è innocente”. Alessandro, intanto, dalla cella grida tutta la sua disperazione: “Non ce la faccio più. Non so quanto resisto ancora qua dentro. Fai qualcosa, Erika…”.

“Il tuo papà è un orco”. Ma non era vero. Il terribile caso Schillaci. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 29 febbraio 2020. Era il 9 aprile del 1989, e un tranquillo insegnante di matematica fu accusato di aver seviziato la figlia due anni. Storia di un terribile errore giudiziario. 9 aprile 1989. Domenica. Villaggio Giovi, Limbiate, hinterland milanese, palazzi non troppo brutti, anche se non proprio un’oasi di bellezza. Però, è una giornata di sole, luminosa e calda. C’è una festicciola a casa Schillaci, cinquanta metri quadrati, bagno e cucina compresi. Lui, Lanfranco, da Piazza Armerina, Enna, insegnante di Matematica, figlio di insegnanti, un omone grande e grosso, compie gli anni, 34. E ha invitato una coppia di amici, una cosa alla buona, si sa come sono i siciliani: c’è venuto da là qua a prendere il posto, il signor Schillaci. Anche la moglie, Maria Capa, insegna, anche lei è siciliana. Una famiglia modesta, una casa modesta, però ora di proprietà. Hanno una bambina, Miriam, di due anni e mezzo. Miriam è gracile di natura, ha spesso la tosse, il raffreddore, la bronchite. Anche in questi giorni ha la febbre, la curano con supposte di Tachipirina prescritte dal medico. Oggi, la giornata è bella e la bambina vuole uscire, e il signor Schillaci insieme al suo amico la porta ai giardinetti sotto casa, la bimba gioca, forse si muove tanto, si scalmana, suda, si sa come sono i bambini. Quando tornano a casa, le misurano la febbre: alta, assai. Allora, chiamano il pediatra di famiglia e quello insiste e persiste nella sua prescrizione: supposte di Tachipirina. Sembra un tormento. Nel pomeriggio, arrivano gli zii – si sa come sono i siciliani – e la bambina gioca con loro. Forse si fa male, si mette a piangere e non la smette più. Per il signor Schillaci quel pianto è una pena troppo grande. Così, mette la bimba in auto – una 127 traballante, bisogna risparmiare ora che s’è comprato casa – e va all’ospedale di Garbagnate a mostrare Miriam al pediatra, che quel giorno era di turno. 17.30: visita, niente di particolare, sindrome influenzale, solita prescrizione se la febbre non scende. Tornano a casa. La madre cambia la bambina, un urlo strozzato: ci sono macchie di sangue sul pannolino e un livido sul sederino. Schillaci torna a Garbagnate con la bimba in auto, ma il pediatra se n’è andato, tra una cosa e l’altra si sono fatte le nove, le nove e mezza. Al Pronto Soccorso il medico decide un’ispezione rettale, poi ordina il ricovero in pediatria. Al mattino, la bimba è distrutta, e anche i genitori. L’ospedale di Garbagnate decide di mandare la piccola Miriam a Milano, al Niguarda. Com’è prassi, invia intanto il referto dell’ispezione rettale all’autorità giudiziaria: ematoma zona sacrale. Anche al Niguarda effettuano la visita e anche loro mandano il referto all’autorità giudiziaria, come da prassi. E qui inizia l’incubo. Per una decina di giorni la bambina rimane in ricovero e osservazione al Niguarda. Sono intanto arrivati i nonni dalla Sicilia, e si fanno i turni di notte. Schillaci va e viene dalla scuola all’ospedale, è inquieto per quella storia dei referti inviati all’autorità giudiziaria, ma soprattutto non capisce cosa stia accadendo a Miriam. Finché succede che il primario del reparto del Niguarda, il professore Luigi Contorni, telefona al dottor Ingrascì, del Tribunale dei minori, dando forma a un’accusa precisa: non c’è alcun dubbio che su quella bambina siano stati commessi abusi, e il responsabile non può che essere il padre. Il Tribunale dei minori immediatamente riunito dispone l’allontanamento del padre. Succede pure che qualcuno passa la notizia ai giornali. E i giornali imboccano con tutte le scarpe, rincorrono la notizia. È il 23 aprile. I titoli: «Violenza su una bimba di due anni: terribile sospetto, il padre avrebbe abusato di lei». «Una bimba è stata violentata, ha soltanto due anni e mezzo». Adesso c’è un Mostro. Intervistato, il professor Contorni del Niguarda mostra solo granitiche certezze, palesa un’inflessibilità civica senza dubbi: «Mi sono trovato davanti a uno spettacolo disgustoso». Il sostituto procuratore del Tribunale dei minori, il dottor Ingrascì: «Le foto allegate al rapporto stanno a dimostrare le sevizie bestiali cui la bimba è stata sottoposta». I giornali sparano nome, cognome, indirizzo del Mostro, danno la caccia ai vicini di casa che raccontano episodi stupidi di vita quotidiana ammantandoli di ombre, oscurità e ambiguità – ora, sì, è tutto chiaro. Medici e infermieri del Niguarda ci mettono il carico da undici, aggiungono particolari – se il padre si avvicina, la bimba piange, è chiaro, no? – che disegnano scene dell’orrore. E se lo dicono persone in camice, non puoi che credere all’autorità. La vita della famiglia Schillaci diventa un inferno: anonimi telefonano, insultando e minacciando, i fotografi stazionano sotto la loro casa, i vicini guardano torvi. La procura di Milano, cui il caso è affidato – precisamente al sostituto procuratore Daniela Borgonovo – ordina una perizia, e si lavora ventre a terra. La perizia arriva: non c’è stato alcun abuso, e il trauma può avere origine forse anche nelle manovre ispettive, in una situazione in cui il paracetamolo della Tachipirina, in dosi massicce, ha già probabilmente causato dei danni. È il 5 maggio. «Vorrete darci atto che dall’inizio di questa vicenda l’ atteggiamento della procura è stato di estrema prudenza. I genitori della piccola non sono stati indiziati di alcun reato. Adesso, alla luce della perizia medico legale, possiamo dire che questo atteggiamento di prudenza si è rivelato più che giustificato». Sono le parole che Saverio Borrelli, procuratore capo milanese, pronuncia davanti ai giornalisti. Il giorno dopo, Enzo Biagi, nella sua trasmissione “Linea diretta” intervisterà il signor Schillaci. Non c’è alcun Mostro. I giornali virano improvvisamente ma non mollano la presa: sotto accusa adesso i medici dei due ospedali, un muro compatto, partono accuse e discredito contro il medico della perizia, il loro lavoro è stato adamantino, il trauma c’era con ogni evidenza, e se non c’è stato abuso, di sicuro l’origine è una violenza. «Sul fatto che abbia subito violenza possiamo mettere la mano sul fuoco». Anche il Tribunale dei minori viene interpellato: «C’è stata una grossa montatura iniziale su questa storia. Un padre intelligente avrebbe capito che nessuno lo ha accusato di essere un mostro». Lui pure, il dottor Ingrascì, non molla. Gli Schillaci sono a pezzi, e non è più cosa restare lì, non adesso, sicuro. Partono per la Sicilia. La bambina però sta ancora male. Il 2 giugno, Miriam entra all’ospedale Santa Marta di Catania. E una Tac rivela: tumore maligno, teratoma congenito, dalla nascita, tra la vescica e il retto. Bisogna operare. Miriam viene operata d’urgenza, s’è perso troppo tempo. L’operazione va bene, ma la bambina è provatissima. Lentamente si riprende. Anzi, a un certo punto le condizioni sembrano davvero migliorare. È passato un anno ormai. Poi, tutto precipita: un blocco urinario complica le cose e provoca la sua morte. Gli ultimi giorni di vita di Miriam sono un vero e proprio calvario. «Quale capo dello Stato e rappresentante dell’unità nazionale sono qui a chiedervi perdono per le ingiuste sofferenze che la terrena limitatezza dell’attività dello Stato vi ha così crudelmente inferto e per i peccati di indifferenza e leggerezza di cui una intera società si è resa colpevole verso di voi». È il telegramma che il presidente della Repubblica Francesco Cossiga invia ai genitori della piccola Miriam Schillaci nel giorno del suo funerale. 5 giugno 1990.Gli Schillaci ebbero un altro figlio, dopo, Giuseppe. Miriam non l’ha conosciuto.

Da "leggo.it" il 18 febbraio 2020. È ripreso a Prato il processo alla donna di 32 anni che ha avuto un figlio da una relazione con un ragazzino a cui faceva ripetizioni: il giovane, ora sedicenne, ha testimoniato ieri in tribunale, nascosto dietro un paravento, dove ha risposto alle domande dei giudici, e ha parzialmente smentito le ricostruzioni della 32enne, attualmente ancora ai domiciliari da quasi un anno. «Il primo rapporto l'ho avuto quando avevo 13 anni, non ricordo il giorno esatto ma era il giugno del 2017», ha detto. Il ragazzo lo ha riconfermato in tribunale, dove la donna con cui ha avuto una relazione e che ha avuto un figlio da lui lo stava ascoltando. Il rapporto amoroso sbocciò durante le ore di ripetizioni che la donna impartiva al ragazzino e da cui è nato un bambino nell'agosto del 2018. La 32enne è a processo per violenza sessuale su minore e violenza sessuale per induzione insieme al marito, suo coetaneo, accusato di alterazione di stato civile per aver riconosciuto un figlio che sapeva non essere suo, come sostengono i pm Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli.

LA PRIMA VOLTA NEL 2017. Il processo, ieri, riferisce «La Nazione», è ripreso con la testimonianza del baby padre. A volerlo risentire, nonostante l'incidente probatorio dell'aprile scorso, è stato il collegio dei giudici che ha voluto puntualizzare i fatti avvenuti il 21 giugno del 2017, data in cui si sarebbe consumato il primo rapporto sessuale fra i due come emergerebbe da alcune conversazioni su Whatsapp. La donna e l'adolescente non si vedevano da circa un anno, da quando la famiglia del giovane, assistita dall'avvocato Roberta Roviello, ha presentato denuncia mettendo in moto l'inchiesta. E ieri erano tutti riuniti nella stessa aula: l'imputata, il marito, il ragazzo e i suoi genitori.

LEI DICEVA CHE NE AVEVA 14. Il minorenne è stato sentito in modalità protetta nascosto dietro un paravento di fortuna e ha risposto solo alle domande dei giudici. Il 16enne ha ribadito di aver iniziato la relazione quando aveva ancora 13 anni al contrario di quello che sostiene la difesa. L'imputata ha sempre smentito questa circostanza datando l'inizio della relazione al novembre 2017, quando il ragazzo aveva appena compiuto 14 anni. Il minorenne, però, è apparso sicuro e le sue dichiarazioni sono state ritenute dettagliate e ben circostanziate anche se non ricordava il giorno preciso del primo rapporto.

LA PERIZIA PSICHIATRICA. Il dibattimento è alle battute finali. La prossima settimana sarà sentito il neuropsichiatra bolognese Renato Ariatti, incaricato dal tribunale di effettuare una valutazione sulle condizioni psichiche della donna. Nella relazione, già depositata, il professore, che in passato ha seguito il caso di Annamaria Franzoni, la mamma di Cogne, ha ritenuto l'imputata «capace di intendere e volere» sottolineando come non sia «una pedofila» ma che sia stata attratta solo dal quel ragazzino in particolare. La sua perizia sarà messa a confronto con quella del consulente della difesa. La discussione è prevista a marzo.

AI DOMICILIARI DA 11 MESI. La questione di datare con esattezza il primo rapporto sessuale è importante perché potrebbe alleggerire o aggravare la posizione dell'imputata, difesa con il marito dagli avvocati Massimo Nistri e Mattia Alfano. L'udienza è durata poco più di due ore e il ragazzo insieme ai familiari è stato fatto passare da una uscita secondaria in modo da non incontrare la donna. La coppia, invece, come sempre presente al processo, è arrivata e ha lasciato il tribunale unita. L'imputata è agli arresti domiciliari da undici mesi.

Andrea Scaglia per ''Libero Quotidiano'' il 16 febbraio 2020. È sempre così, no? Quattro o cinque giorni a straparlare di una vicenda, a sviscerare e interpretare e proiettare in favor di telecamere e di social (con il consueto tono da «signora mia, ma dove siamo arrivati...») e poi, quando i telespettatori iniziano ad averne a noia, i riflettori vengono prontamente girati in un' altra direzione e ciao, chi s' è visto s' è visto. E se da una parte, dopo che il quarantesimo sedicente esperto ha detto la sua senza peraltro saperne punto, ci si può dire sollevati, dall' altra si dimentica che, in genere, la vicenda in questione passa silenziosamente ma inesorabilmente nella dimensione più viscosa e labirintica, quella propria del nostro sistema giudiziario. E può assumere contorni surreali. La storia, emersa nel marzo dell' anno scorso, è quella della donna di Prato, oggi 35enne, che un paio di estati fa ha avuto una relazione con l' adolescente a cui dava lezioni private d' inglese, relazione da cui è nato anche un bambino. Ricordate? Tutt' Italia ne ha parlato con morbosa passione, divisa fra coloro che additavano la signora - già sposata e mamma di un altro bimbo - a stupratrice senza scrupoli, e quelli che invece si davano di gomito, «ma se il maschietto è stato in grado di coricarsi con la prof, significa che non l' ha fatto così controvoglia...». Lui si diceva sconvolto dalle pressioni di lei, pareva fosse impazzita, lo tempestava di messaggi, le scriveva «mi hai rovinato la vita». Lei che ammetteva di essersi innamorata di quel baldo giovanotto che dimostrava più della sua età, e però rimarcava come lui fosse del tutto consapevole e consenziente. In mezzo, il marito di lei, convinto di essere il papà anche di quel piccolo appena nato, rimasto al fianco della moglie anche dopo l' esplosione dello scandalo, e che continua a fare da papà a tutti e due i bambini - d' altronde, papà è chi sceglie di esserlo, non chi ci mette solo la sostanza biologica. Il processo, iniziato lo scorso settembre, è in corso - e meno male che è stato scelto il rito abbreviato. Tutto si gioca sull' età del ragazzino: l' accusa sostiene che i rapporti sessuali con la donna sono iniziati quando lui aveva ancora 13 anni, cosa che prefigurerebbe il reato di violenza sessuale per induzione su minore, poiché il codice penale stabilisce che a quell'età le persone non abbiano ancora sviluppato sufficiente consapevolezza delle proprie scelte. La difesa, invece, ribatte che invece di anni ne aveva già 14, e dunque l' atto non sarebbe punibile. E qui, se in effetti ci si rende conto di come la legge per forza debba basarsi su limiti e restrizioni che possono a volte risultare ondivaghi e arbitrari, fa pensare il fatto che - per dire - qualche settimana in più o in meno in ordine all' atto consumato può rappresentare la distanza fra un' assoluzione e una condanna durissima. Difficile prendere una posizione perentoria, in una vicenda del genere. E difficile è soprattutto il compito di chi dovrà giudicare. E però noi cronisti osserviamo piuttosto sbigottiti quelli che, evidentemente, sono passaggi obbligati. Si viene ora a sapere, per esempio, che la donna è stata sottoposta a perizia psichiatrica - peraltro da parte del neuropsichiatra che già si occupò del famoso delitto di Cogne, col bimbo massacrato e la madre condannata. Ecco: le analisi hanno stabilito che la donna era ed è capace di intendere e di volere. Ma perché, c' era qualche dubbio? Giusto sgombrare il campo da qualunque possibile ipotesi, ma davvero qualcuno credeva che la passione della signora, certo mal indirizzata, potesse configurare addirittura un disturbo mentale così grave da inibire l' uso della ragione? Riavvolgendo poi il nastro di questa storia peraltro meno inusuale di quanto si possa pensare, ci si ricorda di come sia stato sottoposto all' esame del Dna anche l' altro bambino della coppia, che oggi ha dieci anni. Ma perché? È stato accertato che lui, invece, è effettivamente pargolo naturale di colui che ha sempre chiamato papà. E dunque? Qualora non lo fosse stato, in che modo sarebbe cambiata la vicenda processuale? Boh, più che un processo pare una trasmissione di gossip. Ancora un paio di cose. Nel processo in questione è imputato anche il marito, in quanto si è intestato una paternità non sua. Ora, a parte il fatto che il malcapitato ha saputo di non esserlo parecchi mesi dopo la nascita del bimbo, ma che cosa avrebbe dovuto fare? Ripudiarlo? E poi: si viene a sapere che l' imputata, dopo quasi un anno, è ancora agli arresti domiciliari. Ma perché? Ricordiamo che, per tenere una persona in custodia cautelare durante il processo, sono necessarie tre condizione: il pericolo di fuga (figuriamoci); la possibilità di reiterazione del reato (in questo caso impossibile); il fatto che potrebbe inquinare le prove (e come?). Questa 35enne ha certamente fatto qualcosa di censurabile, e nessuno vuole sminuire i traumi che al ragazzino ne possono essere derivati, ma pare si sia davanti a una pericolosa criminale. E niente, in questa delicata vicenda della prof che ha fatto un figlio con l' alunno troppo giovane, la vera indecenza pare essere rappresentata dal nostro sistema giudiziario. Ma questa non è una notizia.

Brunella Bolloli per "Libero" il 29 marzo 2020. Sul profilo whatsApp c' è la foto di una famiglia felice: padre, madre, due figli e poco importa se il più piccolo, biondo e paffuto, non assomiglia al genitore. È il bimbo che G., la 31enne di Prato, famigerata "prof dello scandalo" ha avuto da un suo giovanissimo allievo. Una storia di passione irrefrenabile culminata con la nascita del bebé e con l' arresto della signora, accusata di violenza sessuale nei confronti di minore. In pratica: una pedofila. Una violentatrice di minori, forse perfino un po' pazza. Da ieri questa madre è tornata in libertà e ammette che non ci sperava più, «che ora davvero posso ricominciare a fare la mamma come tutte le altre, a prendermi cura dei miei due bambini, a ritrovare il calore di una famiglia». È stata undici mesi ai domiciliari, con lei solo il piccolino che oggi ha un anno e mezzo, il marito soltanto per alcuni mesi si era allontanato con il primogenito per evitare che rimanesse traumatizzato dalla situazione. Il marito per un po' è andato ad abitare in un' altra casa, ma mai ha pensato di chiedere il divorzio o di abbandonare la moglie in tempesta. È stato l' esempio dell' amore coniugale che resiste di fronte ad ogni ostacolo e ha creduto davvero, il marito tradito, che quel neonato fosse sangue del suo sangue. Infatti l' ha registrato all' anagrafe con il suo nome, perciò è accusato di «alterazione di stato» perché avrebbe mentito attribuendosi la paternità del bimbo pur sapendo che era di un altro. Da ieri G. può andare al parco con il pupo nel passeggino, fare la spesa e portare a scuola l' altro figlio. Ma la vicenda non è finita. Il 23 marzo, fa sapere l' avvocato Mattia Alfano, è attesa la sentenza. «Se abbiamo scelto di andare a processo», spiega il difensore, «è perché sapevamo che potevamo dimostrare che non siamo di fronte a una pedofila». Anche la perizia psichiatrica chiesta dal tribunale ha accertato che non vi è alcun vizio di mente in questa signora che si è invaghita in modo profondo e quasi disperato (nei messaggi minacciava il suicidio) di una persona molto più giovane di lei e, all' epoca dei fatti, senza esperienze. Quattordici anni lui, più del doppio lei, i due amanti si sono incontrati quasi per caso nella palestra dove il ragazzino era uno dei campioncini di arti marziali e in quel centro si allenava anche il primo figlio di 7 anni della donna. Così, grazie ai tanti pomeriggi passati in palestra a vedere i rispettivi pargoli, tra la 31enne Oss (operatrice socio-sanitaria) e la madre del karateka è nata quasi un' amicizia. Quando a un certo punto lo studente di terza media ha avuto bisogno di recuperare con l' inglese dopo un brutto voto, la trentenne, diplomata al Liceo linguistico, si è subita offerta: «Fallo venire da me», ha detto all' amica, «gli insegno io. Vedrai, recupererà». Con le lezioni a casa della prof è cominciata anche la relazione, non limitata a qualche carezza o bacino innocente sulla guancia. I messaggini che i due si scambiavano dimostrano un livello di confidenza sempre maggiore, si sono infittiti i pomeriggi sul divano a ripassare l' inglese e un giorno che l' allievo lamentava dolori alla schiena, la prof l' ha invitato a stendersi per un massaggio. In breve. Sono passati i mesi e un bel giorno G. ha scoperto di essere rimasta incinta del suo giovanissimo amore. Anche la madre di lui ha notato un comportamento strano e ha messo il figlio alle strette. Il baby papà ha confessato di essere rimasto irretito da quella donna così invadente e allo stesso tempo premurosa, di non sapere più come uscirne. È scattata la denuncia e presto ci sarà il processo. Intanto il giudice ha disposto il divieto di avvicinamento al ragazzo il quale, per inciso, non ha mai chiesto nulla del figlio che ha avuto da questa relazione.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2020. Non era una storia d' amore proibita tra un'insegnante (improvvisata) e il suo allievo poco più che bambino. E di romantico non c' era proprio niente in quegli incontri torbidi iniziati tre anni fa e che si consumavano dopo le lezioni d' inglese in una casa nell' immediata periferia di Prato. Era solo violenza sessuale che una donna di 32 anni, operatrice sanitaria in una Rsa, sposata con un figlio, perpetrava ai danni di un tredicenne, da cui poi ha avuto un bambino. Così almeno ha stabilito il tribunale di Prato che dopo mesi di indagini della Procura ha condannato a 6 anni e mezzo quella donna il cui nome resta un segreto solo per tutelare le vittime minori di questa storia. Anche il marito della signora è stato condannato a un anno e mezzo di detenzione per essersi attribuito in un atto ufficiale la paternità del bambino pur sapendo che non era suo. È una sentenza di primo grado, si andrà in appello e poi quasi certamente in Cassazione, ma al di là di come si concluderà l' iter giudiziario resta la disperazione di una mamma (quella del ragazzino vittima delle violenze) diventata improvvisamente una nonna biologica, che sta vivendo le sofferenze interiori del figlio abusato, troppo giovane per diventare padre. Al termine della requisitoria l' accusa (pubblici ministeri Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli) aveva chiesto sette anni di carcere per la donna e due per il marito. Lo «sconto» di pena è stato minimo e il tribunale, presieduto da Daniela Migliorati, non ha applicato le attenuanti condannando l' imputata per «atti sessuali e violenza sessuale per induzione su minore». Eppure l'operatrice sanitaria (rimasta per un anno agli arresti ai domiciliari e poi seguita da uno psicologo), mamma anche di un altro figlio avuto dal marito, sembrava sincera quando al pm raccontava di essersi davvero innamorata di quel ragazzino. «Ho perso la testa, ma non l' ho sfiorato sino a quando non ha compiuto quattordici anni», aveva detto. E al giudice aveva giurato che per lei quella non era una storia soltanto di sesso e che a quell' allievo a cui impartiva lezioni di inglese, figlio di amici di famiglia che frequentava la sua stessa palestra, voleva bene davvero. I magistrati inquirenti avevano però accertato un' altra verità. Secondo l' accusa, infatti, la donna avrebbe costretto il ragazzino ad avere una relazione minacciando di raccontare il loro segreto e di mostrare a tutti quel bambino che gli somigliava moltissimo. Dopo la sentenza l' operatrice sanitaria, visibilmente provata, ha parlato di un' altra verità. «Che spero venga fuori in appello», ha detto. Poi, a chi le ha chiesto che cosa avrebbe fatto adesso, ha risposto di avere un solo desiderio: «Dedicarmi a mio marito e ai miei due figli, cosa che ora posso fare con più distacco e tranquillità». La difesa, sostenuta dagli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri, si è battuta per l' assoluzione della donna sostenendo che non solo il rapporto era consenziente, ma era avvenuto quando il ragazzino aveva compiuto quattordici anni e dunque era già, per la legge, personalità giuridica. Il giovane allievo però in una testimonianza l'aveva smentita dicendo che i primi abusi erano iniziati quando ancora aveva tredici anni. Dichiarazioni che i legali della donna hanno giudicato contraddittorie e prive di riscontri oggettivi. «Il nostro compito era quello di reagire e portare fuori dalle vicende processuali la velata accusa di pedofilia, la reiterazione e il sospetto adescamento di altri minori - hanno commentato i due legali -. Al di là della sentenza siamo soddisfatti per aver ricondotto nel giusto alveo tutta la vicenda e non avere una persona che patisce provvedimenti basati su accuse poi risultate prive di fondamento».

Laura Montanari per “la Repubblica” il 2 giugno 2020. La denuncia è partita da lei, ma per un anno lei ha taciuto e solo ieri, dopo la sentenza, ha rotto il silenzio: «Quella donna non si è vergognata di niente, ha abusato di mio figlio e in casa ne aveva uno suo, appena più piccolo». È uscita dall' aula del tribunale di Prato, ha abbassato la mascherina che le copriva la bocca e si arresa agli obiettivi dei fotografi e delle telecamere. «Credo nella giustizia, per questo non ho mai voluto dire niente prima. Di certe cose non si parla in piazza, ma nelle aule del tribunale». Le parole si sono interrotte subito per l' emozione e le lacrime. Con le mani toccava un foglio con degli appunti scritti al computer, «Non vorrei dimenticarmi di dire delle cose. Grazie alla mia avvocata Roberta Roviello e allo psicologo che ci hanno seguito in tutto questo tempo non facendoci mai sentire soli».

La sentenza riconosce la colpevolezza dell' insegnante che dava ripetizioni di inglese a suo figlio. ..

«Sì ma non finisce qui, quella donna gli ha rovinato la vita e per noi la strada sarà ancora lunga, oggi si è chiusa una parentesi. Mi ci vuole forza e coraggio per andare avanti, ho tre figli da crescere».

Come ha scoperto la relazione dell' insegnante con suo figlio?

«Nel 2018 ero stata operata all' anca e stavo a casa. Osservavo i miei ragazzi, lui aveva sbalzi di umore, mi faceva domande su quella donna. "L' hai vista?" Frequentavamo la stessa palestra. "Ti ha detto qualcosa?" Ho cominciato a insospettirmi. Ho messo in fila un sospetto, un altro, un altro ancora. Ho capito che voleva allontanarsi da lei e ho cominciato a chiedermi perché. Un giorno sono andata con l' istruttrice della palestra e lui ha voluto venire con me: lì ci ha fatto leggere i messaggi sul cellulare e abbiamo capito. Vorrei dire una cosa». Che cosa? «Non abbiamo mai cercato vendetta. Ma quella donna non si è vergognata di niente, anche in aula ha avuto un atteggiamento sprezzante. Ha detto che la verità è un' altra come se non si rendesse conto di quello che aveva fatto. Quale altra? La verità è questa: ha abusato di mio figlio quando lui non aveva nemmeno 14 anni, lo ha ricattato e minacciato. I bambini e le bambine non si toccano, mio figlio l' ha rovinato e nessuna sentenza mi risarcirà».

Come sta adesso suo figlio?

«Ha un carattere forte, fa sport a livello agonistico, sogna le Olimpiadi, si allena e studia».

Cosa le ha detto dopo averle raccontato quello che era accaduto?

«Grazie mamma mi hai liberato da un peso, ricomincio a vivere».

Le ha chiesto qualcosa in questi giorni?

«No. Ha isolato questa vicenda dalla sua vita, è come un cassetto che tiene chiuso. Quando lo psicologo le ha domandato del bambino lui ha risposto: io non ho chiesto niente, quello è il figlio di (segue il nome dell' insegnante di inglese, ndr)».

E lei a quel bambino, che adesso ha due anni, ci pensa?

«Sono nonna lo so, ma in questo momento mi interessa la vita di mio figlio, è lui che devo proteggere. Ci penso, certo che ci penso. Quel bambino è frutto di un abuso e ora non riesco a sentirlo come mio nipote. Ci vorrà tempo o forse no, non so» . 

Simona Bertuzzi per ''Libero Quotidiano'' il 7 giugno 2020. È sempre stato nell'ombra. Anche quando il mondo gli rotolava addosso e delle sue certezze di ragazzo saldo e perbene, con una vita tranquilla e un lavoro sicuro in un' azienda che produce altoparlanti, restavano solo cenere e chiacchiere. Lui per tutti era solo il marito della prof 32enne di Prato che aveva avuto una relazione e un figlio da un ragazzino 14enne. E in quella veste scomoda e vischiosa provava a ricucire la sua esistenza stravolta. Svegliarsi la mattina. Guardare in faccia la moglie che ti ha tradito, il figlio avuto con lei quando erano giovanissimi e quello più piccolo e vispo nato da una relazione clandestina ma non meno amato. E poi uscire di casa, andare a lavorare, prendere il caffè nel bar della piazza dove tutti ammiccavano e più di uno - si sa come funziona la vita nelle città piccole come Prato - sussurrava malevolo è lui il povero marito della pedofila?. Una sentenza di qualche giorno fa ha condannato la donna a sei anni e sei mesi per atti sessuali con minore e violenza sessuale per induzione. A un anno e otto mesi lui per essersi attribuito la paternità del bambino pur sapendo che non era suo, tecnicamente il reato è "falsa attestazione di stato". Sono cadute invece le accuse più infamanti di pedofilia e adescamento di minore, le stesse che hanno imposto alla donna per oltre un anno gli arresti domiciliari in luogo di un semplice divieto di avvicinamento (come è stato deciso un mese fa). Il marito non entra nel merito della vicenda processuale «non voglio dire nulla della sentenza, leggeremo le motivazioni e poi ci sarà l' appello» e quando risponde al telefono sorprende per fermezza e lucidità. Il dolore certo non si cancella, «ci sono stati momenti difficili, tanti svarioni», ma poi tocca andare avanti. E capovolgere il senso comune e i pregiudizi della vulgata. Il 99% delle persone, anzi diciamolo dei maschi italiani, se ne sarebbe andato su due piedi, avrebbe sbattuto la porta in faccia alla vita passata, alla moglie fedifraga e a quel ragazzino che ha nel suo visino l' impronta indelebile di un amore extra coniugale. Lui no, lui è andato avanti semplice e saldo nei suoi giudizi e nelle sue responsabilità di padre. Non nasconde le voragini e il buio di certi giorni cupi.

PADRE FIGLIO. «È stato un momento durissimo scoprire il tradimento, una botta pazzesca, ma non ho mai pensato che il figlio non fosse mio. L' ho scoperto a marzo con l' esame del Dna. E anche allora non è cambiato nulla nella mia vita di padre, ho continuato ad amare quel bambino come il primo giorno. Le dico di più. Mi sarei vergognato di mettere davanti a tutto l' orgoglio personale. E mollare un figlio solo perché avevo scoperto che era di un altro. Sarebbe stato un gesto egoista che non mi apparteneva». In fondo, dice, ci sono bimbi «che vengono scambiati in culla alla nascita. Altri che sono figli dell' eterologa. Non tutti hanno una nascita lineare. Eppure crescono felici e sereni». La stessa società è più complessa di quel che era un tempo. Esistono le famiglie allargate e sono tanti i padri che subentrano in una situazione già in essere. In fondo «un padre è chi lo fa non chi lo è». Chi si alza la notte per cullare i pianti. Chi accompagna i primi passetti titubanti. Chi fotografa le pappe e ruba i sorrisi. Certo verrà il giorno in cui i figli della coppia dovranno sapere «e spero che prevarrà la lezione d' amore della nostra famiglia. Il senso di responsabilità che credo di aver trasmesso ai miei due figli».

GIOVANE E BELLA. Non abbiamo ancora parlato di lei in tutto questo. Della moglie giovane e bella che per un anno ha smesso di essere donna e madre agli occhi dell' opinione pubblica ed è diventata semplicemente la prof di Prato vogliosa e peccaminosa, additata e condannata (prima dai social forse che dai giudici) per essersi concessa a un ragazzino di 14 anni e averci fatto un figlio. «Non l' ho violentato... mi sono innamorata ho perso la testa», si è sempre difesa la donna. E all' uscita del tribunale ha detto: «Il mio unico desiderio è dedicarmi alla famiglia». Tanto diversa dalla presunta ammaliatrice che tempestava di messaggi un adolescente inconsapevole. Gli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri hanno lavorato duramente per far cadere l' accusa di pedofilia e adescamento di minore («erano sospetti talmente avulsi dal profilo psicologico della nostra assistita») e hanno sollevato un dubbio di costituzionalità sulla legge che punisce il sesso con minori di 14 anni (il ragazzino all' inizio della relazione ne aveva 13) visto che i 14enni di oggi sono spesso giovani adulti e maturi. Ma ormai questa donna oggi 35enne, operatrice sanitaria e insegnante di ripetizioni di inglese nel tempo libero (l' ha conosciuto così il 14enne con cui ha avuto la relazione, era il figlio di un' amica e doveva dargli ripetizioni), era solo la sexy prof. Buttata in fondo al fosso insieme al macigno della pubblica reprimenda. Il marito descrive invece tutta un' altra persona: «Non è stato semplice per lei. Ma ci siamo sostenuti a vicenda. Si sta facendo seguire da uno psichiatra. Se dovessi descriverla? Beh è una grande mamma. E una donna molto forte. Mi sono innamorato di lei da ragazzo», si sa come vanno certe storie semplici, al cuor non si comanda. «Eravamo così giovani e lei mi sembrava diversa da tutte le altre, così solare e solida. Poi è arrivato il primo bambino». E il secondo, ma figlio di un tradimento. Tanti uomini non perdonerebbero, lui forse sì. Anche se non parla di perdono. «Non si smette di amare per un errore e il perdono è relativo. Io penso a noi come a una famiglia rafforzata. Siamo maturati entrambi». Neanche per la rabbia c' è posto in questo giovane cuore. Insomma una relazione con un 14enne non capita tutti i giorni. Farebbe incazzare un santo. «Io penso che l' età non conti nulla. Bisogna guardare alla causa che ha generato il tradimento non al fatto in sé. Non mi sento di arrabbiarmi o dare colpe. E poi la colpa non è mai da una parte sola quando una coppia va in crisi».

IL 14ENNE. Impossibile parlare del ragazzo che adesso ha 16 anni e in un certo senso è stato il suo rivale. Più facile appellarsi a parole di circostanza. «Ho grande rispetto per la situazione che questa famiglia sta vivendo al pari della nostra». La madre del ragazzino ha detto dopo la sentenza «i bambini non si toccano che siano maschi o femmine». Rispetto anche per lei, ci mancherebbe. Intanto in questa famiglia stravolta da uno sbandamento del cuore e forse della mente si intravede un po' di sereno: «La pressione è allentata e guardiamo avanti». E avanti c' è una coppia che nel dolore e con la giravolta più torbida e strana della vita è cresciuta e si è rafforzata: «Lasciare Prato? Vedremo, è una città che amiamo entrambi». E poi si sa, i pettegolezzi scemeranno, la pressione mediatica si allenterà, «le famiglie hanno fatto scudo ai nostri ragazzi per fortuna». Dunque cosa resta: «I miei due figli che giocano a calcio, il grande ha trasmesso la sua passione al fratello piccolo io li guardo giocare e non chiedo altro. Sono un papà felice». Già, non si può chiedere di più per adesso. Sarà la verità processuale a stabilire il resto. E il tempo a ricucire le ferite. Ma sarà un fatto privatissimo. E non spetterà a noi sciogliere i dubbi dell' animo umano.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 15 gennaio 2020. Alla fine, come nei processi per stupro degli anni '60, finirà che a doversi discolpare sarà la vittima. C' è una ragazza che dice di essere stata violentata: ma il rischio è che ora sia lei a dover spiegare perché ha accettato un invito, o perché non ha rifiutato un ultimo bicchiere. E persino perché, qualche giorno dopo i fatti, abbia postato su un social network una immagine in cui appare sorridente. Non è una indagine qualunque, quella dove la presunta vittima rischia di essere torchiata come una indagata. Perché tra i quattro maschi che il 26 luglio, in una caserma milanese dei carabinieri, la ragazza ha deciso di denunciare per violenza carnale c'è un figlio eccellente: Ciro Grillo, figlio di Beppe. E proprio nella villa in Costa Smeralda del fondatore del M5s era avvenuta, dieci giorni prima, la festa finita in sesso: sesso forzato, secondo la ragazza, con Grillo junior e i quattro amici che si danno il turno sopra di lei, rintronata dall'alcol e incapace di difendersi. Ma a quasi sei mesi dalla denuncia, la verità giudiziaria sembra ancora lontana. La Procura di Tempio Pausania, competente per territorio, ha prima promesso «indagini rapide», poi una ulteriore «accelerata». Eppure di una conclusione delle indagini non si parla nemmeno. Ultimo atto istruttorio di cui si sia avuta notizia, l'interrogatorio di Parvin Tadjk, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, che quella notte era in una dépendance della villa: il 22 ottobre, convocata dal procuratore Gregorio Capasso, la Tadjk pare abbia detto di non essersi accorta di nulla. Ma della lentezza delle indagini la Procura non ha molta colpa. Se tutto procede molto a rilento è perché sotto accusa non ci sono dei peruviani ubriachi ma quattro rampolli della Genova bene, in grado di esercitare pienamente i loro diritti alla difesa. Ciro Grillo e i suoi amici hanno ad assisterli uno staff agguerrito di legali. E hanno un loro supertecnico informatico, il genovese Mattia Epifani, pronto a scendere in campo in uno dei terreni che potrebbero risultare decisivi per l'inchiesta, ovvero l'analisi degli smartphone e dei profili social dei protagonisti. Non solo dei quattro indagati, ma anche della diciannovenne milanese che li ha denunciati. I ragazzi hanno consegnato spontaneamente telefoni e password, ma ora il problema è risalire ai contenuti cancellati. Per questo l' 11 settembre la Procura ha nominato un suo consulente, che ha aperto le memorie alla presenza del perito della difesa, che ha potuto estrarre copia ufficiale dei contenuti. La relazione del consulente dei pm ha impiegato parecchio più del previsto, e fino a ieri Natale non risultava ancora depositata. Ma l'ostacolo principale è quello che rischia di aprirsi subito dopo, quando i contenuti andranno analizzati uno per uno. Se questo dovesse avvenire alla presenza e in contraddittorio con il consulente della difesa l'analisi potrebbe impiegare mesi e mesi. In teoria, avendo a disposizione la copia del materiale, Epifani potrebbe lavorare autonomamente. Ma gli avvocati sembrano (legittimamente) intenzionati a chiedere la sua presenza. Rapporto consensuale o stupro, questo è il nodo da sciogliere. Gli inquirenti hanno già in mano un video girato durante la festa: evidentemente non risolutivo, tanto che vittima e accusati, attraverso i rispettivi legali, ne danno letture opposte. Così nei messaggi e nei post si cerca di ricostruire i rapporti tra i ragazzi genovesi e la milanese prima e soprattutto dopo la notte a villa Grillo. E le difese sarebbero orientate a rinfacciare un selfie in cui, qualche giorno dopo il 16 luglio, la ragazza appare sorridente in compagnia dei genitori. Basterà questo a provare che ha mentito?

L'ex moglie lo accusa di stalking, lui finisce in carcere da innocente. Accusato di violenze e maltrattamenti dalla ex moglie, un consulente finanziario di Rimini finisce in carcere da innocente. Il dramma di un padre separato: "Le leggi italiane mi avrebbero tutelato, i giudici non lo hanno fatto". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Sabato 28/12/2019, su Il Giornale. Nella vita di Gianni Fattori c’è un prima e un dopo. Il filo della sua esistenza si tronca di netto nel 2011. Avviene nella maniera più brusca e dolorosa che si possa immaginare. "Mi sono piombati a casa i carabinieri – ricorda – e mi hanno detto di preparare la valigia". Gianni finisce in carcere e sui giornali. È il mostro da sbattere in prima pagina. L’orco che per anni ha terrorizzato le figlie e perseguitato l’ex moglie è stato finalmente neutralizzato. Peccato fosse innocente. Ma questo non lo ha raccontato nessuno. A quasi dieci anni dal suo arresto non troverete neppure un trafiletto che parli della sua innocenza. Forse perché la sua storia è una sconfitta collettiva. È la prova di come il pregiudizio, talvolta, possa sostituirsi alla legge. Soprattutto quando si ha a che fare con una separazione. "È sempre l’uomo – denuncia – quello destinato a soccombere". Lui ha scoperto che sua moglie lo tradiva nel 2007. "Ho provato a tenere unita la famiglia, l’avrei anche perdonata, ma lei – racconta – non ne ha voluto sapere e mi ha cacciato di casa". L’appartamento di Rimini, quello che Gianni aveva contribuito a pagare, va alla moglie. Le due figlie, di 8 e 10 anni, rimangono con la madre. Anche se gli stipendi dei due coniugi sono uguali, il giudice stabilisce che è il papà a dover pagare un assegno di mantenimento di più di mille euro. "Una cifra insostenibile per me – dice – che all’epoca ne guadagnavo in tutto 1.250". Il genitore si sente a un passo dalla rovina e impugna il provvedimento del giudice. "La nostra Costituzione dice che tutti i cittadini debbono avere pari dignità sociale, ma il mio caso dimostra che per i padri cacciati dalle proprie case perché le mogli si sono stancate questo principio non vale". Il braccio di ferro sul mantenimento, iniziato nelle aule giudiziarie, presto assume una portata devastante. Il terreno di scontro diventano le due figlie. Armi di ricatto con cui la madre pungola quotidianamente l’ex nel tentativo di punirlo. "Quando andavo a prenderle a casa inventava sempre delle scuse, faceva di tutto per non farmele vedere". Lo stillicidio va avanti per anni. Finché non arriva il colpo di grazia. "Quando sono venuti a casa per arrestarmi – ricorda – è stata una doccia gelata". Gianni viene rinchiuso nel penitenziario di Rimini, in una cella di pochi metri quadri, assieme a ladri e spacciatori. Deve difendersi dall'accusa di maltrattamenti e violenza nei confronti delle figlie minorenni. Per tutti è uno stalker. Un violento che terrorizzava la madre delle sue figlie. "Dei miei trentadue giorni di prigionia da innocente, tutto sommato - racconta - non ho un ricordo così brutto, in carcere ho trovato più solidarietà che fuori". Sì perché nel mondo al di là delle sbarre Gianni è già stato condannato. Perde il lavoro di consulente finanziario perché nessuno si fida più di lui. La donna con cui aveva iniziato una frequentazione lo lascia e per un anno non potrà più vedere le sue bambine: "Credevano che fossi morto, me lo hanno confessato quando ci siamo rincontrati". La voglia di lottare però rimane intatta, nonostante il lungo calvario giudiziario che ha davanti a sé. È la corte d’appello di Bologna, il 10 gennaio del 2018, a scrivere la parola fine, ribaltando il verdetto di primo grado e assolvendolo definitivamente dalle accuse di maltrattamenti e stalking. Inizia da qui la seconda vita di Gianni. Quasi due anni dopo quella sentenza, il genitore si guarda allo specchio e stenta ancora a riconoscersi. Il dolore lo ha trasformato lasciando ferite che non si possono rimarginare. "Mi sento svuotato e impotente, non ho più nulla, anche se le mie figlie ormai sono cresciute e hanno scelto di rimanermi vicine non si può ricostruire quello che è stato distrutto". "Prima di tutta questa vicenda avevo fiducia nella giustizia e pensavo che l’Italia fosse un Paese dove un minimo di civiltà fosse stata raggiunta, ma mi sono reso conto che la realtà è molto diversa". "Se solo fossero state applicate, le leggi italiane mi avrebbero tutelato, cosa che - conclude - i giudici non hanno fatto".

Fabio Poletti per “la Stampa” l'11 gennaio 2020. Da sei anni non vedono i figli. Strappati dal Tribunale dei Minori di Milano e affidati a una casa famiglia per il sospetto di abusi e violenze sessuali. Sei anni dopo il Tribunale di Monza ha smontato tutte le accuse e assolto i genitori. Se si chiude un capitolo giudiziario, se ne apre però un altro. Come denuncia l' avvocato Maurizio Bono di Monza che assiste la coppia: «Adesso il problema sarà come ricostruire un rapporto famigliare a distanza di così tanto tempo. Questi due genitori sono stati accusati anche di avere sottoposto i loro figli a riti satanici». La vicenda inizia nel 2009. La coppia di genitori di origine siciliana vive in Brianza. Hanno due figli, un maschietto e una femminuccia. Si chiamano B. e V. . All' epoca dei fatti hanno 2 e 8 anni. I bambini sono nati con una grave malformazione genetica che ha anche pesanti complicazioni psicologiche, che influisce pesantemente sulla loro capacità di intendere e di volere. Poco dopo la nascita i bambini vengono sottoposti ad un delicato intervento chirurgico. Ogni anno devono essere sottoposti a visite mediche. Fino a 50 volte in un anno. Contemporaneamente vengono assistiti psicologicamente. Un iter medico molto pesante, che la coppia di genitori, lui è impiegato lei è casalinga, non riescono a sostenere da soli. Chiedono aiuto per questo agli assistenti sociali del comune dove risiedono. Un giorno il maschietto, parlando con un assistente sociale, dice una cosa che sarà all' origine di una vicenda che sembra allucinante per quanto è durata. Racconta B. : «Ieri notte abbiamo dormito in macchina con papà». Gli assistenti sociali fanno una segnalazione al Tribunale dei Minorenni di Milano. I genitori negano la circostanza. Ma non basta. Per uno di quei strani meccanismi giudiziari che talvolta complicano la vita alle persone non vengono creduti. Nessuno si prende la briga di verificare se non sia possibile che quei bambini, con quella determinata patologia, non si siano inventati tutto. Il servizio sociale del Comune brianzolo viene nominato ente affidatario. Le cose si complicano quattro anni dopo. La patologia dei bambini è molto grave. I genitori non sembrano in grado di assistere i loro figli. I bambini nel 2013 vengono accolti in una comunità. I genitori possono vederli quando vogliono. Sono un padre e una madre affettuosi. L' incapacità di far fronte alle complicazioni sanitarie non fa venire meno il loro amore per quei due bambini. In quella comunità, una casa famiglia, ci sono altri bambini, vittime di abusi. I discorsi tra bambini sono contagiosi. B. e V. non vogliono essere diversi dai loro amichetti. Iniziano a raccontare anche loro di abusi sessuali. Tirano in ballo i genitori, poi un' anziana nonna, poi uno zio. Il bambino racconta di essere stato oggetto anche di riti religiosi satanici. Potrebbe essere una suggestione per le manifestazioni del santo patrono in Sicilia, dove i bambini vengono sollevati di fronte all' altare. Il racconto finisce in una relazione allarmata degli operatori della comunità dove alloggiano i figli della coppia. È l' agosto del 2014. Da quel momento ai due genitori viene impedito di vedere i figli. Ogni ricorso davanti al Tribunale dei Minori viene rigettato. E ovviamente finiscono sotto inchiesta per abusi sessuali su minori. Ma ci vogliono quattro anni prima che inizi il processo. Per competenza territoriale si celebra a Monza. I consulenti della difesa non solo spiegano le circostanze che potrebbero aver generato nei bambini pensieri non veri, ricordi frutto solo della loro fantasia. Raccontano anche che sarebbe stata materialmente impossibile, pena la morte dei bambini, qualsiasi tipo di violenza sessuale. Il Tribunale di Monza decide di nominare un proprio perito che conferma in pieno la ricostruzione della difesa. Due giorni fa il tribunale di Monza chiude il caso giudiziario. I due genitori vengono assolti. Ma la parte più difficile inizia ora racconta l' avvocato Maurizio Bono: «Sarebbe bastato fare subito una perizia medica e non accusare un' intera famiglia. Valuteremo ora il da farsi con le strutture assistenziali che hanno creato questo caso».

Genitori accusati per 6 anni di abusi sui figli e riti satanici: assolti. Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Federico Berni. In tribunale si è provato che le accuse erano infondate: i racconti dei bimbi erano stati distorti. Il legale: assistenti sociali colpevoli. Un campionario di orrori: maltrattamenti, abusi sessuali sui figli, persino riti satanici. Il peggio che si possa immaginare, contenuto in una relazione scritta dagli operatori di una comunità per minori della provincia di Varese che ha trascinato padre e madre, cittadini brianzoli, in un calvario giudiziario durato sei anni e concluso nei giorni scorsi con l’assoluzione piena pronunciata dal tribunale collegiale di Monza (presidente Giovanni Gerosa). Una vicenda dolorosa, caduta come un macigno su una famiglia già provata da grandi problemi che affliggono sin dalla nascita i due figli: maschio e femmina che, all’epoca dei fatti contestati, avevano 8 e 2 anni. I piccoli nascono con una sindrome molto grave che prevede una serie di malformazioni congenite, oltre a gravi ritardi cognitivi e dell’apprendimento. Il contesto di fondo è quello di una famiglia con scarse risorse economiche. La situazione viene presa in carico dai servizi sociali del loro comune, una cittadina del monzese. In un’occasione, il figlio maschio racconta a uno degli assistenti che il padre lo aveva fatto dormire in macchina. Dopo alcuni accertamenti, i servizi sociali vengono nominati ente affidatario dei due minori, e successivamente per «difficoltà di gestione famigliare», i piccoli vengono inseriti, nel 2013, come ospiti in una comunità della provincia di Varese, su decisione del Tribunale dei minori. Nell’agosto 2014 gli operatori di questa comunità trasmettono agli uffici dei servizi una relazione drammatica, nella quale descrivono una realtà che va oltre l’umana comprensione, fatta di violenze e prevaricazioni continue. Tutto sarebbe nato da un racconto, reso dalla bambina, relativo (come si scoprirà più tardi) a una sagra patronale del paese siciliano dal quale provengono gli imputati, in un cui bimbi in fasce vengono innalzati nudi al cielo, come omaggio simbolico a San Paolo. Da questo episodio, riferito da una bimba molto piccola con gravi lacune cognitive, come detto, gli operatori intendono altro, arrivando ad adombrare il sospetto di strani rituali. Anche il tipo di malformazioni di cui soffrivano i bimbi, da quanto emerso in aula, ha generato confusione e gravissimi fraintendimenti. In aula, i difensori hanno dovuto far valere le conclusioni dei propri consulenti medici e psichiatri, per dimostrare l’infondatezza delle accuse. Al processo, la stessa Procura (il pm è subentrato nel processo quando l’istruttoria era già cominciata) ha richiesto l’assoluzione, anche se non con formula piena, come invece chiesto e ottenuto dai due difensori, gli avvocati Maurizio Bono e Veronica D’Imperio. «Hanno accusato un’intera famiglia di aver violentato e costretto a riti satanici i bambini — ha affermato l’avvocato Bono, che ha assistito il padre —. Riteniamo che gli operatori della comunità abbiano stimolato nei bambini, soprattutto nel ragazzo, rappresentazione di abusi in famiglia, che hanno portato a una serie di dichiarazioni incoerenti ed assurde da parte del ragazzo. Ora valuteremo il da farsi». Nel processo erano accusati anche la nonna dei bambini (nel frattempo deceduta) e uno zio, la cui posizione è stata stralciata per competenza territoriale.

Padre, madre, nonna e zio esposti a linciaggio. Pm distruggi famiglia: 6 anni in orfanotrofio per abusi, ma genitori erano innocenti. Piero Sansonetti l'11 Gennaio 2020 su Il Riformista. Provate solo per un momento a mettervi nei loro panni: avete due figli piccoli, uno di otto anni e uno di due. Questi bambini hanno dei problemi di salute, sin dalla nascita, per una malformazione, e hanno bisogno di cure continue. Voi dedicate a loro gran parte della vostra vita e delle vostre energie, pensate al loro futuro. Li amate, come in genere i genitori amano i loro bambini. Poi un giorno arriva un estraneo. Potentissimo, molto più potente di voi. Chiamiamolo Stato, con la esse grande. Irrompe nella vostra vita e ve li porta via. Non solo li porta via, ma vi accusa di essere degli infami, di avere abusato di loro, di averli usati a scopi sessuali, per il vostro godimento, e anche di averli sadicamente maltrattati. Non è vero. Naturalmente non è vero, ma non c’è niente da fare. I bambini vengono sbattuti in orfanotrofio, a voi è proibito vederli, occuparvi di loro, prendervi cura, portarli alle visite mediche periodiche delle quali hanno bisogno. E voi finite sotto processo, accusati di uno dei reati più brutti tra quelli previsti dal codice penale. Abuso sui figli. Indicati al ludibrio pubblico. Non potete fare niente. Solo pagare un avvocato, che si occupi della faccenda, che cerchi di risolverla. Non solo siete innocenti, ma è evidentissimo che siete innocenti, perché questi bambini sono stati monitorati dai medici tutte le settimane, perché i medici giurano che non sono stati maltrattati, che non sono stati abusati, che non hanno subito sevizie. Niente da fare, la burocrazia è quella che è. E l’estraneo, Potentissimo, si presenta sotto le vesti di un magistrato, poi di un altro, poi di un altro ancora. Vi perseguitano. Vogliono distruggervi. Non hanno fretta. Hanno i loro tempi. La prescrizione è lunga, la burocrazia è complessa. Ci vogliono sei anni per arrivare al processo. Capite cosa vuol dire sei anni? Sei anni senza mai vedere i propri bambini, senza sapere come stanno, se chiedono di te, se si ricordano ancora, se crescono…Poi si arriva alle udienze in tribunale e il Pm ammette di non avere niente in mano per chiedere la condanna. Dice che ha stabilito di essere generoso e propone l’assoluzione dei due genitori per insufficienza di prove. Voi a questo punto non ci state. Volete la verità, dopo sei anni volete la verità. Il vostro avvocato – rovesciando il principio dell’onere della prova a carico dell’accusa – stende sul tavolo una a una tutte le prove della vostra assoluta e incontrovertibile innocenza. Il giudice gli dà ragione. Siete assolti, con formula piena, nessun beneficio del dubbio, formula piena, è finito quest’incubo preparato per voi dai magistrati, su consiglio di alcuni assistenti sociali e di una maestra un po’ fuori di testa. I magistrati hanno preferito dar retta agli assistenti e alla maestra fuori di testa. Non hanno pensato che in pochi giorni dovevano risolvere il problema. Sei anni a loro son sembrati un periodo ragionevole. Ora i vostri bambini sono abbastanza grandi. Il maggiore è adolescente, ha 14 anni, dovrebbe andare al liceo, forse già fuma, chissà se si fa anche gli spinelli. Il minore è ancora ragazzetto, ha otto anni, fa le elementari. Adesso potete andare a riprenderli. Non vi riconosceranno. Forse però ancora si ricordano. Forse saranno contenti di tornare con voi. E magari chiederanno della nonna. E dello zio. Che furono accusati anche loro di aver partecipato alle orge. L’idea che si erano fatti i magistrati è che quella famiglia abitasse nella casa degli orrori. Satana, satana. Lo zio ora è invecchiato. La nonna non c’è più, è morta senza mai più vedere i nipotini, è morta portando giù nella tomba l’accusa di essere una strega che faceva sesso con i suoi bambini. È successo davvero tutto questo. È successo a due poveri genitori di Varese, e al fratello e alla madre di uno di loro… È successo nella realtà. Adesso la vicenda è chiusa. È così. Nessuno risponderà dell’orrore che ha combinato, dei danni che ha provocato, nessuno risarcirà la famiglia squassata dalle calunnie. È così. E chi dovrebbe rispondere? I magistrati? No, la legge prevede che il magistrato sia l’unico cittadino italiano che può esercitare il suo mestiere senza assumersi nessuna responsabilità. Né civile né penale. Neppure disciplinare. Si, ci sarebbe la possibilità di finire sotto procedimento disciplinare al Csm, ma la statistica dice che comunque il Csm li assolve. Magistrato non mangia magistrato. In teoria – in teoria, teoria, pura teoria – anche ci sarebbe la possibilità della responsabilità civile. Decide il ministro, però, se chiedere i danni al magistrato che ha sbagliato. Negli ultimi 10 anni è successo a 4 magistrati. Quanti? Si: quattro. Nello stesso periodo è successo a 400 mila medici. Vabbé, è così.

·         Minorenni scomparsi o in fuga.

Da leggo.it il 28 ottobre 2020. Bambina scomparsa a Brescia. Il confronto con il dna dei genitori ha confermato che il teschio trovato ad inizio ottobre nei boschi di Serle, nel Bresciano, è di Iuschra Gazi, la 12enne bengalese affetta da autismo scomparsa il 19 luglio 2018. Come riportato dalla stampa locale, lo hanno stabilito gli Spedali civili ai quali la Procura aveva affidato l'esame. «Sono sotto choc. Ora so che a Iuschra è davvero morta», ha commentato il padre. Iuschra si era persa in gita con la Fobap, Fondazione bresciana assistenza psicodisabili la cui operatrice ha già patteggiato una condanna a 8 mesi. «Nella zona dove è stato trovato il teschio non siamo mai arrivati con le ricerche». Lo sostiene chi ha coordinato per la Protezione civile le ricerche due estati fa della piccola Iuschra, la 12/enne autistica svanita nel nulla nei boschi di Serle, nel Bresciano, dove poi è stato trovato un teschio che l'esame del Dna ha stabilito essere proprio della bambina di origini bengalesi, come riportato dal Giornale di Brescia e da Bresciaoggi». È una zona impervia, tra rovi e vegetazione. L'area era stata sorvolata solo da droni ed elicotteri. «L'uomo non ci poteva arrivare», viene spiegato dagli esperti. Il teschio è stato poi trovato a inizio ottobre da un cacciatore, probabilmente dopo che era stato trasportato da animali selvatici in un punto accessibile. La Procura di Brescia ha già disposto il nullaosta alla sepoltura dei resti di Iuschra.

Il Dna conferma: il teschio trovato nei boschi di Serle è della piccola Iuschra. La disperazione del padre: "Ora so che è davvero morta". La Repubblica il 28 ottobre 2020. Il confronto con il Dna dei genitori conferma che quelli trovati da un cacciatore il 5 ottobre sono i resti della 12enne autistica scomparsa più di due anni fa nei boschi di Serle durante una gita. Nullaosta della procura per la sepoltura dei resti. Brescia - Il confronto con il Dna dei genitori ha confermato quello che era già più che una supposizione: il teschio trovato a inizio ottobre nei boschi di Serle, nel Bresciano, è di Iuschra Gazi, la 12enne bengalese affetta da autismo scomparsa il 19 luglio 2018 durante una gita proprio in quei boschi. Come riportato dalla stampa locale, lo hanno stabilito gli Spedali civili ai quali la Procura aveva affidato l'esame. "Sono sotto choc. Ora so che a Iuschra è davvero morta", ha commentato il padre. Iuschra si era persa in gita con la Fobap, Fondazione bresciana assistenza psicodisabili. "Nella zona dove è stato trovato il teschio non siamo mai arrivati con le ricerche" sostengono gli esperti della Protezione civile che due anni fa avevano coordinato le ricerche. "È una zona impervia, tra rovi e vegetazione. L'area era stata sorvolata solo da droni ed elicotteri. L'uomo non ci poteva arrivare", viene spiegato dagli esperti. La Procura di Brescia ha già disposto il nullaosta alla sepoltura dei resti. Per settimane ricercatori e volontari, con i cani molecolari, i droni e facendo risuonare nei boschi le canzoni preferite di Iuschra, avevano continuato a cercare la bambina. Poi a inizio mese, dopo esattamente 808 giorni, un cacciatore che stava passeggiando con il suo cane aveva visto quel piccolo teschio tra le foglie e aveva dato l'allarme. Lì, poco lontano da dove si era persa, forse trasportato da animali selvatici. "È un'immagino che non cancellerò mai", aveva raccontato l'uomo. Per la scomparsa di Iuschra l'operatrice che avrebbe dovuto controllare la bambina, ma che l'aveva persa di vista durante la passeggiata, ha patteggiato una condanna a otto mesi per omicidio colposo. Sulla dinamica della morte della bambina gli inquirenti avevano ricostruito in fase processuale che avrebbe perso la vita cadendo in una delle cavità carsiche presenti a Serle "ovvero a seguito della mancanza di cibo ed acqua per più giorni consecutivi - evento la cui verificazione è dedotta dalla mancanza di ipotesi alternative possibili quali conseguenze della sua scomparsa" scrissero i magistrati titolari dell'inchiesta.

Il teschio ritrovato nel bosco è della bimba scomparsa. Conferma dal Dna. La 12enne era sparita due anni fa dopo una gita. Il padre: "Finalmente so che è morta". Antonio Borrelli, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. Una conferma che fa male, che alimenta lacrime e dolore, ma che allo stesso tempo mette in scena l'epilogo di un dramma che si è consumato per tanto, troppo tempo. «Quel cranio trovato nei boschi è di sua figlia, Iuschra». Quando è arrivata la telefonata della Procura a casa della famiglia Gazi è calato il gelo. I genitori erano in attesa di una telefonata da quasi un mese, quando in mezzo ai fitti boschi tra Caino, Serle e l'altopiano di Cariadeghe un cacciatore del posto aveva scoperto un piccolo cranio. Il pensiero era andato subito a lei, la 12enne di origini bengalesi scomparsa nel luglio del 2018 nel Bresciano, ma solo l'analisi del dna su quel teschio poteva dirlo con certezza. La conferma è arrivata nelle scorse ore: il medico legale degli Spedali Civili Andrea Verzeletti ha messo a confronto il profilo genetico estratto da uno dei due molari rimasto incastonato nella mascella con quello prelevato dal padre e dalla madre della bambina. Combaciavano perfettamente. «Sentirmi dire che quel cranio è di mia figlia è stato uno choc dice papà Mdliton -. Finalmente ora so che Iuschra è morta. Mi fa molto male immaginarla che muore di fame da sola in un bosco». Non può chiamarsi sollievo, ma dopo due anni ora i suoi genitori avranno una tomba su cui pregare.. «Ora è un momento ancora molto doloroso per la nostra famiglia continua lui -. Organizzeremo un funerale». È il 19 luglio del 2018 quando nascono il giallo e il dramma: durante una gita organizzata dalla Fobap, fondazione di assistenza psicodisabili Iuschra, che era affetta da autismo, svanisce nel nulla nei boschi bresciani. Subito partono le ricerche di Protezione Civile, Vigili del Fuoco e squadre speciali. Inizialmente prendono parte alle operazioni anche i cacciatori del posto. Vengono mobilitate 1.500 persone, vengono utilizzati anche cani molecolari addestrati a fiutare anche le più piccole particelle di odori, ma della piccola Iuschra nessuna traccia. D'altronde l'altopiano, attraversato da un reticolo di sentieri e da ben 135 grotte carsiche, si estende per 750 ettari in un'area molto impervia, disseminata di cavità che si aprono alla sommità e possono sfociare ovunque lungo il pendio. Da quella estate il caso si trascina però sul fronte giudiziario, con l'inchiesta per omicidio colposo chiusa proprio il 25 giugno scorso col patteggiamento dell'operatrice Fobap che l'aveva in carico. L'operatrice che avrebbe dovuto controllare la bambina, ma che l'ha persa durante una passeggiata e subito dopo una curva, è stata condannata a otto mesi. Sulla dinamica, però, gli inquirenti era stati chiari già in fase processuale: «Iuschra ha perso la vita a seguito della precipitazione in una delle cavità carsiche presenti a Serle, ovvero a seguito della mancanza di cibo ed acqua per più giorni consecutivi - evento la cui verificazione è dedotta dalla mancanza di ipotesi alternative possibili quali conseguenze della sua scomparsa», scrissero i magistrati titolari dell'inchiesta. Circa tre settimane fa, poi, la svolta, con il ritrovamento del teschio. «È un'immagine che non cancellerò mai», aveva confessato l'uomo che per primo l'ha visto. Così come non dimenticheranno quelle concitate settimane tutti quei volontari e agenti delle forze dell'ordine che insieme si erano mobilitate per salvare la piccola Iuschra. Forse era già tardi, forse no.

Da "liberoquotidiano.it" il 17 settembre 2020. Uno strano caso a Chi l'ha visto?, il programma condotto da Federica Sciarelli su Rai 3. La vicenda è quella di Agata Scuto, scomparsa nel 2012, quando aveva 22 anni, dalla sua casa di Acireale. Il punto è che durante la trasmissione è arrivata una telefonata anonima: "Non è mai uscita di casa e sta in cantina", il soggetto ovviamente era Agata. Così la redazione ha indagato: Agata percepiva una pensione di invalidità, che i familiari continuano ad incassare, 280 euro al mese che servono per mantenere tutta la famiglia. Chi l'ha visto? ha raggiunto anche la madre della ragazza, nella casa di Acireale: "Di quattro figli è l'unica che mi ha dato questo dispiacere. Ho fatto denuncia poi l'ho ritirata perché avevo sentito che l'avevano vista. Abbiamo continuato a prendere noi i soldi perché lei li aveva abbandonati", ha rivelato. Dunque, la signora ha anche mostrato la cantina, dove di Agata, però, non vi era traccia alcuna. La madre ha aggiunto che Agata le avrebbe telefonato dopo essersene andata con un ragazzo: "Da quel giorno in poi non si è più fatta sentire. Agata torna, ti aspettiamo a braccia aperte", ha concluso la signora con un appello.

Storia del papà che ogni giorno si immerge nel fiume Adda per trovare la figlia scomparsa: “Non posso smettere”. Serena Cristiano Il Riformista il 14 Settembre 2020. “Devo cercarla. Vorrei riabbracciare la mia piccola”. Sta facendo il giro del web il commovente video che ha come protagonista Ahmed Ben Daoud, un papà che ogni giorno si tuffa nelle acque del fiume Adda a Sondrio per ritrovare la figlia scomparsa lo scorso 1 settembre. Hafsa, 15 anni, e’ stata inghiottita dalle acque del fiume lombardo da ormai settimane, ma il padre non si arrende. E’ partita così una “colletta” di messaggi a catena e solidarietà per aiutare questo padre a ritrovare la propria figlia. L’1 settembre Hafsa stava tentando di attraversare il fiume Adda per raggiungere una spiaggetta, ma è stata fagocitata dalle acque e il suo corpo non è ancora stato trovato. Quando è scomparsa papà Ahmed era in Marocco, suo Paese d’origine. Ma da quando è rientrato ogni giorno si reca al fiume in bicicletta, si immerge e cerca la figlia. Una scena straziante, immortalata da un video pubblicato su Facebook da Piero Carnini: “Faccio spesso passeggiate in quella zona, dove il fiume assomiglia più a un torrente per il corso impetuoso. – racconto il sondriese -. Mi ero già imbattuto in quell’uomo nei giorni precedenti, mentre conduceva le sue ricerche da riva, aiutandosi con un lungo bastone. In quell’occasione però l’ho visto buttarsi, nonostante la presenza di un suo amico che gli urlava di uscire perché era troppo pericoloso”. Al papà di Hafsa, infatti, è stato fatto presente che le ricerche in quelle acque sono pericolose perché il fiume è infido. Ma lui continua imperterrito, nonostante Carnini e le varie persone che lo hanno visto tuffarsi nell’Adda lo abbiano richiamato per il rischio che corre. A parlare del pericolo in cui incappa ogni volta che si avvicina al fiume è lo stesso Ahmed ha dichiarato a La Provincia di Sondrio di aver contattato i carabinieri per dire loro che “io continuo a cercarla. Devo ringraziare i ricercatori che sicuramente hanno fatto un buon lavoro, ma non sono riusciti a trovare mia figlia. E io non posso smettere di cercarla”, continua il papà disperato. “Mi sto dando da fare per trovarla e spero che ci sia qualcuno che con buona volontà voglia mettersi a disposizione per aiutarmi. Io mi avvicino al fiume, a volte ci entro anche, rimanendo vicino alla riva. So nuotare bene e non voglio correre rischi, ma spero di trovare Hafsa, che magari è incagliata da qualche parte. O spero di essere lì quando il fiume la restituirà. Non posso rimanere a casa ad aspettare”. Questa fine settimana sono cominciate le cosiddette ricerche massive, ovvero delle ricerche speciali di una task force per trovare il corpo della ragazza. L’intero fiume Adda è stato controllato da Sondrio sino al lago di Como, è stato anche svuotato il bacino di Ardenno, ma della 15enne non c’è traccia. Tuttavia, data anche la determinazione del papà di Hafsa i vigili del fuoco, in gommone e a piedi, si stanno adoperando per controllare il fiume in ogni dove anche negli anfratti, i luoghi in cui potrebbe essere rimasta incastrata.

Massimo Luce per la Stampa il 21 settembre 2020. Hamed ha smesso di tuffarsi ieri mattina, quando poco dopo le 10 dai vigili del fuoco lo hanno chiamato per dirgli che forse il corpo appena ritrovato da due pescatori dieci chilometri più a valle era quello di Hasfa, la sua bambina di quindici anni, inghiottita dall'Adda il primo settembre e mai più ricomparsa fino a ieri. Hamed da quel giorno, quasi tutte le mattine si buttava nel fiume per cercare il corpo della figlia: «Voglio stringerla ancora una volta, non è possibile che non ci sia più, che sia scomparsa così». Arrivava con la sua bicicletta sulle rive del fiume che impetuoso attraversa la Valtellina e iniziava la ricerca in solitudine, risalendo la corrente, scandagliando tra le pietre, tuffandosi nelle pozze. C'è persino un filmato che lo riprende in questo suo gesto di amore assoluto e straziante e che ha fatto il giro del web. È una storia che ha commosso l'Italia quella di Hamed Ben Duod, 37 anni, operaio in una segheria a Sondrio e di sua figlia Hasfa, entrata in acqua in un lunedì di sole dopo giorni di pioggia e mai più riemersa. Hasfa, insieme a una cuginetta, aveva cercato di guadare il fiume in un punto relativamente basso per tentare di raggiungere una spiaggetta dall'altra parre della riva al parco Bartesaghi di Sondrio, dove risiedeva. Improvvisamente l'avevano vista cadere e poi trascinata dalle correnti, la ragazzina non era più riemersa, sotto gli occhi impietriti dei suoi parenti. Quel giorno Hamed non c'era, era tornato in Marocco per visitare altri famigliari e alla sera, quando lo avevano chiamato per dirgli che Hasfa non si era più trovata, era impazzito di dolore. Il giorno dopo aveva fatto l'impossibile per tornare dal Marocco. «Fatemela riabbracciare» aveva chiesto disperato ai sommozzatori, ai vigili del fuoco e ai volontari che per giorni erano stati impegnati nelle ricerche. Poi aveva deciso di calarsi lui stesso nel fiume anche quando le ricerche, che in realtà non sono mai state sospese, si erano diradate. Una ricerca quotidiana, un'ossessione. Che aveva commosso la Valtellina. Finché ieri mattina due pescatori hanno intravisto un cadavere e hanno telefonato ai soccorritori: «C'è un corpo che galleggia qui a Berbenno, vicino alla pasticceria Libera». Il recupero non è stato semplice e il cadavere non ha dato subito certezze sull'identità dell'adolescente. Ma lo stato del corpo, rimasto in acqua evidentemente per tutti questi venti, lunghissimi, giorni, il sesso femminile, le caratteristiche di una giovane adolescente, l'altezza, la compatibilità tra i luoghi della scomparsa e quelli del ritrovamento hanno fatto capire che poteva trattarsi con molta probabilità della giovane Hasfa. E per Hamed è stato un altro dolore ma anche la fine di una sofferenza profonda: ora aveva un corpo da riabbracciare. Dice Christian Bricola, prete della parrocchia dei Santi Gervaso e Protasio di Sondrio: «Ho incontrato la famiglia di Hasfa il sabato subito dopo la sua scomparsa. Non li conoscevo, non li avevo mai visti prima perché essendo musulmani non frequentavano la chiesa. Ma ho voluto portare loro le mie preghiere per la loro figlia, perché venisse ritrovata». Non si sa se siano state le preghiere o il caso, la caparbietà del padre o il capriccio del fiume. La vita è fatta spesso di sofferenze imperscrutabili. Ma ora Hasfa potrà essere seppellita e suo papà per piangerla non dovrà più immergersi nelle acque gelide dell'Adda.

Corpo trovato nel fiume Adda, potrebbe trattarsi della ragazzina scomparsa. Pubblicato domenica, 20 settembre 2020 da La Repubblica.it. Due pescatori hanno segnalato stamani la presenza di un corpo senza vita che galleggiava sull'Adda, circa 500 metri dopo il ponte della località San Pietro, in territorio comunale di Berbenno (Sondrio), in direzione di Morbegno. I cittadini hanno allertato i vigili del fuoco del Comando provinciale di Sondrio e le forze dell'ordine, per tentare il recupero. L'ipotesi, in attesa di conferme ufficiali, è che si tratti del corpo di Hafsa Ben Daoud la ragazzina quindicenne scomparsa il 1° settembre inghiottita dal fiume mentre si trovava nel Parco Bartesaghi con la cugina e altri familiari. Il padre, da allora, ogni giorno si è immerso nel fiume in cerca del corpo di Hafsa.

Fernando scompare a 16 anni, ritrovato dopo 8 anni grazie alle segnalazioni a Chi l’ha visto? Redazione su Il Riformista il 2 Luglio 2020. Era scomparso nel maggio di otto anni, all’età di 16 anni, dalla provincia di Roma. Dopo una attesa infinita, grazie alle segnalazioni dei telespettatori di "Chi l’ha visto?”, il noto programma di Rai3, Fernando è tornato a casa. È la storia a lieto fine raccontata dai suoi familiari alle telecamere del programma: il giovane, che ora ha 24 anni, è stato ritrovato a Genova. Per noi è stata una grandissima gioia. Tanti piccoli indizi che ci hanno permesso di ritrovarlo. Non ce lo aspettavamo più”, hanno spiegato i familiari del ragazzo. Fernando era uscito di casa, in quel maggio del 2012, per andare a scuola. Da quel momento si erano perse le sue tracce e, come emerso successivamente, il 24enne aveva scelto la vita di strada.

Elena Ceravolo e Raffaella Troili per “il Messaggero” il 3 luglio 2020. Cosa spinga un adolescente a sparire nel nulla invece di andare a scuola non è chiaro, e fa tremare. Più semplice intuire come una mamma sia morta in un giorno e poi rinata in queste ore alla notizia del ritrovamento. Fernando Vasile Mihai, ora 24enne, è stato ritrovato a Genova, chiedeva l' elemosina sotto i portici di via Dante, di fronte alle Poste, tutti gli volevano bene. Anche a Palombara Sabina, alle porte di Roma, da dove si era allontanato all' età di 16 anni lo aspettavano. Grazie all' interesse di Chi l' ha visto una passante ha notato quel giovane uomo ha scattato foto e fatto un video: camminava sotto i portici, in centro, con il suo cane. Anche altri abitanti del capoluogo ligure hanno inviato segnalazioni, riconosciuto in quel ragazzino di 16 anni della foto diffusa in tv, quell' adulto gentile, che accettava cibo per il cane e coperte. Hanno girato foto e indicazioni alla famiglia. Nessun dubbio: era lui. I familiari sono partiti per Genova. Ci sono momenti in cui le parole non servono, si sono guardati, abbracciati, pianto. «Vi ho pensato sempre, mi mancavate tanto, ma più passava il tempo e più non sapevo come tornare indietro», ha detto alle zie in quell' incontro unico in cui si sono riconosciuti all' istante. Era sparito un pomeriggio di maggio del 2012. In piena adolescenza, aveva diverbi con la mamma con cui viveva, aveva già fatto perdere notizie di sè per qualche giorno andando a dormire da alcuni amici. E la madre aveva presentato denuncia di scomparsa per poi ritirarla al suo ritorno. «Non volevo che mi seguissero i servizi sociali - disse ai militari di Palombara Sabina - ma non sapevo dove andare e sono tornato». Due settimane dopo, la fuga. Otto anni in cui la famiglia, la mamma (da quattro anni tornata in Romania per problemi di salute) non ha smesso di cercarlo. Ora è a Roma a casa della sorella della mamma, che è identica a lei.  «Lo abbiamo cercato ovunque sia qui sia in Romania, dove sta la mamma - spiega la zia Alina Elena, moglie del fratello della madre di Fernando - ci arrivavano solo notizie false. L' incontro? Abbiamo pianto, ci siamo raccontati per ore un po' di vita. Ora stara un po' con noi, anche se ha la fidanzata, vivevano vicino Genova». Ma come ha fatto un minorenne a sopravvivere da solo così a lungo, dopo aver girato un po' tutta l' Italia, prima di fermarsi a Genova. «Ce lo chiediamo anche noi ma è presto per le domande, non sta tanto bene, ci ha detto che gli siamo mancati, che ci pensava sempre. Ha capito che gli vogliamo bene, che fa parte della famiglia, ma dobbiamo dargli tempo. Abbiamo pianto tutti. C' è poco da dire, solo lacrime e abbracci, anche al telefono con la mamma che presto verrà, lo ha cercato dappertutto». A Palombara non tutti si ricordano di lui, il tempo è passato, ma chi l' ha conosciuto ora lo aspetta, nei luoghi dell' infanzia, perché non hanno mai smesso di sperare che un giorno ricomparisse quel ragazzo alto, magro e sveglio. «Andavamo alle elementari insieme - ricorda Marta - e giocavamo in piazzetta, era molto intelligente, chiacchierava, gli voglio molto bene, veniva anche a pranzo da nonna, che ora è morta. Anche alle medie facevamo la strada insieme, non ci siamo mai persi. Ci siamo sempre chiesti perché è sparito, mi farebbe piacere rivederlo. Quante volte in questi anni ci siamo chiesti: dove starà?». A Genova intanto veniva accudito, chi gli portava coperte, chi piccoli regali. «Un ragazzo tranquillo in compagnia del suo cane - ripetono i commercianti di piazza Dante dove chiedeva l' elemosina - non ha mai dato fastidio a nessuno, non era insistente». Sotto i portici si riparava dal vento, dalla pioggia e dal caldo. «C'era una signora - racconta la tabaccaia di via Dante - che gli portava il cibo per il cane. Ognuno gli dava qualcosa perché era sempre gentile, educato. Fernando non beveva e non ha mai avuto un problema con la droga. È un ragazzo per bene. La sua figura ci mancherà». Qualcuno racconta che otto anni fa si sarebbe allontanato da casa dopo un litigio con la mamma. «Era molto legato allo zio, che aveva preso il posto del papà - racconta un clochard che lo conosceva - me lo aveva raccontato tempo fa». Bentornato Fernando, invisibile per otto anni.

Bambini scomparsi nell’oblio, quanti casi da Angela Celentano a Maddie. Vittorio Bobba, 7 Giugno 2020 su weeklymagazine.it. Ecco i dossier più eclatanti di bambini scomparsi nel nulla. Come le gemelline Schepp, fatte sparire dal padre suicida. O Denise Pipitone, di cui non si ha più traccia: la sorellastra della madre è stata assolta in primo grado. E Scotland Yard chiude le indagini su Maddie. Le speranze di ritrovare Maddie McCann, la bambina britannica sparita in Portogallo, ormai sono vicine allo zero. Nei giorni scorsi l’ex capo della squadra John O’Connor avrebbe detto a Scotland Yard che a questo punto, a distanza di otto anni e dopo 11 milioni di sterline spese invano, è il caso di abbandonare le ricerche. «Non si può continuare a dare la caccia alle ombre», avrebbe detto O’Connor a un giornale britannico, soprattutto se si pensa che – a suo dire – le prove del rapimento della piccola di 3 anni sono state inquinate in modo irrimediabile dalla polizia portoghese nelle ore successive alla scomparsa, e questo ha reso tutto più difficile. Il mensile «Crimen» curato da Edoardo Montolli ha ricostruito la vicenda: «Aveva solo 3 anni la piccola bambina inglese Madeleine Beth McCann, detta Maddie, quando sparì il 3 maggio 2007. Si trovava con papà e mamma nel villaggio vacanze di Praia da Luz, in Algarve (Portogallo). Scotland Yard interrogò anche due pedofili detenuti in Scozia e condannati già a 30 e 26 anni di prigione, Charles O’ Neill, 48 anni, e William Lauchlan, 34 anni, e visti spesso in Portogallo fin dal 2006. Kate McCann, mamma di Maddie, ha scritto un libro sulla vicenda per raccogliere i fondi per far riprendere le ricerche. E ha denunciato per diffamazione l’ex ispettore di polizia portoghese Gonalo Amaral, che in un volume accusò i genitori di aver occultato il corpo della bimba per coprire un incidente domestico colposo. Il processo è appena iniziato. A giugno si è scavato per 60mila metri intorno al resort delle vacanze per verificare se qualcuno l’avesse sepolta lì». In Gran Bretagna sono 155 i bambini scomparsi. Una cifra mostruosa, ma niente in confronto ai dati che il mensile «Crimen» ha ottenuto dal Viminale. In Italia solo dal maggio 2009 ad aprile 2015 il numero 116.000 ha gestito 610 casi di bambini spariti: «Le ultime cifre diffuse dal commissario straordinario del Viminale Vittorio Piscitelli – scrive Edoardo Montolli su «Crimen» – sostengono che dal 1974 al 2014, sarebbero scomparsi 15.117 minori, 13.489 dei quali stranieri in Italia». Secondo Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro «Ogni anno nel mondo spariscono 8 milioni di bambini, 270mila in Europa cioè uno ogni due minuti. Sono poco più di mille gli italiani spariti nel nulla negli ultimi quarant’anni e di cui si sono occupati i giornali. Come Sandra Sandri, scomparsa nel nulla a undici anni nel 1975, su cui la Procura di Bologna ha riaperto il caso. O come Sebastiano Notarnicola, rapito a cinque mesi da una donna che aveva avuto due gravidanze isteriche e ritrovato all’età di 12 anni. «È la speranza di tutti i genitori che si sono visti portar via i figli – ha detto la conduttrice di «Chi l’ha visto» Federica Sciarelli a Manuel Montero di «Crimen». Anche Piera Maggio, la madre di Denise Pipitone, che è convinta che la figlia sia ancora viva, si chiede sempre se un domani, ritrovandola, Denise la riconoscerà. I genitori di Angela Celentano hanno aperto un sito internet in tutte le lingue in cui hanno pubblicato non solo le foto della bambina, ma anche della stanza, dei colori, perché magari si possa riconoscere». A volte le piccole finiscono nelle mani di predatori sessuali che le tengono prigioniere come nel caso di Ariel Castro, che nella sua casa di Cleveland, rinchiuse e incatenate, tenne, picchiò e stuprato per anni tre ragazze, Gina DeJesus, rapita nel 2004 a 14 anni, Amanda Berry, svanita nel 2003 all’età di 17 e Michelle Knight, scomparsa nel 2002, a 21. E come dimenticare la storia della bimba viennese Natascha Kampusch, trascinata su un furgone all’età di 10 anni da Wolfang Priklopil nel 1998 e rimasta otto anni segregata in una stanza ricavata sotto il garage del suo aguzzino, nascosta da una porta blindata e da un armadio fino alla fuga, il 23 agosto del 2006. Ma a che punto sono le indagini sui casi più scottanti? Denise Pipitone è sparita nel nulla il primo settembre 2004 da Mazara del Vallo: quattro anni ancora da compiere, sta giocando con il cuginetto sotto casa, in via La Bruna. Il 2 ottobre arriverà la sentenza d’appello nei confronti della sorellastra Jessica Pulizzi, imputata di concorso in sequestro ma assolta in primo grado. La donna, come ricostruisce il mensile, pare nutrisse risentimento verso Piera Maggio. In un’intercettazione sembra dire alla madre «io a casa c’ha purtai» («L’ho portata a casa»). Che si riferisse a Denise? «Non voglio le condanne di nessuno – dice la Maggio – ma mi devono dire dove è Denise. E lo voglio sapere prima di morire». Angela Celentano (NDR: in foto) è stata inghiottita dal monte Faito a 3 anni, il 10 agosto 1996 mentre era in gita con papà, mamma e altre 40 persone della Comunità Evangelica di Vico Equense (Napoli). Dopo anni di oblio nel 2010 ai Celentano arrivano delle mail dal Messico di certa Celeste Ruiz, che sostiene di essere Angela. «Ci sono pure delle foto – ricorda il mensile – Le somiglia. Dirà poi di non voler più essere cercata. Il caso si riapre. Ma anche questa pista si raffredda: a mandarle sarebbe stato Josè Manuel Vazquez Valle, psicologo, figlio di una precedente relazione di Norma, moglie di Cristino Ruiz. La Procura della Repubblica di Torre Annunziata prova ad andare a fondo: perché lo ha fatto? Il caso resta aperto». Ha commosso l’Italia infine il caso assai più recente dellee gemelle Livia e Alessia Schepp, scomparse da Saint Sulpice, a 5 km da Losanna, il 30 gennaio 2011. Le cercano all’inizio le forze dell’ordine di Francia, Svizzera e Italia dopo che il padre Matthias che le aveva con sé, sconvolto dalla separazione, si era suicidato gettandosi sotto un treno a Cerignola in Puglia il 4 febbraio. «In una lettera a “Chi l’ha visto?” – scrive il giornalista di “Crimen” Manuel Montero – un uomo sostiene di essere il tipografo che ha stampato i loro passaporti falsi: significherebbe che il padre non le ha uccise, come si sospetta, ma che siano ancora vive». Un altro mistero che al momento non trova soluzione.

Polfer, in un anno ritrovati sui treni 748 minorenni in fuga. Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 da Corriere.it. I numeri parlano chiaro: delle 869 scomparse e rintracciate, nel corso del 2019, dalla Polizia Ferroviaria, 784 hanno meno di diciotto anni. È uno dei dati che più salta all’occhio, scorrendo il bilancio delle attività di controllo svolte nel corso dell’anno appena conclusosi, dalla Polfer, all’interno delle stazioni e sui treni per garantire la sicurezza dei viaggiatori. Di sicuro, è aumentato il numero dei controlli, ben 1.663.692 (più 26 per cento rispetto al 2018), che ha portato a 1.174 arresti e a poco meno di 10.000 persone indagate. Tutto ciò è stato condotto grazie all’opera di prevenzione di 192.000 pattuglie della Polfer in stazione e a quasi 49.000 presenti a bordo treni. Dislocati sia nei grandi che nei piccoli centri. Ma ciò che fa maggiormente riflettere è il numero dei minorenni rintracciati nelle stazioni, dopo essere fuggiti di casa. «Si tratta principalmente di ragazzini di nazionalità italiana, e l’età della piccola fuga dagli affetti familiari o dagli insuccessi scolastici, è notevolmente diminuita: parliamo ormai di dodicenni e tredicenni rintracciati sui binari, o a ridosso delle stazioni», osserva Maurizio Improta, direttore del servizio di Polizia ferroviaria. «Tantissimi sono quelli rintracciati nelle grandi stazioni del Nord Italia: nel 2019, la Liguria è stata una delle regioni nelle quali abbiano avuto più casi di minori scomparsi», aggiunge Improta. Una minorenne, giovedì 2 gennaio si è allontanata dalla comunità milanese, «Fuori luoghi», dove si trovava in affidamento, e dalla stazione centrale è salita sul treno diretto in Liguria. La comunità ha chiamato la Polfer di Milano che ha allertato quella di Genova. La ragazza. rintracciata alla stazione Principe, all’interno di un treno diretto a Spezia, è stata subito riaffidata alla Comunità. E se si potesse delineare una tratta ideale per la fuga, potrebbe essere quella che va da Salerno a Roma, passa per Firenze, e raggiunge Milano. «Non dobbiamo dimenticarci che, ad attrarre i ragazzini, sono le stesse stazioni, trasformatesi ormai in veri e propri centri commerciali e punti di incontro», spiega il direttore. Che cosa fare? Prevenire. Prima di tutto. «I treni controllati sono quasi 300 al giorno, e parliamo di qualsiasi tipo di convoglio: dal regionale ai treni a percorrenza veloce, sui quali, abbiamo dalle 2 alle 4 persone in borghese (utilizzati spesso per servizio antiborseggio, con quasi 14 mila interventi nel 2019) e due in divisa». Ma la prevenzione resta la prima forma di controllo: dalle piccole alle grandi cose. Dalle imprudenze dei viaggiatori ai tentativi delittuosi. C’è un progetto, «Train to be cool», in programma dal 2014, che rappresenta una vera e propria educazione alla legalità in ambito ferroviario. In collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, 250 operatori della Polfer, formatisi dopo aver frequentato dei corsi tenuti da psicologi della Direzione di Sanità del Dipartimento della Polizia di Stato e da docenti della facoltà di Medicina e Psicologia dell’università di Roma La Sapienza, entrano nelle scuole di ogni ordine e grado, raccontando rischi e pericoli delle stazioni. Anche attraverso l’utilizzo di materiali multimediali. A proposito di prevenzione, la Polfer ha avviato, con l’Agenzia nazionale per la sicurezza delle Ferrovie e le federazioni sportive (Rugby e Pallavolo) alcune semplici cautele da adottare quando si viaggia in treno. Tornando ai dati del 2019, nel bilancio delle attività di controllo della Polfer, risultano essere 2.480 gli stranieri in posizione irregolare, mentre sono stati scortati 1.620 treni sulla tratta Trento-Brennero. Inoltre, per ciò che riguarda gli stupefacenti: sono stati sequestrati 11 chilogrammi di cocaina con un aumento dal 2018 pari al 471%, 10 kg di eroina pari a un aumento dell’80%. E quasi 100 chili di hashish pari a un aumento del 90 per cento. Per fortuna, in tutto questo, non mancano le storie curiose e che fanno sorridere. Come il recente ritrovamento, da parte della Polfer, del prezioso violino alla stazione di Rimini, o della vecchina 90enne di Comiso, in Sicilia, la quale, viaggiando da Milano a Messina, aveva detto gli agenti della Polfer di aver perso la coincidenza. «Nessuno si è perso d’animo, facendo pernottare la signora in un convento si suore, per poi scortarla, il giorno seguente, fino al suo paese», conclude Improta.

·         Ipocrisia e Pedofilia.

Pedofilia, anche una donna può essere la carnefice di un bambino. Le Iene News il 18 dicembre 2020. Spesso ci si immagina il pedofilo come un uomo ma purtroppo succede anche che la carnefice sia una donna. Veronica Ruggeri raccoglie la testimonianza di un giovane che ha denunciato una quarantenne perché avrebbe abusato di lui quando aveva solo 12 anni. “Mi aveva detto che mi amava e che pensava solo a me”, e così lo avrebbe prima isolato dagli amichetti e poi lo avrebbe violentato. Questa almeno è la storia che un giovane ha raccontato alla nostra Veronica Ruggeri, denunciando di esser stato vittima di una donna pedofila sua vicina di casa. Spesso quando ci si immagina un pedofilo si pensa che sia un uomo, ma non è sempre così: anche le donne possono esserlo. “Avevo 12 anni e lei ne aveva circa 40”, ci racconta il ragazzo. “Ricorderò per sempre come mi ha saputo manipolare e come ha abusato di me”. “Il pedofilo riconosce il bambino più fragile, più vulnerabile“, ci dice lo psicoterapeuta Fabrizio Quattrini. “Potrebbe diventare l’amico o il confidente, quindi sempre con una maggiore intimità tra bambino e adulto”. Ma c’è una differenza di genere: “Se l’uomo è schiavo di una meccanicità del sesso, la donna crea un legame più affettivo e sentimentale”. Questo purtroppo non toglie che anche una donna possa arrivare ad abusare sessualmente di un bambino. E, stando al suo racconto del giovane, sarebbe proprio questo il caso del giovane intervistato da Veronica Ruggeri. Anni dopo, realizzato quello che sarebbe accaduto, il ragazzo si è rivolto alla Caramella Buona, associazione di contrasto alla pedofilia, per avere aiuto e ha denunciato la sua vicina. Veronica Ruggeri ha cercato un confronto con questa donna: “Non è vero, assolutamente”, ha detto riguardo le accuse del ragazzo. La signora, autrice di un racconto in cui una donna sembra innamorarsi di un ragazzino e che ha con lui un rapporto sessuale, sembra per un momento farsi scappare che i protagonisti del racconto siano lei e il giovane. “Non è successo niente”, riafferma la donna. “Voglio che tutti sappiano quello che mi ha fatto, e soprattutto vorrei che altri bambini venissero protetti”, ci dice il ragazzo. Tutta la storia la potete vedere nel servizio qui sopra.

Alessia Strinati per leggo.it il 28 luglio 2020. Non riesce a parlare il bambino rom di 3 anni che il padre provava a vendere a Ostia sulla spiaggia tra i bagnanti come se fosse un oggetto. L'uomo ha portato in spiaggia il piccolo che indossava solo delle mutandine, era denutrito, sporco e piangeva in modo disperato quando gli agenti di polizia lo hanno preso con loro. Il bambino, scrivono Moira Di Mario e Raffaella Troili sul Messaggero, non parla e ora gli psicologi e i medici che lo hanno in cura stanno cercando di capire se il mutismo sia legato allo choc o a una patologia. Presumibilmente deve aver subito diversi traumi, secondo i medici, per questo tutte le analisi del caso per capire se è stato vittima di abusi vengono condotte con grande delicatezza per evitare di turbare ulteriormente il bimbo. Ora il minore è affidato ai servizi sociali e probabilmente non rientrerà in famiglia a breve. Il papà, un rom di 23 anni, risiedeva nel complesso Le Salzare, serpentone di cemento armato sul lungomare degli Ardeatini finito spesso sotto i riflettori per smaltimento illegale di rifiuti, spaccio di stupefacenti e roghi tossici sotto le finestre degli appartamenti. Una zona degradata abitata principalmente da rom e bosniaci in cui si vive in condizioni di estremo disagio, con case abitate e condizioni igienico-sanitarie disastrose. Da lì l'uomo è partito con suo figlio mezzo nudo e lo ha portato in spiaggia provando a venderlo a dei bagnanti: chiedeva soldi in cambio di abusi sul piccolo. A un uomo ha chiesto esplicitamente: «Vuoi fare sesso con lui» e il passante sconvolto ha avvertito le autorità che hanno subito provato a fermare il padre. Il 23enne ha abbandonato il piccolo e si è dato alla fuga per essere raggiunto e arrestato poco dopo con l'accusa di sfruttamento della prostituzione minorile e resistenza a pubblico ufficiale. Da ieri in carcere non parla, si è limitato solo a dire la sua età e l'etnia. Il bimbo è in ospedale, la mamma, la nonna e una zia hanno provato a vederlo andando nel nosocomio, ma per ora resterà in cura ai servizi sociali.

Bimbo venduto dal padre, mamma estranea ai fatti: “Mi fidavo di lui”. Notizie.it il 29/07/2020. La mamma del bimbo rom di 3 anni venduto a Ostia dal padre si dichiara estranea ai fatti: "Non sospettavo nulla". Il Tribunale ha nominato un tutore. Emergono nuovi dettagli nella vicenda del bimbo venduto in spiaggia a Ostia dal padre. Il bimbo, trovato in condizioni pessime, è stato affidato a un tutore. La madre, una 18enne rom, si è dichiarata estranea ai fatti: stando a quanto dichiarato dalla giovane donna, il papà del suo bambino è riuscito a tenerla all’oscuro del piano che stava architettando. “Mio marito mi aveva detto che avrebbe portato nostro figlio a fare una passeggiata, invece ha cercato di venderlo. Mi fidavo di lui”. A dirlo è la madre del bimbo di tre anni, offerto ai bagnanti per sesso in cambio di denaro. Il padre, artefice del folle gesto, si aggirava sul lungomare Amerigo Vespucci di Ostia. L’uomo è stato arrestato domenica 26 luglio. Lui e la compagna risiedono nel complesso popolare Le Salzare di Ardea. Intervistata da Il Messaggero, la donna, madre anche di un secondo bambino, ha spiegato che padre e figlio in diverse occasioni erano usciti insieme e lei non aveva mai nutrito alcun sospetto nei confronti dell’uomo. Dopo il ricovero del bimbo in ospedale e l’arresto del coniuge, la donna ha chiesto di poter incontrare suo figlio. Un incontro protetto, che si terrà sotto la sorveglianza di agenti e militari. Prima della visita però, la donna dovrà aspettare l’esito del tampone: solo qualora risultasse negativa al coronavirus, potrà entrare presso la struttura ospedaliera nella quale si trova il bambino. Il piccolo è stato trovato denutrito e in condizioni igieniche pessime. Per questo motivo, i soccorritori hanno tenuto necessario il ricovero in ospedale, avvenuta nella mattinata di domenica. Il bambino non parla, non dice neppure “mamma” e “papà”. Al momento è sotto osservazione, curato da una rete di medici, infermieri e psicologi. Intanto il Tribunale dei Minori ha nominato un tutore, in attesa che ne valuti l’affido, e il magistrato sta passando al vaglio la posizione dei genitori. I due sono giovanissimi, entrambi italiani di etnia rom. Nonostante le sue dichiarazioni, restano sospetti attorno al ruolo della madre in questa triste vicenda. Tuttavia, la 18enne continua a dichiararsi all’oscuro dei comportamenti del marito. Il padre è in carcere a Regina Coeli, in attesa dell’udienza di convalida. Su di lui grava l’ipotesi di sfruttamento della prostituzione minorile. L’uomo rischia così di perdere la patria potestà.

Adelaide Pierucci per "Il Messaggero" il 13 agosto 2020. Potrebbe essere fuggita via da Roma la mamma rom che ha rapito il figlio di tre anni dall'ospedale Grassi di Ostia dove era ricoverato da fine luglio dopo essere «stato promesso in vendita» in spiaggia e a fini sessuali dal padre subito arrestato. Indagata per sequestro di persona viene cercata a livello nazionale. Il piccolo ha bisogno di cure e da ieri doveva essere affidato a una casa famiglia. La madre, una diciannovenne con quell'unico figlio, non avrebbe potuto portarlo via: la responsabilità genitoriale le era stata sospesa a fine luglio assieme a quella del marito. Al momento dell'arresto del coniuge, 23enne della stessa etnia, il figlio, biondo e minuto, è stato trovato denutrito, trascurato, malvestito e in condizioni igieniche allarmanti. Ma anche con problemi comportamentali, terrorizzato e con difficoltà nel linguaggio. Il papà quindi potrebbe aver approfittato della mancanza di attenzioni, pure le più basilari, della madre per arrivare ad offrirlo a sconosciuti in cambio di pochi euro. Del caso si sta occupando il pool antiviolenza della procura di Roma. Il pm Antonio Verdi, che ha lavorato alle prime battute dell'indagine assieme al collega Francesco Cascini, ha dato disposizione alle forze di polizia di ricercare il piccolo e la madre ovunque.

LA COMUNITÀ. Le ricerche sono partite dagli insediamenti rom della capitale, cominciando da Castel Romano e dalla Monachina, anche se sembra improbabile che nella stessa comunità rom, con la pressione dei controlli, ci sia qualcuno che li ospiti. La donna si potrebbe essere allontanata in treno o con un'auto guidata da un familiare, motivo per cui anche le stazioni sono controllate. Il cellulare della donna, che sarebbe stato utile a rintracciarli, è stato ritrovato ad Ardea ma di lei e del piccolo nessuna traccia. Da ieri la madre è indagata per sequestro di persona aggravato dall'età della vittima. Ma per lei potrebbe scattare anche l'accusa di maltrattamenti in famiglia. Lo stato di trascuratezza in cui è stato trovato il bambino, l'incubo delle violenze che ha potuto subire, aveva mobilitato una gara di solidarietà all'interno dell'ospedale di Ostia, dove il piccolo veniva curato. Eppure l'altra mattina nessuno del personale sanitario e paramedico, che pure avrebbe dovuto sorvegliare il bambino con la massima attenzione, si è accorto che la madre è entrata nella stanza del reparto di pediatria, ha preso il bimbo avvolto in una coperta ed è scappata. Fuggendo da una uscita secondaria, poi da una recinzione esterna trovata divelta. Dalle poche telecamere funzionanti per ora non sono arrivate risposte. Gli inquirenti intendono anche accertare come un piccolo di tre anni, che in maniera risaputa era stato sottratto ai genitori per motivi allarmanti, possa essere stato rapito nello stesso ospedale che gli avrebbe dovuto garantire sicurezza, e a mezzogiorno, nonostante le restrizioni Covid che limitano gli ingressi nelle visite.

IL PRECEDENTE. Il blitz della madre doveva essere prevedibile. Non è la prima volta che i rom organizzino dei veri propri rapimenti per riprendersi i loro figlioletti dopo essere stati destinatari di divieti di avvicinamento. E' capitato anche nell'inverno del 2017 a Guidonia: una bimba di due anni era stata allontanata dal nucleo familiare perché trovata a vagare sulla via Tiburtina sola e con indosso una maglietta. Dopo un paio di settimane, i genitori rom bosniaci, l'avevano rapita dalla casa famiglia.

 Filippo Di Giacomo per “il Venerdì - la Repubblica” il 20 luglio 2020. Dal 2000 al 2020, la Chiesa cattolica è stata umiliata per le gesta dei preti pedofili e abusatori. Per vent' anni, Vaticano e gerarchie cattoliche sono stati guardati come la Spectre della pedofilia universale. Eppure, comparando i dati oggettivi e indipendenti, come "categoria professionale" quella clericale è stata tra le meno colpite da questa lebbra morale. I più recenti stimano a 80 mila gli italiani (30 per cento donne) che "villeggiano" nel Sud del mondo per darsi a questo vizio. Gli italiani sono tra i primi fruitori di bimbe e bimbi (dai 5 ai 12 anni) in Thailandia, Santo Domingo, Colombia, Brasile. E sono i primi in Kenya nell'abuso di circa 15 mila bambine (all'anno), il 30 per cento vivono tra Malindi, Bombasa, Kalifi e Diani. Tanto ha potuto il martellamento messo in atto dai media anglosassoni, nel mostrare il dito e nascondere la luna. I prossimi decenni si annunciano sotto l'ombra universale di un altro falso, quello secondo cui i soldi offerti alla Chiesa dovrebbero essere unicamente destinati ai poveri, senza alcuna considerazione per le necessità di gestione delle opere e dei luoghi di culto. I migliori alleati di questa montante ondata di fango? Le autorità vaticane, quelle giudiziarie in primis, che ad ogni atto imitano il malcostume delle procure italiane diffondendo comunicati ricchi di sottintesi capaci di alimentare cattivi pensieri. Per un conto privato (150 mila euro) bloccato allo Ior, la stampa si è sentita autorizzata dal fumoso comunicato dei promotori di giustizia, gli avvocati Milano e Diddi, a teorizzare addirittura un «finanziamento al terrorismo». Su questa nuova ondata di miserie dovrebbe vigilare il Dicastero della Comunicazione. Pare vi lavorino giornalisti consapevoli di dove vada a parare una campagna di stampa. Pare. 

Tra voci sull'”adrenocromo” e pedofilia reale, certa moda ammicca agli orchi? Da Il blog di Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 6 luglio 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

L’impressione è che si stia per scoperchiare un enorme, raccapricciante vaso di Pandora. Dell’altro ieri i 50 arresti in 15 regioni italiane per traffico di materiale pedopornografico che confermano anche il progressivo affermarsi dell’”infantofilia”: l’atroce abuso sui neonati, a volte persino impiegati – come è stato documentato - in pseudo-rituali a sfondo esoterico. Questo è confermato dall’Associazione “Meter”, fondata da don Fortunato Di Noto, che ha da poco divulgato il report 2019 nel quale si denuncia il raddoppio del materiale pedopornografico segnalato (7 milioni di foto rispetto ai 3 del 2018) e l’aumento pauroso di questa criminale parafilia forse in parte collegata anche alla sparizione di minori, decuplicata in Italia negli ultimi in 10 anni. Anche in Germania, Gran Bretagna, Belgio - scrive Benedetta Frigerio sulla Nuova Bussola Quotidiana - negli ultimi mesi, ci sono stati centinaia di arresti per violenze su migliaia di bambini, ma si teme a indagare nel mondo civile: le prove scompaiono, i bravi detective vengono sostituiti e i processi si arrestano. La Germania ha riconosciuto la corruzione di Polizia e istituzioni, ma le pene sono state minime. La grande stampa tace o riduce tutto a "brevi" di cronaca. Eppure l’argomento, sebbene scabrosissimo, sembrava giornalisticamente interessante, basti ricordare la tempesta di abusi da parte di preti citati dalla stampa durante l’ultimo anno di pontificato di Benedetto XVI. Poi è passato di moda. Alcuni cattolici fedeli al papa emerito sostengono che si fosse trattato di una precisa strategia per costringere Ratzinger alle dimissioni, peraltro recentemente messe in discussione in un nostro articolo tradotto in quattro lingue dal decano dei vaticanisti italiani, Marco Tosatti. Eppure, la situazione si è aggravata: le vociferazioni sul coinvolgimento delle “élite” progressiste in tali crimini sono diventate realmente ossessive negli Stati Uniti dove ormai il tema dell’”ADRENOCROMO” è conosciuto da tutti e viene messo in relazione al cosiddetto PIZZAGATE, vicenda oscurissima che ha visto coinvolto John Podesta, il braccio destro di Hillary Clinton e altri dem.  L’adrenocromo è una sostanza secreta per ossidazione dell’adrenalina da persone sottoposte a violenze e torture che, se assunta da altri, avrebbe un forte potere rivitalizzante per le cellule: una sorta di elisir di lunga vita. Tuttavia, siccome tale sostanza prodotta da adulti darebbe dei serissimi effetti collaterali, si preferirebbe – stando alla leggenda metropolitana - utilizzare quella proveniente da bambini. Una diceria ormai diffusissima in America vuole che siano stati scoperti dei tunnel dove sono stati segregati bambini a decine di migliaia, per essere torturati e utilizzati per l’estrazione di questo adrenocromo, di cui farebbero uso politici, attori, vip di area progressista. Tale scoperta dovrebbe essere divulgata da Trump a ridosso delle elezioni. Ovviamente si tratta di notizie del tutto NON VERIFICATE, ma l’insistenza con cui se ne parla è indicativa di un certo clima. Per quanto riguarda la reputazione delle cosiddette elite, non giova la foto choc – E QUESTA E’ UN FATTO -  che due giorni fa ha scandalizzato il Regno Unito: seduti sul trono di Elisabetta II, Kevin Spacey - sotto processo per abusi su minori - e l’amica di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell, che procurava minorenni al magnate americano pedofilo, poi suicidatosi in carcere (almeno stando alle fonti ufficiali). E la posizione del principe Andrea, amico di Epstein e accusato da una ragazza allora minorenne, si complica. Eppure, nonostante il clima esplosivo e le raccapriccianti leggende che circolano, il mondo della moda sembra stranamente non comprendere.  Anzi, diciamo che qualcuno proprio “non collabora”.

Da alcuni giorni, sui social circola un video, segnalatoci dallo youtuber Decimo Toro, intitolato “Non lasciate che i vip demonizzino i vostri bambini le cui visualizzazioni stranamente sono passate da varie decine di migliaia (forse almeno 30-40.000 come ricordano alcuni, insieme allo scrivente) di due settimane fa ad appena 715. Perché? Poi si lamentano dei complottismi che vogliono i social “complici delle macchinazioni mondialiste". Mah. Comunque: in tale video si cita lo spot di una casa di moda per bambini israeliana, in cui la testimonial, una famosissima cantante canadese, si introduce nottetempo nel reparto maternità di un ospedale, scoprendo qualcosa per lei di inaccettabile: i neonati maschi sono vestiti di azzurro e le femmine di rosa. Così, soffiando su una polvere magica, fa riapparire i neonati abbigliati di nero e grigio, con teschi e pentacoli sui pigiamini, in compagnia di mostruosi bambolotti, sotto cupe croci greche (antico simbolo pagano) sospese nell’aria. E ancora, ovunque, occhi “onniveggenti”, simbolo degli Illuminati, il numero apocalittico 6, la piramide esoterica dei Rosacroce, alfabeti da tavola Ouija per la negromanzia. Insomma: l’Anticristo diventa chic? La tematica vera dello spot è però quella del GENDER: nascere maschi o femmine sarebbe un’”imposizione culturale”, da combattere. Il marchio era stato già accusato, nel 2018, di rimandi satanisteggianti per i suoi sinistri motivi decorativi, ma ora si scoprono ben altre foto del catalogo, che poco hanno a che vedere con suggestioni da Halloween: una bambina indossa una maglietta con la scritta “Ho” che in inglese vuol dire “puttana”. L’impronta di una manaccia adulta ricorre sul pigiamino di un neonato, sulla maglia di un maschietto e sul costume da bagno di una femminuccia entrambi di circa 10 anni. Ancora, due bimbe orientali sono riprese sotto una scritta al neon: “Let’s get physical”, “passiamo al contatto fisico”. È il titolo di una vecchia canzone sull’aerobica che recita: “L'amore comune non è per noi. Abbiamo creato qualcosa di fenomenale”. Altri bambini indossano magliette con la scritta “New order” che forse evoca il Nuovo ordine Mondiale (NWO) una teoria complottista che mescola satanismo, massoneria e pedofilia. Stando al sito del marchio israeliano, le due proprietarie seguono un’“agenda” vestendo “i bambini del futuro, consentendo loro di mettere in evidenza la loro essenza interiore, aiutandoli a combattere l'ingiustizia”. Ma perché questo apparentemente lodevole obiettivo dovrebbe essere fatto ammiccando esplicitamente ai simboli del Male, alla sessualizzazione precoce dei bambini e al loro sfruttamento? Cosa prevede questa “agenda”? Don Fortunato Di Noto, che con Meter da 30 anni combatte pedofilia e pedopornografia, spiega: «Preoccupa il pensiero dei “bambini del futuro”. I BAMBINI SONO BAMBINI e unico compito è aiutarli ad essere uomini e donne maturi, responsabili, rispettosi e che rifiutino la violenza, la discriminazione, l’oscurità del male, la manipolazione mentale, ogni tipo di colonialismo ideologico, qual è il gender, come dice Papa Francesco. È in corso una massiccia e continuata campagna ideologica sul fatto che “anche la pedofilia è amore”. Sappiamo benissimo che ci sono poteri internazionali che esercitano forti pressioni affinché l’uomo diventi indistinto dal punto di vista sessuale. Questo fa il gioco dei pedofili perché loro guardano ai bambini al di là del sesso di appartenenza”. Colpisce come anche una rivista internazionale di moda, dopo le polemiche furibonde del 2011 per i suoi scatti di baby-modelle di 7 anni in pose sexy, nell’ultimo numero di giugno pubblichi un servizio intitolato “Our New World” (NWO?) dove, oltre a curiose fiabe europeiste, spiccano foto con bimbi seminudi e in pose “adulte”, opera di contestatissimi fotografi come Tierney Gearon. La stessa, che ha suscitato scandali tanto da far intervenire Scotland Yard, ama infatti fotografare bambini e adulti nudi insieme, piccoli seminudi spaventati da mostri o imprigionati in piramidi, bimbe scosciate. La risposta è sempre quella: “E’ arte, la malizia è solo di chi guarda”. Può essere, ma siccome la realtà ci propone una situazione di aggressione all’infanzia mai vista nella storia, anche nello sdoganamento culturale della pedofilia, la domanda lecita è: “Perché?”. In tale contesto, dove campagne come quella del marchio israeliano, almeno al solo LIVELLO DI MARKETING, confondono le carte tra “diritti civili”, genderismo e ammiccamenti alla sessualizzazione precoce dei bambini, preoccupa il ddl Zan-Scalfarotto “contro l’omotransfobia” sostenuto da Pd e M5S, depositato il 30 giugno in Commissione Giustizia alla Camera. In questi giorni in tutta Italia si stanno preparando manifestazioni contro il ddl visto come liberticida per le sue pesanti sanzioni contro chiunque si opponga all’indottrinamento lgbt per i bambini.

La Cei ha infatti protestato contro il disegno di legge, dato che metterebbe il bavaglio alle più elementari basi della dottrina cattolica, per la quale la pratica del sesso omosessuale resta un grave peccato e disordine morale,  ma colpisce un silenzio assordante: quello di Papa Francesco, che, pure, sempre pronto a pronunciarsi nelle questioni italiane, soprattutto in materia di migranti, in questi giorni non ha detto assolutamente nulla sul ddl, lasciando sbigottita buona parte dei cattolici, quegli stessi pro-vita che si sentirono già abbandonati ai tempi del Family Day. Tale silenzio offre poi facilmente adito ai detrattori di Bergoglio che lo accusano di tacere per non perdere l’appoggio delle lobby gay-massoniche del clero e per proseguire sulla tabella di marcia del Nuovo ordine Mondiale. Insomma: dal punto di vista comunicativo, il silenzio di Francesco appare abbastanza disastroso. Anche perché, se questa legge - che lascia spiragli interpretativi molto ampi - fosse già in vigore, don Di Noto potrebbe essere spedito in galera per le dichiarazioni di cui sopra. E alla già insufficiente lotta alle atroci aggressioni all’infanzia denunciate da associazioni come Meter, il ddl Zan-Scalfarotto non gioverebbe di certo. Alcuni se ne potrebbero servire per blindare una svolta culturale che cambierebbe radicalmente l’idea che, da un paio di milioni di anni, abbiamo dell’infanzia.

Franca Giansoldati per ilmessaggero.it il 16 giugno 2020. Una iniziativa del genere per la Cei sarebbe semplicemente pura fantascienza. A Limburg il vescovo Georg Baetzing (che è anche presidente della Conferenza Episcopale) ha iniziato a pubblicare - per la prima volta - tutti i nomi dei vescovi, dei vicari generali e dei dirigenti diocesani che, negli anni passati, hanno insabbiato le cause dei preti pedofili, e hanno contribuito ai trasferimenti dei parroci abusatori in altre parrocchie o in altre zone della Germania, rendendo in questo modo ancora più traumatica l'esperienza delle vittime degli abusi. In questa lista, ha informato la KNA, l'agenzia dell'episcopato tedesco, è incluso anche il precedente vescovo di Limburg, Franz Kamphaus, così come il vicario generale, monsignor Raban Tilmann. L'iniziativa concretizzata in questi giorni ha in realtà una lunga storia e genesi, e  nasce dal bisogno sempre più crescente dell'opinione pubblica di avere a che fare con una Chiesa trasparente. Per realizzare questa lista è stato necessario un laborioso lavoro di ricostruzione ed indagini interne nella diocesi di Limburg. In tutto si tratta di un rapporto monstre, di circa 420 pagine. «Dovevano essere prese delle misure, cosa che è stata fatta, anche se sono dolorose e hanno alimentato accese discussioni» ha spiegato Baetzing, fautore della linea della trasparenza totale. Una strategia, a suo parere, necessaria per fare riacquistare alla gente fiducia nella Chiesa. Il rapporto è frutto di un lavoro di squadra che ha richiesto l'apporto professionale di una settantina di esperti incaricati di setacciare i documenti diocesani dal 1950 ad oggi. Una piattaforma dalla quale elaborare una strategia capace di indicare come prevenire ogni rischio in futuro. In un passaggio della relazione, a proposito dell'operato di un  prelato di nome Wanka che in precedenza era stato responsabile dell'ufficio del personale, si legge: «egli ha ammesso inizialmente in una dichiarazione scritta che nel caso del sacerdote accusato C., aveva commesso gravi errori nella percezione e nella successiva valutazione dell'abuso sessuale che è stata nel frattempo accertata. A tale riguardo, il ricorrente sostiene di non aver chiesto informazioni con maggiore fermezza, perseveranza e precisione. Secondo il suo attuale stato di conoscenza, egli valuta l'abuso sessuale in modo diverso e giunge a conclusioni diverse. Inoltre, tutti i membri della Camera del personale sono stati sempre informati tempestivamente quando sono pervenute le prime segnalazioni relative a comportamenti sessuali da parte di un chierico. A questo proposito, dalle informazioni fornite dal prelato Wanka si deduce che, a causa del comitato interno composto da 35 membri, sono state registrate solo le decisioni rilevanti per il trasferimento, al fine di preservare la riservatezza».

Da ilmessaggero.it il 7 aprile 2020. La comunità dei credenti di Villavicencio, una cittadina colombiana nella terra della guerriglia, è sotto choc dopo l'annuncio di sospendere 15 sacerdoti sotto inchiesta per presunti abusi sessuali. Una specie di maxi retata. La notizia è stata confermata dalla stessa chiesa locale che in un comunicato ha rivelato di aver ricevuto il 14 febbraio una denuncia di una persona riguardante «fatti contro la morale sessuale da parte di alcuni sacerdoti». A seguito di questo, la Commissione arcidiocesana di protezione dei minori ha informato della vicenda la Procura, offrendo la disponibilità a «collaborare con le indaghino che dovessero svolgersi su questo caso». Contemporaneamente la chiesa colombiana ha aperto una indagine preliminare per permettere l'avvio del «processo canonico penale» previsto per questi casi, rispettando i diritti degli imputati. Nella sua comunicazione l'Archidiocesi ha manifestato «profondo dolore per questa situazione», assicurando che «le vittime e le loro famiglie verranno per noi prima di tutto», nell'impegno di sradicare «il terribile male degli abusi dentro e fuori della nostra istituzione». Secondo Radio Caracol di Bogotà, infine, ai 15 sacerdoti sotto inchiesta se ne aggiungerebbero altri quattro, due dei quali si trovano in dipartimenti colombiani (Meta e Guaviare) e altri due in Italia e Stati Uniti. Papa Francesco aveva visitato Villavicencio durante il suo viaggio in Colombia tre anni fa.

Il Papa: “Prego per chi ha subito una sentenza ingiusta”. Il Dubbio il 7 aprile 2020. Nel giorno dell’assoluzione del Cardinale Pell Francesco cita la persecuzione di Gesù da parte dei dottori della legge. Introducendo la messa del mattino a Casa Santa Marta, riportata da Vatican News, il Papa legge un’antifona tratta dal Salmo 26: “Non consegnarmi in potere dei miei nemici; contro di me sono insorti falsi testimoni, gente che spira violenza”. Quindi aggiunge: “In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subito Gesù e come i dottori della Legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente. Io vorrei pregare oggi per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento”. E’ di oggi la notizia del proscioglimento, all’ultimo grado della giustizia australiana, del cardinale George Pell, ex prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede, che stava scontando una condanna a 6 anni per abuso su minori.

L’accusa di pedofilia, otto anni di processi. Poi l’assoluzione…Il Dubbio il 13 aprile 2020. Il racconto del prete accusato di aver abusato di minori: “”Il momento più buio è stato vedere il mio nome appeso fuori dall’aula del tribunale: in quell’attimo ho capito di essere un uomo costretto a dimostrare la sua innocenza, senza essere un colpevole.” “Il momento più buio è stato vedere il mio nome appeso fuori dall’aula del tribunale: in quell’attimo ho capito di essere un uomo costretto a dimostrare la sua innocenza, senza essere un colpevole. Sono rimasto appeso in croce per dieci anni: è stata la mia via crucis popolata di faldoni, sospetti, accuse, ingiurie”. E’ iniziata così, con queste parole di dolore, la meditazione scritta e recitata venerdì scorso da don M, un prete accusato di pedofilia e assolto dopo otto lunghi anni di processi e pene infinite. Una storia che il Papa ha voluto venisse raccontata nella Via Crucis di venerdì scorso: “Ogni volta, nei tribunali, cercavo il Crocifisso appeso: lo fissavo mentre la legge investigava sulla mia storia. La vergogna, per un istante, mi ha condotto al pensiero che sarebbe stato meglio farla finita”, racconta il prete.

Infine la liberazione: “Il giorno in cui sono stato assolto con formula piena, ho scoperto di essere più felice di dieci anni fa: ho toccato con mano l’azione di Dio nella mia vita. Appeso in croce, il mio sacerdozio si è illuminato.” 

Il servizio de Le Iene su Testimoni di Geova e pedofilia, scrive il 27 gennaio 2016 Next Quotidiano". Ieri Le Iene hanno mandato in onda un servizio di Luigi Pelazza sui Testimoni di Geova e su uno scandalo di pedofilia. Nel servizio si è parlato anche del CESAP, Centro Studi sugli Abusi Psicologici (Ce.S.A.P.), associazione senza fini di lucro, aconfessionale ed apolitica che si occupa in generale delle sette in Italia. Avevamo parlato qualche tempo fa dello scandalo pedofilia nei Testimoni di Geova in Australia. Ne ha parlato il Sydney Morning Herald citando le conclusioni di un’inchiesta giudiziaria nel paese. La chiesa, che conta in Australia 70mila membri attivi, ha seguito la politica di gestire le accuse all’interno come per tanti anni ha fatto anche la Chiesa cattolica. La Commissione ha sentito i responsabili della Chiesa in un’interrogazione istituzionale sugli abusi sessuali sui minori, in particolare su due casi di anziani dell’istituzione accusati di pedofilia. Secondo le loro regole chi abusa di bambini può essere espulso dalla chiesa se le accuse sono dimostrati, ma tra i requisiti è necessario che almeno due testimoni parlino davanti a un comitato giudiziario interno, davanti al quale però molti accusati non sono stati interrogati. Angus Stewart della commissione che indaga sugli abusi ha detto che i testimoni di Geova hanno registrato 1006 casi di autori di presunti abusi all’interno dell’organizzazione a partire dal 1950, ma la Chiesa ha seguito pedissequamente l’indicazione di non denunciare le accuse di abusi alle autorità secolari. La commissione ha sentito che la Chiesa aborrisce abusi sessuali su minori, che riconosce come “un peccato grave e un crimine”. “I testimoni di Geova credono che l’unico modo per porre fine finalmente gli abusi sui minori è, come dicono loro, ‘abbracciare il regno di Dio retto da Cristo’ e ‘amare Dio con tutto il tuo cuore e il tuo prossimo come te stesso’, in modo da essere salvati quando arriverà la fine del mondo”, ha detto Stewart.

"Maometto era pedofilo". Ma la Corte europea: "Non si può dire". Secondo la Corte europea per i diritti dell'uomo non si può dire che Maometto era un pedofilo nonostante avesse sposato una bambina di sei anni, scrive Andrea Riva, Sabato 27/10/2018, su "Il Giornale". La figura di Maometto è una delle più complesse della storia delle religioni. Della sua biografia, però, una cosa ha fatto più scandalo di altre, ovvero il suo matrimonio con una bambina di sei anni. Certo, obietta la narrativa musulmana, sei anni sono pochi, ma erano altri tempi. Ma sei anni sono sei anni, anche se, secondo le cronache Aisha, questo il nome della bimba, avrebbe consumato il rapporto a nove. Ovvero quando il profeta aveva 50 anni. E qui entra in gioco la storia di Elisabeth Sabaditsch-Wolff, un'attivista per i diritti umani che aveva definito pedofilo Maometto. L'accusa della donna, come riporta Libero, risulterebbe però infondata secondo una certa narrativa "in quanto i due erano ancora sposati quando lei aveva 18 anni. Pedofilo sarebbe chi sia attratto solo o principalmente da minorenni". Il punto è che la Corte europea per i diritti dell'omo ha detto che è la signora Elisabeth Sabaditsch-Wolff a sbagliare. In particolare - sottolinea Libero - "si stigmatizza tra l'altro la generalizzazione senza basi fattuali in cui è incorsa la donna".

Dagospia il 17 giugno 2020. Artè è Libertà di Luca Beatrice: Vietare le mostre di Paul Gauguin perché si suppone abbia avuto rapporti sessuali con minorenni. Rimuovere un dipinto di Balthus perché sarebbe un inno alla pedofilia. Trattare i disegni di Egon Schiele alla stregua di materiale pornografico. Sono solo gli episodi più eclatanti del nuovo oscurantismo censorio che colpisce oggi l’arte visiva, proprio mentre i social, dove chiunque può scrivere e pubblicare ciò che vuole, oscurano dipinti e fotografie di nudo. E quando non basta ci si mette di mezzo la politica, con il caso delle statue coperte durante la visita di Hassan Rouhani in Italia nel 2016. Anomalia incredibile: i nuovi censori provengono dagli ambienti progressisti, in nome di un politicamente corretto così deviato da far impallidire Robert Hughes. Luca Beatrice È nato nel 1961 a Torino. Critico d’arte e docente di storia dell’arte all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, scrive su “Il Giornale”, “Tuttosport” e “Linkiesta”. Tra i suoi numerosi saggi si ricordano: Da che arte stai? (2010), Pop (2012), Sex (2013) e Nati sotto il Biscione (2015), editi da Rizzoli. Per Baldini & Castoldi ha scritto le biografie di Renato Zero e Lucio Dalla, per Mondadori il più recente Canzoni d’amore. Nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia e per otto anni è stato il Presidente del Circolo dei lettori di Torino.

Arte è libertà? Un’introduzione. «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo», passata alla storia come una frase di Voltaire e poi attribuita alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, è una di quelle espressioni somministrate per forza a quelle generazioni che, come la mia, sono cresciute viziate dall’ideologia. Proprio per uscire da questa logica, dell’uno contro l’altro armati, si faceva largo l’idea che fosse da difendere il libero pensiero a ogni costo, soprattutto di chi non la pensava come te. Pensiero libero contro pensiero unico. Questa frase, peraltro, non mi è mai piaciuta. L’ho sempre trovata insulsa, una massima di scarso valore e significato, adatta a mantenere i toni fin troppo moderati, dove invece mi accendevano il paradosso, l’iperbole, l’esagerazione, la scorrettezza, ingredienti se non obbligatori almeno auspicabili in un’opera d’arte. Che infatti non è mai realtà, ma qualcos’altro. Da ragazzo, negli anni Settanta, combattevo per principio contro chiunque mettesse a rischio la mia libertà d’espressione. Allora le restrizioni arrivavano dagli ambienti più conservatori, bacchettoni e benpensanti, intrisi di morale borghese, di valori cattolici, mentre noi “rivoluzionari”, di destra o di sinistra, giocavamo con le parole, l’assurdo, il non senso e chiunque ci dicesse di smetterla era uno squallido censore. Non esisteva allora il termine “politicamente scorretto” e qualsiasi cosa fosse scorretta ci piaceva eccome. Potrei quasi dire che mi sono avvicinato, ho studiato, insegnato e analizzato criticamente le arti, dalla pittura alla musica, dalla letteratura al cinema, perché sentivo che lì la mia libertà fosse assolutamente tutelata e non minacciata dalla realtà. È che spesso non siamo così facili profeti. Come non avrei mai saputo prevedere che un virus riuscisse a mettere in ginocchio il mondo nel 2020, altrettanto non avrei pensato che la storia dell’arte, passata e presente, potesse essere censurata nel terzo millennio, complice il cosiddetto “libero pensiero dei social network”. Gauguin, Balthus, Waterhouse e Schiele sono alcuni tra gli esempi più clamorosi di pittori che oggi, a distanza di un secolo, poco meno poco più, vengono vivisezionati dal punto di vista etico-moralista, quando l’arte e la cultura dovrebbero rispondere sempre e soltanto al giudizio estetico. Né immaginare che la prestigiosa Università americana di Yale avrebbe voluto cancellare il corso di Storia dell’arte del Rinascimento perché unicamente basato sul punto di vista occidentale che non tiene conto della cultura degli altri popoli. Fatti di cui si è parlato molto nell’escalation del politicamente corretto, che ormai non risparmia nessuno. Non risparmia neppure i grandi autori di cinema, neanche due ultraottantenni come Roman Po­lanski, premiato tra le contestazioni a Venezia nel 2019 e al più recente Cesar, o Woody Allen, la cui pubblicazione dell’autobiografia Apropos of Nothing è stata rifiutata da Hachette (ma non da Elisabetta Sgarbi, editrice de La Nave di Teseo, che l’ha pubblicata nel maggio scorso). Su Polanski pesa la grave accusa di stupro perpetrata ai danni di una minorenne nel 1977, una vecchia e brutta storia che nulla toglie alla genialità del regista; in quanto ad Allen, è la figlia Dylan Farrow a scagliarsi sui social contro un padre indubbiamente difficile di cui peraltro si sa già tutto. Ma allora si giudica l’o­pera o l’uomo? Discorso analogo vale per il mon­do della musica rock, nata ribelle e oggi dominata da conformismo e buoni sentimenti. Morrissey, già leader degli Smiths, è tra le pochissime star a dichiararsi conservatore, favorevole alla Brexit e supporto di For Britain, il movimento accusato di razzismo. Questo non è piaciuto ai fan, che han­no strappato i suoi manifesti e distrutto i dischi. Morrissey si è appellato al rispetto della diversità di opinioni e alla libertà di parola e invece la cen­sura si è abbattuta anche su quello che è sempre stato considerato un territorio franco. Il rischio della degenerazione di questo atteg­giamento censorio, che passa dalla melassa del po­liticamente corretto all’instaurarsi di un paesaggio orwelliano, avamposto della dittatura, si è manifestato a lungo durante il diffondersi della pandemia da coronavirus. Guai a manifestare dubbi, dissensi, incertezze rispetto alle decisioni della politica, supportati da virologi ed esperti. Durante il lockdown, insieme alle persone, sono rimaste chiuse in casa le loro coscienze. Consigliando la lettura di 1984 Nicola Por­ro su “Il Giornale” prospetta uno scenario for­se inquietante, ma non improbabile: «Stiamo esagerando? Forse. Ma a scanso di equivoci, in questa quarantena, dategli una lettura. All’epoca c’era lo stalinismo, oggi la tirannia ha un’altra più garbata forma, ma il risultato non cambia». Più sicurezza e meno libertà è un refrain che anticipa le dittature. Poche voci dissonanti si sono alzate davanti al buonismo mediocre dell’hashtag #iorestoacasa: Enrico Del Buono su “Rolling Stone” – «la rivelazione più terribile di questa epidemia è il bisogno diffuso, finalmente demistificato, di inchinarsi al primo grande inquisitore che passa»; Filippo Facci su “Libero” – «non mi farò mettere app sul telefono che equivalgono al braccialetto dei carcerati o alla dittatura cinese, non mi farò spiare da un drone, anzi, se ne vedrò uno lo abbatterò con la fionda»; Camillo Langone ancora su “Il Giornale” – «ma restateci voi a casa, amebe che non siete altro: non esistono più giovani ribelli, fieri vegliardi, artisti maledetti o, più semplicemente, intellettuali dissidenti?». Lasciando la cronaca e tornando alla questione del politicamente corretto, nel 1993, il grande Robert Hughes pubblicava la sua reprimenda intitolata La cultura del piagnisteo, si riferiva a questioni del proprio tempo. Nessuno, neppure il più oltranzista tra i censori, si sarebbe sognato di portare indietro di secoli l’orologio dell’arte; oggi c’è chi lo fa, applicando letture moralistiche a opere nate sotto ben altre stelle. Tra tutti, il caso Yale è il più clamoroso e assurdo perché all’epoca del Rinascimento italiano l’arte era quella, solo quella e nulla più. Può darsi che da qualche parte del nostro pianeta, prima della scoperta dell’America, forse nel Centro Africa o nel Sud Est asiatico, ci fossero abilissimi artigiani capaci di intagliare legno, assemblare materiali, ma privi di qualsiasi aspirazione all’autorialità perché proprio non la conoscevano. La firma, nell’arte, è da sempre sinonimo di garanzia e ci sarà dunque un motivo se Giotto vale di più di un anonimo maestro di bottega. Una data segna il cambiamento, ed è il 1989, con la mostra Magiciens de la Terre che a Parigi espone per la prima volta in un grande museo i prodotti artistici extra-occidentali. Inutile arrampicarsi sui vetri, prima di allora l’arte era soltanto europea, l’America si riconosce solo dal Novecento pieno, il resto non conta, non esiste. Discorsi che non piacciono alla maggior parte degli osservatori contemporanei, invaghiti dal senso di colpa contro la “nostra” mentalità colonialista. Non potendo portare a suffragio delle loro teorie qualche esempio calzante, si dedicano alla nobile arte della censura retroattiva, con accuse di maschilismo, sessismo, comportamenti devianti. L’assurdo sta proprio qua. Nel terzo millennio i maggiori censori arrivano dagli ambienti accreditati come i più progressisti. Accademici, direttori di museo, intellettuali di oggi non hanno nulla a che fare con il background culturale dei loro genitori, che negli anni Sessanta e Settanta lottavano per la libertà sessuale e di pensiero, sognando una società libera da ogni costrizione. Un cavallo di battaglia della sinistra, una tra le tante promesse mai mantenute. Tra le occupazioni più recenti dei moralisti loro eredi c’è chi scandaglia, aiutandosi col web e rilanciando le proprie opinioni in questa terra di nessuno, i manuali di arte alla ricerca di immagini perverse, sottolinea i romanzi dove compare la parola negro, ebreo o altri lemmi di discriminazione sessuale. Se la prende con la volgarità dei rapper e viviseziona qualsiasi canzonetta, anche la più stupida: credete forse che Vasco Rossi oggi potrebbe ancora gridare, in Colpa d’Alfredo, «è andata a casa con il negro la troia»? Impensabile anche per lui. Gli ultimi a difendere la libertà d’espressione e di immagine sono rimasti i conservatori, i liberali, che forse in un altro tempo si sarebbero indignati e oggi, chiamati in causa, si sentono di fermare la corsa alla censura. Perché questa è una folle corsa che limita la libertà di tutti, di chi fa arte e di chi la guarda, di chi la espone e di chi la ama. E pensare che nella storia dell’uomo arte è sinonimo di libertà, o almeno lo è stato a lungo. Non oggi, perché alcuni modi di fare arte o di essere stati artisti non sarebbero più legittimi nel nostro mondo. Oggi leggiamo l’opera come un insieme di qualità estetiche, stilistiche ed etiche, con una netta prevalenza di quest’ultima. Ed è sbagliato. Se l’arte si giudica dalla cronaca, eccoci davanti alle nuove forme di “pornografia del dolore” che invadono le biennali, le fiere, le mostre indipendenti e i musei progressisti. Eppure nessuno mai si sognerebbe di additare il cinismo di chi si serve delle tragedie a scopi commerciali e autopromozionali. Cercasi migranti, sciagure, femminicidi, guerre, disastri ambientali. Tutto è addomesticato, tutto è uguale, perfettamente corretto. La minoranza è in e la maggioranza out. L’omosessualità in e l’eterosessualità out. Il cristianesimo out e le altre religioni in. L’occidente out e il terzomondismo in. Un editore di estrema destra va espulso dal Salone del libro di Torino e il criminale Cesare Battisti può essere pubblicato da Einaudi (fuori catalogo, fortunatamente). L’elenco può continuare all’infinito, funziona solo ciò che è perfettamente corretto, «nessuno si senta offeso» come cantava Francesco De Gregori. E intanto la libertà dell’arte va a farsi fottere, se si può ancora dire.

Il madamato (ché tale fu quel che Montanelli fece) era una sorta di leasing matrimoniale che venne proibito dal fascismo nel '37. Antonino D'Anna su Italia Oggi numero 141 pagina 6 del 17 giugno 2020. Indro Montanelli non era un pedofilo e non si sposò una bambina. Ma ormai il Maestro è morto e soprattutto non serve più prendersela con Silvio Berlusconi, per cui si può imbrattarne la statua ai Giardini omonimi, quei Giardini nei quali venne gambizzato il 2 giugno del '77. Permettetemi di parlare di pedofilia perché me ne occupo da anni e suggerirei di non usare a sproposito una parola che gronda dolore e sangue. Letteralmente. Il 12 febbraio 2000 (fonte: Fondazione Montanelli Bassi, che vi invito a consultare) uno dei più grandi giornalisti italiani, tornato al Corriere dal quale se n'era andato nel 1973, quello stesso Corriere che quando Montanelli venne gambizzato si premurò accuratamente di non indicarne nome e cognome nel titolo di prima pagina, spiegò a una ragazza diciottenne che scriveva scandalizzata: Destà aveva 14 anni. Piccolo particolare: 14 e non 12 come scorrettamente Wikipedia riporta e come tanti gonzi credono. La pedofilia riguarda atti sessuali con bambini da pochi giorni a 13 anni: a 14 in questo Paese sei penalmente perseguibile e puoi anche andare a lavorare. Figuriamoci sposarti e fare sesso, visto che la stessa Chiesa cattolica prevede nel Codice di Diritto canonico che l'età minima matrimoniale, in assenza di indicazioni diverse delle Conferenze episcopali locali, è 14 anni per la donna e 16 per l'uomo. Era lo stesso al tempo in cui Montanelli impalmò Destà. Secondo: vi scandalizzate dei 14 anni di Destà e i 25 di Indro? Nella civile, laica e repubblicana Italia di metà e fine anni 60 era uso che i cumenda ultracinquantenni impalmassero ragazzine appena maggiorenni (21 anni). Ovviamente tra gli applausi e i migliori auguri delle famiglie, che salivano la scala sociale mentre lo sposino saliva quella della cornutaggine (ma non sempre). Guardatevi Il Sorpasso, anno 1962: Catherine Spaak/Lilli è promessa sposa del vecchio Bibì, che ammette: non mi amerà mai, ma mi piace. Oggi tutto questo è superato ma al tempo di Montanelli e Destà, cioè ottantacinque anni fa, il mondo girava in modo ben diverso e, come Montanelli spiegò negli anni 90, quella era l'usanza matrimoniale abissina, errore che lui (per sua stessa ammissione) - riconobbe di aver fatto in buonafede. Terzo. Il madamato (ché tale fu quel che Montanelli fece, una sorta di «leasing matrimoniale» che - ripetiamo - al tempo così si usava in quello che sarebbe divenuto l'Impero risorto sui colli fatali di Roma) venne proibito dal fascismo nel '37 al grido di Aut imperium aut voluptas, o l'Impero o lo sfogo sessuale. Tanto che, dopo, nel Corno d'Africa vennero organizzati i bordelli. Ecco, questo era il mondo allora e mi pare che le cose siano andate ben oltre. Peraltro a me fa schifo l'idea, oggi, che una donna capace di avere rapporti sessuali venga affittata per mettere al mondo un figlio non suo con quella che, pudicamente, chiamasi «maternità surrogata» e a me pare una porcata immane. E non c'è una femminista pronta a indignarsi sul tema. Molto più comodo giudicare l'ora per allora, mostrando di non avere alcun senso della Storia. Per finire, a proposito dell'uso di Montanelli contro Berlusconi. Tanto tempo fa, in una galassia lontana, ho potuto ascoltare Paolo Granzotto riferire che cosa successe la sera del giorno in cui Montanelli annunciò l'addio al quotidiano che aveva fondato: mentre Montanelli era intento a limare il suo ultimo pezzo per il Giornale, Granzotto entrò nel suo ufficio e gli chiese come stesse. Risposta: «Mi sento come Benito Mussolini a Campo Imperatore, prima che lo andasse a prendere Otto Skorzeny». È stato un buon profeta. PS: occhio a Mimmo Modugno. Nel 1976 incise una canzone, Il maestro di violino, che divenne anche un film interpretato da lui. Mister Volare raccontò l'amore tra una sedicenne e un uomo di 30 anni più grande di lei. Gli hanno dedicato una statua nella natia Polignano a Mare: signor sindaco Domenico Vitto, per cortesia, la faccia vigilare giorno e notte. Gli imbecilli sono ovunque.

La sinistra contro Montanelli dimentica il manifesto di Sartre sulla pedofilia. Negli anni '70, il "Manifesto in difesa della pedofilia" venne sottoscritto da tutto il gotha della sinistra europea e francese: Louis Aragon, Roland Barthes, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, André Glucksman, Felix Guattari, Jack Lang, Bernard Kouchner, Jean-Paul Sartre. Roberto Vivaldelli, Giovedì 18/06/2020 su Il Giornale. I progressisti che accusano Indro Montanelli di pedofilia, prendendosela vigliaccamente con una statua che non ha la possibilità di difendersi, dimenticano le parole e le tesi dei grandi pensatori della sinistra come Jean-Paul Sartre. Il filosofo francese sottoscrisse insieme ai nomi più illustri della sinistra europea come Simone de Beauvoir e Michel Foucault il Manifesto in difesa della pedofilia pubblicato su Libèration. Come ricordava qualche tempo fa Sergio Romano sul Corriere della Sera, la petizione fu lanciata nel 1977 dopo che tre uomini erano stati arrestati per avere avuto rapporti sessuali con ragazzi non ancora quindicenni ed erano stati tenuti in carcere per più di tre anni in attesa di giudizio. Ma i ragazzi non erano stati oggetto di violenze e si erano dichiarati, a quanto pare, consenzienti. Da qui venne lanciata la petizione, firmata da tutto il gotha della sinistra e dell'intellighenzia dell'epoca - Louis Aragon, Roland Barthes, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, André Glucksman, Felix Guattari, Jack Lang, Bernard Kouchner, Jean-Paul Sartre, Philippe Sollers - per chiedere di eliminare dal codice leggi che gli intellettuali di sinistra ritenevano desuete e non al passo con i tempi. "Il testo - sottolinea Romano - non teneva conto della vulnerabilità psicologica di un minore e delle ricadute che questa estensione della libertà sessuale avrebbe potuto avere sulla sua vita". Ma il manifesto non è certo un caso isolato. Movimenti a favore della pedofilia sono spesso emersi negli ultimi decenni da ambienti vicina alla sinistra progressista europea e anglosassone. Come spiegava qualche tempo fa Riccardo Ruggeri su Italia Oggi, per chi fosse interessato, al di là della Manica, troverebbe nei mitici anni '70, quelli delle famose Utopie libertarie anglosassoni, una certa Pie (Paedophile Information Exchange), una setta legata ai Labour (National Council for Civil Liberties) che aveva l'obiettivo di "permettere legalmente a un adulto di avere rapporti sessuali con bambini consenzienti di 10 anni". E anche nel secondo millennio i pedofili colti non mollano: come Jürgen Trittin, ex leader dei Verdi tedeschi, che qualche anno fa aveva esaltato il suo manifesto pedofilo anni '80. Diversamente dal caso Montanelli i politicamente corretti diranno che erano "altri tempi", perché a quel mondo fanatico piace deconstetualizzare i fatti a seconda delle convenienze politiche. Che puntano il dito contro gli avversari di sempre - come Indro Montanelli - in nome di un muovo moralismo politically correct, dimenticando volutamente la propria storia. Purtroppo per loro Il Manifesto in difesa della pedofilia è lì ed è storia. Non toglie nulla alla grandezza di Jean-Paul Sartre o Michel Foucault ma la dice lunga sull'ipocrisia della sinistra e sulla furia iconoclasta di questi tempi.

Gli sponsor che non ti aspetti. Ecco chi è favorevole alla pedofilia. Da Baltazzar il 14 marzo 2010 su segnideitempi.org.

Dacia Maraini, sulla scia di filosofi illuministi che praticavano sesso anche con i figli, ha sostenuto che l’incesto è una pratica naturale.

Gerd Koenen ( teorico del ’68 ) scrive: “Negli asili infantili più radicali le attività sessuali divennero parte integrante dei giochi”. (1)

Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, Jack Lang, futuro ministro francese, firmarono una petizione in cui si reclamava la legalizzazione dei rapporti sessuali coi minori. (2)

Daniel Cohn-Bendit, capogruppo dei Verdi a Bruxelles, raccontò addirittura di avere sperimentato e favorito la pedofilia e il sesso coi minori a scuola, come insegnante. Poi, diventato euro-parlamentare dei verdi, ha detto che si trattava di un’opera di fantasia.Ma anche fosse stata un’opera di fantasia, qual’era l’obbiettivo? (3) Certamente questa opera non favorisce la condanna della pedofilia.

Oggi Aldo Busi, forse il più venduto autore omosessuale italiano, spesso ospite di programmi televisivi e radiofonici, candidato nelle liste radicali, scrive:“E’ probabile che nella mia omosessualità ci sia una forma di attrazione non verso i maschi, ma verso l’odio che mi suscitano tutti gli uomini, odio che il fare sesso con loro non fa che aumentare…”. Dopo di che spiega che l’età per rapporti omosessuali che lui ritiene lecita è a partire dai tredici anni, in quanto a questa età un ragazzo, secondo lui, sarebbe adulto, e libero di decidere di avere rapporti con un altro uomo (“Manuale per il perfetto papà”, Mondadori). (4)

Nichi Vendola, governatore della Puglia, in una intervista del 1985 a Repubblica affermava: “Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti, e trattarne con chi la sessualità l’ha vista sempre in funzione della famiglia…”. (5)

I RADICALI hanno organizzato il 27-10-1998 un convegno, nelle aule del Senato, la cui presentazione così recitava: “[…] essere pedofili […] non può essere considerato un reato; la pedofilia […] diventa reato nel momento in cui danneggia altre persone”. Come dire che la pedofilia è lecita purché il bambino sia consenziente e la legge lo permetta…. ( 6)

L’internazionale dei Gay e delle lesbiche ( ILGA ) ha collaborato politicamente e culturalmente con i pedofili americani ( NAMBLA: North American Man-Boy Lovers Association ) per dieci anni, prima di separarsi da questo movimento. ( 7)

Il filosofo omosessualista Mario Mieli sosteneva la funzione redentiva della pedofilia ( la sua opera è considerata la Bibbia dei Gay e a lui sono intitolati molti circoli gay ). (8 )

Nell’opera di Mieli VENGONO CONSIDERATE ESPERIENZE REDENTIVE, da PROMUOVERE, LA PEDOFILIA, LA NECROFILIA E LA COPROFAGIA. (9 )

Le ASSOCIAZIONI OMOSESSUALI ( COC ), FONDATE DA JEF LAST ( PEDOFILO OMOSESSUALE E AMICO DI ANDRE’ GIDE ), NEI PAESI BASSI hanno voluto e ottenuto la depenalizzazione dei contatti sessuali con giovanetti al di sopra dei 12 anni . (10 )

Bibliografia:

1) Francesco Agnoli, Il Foglio, 26 maggio 2007

2) Ibidem

3) Ibidem

4) Ibidem

5) Ibidem

6) Ibidem

7) Cfr qrd.org/qrd/orgs/NAMBLA/1993. se.to.ilga

8) Cfr Gianni Rossi Barilli, Il Movimento Gay in Italia, Feltrinelli, Milano 1999, p.93.

9) Cfr Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli, Milano 2002, p. 255.

10) Cfr G.J.M. van den Aardweg, – Matrimonio – omosessuale e affidamento a omosessuali, in Studi Cattolici. Mensile di studi e di attualità, anno XLII, n.449/50, Milano luglio-agosto, Milano 1998, p. 507

Ma perchè avercela tanto coi pedofili? Di Francesco Agnoli (del 31/05/2007). E allora parliamo di pedofilia! Visto che i sostenitori dell’eugenetica, i fautori dell’aborto, i paladini delle mamme nonne, degli ibridi e delle chimere, della poligamia come “fatto biologico”, si scandalizzano, sbuffano e si sbracciano contro i pedofili ecclesiastici… Sì, tra gli uomini di Chiesa, vi sono dei pedofili, ed anche dei briganti, dei ladri, dei bugiardi, dei simoniaci….tutta gente che Dante metterebbe all’Inferno. Tutta gente che a mio parere passerà davanti, in Paradiso, a Santoro, Augias, Odifreddi, e a tanti altri. “Le prostitute, ha detto Gesù, vi precederanno nel Regno dei Cieli”. Noi cattolici lo sappiamo, di essere peccatori, temiamo l’inferno, ci confessiamo e ci battiamo il petto. Però viva le prostitute, viva i pedofili, quelli che lo fanno di nascosto, che se ne vergognano, e che poi, giustamente, pagano. Meglio loro, nel segreto delle loro stanze, nel putridume del loro cuore, nell’abominio del loro segreto vizio, degli intellettuali progressisti e farisei che negano per iscritto il diritto naturale, che avversano il matrimonio dalle loro cattedre ben pagate, che esaltano ogni tipo di libertinaggio, per divenire improvvisamente acidi moralisti. In nome di cosa condannano la pedofilia? I greci non erano spesso pedofili? Il relativismo culturale non è necessario, per essere al passo coi tempi? La morale naturale non è una invenzione della Chiesa? Se i sessi sono cinque, perché non possono diventare sei? Se il bambino è un “perverso polimorfo”, perché non può da subito soddisfare i suoi istinti? Se l’incesto non è contro natura, come sostiene Dacia Maraini, sulla scia di filosofi illuministi che lo praticavano persino con i figli, in base a cosa, per Dio, la pedofilia sarebbe cattiva? Non ci avete insegnato questo, in tanti anni? Non ci avete detto, a partire dal 1968, che l’unica regola è che non ci sono regole, che è “vietato vietare”? Non avete clamorosamente taciuto di fronte alla nascita del partito pedofilo in Olanda? Perché diventate ora, ad un tratto, così reazionari, bigotti, oscurantisti? Suvvia riscoprite altre radici, riabbracciate un passato più laico. La Chiesa non può vantare, tra le sue file, teorici della pedofilia, il pensiero progressista sì. Ricordate la rivoluzione del 1968? Ricordate Gerd Koenen? Scriveva: “Negli asili infantili più radicali le attività sessuali divennero parte integrante dei giochi”. In quegli stessi anni Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault, Jack Lang, futuro ministro francese, firmarono una petizione in cui si reclamava la legalizzazione dei rapporti sessuali coi minori (Il Giornale, 16/1/2005). Daniel Cohen Bendit, capogruppo dei Verdi a Bruxelles, leader del Sessantotto francese, raccontò addirittura di aver di aver sperimentato e favorito la pedofilia e il sesso coi minori a scuola, come insegnate. Oggi Aldo Busi, forse il più venduto autore omosessuale italiano, spesso ospite di programmi televisivi e radiofonici, candidato nelle liste radicali, scrive: “E’ probabile che nella mia omosessualità ci sia una forma di attrazione non verso i maschi, ma verso l’odio che mi suscitano tutti gli uomini, odio che il fare sesso con loro non fa che aumentare….”. Dopo di che spiega che l’età per rapporti omosessuali che lui ritiene lecita è a partire dai 13 anni, in quanto a questa età un ragazzo, secondo lui, sarebbe adulto, e libero di decidere di avere rapporti con un altro uomo (“Manuale per il perfetto papà”, Mondadori). Il grande Niky Vendola, governatore della Puglia, in una intervista del 1985 a Repubblica affermava: “Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti, e trattarne con chi la sessualità l’ha vista sempre in funzione della famiglia……”. E come dimenticare i radicali, che si sono scagliati più volte contro la lotta di Don Fortunato di Noto contro i siti pedofili, o contro il procuratore di Torre Annunziata Alfredo Ormanni, quando costui chiedeva al governo leggi più severe sulla pedofilia? Scrivevano Maurizio Turco e Daniele Capezzone, deputati radicali, in una lettera a Libero del 28 aprile 2002, scagliandosi contro provvedimenti mirati a fermare il traffico di materiale pedopornografico in internet: “in termini liberali, è del tutto inaccettabile la criminalizzazione di un orientamento sessuale (sic) in quanto tale, di un modo di essere, di uno stato…Non si tratta di difendere il ‘diritto’ di qualcuno a intrattenere relazioni sessuali con bambini in tenera età; si tratta di affermare il diritto, senza virgolette, di tutti e di ciascuno a non essere condannati e nemmeno giudicati, sulla base della riprovazione morale che altri possono provare nei confronti delle loro preferenze sessuali. Criminalizzare i pedofili in quanto tali, al contrario, non serve a tutelare i minori, ma solo a creare un clima incivile…”. Caro Santoro, facci vedere il filmato ciofeca, pieno di menzogne, di estrapolazioni, di equivoci voluti, sui preti pedofili, e poi dicci che è tutto vero, e spiegaci quello che tu veramente pensi: che per una volta sei d’accordo con la Chiesa, che si è finalmente aperta, che è divenuta comprensiva, tollerante…e spiega ai cattolici progressisti che, per fortuna, i preti non sono tutti come Ruini e Bagnasco…Poi tornatene a Strasburgo, dove ti eri fatto eleggere… (P.s Il commento serio al filmato della BBC è riportato nell’articolo sotto)

Il «Manifesto in difesa della pedofilia» fu firmato a suo tempo da Jean-Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Michel Focault e Jack Lang. Riccardo Ruggeri, Editore Grantorinolibri.it, su Italia Oggi numero 74 pagina 9 del 28 marzo 2014. Recentemente, il Daily Mail ha mosso una serie di accuse contro importanti esponenti laburisti colpevoli di complicità politica verso una lobby della pedofilia in Inghilterra. La Svizzera, paese solido e concreto, dopo molti mesi di dibattiti sul tema, ha deciso di fare un referendum di iniziativa popolare («Affinché i pedofili non lavorino più con i fanciulli»), che va a rafforzare la legge attuale, nel solco di quella del 2008 che prevedeva l'imprescrittibilità dei reati sessuali contro i bambini. Anche qui, secondo l'ala libertaria di sinistra, questa legge violerebbe il principio della «proporzionalità», aspetto centrale dello Stato di diritto svizzero. L'amico Paolo Bernasconi, già Procuratore Pubblico e oggi avvocato, li ha così liquidati «da un lato all'autore di reati sessuali viene impedito di lavorare con i bambini (sanzione circoscritta), dall'altro la legge garantisce la sicurezza dei fanciulli». Aggiungo banalmente io, lo Stato deve proteggere i più deboli, e nessuno merita più protezione dei nostri bambini. Ricordo quegli anni tumultuosi post '68, quelli in cui si ruppe per sempre il mio rapporto, già tenue, con le varie Sinistre occidentali. Avvenne, tra gli altri, anche sul tema della pedofilia, un «marcatore» (o segnale debole) che considero tipico delle società autoritarie, sia quelle clericali che quelle libertarie, due facce dallo stesso orrendo ghigno, quando si occupano di fanciulli. Qualche anno fa la celebre Laurie Goodstein (nomen omen) costruì sul New York Times (NYT) un «pacchetto» di accuse (coinvolgendo personalmente Ratzinger e Bertone) contro i preti cattolici pedofili, vuoi per colpevolizzare il celibato, vuoi per «scucire» quattrini alla Chiesa. Intendiamoci era un «pacchetto» ineccepibile e giustamente i singoli colpevoli vennero condannati con durezza e col massimo dell'ignominia. Peccato che come giornalista si fosse dimenticata di consultare anche gli archivi del Jay College della NY University (qualche blocco di distanza dalla sede del NYT), il massimo contenitore di dati statistici (1950-2012) sulla pedofilia negli Stati Uniti. Avrebbe saputo che «i casi di pedofilia nelle chiese protestanti e in quelle laiche delle élite Wasp sono 6 (sei) volte superiori a quelli riscontrati nella Chiesa cattolica americana». L'ineffabile Laurie Goldstein dimenticò poi di citare e documentarsi sull'orrendo '68. Era facile, doveva semplicemente leggere i numeri di Libèration: qui avrebbe trovato un giovane Daniel Cohn-Bendit che, mentre pontificava sul nostro meraviglioso futuro di libertà, nei ritagli di tempo descriveva compiaciuto i «toccamenti» di bambini di un asilo alternativo (asilo). Poi troverà il «Manifesto in difesa della pedofilia» con i nomi in calce del miglior ciarpame della Sinistra europea: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Michel Foucault e, rieccoli, Jack Lang e DCB, cinque degni di diventare Immortali. Per chi fosse interessato, al di là della Manica, troverebbe nei mitici anni '70, quelli delle famose Utopie libertarie anglosassoni, una certa PIE (Paedophile Information Exchange), una setta legata ai Labour (National Council for Civil Liberties) che aveva l'obiettivo (tenetevi forte) di “permettere legalmente a un adulto di avere rapporti sessuali con bambini consenzienti di 10 anni (sic!). Quel consenzienti è la tipica chicca del politicamente corretto. E anche nel secondo millennio i pedofili colti non mollano, pochi mesi fa Jürgen Trittin, leader dei Verdi tedeschi, ha esaltato il suo manifesto pedofilo anni '80. Fortunatamente due celebri professori Franz Walter e Stephan Klecha dalle colonne del FAZ lo hanno zittito. Ciò che trovo insopportabile in questi nazi-impotenti è che costoro considerino tutti noi ancora dei liceali idioti che credono alle loro ridicolaggini pedofile su Socrate, Alcibiade, e i falsi miti greci. Comunque grazie popolo svizzero per sollevare problemi politici veri, fortunati voi, svizzeri, che avete l'istituto del referendum popolare, e lo usate senza parsimonia. Mentre votate per questo referendum, dovete pure decidere se volete che i vostri cieli abbiano una propria copertura aerea con i nuovi 22 Gripen (i nostri F35). La sera del 18 maggio sapremo se continuerete ad essere uno degli ultimi paesi civili dell'Occidente.

SIMONE PORTA LE RAGAZZINE A CASA E JEAN-PAUL LE SVERGINA. I TRIANGOLI EROTICI DI SARTRE+DE BEAUVOIR: LA FAME DI SESSO PRODUCE BUONA FILOSOFIA. Barbara Costa su Pangea News il 20 ottobre 2018 e su l'Inkiesta il 23 ottobre 2018. Prima della fama e della gloria, prima dei libri importanti, e prima di diventare il re e la regina della filosofia, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir erano due semplici, giovani docenti. Si amavano, titillavano e affinavano le loro intelligenze, e a letto sperimentavano. A nome e ossequio di un patto stipulato su una panchina, patto voluto da Simone che rifiuta di sposare Sartre, e patto a sigla di un amore indissolubile, ma che non esclude altri corpi, anche da condividere. Sono gli anni ’30 e Simone insegna filosofia in licei femminili vestita all’ultima moda, cipria bianca e labbra scarlatte, e capelli corti, in stile zeldaniano. Simone incanta le sue allieve in quanto donna libera, emancipata, non sposata, che vive in albergo. Le sue alunne sono sedotte dalle sue parole di libertà mai astratte, avvalorate dal suo esempio di vita quotidiano: una donna libera è tale se disprezza e ripudia tutto quello che la società le impone, il giogo paterno e maritale, le prigioni della maternità e dei lavori domestici, la cura di una casa che non le serve, perché l’identità personale e pubblica di una donna si esprime col suo cervello e il suo lavoro, coi soldi che dalle sue sole forze ricava, e dagli amici che si fa per quello che è e vale, non per il cognome che un uomo le dà. Amici che si trovano nei locali proibiti dell’epoca, dove Simone entra e si siede da sola, beve alcolici e si lascia trascinare in avventure da una notte. Sono gli anni ’30 e questa è Simone de Beauvoir, miglia avanti alle sue coetanee e anche a Sartre, che non ha conosciuto la fame come Simone da piccola durante la Prima Guerra Mondiale, né assaporerà mai l’ebrezza, il potere che dà spendere denaro guadagnato. Sartre è un fortunato, proviene da una famiglia facoltosa, e quando sarà ricco di suo, comprerà una casa con cui andrà a vivere con la mamma. Simone non è immune al fascino femminile, ha scoperto il sesso prima con la sua migliore amica, poi con Sartre. Simone è in pace con la sua bisessualità mai celata a Sartre: una sessualità che Sartre abbraccia approfittandone. Corrispondono a verità le biografie pruriginose che li vogliono affamati di sesso a tre con le amanti ragazzine di Simone, che passano nel letto di Sartre per perdere la verginità. “Ammaliati e ammaliatori al tempo stesso, ci amavamo di un amore circolare” che con l’allieva Olga dura due anni, con Wanda un po’ di più. Olga e Wanda sono sorelle, due adolescenti tra cui una minorenne, che da tali triangolazioni amorose guadagnano cultura e più chiavi per aprirsi il mondo. Hai voglia a lamentarsi, 40 anni dopo, nelle loro autobiografie, che quella promiscuità di corpi ha causato frigidità e sofferenza! Olga è innamorata di Simone, ed è gelosa del suo rapporto con Sartre, si ‘concede’ a lui per ingelosirla. Sartre si infiamma per Olga, scottato sedurrà Wanda, la quale reclamerà il possesso esclusivo di Sartre a sua sorella e a Simone. Un caos di sesso, umori e sentimenti, incastri dove più corpi entrano astutamente invitati, e quando verrà il turno di Natalie, la madre denuncerà Simone per condotta immorale facendole perdere il posto da insegnante. Un turbinio, la vita sessuale dei giovani Sartre e de Beauvoir, che ha pochi eguali in libertà e frenesia. Seduzioni che hanno del diabolico, esperienze che lasciano il segno in libri pietre miliari della letteratura: Olga sarà L’Invitata di Simone, a Olga Sartre dedicherà Il Muro. E sotto pseudonimi Olga, Wanda, Natalie, tante altre appariranno e scompariranno nelle opere successive di Simone, e nelle Lettere di Sartre pubblicate dopo la sua morte. Il sesso a tre si diraderà con la maturità di Sartre e Simone: ci saranno amori – tanti – paralleli, per tutta la loro vita, ma mai cadranno in un vortice simile a quello vissuto con Olga fino alla fine, fino a che lei si brucia una mano davanti ai loro occhi sbalorditi, a urlo del suo sfinimento: Olga è piegata dalla sua stessa libertà, da un legame soffocante, a porte chiuse, riflesso in tre specchi che non le rimandano più belle immagini. Olga che per le sue radici ebraiche deve scappare, salvarsi. Gli anni ’30 sono finiti: Hitler è alle porte. Barbara Costa