Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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(pagine) GIANGRANDE LIBRI
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2020
IL GOVERNO
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL GOVERNO
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Credibilità.
L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il lungo viaggio temporale in Italia.
E gli "storici"? Tacciono… Il Massone Garibaldi a disposizione della Chiesa di Roma.
Napoli e Sud poco combattivi?
La Grande Guerra.
La Seconda Guerra.
Carmine Crocco, il Brigante Generale.
Re galantuomo o Re caporale?
Anche le donne a capo del casato.
Liberatori d’Italia dal nazifascismo: pellerossa e non comunisti.
Quelli che…o tutti o nessuno e poi vogliono la secessione!
Le oche starnazzanti.
La Questione Settentrionale.
Il metodo della “Spesa Storica”. Il ladrocinio degli evasori. Sorpresa: il Nord si prende la gran parte dei soldi pubblici.
Il Sud Sbancato.
A-Nazionalità ed Anti-Italianità. Ecco chi ha ucciso la nostra Patria.
LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ma quale latrina?
L'Italia è federale per natura.
Un paese di inventori.
Il Rapporto Italia 2020 dell'Eurispes e dell’Istat.
L'onore offeso di Nassirya.
Toponomastica Partigiana.
Paese di indigenti spendaccioni.
SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti dentro…
I Furbetti del Cartellino.
Gli italiani onesti. Quelli che chiamano ladri gli altri.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La prossima Egemonia Culturale.
Il referendum.
Cosa vuol dire «suffragio».
I Sondaggi.
Cosa è la politica?
Le battaglie a difesa del Parlamento.
Candidati: pecore e porci…
Lo Stupidario della politica.
Avanti! Savoia.
I Disobbedienti. Radicali. Liberisti e Comunisti.
I Liberali contro tutti.
L’Ordine Sociale e l'orgoglio di dirsi Conservatore.
Il Paese di tutti contro tutti.
Ecco l'Anpi senza più partigiani.
Io sono il Potere Dio tuo.
I Conflitti d’Interesse.
Il Conflitto dei cognati.
I Redditi dei Governanti.
L’Infodemia: ossia l’indecisione su scelte su dati eccessivi e non riscontrati.
Italia Commissariata. Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante, come i suoi commissari.
Una politica senza alcuna credibilità.
Impresentabili?
Il Governo dei Misteri.
Transatlantico addio!
L'Egocrazia.
I Voltagabbana.
Legge marketta e fondi markette.
Pensioni d’oro e vitalizi.
La Spazzacorrotti: a chi?! I contributi politici opachi.
Il Finanziamento ai Partiti.
La Rimborsopoli.
La Lottizzazione degli “Onesti e Puri”.
Addio Partiti.
I Movimenti di Protesta.
Quelli del non-voto.
La "Likecrazia".
Senza Rabbia non c’è rivoluzione.
Il Cnel.
SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Codice Appalti illegale.
Era Corruzione…
Non era Corruzione…
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cittadinanza col Trucco.
L’Amicocrazia.
Concorsi Pubblici (truccati) e Pubblico Impiego. Sì…non per tutti. La Stabilizzazione del precariato amico.
Miur. "Tracce comprate, pressioni dei sindacati". Quelle ombre sul concorsone.
Il concorso Mibac da 200mila persone.
Commercialisti, l'esame è una scommessa.
Concorso presidi annullato.
Quei Concorsi Pubblici truccati all’Università.
Consulenti legali di Stato: ora basta sprechi e favoritismi.
Il Concorso Pubblico di Consigliere-Assistente Parlamentare.
Il Concorso truccato per i magistrati.
Gli Assistenti Giudiziari.
Il Concorso dei Poliziotti.
La Laurea dei poliziotti.
“Sesso in cambio di esami”.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Avvocati si diventa pure così…
SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Regioni a statuto speciale sempre pronte a battere cassa.
Il Costo dell’Inefficienza.
Più bidelli che carabinieri.
Lo spreco delle scorte.
Lo spreco delle Auto blu.
Il Costo del Caffè.
Difesa, oltre 3.000 le case occupate (senza titolo) da ex militari, figli e mogli.
Vent’anni di crack delle banche sono costati ai cittadini 45 miliardi di euro.
Il Finanziamento alle ONLUS.
Il Finanziamento alla Cultura.
Il Finanziamento all’Editoria.
Finanziamento ai Compagni.
La Marchetta ai Lgbt.
Lo Spreco in Rai.
Lo spreco nei cieli.
Lo Spreco in Alitalia.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
Debito pubblico italiano: quanto cresce e perché.
Lo Stato padrone.
Lo Stato Insolvente.
Il Golden Power.
L’Economia Italiana in balia dei Magistrati e della Iella.
Storia delle Tasse - Le tasse nella storia. Meglio tartassati dalla Monarchia o dalla Repubblica?
Il Paradiso Fiscale.
Tassopoli.
Previdenziopoli.
Bancopoli.
Assicuropoli.
Acquisto, leasing o noleggio? Tutte le trappole sulle auto.
La Telefonia truffaldina.
Così l’euro ha danneggiato l’Italia.
"Il capitalismo è nelle mani dei capitalisti senza capitale".
I Ricconi della Terra.
Lotterie e Giochi d’Azzardo.
IL GOVERNO
PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
"Io non mi sento italiano": Giorgio Gaber aveva capito tutto. Marco Castoro il 18 dicembre 2020. «IO NON mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono». Questi versi della canzone di Giorgio Gaber (datata 2003) la dicono tutta sull’Italia di ieri, di oggi e chissà anche di domani, se neanche con la scossa dei fondi europei riusciamo a scuoterla per cambiarla. Quanti di noi non si sentono italiani, vuoi perché il Paese è prigioniero della burocrazia, vuoi perché è gestito da politici e burocrati che pensano solo alle poltrone e a complicare la vita degli italiani. Una classe politica e dirigenziale che non sa prendere decisioni, che si becca come in un pollaio con le elezioni come unico pensiero e obiettivo. Nel «per fortuna o purtroppo lo sono» c’è tutta l’Italia e l’italiano. C’è la bellezza del clima, del mare e dei monti, del sole e delle scogliere. C’è la bellezza dell’arte che ti lascia a bocca aperta. Dal Romano al Rinascimento, dal Barocco al Neorealismo. Orgoglio della patria, così come la nazionale di calcio, la moda e l’artigianato, l’arte di arrangiarsi e la creatività degli italiani. Nel «purtroppo lo sono» invece c’è la disperazione di non vedere mai l’uscita del tunnel, di pagare delle tasse elevate per poi ricevere dei servizi scadenti, di vedere scappare all’estero i migliori cervelli. Di vedere l’Alta Velocità che si ferma a Salerno. La banda larga ultraveloce che diventa un lusso per pochi invece che un servizio per tutti, anche per chi non vive nelle grandi città. La didattica a distanza ha messo a nudo il problema. «Un Bel Paese pieno di poesia ma che nel mondo occidentale è la periferia», per citare ancora Gaber che ammette la sconfitta dell’Italia quando sentenzia: «Non vedo alcun motivo per essere orgogliosi». Il mitico G.G. se la prende anche con il Mameli: «Non sento un gran bisogno dell’inno nazionale di cui un po’ mi vergogno». Per poi radere al suolo i politici e i parlamentari, la vera zavorra di un Paese che non cresce e che paga le loro incompetenze. «Ma questo nostro Stato che voi rappresentate mi sembra un po’ sfasciato. È anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto è calcolato e non funziona niente… Persino in parlamento c’è un’aria incandescente, si scannano su tutto e poi non cambia niente… il grido ‘Italia, Italia’ c’è solo alle partite». Attualissima anche la frase «Abbiam fatto l’Europa, facciamo anche l’Italia», che si potrebbe tradurre come una invocazione al governo, all’opposizione, alle task force e alle Regioni a sfruttare al massimo i soldi del Next Generation Eu. In modo da poter finalmente dire: Io mi sento italiano.
La contemporaneità italiana raccontata ai posteri ed agli stranieri.
Se la Storia la scrivono i vincitori, ora tocca ai vinti raccontare quello che non si riporta dalla Cultura del pensiero unico ed imperante e dai Media ideologizzati asserviti al potere politico ed economico.
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.
Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.
Sono un guerriero e non ho paura di morire.
Non ho alcun potere. Ho provato a difendere gli indifesi quando praticavo nei Tribunali. Non guardavo in faccia nessuno per l’amor di verità e giustizia. Il risultato è che sono stato cacciato e perseguitato. Inoltre, coloro che difendevo mi hanno voltato le spalle. I politici a cui segnalavo le anomalie mi prendevano per pazzo o mitomane.
Purtroppo le controversie sono risolte dai magistrati nei processi con l’ausilio degli avvocati difensori.
I quesiti a cui dare risposta sono:
Ci sono magistrati degni di stima e rispetto, che applichino la legge secondo legalità ed equità?
Ci sono avvocati che spingono i magistrati a prendere le decisioni secondo giustizia?
Ci sono governanti e legislatori che ascoltano le preghiere dei cittadini, avendo potere d’intervento sui magistrati?
Cosa fa il “popolo” per cambiare le cose?
La risposta è che ognuno guarda i “cazzi” suoi”.
Allora la mia considerazione naturale è:
Parafrasi ed Assioma con intercalare. Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
Lettera al ''Giornale'' il 20 ottobre 2020. Tale Simona Bonafè (Pd) in tv, ospite di Nicola Porro, ha testualmente affermato «non facciamo gli italiani più imbecilli di quanto non siano». Informo la svampita onorevole che gli italiani non meritano di essere offesi da una scappata di casa che sostiene un governo che dell' imbecillità ha fatto una bandiera! Giuseppe Metelli
Risponde Tony Damascelli sul ''Giornale'' il 20 ottobre 2020. Gentile signor Giuseppe ogni volta che leggo o ascolto una corbelleria mi tornano alla mente le battute di Totò, il quale anticipava i tempi non immaginando comunque che addirittura i rappresentanti delle istituzioni scendessero al ruolo di comparse e battutisti. Lei segnala, appunto, un passaggio delle parole pronunciate dalla parlamentare Bonafé Simona la quale, in coerenza con il proprio cognome, dunque in buona fede, ha detto testualmente. «non facciamo gli italiani più imbecilli di quanto non siano». Meglio avrebbe fatto a usare la prima persona plurale del verbo, dunque «..di quanto non siamo..» ma mi rendo conto che questo sarebbe stato un salto culturale e di coscienza che una esponente di questo governo non può avere, appartenendo a un clan esclusivo di nati già imparati. Ecco perché mi è tornata in mente la frase del principe De Curtis: «Lei è un cretino, si informi», un riassunto che spiega tutto, un invito che è una condanna alla berlina pubblica. Può darsi che noi italiani siamo così cretini che nemmeno una parlamentare può immaginarlo, ma si dovrebbe presumere che la nostra imbecillità derivi proprio dal fatto di essere rappresentati da simili personaggi. Non voglio scadere nelle facili e volgari provocazioni ma spesso la Bonafé è scivolata in modo imprevedibile e goffo, scambiando congiunto con congiuntivo, un errore di sbaglio si potrebbe dire per mettersi allo stesso livello ma, come sostiene la stessa deputata di Azzate, non siamo mica tutti imbecilli.
«Il popolo è una puttana e va col maschio che vince» (Mussolini a proposito del sentimento filotedesco in Italia dopo i primi successi della Wermacht) (Renzo De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori)
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.
La dimensione sociale della legalità e i benefici dello sviluppo del diritto positivo. Daniela Piana su Il Dubbio il 13 agosto 2020.
Un grave errore mettere in secondo piano il protocollo sottoscritto dal Consiglio nazionale forense con il ministero dell’Istruzione sul terreno della cultura del diritto. Sono ormai mesi che ci misuriamo, in modo più o meno consapevole, più o meno condiviso e chiaramente articolato, con un grande dilemma: quali sono gli strumenti che ci permettono di rendere prevedibile, ovvero determinabile, e quindi, anche, governabile in modo lineare, il comportamento sociale? Per quanto un diffuso e serpeggiante understatement emerso nel crollo delle grandi teorie – non delle grandi ideologie – sul funzionamento delle nostre società ci abbia accompagnato e ci abbia incoraggiati ad aderire ad un rassicurante evitamento delle grandi domande – “tanto, poi, non si trovano le risposte e quando le si trovano sono già oggetto di discussione e giammai di consenso, dunque inutili per prendere decisioni collettive” – questo pensiero minimo oggi ci aiuta assai poco. La realtà dei fatti ci ha sbattuto in faccia, con una violenza inedita, dapprima la questione del “Cigno nero”, poi la questione di come originare, di colpo nell’arco temporale di qualche giorno, un nomos sociale tutto nuovo, sospendendo e disapplicando i dispositivi di regolazione sociale cui eravamo abituati nel gestire le nostre vite quotidiane, gettandoci nello spaesamento di un mondo di regole artefatte, cogenti e strutturanti ( cosi ci è parso, vedendoci camminare per strada, pochi e distanziati, vedendoci cedere il passo per non incrociarci nello spazio pubblico) per poi costringerci a cimentarci di nuovo con la questione dei limiti dello strumento del diritto positivo nell’orientare, no, anzi nel determinare, i comportamenti individuali. Ben venga dunque la presentazione al pubblico della traduzione del volume di Christian List, Why Free Will is Real, avvenuta qualche giorno fa sulla Lettura. Ben venga perché con la categoria del free will ci portiamo dietro moltissime conseguenze che pesano come macigni e che al contempo ci costringono ad interrogarci su uno strumento, quello cardine della società moderna e democratica, con cui siamo propensi a regolare i comportamenti individuali: ossia lo strumento del diritto positivo. Poniamoci alcune domane a mò di esempio. I cittadini italiani hanno seguito le regole del confinamento perché prevedevano le sanzioni previste dai Dpcm che si sono susseguiti, perché percepivano nel loro campo visivo quotidiano i segni palesi del controllo pubblico esercitato dalle forze dell’ordine – e quindi ne prevedevano in modo certo il potere sanzionatorio – o perché sulla base di informazioni e di valori interiorizzati hanno aderito ad una prospettiva di tutela collettiva? Ancora: le vicende che hanno messo al centro del dibattito istituzionale la questione del rapporto fra magistratura e politica si leggono, interpretano ed esplicano nei termini di “non sufficientemente cogenti interazioni” fra le strategie individuali e le norme disciplinari, ovvero le loro applicazioni, oppure abbiamo bisogno di categorie che ci aiutino a rimettere al centro la autonomia del giudizio e, quindi, quell’insieme di norme e di valori che non sono pos( i) te nelle leggi e nelle regolazioni, ma che attengono alla integrità? Sulla stessa falsariga: la recentissima vicenda dell’utilizzo distorto dei bonus ci parla di un comportamento che avrebbe dovuto essere prevenuto – ossia impedito – dalle norme che regolano l’erogazione dei bonus oppure di un self- restraint che sia interiorizzato dalle persone che svolgono funzioni pubbliche? Sarebbe troppo facile liquidare questi interrogativi come divertissement estivi di una vagante immaginazione filosofica, che forse puo’ dare soddisfazione ad alcuni studiosi di eccellenza, come List, ma che poco ci aiuta nel governo e nella prospettazione della società di domani. Troppo facile: e quando le cose sono troppo facili, forse non sono correttamente impostate. Più adeguato ci pare sia tempo interrogarci su cosa siamo intenzionati a chiedere allo strumento del diritto positivo – sottraendolo così allo spazio della autonomia del giudizio e dell’azione regolati da meccanismi self restraining di integrità e diciamolo dalla dimensione sociale della legalità, proprio nel momento in cui la questione della disciplina e della coniugazione di comportamenti individuali con l’integrità pubblica ci appare uno dei grandi temi su cui investire per il futuro. Solo un difetto visivo che non ci possiamo concedere giustificherebbe dunque il passare a coté del protocollo recentemente sottoscritto dal Consiglio Nazionale Forense con il Ministero dell’Istruzione sul tema della cultura della legalità. Se si colgono nelle recenti esperienze fatte sul territorio italiano dagli Ordini forensi, in partenariato con le scuole, le radici di un modo di vedere la legalità nella sua dimensione sociale, che si nutre di un uso corretto delle parole per definire correttamente i comportamenti, dell’uso della prassi apprese in un percorso corale, come comportamenti che si rinforzano anche attraverso i meccanismi di controllo orizzontale – e non solo quelli verticali – come apprendimento di un diritto che ha le sue radici innanzitutto nella mente delle persone, prima che nei testi di legge, forse potremmo concederci un cauto, ma non freddo, positivo sentire, che vede nel diritto positivo una delle dimensioni della legalità, la quale sarebbe però incardinata nel senso dell’equità e della reciprocità, promosse attraverso due strumenti sui quali il Paese deve investire in modo sistematico: formazione e professionalità, interiorizzate, vissute, praticate dalle persone, governati e governanti. E deve farlo ora.
Cos’è la natura umana, lo stimolante confronto tra Chomsky e Foucault. Filippo La Porta su Il Riformista il 10 Luglio 2020. Ma esiste la “natura umana”, o qualcosa definibile in quanto tale sul quale basare la nostra azione politica? Ad esempio i valori della giustizia, dell’integrità, dell’amore per gli altri. Faccio un passo indietro. Come ognuno sa il repertorio illimitato che offre la Rete ha modificato la nostra insonnia, ci ha reso possibile, entro certi limiti, “usarla” (come occasione preziosa di conoscenza e apprendimento). Colpito da insonnia stagionale (calura estiva) nelle ultime notti ho navigato in Rete alla ricerca di argomenti sfiziosi, curiosità e lontane remininescenze. Non si pensi solo alla “cultura alta”: ad esempio ho rivisto i deliziosi monologhi televisivi di Walter Chiari, poi a un certo però mi sono imbattuto nel confronto, alla tv olandese, tra Noam Chomsky del Mit e Michel Foucault del Collège de France (1971) proprio sulla “natura umana” (ho successivamente scoperto che ne sono usciti due libretti, uno Derive/Approdi, l’altro Castelvecchi, infarciti di postfazioni). Ritengo che questo confronto sia straordinario, formativo, e un raro esempio di altissima drammaturgia filosofica. Cosa dicono i due grandi intellettuali?
Chomsky teorizza coerentemente la esistenza di una natura umana, che secondo lui consiste fondamentalmente – e in ciò risale a Cartesio (che definisce la mente come qualcosa che si contrappone al mondo fisico) – in una capacità creativa: si tratta di una facoltà che ogni bambino dimostra quando alle prese con una nuova situazione reagisce ad essa, la descrive, la pensa in modo nuovo, e che gli permette di apprendere la propria lingua madre rapidamente e senza impararne le regole. Una facoltà naturale, metastorica, che fonda il nostro agire politico contro ogni potere coercitivo (ed ad esempio le varie forme di disobbedienza civile): se questo bisogno di ricerca creativa (a partire dal linguaggio), di libera creazione, è un elemento della natura umana, un invariante biologico, allora una società più giusta dovrebbe permetterci di massimare la possibilità di realizzare tale caratteristica umana.
Foucault replica che invece tutto è prodotto della Storia, che nella nozione di natura umana c’è sempre qualcosa di regolativo, che quando la definiamo prendiamo in prestito elementi della nostra cultura e civiltà. Onestamente dà l’impressione di essere più sottile, più sofisticato del suo interlocutore, almeno fino a quando non cita come massima fonte autorevole Mao-Tse -Tung, che parlava di natura umana borghese e di natura umana proletaria. E aggiunge che il proletariato combatte la classe dirigente non perché lo ritiene giusto ma perché vuole prendere il potere (rivelando una antropologia alla Hobbes!). Non si mostra interessato a definire cos’è l’uomo (la sua “essenza”, definibile solo in termini metafisici) ma a capire cosa si può e si deve fare dell’uomo (in ciò singolarmente vicino a Sartre, con cui pure era spesso in polemica).
Cosa ricavarne? Non pretendo di trovare una soluzione e anzi lascio al lettore la libertà di trarne le sue conclusioni. Mi limito a osservare che in genere il buon senso (americano ed ebraico) di Chomsky me lo rende più simpatico: dice ad esempio che se il proletariato vincendo la sua battaglia creasse uno stato di polizia fondato sul Terrore allora lui vi si opporrebbe, appunto in nome di valori umani fondamentali, radicati nella nostra natura. Anche se vedo la problematicità della sua posizione: in fondo anche Hitler avrebbe potuto appellarsi alla “natura umana”, magari assumendo come sua prerogativa principale il bisogno di sicurezza! Inoltre: è anche vero che quel bisogno di creatività è un prodotto storico, nato dalla interazione sociale (tralascio la questione se davvero donne e uomini abbiano la “stessa” natura…). Provo allora a suggerire una terza posizione. A me sembra che la negazione integrale – foucaultiana – della natura umana abbia portato (si pensi all’oltranzismo di certe posizioni sul gender) alla insofferenza verso qualsiasi “limite”, alla cancellazione di ogni vincolo naturale, e dunque alla irrealtà. Per Proudhon la giustizia nasceva – in società – dal riconoscimento della dignità di ogni essere umano: «è il rispetto, spontaneamente provato e reciprocamente garantito, della dignità umana, in qualsiasi persona». Certo, questo riconoscimento è emerso a un certo punto della Storia umana, non prima, ma diventerà un punto di non ritorno. E può fondare qualsiasi tipo di resistenza al potere. In tal senso allora una azione politica potrebbe fondarsi non tanto sulla natura umana quanto su ciò che intendiamo valorizzare della natura umana (sempre contraddittoria, un poco “lunatica”, come osservò Orwell), però senza poterne prescindere.
Liberale=amante della libertà propria e rispetto di quella altrui. Secondo diritto naturale, non economico. Per esempio: i poveri non si sostengono economicamente, per farli rimanere tali, ma si aiutano a diventare ricchi, eliminando ogni ostacolo posto sulla loro strada da caste e lobbies.
In parole povere. Spiegazione con intercalare efficace: Fare i cazzi propri, senza rompere il cazzo agli altri.
Attenzione, pero, a nominare il termine “liberale” invano, perché i liberali non esistono.
Si spacciano come tali quelli come Berlusconi, ma sono solo lobbisti capitalisti. E molto hanno in comune con i comunisti, leghisti e fascisti e gli inconsistenti 5 stelle. Tutti fanno solo i cazzi loro, rompendo il cazzo agli altri.
Non c'è nessun però o nessun ma. Il diritto di aiutare è un gesto solidale. Ma l'aiuto non è per tutti. Cassa integrazione, indennità di disoccupazione, reddito di cittadinanza sono sostegni economici non per tutti. Quindi l'aiuto è tale solo se ricambiato. Il dovere di abbattere caste è lobbies per affermare l'equità è doveroso. Io voglio, se valgo, il posto degli incapaci che mi dicono cosa fare. Invece l'assuefazione al chiedere e l'abitudine a ricevere ha reso le masse proletarie parassitarie. I Poveri, anzichè battersi per i diritti, ora sono pronti a vendersi per gli oboli, diventando schiavi dei potentati gattopardiani.
Qual è la differenza tra equità e uguaglianza?
L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere, ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo.
Equità significa che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no, pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo, dovrebbe biasimare solo sè stesso, perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità.
Mattia Biella, System Integrator, Tecnico di automazione(1995 -oggi) su it.quora.com. Ha Risposto il 12 dicembre 2018.
Eccone un’immagine interessante. Uguaglianza è quando tutti sono trattati allo stesso modo (figura a sinistra).
Da qph.fs.quoracdn.net
Non è detto che cambi qualcosa: a chi già poteva non cambia nulla, per chi non poteva non è detto che adesso possa. A destra invece l’equità: non è detto che tutti ricevano lo stesso, ma ciascuno riceve quello che gli serve. Uguaglianza significa avere tutti la stesa cosa, equità significa avere tutti le stesse opportunità. Mentre l’uguaglianza è facile da ottenere, l’equità comporta scelte da parte di chi deve fornire gli strumenti. Oltretutto, chi beneficia di eventuali aiuti vede una differenza magari marcata tra ciò che egli riceve e quello che riceve invece il suo vicino/amico/compagno, e scatta il tormentone perchè lui ne ha avuto di più? Equità però significa anche che se uno per esempio fa carriera (e i soldi) e l’altro no pur avendo frequentato entrambi la stessa scuola nelle stesse condizioni, quello rimasto al palo dovrebbe biasimare solo sè stesso perchè hanno avuto entrambi la stessa opportunità. L’uguaglianza comporta che chi non si vuole sbattere ottenga lo stesso di chi invece si fa il mazzo. Quindi chi non vuole sbattersi pensa chi me lo fa fare dato che poi comunque ho lo stesso ciò che mi serve? mentre quello che si sbatte pensa chi me lo fa fare se poi comunque non mi resta in mano nulla più di quelli che non si sbattono?. In realtà l’immagine completa comprenderebbe un terzo pannello, in cui la staccionata non c’è più ed è stata sostituita da una rete, e quella situazione rappresenta la situazione in cui gli ostacoli sono stati rimossi e tutti possono godere fin da subito delle stesse opportunità, ma va oltre la domanda posta.
Questa immagine rende meglio l’idea, credo. In questo caso è lampante come l’uguaglianza sia di fatto discriminante, anche se a molti sembra un paradosso.
Da qph.fs.quoracdn.net
Anche in questa immagine direi che la differenza è chiara.
Da qph.fs.quoracdn.net
Che governi l'uno, o che governi l'altro, nessuno di loro ti ha mai cambiato la vita e mai lo farà. Perchè? Sono tutti Comunisti e Statalisti. Sono sempre contro qualcuno. Li differenzia il motto: Dio, Patria e Famiglia...e i soldi.
Gli uni sono per il cristianesimo come culto di Stato. Gli altri sono senza Dio e senza Fede, avendo come unico credo l'ideologia, sono per l'ateismo partigiano: contro i simboli e le tradizioni cristiane e parteggiando per l'Islam.
Gli uni sono per la Patria e la difesa dei suoi confini. Gli altri sono senza Patria e, ritenendosi nullatenenti, sono senza terra e senza confini e, per gli effetti, favorevoli all'invasione delle terre altrui.
Gli uni sono per la famiglia naturale. Gli altri sono senza famiglia e contro le famiglie naturali, essendo loro stessi LGBTI. E per i Figli? Si tolgono alle famiglie naturali.
Gli uni sono ricchi o presunti tali e non vogliono dare soldi agli altri tutto ciò che sia frutto del proprio lavoro. Gli altri non hanno voglia di lavorare e vogliono vivere sulle spalle di chi lavora, facendosi mantenere, usando lo Stato e le sue leggi per sfruttare il lavoro altrui. Arrivando a considerare la pensione frutto di lavoro e quindi da derubare.
Alla fine, però, entrambi aborrano la Libertà altrui, difendendo a spada tratta solo l'uso e l'abuso della propria.
Per questo si sono inventati "Una Repubblica fondata sul Lavoro". Un nulla. Per valorizzazione un'utopia e una demagogia e legittimare l'esproprio della ricchezza altrui.
Ecco perchè nessuno si batterà mai per una Costituzione repubblicana fondata sulla "Libertà" di Essere e di Avere. Ed i coglioni Millennials, figli di una decennale disinformazione e propaganda ideologica e di perenne oscurantismo mediatico-culturale, sono il frutto di una involuzione sociale e culturale i cui effetti si manifestano con il reddito di cittadinanza, o altre forme di sussidi. I Millennials non si battono affinchè diventino ricchi con le loro capacità, ma gli basta sopravvivere da poveri.
La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.
Avvolti nella loro coltre di arroganza e presunzione, i Millennials, non si sono accorti che non sono più le Classi sociali o i Ceti ad affermare i loro diritti, ma sono le lobbies e le caste a gestire i propri interessi.
Nord e Sud ed i ladri e razzisti dentro. "Sbagliato dare gli stessi stipendi a Milano e Reggio Calabria" dice il sinistro Beppe Sala, sindaco di Milano. Dovrebbe sapere, lui, se fosse solo ignorante e non in malafede, che a parità di stipendio il maggiore costo della vita elevato al Nord va a pareggiare i maggiori costi dei diritti negati al Sud, a causa del ladrocinio padano dei Fondi nazionali e comunitari destinati al meridione. Da buoni comunisti (Padani) per loro vale il detto: “quello che è mio è mio; quello che è tuo è pure mio”.
La verità è che al Sud la vita costa di più. Angelo Bruscino, Imprenditore impegnato nella Green Economy, giornalista e scrittore, su Huffingtonpost.it il 13/07/2020. Caro sindaco di Milano, la verità è che al Sud la vita costa di più. Costa di più, perché abbiamo una pressione fiscale maggiore in cambio di servizi inesistenti. Costa di più, perché il tempo per aprire una impresa è il triplo che a Milano. Costa di più, perché la burocrazia è un costo occulto per cittadini e imprese. Costa di più, perché la nostra aspettativa di vita media è più bassa, ci ammaliamo di più e dobbiamo andare al Nord a farci curare, di tasca nostra. Costa di più, perché i processi sono infiniti. Costa di più, perché non abbiamo l’Alta velocità ma l’altra velocità. Costa di più, perché non abbiamo metrò, ma strade fatiscenti: andiamo al lavoro in auto, mica in Tav, con tutti i costi ambientali che ciò comporta. Costa di più, perché le scuole crollano, mancano gli asili e chi può manda i figli a studiare alla Bocconi a spese proprie. Costa di più, perché da Palermo a Messina o da Salerno a Reggio Calabria è una odissea. Costa di più, perché i prodotti che consumiamo vengono dal Nord, a eccezione di frutta, verdura e pesce, le uniche cose che costano di meno perché le produciamo! Dimenticando che i redditi degli impiegati pubblici servono proprio ad acquistare i beni del Nord, così che Lei possa dire: “Milano non si ferma”.
Patrimoni sconosciuti del Sud. La maggioranza dei comuni meridionali ignora i beni pubblici che amministra. Perché non censire le nostre risorse? La proposta per dare nuova vitalità al territorio e lavoro ai giovani. Piero Bevilacqua il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Questi brevi suggerimenti nascono dalla necessità di fornire, in tempi il più possibile brevi, delle opportunità di lavoro ai tanti giovani, in gran parte laureati, spesso di ritorno nel Sud a causa della pandemia, perché trovino per lo meno ragioni di permanenza temporanea, suscettibile di sviluppi futuri. Io credo che la grandissima maggioranza dei comuni meridionali ignorino i patrimoni pubblici che pure amministrano (terreni, edifici e vari beni immobili, monumenti artistici, acque interne, risorse naturali, dotazioni ambientali e di biodiversità) per i quali i giovani laureati in scienze agrarie, in economia, in architettura, in giurisprudenza, in ingegneria, materie umanistiche, ecc potrebbero in breve tempo essere chiamati a compiere una ampia operazione di ricognizione e di censimento di comprensibile utilità. Pensiamo al lavoro per rendere noti i terreni potenzialmente disponibili ad uso agricolo. Naturalmente non tutti i comuni sono nelle stesse condizioni, ma assai spesso si tratta di fare emergere, soprattutto nelle campagne interne, tanto i fondi e i beni comunali, che quelli demaniali, gli usi civici, ma anche le terre private abbandonate. Ricordo che tale lavoro risulterebbe utile non solo ai fini propriamente agricoli, ma anche per individuare i siti, poco vocati all’agricoltura, o ad altro uso produttivo, in cui installare veri e propri centri di generazione di energia solare. Il territorio improduttivo ma che gode di prolungato irraggiamento, può essere utile anche a questo. Una operazione simile andrebbe condotta inoltre, per conto dei comuni e in collaborazione con gli istituti competenti, nei tanti paesi, borghi, cittadine in vie di spopolamento per avere un quadro del patrimonio abitativo in abbandono, dei beni artistici e monumentali spesso dimenticati, del loro stato di conservazione, dei tanti lasciti spesso preziosi di conventi, palazzi padronali, fontane, cisterne, canali, ponti, briglie idrauliche, e non solo. Moltissimi comuni del Sud avrebbero bisogno di conoscere lo stato dei loro suoli e corsi d’acqua di cui ci si ricorda quando esondano per qualche alluvione. Un tempo i grandi geografi italiani facevano il censimento delle frane dell’Appennino, oggi, con i tecnici comunali e provinciali che teoricamente dovrebbero sovraintendere alla loro sorveglianza, i giovani potrebbero offrire un di più di conoscenza diretta, per potere intervenire con piani preventivi di contenimento. È con le piccole opere diffuse e capillari che si evitano i grandi disastri. Si parla sempre e con asfissiante monotonia di ambiente, ma pochi sanno di che cosa realmente parlano. Eppure l’ambiente meridionale presenta grandi problemi e straordinarie potenzialità. Qualche esempio per atterrare dalla nuvola “ambiente” alla realtà. I nostri boschi sono spesso in condizioni di grave degrado. In tanti casi la macchia selvatica li rende impraticabili e talora arriva ad ucciderli. Io ho visto personalmente Monte Reventino, in Sila, migliaia di alberi soffocati dalla vitalba, un elegante parassita infestante, che si estende in alte liane per via aerea e con radici sotterranee. In Aspromonte si possono scorgere vaste pinete con le chiome degli alberi letteralmente coperte da nidi di processionarie che li stanno uccidendo o li hanno già uccisi. Solo alcuni esempi per indicare un immenso patrimonio naturalistico in pericolo che potrebbe peraltro conoscere forme di valorizzazione economiche incredibilmente trascurate. Noi importiamo legname pregiato da opera (castagni, noci e ciliegi) e non riusciamo a coltivarne le essenze neanche in habitat vantaggiosi. Senza dire che in queste terre d’altura non si fanno allevamenti di volatili e di piccoli animali, realizzabili con poca spesa. Mentre le acque interne (torrenti, piccoli laghi, stagni) raramente danno luogo ad attività di acquacoltura. Si parla spesso di biodiversità da tutelare. Sarebbe molto utile conoscerla e tanti giovani agronomi e laureati in scienze naturali potrebbero, ad esempio, essere impiegati, in cooperazione con gli esperti dei luoghi, a censire nei vari siti le erbe officinali di cui è ricca la flora meridionale. Erbe, oggi anche coltivate, che trovano impiego nella produzione di articoli di largo commercio, nell’alimentazione macrobiotica e nella cosmetica. Analogo censimento meriterebbe tanto il patrimonio della biodiversità che della varietà agricola (alberi e piante da orto), ignorato, possiamo dire, dall’intera popolazione meridionale, mai educata a conoscere la propria straordinaria eredità, storica e naturale. Esistono in alcune regioni, come la Calabria, dei tesori di varietà delle piante da frutto, e anche di vitigni antichi, sopravvissuti alla fillossera, che sono custoditi nei vivai o dispersi nei fondi privati, e che non conoscono da oltre mezzo secolo alcuna valorizzazione agricola. Naturalmente ci sarebbe anche altro da censire, nel loro stato attuale e nei loro bisogni di riparazione: dalle chiese rupestri, ai siti archeologici in abbandono, ai lidi marittimi colpiti da fenomeni di erosione, o gravemente inquinati da corsi d’acqua di cui si ignora l’origine. Ma di straordinario rilievo sarebbe anche indagare sui luoghi e presso le famiglie l’evasione scolastica dei ragazzi, talora il lavoro minorile dei nuovi poveri del Sud. Per il potenziamento della cultura al Sud, attraverso la costituzione di biblioteche popolari, e altri centri di formazione che cooperino con le scuole, occorrerebbe ovviamente una riflessione a parte. Qui si son voluti fare solo degli esempi e spetterebbe ai comuni, ai sindacati, agli stessi giovani, elaborare con impegno e creatività progetti capaci di soddisfare queste esigenze. Stimolare una nuova intelligenza pubblica dei beni comuni, naturali e storici, può aiutare molto, non solo a fornire nuova vitalità economica e sociale alle nostre aree interne, ma offrirebbe occupazione qualificata alle nuove generazioni. Tenendo sempre presente che di queste fanno parte, a pieno titolo, i migranti che fuggono da guerre, miseria e catastrofi climatiche.
No, i ricchi non diventano ricchi a spese dei poveri. La mentalità della "somma zero" che è alla base delle teorie socialiste è stata smentita dai fatti. Rainer Zitelmann, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Sono in molti a credere che i ricchi possano fare soldi solamente a spese di qualcun altro. Questa concezione del mondo viene anche detta mentalità «a somma zero», dal momento che i suoi seguaci sono convinti che nella vita economica, come in una partita di tennis, affinché un giocatore possa vincere è necessario che un altro debba perdere. Come scrisse Bertolt Brecht nella sua poesia Alfabeto, «Disse il povero, bianco in volto/ Se io non fossi un miserabile, tu non saresti ricco». Sebbene questo modo di pensare sia molto diffuso, è fondamentalmente sbagliato, come dimostrano gli incredibili avvenimenti in Cina negli ultimi quarant'anni. Nella storia, non è mai accaduto che un numero così grande di persone uscisse dalla più abietta povertà con la velocità che si è verificata in Cina. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 1981 la percentuale dei cittadini cinesi che viveva in condizioni di estrema povertà era pari all'88,3% della popolazione. Di lì al 1990, questa percentuale si era ridotta al 66,2%, mentre nel 2015 solo lo 0,7% dei cinesi viveva nella miseria. In questo stesso periodo, il numero di cinesi poveri è calato da 878 milioni e meno di 10.
«LASCIATE CHE ALCUNI DIVENTINO RICCHI PRIMA DEGLI ALTRI». Il miracolo economico cinese è iniziato con le riforme di Deng Xiaoping. Fu Deng ad affermare «Lasciate che alcuni diventino ricchi prima degli altri». Nei decenni successivi, lo Stato cinese ha autorizzato la proprietà privata dei mezzi di produzione e ha permesso che il mercato esercitasse una maggiore influenza. A dispetto del fatto che altre libertà (la libertà politica, ad esempio) non sono rispettate e che la presa dello Stato sull'economia cinese è ancora ferrea, dai tempi di Mao Zedong il suo ruolo si è sostanzialmente ridotto. Inoltre, sotto Deng sono state create in tutta la Cina delle «Zone economiche speciali» a regime capitalista. Quando regnava Mao, in Cina non esisteva nessun miliardario: nel 2010, grazie alle riforme di Deng, i miliardari cinesi erano diventati 64. Oggi, in Cina vi sono 324 miliardari, per non parlare dei 71 che vivono a Hong Kong. Nessun paese al mondo, con l'eccezione degli Stati Uniti, ha altrettanti miliardari della Cina. Se la concezione della somma zero fosse corretta, questo sarebbe impossibile. Ma la mentalità a somma zero è sbagliata: l'impressionante riduzione della povertà e l'altrettanto impressionante aumento del numero di miliardari che si è prodotto contestualmente sono due facce della stessa medaglia. In generale, i ricchi non diventano tali perché prendono ai poveri, ma perché creano grandi benefici per gli altri. Jack Ma è l'uomo più ricco della Cina, con una fortuna di 38,8 miliardi di dollari. È diventato così ricco perché ha fondato Alibaba e altre aziende di successo, che soddisfano i bisogni di centinaia di milioni di suoi concittadini.
I RICCHI CREANO BENEFICI PER LA SOCIETÀ NEL SUO COMPLESSO. Una rapida occhiata alla classifica dei miliardari di tutto il mondo stilata da Forbes permette di constatare che quasi tutti sono diventati ricchi come imprenditori, oppure perché hanno fatto crescere e migliorare le aziende fondate dai loro genitori. La gran parte dei dieci uomini più ricchi del mondo è rappresentata da imprenditori che si sono fatti da sé. Jeff Bezos, il primo della lista, con un patrimonio stimato di 113 miliardi di dollari, è diventato ricco in modo simile a quello di Jack Ma, ossia tramite l'e-commerce. Bill Gates, al secondo posto in ordine di ricchezza (dopo avere occupato per lungo tempo il vertice della classifica), non ha accumulato i suoi miliardi sottraendoli ai poveri, ma offrendo qualcosa al mondo. E con questo non intendo alludere ai miliardi donati dalla Fondazione di Bill Gates alle più svariate cause filantropiche, bensì al software, come i programmi inclusi in Microsoft Office, utilizzati ogni giorno da innumerevoli utenti. Larry Ellison, al quinto posto nella lista di Forbes, ha costruito la propria ricchezza sul suo software per i database per la gestione delle relazioni delle aziende con i clienti. Al settimo posto c'è invece Mark Zuckerberg, che ha sviluppato l'idea alla base di Facebook, che oggi ha 2,5 miliardi di utenti in tutto il modo. Larry Page e Sergey Brin, rispettivamente al tredicesimo e al quattordicesimo posto della classifica, sono diventati ricchi per aver sviluppato il motore di ricerca di maggior successo del pianeta, ossia Google.
LA MENTALITÀ DELLA SOMMA ZERO DANNEGGIA LE PERSONE E LA SOCIETÀ. Il concetto di somma zero non è solo sbagliato, ma ha anche ripercussioni negative su tutti i suoi seguaci e sulla società nel suo complesso. Gli psicologi hanno osservato che l'idea di somma zero rappresenta una delle principali fonti di invidia. Chiunque sia convinto che l'unico modo per arricchirsi sia quello di agire a spese degli altri sarà naturalmente portato a invidiare i ricchi e a provare risentimento per la loro prosperità. La mentalità a somma zero è inoltre alla base di quelle teorie socialiste che hanno prodotto indicibili sofferenze per l'umanità negli ultimi cento anni e passa. Bertolt Brecht, l'autore della poesia che ho citato poc'anzi, non era solo un poeta, era anche un comunista che adorava Iosif Stalin. Chiunque creda che sia possibile arricchirsi solo a spese degli altri ha creato un ostacolo al proprio successo. Persone oneste convinte che i ricchi siano tutti dei mascalzoni non si sforzeranno mai di migliorare il proprio stato. La fede nella somma zero opera come una barriera psicologica inconscia alla creazione di ricchezza e le persone prive di scrupoli morali che pensano in termini di somma zero possono addirittura indirizzarsi alla criminalità. In tutto il mondo, le prigioni sono piene di gente che credeva di potersi arricchire solo a spese degli altri. I fatti, come dimostra l'esempio delle vicende economiche cinesi, ci raccontano una storia completamente diversa. I più grandi successi economici arrivano quando si capisce che, anziché danneggiare la società, tutti traggono vantaggi quando qualcuno si arricchisce - anche enormemente - per le sue attività imprenditoriali.
Qualcuno la notizia la dà, la maggior parte dei giornalisti la fa. Io le notizie le cerco e le raccolgo, senza metter bocca. Sarà poi il lettore a estrapolarne la verità.
Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.
Capire di dover capire significa non muoversi a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.
Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.
Imparare ad imparare significa creare un percorso.
Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.
Come era ieri, è oggi e sarà domani.
Libro di Qoelet. Prologo:
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?
Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa.
Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà.
Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna.
Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia.
Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire.
Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole.
C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è gia stata nei secoli che ci hanno preceduto.
Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.
Art. 104, comma 1, della Costituzione italiana cattocomunista.
La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere. (.)
La magistratura per la destra è un Ordine (come acclarato palesemente), per la sinistra è un Potere (da loro dedotto dalla distinzione "da ogni altro potere").
Autonomia dei Magistrati: autogoverno con selezione e formazione per l’omologazione, nomine per la conformità e controllo interno per l’impunità. Affinchè, cane non mangi cane.
Indipendenza dei Magistrati: decisioni secondo equità e legalità, cioè secondo scienza e coscienza. Ossia: si decide come cazzo pare, tanto il collega conferma.
Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.
Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.
L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.
Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.
Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.
Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.
L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.
Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.
Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.
Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.
Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?
Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.
Avv. Mirko Giangrande:
Produci? Tasse!
Lavori? Tasse!
Compri? Tasse!
Vendi? Tasse!
Studi? Tasse!
Inventi? Tasse!
Erediti? Tasse!
Muori? Tasse!
Non fai nulla? Sussidio!!!
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.
Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.
Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.
Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.
Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.
Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.
Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.
«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».
Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".
Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".
Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".
Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.
I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.
I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.
Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.
Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.
Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».
Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).
Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?
La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.
Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.
Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.
E la chiamano Democrazia…
"In fila per tre", dall'album "Burattino senza fili" di Edoardo Bennato. Testo
Presto vieni qui ma su non fare così
ma non li vedi quanti altri bambini
che sono tutti come te
che stanno in fila per tre
che sono bravi e che non piangono mai...
E' il primo giorno però domani ti abituerai
e ti sembrerà una cosa normale
fare la fila per tre, risponder sempre di sì
e comportarti da persona civile...
Vi insegnerò la morale e a recitar le preghiere
e ad amare la patria e la bandiera
noi siamo un popolo di eroi e di grandi inventori
e discendiamo dagli antichi romani...
E questa stufa che c'è basta appena per me
perciò smettetela di protestare
e non fate rumore e quando arriva il direttore
tutti in piedi e battete le mani...
Sei già abbastanza grande
sei già abbastanza forte
ora farò di te un vero uomo
ti insegnerò a sparare, ti insegnerò l'onore
ti insegnerò ad ammazzare i cattivi...
E sempre in fila per tre marciate tutti con me
e ricordatevi i libri di storia
noi siamo i buoni perciò abbiamo sempre ragione
e andiamo dritti verso la gloria...
Ora sei un uomo e devi cooperare
mettiti in fila senza protestare
e se fai il bravo ti faremo avere
un posto fisso e la promozione...
E poi ricordati che devi conservare
l'integrità del nucleo famigliare
firma il contratto non farti pregare
se vuoi far parte delle persone serie...
Ora che sei padrone delle tue azioni
ora che sai prendere le decisioni
ora che sei in grado di fare le tue scelte
ed hai davanti a te tutte le strade aperte...
Prendi la strada giusta e non sgarrare
se no poi te ne facciamo pentire
mettiti in fila e non ti allarmare
perché ognuno avrà la sua giusta razione...
A qualche cosa devi pur rinunciare
in cambio di tutta la libertà che ti abbiamo fatto avere
perciò adesso non recriminare
mettiti in fila e torna a lavorare...
E se proprio non trovi niente da fare
non fare la vittima se ti devi sacrificare
perché in nome del progresso della nazione
in fondo in fondo puoi sempre emigrare...
Scandalo è l’inciampo che capita ma solo quando viene scoperto. Pubblicato mercoledì, 24 luglio 2019 su Corriere.it. Prendiamoci un momento di riflessione, allontaniamo l’oggetto che stiamo osservando, per coglierne meglio il profilo e la struttura, facciamo professione di umiltà, evitando di dare per acquisito e scontato il significato di parole che maneggiamo con tanta superficialità e leggerezza. Oggi conviene fermarsi un momento a ragionare su «scandalo». Parola di apparente semplicità, scandalo offre una genealogia chiara, dal padre latino scandălum, al nonno greco skandalon, nel significato di ostacolo, insidia, inciampo. Ai nostri occhi il significato si è affinato, concentrandosi sull’azione immorale o illegale che crea un turbamento, aggravato se i protagonisti sono personaggi noti. La prima considerazione su questa parola è senz’altro legata al turbamento che provoca. Questo infatti è essenziale, ma si manifesta solo quando la malefatta in questione viene conosciuta. Rubare è un reato per la legge, un’azione riprovevole per la morale, un peccato per i credenti. Ma diventa uno scandalo solo se ti scoprono. Comprensibile quindi che questo particolare «inciampo» sia protagonista di innumerevoli modi di dire, a cominciare da «essere la pietra dello scandalo», nel senso di essere il primo a dare cattivo esempio; «dare scandalo», essere protagonisti di atteggiamenti riprovevoli (vedete come torna l’aspetto pubblico); «essere motivo di scandalo», come sopra; «gridare allo scandalo», alzare i commenti additando un comportamento che si condanna. Esiste poi l’uso della parola come espressione di riprovazione e sdegno: per cui quel film o quel libro che si reputano particolarmente brutti o offensivi, ai nostri occhi sono «uno scandalo». L’aspetto pubblico dello scandalo l’ha legato da sempre alla notorietà dei protagonisti (dal pettegolezzo agli aspetti più seri) e a quel mondo di illegalità legato alla politica, alla gestione (o mala gestione) della cosa pubblica che ci riguarda tutti. È il caso delle inchieste sulle tangenti pagate a politici e amministratori infedeli rispetto al loro mandato e ai processi che ne sono scaturiti. Scandali che hanno preso i nomi più diversi: il più noto è Tangentopoli, termine coniato a Milano nel 1992 per descrivere un diffuso sistema di corruzione. Ora se Tangentopoli è una parola arditamente composta col suffissoide -poli per indicare la «città delle tangenti» l’uso giornalistico successivo è tutto da ridere: in parole come sanitopoli o calciopoli il suffissoide -poli non significa più «città» ma semplicemente «corruzione». Abbiamo visto come scandalo si porti dietro, dal momento della sua rivelazione, un condiviso moto di sdegno. Ma i motivi che spingono l’opinione pubblica a sdegnarsi non sono affatto sempre gli stessi. Cambiano i costumi, cambia (per fortuna, in molti casi) la morale, cambiano i motivi che la disturbano. Cambia la percezione stessa dei comportamenti che danno scandalo. Per esempio, il 24 luglio 1974 la Corte Suprema degli Stati Uniti sentenziò all’unanimità che il Presidente Richard Nixon non aveva l’autorità per trattenere i nastri della Casa Bianca sullo scandalo Watergate e gli intimò di consegnarli al procuratore speciale che indagava sul caso. Quei nastri dimostrarono che Richard Nixon aveva mentito, circostanza considerata intollerabile per l’opinione pubblica americana e che portarono il Presidente degli Stati Uniti a dimettersi il 9 agosto successivo.
A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva "quantistica". Libro di Roberto Bin edizione 2014 pp. 114, Franco Angeli Editore. Ci può essere una teoria dell’interpretazione giuridica che riduca la discrezionalità dei giudici? Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l’inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Questo libro, rivolto agli operatori del diritto e a tutti i lettori colti, suggerisce un’altra strada.
Presentazione del volume. La discrezionalità del giudice nell'applicazione delle leggi è un problema noto a tutti i sistemi moderni, specie ora che i giudici si trovano ogni giorno ad applicare direttamente principi tratti dalla Costituzione e persino da altri ordinamenti. Sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell'alveo dei criteri fissati dal legislatore. Ogni sistema giuridico ha il suo metodo per scegliere e istituire i giudici, ma in nessun sistema è ammesso che essi operino in piena libertà, liberi di creare diritto a loro piacimento. Il legislatore è l'unica autorità che può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile. Migliaia di libri sono stati scritti per elaborare teorie, regole e principi che dovrebbero arginare l'inevitabile discrezionalità degli interpreti delle leggi e garantire un certo grado di oggettività. Ma la fisica quantistica ci suggerisce di procedere per altra via, di inseguire altri obiettivi e di accettare una visione diversa della verità oggettiva.
Roberto Bin si è formato nell'Università di Trieste e ha insegnato in quella di Macerata. Attualmente è ordinario di Diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. È autore di alcuni fortunati manuali universitari e di diversi libri e saggi scientifici.
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.
Il Civil Law, ossia il nostro Diritto, è l’evoluzione dell’intelletto umano ed ha radici antiche, a differenza del Common Law dei paesi anglosassoni fondato sull’orientamento politico momentaneo.
Il Diritto Romano, e la sua evoluzione, che noi applichiamo nei nostri tribunali contemporanei non è di destra, né di centro, né di sinistra. L’odierno diritto, ancora oggi, non prende come esempio l’ideologia socialfasciocomunista, né l’ideologia liberale. Esso non prende spunto dall’Islam o dal Cristianesimo o qualunque altra confessione religiosa.
Il nostro Diritto è Neutro.
Il nostro Diritto si affida, ove non previsto, al comportamento esemplare del buon padre di famiglia.
E un Buon Padre di Famiglia non vorrebbe mai che si uccidesse un suo figlio: eppure si promuove l’aborto.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe avere dei nipoti, eppure si incoraggia l’omosessualità.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe difendere l’inviolabilità della sua famiglia, della sua casa e delle sue proprietà, eppure si agevola l’invasione dei clandestini.
E un Buon Padre di Famiglia vorrebbe che la Legge venisse interpretata ed applicata per soli fini di Giustizia ed Equità e non per vendetta, per interesse privato o per scopi politici.
Mi spiace. Io sono un evoluto Buon Padre di Famiglia.
L'Astensionismo al voto ed i fessi e gli indefessi della sinistra: La Democrazia è cosa mia...
Maledetta ideologia comunista. Con tutti i problemi che attanagliano l'Italia, i sinistri, ben sapendo che nessun italiano più li voterà, pensano bene di farci invadere per raggranellare dai clandestini i voti che, aggiunti a quelle delle altre minoranze LGBTI, gli permettono di mantenere il potere.
I berlusconiani e la cosiddetta Destra, poi, per ammaliare l'altra sponda elettorale, scimmiottano rimedi che nulla cambiano in questa Italia che è tutta da cambiare. Da vent'anni denuncio quelle anomalie del sistema, che in questi giorni escono fuori con gli scandali riportati dalle notizie stampa. Tutte quelle mafie insite nel sistema.
Si fa presto a dire liberali, dove liberali non ce ne sono. Se ci fossero cambierebbero le cose in modo radicale, partendo dalla Costituzione Catto comunista, fondata sul Lavoro e non sulla Libertà. Libertà, appunto, bandiera dei liberali.
Nei momenti emergenziali in tutti gli altri Paesi v'è un intento comune, anche se solo in apparenza. Politica e media accomunati da un interesse supremo. Invece, in Italia, ci sono sempre i distinguo, usati dall'estero contro noi stessi per danneggiarci sull'export, dando un'immagine distorta e denigratoria. Così come fanno i polentoni italiani rispetto al Sud Italia, disinformazione attuata dai media nordisti e dai giornalisti masochisti e rinnegati meridionali. In una famiglia normale si è sempre solidali nei momenti del bisogno e traspare sempre un'apparente unità. Solo in Italia i Caini hanno la loro rilevanza mediatica, facendoci apparire all'estero come macchiette da deridere ed oltraggiare.
Gli italiani voltagabbana. Al tempo del fascismo: tutti fascisti. Dopo la guerra: tutti antifascisti.
Prima di Tangentopoli: tutti democristiani e Socialisti. Dopo Mani Pulite: tutti comunisti.
E il perché lo ha spiegato cinquecentosei anni fa Niccolò Machiavelli in un passaggio del Principe: «El populo, vedendo non poter resistere a' grandi, volta la reputazione ad uno, e lo fa principe, per essere con la sua autorità difeso». Ecco quello che vogliono gli italiani. Vogliono qualcuno che li salvi, che li assista, che li difenda. Ed al contempo il popolo italiano ha l' attitudine a diffidare del Governo, a non parlarne mai bene, e tuttavia ad affidarsene, non avendo la forza di fare da sé, e di aspettarsi che il governo si occupi di ogni cosa e risolva ogni cosa. Si buttano immancabilmente a obbedire - questa è di Giuseppe Prezzolini - al prestigio personale e alle capacità di interessare sentimentalmente o materialmente la folla. E come si erano incapricciati, così si annoiano e poi si imbestialiscono, perché infine nessuno è capace di salvargliela la pelle. Lo diceva il più bravo di tutti: l'adulatore sarà il calunniatore.
In questo momento è bene ricordare la teoria politica di Cicerone (106 a.C.43)
1 il povero lavora
2 il ricco sfrutta il povero
3 il soldato li difende tutti e due
4 il contribuente paga per tutti e tre
5 il vagabondo si riposa per tutti e quattro
6 l’ubriacone beve per tutti e cinque
7 il banchiere li imbroglia tutti e sei
8 l’avvocato li inganna tutti e sette
9 il medico li accoppa tutti e otto
10 il becchino li sotterra tutti e nove
11 il politico campa alle spalle di tutti e dieci.
Il grande filosofo e uomo politico romano con la sua sagacia e ironia ha in poche ma efficaci parole, riassunto l’opinione che molti oggi hanno della politica.
E nel caso la teoria politica non fosse sua, allora la faccio mia.
Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.
Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.
L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao
Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio
I fratelli coltelli del Socialismo:
I Comunisti-Stalinisti per l’apologia dello statalismo extraterritoriale (mondialismo);
I Fascisti-Leninisti-Marxisti come classisti-nazionalisti (sovranismo).
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.
Nella sua canzone "La razza in estinzione" (2001), l'artista italiano Giorgio Gaber (Milano, 1939 - Montemagno di Camaiore, 2003) critica tutto e tutti e afferma: "la mia generazione ha perso".
La Razza In Estinzione testo Album: La Mia Generazione Ha Perso.
Non mi piace la finta allegria
non sopporto neanche le cene in compagnia
e coi giovani sono intransigente
di certe mode, canzoni e trasgressioni
non me ne frega niente.
E sono anche un po' annoiato
da chi ci fa la morale
ed esalta come sacra la vita coniugale
e poi ci sono i gay che han tutte le ragioni
ma io non riesco a tollerare
le loro esibizioni.
Non mi piace chi è troppo solidale
e fa il professionista del sociale
ma chi specula su chi è malato
su disabili, tossici e anziani
è un vero criminale.
Ma non vedo più nessuno che s'incazza
fra tutti gli assuefatti della nuova razza
e chi si inventa un bel partito
per il nostro bene
sembra proprio destinato
a diventare un buffone.
Ma forse sono io che faccio parte
di una razza
in estinzione.
La mia generazione ha visto
le strade, le piazze gremite
di gente appassionata
sicura di ridare un senso alla propria vita
ma ormai son tutte cose del secolo scorso
la mia generazione ha perso.
Non mi piace la troppa informazione
odio anche i giornali e la televisione
la cultura per le masse è un'idiozia
la fila coi panini davanti ai musei
mi fa malinconia.
E la tecnologia ci porterà lontano
ma non c'è più nessuno che sappia l'italiano
c'è di buono che la scuola
si aggiorna con urgenza
e con tutti i nuovi quiz
ci garantisce l'ignoranza.
Non mi piace nessuna ideologia
non faccio neanche il tifo per la democrazia
di gente che ha da dire ce n'è tanta
la qualità non è richiesta
è il numero che conta.
E anche il mio paese mi piace sempre meno
non credo più all'ingegno del popolo italiano
dove ogni intellettuale fa opinione
ma se lo guardi bene
è il solito coglione.
Ma forse sono io che faccio parte
di una razza
in estinzione.
La mia generazione ha visto
migliaia di ragazzi pronti a tutto
che stavano cercando
magari con un po' di presunzione
di cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli
senza alcun rimorso
ma la mia generazione ha perso.
Non mi piace il mercato globale
che è il paradiso di ogni multinazionale
e un domani state pur tranquilli
ci saranno sempre più poveri e più ricchi
ma tutti più imbecilli.
E immagino un futuro
senza alcun rimedio
una specie di massa
senza più un individuo
e vedo il nostro stato
che è pavido e impotente
è sempre più allo sfascio
e non gliene frega niente
e vedo anche una Chiesa
che incalza più che mai
io vorrei che sprofondasse
con tutti i Papi e i Giubilei.
Ma questa è un'astrazione
è un'idea di chi appartiene
a una razza
in estinzione.
Classifica popoli più ignoranti al mondo, Italia prima in Europa, scrive Alessandro Cipolla sumoney.it il 23 Agosto 2018. Secondo l’annuale classifica di IPSOS Mori sull’ignoranza dei popoli, l’Italia risulta essere la dodicesima al mondo e la prima in Europa. Continuano a non sorridere le classifiche all’Italia. Dopo quella sulla corruzione redatta da Transparency International che ci vede al 54° posto (tra le peggiori in Europa), anche sul tema dell’ignoranza il Bel Paese occupa una posizione poco onorevole. Ma veramente gli italiani sono un popolo di ignoranti? La storia in teoria ci insegnerebbe il contrario, ma ogni anno la classifica stilata da IPSOS Mori ci vede ai primi posti di questa speciale graduatoria che si basa sulla distorta percezione della realtà che ci circonda.
Italia nazione più ignorante d’Europa. Ogni anno IPSOS Mori, importante azienda inglese di analisi e ricerca di mercato, stila puntualmente una classifica su quelli che sarebbero i popoli più ignoranti al mondo chiamata “Perils of Perception”, letteralmente “Pericoli della Percezione”. L’indagine si basa su delle interviste a campione a 11.000 persone per ogni nazione, alle quali vengono sottoposte delle domande su delle statistiche comuni che riguardano il proprio paese. Per esempio nella ricerca del 2017, l’ultima pubblicata, veniva chiesto se gli omicidi nel proprio paese fossero aumentati o diminuiti rispetto al 2000. Oppure se gli attacchi terroristi siano aumentati dopo l’11 Settembre o quanta gente soffra di diabete. In base al grado di errore nel dare le risposte, IPSOS Mori stila la sua classifica che nel 2014 ci vedeva come il popolo più ignorante al mondo. In quella del 2017 invece l’Italia è al dodicesimo posto, prima tra le nazioni europee.
Una percezione distorta della realtà. Leggendo la classifica e guardando i criteri di indagine, si capisce che non si deve confondere il termine “ignorante” con poco istruito o analfabeta, ma invece che ignora la realtà che lo circonda. Il termine “misperceptions” infatti con cui viene presentata la classifica generale significa “percezione erronea”. Gli italiani quindi secondo IPSOS Mori non conoscono a sufficienza quello che realmente accade nel proprio paese. Prendiamo a esempio la domanda sugli omicidi che rispetto al 2000 sono diminuiti in Italia del 39%. Per il 49% degli intervistati invece il numero sarebbe aumentato, per il 35% sarebbe lo stesso mentre solo l’8% ha risposto in maniera giusta. Non è un caso che, stando ai numeri forniti dal Viminale a ferragosto, i reati nel nostro paese sono in diminuzione così come gli sbarchi degli immigrati, ma al contrario la percezione di insicurezza e l’idea della “invasione” prendono sempre più piede tra gli italiani. Nell’epoca delle fake news gli italiani quindi sembrerebbero conoscere sempre meno cosa succede nel proprio paese, una situazione che poco si addice a un popolo che con la sua intelligenza ha avuto un ruolo fondamentale nella storia del mondo. Mala tempora currunt.
Bisogna studiare.
Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.
Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.
Bisogna sapere il vero e non il falso.
Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.
Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.
Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).
Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!
Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.
E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.
Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.
Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.
LE IDEOLOGIE ANTIUOMO.
SOCIALISMO:
(Lenin diceva che il comunismo è socialismo più elettrificazione).
Lavoro ed assistenzialismo, ambiente, libertà sessuale e globalizzazione sono i miti dei comunisti. Moralizzatori sempre col ditino puntato
Dio, Patria e Famiglia sono i miti dei fascisti. Oppressori.
Sovranismo e populismo sono i miti dei leghisti.
Assistenzialismo, populismo e complottismo sono i miti dei 5 stelle.
LIBERALISMO (LIBERISMO):
Egoismo e sopraffazione sono i miti dei liberali.
ECCLESISMO:
Il culto di Dio e della sua religione è il mito degli ecclesiastici.
MONARCHISMO:
Il culto del Sovrano.
Nessuna di queste ideologie è fattrice rivoluzionaria con l'ideale della Libertà, dell'Equità e della Giustizia.
Per il Socialismo le norme non bastano mai per renderti infernale la vita, indegna di essere vissuta.
Per il Liberalismo occorrono poche norme anticoncorrenziali per foraggiare e creare l'elìte.
Per Dio bastano 10 regole per essere un buon padre di famiglia.
Per il sovrano basta la sua volontà per regolare la vita dei sottoposti.
Noi, come essere umani, dovremmo essere regolati dal diritto naturale: Libertà, Equità e Giustizia.
Liberi di fare quel che si vuole su se stessi e sulla propria proprietà.
Liberi di realizzare le aspettative secondo i propri meriti e capacità.
Liberi di rispettare e far rispettare leggi chiare che si contano su due mani: i 10 comandamenti o similari. Il deviante viene allontanato.
Il Papa: per eliminare la fame nel mondo non bastano gli slogan. Francesco ha inaugurato il Consiglio dei governatori del Fondo delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo a Roma (Ifad) e incontra una delegazione di popolazioni indigene, scrive il 14/02/2019 Iacopo Scaramazzi su La Stampa. Il Papa ha caldeggiato lo «sviluppo rurale» per combattere la fame e la povertà, sottolineando la necessità di «garantire che ogni persona e ogni comunità possano utilizzare le proprie capacità un modo pieno, vivendo così una vita umana degna di tale nome», e facendo appello affinché i popoli e le comunità siano «responsabili della proprio produzione e del proprio progresso» poiché «quando un popolo si abitua alla dipendenza, non si sviluppa».
Questo vale per tutte quelle categorie di lavoratori che protestano per avere aiuti e sostegno anticoncorrenziale che porta al demerito improduttivo. E vale anche per i meridionali d’Italia. Insistere nel pretendere aiuto e non far nulla per migliorarsi.
L’assistenzialismo socialista ha prodotto gli statali, che dalla loro privilegiata posizione improduttiva, impongono stili di vita utopistici e demagogici. Questi dipendenti pubblici, spesso scolastici o sanitari, da capipopolo, fomentano le masse per inibire l’industrializzazione sostenibile e lo sviluppo turistico tollerabile, che portano sviluppo economico e sociale, in nome di un fantomatico ecologismo talebano, per poi costringer le masse ideologizzate, paradossalmente, ad essere costrette ad emigrare in posti altamente inquinati, o a villeggiare in posti meno allettanti.
Papa Francesco: "È il lavoro a dare speranza, non l'assistenzialismo", scrive il 15 giugno 2018 La Repubblica. "La speranza in un futuro migliore passa sempre dalla propria attività e intraprendenza, quindi dal proprio lavoro, e mai solamente dai mezzi materiali di cui si dispone. Non vi è alcuna sicurezza economica, né alcuna forma di assistenzialismo, che possa assicurare pienezza di vita e realizzazione". Lo ha detto papa Francesco nell'udienza con i Maestri del Lavoro. "Non si può essere felici - ha aggiunto Bergoglio - senza la possibilità di offrire il proprio contributo, piccolo o grande, alla costruzione del bene comune". Per questo "una società che non si basi sul lavoro, che non lo promuova, e che poco si interessi a chi ne è escluso, si condannerebbe all'atrofia e al moltiplicarsi delle disuguaglianze". Mentre la società che cerca di mettere a frutto le potenzialità di ciascuno è quella che "respirerà davvero a pieni polmoni, e potrà superare gli ostacoli più grandi, attingendo a un capitale umano pressoché inesauribile, e mettendo ognuno in grado di farsi artefice del proprio destino".
La dittatura dell’ignoranza. «Uno uguale uno» significa annullare la competenza. E si finisce come in Venezuela..., scrive Francesco Alberoni, Domenica 10/02/2019 su Il Giornale. L'altra sera ho assistito ad un dibattito televisivo che mi ha molto impressionato. Non dirò dove l’ho visto, ma sarebbe potuto avvenire su qualunque rete. Erano presenti quattro persone, due grandi giornalisti esperti di economia e due donne (ma potevano essere due uomini) che non ne sapevano niente, assolutamente niente. Il risultato è stato che le persone che non sapevano niente sono riuscite a surclassare, rendere muti, quelli che sapevano. In che modo? Gridando le loro stupidaggini come verità incontrovertibili e scartando tutte le obiezioni serie con un gesto di rifiuto. Poi citavano fatti inesistenti, cifre inventate, con la sicurezza dogmatica che solo l’ignorante fanatico può avere. Ripetevano slogan detti dai loro capi, luoghi comuni che circolano su internet dove ciascuno racconta le frottole che vuole. Ed ho pensato che il popolo da solo non può governarsi perché da solo finisce in balia di demagoghi spregiudicati, di fanatici, talvolta di squilibrati e viene istupidito con menzogne, false notizie. Come è successo col comunismo, col nazismo e col fascismo. Mi viene in mente il fascismo quando il Duce chiedeva: «Volete burro o cannoni?» e la gente rispondeva ottusamente «Cannoni» o, alla domanda «Volete la vita comoda?» rispondeva «No!». Ed è successo lo stesso quando la folla gridava «Barabba» al posto di Gesù Cristo, o quella che applaudiva quando ghigliottinavano Lavoisier, il padre della chimica moderna. Il popolo ha bisogno di gente che sa, di studiosi, di giornalisti, di politici esperti che insegnano a ragionare e garantiscono una informazione corretta. Allora il popolo può decidere liberamente. Ma non può farlo quando viene informato da gente che non sa, che mente. Pericle aveva saggiamente evitato la guerra con Sparta, ma dopo la sua morte, il popolo ateniese seguì gli esaltati che la scatenarono e Atene fu sconfitta. Noi oggi in Italia non siamo in una situazione diversa. Si è diffusa l’idea che «uno è uguale a uno» cioè che abbia lo stesso valore l’idea del più ignorante rispetto a chi sa. E si è prodotta una confusione mentale pericolosa. Sono le situazioni in cui i Paesi prendono strade folli, e vanno in malora come è successo in Venezuela.
Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.
Se questi son giornalisti...
Da Striscia La Notizia il 25 settembre 2020. Caro Dago, una regola scolpita nei sacri testi dell’esame di Stato dei giornalisti impone di citare sempre le fonti. A meno che non si tratti del TG1. Ieri sera, nel telegiornale delle 20, nelle immagini che corredavano il servizio sull’esame tarocco di Suarez a Perugia, è stato inserito un post ironico che Striscia aveva pubblicato sui suoi profili social martedì 22 settembre intorno alle 13.30. Peccato che “Rai mani di forbice” abbia tagliato dall’immagine trasmessa ogni riferimento a Striscia (il credito, in gergo tecnico). Il paradosso è che per far sparire le tracce del furto abbiano dovuto ingrandire talmente l’immagine da quasi decapitare l’incolpevole Suarez.
Io, senza alcun Potere di intervento, non posso dare aspettative. Tantomeno non posso smuovere le acque con i fari mediatici, che a me mancano.
Io non sono un giornalista, che si deve attenere alla verità, attinenza e continenza ed all’interesse pubblico. Ergo, non posso e non voglio pubblicare inediti, pur potendo pubblicare le stesse denunce penali o altri atti pubblici pubblicabili. Non è la prima volta che il beneficiario, ingrato, si è rivoltato contro ed ha chiesto l’anonimato, o con minacce, il ritiro del pubblicato per paura di ritorsioni a lui rivolte.
Come sociologo, al fine di studio o di discussione, per critica storica o per inchiesta, posso approfondire e comparare un caso ad altri casi già trattati, per elevarli ad anomalia del sistema. Questi casi, con me, hanno una notorietà che ad essi in origine manca e comunque creo un precedente utile a tutti.
In questo caso i soggetti originali non possono impedirne la pubblicazione, né il pubblicato può essere da loro ritirato.
In conclusione posso dire che non vi è alcun legame con le parti e la pubblicazione, credibile, attendibile, affidabile ed incontestabile, avviene per amor di Verità.
E’ una cautela legale e di opportunità al fine di tutelarmi dai mitomani e dai potenti.
In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.
La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.
La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.
A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.
Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri.
Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica. Per gli effetti ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza. All’uopo ho scritto decine di libri con centinaia di pagine cadauno, basandomi su testimonianze e documenti credibili ed attendibili, rispettando il diritto al contraddittorio, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di migliaia di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere, pubblicizzati, riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati da terzi in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Io sono un giurista ed un blogger d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
La dottrina e la giurisprudenza interpretano tassativamente, restrittivamente e non analogicamente tale articolo, al pari delle altre fattispecie di libere utilizzazioni. Ciò non toglie che la norma possa essere interpretata estensivamente (in tal senso dottrina e giurisprudenza sono sostanzialmente unanime).
Secondo il parere dell'Avv. Giovanni D'Ammassa, su Dirittodautore.it, limiti individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane alla facoltà di citazione ex art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sono i seguenti:
la sussistenza della finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica;
l’opera critica deve avere fini del tutto autonomi e distinti da quelli dell’opera citata, e non deve essere succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate. La ricorrenza dello scopo di critica non è pregiudicata dal fatto che la citazione sia fatta nella realizzazione di un’opera immessa sul mercato a pagamento;
l’utilizzazione dell’opera deve essere solo parziale e mai integrale, deve avvenire nell’ambito delle finalità tassativamente indicate e nella misura giustificata da tali finalità;
l’utilizzazione non deve essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti, non deve avere un rilievo economico tale da poter pregiudicare gli interessi patrimoniali dell’autore o dei suoi aventi causa. A questo proposito va ricordato che il concetto di concorrenza espresso dall’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore è ben più ampio e diverso dal concetto di concorrenza sleale espresso dall’art. 2598 cod. civ.: l’assenza dell’elemento della concorrenza è condizione perché possa parlarsi di libera utilizzazione dell’opera. Una recente dottrina sostiene che bisogna avere riguardo esclusivamente alla portata della utilizzazione in relazione alla sua capacità di incidere sulla vita economica dell’opera originale; da ciò la valorizzazione dell’assenza di concorrenza dell’opera citante con i diritti di utilizzazione economica sull’opera citata, in modo da consentire anche citazioni integrali dell’opera dell’ingegno purché non si pongano in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica dell’opera;
devono essere effettuate le menzioni d’uso (indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione, del nome dell’autore e dell’editore);
infine si sostiene che l’interpretazione di tale articolo deve tenere conto anche del progresso tecnologico. È indubbio che l’art. 70 Legge sul Diritto d’Autore sia applicabile anche in caso di messa a disposizione online delle opere.
Secondo l'Avv. Alessandro Monteleone, su Altalex.com, tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Potrebbe ad esempio costituire concorrenza alla utilizzazione economica la riproduzione che, ancorché parziale, svii i potenziali acquirenti dall’acquistare l’originale perché avente ad oggetto le parti di maggiore interesse. Interessante è la pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2007 n° 149: Con l’espressione "a fini di lucro" contenuta nella fattispecie criminosa di cui all’art. 171 ter della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) deve intendersi "un fine di guadagno economicamente apprezzabile o di incremento patrimoniale da parte dell’autore del fatto, che non può identificarsi con un qualsiasi vantaggio di altro genere; né l’incremento patrimoniale può identificarsi con il mero risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di programmi o altre opere dell’ingegno, al di fuori dello svolgimento di un’attività economica da parte dell’autore del fatto, anche se di diversa natura, che connoti l’abuso". Lo ha precisato la Sezione Terza penale della Cassazione, con la sentenza n. 149 del 9 gennaio 2007, estensibile all'art. 70.
Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.
Giornali online senza licenza: indagato manager di Data Stampa. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Virginia Picollillo. Violazione del diritto d’autore: è l’accusa contestata a Massimo Scambelluri, il presidente del Consiglio di amministrazione di “Data Stampa”, società che vende la rassegna stampa quotidiana per clienti privati e istituzionali. La procura di Roma aveva aperto un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni quotidiani che lamentavano di non aver mai dato il consenso e dunque senza aver concesso la licenza di utilizzo, vendita e diffusione dei contenuti protetti da copyright . La Guardia di Finanza ha verificato come la società ogni giorno dia ai propri clienti 21 quotidiani, italiani e internazionali, consentendo l’accesso con l’utilizzo di password rilasciate dalla stessa “Data Stampa” sia alla versione cartacea, sia facendo scaricare le pagine in formato pdf. Sul sito della società è specificato che tra i clienti ci sono la presidenza della Repubblica, il Senato e la Camera, il Csm, la Banca d’Italia, l’Agenzia delle entrate, la Polizia di Stato, il ministero dell’Interno, l’Arma e la Rai. Istituzione che pagano un abbonamento all’azienda ed è proprio questo ad aver convinto alcuni gruppi editoriali e testate - tra cui La Stampa, la Repubblica e il Messaggero - a presentare la denuncia. Data Stampa ha anche un contenzioso civile con la Fieg, la federazione editori di giornali, proprio per le rassegne stampa.
Da Data Stampa: DIRITTO D’AUTORE NON APPLICABILE ALLE RASSEGNE STAMPA. Il 12 giugno 2019, con sentenza n. 3931/2019, la Corte d’Appello di Roma, rigettando l’appello di Fieg e Promopress contro la sentenza n. 816/2017 del 18 gennaio 2017, ha legittimato l’attività svolta da Data Stampa fin dal 1981. La richiesta di Fieg era di inibire l’attività dei rassegnatori, chiedendo loro inoltre un risarcimento danni per l’uso che i rassegnatori fanno dei loro articoli, ritenendo che anche alle rassegne stampa dovesse essere applicato il principio del diritto d’autore. La Corte d’Appello di Roma, pronunciandosi in favore di Data Stampa, ha confermato “con forza” il principio della libera riproducibilità degli articoli di giornale nelle rassegne stampa. Ora le aspettative di Data Stampa sono riposte nel Parlamento, che potrebbe regolare la materia nell’ambito del riordino del settore dell’editoria affidato agli Stati Generali, il termine dei cui lavori è previsto intorno alla metà del prossimo mese di ottobre. Una vittoria che, dopo il successo ottenuto due anni e mezzo fa da Data Stampa nel primo grado di giudizio, ci spinge a guardare al futuro con rinnovata fiducia, nella ferma convinzione che la libertà d’impresa e d’informazione vada difesa sempre, contro ogni azione arbitraria posta in essere al di fuori di un quadro normativo certo. La posizione di Data Stampa al riguardo, giova ricordarlo, è sempre rimasta immutata: Data Stampa auspica che venga approvato un quadro normativo fatto di regole certe e rispettose delle legittime esigenze di tutti gli operatori del settore, e non imposte unilateralmente.
“ Orbene la ratio dell’art 65 è quella di accrescere la circolazione dell’informazione, come si risulta evidente:
Dalla natura degli scritti di cui la norma consente la riproduzione (gli articoli di attualità, appunto che hanno eminente valore informativo)
Dalla natura del mezzo di riproduzione (giornali, riviste o strumenti di radiodiffusione che ancora una volta hanno finalità essenzialmente informative).
Così stando le cose non può essere allora negata la possibilità di riprodurre anche nelle rassegne stampa gli articoli di attualità, giacchè anche alle rassegne stampa deve essere riconosciuta una finalità sicura finalità informativa, anche se diretta a volte e soddisfare interessi di particolari categorie di soggetti, informazione questa tuttavia non per ciò solo meno meritevole di tutela costituzionale. In definitiva, l’art. 65 va interpretato in base al canone di interpretazione estensiva fondato sulla ratio della norma, nel senso che esso al di là delle espresse previsioni letterali, ben può includere, tra gli strumenti informativi su cui si possono liberamente riprodursi gli articoli di giornale, anche la rassegna stampa…”
Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.
Mi vogliono censurare su Google.
Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.
Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.
Ho diritto di citazione con congruo lasso di tempo e senza ledere la concorrenza.
Io sono un giurista ed un giornalista d’inchiesta. Opero nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione che mi permette di esprimere liberamente il mio pensiero. Nell’art. 65 della legge n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
Io sono un Segnalatore di illeciti (whistleblower). La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Io sono un Aggregatore di contenuti tematici di ideologia contrapposta con citazione della fonte, al fine del diritto di cronaca e di discussione e di critica dei contenuti citati.
Quando parlo di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o dipressreader.com.
Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa su su articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news.
Io esercito il mio diritto di cronaca e di critica. Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.
Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.
Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.
NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Io sono il segnalatore di illeciti (whistleblower) più ignorato ed oltre modo più perseguitato e vittima di ritorsioni del mondo. Ciononostante non mi batto per la mia tutela, in quanto sarebbe inutile dato la coglionaggine o la corruzione imperante, ma lotto affinchè gli altri segnalatori, che imperterriti si battono esclusivamente ed inanemente per la loro bandiera, non siano tacciati di mitomania o pazzia. Dimostro al mondo che le segnalazioni sono tanto fondate, quanto ignorate od impunite, data la diffusa correità o ignoranza o codardia.
Segnalatore di illeciti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il segnalatore o segnalante di illeciti, anche detto segnalatore o segnalante di reati o irregolarità (termine reso a volte anche con la parola anglosassone e specificatamente dell'inglese americano whistleblower) è un individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite o fraudolente all'interno del governo, di un'organizzazione pubblica o privata o di un'azienda. Le rivelazioni o denunce possono essere di varia natura: violazione di una legge o regolamento, minaccia di un interesse pubblico come in caso di corruzione e frode, gravi e specifiche situazioni di pericolo per la salute e la sicurezza pubblica. Tali soggetti possono denunciare le condotte illecite o pericoli di cui sono venuti a conoscenza all'interno dell'organizzazione stessa, all'autorità giudiziaria o renderle pubbliche attraverso i media o le associazioni ed enti che si occupano dei problemi in questione. Spesso i segnalatori di illeciti, soprattutto a causa dell'attuale carenza normativa, spinti da elevati valori di moralità e altruismo, si espongono singolarmente a ritorsioni, rivalse, azioni vessatorie, da parte dell'istituzione o azienda destinataria della segnalazione o singoli soggetti ovvero organizzazioni responsabili e oggetto delle accuse, venendo sanzionati disciplinarmente, licenziati o minacciati fisicamente.
La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). In inglese viene invece utilizzata la parola whistleblower, che deriva dalla frase to blow the whistle, letteralmente «soffiare il fischietto», riferita all'azione dell'arbitro nel segnalare un fallo o a quella di un poliziotto che tenta di fermare un'azione illegale. Il termine è in uso almeno dal 1958, quando apparve nel Mansfield News-Journal (Ohio). L'origine dell'espressione whistleblowing è tuttavia ad oggi incerta, sebbene alcuni ritengano che la parola si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare nel loro fischietto nel momento in cui avessero notato la commissione di un crimine, in modo da allertare altri poliziotti e, in modo più generico, la collettività. Altri ritengono che si richiami al fallo fischiato dall'arbitro durante una partita sportiva. In entrambi i casi, l'obiettivo è quello di fermare un'azione e richiamare l'attenzione. La locuzione «gola profonda» deriva da quella inglese Deep Throat che indicava l'informatore segreto che con le sue rivelazioni alla stampa diede origine allo scandalo Watergate.
Definizione. Il segnalatore di illeciti è quel soggetto che, solitamente nel corso della propria attività lavorativa, scopre e denuncia fatti che causano o possono in potenza causare danno all'ente pubblico o privato in cui lavora o ai soggetti che con questo si relazionano (tra cui ad esempio consumatori, clienti, azionisti). Spesso è solo grazie all'attività di chi denuncia illeciti che risulta possibile prevenire pericoli, come quelli legati alla salute o alle truffe, e informare così i potenziali soggetti a rischio prima che si verifichi il danno effettivo. Un gesto che, se opportunamente tutelato, è in grado di favorire una libera comunicazione all'interno dell’organizzazione in cui il segnalatore di illeciti lavora e conseguentemente una maggiore partecipazione al suo progresso e un'implementazione del sistema di controllo interno. La maggior parte dei segnalatori di illeciti sono "interni" e rivelano l'illecito a un proprio collega o a un superiore all'interno dell'azienda o organizzazione. È interessante esaminare in quali circostanze generalmente un segnalatore di illeciti decide di agire per porre fine a un comportamento illegale. C'è ragione di credere che gli individui sono più portati ad agire se appoggiati da un sistema che garantisce loro una totale riservatezza.
La tutela giuridica nel mondo. La protezione riservata ai segnalatori di illeciti varia da paese a paese e può dipendere dalle modalità e dai canali utilizzati per le segnalazioni.
Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Nell'introdurre un nuovo art. 54-bis al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si è infatti stabilito che, esclusi i casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile italiano, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria italiana o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. Inoltre, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Si è tuttavia precisato che, qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, con conseguente indebolimento della tutela dell'anonimato. L'eventuale adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le discriminazioni stesse sono state poste in essere. Infine, si è stabilito che la denuncia è sottratta all'accesso previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241; tali disposizioni pongono inoltre delicate problematiche con riferimento all'applicazione del codice in materia di protezione dei dati personali. Nel 2014 ulteriori rafforzamenti della posizione del segnalatore di illeciti sono stati discussi con iniziative parlamentari, nella XVII legislatura. In ordine alla possibilità di incentivarne ulteriormente l'emersione con premi, l'ordine del giorno G/1582/83/1 - proposto in commissione referente del Senato - è stato accolto come raccomandazione; invece, è stato dichiarato improponibile l'emendamento che, tra l'altro, puniva con una contravvenzione chi ne rivelasse l'identità. Nel 2016 la Camera dei deputati, nell'approvare la proposta di legge n. 3365-1751-3433-A, «ha scelto, tra l'altro, la tecnica della "novella" del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» per introdurre una disciplina di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro. Il testo pende al Senato come disegno di legge n. 2208 Il decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 afferma che - a decorrere dal 4 luglio 2017, data di entrata in vigore del predetto decreto - i soggetti destinatari della disposizioni ivi contenute (tra i quali intermediari finanziari iscritti all'Albo Unico, società di leasing, società di factoring, ma anche dottori commercialisti, notai e avvocati) sono obbligati a dotarsi di un sistema di segnalazione di illeciti, l'istituto di derivazione anglosassone per le segnalazioni interne di violazioni.
Stati Uniti d'America. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.
Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.
Nozionista è:
chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;
chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;
chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;
chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;
chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione.
Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.
Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.
Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano: disinformazione, censura ed omertà.
Nozionista è chi si abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.
Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.
"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".
Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.
La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.
Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.
La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”
A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.
A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.
A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.
A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.
A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.
Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.
Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.
Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.
Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.
Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.
Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece, ha confermato la sospensione.
L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.
Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.
Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.
Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.
Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”
Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.
E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto.
La vicenda merita un approfondimento del tema del Diritto di Citazione.
Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola.
Alcuni giornalisti contestavano a Saviano l’uso di un copia incolla di alcuni articoli di giornale senza citare la fonte.
Da Wikipedia: Nel 2013 Saviano e la casa editrice Mondadori sono stati condannati in appello per plagio. La Corte d'Appello di Napoli ha riconosciuto che alcuni passaggi dell'opera Gomorra (lo 0.6% dell'intero libro) sono risultate un'illecita riproduzione del contenuto di due articoli dei quotidiani locali Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, modificando così parzialmente la sentenza di primo grado, in cui il Tribunale aveva rigettato le accuse dei due quotidiani e li aveva anzi condannati al risarcimento dei danni per aver "abusivamente riprodotto" due articoli di Saviano (condanna, questa, confermata in Appello). Lo scrittore e la Mondadori in Appello sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. Lo scrittore ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza e la Suprema Corte ha confermato in parte l'impianto della sentenza d'Appello e ha invitato alla riqualificazione del danno al ribasso, stimando 60000 euro una somma eccessiva per articoli di giornale con diffusione limitatissima. La condanna per plagio nei confronti di Saviano e della Mondadori è stata confermata nel 2016 dalla Corte di Appello di Napoli, che ha ridimensionato il danno da risarcire da 60.000 a 6.000 euro per l'illecita riproduzione in Gomorra di due articoli di Cronache di Napoli e per l'omessa citazione della fonte nel caso di un articolo del Corriere di Caserta riportato tra virgolette.
Conclusione: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.
Cosa hanno in comune un giurista ed un giornalista d’inchiesta; un sociologo e un segnalatore di illeciti (whistleblower); un ricercatore o un insegnante e un aggregatore di contenuti?
Essi si avvalgono del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.
Il Diritto di Citazione si svolge su Stampa non periodica. Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Il diritto di cronaca su Stampa non periodica diventa diritto di critica storica.
NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione. Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione. Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
L’art. 21 della Costituzione permette di esprimere liberamente il proprio pensiero. Nell’art. 65 della legge l. n. 633/1941 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”).
A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
La normativa italiana utilizza l'espressione segnalatore o segnalante d'illeciti a partire dalla cosiddetta "legge anti corruzione" (6 novembre 2012 n. 190). Italia. L'art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha disciplinato per la prima volta nella legislazione italiana la figura del whistleblower, con particolare riferimento al "dipendente pubblico che segnala illeciti", al quale viene offerta una parziale forma di tutela. Negli Stati Uniti la prima legge in tema fu il False Claims Act del 1863, che protegge i segnalatori di illeciti da licenziamenti ingiusti, molestie e declassamento professionale, e li incoraggia a denunciare le truffe assicurando loro una percentuale sul denaro recuperato. Del 1912 è il Lloyd–La Follette Act, che garantisce agli impiegati federali il diritto di fornire informazioni al Congresso degli Stati Uniti d'America. Nel 1989 è stato approvato il Whistleblower Protection Act, una legge federale che protegge gli impiegati del governo che denunciano illeciti, proteggendoli da eventuali azioni di ritorsione derivanti dalla divulgazione dell'illecito.
Quando si parla di aggregatore di contenuti non mi riferisco a colui che, per profitto, riproduce tout court integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.
Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.
Diritto di citazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il diritto di citazione (o diritto di corta citazione) è una forma di libera utilizzazione di opere dell'ingegno tutelate da diritto d'autore. Infatti, sebbene l'autore detenga i diritti d'autore sulle proprie creazioni, in un certo numero di circostanze non può opporsi alla pubblicazione di estratti, riassunti, citazioni, proprio per non ledere l'altrui diritto di citarla. Il diritto di citazione assume connotazioni diverse a seconda delle legislazioni nazionali.
La Convenzione di Berna. L'articolo 10 della Convenzione di Berna, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: Articolo 10
1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore.
Le singole discipline.
Stati Uniti. Negli Stati Uniti è il titolo 17 dello United States Code che regola la proprietà intellettuale. Il fair use, istituto di più largo campo applicativo, norma generalmente anche ciò che nei paesi continentali europei è chiamato diritto di citazione.
Italia. L'art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.». Con il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003 è stata introdotta l'espressione di comunicazione al pubblico, per cui il diritto è esercitabile su ogni mezzo di comunicazione di massa, incluso il web. Con la nuova formulazione c'è una più netta distinzione tra le ipotesi in cui “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera" viene effettuata per uso di critica o di discussione e quando avviene per finalità didattiche o scientifiche: se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. L'orientamento giurisprudenziale formatosi in Italia sul vecchio testo dell'art. 70 è stato in genere di restringerne la portata. In seguito a successive modifiche legislative, è stata fornita tuttavia una diversa interpretazione della normativa attualmente vigente, in particolare con la risposta ad un'interrogazione parlamentare nella quale il senatore Mauro Bulgarelli chiedeva al Governo di valutare l'opportunità di estendere anche in Italia il concetto del fair use. Il governo ha risposto che non è necessario intervenire legislativamente in quanto già adesso l'articolo 70 della Legge sul diritto d'autore va interpretato alla stregua del fair use statunitense. A parere del Governo il decreto legislativo n. 68 del 9 aprile 2003, ha reso l'articolo 70 della legge sul diritto d'autore sostanzialmente equivalente a quanto previsto dalla sezione 107 del copyright act degli Stati Uniti. Sempre secondo il Governo, sono quindi già applicabili i quattro elementi che caratterizzano il fair use:
finalità e caratteristiche dell'uso (natura non commerciale, finalità educative senza fini di lucro);
natura dell'opera tutelata;
ampiezza ed importanza della parte utilizzata in rapporto all'intera opera tutelata;
effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione.
Sempre a parere del governo, la normativa italiana in materia del diritto d'autore risulta già conforme non solo a quella degli altri paesi dell'Europa continentale ma anche a quello dei Paesi nei quali vige il copyright anglosassone.
A rafforzare il diritto di corta citazione è nuovamente intervenuto il legislatore, che all'articolo 70 della legge sul diritto d'autore ha aggiunto il controverso comma 1-bis, secondo il quale «è consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro [...]». La norma, tuttavia, non ha ancora ricevuto attuazione, non essendo stato emanato il previsto decreto ministeriale. Altre restrizioni alla riproduzione libera vigono nella giurisprudenza italiana, come, per esempio, quelle proprie all'assenza di libertà di panorama.
Francia. In Francia la materia è regolata dal Code de la propriété intellectuelle.
Unione europea. L'Unione europea ha emanato la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001 che i singoli Paesi hanno applicato alla propria legislazione. Il parlamento europeo nell'approvare la direttiva Ipred2, in tema di armonizzazione delle norme penali in tema di diritto d'autore, ha approvato anche l'emendamento 16, secondo il quale gli Stati membri provvedono a che l'uso equo di un'opera protetta, inclusa la riproduzione in copie o su supporto audio o con qualsiasi altro mezzo, a fini di critica, recensione, informazione, insegnamento (compresa la produzione di copie multiple per l'uso in classe), studio o ricerca, non sia qualificato come reato. Nel vincolare gli stati membri ad escludere la responsabilità penale, l'emendamento si accompagnava alla seguente motivazione: la libertà di stampa deve essere protetta da misure penali. Professionisti quali i giornalisti, gli scienziati e gli insegnanti non sono criminali, così come i giornali, gli istituti di ricerca e le scuole non sono organizzazioni criminali. Questa misura non pregiudica tuttavia la protezione dei diritti, in quanto è possibile il risarcimento per danni civili.
Citazioni di opere letterarie. La regolamentazione giuridica delle opere letterarie ha una lunga tradizione. La citazione deve essere breve, sia in rapporto all'opera da cui è estratta, sia in rapporto al nuovo documento in cui si inserisce. È necessario citare il nome dell'autore, il suo copyright e il nome dell'opera da cui è estratta, per rispettare i diritti morali dell'autore. In caso di citazione di un'opera tradotta occorre menzionare anche il traduttore. Nel caso di citazione da un libro, oltre al titolo, occorre anche menzionare l'editore e la data di pubblicazione. La citazione non deve far concorrenza all'opera originale e deve essere integrata in seno ad un'opera strutturata avendo una finalità. La citazione inoltre deve spingere il lettore a rapportarsi con l'opera originale. Il carattere breve della citazione è lasciato all'interprete (giudice) ed è perciò fonte di discussione. Nell'esperienza francese, quando si sono posti limiti quantitativi, sono stati proposti come criterio i 1.500 caratteri. Le antologie non sono giuridicamente collezioni di citazioni ma delle opere derivate che hanno un loro particolare regime di autorizzazione, regolato in Italia dal secondo comma dell'articolo 70. Le misure della lunghezza dei brani sono fissati dall'art 22 del regolamento e l'equo compenso è fissato secondo le modalità stabilite nell'ultimo comma di detto articolo.
Citare, non copiare! Attenzione ai testi altrui. Scrive il 2 Giugno 2016 Chiara Beretta Mazzotta. Citare è sempre possibile, abbiamo facoltà di discutere i contenuti (libri, articoli, post…) e di utilizzare parte dei testi altrui, ma quando lo facciamo non dobbiamo violare i diritti d’autore. Citare o non citare? Basta farlo nel modo corretto! Si chiama diritto di citazione e permette a ciascuno di noi di utilizzare e divulgare contenuti altrui senza il bisogno di chiedere il permesso all’autore o a chi ne detiene i diritti di commercializzazione. Dobbiamo però rispettare le regole. Ogni testo – articoli, libri e anche i testi dal carattere non specificatamente creativo (ma divulgativo, comunicativo, informativo) come le mail… – beneficia di tutela giuridica. La corrispondenza, per esempio, è sottoposta al divieto di rivelazione, violazione, sottrazione, soppressione previsto dagli articoli 616 e 618 del codice penale. Le opere creative sono tutelate dalla normativa del diritto d’autore e non possono essere copiate o riprodotte (anche in altri formati o su supporti diversi), né è possibile appropriarsi della loro paternità. Possono, però, essere “citate”.
È consentito il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica…L’art. 70, Legge 22 aprile 1941 n. 633 (recante norme sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio) dispone che «il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti d’opera, per scopi di critica, di discussione ed anche di insegnamento, sono liberi nei limiti giustificati da tali finalità e purché non costituiscono concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera». Vale a dire che – a scopo di studio, discussione, documentazione o insegnamento – la legge (art. 70 l. 633/41) consente il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o parti di opere letterarie. Lo scopo deve essere divulgativo (e non di lucro o meglio: il testo citato non deve fare concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera stessa).
Dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Per rispettare il diritto di citazione dovete dichiarare la fonte: il nome dell’autore, l’editore, il giornale, il traduttore, la data di pubblicazione. Quindi, se per esempio state facendo la recensione di un testo, il diritto di citazione vi consente di “copiare” una piccola parte di esso (il diritto francese prevede per esempio 1500 caratteri; in assoluto ricordate che la brevità della citazione vi tutela da eventuali noie) purché diciate chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato, chi lo ha tradotto e quando. Nessun limite di legge sussiste, invece, per la riproduzione di testi di autori morti da oltre settant’anni (questo in Italia e in Europa; in Messico i diritti scadono dopo 100 anni, in Colombia dopo 80 anni e in Guatemala e Samoa dopo 75 anni, in Canada dopo 50; in America si parla di 95 anni dalla data della prima pubblicazione). Se volete citare un articolo, avete il diritto di riassumere il suo contenuto e mettere tra virgolette qualche stralcio purché indichiate il link esatto (non basta il link alla home della testata, per dire). Va da sé che no, non potete copia-incollare un intero pezzo mettendo un semplice collegamento ipertestuale! Questo lo potete fare solo se siete stati autorizzati. Tantomeno potete tradurre un articolo uscito sulla stampa estera o su siti stranieri. Per pubblicare un testo tradotto dovete infatti essere stati autorizzati. Quindi, se incappate in rete in un post di vostro interesse che non vi venga in mente di copiarlo integralmente indicando solo un link. Aggregare le notizie, copiandole totalmente, anche indicando la fonte, non è legale: è necessaria l’autorizzazione del titolare del diritto. E poi, oltre a non rispettare le leggi del diritto d’autore, fate uno sgarbo ai motori di ricerca che penalizzano i contenuti duplicati.
Prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. E se scoprite un plagio in rete? Dal 2014 non c’è più bisogno di ricorrere alla magistratura. Cioè non c’è più bisogno di un processo, né di una denuncia alle autorità (leggi qui). C’è infatti una nuova procedura “accelerata”, introdotta con il recente regolamento Agcom, e potete avviare la pratica direttamente in rete facendo una segnalazione e compilando un modulo (per maggior informazioni su come denunciare una violazione leggi la guida: “Come denunciare all’Acgom un sito per violazione del diritto d’autore”).
Volete scoprire se qualcuno rubacchia i vostri contenuti? Basta utilizzare uno tra i tanti motori di ricerca atti allo scopo. Per esempio Plagium. È sufficiente copiare e incollare il testo e analizzare le corrispondenze in rete. Spesso, ahimè, ne saltano fuori delle belle… Mi raccomando, prestate cura anche ai tweet, agli status e a tutto ciò che condividete in rete. Quando fate una citazione – che si tratti di una grande poetessa o dell’ultimo cantante pop – usate le virgolette e mettete il nome dell’autore e del traduttore. È una questione di rispetto oltre che legale. E se volete essere presi sul serio, fate le cose per bene.
LO SPAURACCHIO DELLA CITAZIONE DI OPERA ALTRUI. Avvocato Marina Lenti Marina Lenti su diritto d'autore. A volte mi capita di rispondere a dei quesiti postati su Linkedin e siccome quello che segue ricorre spesso, colgo l’occasione per trattarlo,in maniera molto elementare (niente legalese! ), anche in questa sede. Si tratta di una delle maggiori preoccupazioni di chi scrive: la citazione. Può trattarsi della citazione di una dichiarazione rilasciata da qualcuno, oppure la citazione di un titolo di un libro o di un film, o similia. Spesso gli autori sono paralizzati perché pensano che ogni volta sia necessaria l’autorizzazione del titolare dei diritti connessi alla dichiarazione o all’opera citata. Ovviamente non è così perché, in tal caso si arriverebbe alla paralisi totale e tutta una serie di generi morirebbe: manualistica, saggistica, biografie… Bisogna ricordare sempre che il diritto d’autore, oltre a proteggere la proprietà intellettuale, deve contemperare anche l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui, a certe condizioni, in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. E’ per questo che si ricorre al concetto di fair use, che nella nostra Legge sul Diritto d’Autore si ritrova al primo comma dell’art. 70: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”.
In aggiunta, il concetto è più chiaramente formulato nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, cui l’Italia aderisce, all’art. 10 comma 1: “Sono lecite le citazioni tratte da un’opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo”.
Dunque, non c’è bisogno di autorizzazioni se, per esempio, se in un dialogo, un personaggio riferisce all’altro di aver letto il libro X, o aver visto il film Y, o aver letto l’intervista rilasciata dal personaggio famoso Z. Diverso sarebbe, ovviamente, se ci si appropriasse del personaggio X dell’altrui opera Y per farlo agire nella propria (e se state pensando alle fan fiction, ebbene sì, a stretto rigore le fan fiction sono illegali, solo che alcuni autori, come J.K. Rowling, le tollerano finché restano sul web e sono messe a disposizione gratuitamente; altri, come Anne Rice, le combattono invece in tutti i modi). Lo stesso vale se si riporta la dichiarazione di un’intervista, oppure un brano di un’altrui opera. In questo caso basterà citare in nota la fonte: nome dell’autore, titolo dell’intervista/opera, data, numeri di riferimento (a seconda della pubblicazione), editore, anno. Oltretutto, riportare la fonte dà maggiore autorevolezza alla vostra opera perché dimostra che le citazioni riportate non sono "campate in aria". Ovviamente la citazione deve constare di qualche frase, non di mezza intervista o mezzo libro, altrimenti va da sé l’uso non sarebbe più "fair", cioè "corretto".
Bisogna tuttavia fare attenzione al contenuto di ciò che si cita, per non rischiare di incorrere in altri possibili problemi legali diversi dalle violazioni del diritto d’autore: se, ad esempio, si cita una dichiarazione di terzi che accusa la persona X di essere colpevole di un reato e questa dichiarazione è priva di fondamento (perché, ad esempio, non c’è stata una sentenza di condanna), ovviamente potrà essere ritenuto responsabile della diffamazione alla stregua della fonte usata.
Il concetto di fair use, a differenza che in Italia, è stato oggetto di elaborazione giurisprudenziale molto sofisticata in Paesi come l’America. Magari in un prossimo post esamineremo i quattro parametri di riferimento elaborati dai giudici statunitensi per discernere se, in un dato caso, si verta effettivamente in tema di fair use. Tuttavia, nonostante questa lunga elaborazione, va tenuto presente che si tratta sempre di un terreno molto scivoloso, che ha volte ha dato luogo pronunciamenti contraddittori.
La riproduzione e citazione di articoli giornalistici. Di Alessandro Monteleone.
La normativa.
La materia trova disciplina nei seguenti testi di legge: art. 10, comma 1, Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche (ratificata ed eseguita con la L. 20 giugno 1978, n. 399); artt. 65 e 70, Legge 22 aprile 1941, n. 633 (di seguito anche “Legge sul Diritto d’Autore”).
L’opera giornalistica.
Come noto, l’opera giornalistica che abbia il requisito della creatività è tutelata dall’art. 1 della Legge sul Diritto d’Autore. Il quotidiano (ovvero il periodico) è considerato pacificamente opera “collettiva”, in merito alla quale valgono le seguenti considerazioni. In base al combinato disposto degli artt. 7 e 38, Legge sul Diritto d’Autore l’editore deve essere considerato l’autore dell’opera. L’editore – salvo patto contrario – ha il diritto di utilizzazione economica dell’opera prodotta “in considerazione del fatto che […] è il soggetto che assume su di sé il rischio della pubblicazione e della messa in commercio dell’opera provvedendovi per suo conto ed a sue spese”. L’editore è titolare “dei diritti di cui all’art. 12 l.d.a. (prima pubblicazione dell’opera e sfruttamento economico della stessa). E ciò senza alcun bisogno di accertare […] un diverso modo ovvero una distinta fonte di acquisto del diritto sull’opera componente, rispetto a quello sull’opera collettiva”, inoltre “il diritto dell’editore si estende a tutta l’opera, ma includendone le parti”.
Disciplina normativa in materia di citazione e riproduzione di articoli giornalistici.
Con riferimento alla possibilità di riprodurre articoli giornalistici in altre opere si osserva quanto segue:
La Convenzione di Berna contiene una clausola generale che disciplina la fattispecie della citazione di un’opera già resa accessibile al pubblico. In particolare, in base all’art. 10 della Convenzione di Berna, la libertà di citazione incontra quattro limiti specifici:
1) l’opera deve essere stata resa lecitamente accessibile al pubblico;
2) la citazione deve avere carattere di mero esempio a supporto di una tesi e non deve avere come scopo l’illustrazione dell’opera citata;
3) la citazione non deve presentare dimensioni tali da consentire di supplire all’acquisto dell’opera;
4) la citazione non deve pregiudicare la normale utilizzazione economica dell’opera e arrecare un danno ingiustificato agli interessi legittimi dell’autore. Per essere lecite, altresì, le citazioni devono essere contenute nella misura richiesta dallo scopo che le giustifica e devono essere corredate dalla menzione della fonte e del nome dell’autore.
Art. 10, Convenzione di Berna: “1)Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 2) Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. 3) Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”.
Con riferimento alla normativa nazionale l’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore recita testualmente: “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato […]”.
L’articolo appena citato è considerato in dottrina una norma eccezionale non suscettibile di applicazione analogica con riguardo al carattere degli articoli, pertanto, l’elencazione sopra proposta ha natura tassativa. (R. Valenti, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza). Si deve comunque evidenziare che una parte della dottrina (R. Valenti, nota a Trib. Milano, 13 luglio 2000, in Aida, 2001, 772, 471) ritiene che una corretta interpretazione dell’art. 65, Legge sul Diritto d’Autore porti a ritenere lecita solo la riproduzione di articoli di attualità a carattere politico, economico e religioso (con esclusione pertanto degli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico) che avvenga in altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite.
Ulteriore disciplina è dettata nell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore che fa salva la libera riproduzione degli articoli giornalistici, a prescindere dall’argomento trattato, purché sussista una finalità di critica, discussione od insegnamento. Questa norma dà prevalenza alla libera utilizzazione dell’informazione, proteggendo la forma espressiva e lasciando libera la fruibilità dei concetti. Art. 70 LdA: “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica odi discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. E' consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell'università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all'uso didattico o scientifico di cui al presente comma 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell'equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.
In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. (R. Valenti, cit.). Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie anche questa norma ha carattere eccezionale e si deve interpretare restrittivamente. (Da ultime Cass. 2089/1997 e 11143/1996. L’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede inoltre che “il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico”, perché siano leciti, “non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera [citata]”. Tale requisito postula che l’utilizzazione dell’opera non danneggi in modo sostanziale uno dei mercati riservati in esclusiva all’autore/titolare dei diritti: non deve pertanto influenzare l’ammontare dei profitti di tipo monopolistico realizzabili dall’autore/titolare dei diritti. Secondo VALENTI, in particolare, il carattere commerciale dell’utilizzazione e, soprattutto, l’impatto che l’utilizzazione può avere sul mercato – attuale o potenziale – dell’opera protetta sono elementi determinanti nel verificare se l’utilizzazione possa considerarsi libera o non concreti invece violazione del diritto d’autore. Infine, il terzo comma dell’art. 70, Legge sul Diritto d’Autore richiede che “il riassunto, la citazione o la riproduzione” siano “sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”.
In considerazione di ciò, la mancata menzione degli elementi succitati determina una violazione del diritto di paternità dell’opera dell’autore, risarcibile in quanto abbia determinato un danno patrimoniale al titolare del diritto.
Conclusioni. La lettura combinata degli artt. 65 e 70, Legge sul Diritto d’Autore porta a ritenere che, per citare o riprodurre lecitamente un articolo giornalistico in un’altra opera, debbano ricorrere i seguenti presupposti:
1) art. 65, LdA (limite contenutistico): nel caso di riproduzione di articoli di attualità che abbiano carattere economico, politico o religioso pubblicati nelle riviste o nei giornali, tale riproduzione può avvenire liberamente purchè non sia stata espressamente riservata e vi sia l’indicazione della fonte da cui sono tratti, della data e del nome dell’autore, se riportato;
2) art. 70, LdA (limite teleologico e dell’utilizzazione economica): la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purchè non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta. In relazione ai singoli articoli, quindi, l’editore potrà far valere l’inapplicabilità dell’art. 65 LdA tutte le volte in cui “il titolare dei diritti di sfruttamento – dell’articolo riprodotto – se ne sia riservata, appunto, la riproduzione o la utilizzazione” apponendovi un’espressa dichiarazione di riserva.
IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA.
Diritto d'autore e interesse generale. Contemperare l’esigenza collettiva di poter usare materiale altrui in modo da creare materiale nuovo, anche sulla base di quello vecchio, che arricchisca ulteriormente la collettività. Opera letteraria - giornalistica, fonte di informazione e di cronaca. Diritti costituzionalmente garantiti, senza limitazione dall'art 21 della Costituzione italiana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.»
Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.
Ad questa libertà è inoltre dedicato l'articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848:
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera.
2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.
Tesi di Laurea di Rosalba Ranieri. Pubblicato da Studio Torta specializzato in proprietà intellettuale.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI “ALDO MORO” DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN GIURISPRUDENZA. TESI DI LAUREA IN DIRITTO COMMERCIALE. IL DIRITTO D’AUTORE TRA IL DIRITTO DI CRONACA E LA CREAZIONE LETTERARIA: IL CASO “GOMORRA” RELATORE: Ch.issima Prof. Emma Sabatelli LAUREANDA Rosalba Ranieri.
La maggior parte delle persone comuni, non giuristi, quando pensano al diritto d’autore hanno un’idea precisa: basandosi sui fatti di cronaca, ritengono che il diritto d’autore tuteli quel cantante o autore famosi ai quali è stata rubata o copiata l’idea della propria canzone o del proprio libro. Tuttavia questa è una visione alquanto semplicistica.
Sfogliando qualsiasi manuale di diritto industriale o un’enciclopedia giuridica veniamo a sapere che: “il diritto d’autore è quel complesso di norme che tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo riguardanti le scienze, la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro, la cinematografia, la radiodiffusione e, da ultimo, i programmi per elaboratore e le banche dati, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione, attraverso il riconoscimento all’autore dell’opera di una serie di diritti, sia di carattere morale che patrimoniale”. Dunque, del diritto d’autore non dobbiamo avere una visione riduttiva, come la si aveva in passato, in quanto il diritto d’autore ha un campo d’azione molto più ampio di quanto si possa ad un primo approccio immaginare. Si può ben pensare che in passato, a fronte delle rudimentali scoperte e conoscenze nei diversi settori in cui oggi opera, il diritto d’autore tutelava parzialmente l’autore, poiché solo gli scrittori di opere letterarie potevano esser lesi nel diritto esclusivo di usare economicamente la propria opera con la riproduzione non autorizzata della stessa a mezzo della stampa.
É dunque l’invenzione della stampa che fa sorgere l’esigenza di un diritto d’autore, che nasce prima in Inghilterra con il “Copyright Act”, la legge sul copyright (il diritto alla copia) della regina Anna del 1709; poi negli Stati Uniti, ispirati dalla legge inglese, con la legge federale del 1790 e poi in Francia con le leggi post-rivoluzionarie del 1791-1793, nelle quali si riconoscono per la prima volta i diritti morali dell’autore. Solo successivamente gli altri Stati europei, come l’Italia, adotteranno una legge a tutela del diritto d’autore. Tuttavia, prima di queste leggi, il diritto d’autore inizia a formarsi già nel mondo antico. Infatti nell’Antica Grecia non c’erano specifiche disposizioni legislative, perciò le opere letterarie erano liberamente riproducibili, ma veniva condannata l’appropriazione indebita della paternità. A Roma, invece, si distingueva il diritto di proprietà immateriale dell’autore (corpus mysticum), creatore ed inventore dell’opera, dal diritto di possesso materiale del bene del libraio e dell’editore (corpus mechanicum), essendo questi ultimi che possedevano materialmente i supporti contenenti le opere. Perciò, il diritto romano riconosceva i diritti patrimoniali soltanto ai librai e agli editori, perché una volta che l’opera fosse stata pubblicata (mediante una lettura in pubblico e la diffusione di manoscritti) i diritti venivano traslati sulla cosa materiale, invece agli autori riconosceva altri diritti quali: il diritto di non pubblicare l’opera, il diritto di mantenere l’opera inedita ed altri diritti inerenti la paternità. Con la caduta dell’Impero Romano, la cultura si rifugia presso i monasteri; infatti i monaci amanuensi, avendo a disposizione numerosi volumi, iniziarono a ricopiarne manualmente il contenuto presso vaste sale illuminate: le scriptoria. Poco tempo dopo nacquero le prime Università (a Bologna, Pisa, Parigi…) e di conseguenza la cultura non fu più di esclusivo appannaggio dei religiosi, ma anche dei laici. Molti uomini ricchi del Quattrocento si interessarono alla lettura soprattutto di testi religiosi, giuridici, scientifici, ma anche di romanzi. La diffusione della cultura e l’aumento della domanda di copie di testi letterari portò ad un mercato del libro, che permetteva ottime possibilità di guadagno, allorché fu inventata la tecnica, che avrebbe consentito la riproduzione dell’opera in maniera più rapida, più economica, e meno faticosa su centinaia o migliaia di copie. Nel 1455 nacque la stampa a caratteri mobili ad opera del tedesco Johannes Gutenberg e con essa nasce l’interesse di tutelare i testi e gli autori che li producevano. È con l’avvento della stampa che l’autore è riconosciuto come titolare di privilegi di stampa, che in passato erano concessi solo agli editori. Questo sistema resse fino al XVIII sec., fino alla produzione di leggi più organiche sul diritto d’autore. Dunque, si può affermare che il diritto d’autore in senso moderno nasce con l’invenzione della stampa e dalla necessità di dare tutela alle sole opere letterarie ed artistiche che possono essere prodotte a mezzo della stampa. Successivamente, esso fu esteso anche ad altre tipologie di opere, che possono essere prodotte con mezzi diversi dalla stampa. Il diritto d’autore si sviluppa al progredire della scienza e della tecnologia e questo ha reso ancora più ampio il margine del suo utilizzo; difatti, il diritto d’autore è oggi “un istituto destinato a proteggere opere eterogenee (opere letterarie, artistiche, musicali, banche dati, software e design)”, dunque anche opere digitali e multimediali, create con programmi di computer. Da qui emerge la difficoltà di delineare una nozione di opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore.
Inoltre, il diritto d’autore riconosce una pluralità di diritti (Si tratta del diritto esclusivo di riproduzione dell’opera e del diritto esclusivo degli autori di comunicare l’opera al pubblico “qualunque ne sia il modo o la forma” (con la rappresentazione, l’esecuzione e la diffusione a distanza)) e facoltà agli autori e diverse tecniche di protezione tanto da rendere difficile anche definirne unitariamente il contenuto. Tuttavia, è possibile ravvisare dei caratteri e dei requisiti comuni alle opere eterogenee, facendole rientrare nelle norme che tutelano il diritto d’autore, così come è possibile ravvisare degli interessi ben precisi che la legge del diritto d’autore tutela, come: l’interesse collettivo a favorire ed incentivare la produzione di opere dell’ingegno attraverso la libera circolazione delle idee e delle informazioni e l’interesse individuale, propriamente dell’autore, a godere del diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera per conseguire un profitto dall’utilizzazione di essa e a godere dei diritti morali, mediante i quali si tutela la personalità dell’autore.
LE FONTI NORMATIVE NAZIONALI ED INTERNAZIONALI La capacità dell’opera creativa di suscitare interesse non solo in delimitati ambiti territoriali ha fatto sì che non si potesse prevedere una tutela limitata nello spazio, bensì una tutela universale (L’interesse di conoscere o avere tra le mani un’opera d’ingegno non si limita ai soli cittadini del territorio in cui l’autore abbia inventato la sua creazione), che permettesse la diffusione e l’utilizzo economico dell’opera anche al di là dei confini di uno Stato. Per queste ragioni sono state elaborate Convenzioni internazionali multilaterali in materia di diritto d’autore e dei diritti connessi, le quali hanno portato uno stravolgimento della previgente disciplina (Fino al 1993, anno in cui entrò in vigore il Trattato CE, oggi Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, vigeva il principio di territorialità, in base al quale il nostro ordinamento rinviava alla legge dello Stato nel quale l’opera era utilizzata o era destinata ad essere utilizzata. In tal modo, il diritto italiano accordava protezione soltanto alle opere dei cittadini italiani o alle opere di autori stranieri che fossero state pubblicate o realizzate per la prima volta in territorio italiano. Inoltre, fino al 1993, vigeva il principio di reciprocità, superato dalle Convenzioni internazionali attualmente in vigore, secondo il quale in Italia si sarebbero potute tutelare altre opere di stranieri, solo in quanto lo Stato di appartenenza dello straniero accordasse la stessa protezione concessa ai propri cittadini alle opere dei cittadini italiani), ma hanno garantito ai cittadini di ciascuno Stato contraente la possibilità di godere di una tutela uniforme. La Convenzione più importante in ordine di tempo è la Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, firmata nel 1886 a Berna e modificata nelle successive conferenze diplomatiche, alla quale ha aderito il maggior numero di Stati. Da ricordare è anche: la Convenzione universale sul diritto d’autore, firmata nel 1952 a Ginevra da parte degli Stati che non avevano firmato la Convenzione di Berna, tra questi in primis gli Stati Uniti d’America; la Convenzione internazionale sulla protezione degli artisti interpreti o esecutori, dei produttori di fonogrammi e degli organismi di radiodiffusione, firmata nel 1961 a Roma; I trattati dell’OMPI sul diritto d’autore e sulle interpretazioni, esecuzioni e fonogrammi, firmati nel 1996 a Ginevra, volti ad integrare le lacune delle precedenti Convenzioni. Queste Convenzioni non solo obbligano gli Stati firmatari a rispettare il principio di assimilazione o del trattamento nazionale, secondo il quale gli Stati devono accordare ai cittadini degli Stati contraenti la stessa protezione riconosciuta ai propri cittadini, ma, in aggiunta, prevedono anche una protezione minima specifica e comune per colmare le tutele insufficienti delle leggi nazionali. Nel nostro Stato il diritto d’autore è regolato tanto dalle Convenzioni appena richiamate, alle quali ha aderito l’Italia, quanto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in tema di non discriminazione, di libera circolazione dei prodotti e dei servizi e di tutela della concorrenza; dalle Direttive comunitarie emanate in materia di diritto d’autore e anche dalla l. 22 aprile 1941, n. 633 (La l. n. 633/1941 è stata novellata ripetutamente dal nostro legislatore per dare attuazione alle direttive comunitarie, in ragione dell’obbligo di adeguamento alla normativa comunitaria, che incombe su tutti gli Stati aderenti all’ UE.) e dagli artt. 2575- 2583 c.c., che hanno recepito la codificazione normativa del Droit d’auteur francese sancita nella legge del 19/24 luglio 1793 (La legge francese sul diritto d’autore del 1793, intitolata “Droit de proprieté des auteurs”, modificata il 3 agosto 2006, è tutt’ora vigente in Francia). Dunque, ci si può domandare per quale ragione una materia così consolidata, come è attualmente la tutela del diritto d’autore, sia oggetto di questa ricerca e, come si è già anticipato, la risposta al quesito risiede nel caso giudiziario “Gomorra”, alquanto recente, che ha suscitato un notevole interesse non solo tra i giuristi ma anche tra i meri lettori del libro. Analizzando il caso concreto è possibile scorgere una serie di questioni e di profili rilevanti sul piano giuridico, che incidono addirittura sull’esito della controversia giudiziaria, mettendo in crisi l’efficacia della tutela, che non sono regolati precisamente dal legislatore e sui quali dottrina e giurisprudenza non hanno raggiunto, ancora oggi, orientamenti pacifici. In altre parole, il caso giudiziario “Gomorra” può essere utilizzato come la cartina tornasole con la quale verificare l’effettiva efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto d’autore.
(Il caso concreto applicato al tema trattato della riproduzione di un opera con doverosa citazione dell'autore e dell'editore, al netto nella menzione sul Plagio, ossia mancanza di citazione, nota dell'autore.)
Il Convenuto. Aspetto quantitativo ed incidentale: Dunque, i convenuti respingono le doglianze della parte attrice asserendo in primo luogo che le similitudini tra gli articoli di giornale e il libro sono dovute all’identità delle fonti consultate dai giornalisti e dall’autore (forze dell’ordine e investigatori) e che gli articoli di giornale rappresentano una componente qualitativamente e quantitativamente irrilevante del libro: poche pagine rispetto alle trecentotrenta dell’intero.
La Corte. Creazione di opera letteraria atipica. Accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet, utilizzando fonti di dominio pubblico al di là dello spazio temporale congruo, senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica”.
Tribunale di Napoli – sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale sentenza n. 773, 7 luglio 2010. Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto:
1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. (L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati.)
2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”.
3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941. (L’art. 101 l. n. 633/1941 così recita “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”).
La Corte d'Appello. Distinzione di Articoli di giornale: Cronaca; Opinione; Intervista. La rilevanza dello spazio temporale. Prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato.
Corte d'Appello di Napoli - Sezione specializzata in materia d'impresa. Sentenza 4135/2016 del 26 settembre 2016, pubblicata il 21 novembre 2016 RG 4692/2015 repert n. 4652/2016 del 21/11/2016.
Gli articoli di giornali e le riviste rientrano a pieno titolo tra le opere protette dal diritto d’autore, ai sensi dell’art. 3 l. n. 633/1941. Sull’assunto non può sorgere alcun dubbio, non solo a causa della lettera della norma, ma anche perché bisogna distinguere le tipologie di articoli: l’articolo di cronaca, l’articolo d’opinione e l’intervista.
Il primo dà notizie di un avvenimento di attualità in modo obiettivo; perciò il cronista deve riferire l’accaduto, senza inserire alcun commento sulla vicenda.
Il secondo contiene non solo informazioni e riferimenti all'attualità, ma anche l'opinione del giornalista su una determinata questione di costume, di cronaca, culturale, ecc…
L’intervista, infine, è il resoconto di un dialogo tra l’intervistatore e la persona intervistata. Tuttavia, l’articolo di giornale, oltre ad avere carattere informativo, legato ai fatti di cronaca, può avere anche contenuti descrittivi e narrativi. In esso, infatti, il giornalista può inserire una propria visione ideologica, politica, culturale, sulla notizia in questione. A fronte di tale classificazione si esclude che gli articoli di cronaca possano essere plagiati a differenza di quanto avviene per gli articoli di giornale.
Le norme del diritto d’autore in tema di libere utilizzazioni sono del tutto eccezionali e ciò esclude che gli articoli di giornale tutelati possano essere riprodotti, citati o sunteggiati al di fuori dei rigorosi limiti in esse posti, nonché in assenza delle condizioni da esse previste. (...) É pur vero che, trascorso un certo spazio temporale dall’originaria pubblicazione della notizia, il fatto diventa notorio e non vi è alcuna violazione del diritto d’autore, se si utilizzano informazioni diffuse; tuttavia, rilevano le modalità con le quali le informazioni vengono usate. (...) È assolutamente fondato che nessuno ha il monopolio delle informazioni afferenti a fatti noti ed oggettivamente accaduti e che nessuno può subordinare all’obbligo di citazione la riproduzione o comunicazione di un’informazione, ma è pur vero che l’articolo di giornale può non essere solo informativo, come l’articolo di cronaca, quando non si limita ad esporre i fatti così come sono accaduti nella realtà, ma è connotato da una parte descrittiva e narrativa, che rende l’opera creativa e tutelata dal diritto d’autore. (...)
Gli articoli 657 , 708 e 1019 l. n. 633/1941 prevedono dei limiti ai diritti patrimoniali dell’autore, non anche a quelli morali, in quanto consentono la riproduzione, la comunicazione al pubblico, il riassunto, la citazione ecc… di opere per favorire l’informazione pubblica, la libera discussione delle idee, la diffusione della cultura e di studio, che prevalgono sull’interesse personale dell’autore. (L’art. 65 l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l'utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell'autore, se riportato”. 8L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”).
Corte di Cassazione. Prima sezione civile. Sentenza n. 12314/1015. L'originalità e creatività dell'opera creata con l'ausilio di articoli di giornale.
(...)La violazione del diritto d’autore non si ha solo nell’ipotesi di integrale riproduzione dell’opera altrui ma anche nel caso di mera contraffazione e, dunque, nel caso di riproduzione indebita di alcune parti dell’opera, nelle quali si ravvisano “i tratti essenziali che caratterizzano l’opera anteriore”. "Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47". Su questo punto la Cassazione si è più volte pronunciata (Cass., 5 luglio 1990, n. 7077, in Giur. it., 1991, p. 47. 12 Cass., 27 ottobre 2005, n. 20925, in Foro it. 2006, p. 2080; conf. Cass., 5 luglio 1990, n. 9139, in Giust. civ., 1991, p. 152), sostenendo che sia opportuno distinguere la riproduzione abusiva in senso stretto dalla contraffazione e dall’elaborazione creativa perché la prima consiste nella “copia integrale e pedissequa dell’opera altrui”; la seconda nella riproduzione non integrale ma sostanziale dell’opera, in quanto ci sono poche differenze e di mero dettaglio; la terza, invece, consiste in un’opera originale, in quanto si connota per l’apporto creativo del suo autore ed è, pertanto, meritevole di tutela, ex art. 4 l. n. 633/1941. (...)
Conclusioni.
Tuttavia, è certo che gli articoli di giornale e “Gomorra” seguono scopi distinti, infatti, con i primi si informa e si danno informazioni contingenti, invece, con il secondo si segue il fine di approfondire e di indurre il lettore alla riflessione sul fenomeno criminale denominato camorra. La forma e la struttura espositiva dell’opera permettono di riflettere su un altro punto nevralgico della vicenda, che vede, ancora una volta, opinioni contrastanti tra la dottrina e la giurisprudenza: l’articolo di giornale rientra tra le opere protette dal diritto d’autore? Risponde al quesito sia l’art. 3 l. n. 633/1941, che annovera tra le opere tutelate dal diritto d’autore anche gli articoli pubblicati su giornali e sulle riviste, sia la distinzione tra l’articolo di cronaca e l’articolo d’opinione. Come si può leggere nel Cap. III, par. 3.1, l’articolo di cronaca non può essere plagiato, in quanto, per definizione, si limita a narrare i fatti così come sono accaduti, nella loro successione cronologica, senza che vi ricorrano i requisiti che un’opera protetta dal diritto d’autore debba avere per legge. Tali requisiti sono elencanti nel Cap III, par. 3.1. L’articolo di opinione, invece, non è una mera elencazione, bensì, un’esposizione di fatti con terminologie e prospettive proprie del giornalista, correlate, in taluni casi, dalle opinioni di chi scrive. In essi, dunque, il giornalista racconta i fatti in modo creativo, suggerendo un’impronta personale, tali da ricondurli direttamente a se stesso, cosicché è possibile che vi siano articoli scritti da giornalisti diversi, che, seppure raccontano gli stessi fatti, non incorrono nel plagio. Gli articoli di opinione possono, dunque, essere oggetto di plagio. In conclusione, l’articolo di giornale, che ricorre nel caso giudiziario in esame, non è assimilabile ad un articolo di cronaca, così come delineato nel Cap. I, par. 1.3, e, colta questa differenza, non si può negare che l’articolo di giornale sia un’opera protetta dal diritto d’autore. Tuttavia, è bene chiarire che riconoscere come meritevoli di tutela gli articoli di giornale, nei limiti appena chiariti, non significa attribuire l’esclusiva dell’informazione al giornalista e alla testata giornalistica presso la quale costui lavora, in quanto il singolo giornalista non può essere l’unico legittimato a dare informazioni. Se così fosse, si riconoscerebbe il monopolio dell’informazione a favore della testata giornalista, che per prima ha dato la notizia, in contrasto con il principio fondamentale di libertà d’espressione, sancito nell’art. 21 della Costituzione. Sul punto si rinvia al Cap. III, par. 3.2.
Non sempre è sufficiente riconoscere fra le opere protette dal diritto d’autore gli articoli di giornale perché essi possano esser tutelati efficacemente dal diritto d’autore. Infatti, come dimostra il caso esaminato, la prospettiva assunta per l’analisi della controversia può indurre il giudice a mettere in secondo piano gli articoli rispetto il libro. Più precisamente, il giudice avrebbe potuto escludere il plagio, se, durante il confronto delle due opere letterarie, ne avesse enfatizzato il suo carattere originale e creativo, rispetto alla conformazione delle notizie di cronaca contenute nell’opera. Assumere questa prospettiva, in cui il libro diventa il termine di paragone prevalente, significa non dare la giusta rilevanza agli articoli di giornale nel giudizio di plagio. Rileverebbe unicamente che gli articoli di giornale occupino un esiguo numero di pagine del libro e, poiché rappresentano una piccola parte, si escluderebbe, a priori, che un’opera alla stregua di “Gomorra” possa essere un’opera plagiaria. Pertanto, la quantità delle pagine del libro, nelle quali sono riportati gli articoli di giornale, non ritengo sia una ragione valida per escludere il plagio. Assumere, invece, la prospettiva opposta, nella quale gli articoli di giornale diventano il primo termine di paragone, consente di rilevare il plagio, se quest’ultimi sono riprodotti nel libro con la stessa forma e la stessa struttura espositiva dei giornalisti e senza che ne venga citata la fonte. In queste disposizioni normative, la legge speciale sul diritto d’autore ammette la libera pubblicazione o comunicazione al pubblico e la libera citazione delle opere protette dal diritto d’autore, affinché, in tal modo, si permetta la diffusione delle informazioni, del sapere e della cultura. Tuttavia, tale interesse generale non deve ledere i diritti d’autore, ma deve realizzarsi nel rispetto delle norme, sancite dal legislatore. Per impedire che si violassero i diritti d’autore, si è attributo alle norme che sanciscono la libera utilizzazione dell’opera protetta il carattere eccezionale. Ciò significa che esse si applicano secondo le modalità e nei casi espressamente previsti dal legislatore e che non sono suscettibili di applicazione analogica; pertanto, non è possibile applicare queste norme a casi diversi da quelli delineati dal legislatore. Dunque, le utilizzazioni devono avvenire mediante la citazione della fonte, della data e dell’autore - le c.d. menzioni d’uso - con le quali si riconosce che “una certa opera o parte di essa è frutto del lavoro di un 91 altro autore, così da evitare di essere accusati di plagio se si attinge da un testo altrui”. Se consideriamo il caso di specie, le menzioni d’uso mancano nel libro “Gomorra”. Invece, l’art. 65 l. n. 633/1941, che ritengo applicabile al caso “Gomorra”, resta, tuttavia, inosservato nell’esecuzione dell’opera. Pertanto, sarebbe bastato riportare la fonte, perché venisse riconosciuta infondata l’accusa rivolta nei confronti di Saviano. In tal modo, l’autore, non solo sarebbe stato scagionato da ogni accusa di plagio, ma avrebbe arricchito il suo lavoro di ricerca sui fatti raccontati, avrebbe permesso ai lettori di approfondire gli avvenimenti e, allo stesso tempo, il suo libro non sarebbe stato meno interessante. Dunque, la Corte non riconosce i presupposti in virtù dei quali è ammessa dal giudice in primo grado la libera riproduzione delle notizie contenute negli articoli, in quanto esclude che le vicende narrate negli articoli di Libra siano divenute di pubblico dominio e ritiene irrilevante che Saviano abbia riprodotto gli articoli nella sua opera a distanza di tempo. L’opera diventa di pubblico dominio quando decadono i diritti di sfruttamento economico della stessa oppure quando decorre il tempo massimo di tutela stabilito dall’ordinamento, il quale solitamente scade dopo settant’anni dalla morte dell’autore, ma vi sono altri casi in cui il termine è diverso, come ad esempio per le opere collettive, nelle quali vi rientrano i giornali, le riviste, le enciclopedie, i cui diritti di sfruttamento economico dell’opera scadono dopo settant’anni dalla pubblicazione, ma i diritti del singolo autore seguono la regola generale. L’opera di pubblico dominio può liberamente essere pubblicata, riprodotta, tradotta, recitata, comunicata, diffusa, eseguita, ecc…, ma i diritti morali devono essere sempre rispettati. I primi due gradi di giudizio Il Tribunale di Napoli respinge la domanda della parte attrice, fondando la decisione sulle seguenti ragioni di fatto e di diritto: 1) L’opera “Gomorra” non può essere considerata un “saggio” ma “neppure tutt’altro, un’opera di fantasia” ma essa deve essere ricondotta al genere “romanzo no fiction, dedicato al fenomeno camorristico, contenenti ampi riferimenti alla realtà campana”. In particolare “Gomorra” costituisce “un accostamento di generi diversi: il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Il suo carattere creativo emerge dall’originale 16 combinazione delle vicende criminali del fenomeno camorristico, peraltro non esaminate in maniera organica, né secondo criteri, che avrebbero invece caratterizzato un’opera di genere saggistico. In esso fatti di cronaca vengono mescolati “con le vicende e le sensazioni personali dell’autore”, dal che deriva la nettissima distanza dell’opera “dalla mera cronaca giornalistica degli avvenimenti, da cui pure muove l’autore, e che trova puntuale riscontro nello stesso testo dell’opera”. Delineato, dunque, il genere letterario di appartenenza dell’opera di Saviano, il Tribunale esclude la violazione dell’art. 65 della legge sul diritto d’autore in quanto la norma richiede, perché ci sai plagio, “un ambito di riferimento omogeneo”, che non ricorre nel caso di specie, perché gli articoli di giornale sono stati utilizzati da Saviano mesi dopo la loro pubblicazione sulla testata giornalistica ed impiegati in un ambito e con uno scopo diverso: differentemente dal giornale con il quale si propone di dare informazioni contingenti, il libro di Saviano intende approfondire e riflettere sul fenomeno camorristico, trattato nel suo libro. 2) L’opera “Gomorra” non promuove la critica o la discussione sul contenuto degli articoli e ciò viene confermato dalla “scrittura tesa e volutamente poco attenta ai dettagli” dell’autore. Pertanto, il Tribunale di Napoli esclude la violazione dell’art. 70 l. n. 633/1941, che richiede “la menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore e dell'editore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta”, in quanto il riferimento alla norma risulta “del tutto incongruo”. 3) L’autore ha utilizzato fonti di dominio pubblico senza conseguire alcun “atto contrario agli usi onesti in materia giornalistica” e ciò esclude la violazione dell’art. 101 l. n. 633/1941.
IL DIRITTO D’AUTORE NELL’OPERA GIORNALISTICA. I CARATTERI DELL’OPERA PROTETTA DAL DIRITTO D’AUTORE. Sarebbe utopistico credere che qualsiasi opera possa esser protetta dal diritto d’autore; infatti, lo sono solo le opere che hanno una serie di caratteri di fondo ben fissati da parte del legislatore. Pertanto, in presenza di opere nelle quali si ravvisano determinati requisiti si applica la disciplina concernente il diritto d’autore e le tutele previste al suo autore o ad altri soggetti, diversi da quest’ultimo, lesi nei loro diritti patrimoniali e morali. Si potrebbe pensare erroneamente che la ricorrenza delle medesime caratteristiche includa nella tutela del diritto d’autore solo opere omogenee, ma in realtà si tratta di una nozione così di ampio respiro da consentire ad opere diversificate ed eterogenee di rientrare comunque nella tutela del diritto d’autore. In essa rientrano, infatti, le opere letterarie, artistiche e musicali tradizionali, le banche di dati, il software e il design. Analizzare i caratteri dell’opera protetta dal diritto d’autore, dunque, diventa importante per comprendere in quali casi l’autore gode di determinati diritti e quando può agire a tutela di essi.
L’opera dell’ingegno umano. Il primo carattere che deve ricorrere affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore è quello di “opera dell’ingegno umano”. Si tratta di una nozione legislativa che si ricava dagli artt. 1 e 2 della l. n. 633/1941, nei quali rispettivamente si definiscono e si classificano le opere oggetto del diritto d’autore; esse sono il frutto di una “creazione intellettuale”, che si realizza a fronte dell’attività dell’intelletto umano di ideazione ed esecuzione materiale dell’opera. Dunque il concetto di creazione intellettuale é così ampio ed elastico da consentire addirittura di comprendere opere che appartengono a campi e categorie fenomenologiche diverse, come la letteratura, la musica, le arti figurative, l’architettura, il teatro e la cinematografia, le quali, seppure si avvalgono di mezzi espressivi differenti tra loro, allo stesso tempo presentano come primo carattere di fondo l’essere un’opera derivante dall’attività dell’ingegno umano.
Il carattere rappresentativo: la forma interna e la forma esterna Un requisito che ricorre nelle opere oggetto di tutela del diritto d’autore è il carattere rappresentativo, al quale Paolo Auteri attribuisce un significato: l’opera è destinata a “rappresentare, con qualsiasi mezzo di espressione (parola scritta o orale, disegni e immagini, fisse o in movimento, suoni, ma anche il movimento del corpo e qualsiasi altro segno), fatti, conoscenze, idee, opinioni e sentimenti; e ciò essenzialmente allo scopo di comunicare con gli altri”. In parole più semplici, l’opera deve avere una forma “percepibile” e non rimanere a livello di mero pensiero; ovviamente, se così fosse, la semplice idea astratta, che non è idonea a rappresentare con organicità idee e sentimenti, non potrebbe essere oggetto di tutela. Questo carattere è sancito a livello internazionale nell’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs, il quale protegge la forma espositiva con cui l’opera appare, ad es: l’insieme di parole e frasi (c.d. forma esterna); la struttura espositiva, ad es: l’organizzazione del discorso, la scelta e la sequenza degli argomenti, le prospettive adottate, ecc... (c.d. forma interna), e non il contenuto di conoscenze, informazioni, idee, fatti, teorie in quanto tali e a prescindere dal modo in cui sono scelti, esposti e coordinati. (L’Accordo TRIPs, “The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights” (in italiano, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale), è un trattato internazionale promosso dall'Organizzazione mondiale del commercio, al fine di fissare i requisiti e le linee guida che le leggi dei paesi aderenti devono rispettare per tutelare la proprietà intellettuale. L’art. 9 n.2 dell’Accordo TRIPs così recita: “La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali”. 29 La distinzione tra forma esterna, forme interna e contenuto è stata elaborata sin dall’inizio del secolo scorso ad opera di un autorevole giurista tedesco, il Kohler, e viene seguita dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti. Essa è stata fortemente criticata da più parti, tanto dalla dottrina, rappresentata da Piola Caselli in Italia e da Ulmer in Germania, che dalla parte minoritaria della giurisprudenza. Si è contestato, in breve, il fondamento teorico della tesi di Kohler e la difficoltà, se non l’impossibilità, di distinguere tali tre elementi a livello pratico. Inoltre, ci sono state pronunce di merito, come ad esempio la sentenza del Tribunale di Milano del 11 marzo 2010, dalle quali emerge che non sempre il contenuto è irrilevante ai fini del riconoscimento del plagio. Infatti, è possibile distinguere le idee diffuse nella cultura comune dalle idee innovative, che non appartengono al pensiero comune e che possono essere ricondotte ad un autore in particolare. Secondo tali pronunce giurisprudenziali, l’utilizzo del primo tipo di idee in un’opera dell’ingegno non produrrebbe plagio purché le idee vengano rielaborate in modo originale, invece l’utilizzo del secondo tipo di idee, anche se espresse in forma diversa, difficilmente escluderebbero il plagio).
Il carattere creativo: originalità e novità. Il carattere creativo è un criterio espressamente richiesto dal legislatore, negli artt. 1 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., affinché l’opera sia protetta dal diritto d’autore. In dottrina tale carattere non è definito in termini omogenei. Su questo punto, la dottrina è divisa: una opinione predilige il criterio della c.d. “creatività oggettiva” 30 , secondo il quale è creativa “l’opera dotata di caratteristiche materiali, oggettive appunto, tali da distinguerla da tutti i lavori ad essa preesistenti” 31 ; l’altra, invece, sostiene il criterio della c.d. “creatività soggettiva”32 , secondo il quale è creativa l’opera che riflette la personalità dell’autore e il suo modo personale di rappresentare ed esprimere fatti, idee e sentimenti, tale da renderla “direttamente riconducibile al suo autore” (c.d. individuabilità rappresentativa). In merito alla creatività soggettiva, la dottrina ha individuato due profili del carattere creativo: l’originalità e la novità. L’originalità consiste nel risultato di un’elaborazione intellettuale che riveli la personalità dell’autore, indipendentemente dalle dimensioni e dalla complessità del contenuto dell’opera, il quale può anche essere modesto e semplice o appartenere al patrimonio comune. Dunque sarebbero originali tutte quelle opere che, seppure appaiano molto simili tra loro, hanno un taglio o una prospettiva che le rende “frutto di una elaborazione autonoma del loro autore”. Invece la novità si ha quando sono nuovi o inediti gli “elementi essenziali e caratterizzanti” dell’opera, senza che la novità sia assoluta o diventi creazione. Infatti nuove non sono solo le opere che si basano su un’idea che non ha precedenti, ma anche quelle che rielaborano elementi di opere preesistenti con forme o mezzi di espressione innovativi, tali da distinguerle dalle opere precedenti (c.d. novità in senso oggettivo). L’orientamento che ha riscontrato il maggior successo nelle pronunce giurisprudenziali è quello della “creatività soggettiva”.
La compiutezza espressiva. Un altro requisito posto dalla legge per la tutela dell’opera dell’ingegno è quello della c.d. “compiutezza espressiva”, definita dalla dottrina come “l’idoneità a soddisfare l’esigenza estetica, emotiva o informativa, del fruitore di un determinato evento creativo”. Così come asserito da Kevin de Sabbata, tale nozione è assolutamente opinabile e non vi è ancora una pronuncia giurisprudenziale o uno studio dottrinale, che sia pervenuta ad attribuirle un significato stabile e chiaro. Motivo per il quale si ravvisa una difficoltà di applicazione del principio, seppure risulterebbe rilevante per la risoluzione di casi giudiziari di plagio parziale.
La pubblicazione dell’opera. Diversamente da quanto si possa pensare, il diritto d’autore non protegge solo le opere già pubblicate e già immesse nel mercato ma anche quelle non pubblicate e non note al pubblico, le c.d. opere inedite. Infatti, la Suprema Corte, riprendendo gli artt. 6 l. n. 633/1941 e 2575 c.c., ha ribadito che il diritto d’autore ha origine nel momento della mera creazione dell’opera, che costituisce un atto giuridico in senso stretto, e non al seguito del conseguimento di formalità, come gli adempimenti di deposito e di registrazione dell’opera . Nel 2012 i giudici di legittimità hanno escluso definitivamente che l’opera debba costituire “una sorgente di utilità” ai fini di tutela, potendo, dunque, essere oggetto di tutela anche prima della pubblicazione.
IL DIRITTO D’AUTORE E IL DIRITTO D’INFORMAZIONE E DI CRONACA. Dato per scontato che il diritto d’autore tuteli, ai sensi dell’art.1 l. n. 644/1941 e dell’art. 2575 c.c., le opere caratterizzate da requisiti di fondo delineati nel paragrafo precedente, possiamo asserire che tali caratteri ricorrono nell’opera giornalistica e che, pertanto, anche gli articoli di giornale sono tutelati dal diritto d’autore. Estendere la disciplina del diritto d’autore all’articolo di giornale comporta, come conseguenza inevitabile, che le norme a tutela dell’autore possano incidere sull’esercizio dell’attività di comunicazione e di informazione sociale, che si promuove con l’opera giornalistica. Il diritto d’autore e il diritto d’informazione e di cronaca possono entrare addirittura in conflitto tra loro, perché, da un lato vi è l’interesse di tutelate i diritti patrimoniali e morali dell’autore con la limitazione della libera divulgazione delle opere protette e, dall’altro lato vi è l’interesse generale alla diffusione di informazioni esatte su fatti rilevanti e di interesse generale. Diventa, dunque, necessario approfondire i profili di rilevo costituzionale sui quali può incidere il diritto d’autore, quali il diritto 61 d’informazione e il diritto di cronaca, per poter comprendere come essi si conciliano tra loro. Il diritto d’informazione è un diritto fondamentale delle persone, che è compreso, assieme al diritto d’opinione e di cronaca, nella libertà di manifestazione del proprio pensiero, sancita a livello nazionale dall’art. 21 della Costituzione e a livello sovranazionale dall’art. 19 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” e dall’art.10 co. 1, della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” , che consiste “nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari”, senza porre limiti in merito ai mezzi di espressione e in merito agli scopi, circostanze, contenuti da esprimere, ecc… Il diritto d’informazione ha una duplice profilo: quello attivo consiste nel diritto di informare e di diffondere notizie; invece, quello passivo consiste nel diritto di essere informati, sempre che l’informazione sia “qualificata e caratterizzata (…) dal pluralismo delle fonti da cui attingere conoscenze e notizie”. In conseguenza del diritto di essere informati è fatto divieto, ai sensi dell’art. 21, co. 2, Cost., di sottoporre la stampa a controlli preventivi. Nel nostro ordinamento è dunque, vietata la possibilità di sottoporre la divulgazione dell’informazione ad autorizzazioni o censure, al fine di evitare manipolazioni della notizia e compromettere il diritto della collettività a ricevere corrette informazioni. Il diritto dei cittadini ad essere informati si esercita mediante il diritto di cronaca, definito dalla giurisprudenza come “il diritto di raccontare, tramite mezzi di comunicazione di massa, accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati”. Dunque, l’informazione viene comunicata e diffusa per mezzo dell’esercizio del diritto di cronaca, il quale incontra una serie di limiti per evitare che l’esercizio di questo diritto possa ledere altri diritti inviolabili. Infatti l’art. 21 co. 3 Cost., sancisce il limite del rispetto del “buon costume”, generalmente inteso come il rispetto del “pudore sessuale”. Si tratta, però, di un concetto sprovvisto di una definizione normativa e, dunque, di un significato stabile, ma a ciò sopperiscono il legislatore e l’interpretazione giurisprudenziale, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi. Ad esempio, la legge sulla stampa n. 47 del 1948, ha stabilito che é contrario al “buon costume” la pubblicazione di contenuti impressionanti e raccapriccianti, che provocano turbamento del “comune sentimento della morale o l’ordine familiare”. Tuttavia, tanto la giurisprudenza che il legislatore nelle altre brache del diritto ammettono ulteriori limiti, quando l’esercizio del diritto d’informazione, o più in generale del diritto d’espressione, potrebbe ledere altri diritti della persona costituzionalmente tutelati ed inderogabili, quali, ad esempio il diritto alla privacy o alla riservatezza, al nome, all’immagine, alla dignità della persona e ai diritti dell’autore, riconosciuti dalla legge sul diritto d’autore. A tal proposito, la giurisprudenza, a più riprese, ha individuato una serie di requisiti, che il giornalista deve rispettare per garantire un equo bilanciamento del diritto di cronaca con altri diritti inviolabili, che potenzialmente possono entrarvi in conflitto. Per quanto riguarda il bilanciamento degli interessi dell’autore alla tutela dei suoi diritti patrimoniali e morali con gli interessi della collettività alla diffusione delle informazioni e delle notizie è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1973, n. 38, nella quale ha affermato che le norme del diritto d’autore, rapportate all’informazione giornalistica, non contrastano con i principi costituzionali perché non limitano in alcun modo la “libera estrinsecazione e manifestazione del pensiero” e non “assoggettano la stampa ad autorizzazioni o censure”, ma, piuttosto, “tutelano l'utilizzazione economica del diritto d'autore e sono dirette ad assicurare la prova e a determinare l'indisponibilità della cosa, sia per preservarla da distruzione o alterazione, sia per assicurare l'attribuzione dell'opera all'avente diritto, sia per impedire ulteriori danni derivanti da violazione del diritto di autore”. Infatti, il legislatore garantisce il diritto d’informazione e il diritto di cronaca, ammettendo la libera utilizzazione dell’opera protetta purché si seguano i fini esplicitamente delineati nell’art. 70 l. n. 633/1941 – per uso di critica o di discussione, insegnamento o ricerca scientifica – e purché tale utilizzazione non costituisca una forma di concorrenza economicamente rilevante. La ratio della norma si rinviene nelle esigenze di progresso e diffusione della cultura e delle scienze. La questione, però, non è pacifica perché, se da un lato la Corte Costituzionale afferma che la tutela del diritto d’autore non può limitare la libera manifestazione del pensiero, dall’altro, alcuni giudici di merito, di fronte al caso concreto, ritengono che il diritto di cronaca non possa incidere sull’estensione del diritto d’autore, in quanto, a tale proposito, nessun limite è previsto espressamente dalla legge. Di conseguenza, nei fatti la delimitazione reciproca dei due diritti è rimessa al prudente apprezzamento dei giudici di merito.
L’OPERA GIORNALISTICA. Sulla base degli argomenti esposti in precedenza si può, dunque affermare che anche l’opera giornalistica è tutelata dal diritto d’autore, essendo una creazione intellettuale, la quale deriva dall’esercizio del diritto d’informazione e di cronaca. Infatti, l’art. 3 l. n. 633/1941 annovera i giornali e le riviste tra le c.d. opere collettive, che sono “costituite dalla riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico ed artistico”, ma non informativo. In effetti, l’opera giornalistica é il frutto di una molteplicità di apporti creativi di diversi autori, coordinati e selezionati dal direttore della testata giornalistica. Dunque, in tale opera si possono distinguere due distinti livelli creativi: quello dei singoli giornalisti, che contribuiscono a comporre l’opera, e quello del direttore, che provvede a progettare l’opera complessiva, a scegliere e coordinare i contributi, ad organizzare e dirigere l’attività creativa dei collaboratori. Una volta rilevata questa duplice creatività, sorge spontaneo domandarsi come il legislatore tuteli tali opere. Ciò che potrebbe risultare complesso è stato, invece, risolto con estrema facilità dal legislatore, il quale ha riconosciuto come meritevole di tutela non la creatività dei singoli giornalisti, bensì quella del direttore che, mediante l’attività di scelta, di coordinamento e di organizzazione dei contributi, realizza l’opera complessiva: l’opera giornalistica. È sulla base di questa prospettiva che ben si spiegano gli artt. 7 e 38 l. n. 633/1941. L’art. 7 l. n. 633/1941 riconosce come autore delle opere collettive “chi ha diretto e organizzato la creazione dell’opera stessa”. Pertanto, rivestendo il ruolo di autore dell’opera giornalistica, il direttore del giornale può, ex art. 41 l. n. 633/1941, “introdurre nell’articolo da riprodurre quelle modificazioni di forma che sono richieste dalla natura e dai fini del giornali”, le quali, se sono sostanziali, possono essere apportate solo con il consenso dell’autore, sempre che questi sia reperibile; altrimenti, ex art. 9 dal Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (FNSI – FIEG 1 aprile 2013 – 31 marzo 2016), “l’articolo non dovrà comparire firmato nel caso in cui le modifiche siano apportate senza l’assenso del giornalista”. Normalmente gli articoli che, a giudizio del direttore, rivestono particolare importanza sono pubblicati con la firma dell’autore, invece quelli meno rilevanti possono essere riprodotti anche senza l’indicazione del nome dell’autore. Solo se non compare la firma dell’autore, il direttore della testata giornalistica non solo può modificare ed integrare l’articolo di giornale ma anche sopprimerlo e non pubblicarlo. L’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce il diritto di utilizzazione economica dell’opera all’editore, salvo patto contrario, senza precludere ai singoli collaboratori di utilizzare la propria opera separatamente, purché si rispettino gli accordi intercorsi fra i collaboratori e l’editore, nei quali sono precisati i limiti e le condizioni dell’utilizzazione separata dei contributi dei singoli, a salvaguardia dello sfruttamento dell’opera collettiva. Sostanzialmente l’art. 38 l. n. 633/1941 attribuisce lo sfruttamento economico dell’opera all’editore, nel rispetto dei principi fondamentali, ai sensi degli artt. 12 e ss. l. n. 633/1941, e allo stesso tempo garantisce il diritto ai giornalisti di utilizzare il proprio articolo separatamente dall’opera complessiva, senza pregiudicare il diritto di sfruttamento economico esclusivo dell’editore sull’opera collettiva. Infatti, il legislatore, nell’art. 42 l. n. 633/1941, assicura all’autore dell’articolo di giornale pubblicato in un’opera collettiva il diritto di riprodurlo in estratti separati o raccolti in volume, in altre riviste o giornali, purché “indichi l’opera collettiva dalla quale è tratto e la data di pubblicazione”. Alla regola dell’art. 38 l. n. 633/1941, il legislatore ammette una sola eccezione, fissata nel successivo art. 39, secondo la quale l’autore può riacquistare il diritto di disporre liberamente dell’opera al ricorrere di due condizioni: 1) quando il giornalista è estraneo alla redazione del giornale, non ha un accordo contrattuale con la testata giornalistica, ma ha invitato l’articolo al giornale perché venisse riprodotto in esso; 2) quando il giornalista non ha ricevuto notizia dell’accettazione entro un mese dall’invio o la riproduzione dell’articolo non è avvenuta entro sei mesi dalla notizia dell’accettazione.
LA RIPRODUZIONE E LA CITAZIONE DELL’ARTICOLO DI GIORNALE NELL’OPERA LETTERARIA. Talvolta un libro nasce dall’esigenza di voler raccontare una storia, frutto della fantasia dell’autore, basata su fatti realmente accaduti. Infatti, molto spesso leggiamo libri con riferimenti a persone esistenti o a fatti realmente accaduti. Per scrivere un libro basato su fatti già accaduti e magari notori, lo scrittore deve informarsi servendosi di giornali, riviste e altro materiale, reperibile in qualsiasi modo. Così l’autore può ricostruire gli accadimenti e assumere informazioni dettagliate, utili per il proprio libro. Questa attività di ricerca e informazione risulta di grande importanza, in quanto, solo di seguito ad essa, lo scrittore inizierà a scrivere il suo libro. Però lo scrittore deve estrarre dalle fonti le informazioni utili e rielaborarle in modo creativo. Se, invece, si limita ad un lavoro di “copia e incolla”, corre il rischio di ledere il diritto d’autore. Una volta chiarito che, gli articoli di giornale e l’opera giornalistica nel suo insieme sono tutelati dal diritto d’autore, cosa succede se ad esser riprodotto senza citazione della fonte e dell’autore in un’opera letteraria, come è accaduto nel caso di specie “Gomorra”, sia un articolo di giornale? Per rispondere al quesito è necessario esaminare il contenuto degli artt. 65, 70 e 101 l. n. 633/1941, in materia di eccezioni e limitazioni del diritto d’autore.
Gli articoli di attualità. Nell’art. 65 della legge 53 il legislatore sancisce la libertà di utilizzazione, riproduzione o ripubblicazione e comunicazione al pubblico degli articoli di attualità, che possiamo considerare come sinonimo di cronaca, in altre riviste o giornali, quando ricorrono tre requisiti:
1) che si tratti di articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, o altri materie dello stesso genere. Sul punto la dottrina è divisa, perché, da una parte c’è chi sostiene che sia lecita la riproduzione di articoli di attualità specificamente indicati dal legislatore (a carattere politico, economico e religioso), con l’esclusione degli articoli di cronaca a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico, mentre dall’altra parte c’è chi farientrare queste ultime fattispecie di articoli tra “gli altri materiali dello stesso carattere”; (L’art. 65 della l. n. 633/1941 così recita “Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichi la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato”).
2) che siano pubblicati in riviste o in giornali;
3) che la riproduzione o l’utilizzazione non sia espressamente riservata, ovvero quando manchi l’indicazione, anche in forma abbreviata, delle parole “riproduzione riservata” o di altre espressioni dal significato analogo, all’inizio o alla fine dell’articolo, secondo quanto prevede l’art. 7 del regolamento di esecuzione della legge sul diritto d’autore, approvato con il R.D. 18 maggio 1942, n. 1369. È necessario a questo punto fare una puntualizzazione, perché potrebbe intendersi erroneamente il significato dell’espressione “libera utilizzazione”. La libera utilizzazione consiste nella riproduzione o comunicazione al pubblico dell’opera senza il consenso dell’autore, ma nel rispetto di determinati adempimenti, fissati dalla legge, come l’indicazione della fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. Tali formalità devono essere adempiute anche nell’ipotesi, delineata dall’art. 65 co. 2 l. n. 633/1941, di riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti, utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità per fini informativi e di cronaca, fatta eccezione del caso di impossibilità di conoscere la fonte e il nome dell’autore. (“La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell'autore, se riportato”). La norma in esame è eccezionale e non suscettibile di applicazione analogica, ragione per la quale la libera utilizzazione non si estende alle rassegne-stampa; infatti, la riproduzione di queste ultime deve sempre essere effettuata con il consenso dei titolari dei diritti.
La libertà di citazione. Prima della legge italiana sul diritto d’autore, la libertà di citazione è stata regolata dall’art. 10 della Convenzione d’Unione di Berna, il quale riporta pressoché il contenuto fissato nell’art. 70 l. n. 633/1941. Il legislatore italiano non ha provveduto, come previsto dalla norma internazionale, a chiarire espressamente che l’opera citata debba esser stata pubblicata e che la citazione debba avere un carattere di mero esempio e supporto di una tesi e non lo scopo di illustrare l’opera citata. (L’art. 10 della Convezione di Berna così recita “Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Restano fermi gli effetti della legislazione dei Paesi dell'Unione e degli accordi particolari tra essi stipulati o stipulandi, per quanto concerne la facoltà d'utilizzare lecitamente opere letterarie o artistiche a titolo illustrativo nell'insegnamento, mediante pubblicazioni, emissioni radiodiffuse o registrazioni sonore o visive, purché una tale utilizzazione sia fatta conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo. Le citazioni e utilizzazioni contemplate negli alinea precedenti dovranno menzionare la fonte e, se vi compare, il nome dell'autore”. 56 La Convenzione d’Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche fu firmata nel 1886 a Berna e ratificata ed eseguita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399. Sul punto si rinvia al Cap I, par. 1.2.).
Infatti, nell’art. 70 della legge italiana sul diritto d’autore ( L’art. 70 l. n. 633/1941 così recita “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”) il legislatore italiano si è limitato a sancire il libero riassunto, la citazione o la riproduzione dell’opera e la loro comunicazione al pubblico, purché:
1) vi ricorra una finalità di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica, così da garantire l’informazione e la diffusione della cultura, in quanto si permette la libera fruibilità dei concetti esposti nell’opera. La dottrina precisa che si ha “uso di critica”, quando l’utilizzazione è finalizzata ad esprimere opinioni protette dagli artt. 21 e 33 Cost.;
2) l’opera critica abbia fini autonomi e distinti da quelli dell’opera citata e non sia succedanea dell’opera o delle sue utilizzazioni derivate;
3) l’utilizzazione non sia di dimensioni tali da supplire all’acquisto dell’opera, pertanto l’utilizzazione non debba essere concorrenziale a quella posta dal titolare dei diritti e idonea a danneggiare gli interessi patrimoniali esclusivi dell’autore o del titolare di diritti; 4) siano rispettate le menzioni d’uso, quali l’indicazione del titolo dell’opera da cui è tratta la citazione o la riproduzione, il nome dell’autore e dell’editore. Dottrina e giurisprudenza concordano che anche questa disposizione normativa sia del tutto eccezionale, cosicché non può essere applicata per analogia, ma deve essere interpretata restrittivamente.
Informazioni e notizie giornalistiche. L’art. 101, infine, tutela le informazioni e le notizie giornalistiche, stabilendo che sono liberamente riproducibili altrove, purché non si ricorra ad “atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e (…) se ne citi la fonte”. In questo primo comma, il legislatore non ha definito gli atti contrari, ma ha fatto rinvio alle regole di correttezza professionale, fissate nel codice deontologico dell’attività giornalistica, lasciando al giudice il compito di decidere, in merito ai casi concreti per i quali è chiamato a giudicare, se quel comportamento è scorretto o meno. (L’art. 101 co. 1 l. n. 633/1941 sancisce che “La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l'impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte”). Tuttavia, il legislatore colma la genericità del primo comma con il secondo, nel quale specifica alcuni comportamenti che, senza alcun dubbio, costituiscono atti di concorrenza sleale: per esempio, la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso a coloro che ne hanno diritto, oppure prima che l’editore autorizzato abbia pubblicato la notizia; il c.d. “parassitismo giornalistico”, che si ha nel caso in cui il giornalista scorretto effettua la riproduzione o la radiodiffusione sistematica di informazioni e notizie, attingendo da altri giornali o fonti, che svolgono un’attività giornalistica a fine di lucro. Tutte queste pratiche scorrette sono sanzionate dalla legge con l’arresto dell’attività di concorrenza, con la rimozione degli effetti dell’illecito, con la condanna al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza. (L’art. 101 co. 2 l. n. 633/1941 così recita “Sono considerati atti illeciti: a) la riproduzione o la radiodiffusione, senza autorizzazione, dei bollettini di informazioni distribuiti dalle agenzie giornalistiche o di informazioni, prima che siano trascorse sedici ore dalla diramazione del bollettino stesso e, comunque, prima della loro pubblicazione in un giornale o altro periodico che ne abbia ricevuto la facoltà da parte dell'agenzia. A tal fine, affinché le agenzie abbiano azione contro coloro che li abbiano illecitamente utilizzati, occorre che i bollettini siano muniti dell'esatta indicazione del giorno e dell'ora di diramazione; b) la riproduzione sistematica di informazioni o notizie, pubblicate o radiodiffuse, a fine di lucro, sia da parte di giornali o altri periodici, sia da parte di imprese di radiodiffusione”).
CRONACA, INDAGINE GIORNALISTICA E ANALISI SOCIALE. Quando accade un fatto di rilievo pubblico, un ruolo fondamentale è svolto dal cronista, il quale giunge presso il luogo del fatto per raccontare gli avvenimenti così come accadono, nella loro precisa successione cronologica, realizzando un’attività di testimonianza diretta o indiretta. Distinta dalla mera cronaca è l’inchiesta giornalistica, la quale parte da fatti di cronaca per svolgere un’attività di indagine, c.d. “indagine giornalistica”, con la quale il professionista si informa, chiede chiarimenti e spiegazioni. Questa attività rientra nel c.d. “giornalismo investigativo” o “d’inchiesta”, riconosciuto dalla Cassazione nel 2010 come “la più alta e nobile espressione dell’attività giornalistica”, perché consente di portare alla luce aspetti e circostanze ignote ai più e di svelare retroscena occultati, che al contempo sono di rilevanza sociale. A seguito dell’attività d’indagine, il giornalista svolge poi l’attività di studio del materiale raccolto, di verifica dell’attendibilità di fonti non generalmente attendibili, diverse dalle agenzie di stampa, di confronto delle fonti. Solo al termine della selezione del materiale conseguito, il giornalista inizia a scrivere il suo articolo. (Cass., 9 luglio 2010, n. 16236, in Danno e resp., 2010, 11, p. 1075. In questa sentenza la Corte Suprema precisa che “Con tale tipologia di giornalismo (d’inchiesta), infatti, maggiormente, si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche notevoli, per il rilievo pubblico delle stesse”). Dunque, appare evidente che, diversamente dal giornalismo tradizionale, il quale attinge le notizie da fonti ufficiali e istituzionali perché si dia informazione sui fatti, il giornalismo d’inchiesta impiega mesi e mesi per sviluppare e preparare un’indagine giornalistica in quanto approfondisce aspetti e circostanze su fatti socialmente rilevanti, così da indurre il lettore a riflettere e formare la propria opinione, seppure diversa da quella letta sul giornale. L’inchiesta, pertanto, mette in rilievo problemi sociali o vicende politiche attuali e consente di compiere un’analisi sociale. L’inchiesta e la cronaca sono tipologie giornalistiche che si distinguono da “Gomorra”, la quale è a tutti gli effetti un’opera letteraria, che racchiude diversi generi, come “il romanzo, il saggio, la cronaca giornalistica, il pamphlet”. Dunque, accanto alla cronaca giornalistica, che consiste nel narrare fatti realmente accaduti “secondo la successione cronologica, senza alcun tentativo di interpretazione o di critica degli avvenimenti”, vi è il romanzo, un componimento letterario in prosa, di ampio sviluppo, frutto della creazione fantastica dell’intelletto dell’autore; il saggio, un componimento relativamente breve, nel quale l’autore “tratta con garbo estroso e senza sistematicità argomenti vari (di letteratura, di filosofia, di costume, ecc.), rapportandoli strettamente alle proprie esperienze biografiche e intellettuali, ai propri estri umorali, alle proprie idee o al proprio gusto”; e per finire il pamphlet, definito come un “breve scritto di carattere polemico o satirico”.
Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte.
Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.
Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.
Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate.
Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.
Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.
Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.
Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.
Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.
Popgiornalismo. Il caso e la post-notizia. Un libro di Salvatore Patriarca. Con le continue trasformazioni dell’era digitale, diventa sempre più urgente mettere a punto dinamiche comunicative che sappiano muoversi con la stessa velocità con la quale viaggia la trasmissione dei dati e che, soprattutto, riescano a sviluppare capacità connettive in grado di ricomprendere un numero sempre maggiore di dati-fatti-informazioni. Partendo dal fenomeno giornalistico rappresentato da Dagospia – il sito di Roberto D’Agostino che ha saputo cogliere, sin dagli albori, le possibilità offerte dal mezzo digitale – il libro analizza i caratteri di una nuova forma giornalistica, il popgiornalismo. Al centro di questa recente declinazione informativa non c’è più la notizia ma la post-notizia, la necessità cioè di lavorare sulle connessioni e sugli effetti che ogni nuovo fatto, evento o dato determina. Da qui ne conseguono i tre tratti essenziali dell’approccio popgiornalistico: la “leggerezza” pesante dell’informazione, la conoscenza del quotidiano come opera aperta e la libera responsabilità del lettore.
Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.
Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com.
Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.
Che cosa significa "Stampa non periodica"?
Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).
Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.
Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica.
La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506. L'esercizio del diritto di critica può, a certe condizioni, rendere non punibile dichiarazioni astrattamente diffamatorie, in quanto lesive dell'altrui reputazione.
Resoconto esercitato nel pieno diritto di Critica Storica. La critica storica può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506.
La ricerca dello storico, quindi, comporta la necessità di un’indagine complessa in cui “persone, fatti, avvenimenti, dichiarazioni e rapporti sociali divengono oggetto di un esame articolato che conduce alla definitiva formulazione di tesi e/o di ipotesi che è impossibile documentare oggettivamente ma che, in ogni caso debbono trovare la loro base in fonti certe e di essere plausibili e sostenibili”.
La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".
Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.
Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.
Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".
Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)
Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.
Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.
Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)
Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.
Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.
Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)
Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.
Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.
NON CI SI PUO’ SOTTRARRE ALLE CRITICHE ONLINE.
Tribunale di Roma (N. R.G. 81824/2018 Roma, 1 febbraio 2019 Presidente dott. Luigi Argan): non ci si può sottrarre alle critiche online, scrive Guido Scorza 28 febbraio 2019 su l'Espresso. In un’epoca nella quale la libertà di parola, specie online, sembra condannata a dover sistematicamente cedere il passo a altri diritti e a contare davvero poco, un raggio di libertà, arriva dal Tribunale di Roma che, nei giorni scorsi, ha rispedito al mittente le domande di un chirurgo plastico che aveva chiesto, in via d’urgenza, ai Giudici di ordinare a Google di sottrarre il proprio studio dalle recensioni del pubblico o, almeno, di cancellare quattro commenti particolarmente negativi ricevuti da pazienti e amici di pazienti. Secondo la prima sezione del Tribunale, infatti, il diritto di critica viene prima dell’interesse del singolo a non veder la propria attività professionale compromessa da qualche recensione negativa e nessuno ha diritto, nel momento in cui esercita un’attività professionale o commerciale, a pretendere di essere sottratto al rischio che terzi, ovviamente dicendo la verità e facendolo in maniera educata, lo critichino. E questo, secondo i Giudici, è quanto accaduto nel caso in questione. Il chirurgo in questione non può né pretendere che Google rinunci a mettere a disposizione degli utenti un servizio che consente, tra l’altro, la raccolta di “recensioni” sulla propria attività né che non consenta agli utenti di pubblicare commenti negativi o che cancelli quelli pubblicati. Ma non basta. Il Tribunale di Roma mette nero su bianco un principio tanto semplice quanto spesso ignorato: non può toccare a Google sorvegliare che i propri utenti non pubblichino recensioni negative perché Google non ha, né può avere, alla stregua della disciplina europea della materia, alcun obbligo generale di sorveglianza sui contenuti pubblicati da terzi. Google – e il Giudice lo scrive con disarmante chiarezza – ha il solo obbligo di rimuovere un contenuto quando la sua pubblicazione sia accertata come illecita da un Giudice e la notizia gli sia comunicata. E a leggere l’Ordinanza con la quale il Giudice ha respinto le domande d’urgenza proposte dal chirurgo vien davvero da pensare che tutti dovremmo iniziare a imparare ad accettare le critiche con spirito costruttivo e come stimolo a far meglio in futuro anziché investire ogni energia nel tentativo – vano, fortunatamente, in questa vicenda – di condannare all’oblio le opinioni di chi, su di noi, si è fatto, a torto o a ragione, ma dicendo la verità, un’idea che semplicemente non ci piace. Che un professionista, in piena società dell’informazione, davanti a un cliente – per di più suo paziente – che pubblica critiche del tipo “lavoro mal fatto, senza impegno e senza amore per la sua professione” o “Pessimo, assolutamente non idoneo a trattamenti di chirurgia estetica”, anziché fare autocritica non trovi niente di meglio da fare che correre davanti a un Giudice a domandare di trattare le parole altrui come carta straccia, da gettare di corsa nel tritacarta, è circostanza preoccupante. Probabilmente la volatilità tecnologica dei bit ci ha persuasi che le opinioni, le parole e le idee del prossimo valgano poco per davvero. Bene, dunque, hanno fatto i Giudici a ricordare che la critica è costituzionalmente garantita e che ci vuol ben altro che il rammarico di un chirurgo per qualche recensione poco lusinghiera – peraltro tra tante altre positive – per pretendere di veder cancellate, a colpi di spugna, le opinioni altrui.
· La Credibilità.
Caratteristiche della credibilità di una persona. Da Pensiero Critico.
Cos'è la credibilità. Quando ci troviamo di fronte a una persona elaboriamo sempre un giudizio sulla sua credibilità, e spesso siamo indotti a pensare che essa sia una proprietà intrinseca di quella persona. Secondo il sociologo Guido Gili (2005, La credibilità) la riflessione psicologica e sociologica contemporanea ha modificato questa prospettiva, proponendo che la credibilità sia qualcosa che viene riconosciuto dagli altri, anche se essa non può prescindere da qualità effettivamente possedute da quella persona. Ecco la definizione data da Gili (p.4): La credibilità è sempre una relazione tra emittente e ricevente/pubblico, per cui una credibilità universale ed un discredito universale sono i poli estremi di un continuum sul quale si collocano concretamente tante forme e modi diversi di credibilità. Spesso chi è credibile presso un interlocutore o un pubblico non lo è nello stesso modo e per le stesse ragioni presso un altro, come mostra, in modo estremo ed evidentissimo, il caso di molti leader carismatici. Per i loro seguaci rappresentano delle personalità eccezionali, dotate di qualità quasi sovrumane e di una credibilità illimitata; per gli altri possono apparire come degli esaltati, dei pazzi o dei criminali.
Il punto chiave. La credibilità non è una caratteristica intrinseca della fonte, ma è una relazione. (Guido Gili).
La credibilità è soggettiva. La credibilità che attribuiamo a una persona non è "oggettiva" ma "soggettiva": dipende da come la nostra mente è fatta in termini di ricordi, emozioni, esperienze, capacità logiche, ecc. Il problema della credibilità di una persona non si pone nei rapporti di familiarità perchè le lunghe frequentazioni permettono di maturarla e sperimentarla nel tempo (anche la familiarità, comunque, non è esente da rischi perchè espone alla manipolazione). Il problema della credibilità di una persona si pone soprattutto nelle relazioni caratterizzate da livelli crescenti di estraneità e talvolta richiede, affinchè una relazione possa iniziare, una anticipazione di credibilità.
Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia. Nel valutare le condizioni per accordare tale anticipazione entra in gioco il concetto di fiducia che è complementare alla credibilità, nel senso che si può parlare di fiducia solo quando l'altra persona è libera di tradirla (non vincolata da norme o imposizioni). Come ha scritto il sociologo Niklas Luhman (Le strategie della fiducia, Einaudi pp.131-132)"la fiducia non nasce da un pericolo intrinseco ma dal rischio. [...] Ciò che determina il rischio è un calcolo puramente interiore delle condizioni esterne. [...]". Vi sono molti concetti legati alla credibilità (affidabilità, attendibilità, reputazione, ecc.) dei quali è opportuno conoscere le proprietà e individuare le differenze.
Credibilità dei politici italiani. Credibilità del ruolo e credibilità nel ruolo. Quando comunichiamo non siamo quasi mai individui generici ma, la maggior parte delle volte, ci portiamo dietro un ruolo specifico riconosciuto dalla società: padre, insegnante, medico, manager, politico, operaio, ecc. I diversi ruoli professionali posseggono già, di per sè, una credibilità riconosciuta: la credibilità del ruolo che influenza positivamente o negativamente la nostra percezione dell'altro. Insieme a questo tipo di credibilità ve ne è però uno più pertinente alla persona che stiamo valutando ed è la credibilità nel ruolo. Essa equivale al modo in cui quella specifica persona interpreta quel ruolo, con i suoi personali pregi e difetti. Questi due tipi di credibilità si influenzano e, di solito, se si ha un ruolo socialmente credibile si tende a interpretarlo in modo da rafforzarlo. Talvolta ciò non accade: ad esempio in Italia, negli ultimi anni, il patrimonio di credibilità del ruolo politico è stato sperperato da comportamenti personali discutibili sul piano etico (vedere ad esempio: G.Stella, S.Rizzo, La Casta - Perchè i politici italiani continuano a essere intoccabili 2007 Rizzoli). Dunque, a fronte del discredito della credibilità del ruolo, i politici (se sono eticamente dotati), dovranno impegnarsi di più nella loro credibilità nel ruolo per sperare che l'altro tipo di credibilità possa essere recuperato.
Radici della credibilità. Secondo Gili (p.7) le radici della credibilità, che i riceventi cercano nelle persone, sono tre:
radice cognitiva: è la competenza o qualifica riconosciuta di esperto.
radice etico-normativa: è la condivisione di valori percepiti (pregiudizi inclusi).
radice affettiva: è la condivisione emotiva di appartenenza (a un gruppo, un'associazione, un partito, ecc).
Verifica della credibilità di una persona sul Web. Il web offre la possibilità di verificare rapidamente la credibilità di una persona (la sua reputazione), attraverso: i commenti postati sui blog/forum, le menzioni ricevute da altri soggetti, le immagini postate sui social networks, ecc. Questa possibilità può diventare un rischio per chi pubblica incautamente informazioni che lo riguardano, perchè spesso esistono scostamenti tra l'identità personale e l'identità digitale della stessa persona, dovuti al modo in cui la personalità dell'individuo viene "costruita" in rete. Tale problema ha dato luogo alla creazione di una nuova figura professionale: quella dell'"online reputation manager". Naturalmente ciò riguarda soprattutto le persone che hanno una immagine pubblica da difendere, ma ciò diventerà una necessità anche per le persone comuni. Quando la credibilità online di una persona viene danneggiata (dai suoi comportamenti reali o da quelli di altri) esiste la possibilità che essa si rivolga a un servizio di ricostruzione della propria reputazione digitale. Alle persone "normali", consigliamo di attuare i consigli suggeriti dall'articolo "Google e web, come gestire la reputazione online". Per chi volesse fare qualcosa in più Susan Adams ha pubblicato su Forbes sei utili consigli per gestire la propria reputazione online nel seguente articolo: "6 Steps To Managing Your Online Reputation". Esistono peraltro servizi rivolti a persone che hanno molto da nascondere e desiderano rifarsi una verginità online, ad esempio i politici: ecco un esempio di azienda che offre una "web reputation per politici" che li "ripulisce" prima di affrontare una campagna elettorale.
Monitoraggio online. Esistono servizi di "ricostruzione" della reputazione online in grado di innalzare fittiziamente la credibilità di soggetti che hanno molto da nascondere. Ciò rende più faticosa la valutazione della credibilità online di coloro che hanno le risorse per accedere a tali servizi, quali: politici, imprenditori, aziende, ecc.
Patologie della credibilità. Generalmente, se nel corso della nostra vita abbiamo vissuto in ambienti con buone relazioni interpersonali, tendiamo ad accordare alla "gente" una fiducia generalizzata. L'influsso esercitato dal sistema mediatico sul singolo individuo dipende non solo dall'efficacia comunicativa dei media, ma anche dalla vulnerabilità del singolo. La mancanza di fiducia o l'eccesso di fiducia rientrano tra le patologie della credibilità, e si collocano ai due estremi dell'asse della fiducia. In tali patologie le persone possono avere un atteggiamento di sospetto generalizzato o, all'opposto, un atteggiamento di credulità senza limiti.
I vari gradi della fiducia si trovano tra due estremi: il sospetto generalizzato e la credulità senza limiti.
Teoria della coltivazione (dei telespettatori).
Eccesso di sospetto. Nella costruzione della fiducia, in mancanza di situazioni di familiarità, influiscono anche le rappresentazioni della società offerte dai mezzi di comunicazione di massa, ad esempio l'esposizione alla violenza nelle fiction in TV (più che nelle news). Secondo una ricerca pionieristica di George Gerbner (1976), la violenza in TV produce la convinzione che anche nella propria realtà sociale vi sia violenza e che esista un'alta probabilità di rimanerne vittima. Gerbner propose una teoria (Cultivation theory) nella quale la Televisione, anzichè essere una occasione di riflessione sul mondo reale, può sostituirsi alla realtà nelle persone che si espongono per molte ore al giorno ai suoi programmi. Secondo questa teoria le persone vengono "coltivate" fin dall'infanzia ad accettare storie, preferenze, messaggi dalla TV anzichè dalle persone reali del loro ambiente sociale. La teoria della coltivazione ha ricevuto molte critiche per le modalità di svolgimento delle interviste ma, nonostante ciò, rimane un'ipotesi sociale che mantiene un elevato grado di credibilità.
Eccesso di credulità. Riguardo alla credulità fanno riflettere i metodi usati da Kevin.D. Mitnick, un famoso hacker statunitense, per carpire informazioni riservate (L'arte dell'inganno, 2002 Feltrinelli). Mitnick ha dimostrato che l'anello debole della sicurezza dei sistemi informatici (anche i più sofisticati) non è di natura tecnologica ma è il fattore umano. Egli riusciva a procurarsi le informazioni più riservate semplicemente... chiedendole, cioè sfruttando la credulità delle persone. Egli aveva la capacità di rendersi credibile a interlocutori che non aveva mai visto nè sentito prima. Questa capacità è stata chiamata ingegneria sociale (social engineering) e consiste nel raccogliere informazioni sulla vittime (spesso per telefono) per poi arrivare all'attacco vero e proprio (di solito di natura informatica). L'ingegneria sociale impiega metodi quali: nascondere la propria identità, mentire, ingannare, rendersi credibili e sfrutta alcune tendenze generali dell'essere umano: il desiderio di rendersi utile, la tendenza alla credulità, la paura di mettersi nei guai (se non rispondono alle richieste). Nel suo libro Mitnick, che ora fa il consulente di sicurezza alle aziende, descrive nel dettaglio in che modo vengono effettuati i tentativi di manipolazione e come imparare a difendersi.
· L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.
Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.
Dispotismo: dispotismo (raro despotismo) s. m. [der. di despota e dispotico]. – Governo esercitato da una sola persona o da un ristretto gruppo di persone in modo assolutistico e arbitrario, senza alcun rispetto per la legge. In particolare e detto Dispotismo illuminato, quello dei sovrani riformatori del 18° secolo, ispirato alle teorie politiche e filosofiche dell’illuminismo francese (esaltazione della Ragione, accettazione dell’assolutismo come forma di governo, ecc.). In senso estensivo e figurativo: autorità che si esercita in modo prepotente, oppressivo; atteggiamento ispirato a estremo autoritarismo, a noncuranza o a disprezzo degli altrui diritti.
La teoria di Montesquieu: Lo Stato e la suddivisione dei poteri. La moderna teoria della separazione dei poteri viene tradizionalmente associata al nome di Montesquieu. Il filosofo francese, nello Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti [...]. Perché non si possa abusare del potere occorre che [...] il potere arresti il potere". Individua, inoltre, tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - così descritti: "In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati", perché “una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. L'idea che la divisione del potere sovrano tra più soggetti sia un modo efficace per prevenire abusi è molto antica nella cultura occidentale: già si rinviene nella riflessione filosofica sulle forme di governo della Grecia classica, dove il cosiddetto governo misto era visto come antidoto alla possibile degenerazione delle forme di governo "pure", nelle quali tutto il potere è concentrato in un unico soggetto. Platone, nel dialogo La Repubblica, già parlò di indipendenza del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delineò una forma di governo misto, da lui denominata politìa (fatta propria poi anche da Tommaso d'Aquino), nella quale confluivano i caratteri delle tre forme semplici da lui teorizzate (monarchia, aristocrazia, democrazia); distinse, inoltre, tre momenti nell'attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. Polibio, nelle Storie, indicò nella costituzione di Roma antica un esempio di governo misto, in cui il potere era diviso tra istituzioni democratiche (i comizi), aristocratiche (il Senato) e monarchiche (i consoli). Nel XIII secolo Henry de Bracton, nella sua opera De legibus et consuetudinibus Angliæ, introdusse la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio: il primo è il momento "politico" dell'attività dello Stato, nel quale vengono fatte le scelte di governo, svincolate dal diritto; il secondo è, invece, il momento "giuridico", nel quale vengono prodotte e applicate le norme giuridiche, con decisioni vincolate al diritto (che, secondo la concezione medioevale, è prima di tutto diritto di natura e consuetudinario). È però con John Locke che la teoria della separazione dei poteri comincia ad assumere una fisionomia simile all'attuale: i pensatori precedenti, infatti, pur avendo individuato, da un lato, diverse funzioni dello Stato e pur avendo sottolineato, dall'altro lato, la necessità di dividere il potere sovrano tra più soggetti, non erano giunti ad affermare la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Locke, nei Due trattati sul governo del 1690, articola il potere sovrano in potere legislativo, esecutivo (che comprende anche il giudiziario) e federativo (relativo alla politica estera e alla difesa), il primo facente capo al parlamento e gli altri due al monarca (al quale attribuisce anche il potere, che denomina prerogativa, di decidere per il bene pubblico laddove la legge nulla prevede o, se necessario, contro la previsione della stessa).
La Teoria di Voltaire: Tolleranza e Libertà di manifestazione del pensiero. La libertà di esprimere le proprie convinzioni e le proprie idee è una delle libertà più antiche, essendo sorta come corollario della libertà di religione, rivendicata dai primi scrittori cristiani nel corso del II-III secolo e, successivamente, durante i conflitti tra cattolici e protestanti (XVI-XVII secolo). D’altra parte, essa è stata sollecitata anche dai grandi teorici della libertà di ricerca scientifica (basti pensare a Cartesio o a Galileo) e della libertà politica (ad esempio, Milton), nonché, successivamente, dagli stessi filosofi del XVIII e del XIX secolo (Voltaire, Fichte, Bentham, Stuart Mill). Va detto, comunque, che soltanto in alcuni documenti costituzionali si parla di libertà di manifestazione del pensiero (art. 8 Cost. Francia 1848; art. 21 Cost.), laddove in altri testi si preferisce utilizzare l’espressione libertà di opinione (art. 11 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; art. 8 Cost. Francia 1814; art. 7 Cost. Francia 1830; tit. VI, art. IV, par. 143, Cost. Francoforte 1849; art. 118 Cost. Germania 1919; art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20 Cost. Spagna 1978; art. 16 Cost. Svizzera 1999), libertà di parola (I emendamento Cost. U.S.A. 1787) o libertà di stampa (art. 18 Cost. Belgio 1831; art. 28 Statuto albertino).
La Teoria di Voltaire. Voltaire non credeva che la Francia (e in generale ogni nazione) fosse pronta a una vera democrazia: perciò, non avendo fiducia nel popolo (a differenza di Rousseau, che credeva nella diretta sovranità popolare), non sostenne mai idee repubblicane né democratiche; benché, dopo la morte, sia divenuto uno dei "padri nobili" della Rivoluzione, celebrato dai rivoluzionari, è da ricordare che alcuni collaboratori e amici di Voltaire finirono vittime dei giacobini durante il regime del Terrore, tra essi Condorcet e Bailly). Per Voltaire, chi non è stato "illuminato" dalla ragione, istruendosi ed elevandosi culturalmente, non può partecipare al governo, pena il rischio di finire nella demagogia. Ammette comunque la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri proposta da Montesquieu, come realizzate in Inghilterra, ma non quella diretta, praticata a Ginevra. Nel Trattato sulla tolleranza il filosofo denuncia le conseguenze dell’intolleranza e si scaglia, in particolare, contro il cristianesimo. Secondo Voltaire bisogna abbandonare il fanatismo delle religioni storiche e abbracciare unicamente una religione razionale che si basi sull’obbedienza a Dio e sull’esercizio del bene. Essere tolleranti significa, per Voltaire: accettare la diversità e le comuni fragilità, rifiutare la tortura e la pena di morte e abbracciare una fede pacifista e cosmopolita. L'idea di tolleranza di Voltaire. Tutta la polemica di Voltaire contro le ingiustizie sociali, la superstizione, il fanatismo è esemplificata nella sua difesa del principio della tolleranza. Nella sua opera più importante, il Trattato sulla tolleranza, infatti, il filosofo parte da un fatto di cronaca (un processo concluso con la condanna a morte di un protestante di Tolosa) per denunciare globalmente le conseguenze dell’intolleranza, ed in particolare si scaglia contro il cristianesimo. «I cristiani sono i più intolleranti degli uomini», o «la nostra (religione, n.d.r) è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo» scrive. Ma la sua requisitoria è diretta contro tutte le religioni storiche che hanno tradito il loro comune nucleo razionale, fatto di alcuni principi semplici e universalmente condivisi e, attraverso l’istituzione di dogmi e riti particolari, si sono macchiate di ogni tipo di crimine (dalle guerre alle persecuzioni). Abbandonare dunque il dogmatismo e abbracciare una religione spogliata dei suoi tratti esteriori e deleteri perché: «il deista non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte… egli parla una lingua che tutti i popoli intendono… egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto: obbedire a Dio è la sua dottrina». L’uomo deve accettare la diversità, i diversi punti di vista, in quanto, secondo Voltaire, essere tolleranti significa accettare le comuni fragilità: «Siamo tutti impastati di debolezze e errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura… Chiunque perseguiti un altro suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro». La tolleranza deve animare qualunque tipo di potere politico e Voltaire si scaglia, quindi, anche contro l’uso della tortura e della pena di morte. Allo stesso modo attacca l’uso della religione per giustificare le guerre e rigetta il nazionalismo in nome di una fede cosmopolita. La celebre frase: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», a cui è legato indissolubilmente il nome di Voltaire, in realtà non fu mai pronunciata dal filosofo. Appartiene, infatti, ad una saggista (Evelyne Beatrice Hall) che scrisse e ricostruì la vita e le opere di Voltaire. Ciononostante, sicuramente le prese di posizione del filosofo in merito non scarseggiarono e, anche nella sua vita privata, soffriva profondamente delle conseguenze dell’intolleranza degli uomini. Ogni anno, infatti, dedicava un giorno al lutto e all’astensione da qualunque attività: il 24 agosto, anniversario della notte di San Bartolomeo (una strage compiuta nel 1572 dalla fazione cattolica ai danni dei calvinisti parigini), si dice che aggiornasse la sua casistica dei morti nelle persecuzioni religiose arrivando a contarne 24/25 milioni. Ma la sua personalità non fu esente da contraddizioni: si batteva contro le guerre e il pacifismo ma faceva affari lucrosi nel campo dei rifornimenti all’esercito; era un paladino della tolleranza ma intrattenne degli accesissimi diverbi con l’illuminista Rousseau che screditavano la validità di tale principio; infine, celebri furono le prese di posizione sull’inferiorità degli africani rispetto a scimmie e elefanti, oltre che all’uomo bianco.
Voltaire e l'illuminismo oscurato dalle catastrofi. Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana. Dino Cofrancesco, Sabato 11/04/2020 su Il Giornale. Mentre nel mondo infuria il Covid-19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l'intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto - philosophes e uomini comuni - sconvolto dal terremoto di Lisbona che nel 1755 provocò vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le désastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio. Principe indiscusso dell'età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad esempio, Semiramide, che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini, o Alzira, messa in musica da Giuseppe Verdi), l'evergreen Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice - uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu - per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l'uomo del terzo millennio (Mimesis, con una sobria e illuminante Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l'attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare. In riferimento al tema della catastrofe che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un'ottima guida al Disastro di Lisbona, nel senso che ci permette di inquadrarne il messaggio nel più vasto ambito dell'etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con «le magnifiche sorti e progressive» su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura, ma è il bastone che permette all'umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?», dirà Candido, il più famoso dei suoi personaggi. «Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all'elefante - si legge in Prendere partito - la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l'equivalente dell'astuzia e della ferocia con cui l'esecrabile ragno cattura e divora l'innocente mosca». Eppure queste considerazioni che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell'umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L'uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L'uomo appare al suo posto nell'ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l'uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate contraddizioni, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l'uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal, così Voltaire lo è da Rousseau il quale, in una lettera dell'agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell'ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell'ottimismo razionalistico di Leibniz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione - dal peccato originale, al quale non credeva, all'ordine immutabile dell'universo - per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. E scrive: «La natura è muta e la s'interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/ consolare il debole, illuminare l'ingegno». E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta - allontanandolo dal trionfalismo illuministico - a una sorta di etica del destino. «Come voi - scrive ad Allamand nel dicembre 1755 - ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell'uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al Pantheon dei suoi resti mortali.
La Teoria di Rousseau: La democrazia diretta come contratto sociale e la capacità del popolo libero a gestirla. A livello politico Rousseau parte da un presupposto sociologico: lo Stato moderno che sta nascendo e la borghesia che continua a governare stanno diventando incompatibili tra loro, scrive F Occhetta. Così per dare un senso all’uomo e alla società ritiene utile partire da un’ipotesi logica che, pur non essendosi realizzata nella storia, ne costituisce il fondamento. Il punto di partenza è costituito, secondo lo schema classico del giusnaturalista laico, dallo stato di natura, che costituisce lo scenario a partire dal quale è possibile interpretare la storia stessa. I processi politici e i sistemi istituzionali sono per Rousseau il modo di «governare» cittadini, che associandosi perdono la loro bontà naturale. Cultura e natura sono in tensione nel pensiero del ginevrino. L’immagine che usa è quella di un’arma pericolosa in mano a un bambino, per questo nei suoi scritti si incontra spesso una proporzione: l’uomo di natura sta alla bontà come l’uomo civilizzato sta alla corruzione. Gli uomini di natura possiedono solo due princìpi anteriori alla loro ragione: l’amore di sé e la pietà mentre l’uomo sociale è egoista e solo, il desiderio di apparire migliore degli altri lo porta ad essere invidioso e falso. Nello stato di natura, però, si radica un’altra contraddizione. Se, per gli illuministi la natura rappresentava un oggetto che la ragione analizzava «per Rousseau la natura rappresenta invece una realtà che non va vivisezionata con la ragione, ma prima di tutto amata e compresa col sentimento». La priorità del cuore sulla ragione, che porta a riconoscere la natura come buona, faranno di Rousseau un «illuminista pre-romantico». Basta poco però per perdere questo status ideale. Appena l’uomo isolato incontra altri uomini per associarsi, perde la sua bontà ed è costretto a fondare un patto iniquo. Questa svolta nella storia dell’umanità è per Rousseau la nascita della proprietà, che egli considera il vero male della storia e definisce con la nota immagine del palo: «Il giorno in cui un uomo ha piantato un palo e ha detto “questo è mio”, е gli altri uomini sono stati cosi ingenui da non strappare quel palo, dicendo “non c’è né mio né tuo”, in quel momento è cominciata la degenerazione della Storia». Le dottrine comuniste esaspereranno questa posizione. Se la natura umana è stata corrotta dallo sviluppo della civiltà e in particolare dall’introduzione della proprietà privata, ci chiediamo: come può essere rieducato l’uomo alla libertà? Qui tocchiamo un punto decisivo: «Per Rousseau la libertà non può che essere sociale: l’uomo è libero solo tra uomini liberi. La liberazione dell’uomo non può che essere frutto di un impegno solidale. Е la socialità che, secondo Rousseau, va riscoperta attraverso l’educazione, costituisce il primo dover essere dell’uomo. La libertà е l’uguaglianza ne costituiscono i frutti preziosi». In verità nel pensiero di Rousseau ciò che salva è una solitudine radicale: «Il “selvaggio” non tiene in alcun conto gli sguardi degli altri sa essere felice indipendentemente dagli altri e vive in se stesso. “L’uomo civilizzato” vive proiettato sempre fuori di sé, nell’opinione degli altri e deriva dagli altri la stessa coscienza della propria esistenza». Ma se gli uomini non si stimano né si aiutano, non si riconoscono reciproci e perdono la loro felicità incontrandosi, su che cosa basano la loro convivenza? Questi presupposti di natura antropologica e sociologica iniziano qui a creare problemi. Ritenere che la società sia la causa dei contrasti tra gli uomini (e non l’effetto) significa ritenere che le ineguaglianze date dalle diverse capacità e dall’appartenenza sociale prendono il posto dell’uguaglianza dello stato di natura. Ma c’è di più: «Le differenze naturali si trasformano in disuguaglianze morali e al tempo stesso gli uomini si riconoscono come individui. Per mezzo dell’opinione degli altri acquistiamo un’identità personale, ma diventiamo anche schiavi dell’opinione». La via d’uscita è di carattere morale e risiede nella capacità che ciascuno dovrebbe avere di rieducarsi alla libertà, facendo nascere il contratto sociale che è un «dover essere della coscienza», un’esigenza deontologica capace di recuperare i valori perduti dello stato di natura, quando l’uomo era buono. Ma c’è di più. Gli studi di questi ultimi anni dedicati al profilo psicologico del pensiero di Rousseau sostengono — con le dovute riserve — che la sua solitudine, il suo narcisismo e il suo masochismo siano stati le cause che lo portarono a teorizzare il «buon selvaggio» — figura letteraria già presente nel pensiero di Montaigne —, vittima innocente della società, e l’Emilio, la vittima innocente dell’educazione. In verità l’attualità del suo pensiero tocca il significato filosofico della «volontà generale» che è chiamata a guidare lo Stato per conseguire il bene comune. Secondo Rousseau la sovranità si poteva esprimere soltanto in un corpo collettivo, inalienabile e indivisibile. In questo meccanismo logico risiede l’ideologia democratica di Rousseau. Quali sono le condizioni che devono sussistere per far sì che uno Stato sia democratico? Lo Stato diventa nel pensiero di Rousseau la via di uscita politica per porre rimedio ai due grandi male sociali: quello di incontrare altri uomini in società e quello della disuguaglianza creata dalla proprietà privata. Il problema è dunque politico, e non antropologico. Il male non è mai all’interno dell’uomo ma nelle strutture politiche, che devono quindi essere riformate e cambiate. Non occorre una conversione morale e una nuova auto-comprensione dell’umano, ma è necessaria la trasformazione delle strutture politiche. In questa visione si concentra tutta la debolezza della proposta politica di Rousseau. La dimensione religiosa che potrebbe cambiare il cuore dell’uomo, insegnargli a distinguere il bene dal male e a conoscere Dio, per Rousseau deve essere invece legata alla politica che diventa per l’uomo la vera religione. Sono dunque le strutture politiche che dovrebbero essere «convertite» per espellere il male dalla storia, non gli uomini che le governano. Costruire lo Stato dunque diventa per il pensiero del ginevrino un atto religioso che non tocca il cuore del cittadino. Per questo alcuni studiosi sono inclini a ritenere che Rousseau secolarizzi il pensiero teologico introducendo l’idea di democrazia moderna. La democrazia, che si fonda sul contratto sociale, diventa in Rousseau lo strumento di redenzione e liberazione dal male; i cittadini non cedono la loro libertà e i loro diritti a un sovrano come riteneva Hobbes, ma alla collettività che li farà ritrovare insieme a tutti gli altri cittadini. Così la democrazia è per Rousseau quella forma di Stato in cui il popolo è allo stesso tempo sovrano e suddito. Per realizzare questa intuizione la sovranità deve essere esercitata direttamente dal popolo tramite procedure che garantiscano il principio di l’autodeterminazione dei singoli che devono realizzare il programma definito dall’interesse generale. L’ambito si sposta dal teologico al teleologico. In origine c’è una situazione buona (lo stato di natura), segue una caduta (la nascita della proprietà), ne consegue che per redimersi l’uomo deve far nascere lo Stato democratico. Della redenzione non ha bisogno l’uomo, perché è buono, ma la politica, perché il male della storia, che si radica nella proprietà, appartiene alla sfera giuridica. Proprio qui però si radica la seconda contradizione del suo pensiero: tutti possono esercitare i diritti di tutti; e se questi non sono concordi? Che cos’è in realtà la «volontà generale» su cui si sono fondate le moderne democrazie? È formalmente la guida dello Stato democratico, quella che il bene comune della collettività e che si distingue dalla volontà di tutti. La maggioranza va distinta dalla minoranza e la sua volontà coincide tendenzialmente con la volontà generale. Questa è rappresentata della «classe media», non da intendere come la classe borghese, ma quella che in una votazione si determina togliendo le parti estreme. L’interpretazione di questa scelta ha portato ad applicazioni storiche opposte: il pensiero liberal democratico ha fatto coincidere la volontà della maggioranza con la volontà generale; i totalitarismi e le dittature come quelle di Napoleone e di Marx, hanno ritenuto che la volontà generale venisse intuita da personalità carismatiche. Nel pensiero di Rousseau è mancato un ponte che collegasse la vita privata dell’uomo, la dimensione, per lui importante, della coscienza e dei buoni sentimenti, con la costruzione della città. È forse questa l’urgenza di cui hanno bisogno le moderne democrazie per riformarsi. A questo riguardo diventano preziosi due insegnamenti del ginevrino. Il primo è contenuto nell’Emilio, quando Rousseau ricorda che si può vivere in due modi, recitando una parte e privandosi di vivere autenticamente, come fanno gli attori di teatro; oppure vivere e lasciarsi vivere come in una festa quando ciascuno diventa se stesso. Il fine della politica poi lo richiama nella sua Lettera a d’Alambert: «Possano i giovani trasmettere ai loro discendenti le virtù, la libertà, la pace che hanno ricevuto dai loro padri!». «La ricerca del proprio vantaggio a spese degli altri è qualche volta temperata dalla pena che proviamo nel vedere gli altri soffrire. Prima che l’amor proprio sia interamente sviluppato, la pietà naturale agisce come un freno all’ardore con cui gli uomini perseguono il proprio benessere […].
La teoria di Cesare Beccaria: Certezza del Diritto e Pene certe, ma non crudeli. Scritto da Library.weschool.com. L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppa nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti sono allora quellli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale, e contro l’immobilisimo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali debbano collaborare attivamente al progresso collettivo della società. In ambito letterario, rilevante è la preferenza per toni sobri ed eleganti, in reazione agli eccessi della poetica barocca; tra i nomi più direttamente avvicinabili a questi propositi riformistici, ci sono sicuramente Giuseppe Parini (1729-1799; si pensi all’ode La caduta o al poemetto Il Giorno), le commedie teatrali di Goldoni (1807-1793), le tragedie di Alfieri (1749-1803). I maggiori esponenti dell’Illuminismo lombardo sono innanzitutto, oltre a Cesare Beccaria, i fratelli Alessandro (1741-1816) e Pietro Verri (1728-1797) attivi animatori di battaglie amminsitrative e legislative e della vita culturale milanese. Due gli organi per sostenere questo disegno di riforma civile: da un lato l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fa portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista; dall’altro il periodico «Il Caffè» (1764-1766) che, ispirandosi all’inglese «Spectator», diffonde gli ideali dell’Illuminismo, come quando sostiene la necessità di una nuova lingua dell’uso, agile e moderna, sull’esempio dei principali modelli europei.Particolare risalto per l’Illuminismo italiano ha l’esperienza letteraria, culturale e politico-economica di Cesare Beccaria. Di famiglia di recente nobiltà, Beccaria studia presso i gesuiti e in seguito si diploma in diritto a Pavia, e, dopo essere divenuto membro dell’Accademia dei pugni, pubblica nel 1764 il saggio Dei delitti e delle pene, composto sulla spinta e l’attiva collaborazione dell’amico Pietro Verri. In pochi anni, grazie anche ad una traduzione in francese del 1766, l’opera conquista fama in tutta Europa, tanto di divenire un punto di riferimento anche per gli illuministi francesi, nella cui corrente di riflessione sui fondamenti del diritto moderno (si pensi a Montesquieu e alla teoria di divisione dei poteri, Helvétius, Rousseau e il suo Contratto sociale) i Dei delitti e delle pene si inserisce pienamente. In seguito al successo dell’opera Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri per stringere i rapporti con i philosophes, ma, sopraffatto dalla nostalgia, l’autore resta nella capitale francese solo qualche settimana per poi tornare in Italia, provocando reazioni derisorie e una brusca rottura nel rapporto con Pietro Verri. Mentre Dei delitti e delle pene si diffonde per il mondo, a Milano Beccaria vive in solitudine, dedicandosi all’insegnamento di economia e collaborando con il governo austriaco per un disegno di riforma fiscale. Beccaria muore nel 1794. Tra le sue opere ricordiamo anche Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762), primo scritto pubblicato che suscita svariate polemiche; le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), legate alle riflessioni sull’incivilimento della società, in cui collega lo studio dello “stile” alla scienza dell’uomo, rifacendosi al sensismo; e gli Elementi di economia politica, raccolta delle sue lezioni, pubblicata postuma nel 1804. La portata rivoluzionaria del saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764) è giustificata dal fatto che questo scritto getta alcune basi fondamentali del diritto moderno. Dei delitti e delle pene nasce all’interno del clima dell’Accademia dei Pugni, su espressa indicazione di Pietro Verri, che mette ampiamente mano alla prima stesura sia correggendola sia modificandone l’assetto. L’ordinamento finale dell’opera sarà ulteriormente modificato da André Morrellet (1727-1819), in occasione della traduzione francese due anni dopo la prima pubblicazione. L’opera, sull’onda di quei principi filosofici ed etici riscontrabili in Montesquieu e Rousseau, si sviluppa come un’articolata riflessione sulla natura e i principi della punizione inferta dalla legge a chi abbia commesso qualche reato: Beccaria tematizza quindi non sul rapporto causale tra “delitto” e “pena”, ma sulla natura filosofica e sul concetto stesso di “pena” all’interno di una società umana. Beccaria ritiene infatti che la vita associata sia rivolta al conseguimento della felicità del maggior numero di aderenti al “contratto sociale” e che le leggi siano la condizione fondante di questo patto; dati questi presupposti è evidente che le peneservano a rafforzare e garantire queste stesse leggi, ed è sulle pene e sulla loro applicazione che si concentra quindi l’opera di Beccaria. Scrive così nell’introduzione all’opera: Le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Le pene sono dunque finalizzate sia adimpedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe. Le pene vanno allora scelte proporzionatamente al delitto commesso e devono riuscire a lasciare un’impressione indelebilenegli uomini senza però essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate. Il tema si lega strettamente al decadimento della giustizia al tempo dell’autore, ancora legata all’arretrata legislazione di Giustiniano (il Corpus iuris civilis del VI secolo d.C.) e alla sua revisione per mano di Carlo V (1500-1558). La proposta riformistica di Beccaria vuole abolire abusi ed arbitri dipendenti, nell’amministrazione della giustizia, dalla ristretta mentalità aristocratica dei detentori del potere; secondo la prospettiva “illuminata” dell’autore una gestione più moderna del problema giudiziario non potrà che favorire, oltre che la tutela dei diritti individuali, anche il progresso dell’intera società (come nel caso delle osservazioni sulla segretezza dei processi o sul fatto che il sistema giudiziario presupponga la colpevolezza e non l’innocenza dell’imputato). La portata rivoluzionaria del discorso di Beccaria si evince in particolar modo dal discorso sulle torture, intese come uno strumento inefficace e perverso per ottenere un’illusione di verità; essendo il colpevole tale solo dopo la sentenza, le torture, utilizzate comumente come mezzo finalizzato alla confessione, sono inutili e illegittime e rischiano di assolvere coloro che, essendo più robusti di costituzione riescono a resistervi, e condannare innocenti dal fisico più debole. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema. Inoltre l’innocente è messo dalla tortura in una situazione peggiore di quella del reo, in quanto il secondo, se resiste, è dichiarato innocente, mentre il primo anche se è riconosciuto tale avrà comunque dovuto subire una tortura immeritata. Altrettanto centrale è il discorso sulla pena di morte, alla cui origine Beccaria non riesce a trovare un qualche fondamento di diritto. Evidente è che non può essere un potere dato dal contratto sociale, perché nessuno aderirebbe a un patto che dà agli altri il potere di ucciderlo. Oltre a questa considerazione Beccaria nota anche che l’esistenza della pena di morte non ha mai impedito che venissero commessi quegli stessi crimini per cui altri venivano giustiziati. Infatti fa più impressione vedere un uomo che paga per la sua avventatezza, che vedere uno spettacolo che indurisce ma non per questo corregge: Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Dati questi presupposti Beccaria parte dal principio che non sia l’intensità della pena a far effetto sull’immaginazione degli uomini, quanto la sua durata ed estensione. La pena non dev’essere cioè terribile e breve, quanto certa, implacabile ed infallibile. Inoltre la misura dei delitti deve essere il danno arrecato alla società e non l’intenzione, che varia in ciascun individuo, e scopo della pena deve essere sempre la prevenzione dei delitti.
L’illuminato pensiero di Cesare Beccaria. IL TRATTATO DEI DELITTI E DELLE PENE, segna l’inizio della moderna storia del diritto penale. Saggio scritto dall’illuminista milanese Cesare Beccarla (1738-1794) tra il 1763 e il 1764, in cui l’autore si pone delle domande circa le pene allora in uso. scritto da G.M.S. il 3 Settembre 2016 su Umsoi. Nonostante il notevole successo e la vasta eco in tutta Europa (la zarina Caterina II di Russia mise in pratica i princìpi fondamentali della riforma giudiziaria in esso proposta, mentre nel Granducato di Toscana venne perfino abolita la pena di morte), nel 1766 il libro venne incluso nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che vi si ritrova tra reato e peccato. L’autore afferma, infatti, che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che, non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da Dio. Alla base di questa distinzione sta la tesi secondo cui l’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene alla coscienza morale del singolo. Inoltre, per Beccarla non è “l’intensione” bensì “l’estensione” della pena a poter esercitare un ruolo preventivo dei reati, motivo per cui, fra l’altro, esprime un parere negativo nei confronti della pena capitale, comminando la quale afferma che lo Stato, per punire un delitto, ne compie uno a sua volta. E il diritto di “questo” Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere: nessuna persona, infatti, darebbe il permesso ad altri di ucciderla. Riprendendo i concetti roussoviani, Beccaria contrappone al principio del vecchio diritto penale “è punito perché costituisce reato” il nuovo principio “è punito perché non si ripeta”. Il delitto viene separato dal “peccato” e dalla “lesa maestà” e si trasforma in “danno” recato alla comunità. Sulla base della teoria contrattualistica, egli arriva a sostenere che, essendo il delitto una violazione dell’ordine sociale stabilito per contratto (e non per diritto divino), la pena è un diritto di legittima autodifesa della società e deve essere proporzionata al reato commesso. Le leggi devono in primo luogo essere chiare (anche nel senso di accessibili a tutti, cioè scritte nella lingua parlata dai cittadini) e non soggette all’arbitrio del più forte; non è giusto pertanto infierire con torture, umiliazioni e carcere preventivo prima di aver accertato la colpevolezza. Un uomo i cui delitti non sono stati provati va ritenuto innocente. L’accusa e il processo devono essere pubblici, con tanto di separazione tra giudice e pubblico ministero e con la presenza di una giuria. (Tuttavia per il Beccaria legittimo “interprete” della legge è solo il sovrano; il giudice deve solo esaminare se le azioni dei cittadini sono conformi o meno alla legge scritta). La stessa pena di morte va abolita in quanto nessun uomo ha il diritto, in una società basata sul contratto fra persone eguali, di disporre della vita di un altro suo simile. E’ impossibile allontanare i cittadino dall’assassinio ordinando un pubblico assassinio. Occorre che i cittadini siano messi in condizione di comportarsi nel migliore dei modi. La condanna capitale rende inoltre irreparabile un eventuale errore giudiziario. Il vero freno della criminalità non è la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito.
I tre filosofi dell'Illuminismo. Da Comprensivocesari.edu.it. Charles de Montesquieu, un illuminista aristocratico, era favorevole a una monarchia costituzionale, sul modello di quella inglese. Egli sosteneva che i tre poteri dello Stato, cioè il potere legislativo (di fare le leggi), esecutivo (di applicarle) e giudiziario (di giudicare chi non le rispetta) non devono essere concentrati nelle mani di una sola persona. Per garantire la libertà politica ed evitare che pochi pravalgano su molti, è necessario che i tre poteri restino divisi e indipendenti. Questo principio, detto della separazione dei poteri, è accolto oggi dalle costituzioni di quasi tutti i Paesi. In Italia, ad esempio, il potere legislativo spetta al parlamento, cioè a rappresentanti del popolo liberamente eletti; il potere esecutivo al governo; quello giudiziario alla magistratura, costituita dall'insieme dei giudici. Per Jean-Jacques Rousseau, un filosofo di Ginevra, il potere dello Stato, cioè la sovranità, il potere di comandare, appartiene interamente al popolo, che è l'unico sovrano. Il principio della sovranità popolare, sta alla base delle moderne democrazie. Nelle democrazie moderne, come l'Italia, la sovranità popolare viene esercitata indirettamente attraverso i rappresentanti (deputati e senatori che formano il parlamento) scelti dal popolo e prende il nome di democrazia rappresentativa. Voltaire, il più famoso dei filosofi illuministi, non riponeva nel popolo alcuna fiducia ed era disposto ad accettare il governo di un sovrano assoluto, a patto che questi si dimostrasse "illuminato" e si lasciasse guidare non dal capriccio, ma dalla ragione, preoccupandosi dell'efficienza dello stato e del benessere dei sudditi. Molti sovrani europei sembrarono sensibili alle idee illuministe e attuarono nei loro Stati importanti riforme. Il loro sistema di governo prende il nome di dispotismo illuminato.
Il dispotismo illuminato. Le idee degli illuministi furono accolte da molti sovrani europei, come Federico II di Prussia, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e, in Italia, Leopoldo, granduca di Toscana e Carlo III di Borbone, re di Napoli. Nella seconda metà del Settecento questi "despoti" (sovrani) introdussero delle riforme, cioè dei cambiamenti che avevano lo scopo di migliorare il loro Stato, rendendolo più efficiente e moderno. In Toscana, ad esempio, il granduca Leopoldo abolì la tortura e la pena di morte. Alcuni sovrani si preoccuparono di modernizzare l'agricoltura e combatterono l'analfabetismo, favorendo l'istituzione di scuole pubbliche laiche (cioè non religiose), tanto che l'istruzione pubblica ebbe un grande sviluppo. Questi "despoti illuminati" non cessarono di essere sovrani assoluti e spesso si proposero, molto più che il benessere dei sudditi, l'aumento del proprio potere ai danni della nobiltà e del clero, ossia i ceti privilegiati. Le idee illuministe si diffondono anche in Italia In Italia i centri illuministi più attivi furono due: Napoli e Milano. A Milano fu pubblicato un giornale intitolato "Il caffè", perchè si voleva che avesse sulla società lo stesso effetto stimolante che ha la bevanda sull'organismo umano. Del gruppo milanese faceva parte il marchese Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblicò il saggio Dei delitti e delle pene, l'opera più importante e più famosa dell'Illuminismo italiano, in cui l'autore dimostrava l'inutilità della tortura e della pena di morte. Presto tradotto in molte lingue, il saggio contribuì a far modificare le leggi e i procedimenti giudiziari in alcuni Stati, fra cui il granducato di Toscana e l'impero austriaco.
Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Appunto di Filosofia che spiega e mette a confronto le varie idee politiche e etiche di tre esponenti dell'illuminismo: Montesquieu, Rousseau e Voltaire in relazione al clima storico. Elisa P. su skuola.net.
Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Gli illuministi erano grandi ammiratori del sistema liberale inglese, proponendolo come modello nel loro programma di riforme politiche per la Francia:
- libertà religiosa;
- Libertà di stampa;
- Abolizione dei privilegi fiscali;
- Limitazione dell'assolutismo regio.
VOLTAIRE - "Lettere filosofiche" (1734). Egli aveva fatto conoscere in Francia il sistema parlamentare inglese, rendendosi conto che la società civile francese era più arretrata di quella inglese e che l'eccessivo indebolimento della monarchia potesse degenerare in anarchia; Voltaire inoltre riponeva scarsa fiducia nelle masse popolari, poichè riteneva fossero soggette al dominio dell'ignoranza e della superstizione; per questo motivo un monarca assoluto, ma illuminato, poteva essere il migliore garante del rinnovamento della società. Egli identificava come possibili monarchi illuminati Federico II e Caterina di Russia.
ROUSSEAU. Rousseau aveva fatto inizialmente parte del movimento degli illuministi, ma a partire dal "Discorso sulle scienze e sulle arti" (1750) se ne era progressivamente allontanato. Nella sua opera egli respingeva l'idea di progresso e incivilimento (progresso verso migliori condizioni materiali di vita e costumi più raffinati e umani) e la contrapponeva con la visione di un'austera comunità repubblicana, nella quale le virtù morali e politiche contavano di più delle scienze, della tecnica e degli artificiosi raffinamenti dei costumi. Nel 1762 il filosofo pubblicò la sua opera politica più celebre e discussa "Il contratto sociale"; in esso proponeva un modello di Stato in cui il sovrano fosse tutto il popolo e le leggi derivassero dalla volontà generale del popolo. Inoltre Rousseau elabora il concetto di sovranità popolare che si riferiva alla capacità degli individui di cogliere l'unico interesse generale, liberandosi quindi dei loro egoismi. In un simile Stato gli organi del Governo erano al servizio dell' intera comunità. Venne anche elaborata anche la definizione di Stato democratico, in cui la proprietà privata doveva essere subordinata all'interesse generale.
MONTESQUIEU - "Lo spirito delle leggi" (1748). Montesquieu compì un esame comparativo delle diverse forme di Governo (repubblica, monarchia, dispotismo). Secondo lui il sistema di leggi di ciascun Paese ha uno spirito (logica interna); le leggi non sono solo il prodotto del legislatore, ma sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose. Egli voleva appurare se in Francia erano in atto processi che stavano trasformando la monarchia in dispotismo, questi processi dovevano essere fermati finchè si era in tempo;
il dispotismo appariva a Montesquieu come una forma di Governo tipica dei Paesi asiatici, dove era agevolato da tre fattori:
- l'enorme estensione;
- La fitta popolazione;
- La relativa semplicità delle strutture sociali.
Quando tra l'autorità del sovrano e la massa dei sudditi non esistono corpi intermedi dotati di autonomia, il dispotismo è un' evoluzione inevitabile. Tra le forze sociali intermedie, Montesquieu dava importanza a quelle magistrature supreme che erano i parlamentari. Nel momento in cui queste forze prendessero ogni potere, la monarchia sarebbe degenerata nel dispotismo; Montesquieu giudicava poco adatta per la Francia la forma di governo repubblicana; lo spirito repubblicano poteva solo realizzarsi in comunità territorialmente e demograficamente limitate, come Sparta e Roma nell' antichità. Dell'Inghilterra bisognava imitare la divisione dei poteri (la potenza statale così distribuita non sarebbe stata esposta al rischio dell'assolutismo) in tre funzioni diverse:
- la legislazione (Parlamento, l'emanazione di leggi generali);
- Il Governno (re e Governo, eseguire le leggi e occuparsi dell'alta politica);
- L'amministrazione della Giustizia;
La magistratura sarà pienamente indipendente dal potere del Governo, senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le funzioni altrui, auspicava quindi una monarchia costituzionale.
Illuministi a confronto: Rousseau e Montesquieu. Giada.cofano (Medie Superiori) scritto il 12.04.17 su scuola.repubblica.it. L'illuminismo è un movimento di pensiero nato in Francia nel '700, sviluppatosi poi nel corso del secolo nel resto dell'Europa. Gli illuministi, collaborano insieme nello sviluppo delle idee, ma ognuno di loro pone un accento o una particolare attenzione su un aspetto, che viene quindi sviluppato in modo differente.
Rousseau, inizialmente faceva parte del movimento illuminista, poi con la pubblicazione di "Discorso sulle scienze e sulle arti" nel 1750, se ne allontana progressivamente. Sostiene che le arti e le scienze nascano da un progressivo snaturamento della sensibilità primitiva e originale dell'uomo, con conseguente negativo sugli esiti dell'evoluzione storica. Ogni passo verso la civiltà comporta, nell'uomo, il nascere di bisogni artificiosi, che lo distraggono dalle cose essenziali e autentiche. Rousseau, facendo emergere una critica radicale, respinge l'idea di progresso e incivilimento e lo contrappone con la visione di un'austera comunità repubblicana. Ne "Il contratto sociale", propone un modello di Stato in cui il popolo è sovrano, e le leggi derivano dalla volontà popolare. Gli individui così facendo si liberano dall'egoismo tipico del loro essere, sviluppando nuove capacità collaborative nell'interesse generale. La storia non era corruzione <>. Ma <>, fissando il vincolo della proprietà privata, del possedere la terra, che in realtà, originariamente, appartiene a tutti. La disuguaglianza tra gli individui deve essere risolta attraverso la ridistribuzione delle ricchezze, quindi con la definizione di leggi uguali per tutti ed uno Stato democratico.
Differente è invece la visione politica di Montesquieu, che individua nella monarchia costituzionale, un governo in cui i poteri non si sovrappongono, né entrano in contrasto tra loro. Attraverso un esame che compie sulle diverse forme di governo, Montesquieu comprende come le leggi siano, il risultato di una varietà di condizioni fisiche,meteorologiche, sociali e storiche e non semplicemente il prodotto della ragione pura o dell'istituzione arbitraria dei legislatori. Quindi il dispotismo che stava emergendo e affermandosi in Francia, tipico dei Paesi orientali, andava fermato tempestivamente. Il modello inglese che suggeriva la divisione dei poteri diviene per l'illuminista la migliore soluzione governativa. In ogni Stato la divisione consiste in <>. Non vi è libertà se questi tre poteri sono nelle mani di uno solo, o dello stesso organismo. Seguirebbero mancanza di controllo e abusi d'ogni tipo. Se il potere giudiziario è quello legislativo fossero uniti <>. Il principio della conservazione dei poteri è ancora oggi valido, e per noi contemporanei è una cosa scontata e ovvia. Ma nel '700 una tale riforma costituiva una sorta di conquista del potere politico, economico ed ideologico, da parte di una borghesia in fermento, cosciente della propria funzione sociale propulsiva.
Montesquieu e Rousseau sono solo due dei tanti filosofi che in questo periodo storico, hanno espresso le proprie tendenze e dottrine politiche: al primo, teorico del liberalismo moderato, si contrappone il secondo, che attraverso il suo "contratto sociale" ispirerà l'azione della borghesia democratica.
Montesquieu, la libertà risiede nella separazione dei poteri. Barbara Speca su rivoluzione-liberale.it il 17 Agosto 2011. Il viaggio alle radici del Pensiero Liberale continua con Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu (1689-1755), un protagonista dell’Illuminismo europeo nella prima metà del XVIII secolo che occupa, ancora oggi, una posizione di straordinario rilievo nella storia del liberalismo soprattutto grazie al suo capolavoro, lo Spirito delle Leggi, un’opera monumentale, frutto di quattordici anni di lavoro e pubblicata anonimamente nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, nel 1748. Due volumi, trentadue libri, una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento, nonché un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Avversario di ogni forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, Montesquieu è il filosofo della moderazione e dell’equilibrio. A lui viene attribuita la teoria della separazione dei poteri che rappresenta uno dei princìpi necessari dello Stato di diritto e una condizione oggettiva per l’esercizio della libertà che per Montesquieu è “Il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono”. Sulla base dell’esempio costituzionale inglese, lo scrittore politico francese sostiene che l’unica garanzia di fronte al dispotismo risiede nell’equilibrio costituzionale di cui godono i paesi in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono nettamente separati e distinti, capaci di controllarsi a vicenda. “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo o da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati”. L’idea che la separazione del potere sovrano tra più soggetti sia una maniera efficace per impedire abusi affonda le sue radici nella tradizione filosofica della Grecia classica. Platone ne La Repubblica sostiene l’autonomia del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delinea una forma di governo misto denominata politìa, una condizione di equilibrio tra oligarchia e democrazia, o meglio, una democrazia temperata dalla oligarchia. Aristotele, per di più, distingue tre momenti nell’attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. In tempi più recenti, nella seconda metà del Seicento, John Locke sostiene la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Montesquieu apre però la strada alla politica moderna, perfezionando la teoria della separazione dei poteri già presente in Locke. Il giurista francese trasforma la sua ricerca scientifica e sociologica in un programma morale e politico: come strutturare un sistema di leggi che, nelle condizioni storiche date, produca il massimo di libertà.“La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temere un altro”. Si può definire libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per contrastare tale abuso bisogna far sì che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di oltrepassare il proprio limite, degenerando in tirannìa. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché distruggerebbe la “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva dei cittadini. Secondo Montesquieu“Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica” e il dispotismo, anche se rappresenta una forma “naturale” di governo, è il pericolo supremo da evitare, in quanto una sola persona “senza né leggi né impedimenti trascina tutto e tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci”. Montesquieu struttura un metodo di interpretazione delle leggi in cui scompare l’alternativa tra legge naturale universale e immutabile, di cui avevano parlato i giusnaturalisti, e l’incertezza o l’arbitrarietà delle leggi positive su cui, dai sofisti greci fino a Montaigne e Pascal, si basava il dubbio scettico sulla stabilità della giustizia umana. Montesquieu cerca di dimostrare come, nonostante la diversità e la complessità degli eventi, la Storia abbia un ordine e manifesti l’azione di leggi costanti in grado di superare i contrasti. Ogni Stato, a sua volta, ha le proprie leggi che non sono mai casuali o arbitrarie, ma strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, addirittura dal clima. Montesquieu sostiene però che sia possibile stabilire, metodologicamente, i princìpi che regolano le leggi e ne determinano il carattere e la natura: le leggi, cioè, non si formano a caso, o secondo il capriccio di qualche individuo, ma seguono la direzione loro imposta da tutto un insieme di condizioni che è compito dello studioso indagare. Lo “spirito” delle leggi corrisponde all’anima dell’insieme di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei diversi popoli, non è possibile valutarle in relazione a uno schema di princìpi dotati di validità assoluta, ma ne va chiarita caso per caso la dinamica interna, facendo uso di criteri costanti riconducibili all’esprit général che rappresenta il collante, il tessuto connettivo di ogni sistema giuridico, un principio non naturale e statico ma storicamente dinamico, di cui ogni legislatore deve tener conto. Il metodo di Montesquieu presuppone che i fenomeni sociali possano essere spiegati con leggi scientificamente rilevanti come quelle delle scienze naturali: le società umane, al pari di ogni essere vivente, sono sottoposte all’azione che deriva dall’intreccio delle situazioni e delle proprie caratteristiche fisiche e spirituali. Montesquieu tenta di organizzare il Diritto in categorie semplici alle quali ricondurre la grande varietà della struttura giuridica e sociale; mette in luce il grande ruolo assunto dalla Storia ed infine, sul piano politico, tenta di strutturare un modello pratico di società per salvaguardarla dai regimi dispotici. Seguendo le orme del Saggio sul governo civile di Locke, Montesquieu definisce le leggi “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose” nonché manifestazione della ragione umana. In una società civile le leggi fungono da elementi regolatori in grado di mediare le tendenze individuali, in vista del perseguimento di un obiettivo comune. Dimostrato che il mondo fisico come il mondo dell’intelligenza dipendono da rapporti intrinseci alla loro stessa esistenza, Montesquieu esamina l’intreccio delle forze che agiscono nelle varie società storiche per scoprire coerenze e discordanze delle istituzioni e delle leggi rispetto alla loro essenziale necessità, al loro “esprit”. Le leggi fondamentali dello Stato prescindono dal principio e dalla natura del governo che per Montesquieu può essere repubblicano, monarchico o dispotico, a seconda che vi prevalga il principio della virtù, dell’onore o della paura. La stabilità dello Stato dipende dal principio del governo e si basa sulla coerenza delle sue leggi. Nella situazione storica in cui le leggi si dimostrino aberranti dall’esprit général che le ha determinate e le sorregge è necessario individuare la natura e la ragioni dell’errore. Quando il principio si corrompe, le migliori leggi diventano distruttive. Il principio della democrazia, ad esempio, si corrompe quando la nazione perde lo spirito d’uguaglianza o lo interpreta arbitrariamente. Nel suo capolavoro Montesquieu si propone di estendere allo studio della società umana il metodo sperimentale per fissare dei “princìpi” universali volti ad organizzare logicamente l’infinita molteplicità delle usanze, delle norme giuridiche, delle credenze religiose, delle forme politiche e per formulare, infine, leggi obiettive secondo le quali si articola costantemente, sotto l’apparenza del caso, l’incostante comportamento degli uomini. Non rifiuta la concezione machiavellica della politica come forza, ma la integra con un’accurata analisi delle molteplici “cause” – storiche, politiche, fisiche, geografiche e morali – che operano negli eventi umani. Le leggi positive formulate da Montesquieu riguardano principalmente: il diritto delle genti (leggi che regolano i rapporti esistenti tra i vari stati); il diritto politico (leggi che regolano i rapporti tra Stato e società civile); il diritto civile (leggi che regolano i rapporti tra i componenti della società civile). Rinuncia comunque alla ricerca della miglior forma di Stato, cara alla letteratura utopistica, e tenta di stabilire, concretamente, le condizioni che garantiscono, nelle diverse forme di governo, l’optimum della convivenza civile: la libertà. Il suo realismo e relativismo si salda con un alto intento normativo: un invito alla razionalizzazione delle leggi e delle istituzioni.
DA MARX ALLA RIFONDAZIONE. Giovanni De Sio Cesari.
PREMESSA. Nel secolo scorso due grandi movimenti mondiali si sono confrontati su tutti i piani possibili: il socialismo e il capitalismo. Il socialismo (e il comunismo) parlava di uguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà, era dalla parte dei poveri e degli oppressi; il capitalismo (liberismo) invece esaltava la competizione, puntava sull'egoismo, era dalla parte dei potenti. Per questo i giovani, i poeti, gli intellettuali, tutti quelli che avevano a cuore le sorti dell'umanità inclinavano sempre verso il socialismo. Tuttavia alla fine del secolo il capitalismo (liberismo) si è dimostrato, potremmo dire “purtroppo”, la forma più adatta alla civiltà industriale: il socialismo in parte è confluito nel capitalismo stesso e nella sua manifestazione più coerente e radicale, il comunismo, si è dissolto. In particolare il comunismo marxista è stato, in positivo o in negativo, il protagonista della storia del secolo scorso: nel nostro secolo invece è sparito come grande movimento storico anche nei paesi che si dicono ancora comunisti (Cina, Viet-nam tranne forse Cuba e Nord Corea) ed è rimasto una aspirazione di piccole minoranze politicamente ininfluenti. Almeno per le prossime generazioni il socialismo può rimanere una bella e nobile ideale ma non ha nessuna possibilità di realizzazione nella realtà nei fatti. Per un secolo quasi quindi Marx è stato il punto sul quale il mondo si divideva fra quelli che lo sostenevano e quelli che gli erano contrari: adesso il suo pensiero è fuori della realtà politica ma può dare suggerimenti, spunti, idee. Succede per Marx come per Mazzini o per Voltaire: ai loro tempi divisero il mondo ma ora sono un patrimonio comune: non siamo più contro o a favore di Mazzini, come i nostri antenati, ma giudichiamo storicamente Mazzini (e i liberali) insieme ai loro avversari reazionari, qualche volta anche riabilitandoli (come i Borboni di Napoli). Però Mazzini e gli illuministi furono dei vincitori nella storia nel senso che le generazioni che vennero dopo di loro li acclamarono come propri maestri: la storia invece ha dato torto a Marx: le statue di Mazzini sono ancora ovunque ma non se ne vedono di Marx. Ma questo nulla toglie al fatto che il pensiero di Marx rimane uno dei fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà. Il termine di marxismo e di comunismo viene usato in molti significati diversi e tutti validi e non ha senso parlare di "vero" comunismo contrapposto a un "falso" comunismo: le parole importanti hanno sempre tanti significati diversi e non vi è certo un copyright sul termine. Si definiscono comunisti e marxisti Stalin e Troztski, Togliatti e i sessantottini, Mao e Deng Xiaoping, (attuale dirigenza cinese ). Fondamentale è la distinzione poi fra pensiero marxiano (proprio di Marx, d'altra parte con tante interpretazioni ) e il marxismo (cioè il movimento che si fa ad esso, estremamente vario). In questa lavoro intendiamo mostrare brevemente l’evoluzione dal pensiero proprio di Marx fino a certe posizioni della cosi detta Sinistra Alternativa (S.A.) diffusa in tutto il mondo occidentale che, benchè tagliata ormai fuori dalla possibilità di governo, tuttavia mantiene un suo seguito vivace e attivo nella vita politica.
MARX : LA SCIENZA. La teoria di Marx non era un semplice pauperismo, incentrato sulle idee di giustizia e umanità (socialismo utopistico) ma voleva essere una disanima scientifica. La sua opera fondamentale venne intitolata, non a caso. “il capitale” (non “il comunismo”) perchè Marx intendeva mostrare, attraverso una analisi scientifica dell’economia capitalista che essa necessariamente doveva dissolversi per le proprie contraddizione interne e strutturali , non superabili. In sintesi, senza scendere nelle argomentazioni tecniche, Marx legò la sua dottrina alla previsione "scientifica" che i ricchi sarebbero stati sempre più pochi e sempre più ricchi (borghesi) e i poveri sarebbero stati sempre più numerosi e sempre più poveri (proletari) con la sparizione del ceto medio e dei lavoratori indipendenti. Ma questa previsione non si è affatto verificata: anzi è avvenuto il contrario di quanto previsto da Marx. In tutti i paesi capitalistici il ceto medio si è esteso fino a comprendere la grande maggioranza della popolazione e i lavoratori indipendenti sono sempre più numerosi di quelli dipendenti. Non esiste quindi una lotta del proletariato contro la borghesia perchè le due classi, nel senso marxiano, non esistono più. Le minoranze povere come gli emarginati, i giovani disoccupati, le famiglie monoredditi, gli emigrati, sono cosa diversa dal proletariato marxiano. I lavoratori non si identificano più con i salariati proletari di Marx: la classe dei lavoratori ha cambiato profondamente i suoi i caratteri. In essa confluiscono gli operai e gli impiegati, i dipendenti e gli autonomi, i professionisti e gli artigiani e i piccoli imprenditori e anche i pensionati e disoccupati: praticamente la classe lavoratrice si identifica con la nazione nel suo insieme. Resterebbero fuori solo i grandi industriali: la lotta di classe consisterebbe allora nella nazionalizzazioni delle grandi imprese: la cosa è stata fatta nel passato e ha dato risultati cosi negativi e catastrofici che tutti ora vogliono fare le privatizzazioni: non sarebbe certo nell'interesse generale cioè dei lavoratori. La lotta di classe attualmente è un concetto privo di significato. Il pensiero di Marx aveva una valore scientifico nel significato moderno del termine cioè non nel senso di verità assoluta (come fu inteso nei suoi tempi e dallo stesso Marx) ma di ipotesi che andava verificata nei fatti. Nella scienza moderna, infatti, si riconosce che non si può giungere alla verità ultima e definitiva dei fenomeni, alla essenza cioè come nella scienza antica ma che le leggi scientifiche sono ipotesi che spiegano i fatti FINO AD ORA osservati. Poichè nel caso di Marx la previsione si è dimostrata errata evidentemente anche la teoria era errata, come avviene nel campo delle scienze. Ma il fatto che le previsione non si siano verificate non toglie al fatto che la teoria fosse scientifica: bisogna solo prendere atto che si tratta di una teoria superata , “falsificata”, come si dice, dai fatti. Essa comunque conserva una grande importanza culturale e costituisce pur sempre una delle componenti fondamentali della cultura moderna.
SOCIALISMO REALE: LA RELIGIONE. E poi venne nel ‘17 la Rivoluzione Bolscevica in Russia. In realtà si trattava di qualcosa di profondamente diverso da quanto previsto “scientificamente” da Marx. Non si trattava della crisi finale del capitalismo, dell’esplodere delle sua contraddizioni perchè il capitalismo in Russia era appena appena ai primi passi e l’economia era ancora sostanzialmente a carattere feudale. Non esisteva quindi una proletariato nel senso marxiano del termine ma una sterminata moltitudine di contadini intrinsecamente tradizionalisti, come avrebbe detto Marx. Soprattutto non insorgeva, per il comunismo, il popolo nel suo complesso ma una minoranza esigua di rivoluzionari di professione che affermavano, e credevano effettivamente, di essere la autocoscienza del popolo. La caduta del capitalismo era intesa da Marx come un processo spontaneo, irreversibile, sostanzialmente pacifico che sarebbe avvenuto quando i tempi sarebbero stati maturi. Non a torto si era detto che il “Capitale ” era il libro dei capitalisti: si aspettava il crollo ma fino a che esso non sarebbe avvenuto il capitalista poteva tranquillamente godersi la propria ricchezza fino al grande giorno della Rivoluzione: i capitalisti potevano tranquillamente credere in Marx. Ma la Rivoluzione Russa era qualcosa di radicalmente diverso. Tuttavia si affermò che era una strada nuova, non prevista, si pensò anche che era un caso che la Rivoluzione fosse scoppiata in Russia e ci si aspettava che essa fosse dilagata rapidamente nel mondo capitalistico occidentale in America, in Inghilterra, soprattutto nelle Germania della crisi del dopoguerra. Ma questo non avvenne: alla fine degli anni 30 apparve chiaro ed evidente che la rivoluzione comunista non si sarebbe estesa in tempi brevi fuori dalla Russia: di fatto essa poi si estese a paesi poveri ed arretrati come la Cina. Invece in Russia si impiantò il regime staliniano: si sospettavano dappertutto complotti capitalistici, spie delle nemici, una città assediata che esigeva il massimo della disciplina, monastica più che militare. Ma se i fatti avevano smentito la teoria scientifica marxiana, Il marxismo allora divenne allora una religione, la più grande religione del ‘900. Allora tanta parte dell’umanità credette veramente che il regime sovietico avrebbe portato al mondo intero prosperità, giustizia pace. E ci voleva davvero una grande fede per credere che dagli orrori staliniani potesse nascere la società comunista prefigurata da Marx che è come dire che l’inferno in terra avrebbe prodotto il paradiso in terra. Come pensare che un regime che aveva provocato carestie spaventose, che aveva mandato a morte la grande maggioranza dei propri stessi dirigenti in spaventosi processi farsa, che dappertutto aveva sparso il terrore come nessun altro nella storia, era premessa della liberta, della prosperità, della umanizzazione. Ma in tanti ci credettero e i Don Peppone di tutto il mondo pensavano “ha da venì baffone” come di colui che avrebbe finalmente estirpato dal mondo una volta per sempre la ingiustizia e la povertà. E in tanti, in milioni, sacrificarono a questa fede terrena la loro vita e anche la verità e l’evidenza. A un certo punto gli stessi regimi comunisti si resero conto della impossibilita di raggiungere la società preconizzata da Marx. Allora la prospettiva del comunismo marxiano viene allontanato indefinitivamente nel tempo, diviene in pratica una richiamo teorico ufficiale ma in realtà si abbandonò il progetto concreto di instaurarlo, almeno in un futuro prevedibile. Si passa allora a quello che viene definito “capitalismo di stato” e i paesi comunisti in qualche modo si omologano al resto del mondo. L’evidenza e la verità erano divenute troppo forti perchè potessero ancora essere ignorate. Crollò allora la fede nel socialismo reale degradato a capitalismo di stato e il grande sogno del comunismo si spense lentamente nelle masse di tutto il mondo, lasciando un grande vuoto. Il comunismo era rappresentato da Stalin e Togliatti, Mao o i Kmer rossi, da quel terzo dell’umanità che aveva abbracciato quel sistema che sembrava allargarsi all'Asia tutta, all'Africa, all'America Latina: "le campagne che assediavano le citta," si disse. Poi a un certo punto è stato detto che quello non era il "vero" comunismo marxista, si e' parlato di "strappo" (nel 68), di "esaurimento della spinta propulsiva". Poi quel sistema è imploso improvvisamente dappertutto per decisone unanime degli stessi dirigenti (fatto forse unico nella storia) fra la soddisfazione dei popoli. Nessuno si richiama ad esso ma si parla al più di una rifondazione mentre invece il modello liberistico non solo ha vinto la sfida ma ha preso dovunque il posto del comunismo (Cina, Russia, paesi dell'est).
LA RIFONDAZIONE : LA SETTA. Ma se i regimi comunisti ormai sono spariti o quasi dalla storia quella antica religione del comunismo non è affatto spenta: continua nei gruppi della Sinistra Alternativa, piccoli di numero ma estremamente attivi sul piano ideologico e delle manifestazioni politiche. Già negli anni 60, e poi soprattutto con la contestazione del 68, quaranta anni fa ormai, si disse che non era finito il comunismo marxista ma solo una sua deviazione che non aveva niente a che fare con il vero pensiero marxiano. Infatti quando si dissolsero i miti comunisti, la maggioranza dei comunisti con Berlinguer si posero come i “veri” democristiani (la definizione e’ di Pasolini) cioè quelli che volevano realizzare quello che i democristiani avevano promesso ma non realizzato e massima aspirazione il compromesso con DC stessa: la democrazia borghese divenne allora la democrazia e basta, il capitalismo divenne l’economia di mercato, e si fece lo strappo da "Mosca". Ma la minoranza combattiva e motivata invece voleva rifondare il comunismo su nuove basi che non fossero quelle del socialismo reale: continuò sempre a vagheggiare una società alternativa ma in modo sempre più confuso e vago. L'esigenza della rifondazione nasce dall'idea che il comunismo realizzato sia una cosa sostanzialmente diversa da quello che Marx intendeva: si dice qualcosa di vero ma si pone anche una grande questione che non può essere ignorata: perche mai tutti quelli che per due generazioni hanno detto, e sono stati universalmente creduti, di seguire Marx, perche mai tutti poi hanno costruito sistemi tanto diversi da quello marxista? Perche erano tutti dei malvagi, dei traditori opportunisti, spie della CIA? Chi mai ci crederebbero e comunque nello spirito di Marx sono le condizioni materiali e non la moralità degli uomini a fare la storia. Non si accetta la spiegazione più elementare: il pensiero di Marx era inattuabile e per questo chi ha cercato ostinatamente di attuarlo ha costruito qualcosa di diverso, ha creduto di portare il paradiso in terra ma ha invece costruito solo l'inferno in terra. Quando vi era il grande partito comunista guidato da Togliatti, il migliore, il discorso era chiaro: si contrapponeva alla democrazia borghese la dittatura del proletariato, al capitalismo la economia pianificata, all’America l’Unione Sovietica. L’alternativa attualmente proposta invece non si capisce bene “cosa” sia, con quali “mezzi” attuarla (la rivoluzione e la via elettorale sembrano ambedue escluse), soprattutto “quando” (non pare in questa generazione). Alla fine raccoglie consensi da un piccolissimo gruppo di appassionati e dai molti scontenti (voto di protesta). L’inquadramento della realtà non corrispondono a quello della gente (cioè di quelli (nella stragrande maggioranza) non particolarmente politicizzati): la gente ha il problema del mutuo, della precarietà, dell’aumento degli alimentari e la S.A. parla di Multinazionali, di Afganistan, della base di Vicenza, di fascismo. I modelli cioè sono quelli di un altra società ALTERNATIVA e non corrispondono a quelli della società attuale: in altre parole si tratta di una filosofia che vagheggia una società che non esiste e non di un discorso politico che indica i mezzi per operare in quella che c'è. I gruppi marxisti hanno quindi assunto l'aspetto di una setta che va sempre più rimpicciolendosi ma che resiste, coraggiosa e indomita. Come tutte le sette è chiusa in se, impermeabile al mondo esterno: ritiene che tutti gli altri, il 98% delle persone non ha capito nulla o che è corrotta, o che è succube di un inganno globale o della TV, che ogni avvenimento si spiega con il complotto dei capitalisti e della Cia. Afferma che la fine del mondo capitalistico è dietro l’angolo anche se poi se ne sposta continuamente la data come fanno i testimoni di Geova, sulla fine del mondo. Anche le parole assumono significati diversi da quelli comuni e compare un frasario oscuro, incomprensibili ai non adepti. Non avendo quindi proposte proprie, concrete ed effettive, ha sostenute le “buone” cause che però non c’entravano niente con il comunismo: il pacifismo il divorzio, i gay, l’anti consumismo. Per colmo di assurdo sostengono pure HAMAS che è quanto di più lontano si possa immaginare dal comunismo e dalla sinistra in generale. Tuttavia i gruppi marxisti della Sinistra Alternativa assolvono a una importante funzione nelle democrazie occidentali in cui sono comunque inseriti e partecipi: rappresentano infatti la voce dissenziente che mette in discussione i concetti dominanti, le prospettive condivise, la direzione stessa verso cui corre la società. Costituiscono quindi una riserva essenziale di pensiero critico che va oltre le prospettive immediate e realizzabili, di tenere aperta cioè una alternativa logica alla necessita del momento. Riveste cioè quelle caratteristiche che furono anche nella storia del passato proprie delle sette alle quali si devono anche molti sviluppi della civiltà e della cultura. Giovanni De Sio Cesari
La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.
LA GUERRA ALLA CANAPA E IL POLITICALLY CORRECT DI DESTRA. Dimitri Buffa il 3 giugno 2019 su opinione.it. Il politically correct è un’invenzione della sinistra. Ma da tempo a destra viene scimmiottato. Basta cambiare di segno alcuni tabù e il gioco è fatto. La sinistra ha il buonismo, la destra il proibizionismo sulla droga e il punizionismo degli stili di vita. E questo è il primo parallelo che salta agli occhi. In entrambi i casi si tratta di cose stupide e poco pratiche. Dire “accogliamoli tutti” è altrettanto velleitario che dire “facciamo la guerra alla canapa”. Anche quella senza effetti stupefacenti. Ebbene, i rampanti nuovi “capitani” di questa destra che legittimamente aspira al governo della nazione Italia, perché non prendono esempio dai loro omologhi olandesi, come Geert Wilders, anche loro militanti anti islam e anti immigrazione selvaggia, ma tutt’altro che irragionevoli proibizionisti sulla canapa, light o hard che sia? Si parla dello “stato spacciatore”, ma perché si concentra questa furia proibizionista su un prodotto come la canapa che, con o senza il thc, rimane uno dei prodotti più innocui in natura alla faccia dei finti studi di alcuni scienziati politicizzati che dai tempi della Fini-Giovanardi sparano balle col cannone per dimostrare l’indimostrabile? Non esiste in natura la possibilità di avere effetti letali per ingestione o inalazione di cannabis. Mentre si può entrare in coma etilico alla seconda bottiglia di vodka, per arrivare a una dose letale di thc bisognerebbe mangiarsi in una botta sola qualche etto di resina di hashish. Ed esistono maniere più comode per suicidarsi. Ma al di là dell’effetto dopante, la canapa light dei negozi adesso di moda per la criminalizzazione propagandistica, semplicemente vendono un prodotto senza alcuna attività dopante. Lo stato spacciatore che vende alcool, sigarette e psicofarmaci perché dovrebbe menare scandalo se permettesse la vendita della cannabis con il thc e tanto più quella senza? Questo proibizionismo tutto centrato sulla canapa ricorda i primordi del proibizionismo degli anni ’30 in America. Guidato dalla mafia italo americana. Quando legavano il consumo da parte dei negri alla violenza sulle donne bianche nei manifesti che imbrattavano la New York di Fiorello La Guardia. Avevano appena perso la gallina dalle uova d’oro dell’alcool proibito su qualche altro consumo di massa occorreva puntare. E si badi bene che la scelta cadde sulla canapa proprio perché la fumavano tutti. Già negli anni ’30. Nel mondo c’è un intero continente di assuntori di erba e hashish (le statistiche parlano di 300 milioni di persone) e con quelli la mafia fa i soldi. Tutto sommato eroina e cocaina al consumo di massa non sono mai arrivate. Non a quei numeri comunque. E i numeri che ogni anno la Direzione nazionale antimafia fornisce confermano questo assunto. Anche se con la cocaina un enorme sforzo criminale in questo senso è stato fatto dalla fine degli anni ’70 in poi. Parlare come fa Salvini sulla canapa è anche fuorviante e pericoloso. Il messaggio che ogni droga è uguale tende a livellare tutto verso il consumo più pericoloso delle droghe pesanti. La propaganda è perniciosa e si rivolta sempre contro chi cavalca queste bugie. Da ultimo la parabola di Gianfranco Fini - che voleva mettere in carcere chi si faceva le canne e che rischia di finirci lui per riciclaggio insieme a questo signor Corallo il cui padre in America viene segnalato come uno dei boss del settore narco traffico - è molto significativa. Insomma si può essere di destra, per legge e ordine, senza necessariamente avventurarsi con le sirene del punizionismo moralista su sesso, droga e rock ‘n’ roll. I consumatori di canapa indiana, leggera o hard che sia, non sono tutti tribù di “zecche” dei centri sociali o apostoli dell’“accogliamoli tutti”. Ce ne sono milioni pure di destra. Così come ci sono centinaia di migliaia di omosessuali che votano Salvini. Perché allora regalare questa gente a una scialba a e opportunista sinistra che cavalca tutto quello in cui non crede pur di raccattare voti? Infine sulla cannabis light va fatta un’ulteriore riflessione, in attesa di conoscere le motivazioni di questa sentenza che molto probabilmente non cambierà nulla al di là di come è stata venduta dai servili mass media della tv pubblica del “neo sovranismo de noantri” (si dice che il commercio non può continuare nel dispositivo “a meno che la sostanza non abbia effetti droganti”, cioè esattamente come è oggi, ndr): se un ragazzo oggi spinto dagli amici va in giro a cercare cannabis non light ne trova quanta ne vuole anche sotto casa, visto che il mercato è capillare e incontenibile. Se invece si accontentasse della trasgressione “dethcizzata” dei negozi di cannabis light non sarebbe meglio? Quelli che non possono bere il caffè da sempre si bevono il decaffeinato, non è la stessa cosa? O si pensa di fare una cosa intelligente iniziando la battaglia contro l’alcoolismo vietando le birre analcoliche?
Il problema della destra con la canapa è solo una idiozia ideologica, un tabù, un politically correct all’incontrario. Si è rimasti col cervello infantilista all’epoca in cui i compagni si facevano gli spinelli e portavano i capelli lunghi e li si odiava per questo. E l’infantilismo della politica sembra non evolvere mai verso la razionalità.
Il nuovo fascismo: Liberale, Antifascista ed Europeista. Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019 su Nicolaporro.it. Caro Nicola, oggi il mio pezzo comincia a mo’ di lettera perché dobbiamo riconoscerci sconfitti. La nostra battaglia per la libertà, di parola prima di tutto, condotta fin dall’inizio da te, e da noi tutti, è persa. Me lo confermano due recenti fatti. Uno, di cui scrive Azzurra Barbuto su Libero del’8 ottobre: un insegnante livornese accusata di razzismo, e richiamata dai superiori, per aver proposto in classe un’esercitazione in cui si contrapponevano le ragioni dei favorevoli a quelle dei contrari all’immigrazione, senza prendere posizione. Come ha osato? Sarebbe come se nella Germania nazista si fronteggiassero le ragioni dei nazisti a quelle degli altri: l’accusa di essere ostile al Fuhrer sarebbe scattata subito. O come se in uno qualsiasi dei regimi comunisti si opponessero le ragioni del marxismo-leninismo a quelle degli altri: insegnante buttata fuori subito in quanto “traditrice del popolo”. Secondo fatto, da La Verità del 9 ottobre: i verdi italiani, riunitisi in una cabina telefonica, chiedono formalmente ai giornali e alle Tv di non ospitare le ragioni degli scienziati negazionisti: quelli che non credono alla (balla) della emergenza climatica. Non si capisce quale ritorsione i gretini nostrani minaccino, per i reprobi che continuino a pubblicare, ad esempio, Franco Battaglia. Ma l’avvertimento è lanciato. Di fronte a tutto ciò dobbiamo dichiararci sconfitti. E in nome del “nuovo umanesimo” professato da Giuseppi e i suoi fratelli (nel doppio senso) dobbiamo essere costruttivi. Ecco alcune proposte. Gli insegnanti di ogni grado, dai nidi all’università, dovranno rispettare i valori del SELA (Stato Etico Liberale Antifascista) che sono: 1) l’Antifascismo (che non abbisogna di spiegazioni, esso è, come l’Essere parmenideo); 2) l’immigrazione è positiva e gli immigrati (tutti profughi) sono intrinsecamente buoni, ci arricchiscono sia materialmente che spiritualmente; 3) l’emergenza climatica è un dogma inoppugnabile; 4) l’Europa è la nostra patria, le nazioni e i confini non esistono, l’Euro ci ha reso tutti più ricchi e felici. Gli insegnanti sono obbligati, al di là delle loro materie, a insistere sempre su questi valori e a ribadirli durante le ore di lezione: quindi avremo la Letteratura Liberale, la Matematica Liberale, il Disegno tecnico Liberale, la Musica liberale, e via dicendo. Apposite ore saranno tuttavia riservate per l’insegnamento della MLAE (Mistica Liberale Antifascista Europeista). Qualsiasi insegnante sia colto a mettere in dubbio questi valori sarà immediatamente licenziato ed eventualmente deferito al TDRLA (Tribunale per la Difesa della Razza Liberale Antifascista). Sarà fatto divieto agli insegnanti di mettere in dubbio i valori del SELA anche sui social, che saranno controllati da un‘apposita commissione del Ministero della Educazione Liberale Europeista. Chiunque anche solo ponga un like su post contrari ai valori del SELA sarà licenziato. Ma poiché il privato è pubblico e il pubblico è privato, grazie ai sistemi di ricognizione facciale e alle tecnologie introdotte dalla Cina comunista (un modello per il SELA), l’insegnante sarà licenziato anche se dovesse dubitare dei valori Liberali Antifascisti Europeisti in piscina o al bar. Sui pensieri, si sta lavorando, ma anche qui con l’apporto di Pechino si stanno facendo passi avanti. Per quanto riguarda invece i giornalisti, chiunque voglia scrivere su testate cartacee, on line o in tv o in radio dovrà possedere la tessera dell’OGLE (Ordine dei Giornalisti Liberali Europeisti). Qualsiasi giornale ospitasse pezzi scritti da estranei all’Ordine sarà chiuso. Ogni pezzo sarà comunque preventivamente controllato dal Ministero della Cultura Liberale Antifascista, ricordato più speditamente come MINCULA (senza apostrofo). Il MINCULA provvederà, attraverso appositi algoritmi, a modificare e a riscrivere pezzi che mettano in dubbio i valori del SELA. E’ chiaro che alla quinta modifica di pezzo nel corso di un mese, il MINCULA farà chiudere il giornale. Tutto questo, oltre che estremamente Liberale Antifascista ed Europeista, mi sembra anche nuovo per il nostro paese. O no? Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019
GENERAZIONE Z 2. Carole Hallac per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Addio Millennials. All' Advertising Week di New York i riflettori sono puntati sui Gen Z, il gruppo demografico più influente del pianeta, e che entro il 2020, rappresenterà 2.56 miliardi di individui e conterà il 40% dei consumatori. Chi sono i Gen Z? Nati dopo il 1996, sono la prima generazione di «social natives», e usano in maniera istintiva e naturale i social media. Bombardati da continue informazioni, la curva per attirare la loro attenzione è di soli otto secondi, ma possono guardare Netflix per ore. Passano di media nove ore al giorno davanti allo schermo, quattro di queste facendo diverse cose allo stesso tempo in quanto abilissimi al multitasking. Per loro, mondo virtuale e quello reale sono realtà complementari, e alcuni considerano Alexa parte della famiglia. Sono diffidenti verso la classe dirigente, e più sovversivi dalle generazioni precedenti, capaci con un tweet di mobilitare un boicottaggio o creare un movimento per una causa a cui credono. La «we generation» I Gen Z si distinguono dai Millenials, considerati la generazione dell'«io», per essere quella del «noi» e usano i social media per creare comunità e non solo connessioni individuali. Pensano al noi in senso globale, non solo al proprio cerchio di amicizie, e sono sensibili al benessere collettivo. Negli Stati Uniti, il 51% appartiene a gruppi di minoranze, una diversità che vogliono celebrare. Questo vale anche per l' orientamento sessuale: solo due terzi si considera eterosessuale, e sin da piccoli, rigettano la divisione binaria spronando Mattel a introdurre una bambola no gender. Hanno a cuore l' eco sostenibilità, scegliendo brand e aziende che considerano etici (70%), sia per gli acquisti che quando entrano nella forza lavoro. Desiderio di autonomia Grazie all' uso delle risorse online, in particolare YouTube, i Gen Z hanno l' abilità di auto educarsi e ritenere un grande numero di informazioni. «Maturano sia fisicamente che mentalmente prima delle altre generazioni - spiega Monica Dreger, VP di Mattel - e ora sono parte delle decisioni importanti in famiglia, come l' acquisto di una casa o di una macchina». Il desiderio di autonomia spinge molti a lasciare gli studi dopo il liceo o lanciare il proprio business, e, sul lavoro, prediligono l' indipendenza mentre i Millennials cercano la collaborazione.
Il rapporto con i social. Il 94% dei Gen Z usa almeno un canale social, a cui quasi la metà ammette di essere costantemente connessa. In una ricerca dell' agenzia Hill Holiday, è pero emerso che il numero di Gen Z cui i social fanno sentire ansiosi, tristi o depressi, è in aumento (48% contro 41% nel 2017). Molto più giovani stanno cercando di staccarsene temporaneamente (il 58% contro il 50% del 2017), e di questi, un terzo si è completamente disconnesso. Tra le cause, la perdita di tempo, la negatività online, problemi di stima e preoccupazioni sulla privacy. Si rileva un aumento di "Finsta", finti profili Instagram in cui danno accesso a un numero ristretto di amici e sentono meno pressioni di pubblicare immagini di una vita perfetta. Ciò nonostante, il 74% ritiene che i social abbiano più benefici che svantaggi, come l' abilità di connettere con altri. Tra i canali in crescita, Tik Tok (40 milioni di utenti), e la piattaforma di gaming Discord (250 millioni). Come conquistarli La parola chiave per la Gen Z è l' autenticità. «I brand devono prendere sul serio il messaggio che vogliono comunicare, non può essere solo di apparenza - spiega Ziad Ahmed, fondatore ventenne di JUV Consulting, società di consulenza focalizzata sulla Gen Z - Abbiamo un filtro naturale per l' inautenticità». Vogliono sentirsi unici, scegliendo prodotti esclusivi, ad edizione limitata e personalizzati, e amano lo shopping esperenziale, spingendo molti brand digitali a creare negozi e pop up shop.
Greta Thunberg e Carola Rackete, ambientalisti e Ong fanno un partito insieme. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Tira una brutta aria in politica. Eravamo convinti di aver visto il peggio con la nascita del governo giallorosso, i grillo-comunisti al potere e la loro ideologia a metà tra Utopia e Incompetenza. E invece, tenetevi forte, al peggio non c' è mai fine perché stanno arrivando i gretini al seguito della Thunberg, il movimento dei Fridays For Future, ossia del cazzeggio del venerdì per bigiare la scuola, che ora ha intenzione di trasformarsi in un partito. Sì, ma mica un partito di periferia, buono a candidarsi per le elezioni locali. No, un partito globale. Dopo il successo avuto dalle piazzate dei ragazzini ecologisti in mezzo mondo, Greta & Co. sono pronti a fare il grande passo, a scendere in politica, sfidando dall' interno quel Palazzo che contestano, anzi aprendolo come una scatoletta di tonno, se non fosse che questa espressione è già stata usata ed è un po' troppo poco ecologista. Il Climate Party, il partito del Clima, cui darebbe vita la Thunberg, intende superare i «partiti verdi e ambientalisti che si sono impantanati nei giochi di potere dei parlamenti nazionali e regionali», si legge su Italpress, e proporre «una piattaforma programmatica alle elezioni, comune in tutti i Paesi occidentali», per dare vita - udite udite - a una «leadership governativa internazionale».
CORSI E RICORSI. L' ultima volta che un partito ha avuto una vocazione Internazionale è stata ai tempi del Partito comunista, e sappiamo come è finita. I proletari di tutto il mondo non si sono uniti spontaneamente; viceversa l' idea è stata imposta negli altri Paesi con esiti sanguinari. A questo retaggio globalista i gretini associano il mito della democrazia diretta e digitale, della E-democracy come a loro piace chiamarla. L' obiettivo è portare in politica i cittadini comuni, gli adolescenti dell' antipolitica, volti nuovi, candidi e quindi candidabili, facce pulite anche perché odiano tanto lo smog e l' anidride carbonica. Ma il problema, oltre che anagrafico, è di competenza: con quale esperienza, con quali conoscenze, con quali capacità di leadership questi sbarbatelli andranno a comandare, per dirla con Rovazzi? Non rischiamo una nuova accozzaglia di incapaci buttati lì nei Palazzi, mandati al macello, e allo stesso tempo in grado di mandare in malora tutto l' Occidente? Non bastavano i grillini, ora ci toccano pure i gretini. Il dramma è che alla loro ingenuità sommano pretese smodate come quella di salvare il pianeta, con un cocktail letale tra inettitudine e scarso senso della realtà. Questo Partito del Clima intende addirittura sfidare le superpotenze del Male come Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, che «hanno anteposto gli interessi militari e nazionali al rispetto dell' ambiente». Ma ve li vedete quattro adolescenti imberbi e una paladina delle emissioni zero con le treccine far cambiare rotta a Putin, a Xi Jinping, a Modi? Ah be', c'è Greta Thunberg, c'è il partito del Clima, deindustrializziamo subito, torniamo a un' economia rurale Orsù, non fateci ridere. Aggiungici poi l' ideologia dello sconfinamento. Perché tutto, secondo i gretini, deve stare entro i parametri, i limiti (le emissioni, i consumi, lo sfruttamento delle terre coltivate), tranne le nazioni che devono perdere i loro confini e diventare globali. E qua l' ideologia di Greta si salda con quella di Carola, con lo slogan No Borders, con l' essere cittadini del mondo, e non figli di un luogo e di una storia. Soprattutto, però, quello che nausea è scoprire che la partecipazione genuina, l' ambizione nobile a cambiare le coscienze dei grandi del mondo, la battaglia senza doppi fini dei ragazzini si risolve, come sempre, in scopi molto più meschini: l' obiettivo di far carriera, di essere eletti e magari riuscire a occupare un giorno le stanze dei potenti.
COME FINIRÀ. Resta solo da capire chi guiderà, quali saranno i colori e come si chiamerà ufficialmente questo partito del Clima. Per la leadership Greta pare avvantaggiata, anche se al momento non può ancora eleggere né essere eletta e quindi per un paio d' anni dovrà farsi aiutare da qualche vicario. Per il colore, il verde sarebbe troppo sputtanato perché già utilizzato dai Verdi e dalla Lega: i gretini farebbero meglio a utilizzare un colore trasparente, come l' aria che vogliono respirare e come le loro idee, così trasparenti da essere invisibili. Per il nome, si potranno sbizzarrire con le sigle: Il Partito della Tripla Fi come Fridays For Future oppure C & G che non è la versione tarocca di Dolce e Gabbana ma sono le iniziali di Carola e Greta. Oh, però sti ragazzini devono fare in fretta. Nel 2030 il pianeta si estingue e, se non scendono in campo ora, rischiano di essere morti prima ancora di essere eletti. Gianluca Veneziani
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il lungo viaggio temporale in Italia.
Come si è formata l'identità italiana. Viaggio nell'identità italiana: come si è formata e come si modificherà ancora? Matteo Carnieletto, Domenica 13/12/2020 su Il Giornale. "Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani". Questa frase è il sunto di un pensiero ben più ampio di Massimo D'Azeglio, uno dei padri fondatori del nostro Paese. A distanza di più di centocinquant'anni dalla nascità dello Stato italiano - e il passaggio tra due guerre mondiali - è ormai chiaro quali sono i confini e l'identità della nostro Stato. Un po' meno quella degli italiani, a volte troppo distratti o addirittura non interessati alla propria identità. Ma cosa definisce un italiano tale, dato che la sua identità è il frutto di un continuo via vai di popoli e di culture? Il suo aspetto fisico? Solo in parte. Se si visita M9, il museo del Novecento di Mestre nato anche grazie all'intuizione di Cesare De Michelis, si scopre che siamo cambiati molto rispetto ai nostri avi. Come spiega il museo, infatti, i cambiamenti tecnologici degli ultimi anni hanno cambiato profondamente il nostro aspetto: "I miglioramenti economici e sociali del XX secolo non hanno cambiato solo la nostra vita: hanno trasformato anche il nostro corpo e i nostri lineamenti". Grazie ad alcuni "specchi magici" presenti all'interno della struttura, possiamo però vestire "i panni dei nostri antenati per vedere che aspetto avremmo avuto se fossimo vissuti in epoche diverse". Scartato dunque l'aspetto fisico, in continuo movimento, ci vuole ben altro per definire l'identità italiana. Come ci spiega Luca Molinari, nuovo direttore scientifico di M9: "Il museo è aperto e quasi i visitatori ci si perdono e si perdono all'interno del Novecento italiano. La nostra è una mostra impegnativa a livello di attenzione, ma aiuta a capire meglio chi siamo. Cosa determina la nostra identità? Ciò che mangiamo, ciò che facciamo, ciò che produciamo, ma anche ciò che roviniamo, come il paesaggio. M9 non è solo un museo di storia del Novecento – continua Molinari – ma è anche un laboratorio del contemporaneo. Questo per me è centrale. Abbiamo bisogno di immergere il museo nell’attualità: ovvero usare la storia del passato prossimo per raccogliere le sfide di un tempo che sta vivendo una trasformazione potente e drammatica”. In questa chiave il museo viene immaginato come “una casa aperta per tutti” cioè come un luogo “dove sperimentare il futuro nel presente”. Questa impostazione si traduce nel fatto che la mostra permanente dedicata alla storia del Novecento, cuore del museo, ”verrà attraversata da un’attenzione molto forte in termini di potenziamento per coinvolgere i bambini e le persone con fragilità. Quello che vogliamo fare nei prossimi anni è generare un museo a misura di bambini e fragilità”. Forse si può cominciare a tratteggiare il nostro identikit partendo dalla cucina, il luogo per eccellenza di tutte le case italiane. Dove ci si riunisce per mangiare, per bere un buon caffè e anche per discutere. Ma con una particolarità, come scrive John Dickie, autore di Con gusto. Storia degli italiani a tavola (Laterza): "Quando gli italiani mangiano i loro alimenti tipici, nel piatto c'è sempre un ingrediente in più che un forestiero non riesce a percepire: sembrerà retorico, ma questo ingrediente è l'orgoglio di campanile". Perché la cucina italiana non cambia solamente nel tempo, ma anche - e verrebbe quasi da dire soprattutto - nello spazio. "Perché il cibo italiano, quando è al suo massimo, è carismatico" - afferma Dickie - "E lo è per via di quel suo rapporto quasi poetico con il territorio e con l'identità: gli italiani mangiano così bene perché la cucina rafforza in loro il sentimento delle origini e dell'identità". Ora possiamo dire qualcosa di più dell'identità italiana: essa è fatta di tante piccole patrie. Di tanti piccoli orgogli locali, che si uniscono. "Quest’area tematica racconta l’evoluzione di questo spazio domestico attraverso la ricostruzione di quattro cucine di epoche diverse e le testimonianze di chi le ha abitate, evidenziando il ruolo dell’alimentazione nella costruzione dell’identità italiana, dai prodotti che hanno riempito l’immaginario e le pance dei nostri nonni sino alle nuove abitudini indotte dallo sviluppo della moderna industria agroalimentare", si legge sul sito del museo. Italia è anche la storia della sua politica, soprattutto quella più tormentata del Novecento. È infatti la Prima guerra mondiale a fare davvero gli italiani. È questo il momento in cui il siciliano viene spedito sull'Adamello insieme al veneto e all'umbro che, forse, si scoprono per la prima volta connazionali mentre imprecano contro chi li ha spediti lì. Al freddo e sotto il tiro dei nemici. Gli italiani perdono questa guerra fino a quando non capiscono, dopo la disfatta di Caporetto, che gli austriaci possono penetrare nell'entroterra. È a quel punto che reagiscono. È a quel punto che un giovane fante, Luigi Saccaro, pronuncia una frase che rimarrà nella storia: "Fin qui è arrivato il nemico, ma di qui non si passa". Una frase che riecheggia, anche se il fante italiano non poteva saperlo, quanto scritto da G. K. Chesterton: "Un vero soldato non combatte perché ha davanti a sé qualcosa che odia. Combatte perché ha dietro di sé qualcosa che ama". Anche questo fa parte della nostra identità. Dopo la Prima guerra mondiale è stato il momento del biennio rosso e poi del Fascismo, durato come noto un Ventennio. Uno dei tratti distintivi di questo periodo sono le piazze piene, soprattutto negli anni che Renzo De Felice definisce "del consenso". Per comprendere perché così tanti italiani siano rimasti affascinati da Benito Mussolini bisogna proprio partire da quelle piazze e provare ad ascoltare il Duce dalla mascella volitiva. All'interno del museo è infatti presente un'area, chiamata L’arena politica, in cui alcuni attori rimettono in scena alcuni tra i più importanti discorsi politici del Novecento: "Nel Novecento comizi, manifestazioni, scioperi e cortei costituiscono gli spazi, anche simbolici, del discorso e della vita politica, sino a quando, alla fine del secolo, le arene virtuali degli studi televisivi e dei social media si sovrappongono alle piazze, alle sedi delle istituzioni, alle sezioni dei partiti. Il corso della storia politica nazionale è segnato dall’intersezione tra la partecipazione delle masse e la presenza di leader carismatici". E anche questo è uno dei tratti distintivi della nostra identità: la passione per la politica e pure il vizio di cambiar bandiera, come disse sir Winston Churchill: "Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti". L'Italia è il paese di Don Camillo e Peppone, dei rossi contro i neri. Dove è possibile scannarsi - e i fatti dall'8 settembre in poi e degli Anni di piombo sono lì a ricordarlo - ma dove poi si può andare d'accordo su quanto di più importante, come scrive Giovannino Guareschi: "Bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tre il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un'aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, e là hanno un'anima anche i cani. Allora si capisce meglio don Camillo, Peppone e tutta l'altra meranzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente, però: cioè senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d'accordo nelle cose essenziali. Perché è l'ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l'aria. (...) Ecco l'aria che si respira in quella fettaccia di terra fuori mano: e si capisce facilmente cosa possa diventare laggiù la faccenda della politica". Dopo mesi di stop dovuti all'emergenza Covid-19, il museo è pronto a ripartire, come ha spiegato Michele Bugliesi, presidente della Fondazione Venezia, più accogliente di prima: "In questi mesi di stop abbiamo rivisto dalle fondamenta scopi, articolazioni e attività, e modello di gestione di M9, ora siamo pronti. Vogliamo che sia una casa aperta per tutta la città". Per questo sono stati preparati grandi investimenti per conquistare giovani e adulti attraverso nuovi laboratori e per riuscire a intercettare anche le comunità straniere presenti in Italia.
L'italiano che domò gli afghani: ecco chi era il terrore dell'Asia. Una storia di avventura, sangue e guerra che parte dal Regno delle Due Sicilie e finisce nell'antica Persia. Così Paolo Avitabile divenne il più pericolo giustiziere delle rivolte afghane. Davide Bartoccini, Giovedì 17/09/2020 su Il Giornale. Tra le vecchie storie che ancora si raccontano in Afghanistan, la scacchiera di sabbia e sassi dove da oltre tre secoli si disputa il “Grande Gioco” e noto per essere la "Tomba degli imperi", è ben impressa nella memoria di quanti vi hanno transitato la storia del generale Paolo Avitabile, un napoletano di umili origini, soldato di ventura e ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che arrivò nel vicino Oriente nel XIX secolo, per rimanere nella leggenda come Abu Tabela, “il terrore afgano”. Nato nel 1791 ad Agerola, altopiano che domina il mare tra Amalfi e Positano, Avitabile entrò sotto le armi giovanissimo, per sfuggire alla povertà, e imparò presto i segreti dell’arte militare che, oltre ai gradi di ufficiale, lo avrebbero presto portato ad ammodernare e comandare due tra i grandi eserciti d’Oriente. Dopo essere stato alle dipendenze delle Scià di Persia, raggiunse le inospitali alture che dividevano l’Afghanistan dall’India (oggi Pakistan) nel 1835. Ben presto divenne governatore della regione strategica del Punjab - crocevia fondamentale della “Via della Seta” e snodo fondamentale del Grande Gioco che intratteneva spie e diplomatici inglesi e russi - ma soprattutto si trasformò nello spauracchio di rivoltosi e criminali, data la sua inclinazione naturale a divenire una sorta di Vlad di Valacchia - il famoso conte Dracula - attraverso la sanguinaria pratica dell’impalamento, dell’impiccagione e dello squartamento dei briganti. Metodi “sbrigativi”, certo, ma quanto mai efficaci. Che gli costarono la fama di cruento e spietato despota, leggendario protagonista di storie terribili che vengono ancora raccontate ai bambini dei villaggi per intimorirli - "Se fai il cattivo di do' ad Avitabile", dicevano le madri ai bambini, come fosse l'Uomo nero o il Babau. Ma che gli permisero di mantenere il controllo dove nessun altro straniero era stato capace d’imporlo. Si dice infatti che Avitabile, ingaggiato appositamente per governare i territori separati dal Passo Khyber, si svegliasse ogni mattina con la ferma convinzione che lasciar penzolare un brigante dalla forca o direttamente dal minareto più alto della moschea di Peshawar avrebbe indotto gli altri a pensarci due volte prima di agire contro il suo governatorato. Così facendo avrebbe, presto o tardi, sedato scontri e disordini che infestavano quei luoghi dove ormai le armate sikh, affidate al suo comando dal maharaja Ranjit Singh, lo avevano già reso celebre con il nome di Abu Tabela. Un nome che ancora risuona in quelle valli così distanti dalla Costiera. Un nome per sempre legato al temibile "pragmatismo" del giustiziere di Pashawar che aveva ghermito i ribelli pashtun facendoli uccidere davanti ai suoi occhi, mentre lui, impettito e coperto di alamari, beveva caffè per colazione. Nella sua uniforme di da ufficiale borbonico, con i suoi folti baffi imperiali, l'avventuriero napoletano che faceva "un uso smodato dello champagne”, si era guadagnato il grado di colonnello, il titolo di Kahn presso il regno di Persia, e la stima dei britannici per aver tenuto lontani da quelle terre contese i russi. Da Peshawar Avitabile controllava di fatto l’accesso al passo del Kyber, e con quello tutte le zone strategiche per il primo conflitto anglo-afghano. Dopo una lunga avventura alle porte dell’Asia, e accumulate ingenti ricchezze per i servigi offerti ai regnanti di metà delle terre conosciute. Se ne tornò nella sua bella Napoli, stabilendosi poi a Castellammare di Stabia. Nel 1844. Morì pochi anni dopo in circostanze mai chiarite. Qualcuno mormora sia stato avvelenato attraverso un piatto di agnello dalla sua giovanissima moglie, già promessa ad un altro uomo. Qualcuno, per i “fumi emessi da una stufa”. Era comunque l'inizio della primavera del 1850 quando spirò. Dopo aver investito parte delle sue fortune nell'agricoltura e nell'allevamento di bestiame. Aveva, tra le altre cose, incrociato delle vacca Jersey donategli dagli inglesi con le vacche locali, dando vita a una nuova e apprezzata razza: le “agerolane”.
Nonostante una morte ridicola, in contraddizione con la magnitudine della sue imprese, gli restava restava appuntata sul petto la decorazione dell'Ordine del Leone e del Sole conferitagli dallo scià di Persia Fath Ali Shah, e la Legion d’Onore, la più alta onorificenza di Francia, conferitagli dal Re Luigi Filippo. Nel fodero portava ancora una sciabola intarsiata d’oro, con fregi della Compagnia delle Indie e dell’Impero britannico, che simboleggiava la gratitudine della Corona per essersi dimostrato nel momento del bisogno un "gallant officer”. Sulla facciata del suo palazzo, costruito con sterline inglesi, e caduto in rovina (per essere poi sfacciatamente abbattuto nel ’37), restava invece un’incisione da lui molto desiderata. “O beata solitudo, o sola beatitudo”. La solitudine forse, di chi aveva ottenuto in grande successo dove tutti gli altri avevano e avrebbero fallito - tra jihad, cariche di cavalleria e giochi di spie. Poiché dove non riuscirono i generali britannici, gli eserciti della Russia zarista prima, e sovietica poi, e financo gli astuti strateghi del Pentagono; era riuscito quel solitario napoletano.
150 anni fa la Breccia di Porta Pia, ma è stata cancellata ogni celebrazione. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 20 Settembre 2020. A centocinquant’anni dal 1870, quest’anno con il 20 settembre celebriamo non una, ma due ricorrenze: da una parte la fine dello Stato pontificio, che a lungo, al centro dell’Italia, era stato uno dei principali ostacoli a qualsiasi progetto di unità e, insieme, il completamento dell’Unità d’Italia con la presa di Roma e la sua elezione a capitale. Due argomenti, due questioni storiche strettamente connesse, che ci spingono a interrogarci sul nostro recente e breve passato nazionale, anche per meglio comprendere i problemi del nostro difficile presente e soprattutto le prospettive del nostro problematico futuro. Sulla prima questione, mi pare di potere dire che essa sia stata se non chiusa, certamente in gran parte superata dal Concilio Vaticano II e dagli sviluppi del cattolicesimo post conciliare, che, voltando le spalle alla Chiesa del Sillabo, ha sempre più esplicitamente riconosciuto come la breccia di Porta Pia abbia liberato anche la religione cattolica dai condizionamenti di un potere temporale, che la allontanava dai suoi compiti spirituali: riconoscimento non da poco ai nostri padri fondatori e tardivo, anche se parziale, riconoscimento pure alle ragioni di Lutero. Se questo non bastasse, è difficile per chiunque ignorare il forte ridimensionamento che le pretese di ingerenza clericale nella vita politica e legislativa dello Stato hanno subito con le sconfitte nei referendum del 1974 sul divorzio e del 1981 sull’interruzione volontaria della gravidanza. E sarebbe ingiusto e superficiale sottovalutare l’orientamento complessivo dell’attuale pontificato che, senza attenuare i principi della dottrina, sembra aver assunto un atteggiamento assai diverso nei rapporti con lo Stato e la sua legislazione da quello assunto della Chiesa di Ratzinger e del Cardinale Ruini sulla fecondazione assistita, sulla ricerca scientifica e sul riconoscimento delle unioni civili. Assai più importante è la seconda questione storica connessa alla ricorrenza, quella che interroga direttamente lo Stato italiano e l’Italia come comunità politica e come costruzione tuttora incompiuta. Se infatti nella vita delle nazioni un secolo e mezzo è un tempo assai breve, esso è tuttavia sufficiente per guardare indietro alla nostra storia e cercare di capire le nostre debolezze e le nostre potenzialità, le nostre possibilità e i nostri rischi. Io non sono uno spregiatore del Risorgimento. Al contrario sono un ammiratore di quanti ne sono stati i protagonisti e ho in orrore chiunque, cancellando Mazzini, Garibaldi, le quattro giornate di Milano, la Repubblica Romana del 1849, la spedizione dei Mille, pretenda di ridurlo solo a una guerra di conquista condotta della monarchia sabauda. Non è stato così, è stato anche il frutto di una forte rivendicazione nazionale che, dal nord al sud, coinvolse la maggioranza della borghesia italiana, soprattutto nelle sue generazioni più giovani. Tuttavia è indubbio che fra i grandi stati europei arrivammo a conquistare la nostra unità nazionale con grande ritardo, creando uno stato molto debole, alle prese con una società frammentata e divisa, e con una borghesia prevalentemente agraria, circondata da plebi fortemente influenzate da un clero, che a lungo rifiutò di riconoscere la legittimità del nuovo Stato. Confesso che mi sarei aspettato che, a partire dall’indubbia crisi di identità e fiducia in se stessa che l’Italia sta attualmente attraversando, si aprisse un dibattito in Parlamento e, se non in Parlamento, nelle Università, nelle televisioni, sui maggiori quotidiani su questo primo secolo e mezzo di storia italiana. Un dibattito che mettesse a confronto la nostra attuale crisi con le numerose crisi del passato: dall’autoritarismo di Crispi ai colpi di cannone contro le plebi di Pelloux e Bava Beccaris, dall’illusione di affermare la nazione con avventure coloniali fino al colpo di stato fascista che sospese e di fatto abrogò lo Statuto albertino. Queste crisi interruppero ripetutamente negli ultimi trenta anni dell’ottocento e nei primi venti del novecento lunghi periodi di stabilità e, anche – penso a Giolitti, a Zanardelli, al giolittismo – positivi periodi di riformismo e di tentativi di allargamento della base sociale dello Stato fino al dialogo con il nascente partito socialista e al suffragio universale. Quali sono le ragioni di questa instabilità democratica delle nostre istituzioni, che in forme diverse si è ripetuta, dopo un lungo periodo di stabilità, nella seconda parte della nostra storia, quella che dalla fine della seconda guerra mondiale giunge fino a noi, prima con la crisi dei partiti antifascisti (i cosiddetti partiti dell’arco costituzionale) e poi con la crisi delle forze politiche che li avevano sostituiti nei primi anni ‘90: Berlusconi, Forza Italia, Popolo della Libertà, Democratici di sinistra e Partito democratico? Una risposta a questa domanda non può in nessun modo essere trovata in ragioni di carattere antropologico, in base a una supposta diversità della società italiana dalle altre società europee. Questo è un Paese che ha avuto seicento mila morti durante la prima guerra mondiale e ha retto una prova improba e durissima in quei quattro anni, a cui era del tutto impreparato. È un Paese che ha avuto l’energia, la forza e la capacità di realizzare, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, nell’arco di una generazione, una trasformazione del sistema economico da prevalentemente agricolo a industriale, che altri paesi hanno compiuto nell’arco di uno o due secoli. Basti pensare alle migrazioni interne, che si sono sommate a quelle all’estero e che hanno trasferito il 40% della popolazione dall’agricoltura all’industria, dal mezzogiorno al settentrione, dalla campagna alle città. E allora forse la risposta va cercata altrove: nella cultura della classe dirigente, non solo quella politica e nell’incapacità di proseguire lungo la linea più vitale e più profetica del nostro pensiero risorgimentale. Quello europeo e cosmopolitico, liberale e federalista. L’Italia è uno Stato giovane, che nelle fasi di crisi si è rifugiata in un nazionalismo reazionario e vittimistico, venato di patetiche ambizioni coloniali e imperiali o di ossessive illusioni autarchiche. È stato chiaro alla fine dell’800, dopo la I Guerra Mondiale con il fascismo, e anche in questa crisi in cui vengono al pettine, sotto la spinta di fenomeni economici, demografici e tecnologici di portata epocale, tutti i nodi legati alla debolezza e all’insufficienza degli stati nazione, a partire da quelli più piccoli e precari. Il nazionalismo in Italia non è stato l’effetto della incompletezza del processo unitario – anche non solo per le crescenti differenze tra Nord e Sud – ma è stato la causa dell’arretratezza e dei ritardi con cui l’Italia ha finito per misurarsi con le sfide della politica e dell’economia contemporanea. Lo stesso deve dirsi dell’altra faccia della medaglia nazionalista, che è quella anti-europea e ostile a qualunque forma di integrazione politica e economica internazionale. Proprio oggi, a 150 anni dal completamento dell’Unità, l’Italia è tornata a inseguire le orme di un inesistente “nemico straniero” (in genere europeo o occidentale) e a volgersi con fiducia e condiscendenza verso veri avversari strategici, come la Cina e la Russia. Un’altra ragione politica dei ritardi italiani è la sistematica scelta di soluzioni istituzionali dell’ordinamento politico, che premiano i cambiamenti frequenti di alleanze e il trasformismo anziché la governabilità di medio e lungo periodo, la ricerca di un consenso immediato intorno a interventi improvvisati di carattere elettorale e clientelare, a scapito di incisivi investimenti intorno a progetti efficaci di riforma e di sviluppo. Forse la continuità di queste debolezze strutturali della nostra cultura politica e della nostra democrazia parlamentare in momenti diversi della nostra storia doveva spingerci a risposte meno autoassolutorie delle responsabilità nazionali. Intendiamoci, esistono anche crisi epocali che investono trasversalmente il mondo occidentale e quella che stiamo vivendo è certo una di esse. Ma è del tutto evidente che il nostro sistema politico non ha strumenti di resistenza e di stabilità e non ha gli anticorpi di cui dispongono altri stati democratici d’Europa o d’oltre Atlantico. Quale migliore occasione, per affrontare un simile dibattito, di quella offerta dalla ricorrenza dei 150 anni della nostra storia unitaria? E invece nessun dibattito, nessun interrogativo. E per essere sicuri che nessuno li ponesse, è stata in pratica cancellata la ricorrenza, silenziando ogni celebrazione.
Porta Pia, Roma completa il naufragio del Risorgimento, iniziato nel 1860. Sergio Carli il 21 Settembre 2020 su Blitz Quotidiano. Porta Pia, i bersaglieri entrano a Roma. Il Piemonte completa l’annessione dell’Italia e la fine del Risorgimento con Garibaldi a Caprera. Porta Pia, il 20 settembre di 150 anni fa. Per la breccia passarono i bersaglieri. L’Italia era nata male e la presa di Roma suggellò il fallimento del Risorgimento. Il re a Garibaldi: fatti da parte. I Mille trattati come ladri. La nave con Ippolito Nievo che portava i documenti dell’onestà garibaldina affondata al largo di Capri. Il razzismo dei piemontesi e l’ideologia della classe politica (dazi piemontesi applicati ovunque, dissennata vendita dei beni demaniali e del clero) diedero il colpo di grazia al Meridione, che già di suo, dopo secoli di sfruttamento, era in ginocchio. Allora come oggi. Un anno prima lo scandalo della prima privatizzazione della storia italiana, il monopolio dei tabacchi: il re sospettato di una mazzetta di 6 milioni (dell’epoca), mega insabbiamento. Nella biografia di Francesco Crispi, Christopher Duggan ricostruisce il protoscandalo l’Italia. Poi venne Porta Pia, la presa di Roma e il boom immobiliare. E anche la vergognosa Legge delle Guarentige. Se l’Italia di oggi è così, molto ebbe inizio allora.
1. La ricostruzione di Wikipedia.
2. Repubblica. Porta Pia: Roma libera e italiana. Il 20 settembre di 150 anni fa i bersaglieri di Cadorna entravano nella nuova capitale del regno. Tre punti di vista su quel giorno.
3. Il Fatto. Vittorio Emiliani. I preti aspettavano i piemontesi per la grande speculazione che ancora non si ferma. Lo scempio urbanistico nato dalla Breccia poco Pia.
Presa di Roma. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno Italico.» (Camillo Benso, conte di Cavour, discorso al Parlamento del Regno di Sardegna 11 ottobre 1860). La presa di Roma, nota anche come breccia di Porta Pia, fu l'episodio del Risorgimento che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia. Avvenuta il 20 settembre 1870, decretò la fine dello Stato Pontificio quale entità storico-politica e fu un momento di profonda rivoluzione nella gestione del potere temporale da parte dei papi. L'anno successivo la capitale d'Italia fu trasferita da Firenze a Roma (legge 3 febbraio 1871, n. 33). L'anniversario del 20 settembre è stato festività nazionale fino al 1930, quando fu abolito a seguito della firma dei Patti Lateranensi.
Le premesse. Il comandante delle truppe pontificie, il badese Hermann Kanzler. Il comandante dell'esercito italiano, generale Raffaele Cadorna. Il desiderio di porre Roma a capitale del nuovo Regno d'Italia era già stato esplicitato da Cavour nel suo discorso al parlamento italiano il 27 marzo 1861. Cavour prese poco dopo i contatti a Roma con Diomede Pantaleoni, che aveva ampie conoscenze nell'ambiente ecclesiastico, per cercare una soluzione che assicurasse l'indipendenza del papa. Il principio era quello della "libertà assoluta della Chiesa" cioè la libertà di coscienza, assicurando ai cattolici l'indipendenza del pontefice dal potere civile. Inizialmente si ebbe l'impressione che questa trattativa non dispiacesse completamente a Pio IX e al cardinale Giacomo Antonelli, ma questi dopo poco, già nei primi mesi del 1861, cambiarono atteggiamento e le trattative non ebbero seguito. Poco dopo Cavour affermò in parlamento che riteneva «necessaria Roma all'Italia» e che prima o poi Roma sarebbe stata la capitale, ma che per far questo era necessario il consenso della Francia. Sperava che l'Europa tutta sarebbe stata convinta dell'importanza della separazione tra potere spirituale e potere temporale e quindi riaffermò il principio di «libera Chiesa in libero Stato». Cavour già nell'aprile scrisse al principe Napoleone per convincere l'imperatore a togliere da Roma il presidio francese che lì si trovava. Ricevette anche dal principe un abbozzo di convenzione:
«Fra l'Italia e la Francia, senza l'intervento della corte di Roma, si verrebbe a stipulare quanto segue:
1. La Francia, avendo messo il Santo Padre al coperto d'ogni intervento straniero, ritirerebbe da Roma le sue truppe, in uno spazio di tempo determinato, di 15 giorni o al più di un mese.
2. L'Italia prenderebbe impegno di non assalire ed eziandio di impedire in ogni modo a chicchessia, ogni aggressione contro il territorio rimasto in possesso del Santo Padre.
3. Il governo italiano s'interdirebbe qualunque reclamo contro l'organamento di un esercito pontificio, anche costituito di volontari cattolici stranieri, purché non oltrepassasse l'effettivo di 10 mila soldati, e non degenerasse in un mezzo di offesa a danno del regno d'Italia.
4. L'Italia si dichiarerebbe pronta ad entrare in trattative dirette con il governo romano, per prendere a suo carico la parte proporzionale che le spetterebbe nella passività degli antichi stati della chiesa.» (in Cadorna, La liberazione)
Il conte di Cavour vi acconsentiva in linea di massima, perché sperava che la stessa popolazione romana avrebbe risolto i problemi senza bisogno di repressioni da parte di governi stranieri, e che il Papa avrebbe infine ceduto alle spinte unitarie. Le uniche riserve espresse riguardavano la presenza di truppe straniere. La convenzione però non arrivò a conclusione per la morte di Cavour, il 6 giugno del 1861. Bettino Ricasoli, successore di Cavour, cercò di riaprire i contatti con il cardinale Antonelli già il 10 settembre 1861, con una nota in cui faceva appello «alla mente ed al cuore del Santo Padre, perché colla sua sapienza e bontà, consenta ad un accordo che lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità e grandezza della chiesa». Ancora una volta Antonelli e Pio IX si mostrarono contrari. L'ambasciatore francese a Roma scrisse al suo ministro che il cardinale gli aveva detto:
(FR) «Quant à pactiser avec les spoliateurs, nous ne le ferons jamais.»
(IT) «Quanto a fare accordi con gli espropriatori, noi non lo faremo mai» (Card. Antonelli)
Da quel momento ci fu uno stallo nelle attività diplomatiche, mentre rimaneva viva la spinta all'azione di Garibaldi e dei mazziniani. Ci furono una serie di tentativi tra cui quello più noto si concluse all'Aspromonte ove i bersaglieri fermarono, dopo un breve conflitto a fuoco, Garibaldi che stava risalendo la penisola con una banda di volontari diretto a Roma. Agli inizi del 1863, il governo Minghetti riprese le trattative con Napoleone III, ma dopo questi avvenimenti Napoleone pretese maggiori garanzie. Si arrivò quindi alla convenzione di settembre 1864, un accordo con Napoleone che prevedeva il ritiro delle truppe francesi, in cambio di un impegno da parte dell'Italia a non invadere lo Stato Pontificio. A garanzia dell'impegno da parte italiana, la Francia chiese il trasferimento della capitale da Torino ad un'altra città, che sarebbe stata poi Firenze. Entrambe le parti espressero comunque una serie di riserve, e l'Italia si riservava completa libertà d'azione nel caso che una rivoluzione scoppiasse a Roma, condizioni che furono accettate dalla Francia, che riconobbe in questo modo i diritti dell'Italia su Roma. Nel settembre 1867 Garibaldi fece un nuovo tentativo sbarcando nel Lazio. In ottobre i francesi sbarcarono a Civitavecchia e si unirono alle truppe pontificie scontrandosi con i garibaldini. L'esercito italiano, in ottemperanza alla Convenzione di settembre, non varcò i confini dello Stato Pontificio. Il 3 novembre i garibaldini furono sconfitti nella Battaglia di Mentana. Tornata la pace, i soldati francesi, nonostante quanto previsto dalla Convenzione di settembre, lasciarono una guarnigione di stanza nella fortezza di Civitavecchia e due presidi, uno a Tarquinia e uno a Viterbo (in tutto 4.000 uomini)[3]. Il ministro francese Eugène Rouher dichiarò al Parlamento francese:
(FR) «Que l'Italie peut faire sans Rome; nous déclarons qu'elle ne s'emparera jamais de cette ville. La France ne supportera jamais cette violence faite à son honneur et au catholicisme.»
(IT) «Che l'Italia può fare a meno di Roma; noi dichiariamo che non si impadronirà mai di questa città. La Francia non sopporterà mai questa violenza fatta al suo onore ed al cattolicesimo.» (Eugène Rouher)
L'8 dicembre 1869 il papa indisse a Roma il concilio ecumenico Vaticano I volendo risolvere il problema dell'infallibilità papale, questa decisione destò preoccupazione nella classe politica italiana per il timore che servisse al Papa per intromettersi con maggior autorità negli affari politici dello stato. Il 9 dicembre Giovanni Lanza, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera dei deputati, dichiarò che «siamo unanimi a volere il compimento dell'unità nazionale; e Roma, tardi o tosto, per la necessità delle cose e per la ragione dei tempi, dovrà essere capitale d'Italia». Alla fine del 1869 lo stesso Lanza, alla caduta del terzo gabinetto Menabrea, si insediò come nuovo capo del Governo. Nel 1870 si propagarono nella penisola diverse insurrezioni di matrice mazziniana. Tra le più note vi fu quella di Pavia, dove il 24 marzo un gruppo di repubblicani assaltò una caserma. Il caporale Pietro Barsanti, in servizio nella caserma ed anch'egli mazziniano, rifiutò di reprimere i rivoltosi, contribuendo anzi a fomentare la rivolta. Arrestato e negatagli la grazia sovrana, Barsanti fu giustiziato il 26 agosto tra numerose polemiche. Lo stesso Giuseppe Mazzini, nel suo ultimo tentativo di battere sul tempo la monarchia, partì per la Sicilia tentando di sollevare un'insurrezione ma venne arrestato il 13 agosto 1870 e condotto in prigione a Gaeta.
Il 15 luglio 1870 il governo di Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia (dichiarazione consegnata il 19). L'Italia decise di attendere lo sviluppo della situazione. Il 2 agosto la Francia, desiderosa di ottenere l'appoggio dell'Italia, avvertì il governo italiano che era disponibile a ritirare le proprie truppe da Civitavecchia e dalla provincia di Viterbo. Il 20 agosto alla Camera furono presentate interpellanze da vari deputati, tra cui il Cairoli e il Nicotera (della Sinistra), che chiesero di denunciare definitivamente la Convenzione del 15 settembre e di muovere su Roma. Nella sua risposta il governo ricordò che la Convenzione escludeva i casi straordinari e proprio questa clausola aveva permesso a Napoleone III di intervenire a Mentana. Nel frattempo comunque i francesi abbandonarono Roma. Il ritiro fu completato il 3 agosto 1870. Di nuovo si mosse la diplomazia italiana chiedendo una soluzione della Questione romana. L'imperatrice Eugenia, che svolgeva in quel momento le funzioni di reggente, inviò la nave da guerra Orénoque a stazionare davanti a Civitavecchia. Quando le vicende della guerra franco-prussiana stavano già volgendo al peggio per i francesi, Napoleone III inviò a Firenze il principe Napoleone per chiedere direttamente a Vittorio Emanuele II un intervento militare, ma, nonostante alcune pressioni in tal senso (in particolare del generale Cialdini), la richiesta non ebbe seguito. Il 4 settembre 1870 cadeva il Secondo Impero, e in Francia veniva proclamata la Terza Repubblica. Questo stravolgimento politico aprì di fatto all'Italia la strada per Roma.
La preparazione diplomatica. Dopo Mentana, c'era stato uno stallo nei rapporti tra Italia e Francia sulla questione romana. Poi, tra il 1868 ed il 1869 erano avvenuti numerosi contatti diplomatici tra Italia, Austria e Francia, con l'obiettivo di stipulare un'alleanza in funzione antiprussiana, iniziativa a cui aveva dato impulso il capo del governo austriaco Federico von Beust, timoroso della crescente egemonia di Berlino sugli stati tedeschi, e disponibile per raggiungere tale accordo anche a cedere il Trentino. Ma queste trattative non avevano prodotto risultati perché in esse l'Italia aveva posto la questione di Roma, scontrandosi con l'intransigenza della Francia. Il 29 agosto 1870 il ministro degli affari esteri, il marchese Emilio Visconti Venosta, inviò al ministro del Re a Parigi una lettera con cui espose i punti di vista del governo italiano da rappresentare al governo francese. Visconti Venosta rileva come le condizioni che hanno a suo tempo portato alla convenzione di settembre tra Italia e Francia siano completamente cadute.
(FR) «Florence, 29 août 1870. Il Ministro degli Affari Esteri al Ministro del Re a Parigi… Le but que le Gouvernement impérial poursuivait, celui de faciliter une conciliation entre le Saint-Père, les Romains et l'Italie, dans un sens conforme aux vues exprimées par l'Empereur dans sa lettre à M. de Thouvenel du 26 mai 1862, a été non seulement manqué, mais même complètement perdu par suite de circonstances sur lesquelles il serait inutile d'appuyer…»
(IT) «Firenze, 29 agosto 1870. … L'obiettivo che il Governo imperiale ha perseguito, cioè di facilitare una conciliazione tra il Santo Padre, i Romani e l'Italia, conformemente ai punti di vista espressi dall'Imperatore nella sua lettera a M. de Thouvenel del 26 maggio 1862, è stato non solo mancato, ma è addirittura completamente fallito a causa di circostanze sulle quali è inutile insistere…» (Visconti Venosta, in R. Cadorna, La liberazione di Roma, p. 331)
Lo stesso giorno Visconti Venosta diramò a tutti i rappresentanti di Sua Maestà all'estero una lettera circolare con la quale si esponevano alle potenze europee le garanzie che venivano offerte al Pontefice a tutela della sua libertà; contemporaneamente si sottolineava l'urgenza di risolvere un problema che, secondo l'opinione del governo italiano, non poteva essere rimandato. Il 7 settembre inviò un'altra lettera in cui le intenzioni del governo vengono nuovamente esplicitate e le motivazioni rafforzate. L'8 settembre il ministro del Re a Monaco, il genovese Giovanni Antonio Migliorati, risponde a Visconti Venosta esponendo i risultati del colloquio con il conte di Bray: «Il Ministro degli Affari Esteri mi disse che le basi che porrebbe l'Italia alla Santa Sede ... gli sembrerebbero tali da dover essere accettate da Roma...». Simili considerazioni arrivano da Berna spedite da Luigi Melegari. Anche i rappresentanti a Vienna, a Karlsruhe, presso il governo del Baden e a Londra esprimono opinioni simili. L'unico governo che esita in qualche modo a prendere posizione è quello di Bismarck che si trova a Parigi assieme al suo re, che in questi giorni sta per essere incoronato imperatore. Solo il 20 settembre da Berlino esprime una posizione di stretta non ingerenza. Jules Favre ministro del nuovo governo francese invia il 10 settembre all'incaricato di Francia a Roma un'indicazione in cui afferma che il governo francese «ne peut approuver ni reconnaître le pouvoir temporel du Saint-Siège» («non può approvare né riconoscere il potere temporale della Santa Sede»). Il 20 agosto il Cardinale Segretario di Stato Antonelli a sua volta aveva inviato una richiesta ai governi stranieri affinché si opponessero «alle violenze dal governo sardo minacciate». La maggior parte dei governi si limitò a non rispondere, altri invece espressero l'opinione che la cosa non li riguardava.
Preparativi militari. Il governo procedette alla costituzione di un Corpo d'osservazione dell'Italia centrale. In questo contesto furono chiamate sotto le armi anche le classi dei nati dal 1842 al 1845. Il 10 agosto il ministro della guerra Giuseppe Govone convocò il generale Raffaele Cadorna cui assegnò il comando del corpo con le seguenti disposizioni:
«1. Mantenere inviolata la frontiera degli stati pontifici da qualunque tentativo d'irruzione di bande armate che tentassero di penetrarvi;
2. Mantenere l'ordine e reprimere ogni moto insurrezionale che fosse per manifestarsi nelle provincie occupate dalle divisioni poste sotto a' di Lei ordini;
3. Nel caso in cui moti insurrezionali avessero luogo negli stati pontifici, impedire che si estendano al di qua del confine.»
Il dispaccio concludeva con: «La prudenza e l'energia altra volta da Lei dimostrata in non meno gravi circostanze, danno sicuro affidamento, che lo scopo che il governo si propone, sarà pienamente raggiunto.»
Oltre a Cadorna il governo nominò anche i comandanti delle tre divisioni che costituivano il corpo d'armata nelle persone dei generali Emilio Ferrero, Gustavo Mazè de la Roche e Nino Bixio. Cadorna sollevò subito i suoi dubbi sulla presenza di Bixio, considerato troppo impetuoso e quindi inadatto ad una missione che «richiedeva somma prudenza». Govone, che si ritirerà pochi giorni dopo dal governo, accettò le opinioni di Cadorna e nominò al posto di Bixio il generale Enrico Cosenz. Alla fine di agosto le tre divisioni furono portate a cinque ed il comando di questi nuovi reparti fu affidato al generale Diego Angioletti e a Bixio, richiamato, che non riscuoteva le simpatie del comandante del Corpo. Il totale degli effettivi del Corpo arrivò a superare le 50.000 unità. L'esercito pontificio, comandato dal generale Hermann Kanzler, era costituito da 13.624 militari, di cui 8.300 regolari e 5.324 volontari. Gli effettivi erano i seguenti:
Reggimenti italiani
1.863 Gendarmi pontifici, agli ordini del generale Evangelisti;
1.023 Squadriglieri di Provincia[11] (anch'essi agli ordini di Evangelisti);
1.691 Fanti di Linea, al comando del colonnello Azzanesi;
1.174 Cacciatori, comandati dal tenente colonnello Sparagna;
567 Dragoni, agli ordini del colonnello Giovanni Lepri;
996 Artiglieri, comandati dal colonnello Caimi;
157 Genieri, agli ordini del colonnello Giorgio Lana e del maggiore Francesco Oberholtzer, direttore dei lavori di fortificazione;
544 “sedentari” o truppe di guarnigione.
Reggimenti stranieri
3.040 Zuavi (il reggimento più numeroso, composto da quattro battaglioni), al comando del colonnello svizzero Eugenie-Joseph Allet;
1.195 Carabinieri stranieri, in maggioranza tedeschi, agli ordini dello svizzero Jeannerat;
1.089 uomini della Legione di Antibes, agli ordini di Perrault (francesi).
Completavano la forza militare:
285 impiegati nei Servizi ausiliari e sanitari.
Il comandante era il generale Hermann Kanzler (badese), coadiuvato dai generali De Courten (svizzero) e Zappi.. Kanzler riordinò l'esercito pontificio disponendo il ripiegamento su Roma di tre guarnigioni su quattro (Viterbo, Frosinone-Velletri e Tivoli). Soltanto ai presidi di Civitavecchia (1000 uomini) e Civita Castellana (700 uomini) venne ordinato di resistere in armi.
La lettera di Vittorio Emanuele II a Pio IX. L'8 settembre, alcuni giorni prima dell'attacco, Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno, partì da Firenze per consegnare al papa una lettera autografa di re Vittorio Emanuele II. L'indomani venne ricevuto dal cardinale Giacomo Antonelli, il quale lo ammise alla presenza del pontefice. Nell'epistola Vittorio Emanuele, che si rivolgeva al pontefice «con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di Re, con animo d'italiano», dopo aver paventato le minacce del «partito della rivoluzione cosmopolita», esplicitava «l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, debbano inoltrarsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine». La risposta del Papa fu rispettosa ma ferma: «Sire, Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V. M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V. M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo, renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno.» (Papa Pio IX, 9 settembre 1870)
Il 10 settembre il conte San Martino scrivendo da Roma al capo del governo, Giovanni Lanza, descrisse i suoi incontri con il cardinale Antonelli del giorno precedente e in particolare l'incontro con il Papa. Scrive il conte: «… che sono stato dal Santo Padre, che gli ho consegnato la lettera di Sua Maestà e la nota rimessami da V. Eccellenza […] Il Papa era profondamente addolorato, ma non mi parve disconoscere che gli ultimi avvenimenti rendono inevitabile per l'Italia l'azione su Roma […] Esso [il Papa] non la riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo, ma espresse troppo raccapriccio per le carneficine francesi e prussiane, per non darmi a sperare che non siano i modelli che vuol prendere […] fui fermo nel dirgli che l'Italia trova il suo proposito di avere Roma, buono e morale […] Il Papa mi disse, leggendo la lettera, che erano inutili tante parole, che avrebbe amato di meglio gli si dicesse a dirittura che il governo era costretto di entrare nel suo Stato.» (Ponza di San Martino)
Il conte di San Martino riferì verbalmente la frase pronunciata da Pio IX: «Io posso cedere alla violenza, ma dare la mia sanzione a un'ingiustizia, mai!» L'11 settembre l'inviato del re ritornò nella capitale. Nello stesso giorno cominciarono le operazioni militari, senza la consegna di una formale dichiarazione di guerra.
L'attacco allo Stato Pontificio. La breccia di Porta Pia, che consentì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, 21 settembre 1870. Il piano d'invasione dell'esercito italiano prevedeva l'ammassarsi di cinque divisioni ai confini dello Stato Pontificio in tre punti distinti:
A nord-est, presso Orvieto, vi era la II Divisione al comando del generale Nino Bixio;
Ad est vi era il grosso dell'esercito (40 mila uomini su 50 mila), costituito da tre divisioni: l'XI, guidata dal generale Enrico Cosenz; la XII, al comando del generale Gustavo Mazè de la Roche; la XIII, agli ordini del generale Emilio Ferrero;
A sud, sulla vecchia frontiera napoletana, era stanziata la IX Divisione, al comando del generale Diego Angioletti.
Si trattava in tutto di circa 50.000 uomini. Il comando supremo delle operazioni era affidato al Luogotenente generale Raffaele Cadorna. Nino Bixio avrebbe dovuto occupare Viterbo e, con l'aiuto della flotta, Civitavecchia per poi dirigersi verso Roma. Il generale Angioletti, entrando da sud, avrebbe occupato Frosinone e Velletri per poi convergere verso l'Urbe. Qui l'esercito si sarebbe riunito per sferrare l'attacco finale. La sera del 10 settembre Cadorna ricevette l'ordine di attraversare il confine pontificio tra le cinque pomeridiane dell'11 ed entro le cinque antimeridiane del 12 settembre. Nel pomeriggio del giorno 11, fu Nino Bixio ad entrare per primo nel territorio dello Stato Pontificio: il generale avanzò verso Bagnorea (oggi Bagnoregio) e Angioletti si diresse su Ceprano (poco più di 20 km da Frosinone). Gli ordini di Kanzler, comandante dell'esercito pontificio, erano di resistere all'attacco delle camicie rosse, ma in caso d'invasione dell'esercito sabaudo, l'ordine era di ripiegare verso Roma. Così fecero gli Zuavi di stanza nelle località via via occupate dall'esercito italiano. Il 12 settembre Kanzler dichiarava lo stato d'assedio nell'Urbe. Bixio si mosse lungo la strada che scorre ad est del lago di Bolsena attraversando Montefiascone per finire a Viterbo (in tutto circa 45 km). Gli Zuavi di stanza a Viterbo ripiegarono verso Civitavecchia, dove giunsero il 14 settembre. Nel frattempo il generale Ferrero aveva occupato Viterbo prima di Bixio che, pertanto, accelerò la marcia verso il porto di Civitavecchia. La piazzaforte si era preparata per resistere a un lungo assedio. Ma il comandante, il colonnello spagnolo Serra, la sera del 15 settembre si arrese senza combattere. La mattina seguente la piazzaforte e il porto di Civitavecchia furono occupati dall'esercito e dalla marina italiane. Negli stessi giorni Angioletti prendeva possesso delle province di Frosinone e Velletri: entrato in territorio pontificio il 12 settembre, occupò la città di Frosinone il 13 e tre giorni dopo entrò in Velletri. Il Luogotenente generale Cadorna, stanziato in Sabina, col grosso dell'esercito si diresse verso Roma lungo la riva destra del Tevere, seguendo il tracciato della vecchia via Salaria. Ricevette però l'ordine di non seguire una via diretta verso Roma. Secondo il rapporto stilato dallo stesso Cadorna, "motivi politici" avrebbero imposto di allungare la strada. Cadorna occupò alcuni centri minori, come Rignano e Civita Castellana. Il 14 settembre le tre divisioni sotto il suo comando si riunirono alla Giustiniana (circa 12 km a nord-ovest di Roma). Entro due giorni furono raggiunte da Bixio e da Angioletti. Il 15 settembre Cadorna inviò una lettera al generale Kanzler: gli chiese di acconsentire all'occupazione pacifica della città. Kanzler rispose che avrebbe difeso Roma con tutti i suoi mezzi a disposizione. Al generale Cadorna fu ordinato di portarsi in prossimità delle mura romane evitando però momentaneamente qualsiasi scontro con le truppe pontificie e attendere la negoziazione della resa. Il piano d'attacco dell'esercito italiano prevedeva che Cosenz, Mazé de la Roche e Ferrero avrebbero attaccato la cinta muraria che si dipana dal Tevere alla Via Prenestina (da Porta del Popolo a Porta Maggiore). Angioletti avrebbe attaccato il fianco sud mentre Bixio, proveniente da Civitavecchia, sarebbe entrato a Trastevere. In caso di trattative infruttuose, l'esercito italiano avrebbe fatto ricorso alla forza, evitando, tuttavia, di penetrare nella Città Leonina. L'attacco alla città fu portato su diversi punti. Il cannoneggiamento delle mura iniziò alle 5 di mattina del 20 settembre. Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco sulla città. La minaccia non sarebbe stata un valido deterrente per l'attacco, comunque l'ordine di cannoneggiamento non giunse da Cadorna bensì dal capitano d'artiglieria Giacomo Segre, giovane ebreo comandante della 5ª batteria del IX° Reggimento, che dunque non sarebbe incorso in alcuna scomunica. Il primo punto a essere bombardato fu Porta San Giovanni, seguito dai Tre Archi di Porta San Lorenzo e da Porta Maggiore. Si udirono altri fragori dall'altra parte della città: si trattava dell'azione diversiva della divisione Bixio, posizionata a ridosso di San Pancrazio. Iniziarono i bombardamenti anche sul "vero fronte", quello compreso tra Porta Salaria e Porta Pia. Furono le batterie 2º (capitano Buttafuochi) e 8º (capitano Malpassuti) del 7º Reggimento di artiglieria di Pisa ad aprire il fuoco alle 5:10 su Porta Pia. Poco dopo le ore 9 iniziò ad aprirsi una vasta breccia a una cinquantina di metri alla sinistra di Porta Pia. Una pattuglia di bersaglieri del 34º battaglione fu inviata sul posto a constatarne lo stato. I comandanti d'artiglieria ordinarono di concentrare gli sforzi proprio in quel punto (erano le 9:35). Dopo dieci minuti d'intenso fuoco, la breccia era abbastanza vasta (circa trenta metri) da permettere il passaggio delle truppe. Cadorna ordinò immediatamente la formazione di due unità di assalto per penetrare nel varco, assegnandone il comando ai generali Mazé e Cosenz: si trattava di un battaglione di fanteria[26] e di uno di bersaglieri, accompagnati da alcuni carabinieri. Ma l'assalto non fu necessario: verso le ore dieci, dal campo pontificio fu esposta la bandiera bianca. Mentre la resistenza cessava a Porta Pia, la bandiera bianca fu issata lungo tutta la linea delle mura. I generali Ferrero e Angeletti la rispettarono, invece Bixio continuò il bombardamento per circa mezz'ora. Mazé e Cosenz proseguirono nel loro assalto; le truppe italiane oltrepassarono la breccia di Porta Pia sparando e facendo prigionieri. Dopo l'irruzione da parte delle truppe italiane dentro la cinta muraria vi furono ancora scontri qua e là che si spensero in poche ore con la resa chiesta dal generale Kanzler. La divisione Angioletti occupò Trastevere, quella di Ferrero l'area compresa tra Porta San Giovanni, Porta Maggiore, Porta San Lorenzo, via di San Lorenzo, Santa Maria Maggiore, via Urbana e via Leonina fino a Ponte Rotto. Le truppe di Mazè si attestarono tra Porta Pia, Porta Salaria e via del Corso occupando piazza Colonna, piazza di Termini e il Palazzo del Quirinale. Quelle di Cosenz presidiarono piazza Navona e piazza del Popolo. Per ordine di Cadorna, così come convenuto con il governo, non furono occupate la Città Leonina, Castel Sant'Angelo e i colli Vaticano e Gianicolo. Alle 17:30 del 20 settembre Kanzler e Fortunato Rivalta (capo di Stato maggiore) firmarono la capitolazione alla presenza del generale Cadorna. Una curiosità è che tra i partecipanti all'evento vi fu anche lo scrittore e giornalista Edmondo De Amicis, all'epoca ufficiale dell'esercito italiano che ha lasciato una particolareggiata descrizione dell'evento nel libro Le tre capitali: «[...] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. [...]» Sullo scontro, invece, ci offre alcune informazioni Attilio Vigevano che riferisce che mentre gli Zuavi pontifici combattevano, prima della resa, molti di essi intonarono il loro canto preferito, quello dei Crociati di Cathelineau: «Intonato dal sergente Hue, e cantato da trecento e più uomini, l'inno echeggiò distinto per alcuni minuti; il capitano Berger ne cantò una strofa ritto sulle rovine della breccia colla spada tenuta per la lama e l'impugnatura rivolta al cielo quasi a significare che ne faceva omaggio a Dio; presto però illanguidì e si spense nel ricominciato stridore della fucilata, nel raddoppiato urlio, nel tumulto delle invettive» (Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio, Albertelli, p. 571.)
Secondo la descrizione di Antonio Maria Bonetti (1849-1896), caporale dei Cacciatori Pontifici: «Stavamo sulle righe, quando alcune voci sulla Piazza di San Pietro gridarono: "Il Papa, il Papa!". In un momento, cavalieri e pedoni, ufficiali e soldati, rompono le righe e corrono verso l'obelisco, prorompendo nel grido turbinoso e immenso di: "Viva Pio IX, viva il Papa Re!", misto a singhiozzi, gemiti e sospiri. Quando poi il venerato Pontefice, alzate le mani al cielo, ci benedisse, e riabbassatele, facendo come un gesto di stringerci tutti al suo cuore paterno, e quindi, sciogliendosi in lacrime dirotte, si fuggì da quel balcone per non poter sostenere la nostra vista, allora sì veruno più poté far altro che ferire le stelle con urla, con fremiti ed esecrazioni contro coloro che erano stati causa di tanto cordoglio all'anima di un sì buon Padre e Sovrano»
Condizioni di capitolazione. Il 21 settembre il generale Cadorna prese possesso della città. Dal suo Quartier generale in Villa Patrizi ordinò che tutta Roma, ad eccezione della Città Leonina, fosse evacuata dall'esercito pontificio e occupata dagli italiani. Le truppe pontificie avrebbero ricevuto l'onore delle armi ed i volontari sarebbero tornati alle proprie case[31]. Al tramonto tutta Roma, ad eccezione della Città Leonina, era stata occupata dagli italiani. Entro mezzogiorno del 21 i soldati pontifici lasciarono l'Urbe. Il giorno stesso (21 settembre) il papa chiese al comandante italiano di entrare nella Città Leonina allo scopo di prevenire i possibili disordini. Cadorna avvisò il governo e ordinò alle sue truppe di procedere. Il 27 settembre l'esercito italiano prese possesso anche di Castel Sant'Angelo e, da quel momento, i possedimenti del Papa furono limitati al Vaticano. Pio IX decise di non riconoscere la sovranità italiana su Roma. Il parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò nel 1871 la Legge delle Guarentigie, ma il Papa non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò il suo atteggiamento. Questa situazione, indicata come "Questione Romana", perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929. Il primo francobollo a portare per il mondo la notizia dell'unificazione della nazione fu il Vittorio Riquadrato, di cui è giunto perfettamente conservato un esemplare su lettera timbrata proprio il 20 settembre 1870 a Roma.
Considerazioni sulle operazioni belliche. Nonostante l'importanza storica dei fatti (la riunione di Roma all'Italia e la fine dello Stato Pontificio), dal punto di vista militare l'operazione non fu di particolare rilievo: infatti la assai debole resistenza opposta dall'esercito pontificio (complessivamente 15.000 uomini, tra cui dragoni pontifici, volontari provenienti per lo più da Francia, Austria, Baviera, Paesi Bassi, Irlanda, Spagna, ma soprattutto Zuavi, al comando dal generale Kanzler) ebbe soprattutto valore simbolico. Sulle ragioni per cui papa Pio IX non oppose una ferma resistenza sono state fatte varie ipotesi: la più accreditata è quella della rassegnazione della Santa Sede all'impossibilità di evitare la conquista dell'Urbe da parte del contingente italiano. La volontà del Papa fu quindi di mettere da parte ogni ipotesi di risposta militare all'attacco italiano. È infatti noto che l'allora segretario di stato, il cardinale Giacomo Antonelli, abbia dato ordine al generale Kanzler di ritirare le truppe entro le mura e di limitarsi ad un puro atto di resistenza formale, quale poi fu quello opposto alle truppe di Cadorna.
La prima amministrazione italiana di Roma. Il governo provvisorio di Roma. I componenti della Giunta, oltre al presidente Michelangelo Caetani, erano i seguenti: principe Francesco Pallavicini, Emanuele Ruspoli, dei principi Ruspoli, duca Francesco Sforza Cesarini, principe Baldassarre Odescalchi, Ignazio Boncompagni Ludovisi, dei principi di Piombino, avvocato Biagio Placidi, avvocato Vincenzo Tancredi, avvocato Raffaele Marchetti, Vincenzo Tittoni, Pietro Deangelis, Achille Mazzoleni, Felice Ferri, Augusto Castellani, Alessandro Del Grande.
Il 23 settembre il generale Cadorna, che aveva ricevuto dal governo italiano l'incarico di «promuovere la formazione della Giunta della città di Roma», formò il governo provvisorio assegnandone la presidenza a Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta.[35] L'organismo, che aveva funzioni simili a quelle dell'attuale giunta comunale, prese il nome di «Giunta provvisoria di governo di Roma e sua provincia» e si insediò il giorno seguente in Campidoglio.
Plebiscito di annessione del 2 ottobre 1870. Il governo del Regno aveva "nei memorandum diramati all'estero", "proclamato il diritto dei romani di scegliersi il governo che desideravano". Così come era stato fatto per le altre province italiane, anche a Roma fu quindi indetto un referendum per sancire l'avvenuta riunificazione della città con il Regno d'Italia. La formula inizialmente proposta vedeva all'inizio del quesito proposto la formula «Colla certezza che il governo italiano assicurerà l'indipendenza dell'autorità spirituale del Papa, ...». Questa premessa fu poi giudicata inutile e la domanda posta fu: «Desideriamo essere uniti al Regno d'Italia, sotto la monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori». Inizialmente il governo a Firenze aveva esclusa dalla votazione la Città Leonina, che si voleva lasciare sotto il controllo del Papa, ma le rimostranze di parte della popolazione e la mancanza di interesse da parte del governo pontificio spinsero le autorità locali a permettere anche agli abitanti di quel rione di partecipare alla consultazione, seppure con un seggio posto oltre ponte Sant'Angelo. Il plebiscito si svolse il 2 ottobre 1870, una domenica. I risultati videro ufficialmente la schiacciante vittoria dei sì, 40.785, a fronte dei no che furono solo 46. Il risultato complessivo nella provincia di Roma fu di 77.520 "sì" contro 857 "no". In tutto il territorio annesso i risultati furono 133.681 "sì" contro 1.507 "no". Tuttavia i dati non appaiono sorprendenti se si considera la spinta delle schiere cattoliche all'astensionismo, talvolta attuata anche con qualche stratagemma (ad esempio a Veroli il vescovo sceglie proprio il 2 ottobre per dispensare con solennità la Cresima). Ma l'invito all'astensione non fu lungimirante: permise al governo italiano di ostentare la schiacciante maggioranza dei sì, mentre il numero dei non votanti, per non parlare dei non iscritti, rimase nell'ombra. A ricordo dell'inizio del moderno Stato d'Italia come lo conosciamo oggi, il XX Settembre è riportato nella toponomastica di molte città italiane. Effettuato il plebiscito, il governo italiano si mosse con celerità per liquidare lo Stato Pontificio. Il regio decreto 9 ottobre 1870, n° 5903, proclamò l'annessione del Lazio all'Italia, e altri tre decreti di pari data istituirono una luogotenenza generale affidandola al senatore e generale Alfonso La Marmora, e accordarono le prime guarentigie per la persona del papa. Sei giorni dopo il regio decreto 15 ottobre 1870, n°5929, introdusse la struttura amministrativa del Regno programmando la creazione della Provincia di Roma per il successivo 5 novembre. Le elezioni amministrative furono indette per domenica 13 novembre, mentre nelle due domeniche successive vennero celebrate in tutta Italia le elezioni politiche anticipate dopo lo scioglimento della Camera dei deputati voluto dal governo Lanza appositamente per dare rappresentanza alla nuova provincia e far cogliere alla Destra storica il consenso generato dal completamento dell'unità nazionale. Entrambi gli appuntamenti si posero in netto contrasto col precedente plebiscito, dato che la vigente normativa (che assegnava il diritto di voto in base al censo) ammise alle urne poco più di diecimila persone in tutto il Lazio. Il quadro si completò col regio decreto 25 gennaio 1871, n° 26, che concluse il periodo straordinario della luogotenenza con le nomine di Giuseppe Gadda a prefetto e di Francesco Pallavicini a sindaco di Roma, ed infine con la legge del 3 febbraio 1871 che deliberò il trasferimento della capitale da Firenze a Roma.
Ripercussioni internazionali. Il ministro degli Esteri italiano, Visconti-Venosta, informò le cancellerie europee mentre la guerra franco-prussiana proseguiva con l'assedio di Parigi da parte delle truppe prussiane. Gli Stati europei non riconobbero ma accettarono l'azione italiana. Già il 21 settembre il rappresentante del re a Monaco scriveva che il conte Otto von Bray-Steinburg, ministro bavarese, avvertito degli avvenimenti gli aveva espresso la sua soddisfazione che tutto si fosse svolto senza spargimento di sangue. Launay da Berlino riportava il 22 settembre la posizione di neutralità del governo di Otto von Bismarck. Il 21 settembre da Tours il "Ministro del Re", cioè l'ambasciatore, in Francia, Costantino Nigra, inviava il seguente messaggio: «Ho ricevuto stamane il telegramma col quale l'E. V. mi fece l'onore di annunziarmi che le regie truppe sono entrate ieri a Roma, dopo una lieve resistenza delle milizie straniere, che cessarono il fuoco dietro ordine del Papa. Ho immediatamente comunicato questa notizia al signor Cremieux, membro del Governo della difesa nazionale, Guardasigilli e Presidente della Delegazione governativa stabilita in Tours. Il signor Cremieux mi ha espresso le sue vive felicitazioni per fatto annunziatogli.» (Costantino Nigra)
Carlo Cadorna, fratello maggiore del generale, era ambasciatore a Londra e nel dispaccio spedito il 22 settembre, parlò del lungo colloquio che ebbe con il conte di Granville, ministro degli Esteri del gabinetto Gladstone. Granville non fece commenti data la novità della notizia, ma secondo Cadorna «la notizia che gli aveva data gli era riuscita gradita». Questa impressione fu poi confermata in un altro telegramma spedito il 27, in cui l'ambasciatore esprimeva la soddisfazione del ministro sulle modalità con cui si erano svolti gli avvenimenti.
Reazioni del governo pontificio. A pochi giorni dalla presa di Roma, il 1º novembre 1870 Pio IX emanò l'enciclica Respicientes ea nella quale dichiarava "ingiusta, violenta, nulla e invalida" l'occupazione dei domini della Santa Sede. Il cardinale Antonelli l'8 novembre diramò ai rappresentanti degli stati stranieri una nota che attaccava Visconti Venosta ed in cui affermava: «Quando con un cinismo senza esempio, si pone in ogni cale ogni principio di onestà e giustizia, si perde il diritto di essere creduti». Pio IX si dichiarò «prigioniero politico del Governo italiano». Lo Stato Italiano promulgò nel maggio del 1871 la Legge delle guarentigie, con la quale assegnava alla Chiesa l'usufrutto dei beni che ora appartengono alla Città del Vaticano, e si conferivano al Papa una serie di garanzie circa la sua indipendenza. Tuttavia tale compromesso non venne mai accettato né da Pio IX né dai suoi successori. Nel 1874 Pio IX emanò il Non expedit, con cui vietò ai cattolici italiani la partecipazione alla vita politica. Soltanto in età giolittiana tale divieto sarebbe stato eliminato progressivamente, fino al completo rientro dei cattolici "come elettori e come eletti" nella vita politica italiana: solo nel 1919, con la fondazione del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, i cattolici furono presenti nel mondo politico italiano ufficialmente. Il contenzioso tra Stato italiano e Santa Sede trovò una soluzione nel 1929, durante il governo Mussolini, con i Patti Lateranensi, mediante i quali si giunse ad una effettiva composizione bilaterale della vicenda.
Reazioni dei cattolici liberali. Tra i cattolici che salutarono favorevolmente o entusiasticamente la Liberazione di Roma del 20 settembre 1870 vi furono i "modernisti", tra cui Alessandro Manzoni e lord Acton, perché vedevano nella fine del potere temporale del papato una maggiore libertà dei cattolici. Secondo i dati forniti dal Generale Raffaele Cadorna nel suo libro, l'intera campagna di occupazione del Lazio costò 49 morti e 141 feriti all'esercito italiano; e 20 morti e 49 feriti all'esercito pontificio. Questo è l'elenco dei soldati pontifici caduti in seguito alla Presa di Roma:
Zuavi:
Sergente Duchet Emile, francese, di anni 24, deceduto il 1º ottobre.
Sergente Lasserre Gustave, francese, di anni 25, deceduto il 5 ottobre.
Soldato de l'Estourbeillon, di anni 28, deceduto il 23 settembre.
Soldato Iorand Jean-Baptiste, deceduto il 20 settembre.
Soldato Burel André, francese di Marsiglia, di anni 25, deceduto il 27 settembre.
Soldato Soenens Henri, belga, di anni 34, deceduto il 2 ottobre.
Soldato Yorg Jan, olandese, di anni 18, deceduto il 27 settembre.
Soldato De Giry (non si hanno altri dati).
Altri tre soldati non identificati, deceduti il 20 settembre.
Carabinieri:
Soldato Natele Giovanni, svizzero, di anni 30, deceduto il 15 ottobre.
Soldato Wolf Georg, bavarese, di anni 27, deceduto il 28 ottobre.
Dragoni :
Tenente Piccadori Alessandro, di Rieti, di anni 23, deceduto il 20 ottobre.
Artiglieria :
Maresciallo Caporilli Enrico, deceduto il 20 ottobre.
Soldato Valenti Giuseppe, di Ferentino, di anni 22, deceduto il 3 ottobre.
Elenco alfabetico dei caduti italiani il 20 settembre 1870: Agostinelli Pietro, Aloisio Valentino, Bertuccio Domenico, Bianchetti Martino, Bonezzi Tommaso, Bosco Antonio, Bosi Cesare, Calcaterra Antonio, Campagnolo Domenico, Canal Luigi, Cardillo Beniamino, Cascarella Emanuele, soldato Lorenzo Cavallo[47], Corsi Carlo, De Francisci Francesco, Gambini Angelo, Gianniti Luigi, Gioia Guglielmo, Iaccarino Luigi, Izzi Paolo, Leoni Andrea, Maddalena Domenico, Marabini Pio, Martini Domenico, Matricciani Achille, Mattesini Ferdinando, Mazzocchi Domenico, Morrara Serafino, Giacomo Pagliari (comandante del 34º battaglione Bersaglieri), Palazzoni Michele, Paoletti Cesare, Perretto Pietro, Prillo Giacomo, Rambaldi Domenico, Renzi Antonio, Ripa Alarico, Risato Domenico, Romagnoli Giuseppe, Sangiorgi Paolo, Santurione Tommaso, Spagnolo Giuseppe, Thérisod Luigi David, Tumino Giuseppe, Turina Carlo, Valenzani Augusto, Xharra Luigi, Zanardi Pietro, Zoboli Gaetano.
La presa di Roma nel cinema.
Nel 1905 viene realizzato il film La presa di Roma di Filoteo Alberini, uscito il 20 settembre per commemorare l'azione. Tra l'altro il film fu il primo proiettato pubblicamente in Italia.
Nel 1971 Antonio Racioppi dirige, dietro la macchina da presa, Mio padre monsignore un film che ha il sapore di una commedia, ma che culmina con un atto di eroismo. Fra gli attori figurano: Giancarlo Giannini, Lino Capolicchio, Marisa Merlini, Barbara Bach e Gastone Moschin.
Nel 1972 Alfredo Giannetti realizza Correva l'anno di grazia 1870, a cui partecipano attori del calibro di: Anna Magnani, Marcello Mastroianni e Mario Carotenuto.
Nel 1980 Luigi Magni cura la regia di Arrivano i bersaglieri, ritratto della Roma nei giorni subito seguenti la breccia di Porta Pia. Mentre dilaga il trasformismo, un aristocratico ostile ai conquistatori ospita in casa uno zuavo, senza sapere che quest'ultimo ha ucciso suo figlio bersagliere.
Nel 1986 viene riproposta la presa di Roma in un episodio del film Superfantozzi, quando la famiglia di Fantozzi il giorno 20 settembre 1870 acquista una casa a Porta Pia, che viene distrutta poco dopo dai bersaglieri.
Nel 2003 sempre Luigi Magni dirige il film tv La notte di Pasquino con Nino Manfredi, ambientato a poche ore di distanza dalla Breccia di Porta Pia.
Nel 2013 la miniserie L'ultimo papa re con Gigi Proietti nei panni del cardinale Romeo Colombo da Priverno e con la regia di Luca Manfredi, si conclude con la presa di Roma da parte dei bersaglieri.
Porta Pia 150 anni fa: Roma libera e italiana. Simonetta Fiori il 19 settembre 2020 su La Repubblica. Il 20 settembre di 150 anni fa i bersaglieri di Cadorna entravano nella nuova capitale del regno. Tre punti di vista su quel giorno. "Romani! La mattina del 20 settembre 1870 segna una data delle più memorabili nella storia. Roma ancora una volta è tornata, e per sempre, ad essere la grande Capitale d'una grande Nazione!". Così il generale Raffaele Cadorna salutò la conquista della città eterna dopo aver aperto una breccia a pochi metri da Porta Pia. Alle 10 del mattino di centocinquant'anni fa i primi bersaglieri e fanti del neonato Stato italiano fecero il loro ingres...
Lo scempio urbanistico nato dalla Breccia poco Pia...20 settembre 1870. Con la Presa “militare” 150 anni fa, Roma viene annessa al Regno d’Italia, diventandone la Capitale. Ma non è pronta. Vittorio Emiliani il 20 settembre 2020 su Il Fatto Quotidiano. Ma si combatterà o non si combatterà per Roma Capitale? Da entrambe le parti ci sono velleità: Vittorio Emanuele II è già parecchio superstizioso di suo e non vuole correre altri rischi entrando a Roma e soprattutto varcando il grande portone del Quirinale. Sopra ogni cosa, ha una paura fottuta della scomunica papale. Per questo […]
Porta Pia: i fatti, gli uomini, le armi. Edoardo Frittoli il 20/9/2020 su Panorama. Il sogno di Roma Capitale del Regno d'Italia preconizzata da Cavour si realizzò quasi un decennio dopo la sua morte. Alla battaglia per la risoluzione manu militari della "questione romana" si giunse dopo il fallimento delle vie diplomatiche con Pio IX (che dopo la parentesi della Repubblica Romana si era chiuso in Vaticano abolendo tutte le riforme precedentemente concesse). La vera svolta giunse con la disfatta francese contro la Prussia e la caduta di Napoleone III, garante della sicurezza e dell'integrità dello Stato Pontificio e della sua protezione armata. Il ritiro graduale delle guarnigioni francesi dai territori governati dall'ultimo Papa-Re aveva permesso l'avvicinamento delle divisioni Italiane del "Corpo di Osservazione dell'Italia Centrale" alla Città Eterna dopo alcuni scontri in territorio laziale con i soldati pontifici. L'ultimo tentativo di risolvere la questione per vie diplomatiche ebbe luogo la sera prima della presa di Roma quando il conte prussiano Henri Von Arnim, ambasciatore presso la Santa Sede, comunicò il rifiuto delle trattative da parte del Papa, le cui decisioni erano ormai pilotate dai comandanti dell'Esercito pontificio decisi a resistere entro le mura. Quando scese la sera del 19 settembre 1870 non solo la zona di Porta Pia, ma tutta la città di Roma era circondata dalle divisioni italiane giunte nei pressi delle porte dislocate lungo le mura aureliane. Il comandante generale Raffaele Cadorna si preparava all'assalto inizialmente pensato per il giorno stesso ma successivamente posticipato al 20 settembre per permettere lo svolgimento delle ultime mosse diplomatiche. Lungo via Tiburtina si era già acquartierata la XIII Divisione del generale Emilio Ferrero con la Brigata Cuneo sulla destra e la Brigata Abruzzi sulla sinistra in vista di un attacco ancora da stabilire, se contro Porta San Lorenzo o Porta Maggiore, mentre la XI Divisione del generale Enrico Cosenz si trovava nei pressi di Ponte Salario sul fiume Aniene pronta a dare l'assedio alla porta omonima, la Salaria. A poca distanza la XII Divisione, guidata dal generale Gustavo Mazé de la Roche attendeva a Ponte Nomentano, con gli avamposti composti dagli uomini del 41° Fanteria e 12° Bersaglieri rivolti verso la Porta Pia. Completavano il quadro delle forze italiane incaricate dell'assalto di Roma la IX Divisione comandata da Cadorna pronta ad attaccare la Porta San Giovanni. Contemporaneamente presso la porta di San Pancrazio al Gianicolo si videro arrivare le forze della II Divisione, comandata dall'eroe e veterano dell'Unità d'Italia generale Nino Bixio. L'assalto, previsto alle prime luci dell'alba del 20 settembre, prevedeva una serie di attacchi sincronici di artiglieria alle diverse porte di accesso delle mura aureliane. Porta Pia, diventata il simbolo della vittoria, non fu la prima a ricevere i colpi dei cannoni. Erano le quando le bocche di fuoco della XIII Divisione iniziavano l'attacco diversivo per attrarre parte dei pontifici alla Porta Maggiore, supportate dall'azione di fanti del 59° in funzione di esca già dalla notte precedente. La fanteria pontificia tentò anche una sortita nel buio, venendo respinta. Durante lo scontro a fuoco caddero i primi due morti italiani della battaglia per Roma, ore prima dell'azione epica della breccia. L'assalto a porta Maggiore durò pochissimo, con pochi colpi sparati dalle batterie di Ferrero giunte a soli 270 metri dalle mura. La bandiera bianca dei soldati del Papa si alzò quando la luce del sole illuminava da poco la porta. Il primo baluardo della Città Eterna era caduto. La Divisione del comandante in capo Raffaele Cadorna, la Nona, muoveva verso porta San Giovanni già alle 4 del mattino, con 14 pezzi di artiglieria al seguito, comandati dal generale Guglielmo De Sauget da Vibo Valentia che si appostava alla cascina Matteis. Come convenuto, alle del mattino dodici cannoni aprivano il fuoco soverchiando gli unici due pezzi pontifici a difesa della porta, che in poco tempo si schiantava in fiamme generando anche in questa zona la resa dei soldati di Pio IX. Fu in questo frangente che il capo di Stato Maggiore delle forze pontificie, il tedesco Hermann Kanzler, si risolse per la resa prima ancora che l'assalto principale alle porte Salaria e Pia fosse compiuto. Mentre il comandante dell'esercito di Pio IX organizzava la deposizione delle armi, gli Italiani continuavano a far fuoco lungo le mura. Poco prima delle la Undicesima e Dodicesima divisione erano in posizione per dare inizio all'attacco principale verso le due porte Pia e Salaria, distanti tra loro poche centinaia di metri e collegate dalle mura aureliane. Il Generale Giuseppe Angelino, secondo gli ordini del superiore generale Mazé della XII Divisione, aveva diviso i suoi uomini a destra e a sinistra della via Nomentana perché sferrassero l'attacco sia attraverso la Porta Pia che per la breccia che le artiglierie avrebbero dovuto aprire nella cinta muraria a ridosso del varco. Con lui erano i Bersaglieri del 35° Reggimento in attesa a villa Torlonia, e i fanti della Brigata "Bologna" con il 39° Fanteria a villa Massimo e il 40° a villa Sant'Agnese. Completava lo schieramento la Brigata "Modena" del generale Carchidio di Malavolta (41° e 42° Fanteria) con i Bersaglieri del 12° Reggimento e le artiglierie. Acquartierati a cascina Bonesi approntavano i 12 cannoni a cui si aggiungevano altre due bocche a villa Dies lungo la Nomentana, queste ultime puntate verso le artiglierie pontificie sistemate sulle mura. In posizione più arretrata le riserve di artiglieria a Villa Albani (comandate da Luigi Pelloux, futuro Primo Ministro del Regno) dove si era stabilito il comando italiano di Raffaele Cadorna a soli 500 metri dalle mura. Pronti ad intervenire erano anche altri sei Battaglioni Bersaglieri e ulteriori due cannoni a villa Macciolini. Sono proprio le batterie di riserva ad aprire il fuoco contro la Porta Pia alledel mattino, comandate da un ufficiale di religione ebraica, il capitano Giacomo Segre del 9° Reggimento Artiglieria. Le azioni di cannoneggiamento furono tutt'altro che agevoli per gli uomini di Cadorna, che osservava la scena da un rilievo nel parco della villa Albani. I pontifici avevano infatti concentrato il grosso delle difese a Porta Pia inclusi numerosi tiratori scelti che presero a martellare i pezzi italiani disturbando il tiro e colpendo persino alcune stanze della villa dove era il comando supremo italiano. Per questo motivo il cannoneggiamento della porta risultò più lungo che in altri punti delle mura, a causa dei colpi di precisione dei cecchini pontifici sistemati sul tetto di villa Patrizi, avamposto stabilito appena fuori le mura. Il primo assalto del 35° Bersaglieri sarà proprio contro i fucilieri nemici, dopo aver aperto un varco con l'ausilio degli Zappatori del Genio. Dalla porta Salaria i cecchini del Papa tenevano sotto scacco le forze di villa Albani, tanto che il generale Cosenz decise di posizionare il fuoco di risposta con i tiratori scelti del 49° Fanteria e 34° Bersaglieri. Tre ore e mezza dopo il primo colpo di cannone, finalmente le mura crollavano a poche decine di metri dalla porta. La breccia era visibile dai comandi italiani, ma le difese pontificie non davano segni di resa. Porta Pia era infatti barricata dall'interno, mentre la Salaria era stata addirittura murata e alcuni pezzi dell'artiglieria papale avevano preso a sparare sugli Italiani dal colle del Pincio. Fu necessario allora che il generale Mazé spostasse le artiglierie a villa Torlonia dalla Nomentana, per proseguire il bombardamento della porta che alle risultava danneggiata da una breccia di 30 metri di ampiezza. Fu allora che Cadorna ordinò a Cosenz di preparare l'assalto finale avvicinando i suoi uomini alla porta. Il 39°Fanteria comandato da Carchidio avrebbe dovuto assaltare la porta coperto dal fuoco dei Bersaglieri del 35° Reggimento, mentre al 12° Bersaglieri e al 41° Fanteria sarebbe toccato il passaggio attraverso la breccia. Nella corsa all'assalto dalla Nomentana e dalla Porta salaria il primo ad arrivare alle mura pontificie fu il 34° Bersaglieri giunto in riserva, e fu anche il primo ad avere il primo caduto, il Maggiore Pagliari. All'ingresso dei soldati del Regio Esercito si alzavano le prime bandiere bianche e i trombettieri rispondevano con il "cessez le feu", che tuttavia non fu udito da tutti nel caos dell'assalto. In particolare continuarono a sparare le truppe scelte del Papa, gli Zuavi pontifici del generale Athanase de Charette, asserragliati a poca distanza dalla porta conquistata dagli Italiani nella villa Bonaparte, oggi sede dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. Gli ultimi scontri a fuoco si ebbero attorno alle 10 del mattino, mentre alla medesima ora lontano dalla breccia presso la Porta San Pancrazio, la II Divisione di Nino Bixio conquistava l'obiettivo non senza difficoltà e un certo spargimento di sangue tra i suoi (7 morti e 23 feriti) a causa della strenua resistenza dei pontifici e il tiro preciso delle artiglierie che sparavano senza sosta dalla Leonina. Il giorno stesso il Luogotenente Colonnello Primerano controfirmava l'atto di resa consegnato dal Capo di Stato Maggiore pontificio, Maggiore Rivalta. Roma era italiana, ad eccezione della parte a Sud dei bastioni di Santo Spirito comprendente il Monte Vaticano e Castel sant'Angelo: l'ultimo lembo del potere temporale dei pontefici dal quale si ritiravano lentamente i soldati del Papa ai quali erano comunque concessi gli onori di guerra. Le forze in campo il 20 settembre 1870 furono caratterizzate da una marcata disparità: mentre le forze guidate dal generale Raffaele Cadorna contavano circa 65.000 uomini, le difese delle armate pontificie superavano di poco le 13.000 unità. Dal punto di vista dell'armamento individuale invece, i soldati di Pio IX si trovavano in vantaggio. Nel 1868 il comandante generale Hermann Kanzler aveva infatti optato per l'adozione di un nuovo fucile brevettato lo stesso anno, il Remington Rolling Block. Si trattava di un'arma a retrocarica a colpo singolo calibro 12,7 mm. Prodotto dalla newyorchese E.Remington and Sons era stato sviluppato a partire dai modelli impiegati durante la Guerra Civile americana come quelli in dotazione agli uomini del generale Custer a Little Big Horn. Caratteristica peculiare del modello in dotazione ai Francesi (e quindi ai Pontifici) era l'otturatore in grado di ruotare su un perno, meccanismo che riduceva ai minimi termini il pericolo di inceppamento e garantendo l'efficacia di tiro per la capacità del fucile di 13 colpi al minuto. I proiettili erano metallici e la gittata massima di 900 metri aveva un tiro utile di 300. I Remington ex pontifici, bottino di guerra, furono per un periodo dati in dotazione ad alcuni reparti di Bersaglieri. Gli Italiani potevano invece contare su un fucile che vide il proprio impiego in azioni belliche unicamente in occasione della Presa di Roma. Si trattava del Carcano modello 1867, uno dei primi fucili a retrocarica adottati dall'Esercito italiano dopo la sconfitta per mano dai Francesi a Mentana, che erano equipaggiati proprio con fucili a retrocarica "Chassepot". Salvatore Carcano, il padre di molti fucili italiani, lo aveva progettato tenendo conto delle ristrettezze economiche con le quali l'Italia post-unitaria dovette fare i conti. Nonostante questo, il Carcano 1867 fu tutto sommato un fucile riuscito se suoi considera che il budget per il suo sviluppo fu ridotto a circa un quinto di quanto richiesto dal progettista (famosa fu la frase di Carcano in risposta ad un funzionario: " Con rispetto parlando, Eccellenza…ma con dieci lire di spesa massima a disposizione, speravate che sparasse anche dritto?"). Anche se in realtà si trattava di una trasformazione del vecchio modello 1860 a retrocarica, il Carcano 1867 era alimentato da proiettili di carta (sempre a causa dei suddetti problemi finanziari del Regno) ed era dotato di un otturatore detto "a catenaccio" a colpo singolo. Il percussore era ad ago e il calibro di 17,5 mm per un tiro utile di circa 200 metri e una gittata di circa 800 metri. Il problema principale del fucile era l'affidabilità essendo una riconversione di una retrocarica, con problemi di resistenza alle intemperie e facilità di inceppamento. Per questo motivo durante lo stesso 1870 sarà sostituito dal più performante Vetterli-Vitali, che sarà utilizzato durante le prime avventure coloniali dell'Italia post-risorgimentale. Una curiosità sulle armi impiegate a Porta Pia riguarda la ipotetica presenza tra le mura della Città Eterna di una delle prime mitragliatrici della storia. Diverse fonti parlano della presenza di una Claxton .690, una mitragliatrice americana a sei canne meccanica ad razionamento manuale, che sarebbe stata capace di 80 colpi al minuto per una gittata superiore ai due chilometri. La leggenda vuole che Papa Pio IX ne avesse impedito l'utilizzo direttamente al comandante degli Zuavi pontifici di Charette per evitare un bagno di sangue che avrebbe finito per nuocere all'immagine del Pontefice e per meglio dimostrare al mondo intero quanto quella di Porta Pia fosse stato un atto di guerra nei confronti di uno Stato libero.
De Amicis, inviato di guerra a Porta Pia: il racconto di quell'epica mattinata di 150 anni fa. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 20 settembre 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
Tra i primi giornalisti “embedded” (aggregati all'esercito) della contemporaneità vi fu lo scrittore ligure Edmondo de Amicis (1846– 1908), autore del notissimo, pedagogico libro “Cuore”. Intrapresa molto giovane la carriera militare, dopo aver partecipato alla campagna del 1866, De Amicis lasciò il mestiere delle armi per seguire le attività di giornalista, saggista e narratore. Nel 1870, appena 23enne, si trovava però di nuovo sul campo di battaglia al seguito del Regio Esercito come cronista militare. Vale la pena riportare la sua cronaca della Presa di Porta Pia, poi inserita nel romanzo “Le tre Capitali” sia per il valore di testimonianza oculare, sia per la prosa “moderna e perfettamente italiana” dell’autore. Il testo è stato riportato quasi integralmente nel fascicolo storico allegato al numero di settembre della Rivista Militare, periodico dell'Esercito dal 1856. «Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su vari punti. Così era infatti. Il IV Corpo d’Esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara, la Divisione Angioletti contro porta San Giovanni, la Divisione Bixio contro porta San Pancrazio. Il Generale Mazè de la Roche, con la 12ª Divisione del 4° Corpo, doveva impadronirsi di Porta Pia. Via via che ci avviciniamo (a piedi s’intende) vediamo tutte le terrazze delle ville affollate di gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l’ordine di avanzarci contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L’artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le brecce. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici appostati là erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontifici davano saggio d’una maravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l’assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d’una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in mezzo agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano fucili tra il verde dei giardini; scintillavano lance al di sopra dei muri; ufficiali di Stato maggiore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni. È impossibile ch’io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della Divisione Mazè de la Roche, che è quella ch’io seguii. La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati dai muri di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontifici, e già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il fuoco dei cannoni pontifici, da quella parte, era già cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A poche centinaia di metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria tiravano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il Generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate lanciate, parve, da un’altra porta, passarono non molto al disopra dello Stato Maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa molto danno. Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40° a passo di carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio, per aspettare il momento d’entrare. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido «Savoia!» poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò: – Sono entrati! – Arrivarono allora a passi concitati i sei battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di artiglieria; s’avanzarono altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli altri verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il Maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35°. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il Generale Angolino s’era slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa. La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. In quel momento uscì da Porta Pia tutto il Corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale. Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. È impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro». Dopo l’irruzione dei Bersaglieri in Roma, De Amicis passa a descrivere l’entusiasmo della popolazione, in netto contrasto con lo scoramento dei volontari pontifici. «In mezzo alla piazza vi sono circa trecento zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni di bersaglieri. Il Colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano giù dalla loggia del palazzo che chiude il lato destro della piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi, bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai soldati, li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano. […] Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto il cappello; i soldati, rispondono alzando il cheppì; le braccia si tendono dall’una parte e dall’altra, e le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a piedi, a gruppi, scompagnati, sono salutati con alte grida. Si festeggiano i medici, i soldati del treno, gli ufficiali dell’intendenza. Passano i generali e tutte le teste si scoprono. – Viva gli ufficiali italiani! – è il grido che risuona da un capo all’altro del Corso. In piazza San Carlo un maresciallo dei carabinieri a cavallo, scambiato per un generale, è ricevuto da una dimostrazione clamorosa, che gli cagiona un grande stupore. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo. Non v’è gruppo di cittadini che non abbia con sè un soldato, e ciascun gruppo osserva il suo da capo a piedi, gli toglie di mano le armi, gli parla tenendogli le mani sulle spalle, stringendogli le braccia, guardandolo negli occhi cogli occhi scintillanti di gioia. – Viva i nostri liberatori! – si grida. Davanti al caffè di Roma alcuni giovinetti gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di baci. – Viva il nostro esercito nazionale! – gridano cento e cento voci insieme. – Viva i soldati italiani! – Viva la libertà! – E i soldati rispondono: – Viva Roma! – Viva la capitale d’Italia! – In molti, specialmente nei giovani, l’entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore. Non vidi mai, ve lo giuro, uno spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di più solenne e di più meraviglioso».
Porta Pia, la vera storia: così fu presa Roma. A 150 anni dalla breccia di Porta Pia, ripercorriamo quei momenti. Così venne la città dei Papi divenne la capitale del regno d'Italia. Matteo Carnieletto, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. È l'alba del 20 settembre 1870 e il sole si affaccia timidamente su Roma. Le truppe del Regio esercito italiano si sono mosse nella notte per avvicinarsi alle mura della città eterna, ultima roccaforte di papa Pio IX. Tutti sono pronti alla guerra. All'interno delle mura, il generale Hermann Kanzler arringa i suoi 16mila uomini: dovranno essere pronti a immolarsi per difendere "il dolce Cristo in terra", quello che, anche se nessuno ancora lo sa, sarà l'ultimo papa re. Al di fuori delle mura, invece, i soldati italiani sono pronti a combattere affinché la città eterna diventi la capitale d'Italia. Non più Torino, non più Firenze. La capitale del neonato Regno deve essere la città dei cesari e dei papi. "O Roma o morte", aveva detto Giuseppe Garibaldi a Marsala il 19 luglio del 1862. Così fu. Già a partire dall'inizio dell'estate, la città è in subbuglio. La guerra franco-prussiana ha infatti rinvigorito le spinte di coloro che, anche all'interno dello Stato pontificio, vogliono far di Roma la capitale d'Italia. Si legge nei documenti: "Molti privati spontaneamente portavano personalmente, o partecipavano per iscritto informazioni, come accade quando una causa è popolare; ma era difficile discernere le vere dalle false. Molte erano fantastiche e frutto di una riscaldata immaginazione, con quale disturbo per un Quartier Generale già di molto preoccupato, è superfluo l'accennare. E quale danno poi se si fanno le operazioni su falsi o alterati dati! E ciononostante, a tempi più tranquilli, alcuni di siffatti inventori di notizie reclamarono compensi...Essenzialmente le informazioni positive ed utili, provenivano da ufficiali dell'esercito segretamente spediti. Fra le informazioni attendibili vi fu quella che allo scoppiare della guerra franco-germanica ebbero piuttosto luogo parecchie liti fra tedeschi e francesi dell'esercito pontificio". Spie, vere o presunte, ovunque. E la certezza che un attacco sarebbe prima o poi arrivato. Il 20 di settembre, gli scontri iniziano poco dopo le cinque di mattina. Sono gli zuavi a sparare per primi, vedendo un gran numero di soldati schierati. Uno dei primi a cadere, se non il primo, è il caporale Piazzoli, che viene colpito mentre cerca di caricare il pezzo di artiglieria che avrebbe dovuto sparare il primo colpo. L'attacco viene così ritardato, ma solo di pochi minuti. Secondo una leggenda, è dunque il capitano Giacomo Segre, israelita, a sparare per primo. Come mai proprio lui? In quanto ebreo non sarebbe incorso nella scomunica papale. La realtà è però diversa, come ci spiega il generale di Brigata Fulvio Poli: "L'aneddoto che fu incaricato lui di aprire il fuoco contro le mura di Roma per evitare la scomunica papale non trova conferme nei documenti. Segre era un eccellente artigliere di un esercito pluriconfessionale. In verità, alle 5 e 15, le artiglierie della 9^ Divisione e della 13^ aprirono il fuoco secondo quanto aveva ordinato il generale Cadorna; pochi minuti dopo, iniziarono pure quelle dell'11^ e 12^. Alle 5 e 20, aprirono il fuoco le batterie della riserva". I documenti sono chiari e smontano la vulgata che è arrivata fino ai giorni nostri: "Al centro le batterie da posizione della riserva e le altre due dell'11^ incominciarono a battere in breccia il tratto di cinta già stabilito e più di tutte contribuì alla rovina della muraglia la 5^ batteria del capitano Segre per la breve distanza che la separava dal bersaglio". Ci vogliono tre ore prima che cada il muro che difendeva il pontefice. Vengono sparati 888 e, alle 8.30, viene finalmente aperta la breccia di Porta Pia. Si alza un intenso fumo. Odore di calce e di polvere da sparo. L'artiglieria non si ferma e continua a sparare fino alle 9.45, quando una bandiera tricolore appare sulla torretta di Villa Patrizi. È il segnale: Roma è presa. Il muro crolla completamente, ad eccezione di una raffigurazione di Maria, come scriverà Edmondo De Amicis, all'epoca giovane ufficiale testimone di quegli eventi: "La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il solo intorno era sparso di mucchi di terra; di materassi fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti". I soldati pontifici, infatti, non resistono più di tanto. È Pio IX stesso a ordinare, in una lettera la cui data è stata cambiata più volte, che non venga versato sangue inutilmente. La missiva, datata inizialmente 14 o 19 settembre, venne poi modificata più volte, cambiando la frase "ai primi colpi di cannone" con o"appena aperta una breccia" e "a qualunque spargimento di sangue" con "a un grande spargimento di sangue". A distanza di 150 anni, non sappiamo ancora perché il Santo Padre volle assumersi la responsabilità dei caduti. Ma così fu. Come del resto si fece anche da parte italiana: la battaglia "doveva essere morbida, non doveva dare occasioni alla comunità cattolica - più di quante non ne offra di per sé un attacco armato al capo supremo della Chiesa - di montare uno scandalo internazionale" (Antonio di Pierro, L'ultimo giorno del Papa Re. 20 settembre 1870: la breccia di Porta Pia). I morti del resto furono solo 48 per il regio esercito e 19 tra quello pontificio: "L'andamento delle operazioni evidenzia, da un lato, come la resistenza pontificia, per quanto inizialmente accanita, fu poco più che simbolica e, dall’altro, dimostra la volontà italiana di non portare danno alla città e alla sua popolazione", ci spiega il generale Poli. Si chiudeva così un'era, quella dei papa re, e se ne apriva un'altra: l'unità d'Italia era stata raggiunta. E guadagnata con il sangue.
20 settembre 1870, attacco a Roma: le operazioni militari nel dettaglio. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 19 settembre 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
«La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città Eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida Capitale del Regno Italico». Così Cavour identificava il destino d’Italia con questa dichiarazione in Parlamento dell’11 ottobre 1860. Ci vollero dieci anni per realizzare una delle tappe più significative per l’Unificazione Nazionale, iniziata con l’epopea garibaldina e definitivamente compiuta con l’annessione della Venezia Giulia e del Trentino dopo la Grande Guerra. Il momento propizio scaturì dalla sconfitta della Francia a Sedan, nel 1870, contro la Prussia. La guarnigione francese a Roma a protezione del papa veniva ritirata e così sparivano all’improvviso, tutti gli ostacoli che si erano opposti alla soluzione della cosiddetta «Questione Romana» (che si concluderà definitivamente solo nel 1929, con i Patti Lateranensi). Era stato fatto un ultimo, estremo tentativo per un pacifico accordo con il Papa, ma l’intransigenza della Corte Pontificia fece rimanere inascoltato anche l’appello con il quale Vittorio Emanuele II si era rivolto a Pio IX. Il Regio Esercito italiano – spiega la Rivista Militare nel fascicolo storico del numero di settembre - già tre giorni dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, il 5 settembre 1870, si trovava già nei pressi di Spoleto con tre divisioni puntate su Roma: l’11ª comandata dal Generale Enrico Cosenz, accampata a Rieti, la 12ª, guidata dal Generale Gustavo Mazè de La Roche a Terni e infine la 13ª agli ordini del Generale Emilio Ferrero, a Orvieto. A capo dell’operazione, il prudente ed energico generale Raffaele Cadorna. Per parare eventuali imprevisti e scoraggiare ogni volontà di resistere da parte delle truppe papaline, furono aggiunte, nell’imminenza dell’attacco, altre due divisioni: la 9ª agli ordini del Generale Diego Angioletti in afflusso dal sud Italia e la 2ª agli ordini del Generale Bixio, che avrebbe minacciato Roma provenendo da Civitavecchia. Come spiega il Generale Antonio Lotito, nel pomeriggio del giorno 11, il primo ad entrare nel territorio dello Stato Pontificio fu proprio Nino Bixio, il quale avanzò verso Bagnoregio. Gli ordini di Kanzler, comandante dell’Esercito Pontificio, erano di “resistere all’attacco delle camicie rosse, ma in caso d’invasione da parte dell’Esercito Italiano, l’ordine era di ripiegare verso Roma”. Così fecero gli Zuavi di stanza nelle località via via occupate. Il 12 settembre, mentre tutte le divisioni italiane varcavano il confine dello Stato pontificio, Kanzler dichiarava lo stato d’assedio nella città. Il primo scontro avviene per la conquista di Civita Castellana, con 3 feriti fra i papalini e 7 fra gli italiani; Civitavecchia capitola il 16 settembre senza opporre resistenza alla divisione di Bixio. In località Sant’Onofrio, a pochi km dal centro di Roma, durante lo scontro a fuoco con gli zuavi papalini in ritirata, gli italiani hanno il primo caduto: il sergente Tommaso Bonezzi, dei Lancieri di Novara. Il 17, le truppe italiane varcano il Tevere ed ogni divisione occupa le posizioni previste dal piano d’attacco. Come riporta il Colonnello Attilio Vigevano nel suo volume “La fine dell’Esercito Pontificio”, complessivamente, il Regio Esercito schiera: 60 battaglioni di fanteria di linea, 17 battaglioni bersaglieri, 20 squadroni di cavalleria, 19 batterie di artiglieria, 9 compagnie zappatori del genio, con 7.300 cavalli e 114 cannoni. Spiega il Generale Lotito: «In prossimità delle mura della Città Eterna vennero schierate le artiglierie in organico alle divisioni, più quelle della riserva. Le artiglierie divisionali avrebbero dovuto effettuare dei tiri di disturbo, per favorire l’assalto delle truppe. Quelle della riserva, destinate all’effettuazione del cosiddetto “tiro di breccia”, avrebbero dovuto aprire un varco nella cinta muraria». Intorno alle 5,10 del 20 settembre, con cinque minuti di anticipo, l’artiglieria italiana apre il fuoco contro le Mura aureliane mentre nei dintorni assistono alle operazioni una moltitudine di civili, tra cui giornalisti, pittori, patrioti romani già esiliati, oltre a un eterogeneo insieme di ambulanti, curiosi e persino saltimbanchi e giocolieri. Come ricorda Assobersaglieri: «Alle 9.05 i vertici pontifici si riuniscono a palazzo Wedekind, (di fronte a Montecitorio, noto ai romani come sede storica del quotidiano “Il Tempo”) per decidere fino a quando protrarre la resistenza. Intorno alle 9.45, il fuoco delle batterie della riserva italiane apre una breccia fra Porta Pia e Porta Salaria, così il Generale Cadorna dà l’ordine di inizio movimento alle truppe verso le mura: una pattuglia di bersaglieri va in avanscoperta fin sotto la breccia e riferisce che ormai lo sventramento effettuato è percorribile da truppe appiedate». Vengono quindi predisposti per l’assalto finale il 34° battaglione bersaglieri e 3 battaglioni del 19° reggimento di fanteria da Villa Albani, il 12° battaglione bersaglieri e il 2° battaglione del 41° fanteria da Villa Falzacappa, quindi il 35° battaglione bersaglieri con il 39° e il 40° reggimento fanteria da Villa Patrizi. Sono le 10,05 e tutto sembra finito, ma fuori dalla breccia ci sono due divisioni di soldati italiani che si ammassano e spingono per entrare nella città. A poche decine di metri, altri pontifici che trovandosi a Villa Bonaparte non hanno ancora ricevuto l’ordine di resa, aprono un fitto fuoco di fucileria sulla massa di militari italiani ancora fuori Porta Pia e uccidono 4 bersaglieri, fra cui il Maggiore Giacomo Pagliari, ferendo altri 9 soldati di varie specialità. C’è un momento di smarrimento, di stasi, ma alle 10.10 i bersaglieri del 12° battaglione avanzano al passo di carica, baionetta inastata e, incitati dalle note che il trombettiere suona per dare ancora più vigore all’assalto, superano la breccia regalandoci quella icona risorgimentale che rimarrà impressa nell’immaginario collettivo e nei testi di Storia. Il primo bersagliere a superare la breccia è il Sottotenente Federico Cocito, del 12° battaglione. Passati i primi fanti piumati, un boato di esultanza si leva dalle divisioni che premono dietro di essi per entrare nella Città Eterna, quella che ora sarà la capitale della nuova Italia. Conclude il Generale Lotito: «Mentre la resistenza cessava a Porta Pia, la bandiera bianca fu issata lungo tutta la linea delle mura. I Generali Ferrero e Angioletti la rispettarono, invece Bixio continuò il bombardamento per circa mezz’ora». Mazè e Cosenz proseguirono nel loro assalto, le truppe italiane oltrepassarono la breccia sparando, facendo prigionieri e irrompendo dentro la cinta muraria; vi furono ancora scontri qua e là che si spensero in poche ore con la resa chiesta dal Generale Kanzler. Venne stabilito che le milizie pontificie sarebbero uscite dalla città con gli onori di guerra e che la Città Leonina sarebbe rimasta al Pontefice. Per ordine di Cadorna, così come convenuto con il Governo, non furono occupate la Città Leonina, Castel Sant’Angelo, i colli Vaticano e il Gianicolo. Si realizzava, in tale modo, una delle missioni affidate alla Forza Armata all’atto della sua istituzione il 4 maggio 1861: fare l’Italia.
Raffaele Cadorna senior: il generale prudente ed energico che aprì la breccia di Porta Pia. Fu padre del Generalissimo Luigi e nonno di Raffaele jr. comandante nella guerra di liberazione. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 16 settembre 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
Cadorna: il nome di una famiglia legata ad almeno un secolo di storia italiana di cui si ricorda soprattutto uno degli esponenti, quello del Generalissimo Luigi che fu Comandante supremo durante la Grande Guerra. Purtroppo, una grossolana demonizzazione ideologica sedimentata nei decenni ha trasferito un’immagine stereotipata di questo grande stratega ammirato sia dai suoi nemici che dagli omologhi stranieri ed ancor oggi studiato nelle accademie militari americane.
Grazie anche alle recenti riedizioni critiche dei libri da lui scritti in autodifesa, presentate alla Sala Zuccari del Senato, la sua figura sta conoscendo, tuttavia, una fase di radicale rivalutazione storica. Tuttavia, a ridosso dell’imminente 150° della Presa di Porta Pia vogliamo tratteggiare la figura di suo padre, il Generale Raffaele Cadorna senior (Milano, 9 febbraio 1815 – Roma, 6 febbraio 1897) che fu anche il nonno del generale Raffaele jr. comandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Guerra di Liberazione. Fu Raffaele “il vecchio” a guidare, infatti, il IV Corpo d’Esercito alla presa di Roma. La Rivista Militare (periodico dell’Esercito) di settembre ha raccolto - nel fascicolo storico allegato per l’anniversario - le testimonianze dei pronipoti del generale, il conte Luigi e il colonnello Carlo, che hanno condiviso documenti inediti ed episodi tramandati in famiglia. Il Generale Raffaele era quello che si potrebbe definire un “tecnico prudente ed energico”: prima al servizio del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia, era cadetto di un’antica famiglia nobile piemontese, di Pallanza, che però ancora non vantava il titolo comitale conferito poi dal Re proprio per la conquista di Roma.
Un giovane indisciplinato. Da ragazzo, Raffaele era di temperamento piuttosto esuberante, tanto che fu espulso per indisciplina due volte dall’Accademia Militare di Torino. Grazie anche all’intercessione del padre, stimato ufficiale, vi fu riammesso ed entrò in servizio presso il 1° reggimento della Brigata Savoia. Dopo una lunga gavetta, la sua carriera decollerà: egli, infatti, nasceva come ingegnere militare e i suoi progetti per fortezze e fortificazioni cominciarono ad essere presi sempre in maggior considerazione dallo Stato Maggiore. La sua competenza tecnica nelle fortificazioni - che sarà provvidenzialmente ereditata dal figlio Luigi per munire la Linea del Piave - ebbe risvolti non solo nell’ingegneria militare, ma anche in quella civile. Non per nulla, il Generale progettò il cimitero comunale di Pallanza e restaurò l’antico castello di Brolio di proprietà dell’amico barone Bettino Ricasoli.
Un gustoso aneddoto. Nel ’48, raggiunto il grado di Maggiore, partecipava alla Prima Guerra d’Indipendenza e il 12 marzo dell’anno dopo, su incarico di Carlo Alberto, fu inviato dal Feldmaresciallo Radetzky per “denunciare” l’Armistizio di Salasco, ovvero per riprendere la guerra del Piemonte con l’Austria. Racconta il Colonnello Carlo Cadorna che il suo bisnonno, per tentare di carpire qualche elemento utile dalle reazioni del Feldmaresciallo asburgico, finse di dimenticare il berretto nella sala dell’incontro. Ebbe modo, così, tornandovi, di sorprendere in riunione i generali avversari. Per quanto non fosse stato in grado di cogliere indizi di particolare rilevanza, l’episodio è significativo della determinazione e dell’acume dell’ufficiale.
La “Ridotta Cadorna” che salvò l’Europa. L’esperienza che maturò in Algeria a fianco dei francesi gli sarà preziosa durante la guerra di Crimea, quando partì al seguito del corpo di spedizione sardo comandato dal Generale Alfonso La Marmora. In quel contesto, racconta il Colonnello Carlo, Raffaele Cadorna notò che la testa di ponte francese predisposta a difendere il ponte di Traktir sulla destra del fiume Cernaia, era mal dislocata sul terreno. Da esperto geniere, di propria iniziativa fece scavare dai suoi uomini una trincea a zig–zag, a protezione dei francesi, per consentire l’incrocio dei fuochi. La “Ridotta Cadorna”, così chiamata, venne presidiata da tre compagnie del 16° reggimento di fanteria e da altrettante di bersaglieri. L’attacco russo avvenne su due colonne, una si infranse sulle trincee dei piemontesi che resistettero per un’ora ripiegando poi sul poggio. Questa posizione fu tenuta durante tutta la battaglia, ed ebbe un ruolo importante per il suo esito vittorioso. I giornali inglesi titolarono: “Il piccolo Piemonte ha salvato l’Europa”, ma, a quanto pare, il Generale La Marmora fece presto sparire questi giornali per non essere messo in ombra dal suo sottoposto.
Un cattolico alla conquista di Roma. A metà agosto del 1870, mentre volgevano al peggio le fortune di Napoleone III in guerra contro la Prussia e i suoi alleati, Raffaele Cadorna - che aveva più volte dimostrato di saper combinare la capacità militare con l’accortezza politica - ebbe il comando del Corpo di Spedizione ordinato dal governo Lanza–Sella per l’espugnazione di Roma e la debellatio dello Stato Pontificio tracciandone il piano il 1° settembre. Eppure, come ricorda lo storico del Risorgimento Aldo A. Mola: «Cattolico praticante, ma senza ostentazione – secondo la tradizione dell’aristocrazia subalpina – non era né anticlericale, né massone, a differenza del generale garibaldino Nino Bixio, prudenzialmente posto al comando della “retroguardia” dell’impresa proprio per non allarmare la Santa Sede».
La fine del potere secolare ecclesiastico. «Nella Storia – continua il Colonnello Carlo Cadorna – la strategia vincente è sempre stata quella che ha saputo combinare la realizzazione di rapporti di forza favorevoli, di preminente competenza militare, con la prudente ed accorta azione politica, sola responsabile nel decidere il come ed il quando. Il Papa Leone I, fermando Attila con la sua ieratica figura, aveva consentito alla Chiesa Cattolica di sostituirsi all’Impero Romano nella difesa della civiltà mediterranea: da allora essa si avvalse, in modo preponderante, della facoltà di mettere le case regnanti al suo servizio mediante la concessione del diritto divino ad esercitare il potere. Tuttavia, la Rivoluzione francese e Napoleone Bonaparte rovesciarono questo rapporto mettendo, piuttosto, il Papa al proprio servizio ed introducendo i principi laici. Proprio sulla perdita di consistenza e giustificazione storica del potere temporale dei papi si basò quindi la politica di Cavour, volta ad orientare l’opinione politica europea verso la separazione del potere temporale da quello spirituale. Venuto a mancare Cavour nel 1861, la sua politica fu ben interpretata da Giovanni Lanza che, con prudenza ed accortezza, attese che si creassero le condizioni non solo storiche, ma anche politiche e militari, perché il Papa dovesse prenderne atto”.
La strategia impiegata. La caduta di Napoleone III, sconfitto a Sedan, (2 settembre 1870) offrì l’occasione per l’applicazione del disegno. Il Generale Raffaele Cadorna dovette quindi conciliare la superiorità militare – che gli consentiva di entrare in Roma e convincere il Papa a desistere – con la moderazione politica. Questa esigeva che il risultato fosse ottenuto velocemente (vi era stato un precedente negativo con la Repubblica Romana nel 1849) e con pochissime perdite nell’Esercito Pontificio. Non restava quindi che l’arma della sorpresa: impedire, cioè, ai papalini di comprendere fino all’ultimo dove si sarebbe compiuto lo sforzo principale. Furono perciò disposte tutt’attorno alle Mura Aureliane le cinque divisioni disponibili, lasciando all’artiglieria della 12ª il compito di aprire la breccia di Porta Pia che, stando ai telegrammi inviati da Cadorna al Governo, sarà attuato in quattro ore, nella mattina del 20 settembre 1870.
Sega da amputazioni e acido fenico: la medicina di guerra nella presa di Porta Pia. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 18 settembre 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
«Ore 10. Forzata la Porta Pia e la breccia laterale aperta in 4 ore. Le colonne entrano con slancio, malgrado una vigorosa resistenza». Il telegramma del Generale Raffaele Cadorna del 20 settembre 1870 ben descrive la brevissima campagna di guerra contro l’esercito pontificio il quale attuò solo una “difesa di bandiera” per espresso ordine del papa Pio IX. La resistenza dei papalini avrebbe dovuto essere infatti simbolica quel tanto da significare al mondo come Roma fosse stata conquistata con un atto di guerra. Un bagno di sangue non avrebbe giovato all’immagine del Regno d’Italia né del Papa che, opponendo una resistenza così accanita, per quanto legittima, avrebbe permesso un massacro nella culla della Cristianità. Eppure, per quanto i combattimenti fossero stati brevi, durante lo scontro per la presa di Roma ci si fece male comunque: per il Regio Esercito, caddero in combattimento 48 uomini (3 Ufficiali e 45 di Truppa), i feriti complessivamente furono 143. L’Esercito pontificio lamentò 19 morti e 68 feriti. Va ricordato che, nelle guerre fra ‘800 e ‘900, solo una piccola percentuale dei soldati veniva uccisa direttamente dalle granate e dai colpi di arma da fuoco o di arma bianca. La stragrande maggioranza dei decessi avveniva soprattutto per le infezioni: tetano, setticemia, cancrena falcidiavano i feriti in un’epoca in cui la penicillina era ancora di là da venire. Secondo uno studio del Colonnello Cesare Tapinetto, gli italiani si erano attrezzati costruendo 3 ospedali temporanei a Terni, Rieti ed Orvieto e nel frattempo ci si appoggiò agli ospedali civili di Rieti, Amelia, Narni, Terni, Spoleto, Foligno, Città di Castello, Orvieto e Radicofani, per una capacità totale di 1.700 posti letto ad uso militare. Tuttavia, nonostante le fatiche e la malaria, gli ammalati furono pochi. Entrati in Roma, gli italiani stipularono delle convenzioni con gli ospedali romani: questi erano tenuti con molta cura anche perché i volontari che formavano i reparti di élite, come gli Zuavi, ad esempio, provenivano spesso dalla nobiltà o, comunque, da classi agiate. La Rivista Militare, (periodico dell’Esercito dal cui fascicolo storico di settembre, in questi giorni, stiamo traendo notizie in quantità) ha recuperato un volume del 1871: “Resoconto del servizio di ambulanza nell’ospedale pontificio” del dottor Alessandro Ceccarelli, direttore delle ambulanze e chirurgo–capo pontificio, che offre un panorama sulla medicina di guerra dell’epoca. Le innovazioni tecnologiche delle armi producevano maggiori e più gravi ferite rispetto al passato. Il fatto che i proietti d’artiglieria fossero divenuti in gran parte esplodenti produceva molte lesioni da scheggia e pericolosissimi erano i proiettili di rimbalzo: «Sebbene il combattimento non avvenisse a campo aperto, pure, si verificò un maggior numero di ferite dell’estremità inferiori in confronto alle superiori». Le pallottole di tipo Minié, di forma ogivale con alette, creavano ferite più gravi: «Ai nuovi proiettili nulla resiste – scriveva Ceccarelli - le fratture e le ferite penetranti sono fatte frequentissime, e quali fratture, e quali lesioni di visceri!». Le lesioni venivano lavate con acqua fenicata, ovvero addizionata ad acido fenico. Nel 1867, vi era stata infatti una svolta nella storia sanitaria con la messa a punto del metodo antisettico da parte del medico inglese Joseph Lister il quale aveva intuito, sull’onda delle scoperte di Pasteur, l’importanza di disinfettare le ferite e gli strumenti chirurgici. A tale scopo, aveva elaborato una soluzione di acido fenico che, tuttavia, risultava abbastanza irritante e tossica per il corpo umano. Un fondamentale sostituto di tale disinfettante diverrà, nel 1907, la tintura di iodio, scoperta dal medico italiano Antonio Grossich e che salvò qualche milione di nostri compatrioti in armi, almeno fino all’introduzione della penicillina. Le ferite venivano poi occluse con stoppa cardata – una sorta di ovatta – anch’essa disinfettata con acido fenico. Le contusioni e gli ematomi venivano trattati con ghiaccio raccolto in sacchetti di carta “pergamenata”. Le febbri da infezione erano curate col solfato di chinina, a volte si praticavano iniezioni di ammoniaca per stimolare il cuore, ma pare che questo rimedio fosse di breve durata. Per facilitare il riposo dei pazienti venivano somministrati degli oppiacei, come si era già sperimentato durante la Guerra Civile americana e quelli infetti venivano tenuti separati dagli altri degenti. Le amputazioni erano prassi ordinaria. Riportiamo la nota relativa a un paziente italiano: “Serra Leopoldo – Anni 41 – Bologna – Capitano del 12° Bersaglieri – Ferita per arma da fuoco trasfossa dal 3° superiore al 3° inferiore della faccia esterna della gamba sinistra, muscolare – Ingresso 24 Settembre Emolienti – Irrigazioni fenicate – Compressione ed occlusione – Guarigione 12 Ottobre”. Altri pazienti non furono così fortunati come questo Capitano. Con questo articolo avremo forse evocato immagini sgradevoli: l’odore pungente di brutali disinfettanti, il fetore di ferite cancrenose, le grida degli amputati o i lamenti degli agonizzanti. Ce ne rendiamo conto. E’ però importante citare anche dettagli che “possono turbare le persone sensibili” per ricordare, ogni tanto, per quale motivo il nostro Tricolore comprenda il colore rosso.
IL SECOLO BREVE DELL’ITALIA - 1866-1945, ANNI DI SANGUE - "Il senso dei leader per la guerra. La sconfitta è colpa dei soldati". di Lorenzo Giarelli su Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2020. - Esiste un secolo breve del mondo – reso celebre dallo storico britannico Eric Hobsbawm – e c’è poi un secolo breve tutto italiano, che condensa in ottant’anni la parte finale del processo unitario, la tragedia fascista, la lacerazione del settembre 1943 e la successiva, nuova, unità, questa volta in nome della Repubblica e della Costituzione. Eventi il cui filo conduttore si bagna del sangue delle guerre combattute, appunto, tra il 1866 e il 1945. A raccontarlo nel suo ultimo libro è Nicola Ferri, già magistrato e membro del Csm, “storico dilettante” (ipse dixit) del XX secolo e firma del Fatto quotidiano, che in La nostra memoria perduta – Le 16 guerre d’Italia da Crispi a Mussolini cerca di trovare coerenza tra battaglie ora coloniali ora parte dei conflitti mondiali, ma con in comune quasi sempre “l’illusione di facili vittorie” e la caratteristica di “essere marcate dalla irrazionalità, dall’avventurismo, dal miope opportunismo, dall’impreparazione, dall’improvvisazione, dal turpe cinismo per la sorte dei soldati mandati allo sbaraglio e dalla fretta di sederci al tavolo della pace”. Si potrebbe dire che in queste righe c’è il senso del libro e della nostra storia compresa tra gli ultimi 40 anni dell’Ottocento e i primi 40 del Novecento. E se il secolo breve di Hobsbawm si chiudeva “con il rumore di un’esplosione e un piagnisteo”, si può dire che l’esperienza italiana sia colma degli uni e degli altri. Ferri sceglie di raccontare le 16 guerre concentrandosi “sulle storie”: di generali, di soldati, di uomini di Stato crudeli o soltanto troppo piccoli di fronte al momento. Un modo per rendere l’argomento alla portata anche dei meno esperti o di chi ha terminato gli anni scolastici da un pezzo, senza per questo fare a meno dell’accuratezza. Gli aneddoti e le voci dei protagonisti raccolte nei telegrammi, nei diari o nelle cronache dell’epoca aiutano a chiarire di volta in volta il contesto e pure a smontare alcune delle false ricostruzione storiche divenute – chissà perché e chissà come – verità acclarate nell’immaginario collettivo. Ne è esempio la prima delle 16 guerre, quella che la “compiacente storiografia dell’epoca” battezzò, senza più essere smentita, come la “Terza Guerra di Indipendenza”. Slogan fortunato ma che semplifica i fatti, edulcorandoli all’uso dell’Unità d’Italia: in realtà fu “un patto d’alleanza con il cancelliere Otto von Bismarck”, che mirava a “affrancare la Prussia dalla pesante supremazia dell’Impero Asburgico nella Confederazione degli Stati tedeschi”. L’accordo, stipulato nel 1866 con “il patrocinio di Napoleone III”, prevedeva che l’Italia tenesse occupato parte dell’esercito austriaco sul fronte Lombardo-Veneto, in modo da agevolare le azioni prussiane altrove. Così andò, tanto che nonostante le nostre sconfitte (“Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro”, commentò l’ammiraglio Whilelm von Teghetoff dopo la battaglia di Lissa) ottenemmo quel che volevamo al tavolo di pace, dove ci potemmo presentare da vincitori in quanto alleati della Prussia che intanto aveva sgominato l’esercito austriaco. Fatta l’Italia, come noto, si cercò di fare gli italiani senza accontentarsi di chi viveva tra i confini. Alla fine del XIX secolo fummo sedotti dall’illusione delle guerre coloniali, che ci avrebbe accompagnato per decenni, fino al goffo machismo africano del Ventennio fascista. Il primo tentativo, nel 1887, fu in Etiopia ed evidenziò i tratti peggiori del nostro colonialismo: “Imprevidenza, iattanza, disprezzo degli avversari, eroismo di chi non ha scampo e alla fine preferisce la morte al tribunale militare” (riportando le parole di Angelo Del Boca). Al disastro di Dogali, la nostra peggior sconfitta di quella spedizione, sarebbe seguito quello di Adua nel 1896, che portò alle dimissioni di Francesco Crispi e alla fine della seconda guerra in Etiopia. Da lì la Libia d’inizio secolo, nuovo avamposto delle velleità di conquista risvegliate da un improvviso nazionalismo gonfiato a furor di giornali e intellettuali (“La grande proletaria s’è mossa”, scriveva Giovanni Pascoli), che portò sì ad una costosissima vittoria, ma dopo “una guerra inutile, sanguinosa e priva di ogni vantaggio politico, sociale, economico, strategico”. Il contrario di quel che s’aspettavano gli italiani, quando nel 1911 Giuseppe Bevione, giornalista vicino a Giovanni Giolitti, sulla Stampa spacciava la conquista della Libia come “soluzione al problema dell’emigrazione e della questione meridionale perché la Tripolitania e la Cirenaica potevano ospitare milioni di italiani”. In Africa saremmo tornati anche con Benito Mussolini, in una delle 3 guerre iniziate prima dell’ingresso nel Secondo conflitto mondiale (Etiopia, Spagna e Albania), nota, più che per la vittoria, per la scelta dell’arsenale: “Autorizzo all’impiego – scriveva il Duce a Pietro Badoglio – anche su vasta scala di qualunque gas”. Per stroncare la resistenza abissina, l’Italia si affidò ai gas asfissianti in spregio alla convenzione di Ginevra del 1925. Erano anni in cui i Generali italiani utilizzavano metodi spietati persino contro i nostri stessi soldati, a cui imputavano sconfitte causate da errori nelle alte sfere. Ne è emblema la Prima guerra mondiale, teatro della nostra disfatta più celebre, a Caporetto: “Cadorna, nel tentativo di nascondere le sue responsabilità (e quelle dei Generali Capello e Badoglio), cercò di addossare tutte le colpe della disfatta ai suoi soldati che pure in larghissima parte si erano battuti con grande coraggio e spirito guerriero”. Lo stesso Mussolini, una ventina d’anni più tardi, quando ormai era chiaro che la Seconda guerra mondiale sarebbe stata la fine delle sue fortune, avrebbe preferito prendersela col suo popolo. Il 17 aprile 1943, in un clima che già preludeva l’armistizio dell’8 settembre, parlando ai dirigenti del Partito fascista il Duce sbottava contro gli italiani “cretini, imboscati, deficienti (che) siccome non hanno mai fatto la guerra, trovano un alibi alla loro coscienza dicendo che questa guerra non si doveva fare”. Svanito il sogno della vittoria al fianco dei tedeschi, l’armistizio avrebbe visto un re in fuga e un Badoglio “terrorizzato” che “non si era preoccupato affatto di assicurare la difesa di Roma, vergognosamente abbandonata a se stessa, con l’esercito sbandato e i pochi reparti ancora in assetto operativo lasciati senza ordini”. Conclusione coerente del nostro secolo breve, il cui approdo alla democrazia sarebbe stato poi possibile soltanto al caro prezzo del sangue della Resistenza.
Il Colonnello Cadorna sfida il Professore Barbero sul nonno Generalissimo. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 17 dicembre 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
Tra questi, la leggenda nera del Comandante Supremo Luigi Cadorna “incompetente, insensibile macellaio che mandava a morire i nostri soldati seguendo tattiche ottocentesche”. Negli ultimi anni, questa visione oleografica, figlia di romanzi e film totalmente ideologizzati, è in fase di radicale revisione grazie a un’analisi attenta dei dati e dei documenti. Due anni fa si è ricordato il conflitto ’15-’18 appena come celebrazione della “fine della Grande Guerra”, come se questa fosse terminata “causa pioggia” e non per il sacrificio dei nostri 600.000 soldati, o per la sapiente fortificazione della linea del Piave predisposta con grande anticipo dal Generale Cadorna, o per la decisiva vittoria di Vittorio Veneto del Gen. Diaz (4 novembre 1918) che costrinse la Germania alla resa pochi giorni dopo (11 novembre 1918). (Gli accordi armistiziali prevedevano infatti che gli italiani potessero passare in armi attraverso l’Austria per invadere la Baviera). Nel 2021 ricorrerà il centenario del Milite Ignoto e quindi, quale migliore occasione per riaprire un serio dibattito storico, su base TECNICA e non ideologica? Offre l’occasione Carlo Cadorna, Colonnello di Cavalleria in congedo, nipote del Generalissimo, che per tutta la vita ha studiato a fondo, con la consapevolezza tecnico-militare propria di un “addetto ai lavori”, la storia di suo nonno. Non a caso, l’anno scorso ha presentato, insieme ad altri autorevoli relatori, presso la Biblioteca del Senato, la sua revisione delle memorie del Generale Cadorna, corredate di nuovi documenti. Oggi, attraverso la lettera aperta che pubblichiamo, il Colonnello Cadorna lancia una “cordiale sfida” al notissimo storico torinese Alessandro Barbero per un pubblico dibattito:
"Gentile Prof. Barbero, sono un Suo ammiratore per la grande capacità comunicativa con la quale trasmette ai Suoi ascoltatori la Sua enorme passione per la Storia ed anche per l'indubbia capacità storica con la quale ha saputo affrontare, nel Parlamento Italiano, il centenario della Grande Guerra. In quella circostanza storica, Lei ha saputo individuare in una frase di Prezzolini, celebre per la sua acutezza storica, il vero nocciolo di quei fatti lontani ma ancora tanto vicini per le conseguenze storiche ancora oggi presenti. Mi dispiace sinceramente perciò sentire da Lei, in occasioni minori, le espressioni di vecchi pregiudizi, contraddetti dalla documentazione storica, vecchia e nuova, nonché da una conoscenza professionale degli argomenti tecnico-militari che riguardano la guerra. Ne è un esempio particolarmente diffuso quello delle critiche alle offensive di Cadorna che “avrebbero mandato i soldati a morire contro i reticolati nemici”. La Relazione della Commissione d’inchiesta (vol. II, pag. 189) ne fa giustizia rilevando che le morti sono avvenute per “l’errata applicazione dei giusti criteri della circolare (attacco frontale ed ammaestramento tattico) da parte di taluni comandanti”. Tale affermazione trova riscontro in un episodio rilevante ma ignorato dalla storiografia: il figlio di Cadorna, Ten. Raffaele (padre di Carlo n.d.r.) era nel 1915 ufficiale di collegamento presso la IX divisione della III armata. Rilevò nelle sue considerazioni per il Comando Supremo che le prescrizioni della circolare tattica venivano ignorate: ne derivò una vera e propria rivolta della gerarchia militare che indusse il Duca d’Aosta a rivolgersi direttamente a Cadorna che fu costretto a riprendere il figlio davanti alla gerarchia. L’episodio è stato documentato da una fotografia e dimostra come la tattica (impiego delle forze) esulasse dai poteri/responsabilità di Cadorna. Le segnalo infatti che l'argomento è stato completamente rivisto, avvalendosi di una documentazione storica primaria che è stata in parte ignorata ed in parte nascosta oltre che da un esame tecnico dei principali documenti che sono stati artatamente manipolati da una parte rilevante della storiografia. Il risultato è stato pubblicato sul libro "Caporetto? Risponde Luigi Cadorna", Bastogi Libri, 2020: su di esso La invito ad un pubblico dibattito lasciandoLe volentieri, oltre ai vantaggi della comunicazione e dell'età, anche quello del luogo. Suo aff.mo Col. Carlo Cadorna".
La Seconda Guerra Mondiale: i ricordi e gli orrori dei bombardamenti e dei morti. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Luglio 2020. Qui comincia un’avventura: il racconto della nostra storia dalla fine della guerra a oggi, un anno alla settimana partendo dal 1945, l’ultimo anno di guerra guerreggiata e anche della fine della guerra. Ma, ancor più, delle apocalittiche stragi della guerra, e naturalmente della liberazione e dei partigiani e delle ultime sacche tedesche e della pace fragile, incerta, senza che fosse chiaro il nostro destino e la nostra fine. Tutto era nell’aria e tutti sapevano anche senza che si dicesse più del necessario. I racconti del sangue e della pena erano talmente eccessivi, che annoiavano. E poi la riscoperta libertà a mano armata, delle vendette che come fai a impedirle e anche quelle che invece erano altre stragi e bugie e verità e ombre e luci e silenzi e altre bugie e cose che assolutamente non si potevano dire né pensare. Le uniformi alleate erano amichevoli e festose. Non ricordo i tedeschi. Soltanto i loro passi di notte, ma non le loro facce. Non sono uno storico di professione ma sono un torbido amante della storia. Uso uno dei grandi doni dei nostri tempi, che è l’accesso ai documenti filmati che non si erano mai visti prima: centinaia di ore e di immagini che permettono a tutti di farsi le proprie idee ma più ancora di provare le proprie emozioni. Purtroppo, il novanta e oltre per cento di quel che si trova su Internet e specialmente su You Tube, è in lingua inglese. Sono riuscito nella mia vita a dotarmi di questo settimo senso che consiste nel poter godere ciò che è prodotto in quella lingua, e consiglio a tutti, specialmente a chi abbia finora soltanto letto e studiato sui libri, di correre a guardare i documentari fatti di immagini e documenti, a letto o sul divano, sotto un albero o mentre piove e guardare il nostro passato con gli occhi delle macchine fotografiche e video. Io da tempo non sono più giovane, ma quest’anno lo sono in maniera speciale perché sto per compiere ottanta anni. Nel 1945 avevo dunque cinque anni e non sapevo che milioni di miei coetanei se ne andavano in fumo nei camini di Auschwitz. Non lo sapeva nessuno. Ma appartengo alla generazione dei bambini perduti. Ricordo i bambini polacchi, sfollati a Grottaferrata, alle porte di Roma. Non ho idea del perché i polacchi fossero sfollati alle porte di Roma, ma tutti i popoli erano nel caos e si perdevano nudi e affamati. Li invidiavo perché avevano i capelli biondi e le sopracciglia nere. Io ero rosso e non erano un portafortuna, i capelli rossi. Giocavamo con i carri armati sfondati anneriti dalla puzza della morte. Avevo visto l’anno precedente i carri armati Sherman parcheggiati nel giardino di piazza Cairoli e un soldato nero con le Lucky Strike nella retina dell’elmetto si era sporto dal suo carro e mi aveva offerto un cake nel cellophane che mia madre gettò via perché fascisti e tedeschi abbandonando Roma avevano detto che i bambini sarebbero stati avvelenati o fatti esplodere con matite al tritolo. Le immagini dei partigiani a Milano, i camion, le donne che marciano con impermeabile e mitra, come le immagini dei campi di sterminio e della bomba atomica sarebbero arrivate più tardi… Noi eravamo già stati liberati, ma ricordo che quando andavamo in campagna in Sabina io e mia cugina venivamo ancora nascosti nelle bigonce del somaro e coperti di foglie di fico. Poi si sentiva un ronzio ed era Pippo. Pippo era qualsiasi ricognitore o caccia, amico o nemico, inglese o tedesco o americano, che veniva a rompere il cazzo a chi viveva nella paura tra i campi e le formiche usando le sue mitragliatrici come la gomma per cancellare i contadini, i bambini e i cani ridotti a strie di sangue e scarpe spaiate. Passava Pippo e ci buttavano per terra nel fosso e sentivi i sassi che scoppiavano e poi qualcuno magari ci restava secco e si diceva che c’era scappato il morto che non era mai un morto preciso, ma un morto come tutti gli altri, con un telo e senza scarpe. A febbraio c’era stata la Conferenza di Yalta con i quattro grandi. E si dice che Churchill si scambiò con Stalin una bustina di fiammiferi con scribacchiato il consenso a prendersi (Stalin) i Paesi dell’Europa dell’Est che lo stesso Churchill due anni dopo, a Fulton negli Stati Uniti, avrebbe chiamato oltre-cortina, oltre the iron courtain che taglierà in due l’Europa. A me bambino già risultava nelle emozioni familiari, la guerra fredda. Mio zio giovane comunista girava in bici spargendo volantini, mio padre più conservatore discuteva ad alta voce e poi gli americani che ballavano il boogie-boogie per strada e giravano le camionette perché mancavano gli autobus e si saliva con una scaletta di legno. Mi facevano studiare a casa con un anno di anticipo, indottrinato da una vecchissima vanitosa maestra amica di mia nonna, tutta incipriata che non sorrideva mai per non far crescere le rughe. Portava un enorme cappello pieno di veli e riporti e odorava di cipria ed era stupida e cattiva. Dirò in questa storia qualcosa su di me, l’unica persona che conosce bene, giusto come utensile. Era un’epoca di fango e stupore, tutti uguali e tutti con le gambe graffiate e la faccia piena di schiaffi. Mentre noi eravamo liberati, a Milano c’erano ancora i tedeschi e i fascisti ma intanto la produzione bellica della Germania nazista malgrado i bombardamenti a tappeto era al suo massimo. La Germania non smetteva di raddoppiare la produzione industriale anche grazie a milioni di schiavi, ma non aveva più uomini da mandare al fronte. Aveva soltanto macchine, la Germania. Inglesi e americani decisero di colpire il morale dei tedeschi prendendo una cittadina d’arte priva di valore militare (salvo qualche fabbrica di munizioni leggere) e di annientarla con tutti i suoi abitanti. Quella città era Dresda e ci furono tre passaggi aerei, uno inglese, uno americano e poi un altro misto che scoperchiarono al primo passaggio i tetti delle case, poi le accesero di fuochi inestinguibili e infine portarono la città alla temperatura di tremila gradi per cui in trentacinquemila morirono liquefacendosi in una melma verdastra. Il capo dell’aviazione militare inglese fu accusato di genocidio e il ministro della propaganda di Hitler disse che gli alleati erano dei mostri. Gli americani bombardarono Tokio che era una città di carta e legno e fecero molti più morti che con le bombe atomiche. Intanto, a milioni erano morti nelle fosse, nei forni, nella fame e nel cannibalismo, assassinati in gruppi, orde, camion, plotoni, sul ciglio del baratro e della calce. La notizia delle bombe atomiche era allora incomprensibile ma associata all’idea di fine del mondo. Sotto le nostre finestre in via Monte della Farina, di notte sparavano perché c’erano quelli del Gobbo del Quarticciolo che si scontravano con la polizia, o così mi dicevano. Gli americani per noi si chiamavano tutti Johnson, romanizzato Giònzon. Sul motivo di “parapaponzi-ponzi-po’” si cantava la strofetta: “Cosa fanno gli alleati? Sempre sbronzi-sbronzi, so’ ”. C’erano pochi sciuscià, shoe-shine, che lucidavano le scarpe ma ne vidi molti di più l’anno successivo a Napoli dove De Sica fece il film sugli scugnizzi, che eravamo tutti noi piccoli sopravvissuti. Si fucilava molto. A Forte Bravetta ogni giorno un plotone della polizia penitenziaria fucilava qualcuno legato sulla sedia, sulla schiena e colpo di grazia alla nuca. Si fucilavano i fascisti. Divisi su tutto, ma in posizione di tregua transitoria i democristiani e i social-comunisti (si diceva così perché Pietro Nenni era alleato del Pci di Togliatti ed ebbe anche il premio Stalin che poi riconsegnò). A casa mia si comprava il Messaggero e vedevo in prima pagina questi fucilati e facevano una morbosa impressione. Hitler era diventato un mostriciattolo rattrappito nel suo cappotto e distribuiva buffetti ai ragazzini della Hitler Jugend che morivano contro i russi che stavano già entrando a Berlino. Diceva a tutti che stava per uccidersi e raccomandava di consegnarsi agli angloamericani ed evitare i russi. Poi si sparò, sparò a sua moglie e si fece dar fuoco accuratamente in una buca del terreno scavata apposta. Mussolini intanto passava le sue ultime giornate e diceva che avrebbe preferito l’arrivo dei russi agli americani perché gli italiani meritavano una buona lezione. Quando i comunisti lo presero prigioniero e poi lo fucilarono senza far chiasso mandando un gruppetto dei loro ad ammazzare sia lui che Claretta Petacci, si dice che Pietro Nenni, che era stato in gioventù un compagno di cella di Mussolini e che provava per lui sentimenti misti, si infuriò per il colpo di mano e poi dettò il titolo d’apertura dell’Avanti! il giornale dei socialisti di cui nel 1914 lo stesso Mussolini era stato direttore prima di essere espulso. Il titolo era: “Giustizia è fatta!”. A giugno dettero l’incarico di formare un governo a Ferruccio Parri, capo partigiano di Giustizia e Libertà che resse una coalizione piena di speranze ma con pochi mezzi che durò meno di sei mesi. Molti anni dopo lo andai a trovare e viveva con la moglie nel casermone sulla via Cristoforo Colombo per deputati e senatori, una specie di sarcofago. Non ricordo come si chiamava la moglie, una signora deliziosa che mi volle a tutti i costi far provare la macchina da cucire a pedali con cui aveva fatto l’orlo ai fazzoletti tricolori per i partigiani di GL mentre lui, Ferruccio, se ne stava seduto sul divano un po’ triste e poco incline ai ricordi. Un galantuomo di compromesso. La vera guerra sarebbe scoppiata di lì a poco fra filoamericani di De Gasperi e filorussi di Togliatti. Sui muri si vedevano manifesti di Stalin dipinto come un orco o come un santo e comparivano scritte entusiaste e sgrammaticate, come “Ataveni” che stava per: “Ha da venire”, sottinteso, Baffone”. Nessuno lo chiamava Stalin. Solo Baffone. E quei baffi erano un segno grafico di una potenza di cui non ricordo l’uguale, tanto che quando Baffone morì otto anni dopo, ricordo perfettamente dove ero, perché Baffone era il segno del tempo e di un mondo terribile e irripetibile, ma che allora era vivo benché fosse morto.
Una non aggressione è il contrario di un'aggressione? Storia del patto Ribbentrop Molotov, l’alleanza tra Hitler e Stalin. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Due anni fa, avendo trovato un filmato che ancora non conoscevo, scrissi un lungo articolo sull’alleanza fra Hitler e Stalin, nota come Trattato di non aggressione Ribbentrop-Molotov, in cui descrivevo quel che chiunque può vedere nei filmati: i generali e i soldati, sia dell’esercito nazista che di quello sovietico partecipano a una comune parata militare a Brest Litovsk (oggi Brest in Bielorussia). Lì l’Armata Rossa rende onore alla Wehrmacht nazista con fanfare e festoni e con bandiere con stella falce e martello più svastica, pranzo di gala con limousine nere e volti sparuti di bambini polacchi ebrei che non sanno ancora quel li aspetta. Quel che aspettò me fu una caterva di insulti su questo tono: «Come ti permetti lurido mascalzone di infangare l’onore dell’Unione Sovietica che ha da sola sostenuto e respinto con più di venti milioni di morti l’invasione nazifascista?». E poi, quanto al “patto di non aggressione” Ribbentrop-Molotov mi veniva spiegato per l’ennesima volta che si trattò di un capolavoro di astuzia di Stalin il quale, perfettamente consapevole del fatto che prima o poi Hitler avrebbe aggredito l’Urss, stipulò quel “patto di non aggressione” che gli fece guadagnare tempo prezioso durante il quale le divisioni dell’Armata Rossa e le industrie belliche furono trasferite fin sugli Urali, sicché poi quando venne il momento, l’Urss guidata da Stalin e un gruppo di magnifici generali seppero resistere, e conquistare Berlino, costringendo Hitler al suicidio e la sua cricca alla forca. Comunque, una non-aggressione è pur sempre il contrario di una aggressione, o no? Ecco il punto. No. Tutto quel che c’è da sapere su questa storia è pubblico ed accessibile a tutti. Ma l’intera storia non è stata mai raccontata se non in modo sfuggente. La storia del “patto” è tragicamente imbarazzante sia per come cominciò che per come finì. Cominciò quando, nel luglio del 1939, Hitler pensò che fosse ora di riprendere la conquista incompiuta in Europa, dove aveva già occupato tutte le zone tedescofone, compresa la Cecoslovacchia, e l’aveva fatto con il permesso di Francia e Inghilterra alla conferenza di Monaco del 1938, organizzata da Benito Mussolini. Stalin a Monaco non fu invitato. E neanche i cecoslovacchi furono invitati. Stalin se la legò al dito, considerando i paesi capitalisti e imperialisti (ma non la Germania nazional-socialista) come traditori. Francia e Inghilterra a Monaco avevano avvertito Hitler che la Cecoslovacchia era da considerare l’ultimo acquisto tedesco e che se per caso Hitler avesse attaccare la Polonia, Francia e Inghilterra sarebbero intervenute in sua difesa. Il primo ministro inglese Neville Chamberlain tornò a Londra sventolando sorridente un trattato firmato anche da Hitler che avrebbe dovuto garantire la pace per vent’anni. Fu allora che Winston Churchill commentò: «Hanno svenduto l’onore per la pace e otterranno il disonore e la guerra». La Polonia stessa pretese a Monaco un pezzo di Cecoslovacchia. Tutti mostravano enormi appetiti dopo la fine della Prima guerra mondiale, che aveva scoperchiato un’Europa di mille lingue e costumi, senza confini, ma con molte ambizioni e dagli anni Venti in poi era stata un teatro di colpi di mano, rivoluzioni mancate e formazioni di milizie. Hitler l’aveva scritto con estrema chiarezza nel suo Mein Kampf: al mondo sarebbero dovute restare soltanto due potenze di stirpe tedesca, la Germania e la Gran Bretagna, che considerava un Paese consanguineo con cui sperava di fare la pace. Che non venne mai. Quanto all’Est, era stato molto chiaro: tutti gli slavi andavano trattati da sotto uomini, da sottomettere o eliminare e comunque da cacciare dalle grandi pianure destinate a costituire lo «spazio vitale» del grande e potente «popolo tedesco». Stalin si era fatto tradurre personalmente il Mein Kampf e lo aveva letto sottolineandolo con una matita azzurra. In quel libro erano anche nominati tutti i capi della rivoluzione bolscevica, lui compreso, come assassini, banditi da strada e – nel caso di Stalin – ex rapinatori di banche. Stalin non era un tipo emotivo. Non era neanche un grande oratore. Diversamente da Hitler e Mussolini scriveva accuratamente i suoi discorsi diligenti e ideologici, ma senza slancio passionale e con un inguaribile accento georgiano. Tutti lo descrivono come paranoico, ma probabilmente aveva ben presente la posta in gioco in una partita di potere così lunga e complessa come la formazione dell’Urss e le guerre da combattere. Prima una guerra proprio con la Polonia, persa malamente nel 1920 da lui e da Trotsky. Poi la interminabile guerra civile con gli eserciti stranieri e quelli dei generali “bianchi”. Infine una guerra sotto casa, al confine fra Siberia e Manciuria, dove si erano installati da un decennio i giapponesi, che provocavano continui scontri di frontiera. In questi si faceva le ossa uno dei futuri eroi, il generale Zukhov, uno dei pochi che si salvò dalle purghe che nel 1937 portarono al plotone d’esecuzione quasi tutti gli alti e medi ufficiali, partendo dal divo generale Michail Nikolaevic Tuchacesvkij, maresciallo dell’Unione sovietica a 44 anni e inventore dell’uso moderno dei carri armati e dell’aviazione, di cui Stalin era gelosissimo fin dal 1930 quando lo chiamava “il piccolo Napoleone”. In quella mattanza di generali e marescialli, i tedeschi avevano messo lo zampone con la diffusione di documenti falsi preparati da Renhard Heydrich, il gelido comandante delle SS di cui Hitler diceva: «Quell’uomo ha un cuore di ferro, ne sono orgoglioso ma mi fa paura». Le carte tedesche furono fatte passare per le mani del presidente cecoslovacco Benes e dalle sue a quelle di Stalin, il quale però non le prese in grande considerazione, perché aveva già deciso di far fuori quell’astro nascente che gli ricordava Napoleone. Non erano tempi confrontabili con i nostri, se non per il culto della menzogna storica, il sacro Graal delle bugie per cui ognuno è sacrificabile. I “trattati di non aggressione” erano di gran moda negli anni Trenta perché potevano essere disdetti in qualsiasi momento, ma servivano momentaneamente per fornire reciproche garanzie. Il punto era che il “patto di non aggressione” offerto dai tedeschi ai sovietici era una scatola di cioccolatini con doppio fondo. In superficie, uno strato di parole diplomatiche che certificavano la stabilità delle relazioni fra i due Paesi. Ma nel doppiofondo c’era un altro documento in cui si diceva che quando la Germania avesse ritenuto di agire in Polonia, l’Urss doveva sentirsi libera di agire in una serie di Paesi concordati. Questi Paesi erano la Finlandia, le tre repubbliche Baltiche, parte della Romania e parte della Bielorussia. Come era nato questo accordo? Da un discorso di Stalin a Mosca in cui aveva compiuto una distinzione fra la Germania nazional-socialista e le potenze imperialiste occidentali. Ci fu molto brusio nelle cancellerie perché von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, insistette molto con Hitler affinché prendesse in considerazione l’eventualità che Stalin potesse essere considerato almeno nel medio periodo un alleato. Hitler non aveva alcuna personale simpatia per Stalin e mandò il suo fotografo personale insieme alla delegazione che partiva per Mosca, affinché fotografasse i lobi delle orecchie di Stalin per vedere se l’attaccatura fosse di tipo semita o no. Non risultò semita e questa era già una buona cosa. Stalin, viceversa – le testimonianze in proposito sono abbondantissime – aveva un debole proprio per alcuni aspetti canaglieschi di Hitler. Apprezzò moltissimo quando il Führer, un anno dopo essere stato nominato cancelliere, decise di liberarsi di Ernst Roehm e delle sue milizie ormai inutili e sgradite, facendo trucidare più di centocinquanta uomini o costringendoli al suicidio. Roehm, come molti dei suoi uomini, erano omosessuali e furono colpiti di notte nei loro letti insieme ai loro giovani amanti. Quando Stalin conobbe i dettagli di questa storia scoppiò in una esclamazione di entusiasmo: «Ma è un vero diavolo, questo Hitler! È bravissimo!».
Storia d’Italia, il 1946: dal fascismo ai coriandoli la nascita della Repubblica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Volete capire davvero cosa sta succedendo? Perché siamo a questo punto e a che punto siamo? Volete sapere chi siete, o chi potevate essere, o chi non sarete mai, e chi erano i vostri genitori? Non ci riuscirete se non ripassate la storia. Se non studiate il passato, le radici. E allora abbiamo chiesto a Paolo Guzzanti di raccontarci la storia della Repubblica. Da quel gennaio del ‘46, quando la Repubblica nasceva e lui doveva ancora compiere sei anni, fino ad oggi, che la Repubblica è diventata seconda o terza o quarta, e lui è arrivato a ottanta. Lo farà con un articolo a settimana, per settanta settimane, correndo sul filo della sua memoria, e degli studi che ha fatto, e della sua attività di giornalista. Lo farà con la sua penna e le sue idee. Buona lettura.
Il 1946 fu l’anno in cui nacque la Repubblica. Infatti, per imitare l’inizio di Pinocchio, cominceremo col chiedere: “C’era una volta?”. “Una repubblica! “ diranno i piccoli lettori. No, cari ragazzi, avete sbagliato: c’era una volta un re. Ma molto piccolo. Lo chiamavano “Sciaboletta” e per lui avevano dovuto abbassare di parecchi centimetri l’altezza minima alla visita di leva. Era stato lui a chiamare al governo Benito Mussolini nel 1922 quando molti gli consigliavano invece di farlo arrestare ed era stato sempre lui a farlo arrestare una settimana dopo il primo bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 organizzando un colpetto di Stato perfettamente costituzionale. Il fascismo è stata l’unica dittatura della Storia abbattuta con un voto di sfiducia dopo “ampio e approfondito dibattito” nel Gran Consiglio del Fascismo che era un organo costituzionale.
Quando, all’alba del 25 luglio, il Duce tornò a Villa Torlonia la moglie Rachele era sulla soglia in ansia e gli chiese: «Mo’ Ben, com’è andata?». E lui: «Mi hanno messo in minoranza e hanno ridato i poteri al re». Rachele si infuriò: «Ma avresti dovuto fare come Hitler, ti portavi un po’ delle tue camicie nere e li facevi fuori tutti». Mussolini era ancora ottimista: «Oggi vado dal re e sistemo tutto» rispose esausto. Invece era stato il re a sistemare tutto: arrivato a Villa Savoia con le ghette e il cappello, Mussolini fu fatto accomodare nel salottino, il suo autista e la scorta furono arrestati, il re gli disse che l’aveva sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio ma che non doveva preoccuparsi per la sua incolumità. Poi lo accompagnò all’ambulanza che lo aspettava piena di carabinieri che però non sapevano che Mussolini era agli arresti.
Ne seguì una peregrinazione comica finché il capo del fascismo fu sistemato in albergo isolato di Campo Imperatore dove fu tentato dall’idea del suicidio con la piccola pistola che gli avevano lasciato e fu liberato da un commando di nazisti forsennati guidati da Otto Skorzeny al comando di alcuni alianti. Quel piccolo re aveva visto che per lui e casa Savoia tirava un’aria pessima, ci sarebbe stato un referendum e preferì andare in esilio lasciando suo figlio Umberto che fu re per un solo mese e detto “Il Re di Maggio”. Fu indetto il referendum per il 2 giugno del 1946 e con il referendum gli italiani e per la prima volta le italiane che non avevano mai votato ai tempi del Regno furono chiamati ad eleggere il primo Parlamento come Assemblea Costituente e dire se volevano restare un regno o diventare una Repubblica. Le forze maggiori – socialisti (che erano più numerosi dei comunisti) i comunisti, larga parte dei cattolici molti fascisti che votavano Uomo Qualunque o altre formazioni minori – erano repubblicane. Ma quando cominciò lo spoglio delle schede al ministero degli Interni si accorsero che i voti per il re superavano di gran lunga quelli per la Repubblica e scoppiò il panico. Il ministro Romita decise di non dir nulla finché lo spoglio non fosse finito e fu una faccenda lunghissima e controversa. Il Sud aveva votato in massa per il re e il Nord in massa per la Repubblica. Ci furono accuse di brogli e ancora oggi se ne parla anche perché qualcuno ebbe la discutibile idea di bruciare le schede votate sicché non si poté fare una riconta. Il presidente della Cassazione anziché annunciare la vittoria della Repubblica disse che si sarebbero prima discussi i ricorsi e si rischiò la guerra civile. Il nuovo re-luogotenente Umberto Secondo, ad urne aperte, scoprì di essere ancora il re e fece sapere che se non si fosse risolta la questione immediatamente avrebbe nominato un suo governo, mentre era presidente del consiglio Alcide De Gasperi, il leader democristiano trentino che per anni era stato un deputato dell’Imperial Regio Governo a Vienna. La minaccia era seria: se il “Re di maggio” faceva un governo formalmente legittimo ci sarebbero stati due governi e probabilmente la guerra civile. De Gasperi prese una decisione molto audace: si proclamò Capo provvisorio dello Stato al posto del Re luogotenente che preferì salire su un piccolo aereo e partire dopo aver sventolato il suo cappello con aria mesta davanti a una folla di monarchici piangenti. Casa Savoia aveva tentato di giocare a carta americana: Real Casa chiese alla Casa Bianca di essere sostenuta contro il “pericolo sovietico”. Ma avevano sbagliato i conti: alla Casa Bianca, dove Harry Truman era succeduto a Franklin Delano Roosevelt, erano tutti repubblicani, odiavano tutti i re e specialmente quelli italiani. Chi era molto seccato per l’esito del referendum fu Winston Churchill che seguitava a sognare un mondo di imperi e di teste coronate.
La massa degli elettori italiani aveva votato per i tre grandi partiti: la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi con più di otto milioni di voti, il Partito socialista di unità proletaria di Pietro Nenni con quattro milioni e 758 mila voti e il Partito comunista di Palmiro Togliatti (sotto il 20 per cento, superato dai socialisti quasi al 21) con poco meno di quattro milioni e mezzo. I tre quarti degli italiani avevano votato i grandi partiti e fra questi c’era una forte maggioranza di sinistra perché socialisti e comunisti formavano ancora una unione “socialcomunista” e si parlava spesso di una possibile fusione. I democristiani avevano la maggioranza nelle aree che oggi sono della Lega, i comunisti nelle regioni “rosse” (che durante il fascismo erano state nerissime) e i socialisti con uno spettro un po’ più largo. Che Italia era? Posso dire quel che ricordo da bambino: una sovreccitazione frenetica nelle strade, tutti correvano in bicicletta, urlavano, formavano crocicchi, sembra la celebrazione del “Free Speach” dei parchi londinesi. Preti assatanati contro i comunisti, rivoluzionari, casalinghe, operai, professori, tutti trovavano una cassetta della verdura su cui salire e parlare al popolo. Ma pochi sanno che durante il Regno d’Italia e fino alla fine della Grande Guerra nel 1918, la democrazia italiana era riservata per censo a una parte della borghesia: soltanto chi paga le tasse ha diritto di rappresentanza per decidere come spenderle. Con la fine della Grande Guerra fu concesso benignamente il voto a tutti gli uomini senza distinzione di censo.
E così il Parlamento si riempì di un caleidoscopio di partitini che contribuirono allo spappolamento della vecchia democrazia paternalistica. Nessuno usava il deodorante, non esisteva lo shampoo e i capelli erano lavati con saponi e bicarbonato. Tutti bevevano quantità insensate di pessimo vino a tavola, bambini compresi, e infuriava una dieta della pasta e dell’ingrassamento dopo gli stenti della guerra. Si aspettava ancora il ritorno di molti prigionieri di guerra che non sarebbero più tornati e mio padre vedeva in sogno il suo compagno di banco inghiottito dalle nevi della Russia. Era un’Italia a coriandoli: non votarono quelli dell’Alto Adige ancora sotto controllo alleato, ma votarono le città di Tenda e Oneglia che diventarono francesi. Roma era piena di soldati e la polizia vestiva con l’elmetto e viaggiava su jeep con la cappotta e si chiamava “la celere”, antisommossa perché le sommosse erano sempre nell’aria. Era ancora l’Italia del Cln (Comitato di liberazione nazionale di tutti gli antifascisti) ma era già l’Italia spaccata dalla guerra fredda. Tuttavia, si sapeva che l’Italia, come la Grecia, era stata assegnata all’Occidente e Stalin non gradiva colpi di mano. Erano gli anni di “Napoli milionaria” di Eduardo e della “Tammurriata Nera”, le molte nascite di bambini colorati presi in custodia da suore terribili come quelle di Fellini.
Era fatta: la guerra era finita davvero, la democrazia era cominciata davvero, i conti sarebbero stati regolati nel 1948 con le vere elezioni e tutto andava avanti con molta “borsa nera” (il mercato parallelo e l’arte di arrangiarsi, che era già nel Dna. Entusiasmi e disperazioni si affacciavano in ogni famiglia e paese, il mondo si spaccava e gli ultimi nazisti tedeschi avevano scelto l’Argentina come nuova patria provvisoria. Dall’America Latina un napoletano scrive “Munastero ‘e Santa Chiara” che descriveva il crollo morale ma tutti dicevano che bisogna guardare avanti, girare pagina, perché ormai chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. Il che non era vero.
Storia d’Italia, il 1947: l’anno in cui tutta Europa ci odiava. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Luglio 2020. Fu l’anno che determinò il futuro. Nel 1947 tutti furono obbligati a mettere le carte in tavola e dire da che parte stavano. La guerra fredda era scoppiata e nessuno, ma proprio nessuno, sapeva che non sarebbe diventata calda. Al contrario: ricordo che nel 1947 mia madre affettava e metteva sotto sale un prosciutto di campagna da cui saltavano fuori dei vermi. non esisteva lo schifo. Tutto era buono. scatolette, tonno, fagioli, si faceva il sapone in casa con una puzza orrenda di pentoloni pieni di grasso animale. Un tappeto di patate sotto il letto. Taniche di petrolio per i lumi bellissimi pieni di nappe, nastrini e vetri colorati che mio padre aveva comperato perché la corrente saltava. Cocomero e burro sotto un filo d’acqua nel lavello di marmo della cucina. Estati torride senza un filo di vento. Freddo invernale con i geloni alle dita, lo scaldino nel letto con la brace, io mi portavo sotto le coperte di contrabbando il nostro gattone nero chiamato Fascista perché aveva una specie di M bianca sul petto. L’aveva portato un ingegnere amico di mio padre che frequentava il papa sostenendo che il micio era figlio della gatta di Pio XII, Pacelli, quello che aveva dischiuso le ali sulle macerie del bombardamento del 19 luglio al Tiburtino. Il fratello di mia madre era diventato comunista e girava in bici e con mio padre discutevano per ore sulla porta di casa, il secchio dell’immondizia foderato di carta di giornale. Le voci alla radio erano gracchianti perché il tono ufficiale era molto mussoliniano, a destra come a sinistra. Passato Capodanno, il giornale radio avvertì che il presidente del Consiglio stava volando verso gli Stati Uniti ed era la prima volta che De Gasperi usciva dall’Italia. L’espressione “Presidente del consiglio dei ministri” era stata scelta e usata solo in Italia al posto di primo ministro o capo del governo, per scongiurare l’arrivo dell’uomo forte. Il 1947 era l’anno in cui sarebbe stata votata la nuova Costituzione e quello in cui l’Italia avrebbe firmato il trattato di pace con le potenze vincitrici perdendo l’Istria con tutti gli istriani, fuggiti o infoibati, di cui nessuno voleva più sentir parlare. Trieste era tagliata in due, mezza americana e mezza comunista, Zona A, Zona B, e la faccenda sarebbe andata avanti per un pezzo. E poi sarebbe stato l’anno del Piano Marshall, dal nome del Segretario di Stato americano George Marshall, annunciato con un discorso all’Università di Harvard. L’America capovolgeva le tradizioni: i vincitori avrebbero rimesso in piedi i vinti a proprie spese, per evitare quel che era accaduto fra le due guerre mondiali. Ricordo, da ragazzino, un mondo di gente molto confusa, piena di ira e di frustrazione e tutti avevano voglia di mettere le mani addosso a qualcun altro. De Gasperi non era stato invitato dalla Casa Bianca ma dalla rivista Time. L’Italia non era popolare: era un Paese vinto e detestato. I francesi ci odiavano per averli “pugnalati come Maramaldo”. Gli inglesi ci odiavano per la guerra e ci odiavano i greci, gli slavi, i tedeschi e i russi perché avevamo mandato corpi di spedizione in casa loro. La guerra franco-prussiana del 1870 aveva lasciato i semi avvelenati della Prima Guerra Mondiale e la pace di Versailles aveva fatto schiudere le uova di serpente della seconda. Ora ci trovavamo all’inizio di una Terza Guerra: l’Occidente a guida americana e capitalista contro l’Oriente a guida russa e comunista. Scompariva l’Impero britannico, collassato per decisione americana. Roosevelt aveva avvertito gli inglesi: vi aiutiamo, ma voi dovete smontare tutta la baracca imperiale. E il disfacimento partì dall’India. Da un punto di vista esistenziale – l’esistenzialismo fioriva a Parigi – eravamo senza identità e temevamo la morte atomica, l’ultima novità prodotta a Hiroshima. Si seppe in quell’anno del diario di Anna Frank: la dimensione della Shoà era ancora non chiara. L’America accettava di riceverci, ma senza trombe e tappeti rossi. Quelli sarebbero venuti dopo. La delegazione che arrivò a Washington comprendeva il direttore della Banca d’Itala Domenico Menichella, Guido Carli direttore dell’Ufficio Cambi, il ministro del Commercio con l’Estero Pietro Campilli, su un affaticato quadrimotore Skymaster, tutti imbragati con i paracadute, salvo Menichella che era afflitto da un’enorme pancia. Due giorni di volo. De Gasperi si era affidato all’ambasciatore Alberto Tarchiani che conosceva bene l’America e che lo portò dal nuovo presidente Truman e che era diventato il mastino della guerra fredda. C’era stato il discorso di Winston Churchill all’università americana di Fulton in cui per la prima volta era stata inaugurata l’espressione iron courtain la “cortina di ferro” di ferro, che tagliava anche Trieste, città contesa agli jugoslavi del maresciallo Tito. Gli americani dettero a De Gasperi un assegno da cinquanta milioni di dollari come ringraziamento per l’aiuto ricevuto dall’Italia durante la guerra. Ma una cosa doveva esser chiara: i comunisti, dovevano andare fuori dal governo. Era scoppiato il caso greco. I comunisti greci, contro il divieto di Stalin, avevano cominciato una rivoluzione destinata ad essere repressa dagli inglesi senza che i sovietici muovessero un dito. Durante la visita di De Gasperi, il segretario di Stato James Byrnes si dimise perché non condivideva la nuova politica antisovietica. Lo sostituiva George Marshall, esperto mediatore fra comunisti e nazionalisti cinesi, l’uomo che avrebbe legato il suo nome al famoso “Piano”. L’Italia ottenne un finanziamento ulteriore di 100 milioni di dollari dalla Export Import Bank subito dopo il rientro di De Gasperi. Pietro Nenni, ministro degli Esteri e capo dei socialisti che era andato ad accoglierlo all’aeroporto, annotò sul suo diario che De Gasperi era «totalmente cambiato». Dietro il successo di quel primo incontro aveva lavorato come tessitore Francis Spellman, di 47 anni, che era stato creato cardinale l’anno prima da Pio XII. Francis Joseph Spellman, nato nel 1889 in Massachusetts, aveva fatto la spola fra l’ambasciata americana e lo studio del papa, per poi finire le sue serate nelle osterie di Frascati con il suo autista Francesco Lamonaca, che era il mio prozio di Forio d’Ischia. Questo mitico Zio Ciccio, leggendario narratore della Prima guerra mondiale vista con occhi napoletani, era diventato l’autista dell’ambasciata americana e del cardinale che lui chiamava Spellmànne e che gli raccontava nei dettagli, dopo aver raggiunto il necessario livello etilico, delle istruzioni ricevute dal papa per l’incontro alla Casa Bianca di De Gasperi. Il viaggio fu un successo. Ma fu subito chiaro che l’Alcide, era deciso a sbattere fuori i comunisti e i loro alleati. i comunisti devono uscire dai governi di coalizione in Occidente. E così fu. Pochi giorni dopo, Nenni si dimise da ministro degli Esteri e il suo partito si spaccava per la la scissione socialista di Palazzo Barberini, quando Giuseppe Saragat (futuro presidente della Repubblica anche lui come Spellman molto amante del vino) ruppe con il Psiup, fondando il Psli, poi Psdi, partito socialdemocratico italiano, pronto a governare con una Dc filoamericana e antisovietica. Fra gli scissionisti, a sorpresa, anche Anna Kuliscioff, rivoluzionaria comunista ebrea ucraina che in Italia aveva diretto il quotidiano socialista Avanti! con Benito Mussolini (di cui fu brevemente l’amante) e che poi era scappata in Unione Sovietica entrando nel gruppo dirigente leninista. Da cui poi era fuggita orripilata. E arrivò il Piano Marshall. Poiché tutti convenivano che l’avvento di Hitler fosse stato provocato dalle disumane condizioni in cui il popolo tedesco fu tenuto dai vincitori della Grande Guerra, gli americani decisero non di chiedere riparazioni e danni, ma al contrario di pagare di tasca loro il finanziamento economico della rinascita dell’intera Europa, Est ed Ovest. Qualcosa di inimmaginabilmente grande, perché comprendeva anche l’Unione Sovietica dei Paesi dell’Est, non ancora sotto dittatura comunista, come la Cecoslovacchia. Ma Stalin non ne volle sapere ed ordino a tutti gli Stati e partiti comunisti di opporsi al piano Marshall, malgrado le proteste di alcuni governi. In Italia il Pci si allineò con Mosca. Gli inglesi, seccati con gli americani che giocavano da padroni, resero noto il loro ritiro dalla Grecia in piena guerra civile e Truman accolse la notizia come un dato di fatti: nasceva la “dottrina Truman”, che delegava il comando all’imperatore d’occidente in Pennsylvania Avenue. Stalin era furioso: voleva che la Germania pagasse le riparazioni dovute, ma Molotov (“Martello”, il ministro degli Esteri di Stalin, lo stesso che aveva firmato con i nazisti il patto del 1939) fu sconfitto. Truman mise mano al portafoglio e sborsò 250 milioni per la Grecia e 150 per la Turchia, da proteggere da sovietici. In Italia Togliatti, con un colpaccio a sorpresa, ruppe l’unità delle sinistre e votò alla Costituente a favore dell’articolo 7 della Costituzione che avallava i patti fra Mussolini e Vaticano, per far breccia nei cattolici. Il primo maggio, la strage del bandito Salvatore Giuliano a Portella Della Ginestra. I manifestanti accolti dal fuoco delle mitragliatrici che falciano la folla con 800 colpi: 11 morti e 71 feriti. Giuliano ha da poco ricevuto i gradi di colonnello e la bandiera di combattimento dal congresso segreto dei separatisti che dicono di voler portare la Sicilia nella Confederazione degli Stati Uniti. Sarà una vicenda loschissima, che finirà con Giuliano ammazzato da suo cognato Gaspare Pisciotta in un finto conflitto a fuoco e con Pisciotta ammazzato con un caffè corretto, che produrrà il noto sketch “Venga a prendere un caffè da noi”. In Italia una crisi di governo a freddo estromette i comunisti, così come accade in Francia. A luglio il Comitato centrale del Pci dichiara impossibile proseguire nella “democrazia progressiva” ma Togliatti promette un atteggiamento moderato per non rompere l’unità nazionale antifascista. Il 7 settembre in un comizio a Parma Palmiro Togliatti allude a una forza armata del Pci di 30 mila uomini e il discorso viene interpretato come una minaccia al governo e improvvisamente scoppia una sorta di crisi insurrezionale alimentata dal maresciallo Tito e a settembre l’ambasciatore italiano a Washington Tarchiani si fa ricevere dall’assistente del segretario di Stato per avvertirlo della possibilità di una insurrezione sostenuta dall’Urss. Comincia così la vera guerra fredda italiana. Ad ottobre nasce la Cia che è succeduta all’Oss: giudica le forze armate italiane sufficienti per controllare una insurrezione, ma non per far fronte a un intervento jugoslavo. Monsignor Montini, il futuro Paolo VI e che sotto Pio XII fu un eccellente spy-master confermò al rappresentante diplomatico americano del presidente Truman l’appoggio morale della Santa Sede a un eventuale contro i comunisti. Il 27 novembre arriva al Viminale l’uomo duro dell’anticomunismo: Mario Scelba, in sostituzione del prefetto di Milano Ettore Troilo ex partigiano accreditato a sinistra. Gian Carlo Pajetta alla testa di un corteo partigiano occupò la prefettura e altri edifici pubblici milanesi. Togliatti e De Gasperi sdrammatizzarono la crisi e la disinnescarono. Era nato di fatto un primo compromesso storico fra la Dcfiloamericane e il Pci filosovietico. Una guerra fredda fatta di molte parole e larvate minacce sarebbe stata tollerata e considerata accettabile, dai tempi. Ma nessuno voleva sfracelli.
Storia d’Italia, il 1948: la “guerra” tra Togliatti e De Gasperi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Agosto 2020. Quando si dice “successe un Quarantotto”, si pensa a quello del 1800. Catastrofe rivoluzionaria, la Storia mise le macchine all’indietro tornando alle parrucche incipriate. Un secolo dopo, nel nostro 1948, finiva per sempre la finzione dell’unità antifascista. Fu l’anno delle elezioni vinte dai democristiani e perse dai comunisti, l’anno dell’attentato a Togliatti che – gravemente ferito – pensava soltanto a calmare gli spiriti e quando si risvegliò dall’anestesia chiese: che cosa ha fatto Bartali? Bartali aveva ricevuto un messaggio da Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, che lo supplicava di vincere la tappa del Giro di Francia di quel giorno. Bartali era molto indietro in classifica. Aveva 20 minuti di distacco dalla maglia gialla. Speranze di rimonta zero. E invece quel giorno Gino, che era ormai vecchio, dette l’anima e vinse la tappa di Briancon dando quasi un quarto d’ora di distacco al campione francese Louison Bobet che pensava ormai di aver già vinto il Tour. Una impresa impensabile. Il giorno seguente vinse di nuovo sul traguardo di Aix les Bains, prese altri cinque minuti a Bobet e conquistò la testa della classifica. Che tenne fino alla fine: il 24 luglio vinse il Tour e gli scontri di piazza, in Italia, cessarono quasi per miracolo. La pace era salva. Gli italiani dimenticarono le revolverate a Togliatti esplose dallo studente Pallante e tutto finì bene. Un giornale satirico titolò: “Pallante ( cioè l’attentatore, ndr) condannato a venti anni di tiro a segno”. I comunisti, cacciati dal governo su richiesta americana e in base alle decisioni di Yalta, si lasciarono mettere da parte protestando solo il minimo sindacale. La Grecia che aveva voluto fare la rivoluzione era finita schiacciata dagli inglesi. Nel 1948 partirono la Costituzione e la vera guerra fredda, sia in Italia che nel mondo ma specialmente a Berlino. La città si trovava nella zona della Germania sotto il controllo sovietico (la Germania Est, cioè la Rdt) ed era a sua volta suddivisa in quattro zone: una ai russi, una ai francesi, una agli inglesi e una agli americani. Stalin tentò di bloccare il settore occidentale frutto della fusione delle aree americana, inglese e francese, scintillante di luci e vetrine aperte che adesso, cinta d’assedio, rischiava di soffocare. Fu allora che gli americani compirono una delle più vittoriose smargiassate celebrata con francobolli e musei: il ponte aereo. Centinaia, migliaia, decine di migliaia di aerei portavano o atterravano a Berlino Ovest per portare tutto quel che serviva all’intera città: latte e medicinali, vestiti e macchinari senza rallentare mai, senza far mancare un paio di scarpe. Stalin tentò di minacciare azioni aree militari ma lo zio Tom lasciò vedere le sue Colt alla cintura e Stalin che non era un giocatore d’azzardo, si ritirò. In Italia il Fronte Popolare di comunisti e socialisti perse le elezioni. Il fronte aveva come simbolo la faccia di Garibaldi, ma ne girava una versione di cui se capovolgevi Garibaldi vedevi Stalin. Io avevo otto anni e ricordo tutto. Era una guerra di fumetti, di cartelli, urla, carta, altoparlanti, gente che correva con pacchi di giornali e vendeva testate oggi scomparse. Qualche rissa, qualche revolverata, poca roba. Il Fronte perse. I democristiani stravinsero. Il cantore della sinistra Ivan della Mea, quanlche anno dopo mormorava alla chitarra: “Vi ricordaste del diciotto aprile, che avé votà democristiani senza pensare all’indomani, senza pensare alla gioventù”. I miei cugini comunisti erano “Pionieri” del partito e portavano il fazzoletto rosso al collo. Io quello dell’Asci cattolica, cioè i “Boy Scout”.. Loro leggevano il Pioniere di Gianni Rodari che odiavo perché era tutta una pippa simbolistica con Pomodorone grasso capitalista e c’era sempre un furbettino comunista che lo metteva in culo a tutti. Noi feroci anticomunisti leggevamo sul “Corrierino” capitan Cocoricò e il signor Bonaventura ricco ormai da far paura. Tirava anche un brutto vento da guerra religiosa: il papa per non sbagliarsi aveva scomunicato i comunisti e molti di loro, essendo cattolici, andavano a piazza San Pietro a urlare che loro credevano in Dio, ma anche a Baffone, un punto teologico molto controverso. A Piazza San Pantaleo, alla messa dei ricchi con la pelliccia come i ricchi di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, una ipertiroidea isterica e passionale vestita di rosso brandendo il foglio del partito urlava, “L’Uità! L’Unità! Ahò, v’avesse da fa’ male un pochetto de marchesismo-leninismo, sa? V’avesse da fa’ male”. Era come ai tempi delle vere guerre di religione quando valeva il principio secondo cui “cuius regio, eius et religio” e cioè: ti becchi la religione del tuo re, e zitto. Io ero di reame stracattolico anticomunista e mia nonna e mia zia e mia madre, tutte maestre, a luce di candela di sego fatta in casa, scrivevamo, con penne ad inchiostro col pennino e la carta assorbente, i risultati che diceva la radio su un quadernone ordinatissimo. Si sentiva che quelle elezioni erano per la vita e per la morte. Se venivano i comunisti, dicevano, sarebbero arrivati i russi e ti avrebbero impiccato papà e mamma, è questo che vuoi figliolo? No, padre, non lo voglio. E allora recita cinque pater ave e gloria, figliolo. Sì, padre. Facevo le elementari davanti al Pantheon, alla Palombella e con la stessa maestra Agnese Marcucci che era stata anche l’insegnante di Albero Ronchey: una rossa fiammeggiante con un seno prorompente, papista fascista nazista colonialista carducciana anticomunista. In classe avevamo il compagno Bartoloni, figlio di carbonaro comunista che ogni giorno si avvicinava alla cattedra e diceva: “Ha detto così mi’ padre che appena vincemo lui te viè a piantà ‘a bandiera rossa sulla cattedra e tu devi pià ‘a tessera der partito communista”. Agnese ci prendeva giusto: “Ahm, sì? E allora dì a tu’ padre che si s’azzarda a entrà co la bandiera rossa, lo faccio arestà da le guardie”. E continuavano per ore. Ogni giorno il mio compagno di Banco Alberto Limentani (erano più della metà ebrei di ghetto i miei compagni di scuola sfuggiti alla razzia del 16 ottobre del 1943) ogni mattina mi dava a bere di essere appena rientrato da Israele dove col suo piccolo aereo combatteva la guerra d’indipendenza e faceva volare il suo caccia con una matita incastrata fra mignolo e indice e sparava e io sparavo con lui e morivo d’invidia perché lui diceva parole straniere molto strane e forti. Infatti, le Nazioni Unite avevano autorizzato due Stati, uno ebraico e uno palestinese, ma la Legione Araba aveva vietato lo Stato ebraico e decise di distruggere la cittadella ebraica dove i combattenti erano ragazzini dell’Haganà che venivano dal ghetto di Varsavia. Stalin a quell’epoca sosteneva gli ebrei, ma secondo modalità molto particolari e veramente staliniane: a gennaio aveva fatto eliminare l’attore yiddish Solomon Mikkeli presidente del Comitato ebraico antifascista organizzato dal capo della polizia segreta Berija. Era stato il sottile Suslov, il futuro ideologo a convincere Stalin della slealtà del Comitato che aveva il progetto di dar vita ad una Repubblica ebraica di Crimea. La guerra arabo- israeliana si svolse quasi a mani nude e il segretario della Lega Araba, generale Azzam Pascià proclamò la “Jihad”, o Guerra Santa “come ai tempi delle invasioni mongole o delle crociate”. Il Muftì di Gerusalemme, Haj Amin Al Husseini, invocò lo sterminio: “Fratelli musulmani, uccidete gli ebrei! Uccideteli dal primo all’ultimo”. A maggio, gli eserciti della Giordania, Egitto, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Libano, Sudan attaccarono Israele. Combatteva anche un contingente palestinese. Cominciò quella che gli israeliani chiameranno “Guerra d’indipendenza” ebraica. Più di 500 mila palestinesi fuggirono dalla Palestina cercando rifugio negli stati arabi vicini, nella speranza che la guerra contro gli “invasori” fosse rapida e definitiva. Gli eserciti arabi furono però inaspettatamente battuti ad uno ad uno dal nuovo esercito israeliano figlio di anni di clandestinità e di alta capacità tecnica appresa durante la Seconda guerra mondiale e degli ufficiali ebrei che avevano combattuto nell’esercito britannico e nella resistenza europea. Resisteva parzialmente, senza subire una vera disfatta, soltanto la Legione Araba dell’emiro Abdullah (o Abd-Allah), alleato ed armato dagli inglesi, guidato da Glubb Pascià, alias generale John Bagot Glubb, ufficiale di carriera inglese, pluridecorato della Prima guerra mondiale, noto come Abu Henek (“mento storto”, a causa di una ferita di guerra). La Legione occupò la Cisgiordania e una parte di Gerusalemme. Con questi nuovi frammenti territoriali lo sceicco Abdullah cambierà poco dopo nome al suo paese chiamandolo Giordania ed assumerà il titolo di re. Nel giugno del 1948 il leader dei comunisti cecoslovacchi Slànsky e il segretario del Partito comunista israeliano Shamuel Mikunis ottennero da Stalin l’autorizzazione a reclutare ebrei per combattere in Israele, ma poi il dittatore cambiò idea e li fece far fuori, compreso Slànsky. A dare il la sarà Ilja Ehrenburg con un articolo sulla Pravda in cui sostenne che gli ebrei sfuggiti all’Olocausto che non avevano scelto Israele erano ormai ansiosi di assimilarsi e aderire con zelo agli emergenti partiti comunisti staliniani”. Scrisse Mastny: “ furono spesso gli uomini preferiti da Stalin per lavori particolarmente sporchi, ma erano anche i più vulnerabili alle purghe una volta esaurito il loro compito”. Il 18 giugno del ’49 fu creato nella Cia, nata l’anno precedente e ancora piena di intellettuali dell’Oss ed ex combattenti antifascisti del “Lincoln Bataillon” della guerra di Spagna, l’Office of Special Projects “per pianificare e condurre operazioni clandestine, in coordinamento con il Joint Chiefs of Staff. Per motivi di sicurezza e di flessibilità operativa, e per ottenere il massimo grado di efficienza, l’ufficio progetti speciali opererà indipendentemente dagli altri componenti della CIA”. Le operazioni “Stay Behind” sono accorpate con le esistenti organizzazioni occidentali per la guerra psicologica e i gruppi di guerra clandestina inglesi e francesi. Usa Gb e Francia sono le sole potenze che nella Nato hanno accesso al “North Atlantic Military Committee Standing Group”, creato per coordinare “Stay Behind”. Questa operazione verrà poi esposta pubblicamente da Giulio Andreotti nel 1990 con il nome di codice italiano di “Gladio” e sarà al centro di un grande scandalo spionistico e politico. Chi adesso pagava veramente era la povera Cecoslovacchia, con un governo democratico legittimo, sottoposta alle cure del colpo di Stato Comunista. Stalin non scherza, l’America non scherza. In Italia c’è il grosso problema delle armi nascoste del Pci e la paventata capacità di mobilitazione. Molti partigiani si comportano come gli americani dopo la rivoluzione quando fu approvato il secondo emendamento: abbiamo diritto di portare le armi per difendere la democrazia, nessuno ci può disarmare. Questo fu il primo serio compromesso storico. La Dc in particolare accettava una smilitarizzazione graduale del Pci che mandava in bestia americani e inglesi. Esistevano convenzioni politiche e regole non dette. Togliatti garantiva che non ci sarebbero state insurrezioni, il ministero degli Interni in cambio non faceva troppi rastrellamenti. Dare tempo al tempo, era la massima. Ma intervennero molto fatti nuovi. La Costituzione entrò in vigore, e questo fu un fatto stabilizzante. Socialisti e comunisti si ritrovarono all’opposizione, e questo fu destabilizzante anche se previsto e poi ci fu l’attentato a Togliatti, segretario del PCI, ex numero due del Comintern a Mosca, ex responsabile sovietico nella guerra di Spagna dove si era occupato di far fuori trotskisti e anarchici, più che fascisti e franchisti e recuperare il tesoro spagnolo con cui farsi pagare gli armamenti sovietici. Dalla Spagna Togliatti era stato richiamato per firmare le condanne a morte del gruppo comunista dirigente polacco liquidato per spianare la strada della spartizione della Polonia tra nazional socialist tedeschi e comunisti russi. Davide Lajolo, direttore dell’Unità, ricordò: “Quando gli chiesi perché firmò quelle condanne ingiuste, rispose: se non l’avessi fatto, mi avrebbero ucciso e avrebbero comunque eseguito le condanne. A che cosa sarebbe stata utile la mia morte?”. Togliatti nel 1943, spinto a tornare da Mosca in Italia per ordine perentorio e notturno di Dimitrov, il numero uno dell Comintern, su ordine di Stalin, gli disse che occorreva in Italia un partito nuovo, largo, accomodante, aperto a tutti, non settario e che smussasse tutti gli angoli che rallentavano l’ultimo sforzo bellico contro Berlino: e fu il” partito nuovo” della volta di Salerno. Ma nel 1948 era cambiato tutto davvero e per sempre. Ovest contro Est, due patti militari opposti. La guerra perenne in Medio Oriente. La certezza che una prossima guerra fosse questione di anni, forse mesi. E che saremmo probabilmente stato inghiottiti nel sistema sovietico che non sembrava poi così allettante. Ma Stalin era popolarissimo, era l’angelo vendicatore, era la mano della giustizia, era un duro dalla parte dei poveri e dei derelitti. Non importava se fosse il più grande serial killer della storia (cosa che si sarebbe saputo soltanto con il XX Congresso del PCUS del 1956) e tutti erano gli uni contro gli altri armati: famiglie, regioni, credenti e miscredenti, c’era voglia di delazione e voglia di mangiare senza fondo. L’obesità dilagava. Non era praticata alcuna forma di rispetto reciproco. La guerra mentale era quanto di meglio potesse sostituire la guerra fisica. I prigionieri di guerra non si rivedevano. La gente scherzava e rideva e aveva voglia di dimenticare, di essere sguaiata, di fare sesso, di chiudere finalmente tutte le partite del dolore, ma quando queste cicatrici copriranno le ferite, nessuno se ne ricorderà più perché quella generazione stava già morendo e non lo sapeva.
LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1948
1 gennaio. Entra in vigore la Costituzione Repubblicana.
30 gennaio. Un estremista uccide a revolverate Gandhi, l’uomo che ha conquistato l’indipendenza dell’India dagli inglesi e il leader mondiale della nonviolenza.
22 febbraio. Golpe in Cecoslovacchia. Il partito comunista assume il potere.
18 aprile. Si vota in Italia. Lo scontro è tra la Democrazia Cristiana di De Gasperi e il Fronte Popolare che unisce i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni. Vince la Dc ottenendo quasi il 49 per cento dei voti (mai nessun partito, da solo, arriverà a questo successo record); il Fronte Popolare si ferma al 31 per cento.
1 maggio. In Grecia vengono fucilati 213 partigiani comunisti.
11 maggio. Luigi Einaudi, liberale, ministro del Bilancio e governatore della Banca d’Italia, viene eletto Presidente della Repubblica. Il suo nome viene scelto da De Gasperi dopo che il candidato ufficiale del partito, Carlo Sforza, era stato azzoppato dai franchi tiratori della sinistra Dc. Einaudi riunisce la Dc, ottiene il voto di liberali e socialdemocratici e sconfigge Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre.
14 maggio. Nasce lo stato di Israele.
5 giugno. Si apre il processo contro Rodolfo Graziani, capo delle forze armate nella Repubblica di Salò. Viene condannato a 19 anni di prigione, dei quali 17 condonati.
24 giugno. Le autorità filosovietiche della Germania Orientale proclamano il blocco di Berlino.
14 luglio. Uno studente di 24 anni, Antonio Pallante, spara cinque colpi di pistola a Togliatti ma non lo uccide. Disordini, incidenti, proteste violente in tutt’Italia. Togliatti, prima di entrare in Camera operatoria, raccomanda al suo partito di mantenere la calma.
30 settembre. Esce nelle edicole il fumetto Tex.
2 novembre. Rovesciando i sondaggi Henry Truman, democratico, viene rieletto presidente degli Stati Uniti, sconfiggendo il repubblicano Thomas Dewey.
10 dicembre. Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo.
Storia d’Italia, 1949: l’anno in cui diventammo il paese cerniera della Guerra Fredda. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Ricordo me stesso nel 1949 spaventato all’uscita di scuola perché non sapevo come digerire la notizia: la squadra del Torino, tutta quanta, era morta. Precipitati in aereo sulla collina di Superga. Era una notizia eccessiva come la guerra e non potevo separarmi dalle immagini delle figurine di quei giocatori e dal fatto che fossero morti. Gli anni, quegli anni, diventavano giorno dopo giorno più terribili. Poi, dopo, a decenni di distanza tutti avrebbero usato queste parole insignificanti come ricostruzione, pacificazione, democrazia, miracolo economico. Non c’era ancora nulla, nel 1949. La società che ricordo era mentalmente settaria e violenta, tutti molto aggressivi e ognuno con un suo conto da regolare, politico o umano.Tutte le famiglie o quasi erano uscite distrutte dalla guerra e la spaccatura della guerra fredda ci passava per le ossa. nelle famiglie, a tavola. Mia nonna si vantava di aver sfilato di tasca a suo figlio una copia de l’Unità. ma quell’anno, il 1949, fu un annus terribilissimus perché la guerra, quella prossima, era nell’aria e sembrava cosa fatta. L’America aveva rotto con la Russia e così la Francia e l’Inghilterra. Noi italiani non contavamo nulla, ma quando i grandi dell’Occidente decisero di formare un’alleanza anti-sovietica che si sarebbe chiamata “Alleanza Atlantica”, il governo De Gasperi chiese e anzi supplicò di accettarci fra i soci fondatori. Scoppiò la rivoluzione. A sinistra. I comunisti si indignarono: questa nuova roba atlantica altro non era che l’ennesima crociata contro i comunisti che hanno salvato il mondo dai nazisti: è un tradimento, una mascalzonata, un attentato contro la pace, la democrazia eccetera. Le cose non stavano proprio così: tutta l’Europa dell’Est, che Stalin aveva prima trattato con Hitler nelle clausole segrete del Patto di Non Aggressione dell’agosto del 1939 e che poi si era fatto riconfermare da Churchill e da Roosevelt, era stata sì assegnata come “zona d’influenza” all’Unione Sovietica, ma a condizione che la democrazia rappresentativa e le libertà fondamentali fossero state garantite. Invece nel 1948 un colpaccio di Stato aveva instaurato la dittatura del partito a Praga e lo stesso era successo in tutti gli Stati che da allora in poi furono chiamati “satelliti”. Inoltre, lo scisma del maresciallo Tito aveva sottratto all’impero sovietico la grande Jugoslavia che restava un Paese comunista, sì, ma “diverso”: molto legato agli inglesi, aperto al turismo occidentale, ma più che altro con l’arma al piede, se a Stalin fosse saltato in mente un colpo di mano: gli jugoslavi erano stati i soli, sia pure con un potente aiuto inglese (un figlio di Churchill collaborava strettamente con Tito) a vedersela con i tedeschi. Il fatto che Tito fosse ora l’uomo nero per Mosca e per tutti i comunisti ortodossi permise a Palmiro Togliatti di reclamare a gran voce il ritorno di Trieste all’Italia. Intanto, l’Italia – Paese che non era per nulla ben visto in Occidente – fece nel 1949 una pessima e maleodorante figura: un’inchiesta americana sul modo in cui venivano spesi dai Paesi beneficiari i soldi del piano Marshall, rivelò che l’Italia li stava sperperando in regalie per gli amici, giochi di potere e correnti, nulla di strutturale ma anzi di molto personale e vagamente mafioso. Fu uno scandalo internazionale che mise in grandissimo imbarazzo il nostro governo che balbettò, promise, face la faccia feroce e cercò di recuperare ancora una volta l’onore perduto. Ma nel frattempo avevamo, come Paese, guadagnato una posizione nuova e invidiabile che ci avrebbe reso moltissimo per mezzo secolo sotto ogni punto di vista, in particolare perché ci avrebbe permesso di giocare, secondo le circostanze con il piede in due staffe. Eravamo diventati il Paese cerniera e questo ci avrebbe dato molti vantaggi. Il fatto di avere il più grande partito comunista dell’Occidente, per di più un partito influente a Mosca e composto da un gruppo dirigente disciplinato in cui non prevalevano le teste calde che avrebbero voluto passare dalla Resistenza alla rivoluzione, era un fattore d’interesse anche per gli alleati. Interesse e pericolo allo stesso tempo. Il Papa, il principe romano Eugenio Pacelli, era un anticomunista oltranzista. Fece un pubblico discorso in cui dichiarò che santa Romana Chiesa Cattolica Apostolica Romana era perfettamente d’accordo sull’Alleanza Atlantica che avrebbe tenuto a distanza i comunisti russi, considerati come il maggior pericolo per il genere umano. Gran parte del Partito socialista guidato da Pietro Nenni (allora molto stalinista che poi avrebbe capovolto la sua posizione restituendo il Premio Stalin che aveva ricevuto) si infuriò contro il Patto Atlantico e in molti gridarono in Parlamento che un’alleanza contro l’Unione Sovietica era da considerare come uno schiaffo al Paese che più di tutti aveva contribuito alla sconfitta del nazismo e ne nacquero molti tafferugli in aula. L’anno precedente erano stati infatti ritrovati a Berlino nella Wilhelmstrasse i documenti originari del cosiddetto “Trattato di non aggressione” fra Terzo Reich nazista e Unione Sovietica, contenenti le clausole segrete che prevedevano l’immediato intervento russo nell’invasione della Polonia (come accadde il 17 settembre del 1939) e l’attribuzione all’Urss dei tre Paesi baltici, Bessarabia, Romania e mano libera in Finlandia. I sovietici negavano ad alta voce e soltanto Michail Gorbaciov nel 1989 confermò che le clausole erano autentiche e che dunque l’Urss aveva tecnicamente iniziato la seconda guerra mondiale dalla parte tedesca. Nel 1949 nessuno era appassionato alla scoperta della verità, ma tutti avevano il coltello fra i denti, per cui il clima politico e nelle strade e nelle famiglie diventò violento, con tafferugli. In Parlamento l’ambiente era rovente, i discorsi erano tutti retorici e minacciosi, ma i numeri erano numeri e alla fine il Patto Atlantico passò e l’Italia entrò in quella che poi si chiamerà la Nato (Trattato dell’organizzazione del Nord Atlantico, benché fossimo nel Sud mediterraneo). L’Italia era diventata anche la terra delle spie perché Paese di frontiera fra Est ed Ovest e perché eravamo anche nel pieno crocevia del Medio Oriente. Abbiamo già raccontato quel che era accaduto nel 1948, quando le Nazioni Unite dettero mandato per la nascita di due nuovi Stati, uno ebraico e uno arabo palestinese, ma che quest’ultimo fu respinto con sdegno dalla Lega Araba che cercò distruggere il focolaio ebraico con tutti gli eserciti disponibili, restando alla fine battuta dal giovane Stato israeliano pieno di giovani che si erano battuti in Europa contro i nazisti. Era appena terminato l’esodo arabo dal nuovo Stato di Israele da cui erano fuggiti in 720 mila arabi che vivevano nelle regioni bibliche della Giudea e Samaria.In Israele i nuovi dirigenti Ben Gurion e Golda Meir tentarono di convincere gli arabi a restare rendendosi conto che si stava aprendo una piaga che non si sarebbe più riemarginata. Soltanto frange terroriste ebraiche spingevano verso la cacciata degli arabi, seguendo una linea di condotta sanguinaria che si era già mostrata con l’eccidio di Yeir Dassin. Gli arabi che accettarono di restare ottennero una cittadinanza pari a quella dei cittadini ebrei, con alcune limitazioni, come il non obbligo di prestare il servizio militare. Ma fino ad oggi gli arabi musulmani anti-israeliani cittadini dello Stato di Israele sono gli unici arabi musulmani con diritto di voto attivo e passivo, diritto di formare partiti, pubblicare e leggere quel che vogliono. I palestinesi dell’esodo che avevano lasciato i luoghi in cui nasceva Israele furono accolti con profonda ostilità dagli Stati arabi e furono costretti a concentrarsi in campi profughi dove diventarono di fatto il più potente strumento di pressione per ogni trattativa con Israele, strumento per pressioni reciproche e per i combattimenti contro gli israeliani. Intanto, centinaia di migliaia di ebrei che vivevano (anche da duemila e cinquecento anni) nei Paesi arabi, si spostano in Israele. Si registrano attacchi alle comunità ebraiche ad Aden, in Egitto, Libia, Siria e Iraq, dove il “sionismo” diventò un reato punito con la pena capitale. Il bilancio del primo rientro ebraico nei confini palestinesi fu di circa seicentomila persone che sostituirono, più o meno, gli arabi fuggiti. Seguirono degli armistizi di cui solo alcuni si trasformarono in trattati di pace, con l’Egitto, il Libano e la Giordania che si annesse la Giudea e la Samaria con il consenso dell’Inghilterra e del Pakistan, quest’ultimo un nuovo Paese di religione musulmana emerso dall’indipendenza dell’India dall’impero britannico. L’Italia si trovava a far parte di uno scacchiere che prevedeva uno stato di guerra più o meno permanente tra Israele e gli Stati arabi, con un nuovo elemento: il petrolio. L’Italia stava per liquidare una vecchia azienda di Stato che risaliva all’epoca fascista per uso agricolo, l’Ente nazionale Idrocarburi, l’Eni, quando furono trovati giacimenti di gas e petrolio in Italia e il nuovo capo dell’ente, Enrico Mattei, si improvvisò manager di una azienda che avrebbe combattuto da parti a pari con le “Sette sorelle” del petrolio mondiale e che avrebbe avuto un ruolo nuovo ed essenziale nella politica estera italiana, tutta volta allo sfruttamento delle risorse di gas e petrolio sullo scacchiere mediorientale. L’Italia aveva appena scoperto di aver posseduto con la Libia, ormai indipendente, il più grande lago di petrolio del mondo, ma si stava rifacendo con una politica molto sfrontata, aggressiva, quasi del tutto indipendente dallo stesso governo italiano. Nel mese di agosto arrivò la sorpresa tanto temuta: gli Stati Uniti perdevano ufficialmente il primato di unica potenzia atomica del mondo, perché l’Unione Sovietica faceva esplodere la sua prima bomba. L’Occidente non ne fu poi così scioccato. Si sapeva da anni che i sovietici seguivano gli americani a poca distanza e gli esperti statunitensi affermarono che il contributo spionistico offerto dai coniugi Rosenberg e di altri circa duecento agenti aveva accelerato il processo. Questa novità benché attesa e temuta strappava agli Stati Uniti un potere implicito anche se mai dichiarato: quello di poter inferire il primo colpo, senza dover attendere una risposta di parti intensità. Gli americani avevano dalla loro un buon nucleo di scienziati tedeschi portati negli Stati Uniti, capeggiati da Von Braun che era stato l’inventore dei missili “V2” con cui la Germania aveva bombardato Londra e che guiderà la ricerca spaziale americana fino alla conquista della Luna. Fra russi e americani circolava la battuta “i nostri scienziati tedeschi sono migliori dei vostri”. Intanto, un evento di portata mondiale e millenaria, se è ancora lecito usare aggettivi tanto pomposi, si concluse quell’anno: la Cina, questo enorme Paese eternamente malato, eternamente conquistato, frazionato, povero, dominato da dinastie e da stranieri (anche l’Italia aveva a Shangai la sua rappresentanza militare come ogni Paese occidentale coloniale) era stata conquistata dall’esercito popolare di Mao Zedong che proclamò la Repubblica Popolare Cinese. Il secondo Stato comunista del mondo diventato tale per una sua evoluzione e rivoluzione interna, dopo l’Unione Sovietica. La vittoria di Mao fu salutata come il più grande evento del dopoguerra da tutte le sinistre mondiali, anche in considerazione del fatto che sia Mao che gli uomini del suo Stato maggiore, fra cui Ciu Enlai (suo potente e coltissimo ministro degli esteri) venivano da una covata intellettuale che si era sviluppata in Francia, alla università della Sorbonne e persino negli Stati Uniti, dove un altro leader, il futuro presidente del Vietnam Ho-Chi-Minh, aveva lavorato per anni come cameriere studiando l’opera di Lincoln. La Cina era stata invasa dal Giappone negli anni Trenta che aveva creato uno stato cinese fantoccio in Manciuria, ai confini con la Siberia sovietica, dove proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale si registrarono feroci scontri tra giapponesi e sovietici. Si formarono così due eserciti cinesi di resistenza contro il Giappone: quello di Mao e quello nazionalista filoccidentale del maresciallo Chang-Kaishek che combatterono insieme contro gli invasori nipponici e poi si scontrarono fra loro e il vincitore fu il comunista Mao, al termine della sua “lunga marcia” durata ben nove anni spesi arruolando contadini. Il maresciallo sconfitto si ritirò nell’isola di Taiwan, che ancora veniva indicata con il nome coloniale di Formosa. Lì Chang governò mantenendo in piedi un esercito con cui sognava di tornare sul continente e riconquistare Pechino. Dopo la sua morte, Taiwan diventò un protettorato americano, ma dal punto di vista del diritto internazionale nessuno obiettò che l’isola apparteneva alla Cina che proprio oggi la rivendica con grande energia, come ha fatto per l’ex colonia britannica Hong Kong. Taiwan, insieme a Singapore, Hong Kong, la Cambogia e il Vietnam (per non dire dell’Australia) costituisce la più lacerante ferita nel fianco del regime di Pechino. Quando ero un giovane giornalista nel 1963 nella redazione de l’Avanti! ci davamo appuntamento ogni mercoledì e venerdì davanti alle telescriventi intorno alle 15 perché a quell’ora ogni settimana dell’anno, le batterie costiere cinesi bombardavano i disabitati scogli di Quemoy e Matsu, i più vicini a Taiwan, in segno di “grave avvertimento” del popolo e dell’esercito della Repubblica cinese. Ricordo che a quell’epoca era d’uso festeggiare l’evento brindando con pessimo spumante a temperatura ambiente.
LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1949
25 gennaio – Ben Gurion è eletto primo ministro di Israele.
3 febbraio – Inizia il processo a Budapest al cardinale Jozsef Mindszenty. Accusato di spionaggio. Ergastolo.
5 febbraio – Negli Stati Uniti viene pubblicatoil rapporto Hoffman. L’Italia è accusata di aver sperperato i fondi dle piano Marshall. In particolare è sotto accusa la decisione di Fanfani di dare alcuni miliardi all’Ina Casa per costruire case popolari.
5 marzo – L’ex procuratore generale dell’Urss Andrej Vysinskij diventa ministro degli esteri al posto del mitico Molotov. Anche Vysinskij è mitico: è il Pm che ha fatto condnanare a morte decine di alti dirigenti del partito, compreso Bucharin.
11-20 marzo – L’Italia aderisce al patto atlantico (NATO). Contrarie le sinistre. Dissensi nella Dc. Votano contro due nomi eccellenti: Luigi Gui e Giuseppe Dossetti.
4 Maggio – L’aereo sul quale viaggia la squadra di calcio del Torino – quella di Valentino Mazzola – si schianta sulla collina di Superga. Muoiono tutti: giocatori accompagnatori, giornalisti.
14 maggio – Riammessi al lavoro i dipendenti statali ex fascisti.
23 maggio – Nasce la Repubblica Federale tedesca.
14 giugno – A Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, viene scoperto un gigantesco giacimento petrolifero. All’Eni inizia l’era Mattei.
29 agosto – L’Urss annuncia di aver costruito la bomba atomica.
1 ottobre- Mao Tse Tung annuncia la nascita della Repubblica popolare cinese.
16 ottobre – Finisce la guerra civile in Grecia. I comunisti sono sconfitti.
6 dicembre – Nasce il quotidiano Paese Sera.
Storia d’Italia, 1950: quando le Madonne piangevano e si cantava Bandiera rossa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Agosto 2020. Il 1950 lo ricordo per un fiasco. Un fiasco tutto di vetro, senza la paglia esterna, perché era di vetro anche quella. Sul collo del fiasco c’erano in rilievo quattro basiliche. Credo fosse l’anno mariano, o il giubileo, qualcosa di molto importante. Avevo dieci anni. E fu quell’anno in cui mia madre e sua madre, mia nonna Amelia dai capelli rossi come i miei (e di mio padre), mi avvisarono con tono grave e ufficiale che non potevo più essere considerato un bambino, ma un “fanciullo”. Propri così dissero: fanciullo. Parola che nel frattempo è morta. Godi fanciullo, stagion lieta è codesta. O i due fanciulli del Pascoli che se le davano di santa ragione nella pace d’oro dell’ombroso parco con “parole grandi più di loro”. Era l’anno di tante cose, la più terribile fu l’inizio della guerra di Corea che tutti percepirono come il ritorno della Seconda guerra mondiale. Ma colgo l’occasione per dare un’idea di che mondo fosse, perché ho imparato da anziano che se non ci capisce il contesto, non si capisce niente. I bambini erano per la metà figli di contadini con i pidocchi i capelli rasato, le orecchie a sventola e gli occhi bassi per rispetto verso i signori. Tuttavia nel 1950 ci furono sommosse contadine in Calabria per l’occupazione delle terre. Voi non avete idea delle sommosse contadine e per l’occupazione delle terre. I signori calabresi, in genere baroni, se la godevano a Napoli come intellettuali campando di rendita per gli sterminati ettari di sterpaglie da cui il contado doveva tirar fuori pane e companatico per sé e i baroni con villa sopra Posillipo. C’erano i contadini in rivolta e la polizia che interveniva con le camionette. L’ultima volta nel Lazio, ero presente qualche anno dopo, quando vidi uno squadrone di carabinieri a cavallo caricare a sciabola piatta i contadini che avevano occupato le terre incolte. Non ci scapparono morti, ma era un’altra Italia oggi estinta. E l’Italia del 1950 era cattolicissima, ateissima, comunistissima, tutto col superlativo. C’erano molti fascistissimi che si sentivano ancora in divisa e a scuola i compagni di classe figli di un padre soldato o ufficiale facevano il saluto al duce e poi si accapigliavano con quelli che cantavano bandiera rossa. Baffone – Josep Stalin – era ancora il più grande santo di tutte le icone e mezzo Paese contava sul suo avvento, una specie di santa invasione come quella di Mehemet Alì che invase Costantinopoli e tagliò la testa a tutti i cristiani che si erano rifugiati in Santa Sofia. Lo aspettavano a piazza San Pietro dove i cosacchi avrebbero – sceondo la vulgata più accreditata – fatto abbeverare i cavalli nelle fontane del colonnato del Bernini. Ancora non si cantava Bella Ciao, ma solo Bandiera Rossa e L’inno dei lavoratori che diceva: su fratelli, su compagni, accorrete in fitta schiera, sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir. C’era una meravigliosa iconografia. La chiesa era tutta in latino, incenso, e apparivano ovunque le Madonne e tutti si davano la voce che c’era un a nuova Madonna alle quattro fontane e tutti andavano di notte coi fari e la vedevano piangere ma poi non risultava sulle fotografie. Mi capitavano degli arruolamenti per servire messa e seguire il baldacchino del Santissimo a San Carlo ai Catinari, che è una chiesa con la più grande collezione di teschi in marmo scolpiti ovunque e dovevi stare attento a dove mettevi i piedi cantando oremus domine non sum dignus orate fratres ideo precor beatam Mariam semper virginem e si andava così con un latino pasticcione e popolaresco che tutti recitavano, anche gli atei e i comunisti perché le iconografie erano vitali tutte, con enormi falci e martello, i rimasugli fascisti, le croci e le madonne. A scuola ci sommergevano di versi di Giovani Pascoli e Giosuè Carducci. Tutto a memoria. Mia madre, seriamente, per il mio compleanno e pensando di riempire un vuoto nella mia cultura e nella sua biblioteca, mi regalò in edizione di pelle e oro zecchino, le “Prose” di Carducci di cui non fregava niente a nessuno, quando invece avevo supplicato di avere un piccolo canotto gonfiabile per il mare. Non esistevano le pinne e ancora neppure la maschera col boccaglio, di cui giravano i primi esemplari fra le scorte dei soldati americani, gomma nera, vetro pesante, tubo di rame e tappo di sughero chiodato. D’altra parte, nel loro conservatorismo i miei mi mandavano in giro – unico e solo – con i pantaloni alla zuava (stretti alla caviglia) perché non avevo ancora l’età adulta del pantalone lungo e nei boyscout chiesero a lungo perché non fosse ripristinata la mantella blu dei tempi della Prima guerra mondiale. La mia maestra delle elementari, che ho già citato e che era una fascistona patriottica rossa anche lei e che fu la maestra anche di Alberto Ronchey con cui poi ce la litigammo nelle memorie, un giorno venne in classe tutta impettita, ci disse di aprire i quaderni, salì sulla cattedra e illuminata dal sole della finestra che dava sul Panteon, annunciò come se avessimo vinto una guerra: “Oggi le Nazioni Unite hanno affidato all’Italia un mandato speciale per l’amministrazione dell’ex colonia della Somalia”. Prendemmo nota con la penna di legno laccato e il pennino cambiabile che si ripuliva con lo straccetto e si intingeva nel calamaio in un buco del pesantissimo banco di quercia massiccia. L’anno prima i miei mi avevano portato a visitare Londra, viaggio in treno, ed ero rimasto sbalordito dal fatto che gli inglesi, che avevano vinto la guerra contro di noi, erano poverissimi dietro le trincee di sacchetti di sabbia, le donne guidavano il tram e per colazione ti davano le aringhe che, con mia sorpresa, trovai adorabili. Da noi si mangiava a quattro palmenti e ci era andata di lusso. Il bandito Salvatore Giuliano, che aspirava sui lavoratori a Portella della Ginestra con la mitragliatrice convinto di servire alti poteri anticomunisti e di potersi far accettare dagli americani, viene fatto fuori a Castelvetrano dal cognato Gaspare Pisciotta e la sua morte è sceneggiata in modo da sembrare l’esito di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Cesare Pavese, poeta e scrittore comunista, l’uomo di un Piemonte immerso in virtuoso silenzio protetto dal mare d’acqua, si uccide con i barbiturici e tutti si chiedono quanto ci sia di politico e quanto di personal eo di ideologico. Dall’America arrivava mensilmente la rivista Selezione dal Reader’s Digest, uno dei più formidabili strumenti di propaganda editoriale che penetra nella società italiana con storie che costruiscono nei lettori una disposizione nostalgica verso l’American way of life, così come faranno i fumetti di Disney firmati da Barker, senza contare il successo mondiale del cartone animato Cenerentola che riprende la lunga interruzione dal primo cartone a colori “Biancaneve” del 1937 di cui notoriamente era pazzo Adolf Hitler. Dall’America arrivavano i primi ritmi di un genere di musica evoluta dal boogie-boogie che poi sarà il Rock’n Roll, ancora in uno stato primitivo, elaborato dalle truppe sui fronti di guerra europei. La guerra di Corea, che non è ancora stata chiusa, fu un evento tremendo. Pochi erano persino al corrente dell’esistenza della Corea, così come più o meno tutti ignorarono l’esistenza della colonia francese del Vietnam che era già in grande agitazione indipendentista. La Corea era stata tagliata in due sul 38mo parallelo in attesa di elezioni generali ma il governo Nord, sotto gestione comunista filocinese, ruppe l’accordo e invase il Sud. Gli Stati Uniti promossero una coalizione dell’Onu guidata da loro con il leggendario generale McArthur che fumava una pipa di canna di mais, il quale riconquistò il Nord ma si trovò contro l’esercito popolare della neonata Cina comunista di Mao Zedong. Fu una guerra atroce e trermenda che l’America non vinse e nella quale morirono non meno di due milioni di soldati, prevalentemente cinesi. Il generale americano chiese il permesso alla Casa Bianca di usare l’atomica e conquistare Pechino., e fu licenziato in tronco. Nel frattempo, il generalissimo Chang Kai-shek, battuto dai comunisti, si imbarcò con tutta la sua armata per Taiwan che conservava il nome coloniale di Formosa, dove costituì una repubblica cinese anticomunista che ancora esiste e che Pechino o rivendica in queste ore come parte integrante della Cina. Lo fa sulla base degli accordi presi con gli americani nel 1978 dopo la rappacificazione avviata dal presidente Nixon con Mao, per mettere i bastoni fra le ruote dell’Unione Sovietica. Avevano tutti una paura dannata della bomba atomica e le dispense si riempivano di scatolette di carne e piselli. In compenso la gente si appassionava ai grandi processi criminali con le paginate sui giornali quotidiani. Il primo fu quello a Rina Fort, accusata di aver soppresso la moglie e i tre figli del suo amante. Un processone in cui furono pronunciate le più ottuse bestialità sulle donne e che comunque si concluse con un ergastolo per l’assassina. La guerra fredda conobbe un nuovo giro di vite: gli Stati Uniti inaugurarono ufficialmente la stagione che prende nome dal senatore Joseph McCarthy della Virginia, secondo il quale l’intera amministrazione statale è infiltrata dai comunisti, che agiscono come se fossero veri americani, ma che in realtà sono la quintessenza del non-americanismo. Bisogna ricordare che in America esiste l’aggettivo unamerican che non vuol dire antiamericano, ma semplicemente non americano. Ciò che suona falso come americano. Escono film su alieni che sembrano perfettamente umani (e americani) ma che hanno un microchip dietro la nuca che li fa agire secondo gli ordini di un mondo che vuole conquistare la Terra e che probabilmente ha la sua centrale a Mosca. Comiunciano i processi contro la maggior parte della gente del cinema e della letteratura, tutta più o meno di sinistra e che aveva vissuto la Seconda guerra mondiale anche come una crociata contro il nazifascismo sentendosi legittimamente alleata con l’Unione Sovietica. Tutti erano stato d’accordo nel deporre un pietoso velo sulla prima alleanza fra Hitler e Stalin dal settembre del 1939 al giugno del 1941, ma il comune sentire era ancora fortemente incline a vedere nella Russia sovietica un grande alleato, che stava trasformandosi in un nemico da arginare e forse da combattere con le armi. Tutti i comics, i réportage giornalistici e una parte del cinema si dedicarono alle malvagità che emergevano dai numerosi orrori che accadevano oltre la “Cortina di ferro” fra i paesi “satelliti” e l’Unione Sovietica. Questa nuova guerra raggiunse rapidamente punte di furore isterico, simmetrico a quello della controparte filosovietica anche in campi apparentemente neutrali come l’arte, la letteratura e l’urbanistica. Il nostro era un Paese cattolico e madonnaro strutturato sulle sezioni territoriali della Democrazia Cristiana, del partito socialista, di quello comunista, le stazioni dei carabinieri e le parrocchie, come nei racconti di Don Camillo di Peppino Guareschi. L’Italia di destra e di sinistra erano riunite in una comune diffidenza verso gli americani perché era chiarissimo che costoro non portavano soltanto pancake, popcorn, coccola, dentifrici, caramelle col buco e vitamine. Gli americani portavano una irresistibile ventata di libertà sessuale, di franchezza sessuale, sempre più esplicita e totalmente estranea alle tradizioni di un Paese come l’Italia che in materia di sesso era ancora totalmente bigotto. La resistenza all’innocente ed esplicito libertinaggio degli americani trovava un fronte curiosamente unito fra estrema destra ed estrema sinistra in Italia, dove Fanfani imponeva alle ballerine della Rai di indossare sulle gambe dei monacali “body” grigi.
Togliatti e i suoi angeli custodi. Maurizio Caprara su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2020. Uno dei rimproveri era rivolto a Giuseppe Di Vittorio, in quel momento segretario generale della Cgil, la Confederazione generale italiana del lavoro, già perseguitato dal regime fascista, incarcerato, confinato e più avanti eletto all’Assemblea Costituente. Il rilievo mosso nei suoi confronti era: «Il compagno Di Vittorio abbastanza spesso quando deve intraprendere un viaggio in treno preferirebbe partire senza accompagnatore, accusandoci perfino di “dilapidare il danaro della classe operaia” (sic) acquistando biglietti per il compagno che ha l’incarico di seguirlo. Quando egli parte in macchina, specialmente alla volta di Cerignola, se i posti sono occupati da familiari egli lascia a terra l’accompagnatore». Il termine desueto che oggi può far sorridere — accompagnatore — era usato nel 1950 per indicare un militante del Partito comunista addetto alla scorta. Una guardia del corpo, compagnia della quale avrebbero fatto volentieri a meno anche altri dirigenti del Pci. Per esempio Gian Carlo Pajetta, che aveva vissuto in carcere circa tredici anni perché antifascista, e Umberto Terracini, che ne aveva scontati quasi dodici, inoltre sei di confino e poi aveva presieduto la Costituente. «Il compagno Pajetta più volte di sera è uscito senza accompagnatore (...). Spesso il compagno Terracini trova strano che il suo accompagnatore lo segua a teatro e ci va da solo», veniva riepilogato con disappunto. Morale ricavata dalle descrizioni: «Una seria vigilanza mai potrà realizzarsi se i compagni dirigenti considerano i compagni della vigilanza come “nemici”, o come dei poliziotti ai quali bisogna far perdere le tracce».
La relazione di Antonello Trombadori. Contrassegnata dalla dicitura «Riservata», la relazione che contiene queste frasi è datata 25 agosto 1950. Riguarda l’incidente di auto che, tre giorni prima, aveva causato al segretario Palmiro Togliatti un’incrinatura dell’osso frontale e la frattura di una vertebra. Evento con echi internazionali, l’infortunio del 22 agosto di settant’anni fa. Non un banale fatto di cronaca sulla statale tra Ivrea e Pont-Saint-Martin, lungo la quale era finita fuori strada l’Aprilia che portava verso le vacanze in Valle d’Aosta Togliatti, Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa. Che un camion, all’improvviso, avesse deviato il percorso dell’auto era una spiegazione insufficiente per Botteghe Oscure. Quali precauzioni non erano state adottate? Quali errori intralciavano la protezione dei dirigenti? Ne era derivata un’inchiesta, della quale il documento che abbiamo rintracciato nell’archivio del Pci conservato dalla Fondazione Gramsci era parte. A scrivere le otto cartelle fu Antonello Trombadori, responsabile della Commissione di Vigilanza. Le indirizzò alla «Segreteria del Partito». Per coglierne il senso va tenuto presente che due anni prima il Pci aveva due milioni e 99 mila iscritti, era il più grande partito comunista dell’Occidente e il 14 luglio 1948 il suo segretario era stato ferito a colpi di pistola da un attentatore. Il Partito comunista sovietico si era definito «contristato del fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile attacco». Nella ritrosia di alcuni verso l’essere scortati contava il sospetto che certi accompagnatori raccogliessero informazioni sui dirigenti per il vicesegretario del Pci Pietro Secchia e per Mosca invece di lavorare per Trombadori. Analizzato subito da molti, dal ministro dell’Interno all’ambasciata americana in Italia, l’incidente di auto riproponeva una questione simile. Era per dimostrare impegno nel garantire l’incolumità del segretario che la direzione del Pci, dopo l’attentato, aveva istituito la Commissione di Vigilanza. E la sicurezza mancata all’Aprilia sarebbe stata tra gli argomenti impiegati da Stalin, a fine 1950, per motivare la sua proposta di mandare Togliatti a Praga per guidare il Cominform, la struttura erede dell’Internazionale comunista. Un’offerta respinta dall’interessato. Già partigiano nei «Gruppi di azione patriottica», tanto colto quanto incline a romanesco sarcasmo, Trombadori nella relazione ricorse ai toni richiesti dalle circostanze. Seri. Alla segreteria consigliò: «Quale che sia la versione ufficiale che si preferisce dare alle cause del sinistro noi dobbiamo, in sede di lavoro, guardare in faccia alla realtà e riconoscere che soltanto l’elevata velocità (oltre i cento all’ora) e la sottovalutazione dell’ostacolo potevano provocare quanto è accaduto». L’incidente veniva addebitato a «inammissibile leggerezza dell’autista compagno Aldo Zaia». Con un’aggiunta indicativa di quanto i segretari di partito del tempo fossero potenti eppure non indiscussi, tuttavia, Trombadori metteva agli atti di aver chiesto in precedenza la sostituzione di Zaia e che era stata rinviata tra l’altro «perché il compagno Togliatti non riteneva pienamente giustificata la misura». Nessuno sapeva, allora, che in ottobre il segretario sarebbe entrato in coma e sarebbe stato salvato da un’operazione chirurgica al cervello. Tanti testi possono far conoscere che cosa sono stati i partiti di massa della cosiddetta «Prima Repubblica», interventi pubblici, resoconti di riunioni e così via. Ma uno spaccato eloquente è in questa relazione. Nella quale si osservava: «Soltanto apparentemente il compito di accompagnatore di Togliatti può essere simile a quello di una sentinella, in realtà quello che conta molto è la capacità che quest’uomo ha per far vivere insieme senza attriti i due autisti, i guardiani della casa, ecc, e lo spirito di iniziativa (...)». In altre parole, occorrevano capacità politiche. Anche per essere «accompagnatori».
Marta Cartabia: «De Gasperi, riparatore di brecce e restauratore di case in rovina…». su Il Dubbio il 20 agosto 2020. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. «Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi». Questo splendido passo di Isaia (Is 58,12), a me molto caro, ci introduce al tema scelto con grande lungimiranza dagli organizzatori per la Lectio degasperiana di quest’anno: «Ricostruzione e Costituzione». La parola ricostruzione risuona da mesi nella riflessione pubblica ed è risuonata nel corso di questa estate, specie nelle ultime settimane, in occasione della cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, ricostruito, appunto, dopo la tragedia del crollo di due anni fa. In quella occasione, l’architetto Renzo Piano, che ha donato il progetto del nuovo ponte, nel suo intervento di saluto, ha espresso, con parole bellissime, pensieri profondi da cui desidero prendere le mosse per la nostra riflessione odierna. Anzitutto, ha osservato, la ricostruzione è sempre figlia di una tragedia, di una frattura che non si cancella e non si dimentica; una ferita che non si rimargina – come ha sottolineato il Presidente della Repubblica nella medesima occasione – e diventa l’essenza stessa di quello che saremo. La ricostruzione incorpora, dunque, un passato che non si può ripristinare così come era, ma richiede un rinnovamento. Per ricostruire occorrono un’idea e un cantiere, prosegue l’illustre architetto e senatore. Un’idea, per dare forma a ciò che non l’ha più. Un cantiere, per realizzare quell’idea attraverso il lavoro, l’opera instancabile e tenace di una comunità di persone. 2 Similmente, la ricostruzione dell’Italia dopo la catastrofe alla fine della Seconda guerra mondiale, ha richiesto un ideale – che ha la stessa radice etimologica di idea – e un lavoro nato dal coinvolgimento di un popolo. In quella ricostruzione Alcide De Gasperi svolse un ruolo preminente, come uomo di pensiero e di azione. Anche allora c’erano tragedie, fratture, macerie e ferite non rimarginabili; anche allora fu necessaria un’idea per ridare forma nuova alla convivenza civile di un popolo disorientato; anche allora fu necessario un grande cantiere per ricostruire su solide fondamenta la casa comune. Oggi, come allora, – superate le fasi più acute dell’emergenza innescata dalla pandemia – siamo alle prese con una ricostruzione, avviata quando si è incominciato a pensare al “dopo”. A un “dopo” che difficilmente potrà assumere la forma di un semplice ritorno al “prima”, sia pure dopo una parentesi lunga, dolorosa e straniante, ma pur sempre una parentesi. In questo frangente, è più che mai fecondo riandare alle fonti della storia. (…).In questa prospettiva, ricco di spunti di riflessione anche per il nostro oggi è il percorso di un uomo, qual è Alcide De Gasperi, che ha fatto della ricostruzione una delle sue principali preoccupazioni e, soprattutto, il metodo della sua azione politica; un uomo che, non a caso, ha operato da protagonista sulla scena pubblica proprio in quel decennio della storia d’Italia che viene usualmente denominato «periodo della ricostruzione» dopo le guerre e il fascismo. Significativo è che il documento più organico in cui si possono rintracciare le linee di pensiero e di azione di Alcide De Gasperi rechi il titolo «Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana» del 1943. Egli contribuì alla ricostruzione con pensiero e azione: idee e cantieri, per riprendere ancora la felice immagine usata da Renzo Piano. Il contributo di De Gasperi alla ricostruzione non può essere compreso disgiungendo questi due aspetti, che in lui furono sempre uniti. Il primo è quello più propriamente di pensiero, che egli ebbe modo di elaborare in particolare durante il periodo dell’“esilio” in Vaticano e del lavoro condiviso con gli esponenti del Partito Popolare e con i giovani che avevano preso a riunirsi dall’inizio del 1940 a casa di Sergio Paronetto. Qui si era incominciato a ragionare seriamente di ricostruzione. Tra le personalità che partecipavano a questi incontri, che sarebbero poi scaturiti nella redazione del Codice di Camaldoli del 1943, vi erano oltre allo stesso De Gasperi, anche Guido Gonella, Giuseppe Spataro, Mario Scelba, Pasquale Saraceno, Mario Ferrari Aggradi e infine anche Giulio Andreotti. (…)La sua azione ricostruttiva, dunque, si muoveva contestualmente su una pluralità di piani e rispondeva a una «visione integrale» dei bisogni che urgevano. Tutt’altro che secondaria per lui fu altresì la componente morale e culturale. Il suo imponente “cantiere ricostruttivo” portò a risultati tangibili, da più parti qualificati come prodigiosi nella storia d’Italia e d’Europa, perché egli non trascurò mai il “fattore umano” nella sua integralità, convinto che «più che i programmi contano gli uomini che sono chiamati ad attuarli». (…)Veniamo più da vicino al tema della nostra riflessione che è «Ricostruzione e Costituzione»: ed è sul terreno costituzionale, a me più familiare, che intendo rimanere saldamente ancorata. È bene però sin da subito sottolineare che per comprendere il contributo così ricco e articolato, come quello che offrì De Gasperi alla ricostruzione costituzionale, occorre affrancarsi da una nozione meramente testualistica di Costituzione per abbracciarne una più ampia e ricca, che include la prima, ma non si esaurisce in essa. Le costituzioni nascono dalla storia e vivono nella storia. Il momento della scrittura di una costituzione è un momento epico nella vita di un popolo; eppure, solo con la scrittura, la Costituzione non può garantire se stessa. Occorrono soggetti sociali, politici e istituzionali che siano in grado di conferire alle scelte costituzionali solide fondamenta e radici robuste, capaci di reggere all’urto delle intemperie. Per questo rimane attuale l’intuizione fondamentale di Costantino Mortati che ci ha consegnato una nozione complessa di costituzione, risultante tanto dal testo scritto – la Costituzione formale – quanto dai rapporti tra le forze sociali e politiche – la Costituzione materiale. Ed è proprio su questo piano che si può apprezzare il lascito di De Gasperi. Infatti, chi si basasse solo sul processo di scrittura della nuova carta costituzionale, cioè si affidasse solo lettura dei lavori dell’Assemblea costituente, ne trarrebbe l’impressione di una assenza o di una presenza assai parsimoniosa: fatto salvo un intervento importante al momento dell’approvazione del futuro articolo 7 della Costituzione sui rapporti con la Chiesa cattolica, si annoverano altri due brevi interventi, all’inizio e alla fine dei lavori, e niente più. Se paragonato al contributo degli altri cattolici eletti in Assemblea costituente – Dossetti, La Pira, Moro, solo per citare alcuni nomi eminenti – l’apporto diretto di De Gasperi alla scrittura della carta costituzionale appare assai contenuto. Eppure, non errano quegli osservatori italiani e stranieri che attribuiscono un ruolo di spicco allo statista trentino in tutta la fase costituente. In anni recenti, un autorevolissimo osservatore esterno al dibattito politico italiano non esita a definire De Gasperi come vero e proprio leader carismatico della svolta costituzionale italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si tratta di Bruce Ackerman, eminente costituzionalista dell’Università di Yale, che nella sua più recente opera che indaga sulle origini e sulla legittimazione delle Costituzioni contemporanee riserva un ampio spazio alla nascita della Costituzione (…)La sua fu un’opera di “coibentazione” e consolidamento delle istituzioni repubblicane e della nascente democrazia, attraverso un’azione di politica interna ed estera che si svolse parallelamente ai lavori dell’Assemblea costituente, per assicurarne la permanenza al di là del mutare dei governi. De Gasperi aveva visto in prima persona cadere sotto i colpi del fascismo non solo il costituzionalismo italiano, ma anche la Costituzione di Weimar del 1919, avanzatissima nei suoi principi, ma fragilissima nella sua struttura, in cui non si era riusciti a trasferire al nuovo sistema politico la lealtà degli apparati del vecchio: un fallimento, quello di Weimar, che spianò la strada al nazionalsocialismo e all’ascesa di Hitler in Germania. (…)«Il Governo ora, fatta la Costituzione, ha l’obbligo di attuarla e di farla applicare: ne prendiamo solenne impegno. Noi tutti però sappiamo, egregi colleghi, che le leggi non sono applicabili se, accanto alla forza strumentale che è in mano al Governo, non vi è la coscienza morale praticata nel costume». De Gasperi veniva da lontano e guardava lontano: per questo vedeva nella stabilizzazione nazionale, europea e internazionale il necessario complemento all’operazione costituente, che egli perseguiva con la sua azione di governo, distinta ma parallela ai lavori della Costituente. Collocato in questo contesto di più ampio respiro, il numero limitato dei suoi interventi diretti ai lavori dell’Assemblea costituente è, dunque, un indicatore scarsamente significativo per valutare la reale incidenza che il pensiero e l’azione di De Gasperi spiegarono sulla configurazione del nuovo ordine costituzionale. Al contrario, la fase costituente fu segnata profondamente dalla sua azione. Tra l’altro, egli contribuì con un apporto decisivo ad alcune fondamentali scelte di metodo che agevolarono la transizione, permettendo che la Carta costituzionale fosse scritta in tempi relativamente brevi e soprattutto in un clima pacifico e collaborativo fra tutte le forze politiche antifasciste, anche nei momenti più critici e di maggior tensione. Si possono evidenziare tre punti: anzitutto la scelta per la Costituente in luogo del metodo insurrezionale; in secondo luogo la decisione a favore del referendum istituzionale; infine, la delimitazione dei poteri dell’assemblea costituente, escludendo dal suo campo di intervento l’azione di governo e la legislazione ordinaria. Sul primo fronte, occorre osservare che sin dall’epoca delle discussioni in sede di CNL si fece fautore dell’idea di una Assemblea costituente in opposizione all’ipotesi insurrezionale avanzata dai socialisti. Famose sono le dichiarazioni che egli pronunciò in sede di CNL: «Non temo la parola rivoluzione, ma ne ho fastidio dopo venti anni che il fascismo, richiamandosi ai diritti della rivoluzione, ha commesso tante soperchierie e violato i diritti dei cittadini. Ad ogni modo la vera rivoluzione è la Costituente». La vera rivoluzione è la Costituente. De Gasperi è lapidario. Le sue parole lasciano intendere che sullo sfondo si svolgeva una discussione condizionata dalla dicotomia restaurazione–rivoluzione, come se l’alternativa che si poneva alla fine del fascismo fosse un aut-aut: o un ritorno al passato, o un sovvertimento radicale, una palingenesi sociale da imporsi con il metodo insurrezionale. De Gasperi non si fa intrappolare nell’alternativa tra nostalgie e utopie. Dal punto di vista metodologico egli prediligeva la strada della ricostruzione, una terza via alternativa tanto alla mera restaurazione quanto alla radicalità della rivoluzione. E tale via passava attraverso una Costituente, democraticamente eletta. Il suo obiettivo era di assicurare alla nascente democrazia una prospettiva stabile e proiettata a lungo nel futuro, ben oltre il momento epico della fase costituente, cosa che la rivoluzione non era in grado di assicurare: «noi siamo preoccupati soprattutto di salvare nel futuro lo Stato democratico noi desideriamo il metodo permanente della democrazia, che è l’antirivoluzione». Altrettanto netta è la sua posizione quanto al metodo per risolvere la questione istituzionale, nella scelta cruciale tra monarchia e repubblica. Questa alternativa era fortemente lacerante sul piano politico, lungo vari crinali che dividevano il paese. Per questo, la sua proposta fu sempre chiara nel voler sottrarre questo compito gravoso all’Assemblea costituente. Il nodo tra monarchia o repubblica doveva essere sciolto con un voto diretto da parte del popolo. (…)Il favore di De Gasperi per il referendum istituzionale era mossa anche dall’obiettivo di evitare che l’ombra della discussione su un punto così controverso, si proiettasse sui lavori dell’Assemblea costituente, avvelenandone il clima. (…). Egli non volle mai caricare l’Assemblea costituente delle funzioni di legislazione ordinaria, che vennero portate in capo all’esecutivo. Le uniche eccezioni erano costituite dalla legislazione elettorale e quella di ratifica dei trattati internazionali 9 Ciò si rivelò provvidenziale giacché permise di mantenere il clima di collaborazione fra tutte le forze politiche all’interno dell’Assemblea costituente anche nel corso del ’47, quando il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti portò a un progressivo inasprimento dei rapporti con i comunisti, culminato, nel maggio del medesimo anno, con la loro esclusione dal governo. Erano i mesi decisivi per la conclusione del Trattato di pace e, allo stesso tempo, per il perfezionamento del testo costituzionale. Le tensioni di quel momento sono impresse nella memoria di tutti per la forza delle parole con cui prese l’abbrivio il suo famoso discorso a Parigi al Palazzo del Lussemburgo, di fronte ai delegati delle potenze vincitrici: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. ho il dovere di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista ». A Parigi, come già a Londra, si trovò in un ambiente di freddezza e di sospetto. Ma parlò con nobiltà, come rappresentante dell’Italia, ma dell’Italia democratica; come uno che per la libertà aveva patito. (…)Questi tre interventi – l’Assemblea costituente, il referendum istituzionale e la distinzione dell’azione di governo da quella propriamente costituzionale – permisero di «gettare un ponte sull’abisso» e di giungere al più grande rivolgimento della storia politica moderna d’Italia nella 10 concordia, mentre altrove furono guerra civile, terrore e massacri, come egli stesso osservò nel suo discorso all’Assemblea costituente il 25 giugno 1946. C’è da chiedersi da dove De Gasperi attingesse una tale chiarezza di giudizio, una tale tenacia nell’azione e una tale creatività nell’individuazione di soluzioni praticabili e condivisibili, in un periodo così confuso e convulso, eppure così decisivo, della storia di Italia e d’Europa. Lascio a chi meglio di me conosce la sua storia personale individuare le sue risorse più profonde, che forse più adeguatamente possono rispondere a questo interrogativo. (…) La sua linea politica è orientata alla continua ricerca del centro, in modo da ricomporre le inevitabili polarità, guardando anzitutto ai fatti: di qui l’idea di ricostruzione che, come si è detto, non è restaurazione, ma neppure rivoluzione: «Il ricostruttore non s’indugerà in discussioni ideologiche alla ricerca dello Stato ideale né, d’altro canto, si lascerà turbare dai miti di una palingenesi rivoluzionaria», si legge nel Testamento politico che prosegue, richiamando ironicamente una battuta del politico belga Félix de Mérode: «Quando ordino un paio di scarpe il calzolaio prende le misure sul piede mio e non su quello di Apollo». La ricostruzione che egli propone è un metodo che parte dal dato di realtà, confida nella forza dei fatti e segue le tracce presenti nella storia così com’è. Tra tante, spicca una qualità della sua azione politica che, mi pare, derivi proprio dalla sua caratteristica di uomo di confine, sempre chiamato a camminare su un crinale, a muovere i suoi passi in ambienti impervi, insidiosi e severi: la qualità è quella di un realismo lungimirante. Certo, si potrebbe obiettare, c’è un realismo prigioniero della realtà stessa, che si risolve in un immobilismo, in pura fatalistica conservazione. Ma non è questo il realismo che caratterizza l’azione e, oserei dire, la vita di De Gasperi: la traccia che egli ha lasciato nella storia d’Italia e d’Europa è quella di un rinnovamento che pesca nell’esistente e ha un respiro di lungo periodo. La sua è una politica che pone le basi di alcuni orientamenti di fondo, alcuni dei quali si realizzano subito e altri matureranno nel tempo. Il suo è un realismo lungimirante, perché animato da grandi ideali, «impregnato di idealità», come ebbe già a scrivere nel 1922 su «Il Nuovo Trentino»; un realismo che lo accomuna ai fondatori dell’unificazione europea espresso nella famosissima dichiarazione del 1950 di Robert Schuman, anch’egli significativamente, uomo di confine. (…).In una lettera del 7 luglio 1928, scritta dal carcere mentre la sua famiglia si trovava in montagna per il periodo estivo, De Gasperi scrive: «Anche io sto preparandomi per una scalata di roccia sai dove sto esercitandomi? Nelle Malebolge dell’inferno dantesco, con Virgilio che dirige la scalata, senza corda e senza piccozza (per il pericolo del fulmine). Ma intanto (prosegue la lettera, introducendo una splendida citazione dantesca): Così, levando me su ver la cima D’un ronchione, avvisava un’altra scheggia, Dicendo: Sopra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia. Non era via da vestito di cappa». 13 Il metodo di De Gasperi è tutto qui. Il cammino sicuro del montanaro, dal passo fermo che arriva senza dubbio alla vetta: «uno stile di concretezza, di rigore, di realismo, animato da una grande tensione ideale: è De Gasperi», come ricordava Pietro Scoppola qualche anno fa in questa medesima occasione, nella prima Lectio del 2004. Non è l’assenza delle avversità a permettere la ricostruzione e la rinascita, ma il saper discernere una strada percorribile che le attraversa e le supera, di un superamento che innova, di un’innovazione che non rinnega il passato, che non si arresta mai neppure di fronte a un ponte crollato, come nelle Malebolge dantesche: levando me su in ver la cima. Una via percorribile, indicata da una guida sicura; percorribile per quanto scomoda e impervia – non era via da vestito di cappa – erta, esposta e disagevole, lungo la quale il ruolo di chi conduce sta tutto nell’avvistare, passo dopo passo, un appiglio – avvisava un’altra scheggia – per potersi aggrappare e procedere nell’ascesa. E come l’alpinista sa bene, occorre sempre verificare che l’appiglio sia tal ch’ella ti reggia, che sia in grado di sostenerti, pena la rovina. Questo splendido passo della Commedia che egli regala alla moglie in uno dei momenti più bui della sua esistenza racchiude tutta la sua personalità e il segreto del suo “carisma”: un uomo con i piedi saldamente ancorati a terra e con lo sguardo rivolto in alto e lontano.
Storia d’Italia, 1951: quando dalla radio uscì fuori il mondo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Nella scuola Emanuele Gianturco, al lato del Pantheon, erano venuti quella mattina gli ispettori speciali del ministero. Perché era un evento speciale di cui non capivamo niente ma ci faceva ridere perché l’evento era la Ceca, sigla che stava per Comunità europea del carbone e dell’acciaio, e potete immaginare degli scolari piegati sul foglio a scrivere pensieri dementi sulla Ceca. Ma ci inflissero un preambolotto teorico con cui trasmetterci lo spirito di Ventotene di cui non sapevamo nulla, ma capimmo che si trattava di grande evento perché per la prima volta i Paesi europei invece di prendersi a cannonate si mettevano insieme per produrre carbone e acciaio. «Questo – ci disse l’austera signora del Ministero – è solo il primo passo di una cosa molto più grande che un giorno si farà e si chiamerà Europa». Ma non si chiama già Europa? chiese uno. «Sarà l’Europa unita, senza più guerre e un giorno si chiamerà gli Stati Uniti d’Europa». Bella idea e scrivemmo colonne e colonne di fogli protocollo riempiti di ridondanti ed enfatiche banalità. Però era successo qualcosa. Poi, c’era sempre questa guerra di Corea che adesso sembrava sotto casa. Era peggio della Prima guerra mondiale, dicevano, perché milioni di soldati si sparavano nelle trincee scavate nella neve ed era tutto sangue, urla dei feriti e morte. E cinesi, si diceva, che arrivavano a ondate. Non come uomini singoli, ma come masse liquide prive di individui distinguibili. Tutti uguali, i cinesi. E più le forze dell’Onu sparavano, più quelli tornavano. Era una guerra di cui arrivavano notizie militari e minacce pesanti alla nostra vita privata. La guerra che avevamo vissuto era finita solo da sei anni, e adesso parlavano di una nuova generazione di bombe atomiche che potevano far sparire un continente. Il tasso di rancore nella guerra fredda saliva in casa e nelle strade. Avevo undici anni ma ricordo perfettamente quanto quella guerra fosse globale. E poi la radio. La radio era tutto. Si aspettava quel segnale dell’uccellino della radio che preparava – un fischietto meccanico come un telegrafo che scandiva il tempo – all’ora esatta cui seguiva immediatamente la voce di uno speaker che si annunciava dicendo: «Giornale Radio». Non era un giornalista, uno di passaggio. Era come la voce della Bbc in Inghilterra. Era una voce solo maschile, grave, profonda, dall’ortoepia – cioè la pronuncia – corretta al punto tale che nessuna parlata regionale, neanche toscana, poteva eguagliarla per perfezione. Il Giornale Radio era pieno di ministri e di dichiarazioni, compilato sulle agenzie di stampa governative con pochissime interviste a personalità ufficiali, campioni sportivi o attori. Il trionfo della radio fu a novembre di quell’anno. Il 14 novembre il Po andò fuori dagli argini e sommerse il Polesine. Nessuno aveva memoria di una sciagura talmente grande, per di più vissuta in diretta, ventiquattro ore al giorno, comprensibile a tutti: fu la prima catastrofe naturale globalizzata d’Italia. Era l’Italia in cui la gente viveva attaccata alla terra come gli insetti e nella provincia di Rovigo fu un disastro perché quasi duecentomila persone furono cacciate di casa dalle acque e ci furono più di cento morti e parlavano tutti, il papa e i ministri i leader politici e si facevano sottoscrizioni che venivano annunciate alla radio vaglia per vaglia, lira per lira. Oggi siamo abituati alla televisione e a quel che succede con i terremoti, altre sottoscrizioni e racconti penosi. Ma la radio era una scatola di legno color noce o radica con un vetro su cui si leggevano i nomi di tutti i paesi e le città del mondo fra cui cercarti la stazione fra gli scrosci statici e sibili. Quando arrivò in casa una radio monumentale potentissima in cui bastava premere un tasto per avere la Rai o il grammofono incorporato, era qualcosa come Wi-Fi moltiplicato Netflix e potevi girovagare fra lingue mai sentite. Inoltre, la radio forniva sceneggiati fantastici pieni di cigolii sinistri, urla dal pozzo della vertigine, tutto il mondo di Edgar Allan Poe in particolare e le voci di comici surreali come il misterioso Alberto Sordi che ancora non aveva un volto. I gatti erano più frequenti dei cani negli appartamenti infestati dai topi e il nostro ne ha avuti almeno tre, tutti amatissimi. Questa faccenda della guerra alle porte era molto angosciosa. Gli Stati Uniti stavano preparando una bomba più potente di quella di Hiroshima che sarebbe stata all’idrogeno e anche i sovietici erano al lavoro fervente con i loro ordigni. In Italia le carriere degli iscritti al Pci e al Psi erano molto ostacolate, per non dire boicottate. Cresceva lo spionaggio e questo era un fenomeno comune all’Est e all’Ovest. La gente di destra o comunque anticomunista era sicura che da un momento all’altro arrivassero i cosacchi di Stalin per abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro e permaneva nell’aria una vaga ipotesi insurrezionale. Togliatti e i dirigenti del Partito comunista scoraggiavano le fantasie di presa del potere con le famose armi nascoste e ben oliate (a intervalli regolari polizia o carabinieri trovavano qualche deposito di mitra Sten e qualche bomba) e una quantità di bambini saltava in aria sulle bombe inesplose della guerra. Era un bollettino quotidiano terribile di mutilazioni e morti. C’era grande fermento nell’agricoltura e in Parlamento era finalmente passata una riforma agraria molto più moderata di quanto avesse voluto la Cgil, ma comunque era davvero cominciata la fine del feudalesimo. Nel senso proprio: era stato deciso per legge che i retaggi feudali andassero rimossi, il che significava che da una parte cresceva una classe di ex servi della gleba che dicevano sissignore e mandavano i guadagni al padrone, dall’altra era l’inizio della fine di questa classe parassitaria e felice dei grandi proprietari agrari che delle loro terre se ne erano sempre fregati con un’entrata comunque garantita senza far niente. Sempre meno, ma erano comunque troppi. Stava cambiando proprio la composizione della materia italiana: la metà che era ancora terrosa e largamente analfabeta insieme alla borghesia più giovane che non vedeva ancora le prospettive che si sarebbero aperte con la grande ricostruzione, aveva già cominciato ad emigrare non solo negli Stati Uniti, ma nell’Argentina di Perón e dei suoi descamisados, particolarmente amati anche dai nostalgici fascisti e dai fuggiaschi del Terzo Reich tedesco. Anche il Brasile si riempiva di italiani, come l’Australia e- in Europa – la Francia dei rital (come venivano spregiatamente chiamati gli emigrati dal Paese che era stato loro nemico er poi occupante durante la guerra) e poi in Belgio, nel buio delle miniere e delle stragi nelle gallerie. Non era ancora l’Italia della Seicento e dell’Autostrada del Sole e tutte le aziende del nord cercavano di convertirsi nel tessile e proprio nel Polesine e nel Veneto, le donne e i bambini lavoravano giorno e notte intorno alla macchine da cucire per confezionare calze che poi i loro uomini con la valigia di cartone andranno a vendere in treno oltre le frontiere. Era arrivata la penna biro, o a sfera. Quella classica che gira ancora oggi di plastica trasparente con dentro la cannula con la sfera rotante. Fu una rivoluzione millenaria: non più inchiostro, non più macchie e per qualche tempo la scuola resistette all’ “americanata” della penna che poi si butta e c’era questa resistenza visibile verso il nuovo e il moderno. Le donne seguivano la moda sulle riviste della moda che puntavano tutte sulla moda elegante e sul bon ton, mentre dall’America arrivava una ventata di femminismo pratico: la donna come è, come vorrebbe essere, seducente e pratica. Il New Look veniva dalla Francia di Christian Dior e gli stilisti italiani, benché in erba, erano già determinati a competere e si gettavano in una mischia che avrebbe prodotto dall’anno successivo Palazzo Pitti. La moda era un’arte totalmente rinnovata che già aveva la forza di fare da volano per un mondo da inventare, o meglio di un mercato che già esisteva ma che non sapeva bene che cosa desiderare. Dai miei appunti di ragazzino romano vedo i pianerottoli delle case perbene carichi di materiali imprevisti: motori per auto, gomme per autotreni, scatole di medicinali. Erano arrivati gli antibiotici, già si moriva di meno con la penicillina che certamente a me aveva salvato la pelle almeno due volte. Ma ricordo una borghesia appena uscita dalle botte che cercava di fare affari, comprava e vendeva, modificava, viaggiava e – con grandissimo scandalo di mia madre che pure era una giovane bella donna – faceva sesso. La Chiesa era occhiutissima, le organizzazioni cattoliche erano fortemente sessuofobiche e quando maschi e femmine imboccavano la via dello sviluppo e dell’adolescenza, una rete di precauzioni era già pronta ad accoglierli separandoli per genere e spingendoli nel migliore dei casi a fare sport. Sport come antidoto del peccato. I giovani non facevano molto sesso. C’erano i casini ma non credo che fossero usati da una grande popolazione. C’erano amanti e mantenute (vari gradi della degradazione femminile) ma le ragazze avevano una paura fottuta. Portavano imbragature di reggicalze, calze, gancetti da spezzarti le unghie e poi erano terrorizzate da tutto: gravidanza, deflorazione, genitori, persino i fratelli e la sessualità era una faccenda del tutto sotterranea e leggendaria, se non catacombale. Il massimo che poteva accadere – con le dovute precauzioni – era il bacio o pomiciare (a Roma) o limonare ma si favoleggiava del petting (mani addosso per arpeggi improvvisati (i maschi avevano delle femmine una conoscenza pari a zero, non giravano foto anatomiche, la pubblicazione dei seni era vietata e si andava in galera, bisognerà arrivare ad un’esplosione non meditata di Cesare Zavattini vent’anni più tardi quando di colpo disse “cazzo” alla radio e l’evento fu festeggiato come se fosse comparsa la madonna. Ma le parolacce erano per solo uso maschile e le femmine concedevano poca promiscuità e sempre sul filo dell’infarto. Le donne erano uscite dal tunnel della moglie fascista cittadina o massaia o mungitrice e un anno prima del disastro del Polesine dalle risaie erano già uscite le gambe di Silvana Mangano e grandi fantasie erotiche sulle mondine di Riso Amaro di De Santis. Erano uscite fuori le gambe e la donna che lavora e che, essendo sola e bella e immersa nella melma, sa trattare alla pari gli uomini esattamente come nella letteratura afroamericana facevano le donne nelle piantagioni: “Sciùr parùn dalle belle braghe bianche, dame le palanche che andemo a ca’” era una canzone sia del lavoro che dell’indipendenza femminile e tutto ciò arrivava a sferzate, non faceva parte del mondo di prima, non faceva parte del mondo delle ginnaste, delle Giovani italiane e degli stereotipi, come invece succedeva – e i giornali ne erano pieni – nel mondo sovietico, dove le lavoratrici e i lavoratori somigliavano nel realismo socialista ai quadri italiani (e fascisti) di Sironi, in cui il corpo dei maschi e delle femmine appariva interamente dedicato alla costruzione della società ideale. Un’Italia che aveva voglia di divertirsi. Repressa, tante cerimonie religiose che non potete neanche immaginare, mesi mariani e novene, processioni e confessioni, per non dire del puritanesimo del Partito comunista in diretta concorrenza con quello democristiano. Lì, i socialisti cominciarono un po’ a fare razza a parte: aria libertaria, anche un po’ sporcacciona, parlavano sfrontatamente di contraccettivi, di aborto e amore libero anche per smarcarsi dai comunisti che già allora si ispiravano più a santa Maria Goretti che a Sophia Loren che aveva diciassette anni e si dava da fare con particine gloriose che di lì a poco l’avrebbero portata al contratto con la Paramount.
Storia d’Italia, 1952: quando Scelba bloccò la ricostituzione del partito fascista. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 2 Settembre 2020. Per me (ma sono fatti miei, e però fatti che ancora mi segnano) il 1952 fu un anno terribile perché morì in casa la mia amata nonna Amelia, rossa come me, vedova di un giornalista assassinato, una combattente di ferro che amavo in modo incontenibile. Quando fu chiaro che stava morendo di cancro ai polmoni, lei che non aveva mai fumato, io lavorai con martelli e seghe per crearle un letto confortevole, con molti cuscini, posizioni, basi per bicchieri, e un bicchiere da usare come campana da far tintinnare. Poi, approssimandosi la sua morte non ebbi più la forza di guardarla e l’abbandonai. In un ultimo sospiro mi disse “Da te non me lo sarei mai aspettato” e io fuggii a Villa Borghese dove capitanavo una banda di ragazzini in guerra con altri ragazzini e il giorno della sua morte, quando tutte le rondini di Roma si levarono in un urlo nel momento finale, io rimasi stordito e non mi accorsi che la banda di Nasone aveva preparato un’imboscata dietro le palme dell’Orologio ad acqua, così persi la guerra e tornai a casa dove avevano spruzzato del cloroformio per preservare il cadavere di Amelia finché non la impacchettarono e portarono via. Tutto ciò è davvero personalissimo e non interessante, ma ognuno ha le sue giornate e i suoi anniversari, accadde sessantotto anni fa. Amelia, dopo la morte seguitò per qualche tempo a far tintinnare il suo bicchiere costringendomi a correre al suo letto smontato e apprezzai i suoi segnali, benché non creda a queste cose: in famiglia si decise tacitamente di non farne mai menzione per nessun motivo. Era dunque il 1952 e due furono i fatti oltre i fatti: una ragazzina adorabile diventò regina d’Inghilterra e la televisione cominciò a trasmettere il Telegiornale col mappamondo e una sigla che faceva parapappà-parapapà. Se non l’avete mai vista com’era, andate sui documentari per rendervi conto com’era fatta la ragazzina Elisabetta, a cui volavano le vesti come a Marylin, con la sorella Margaret, mentre fanno impazzire i marinai sulla tolda della nave da guerra che nel 1946 aveva portato la famiglia reale al lungo viaggio di ringraziamento in Africa. Questo ringraziamento dei reali era per tutto l’impero che aveva combattuto con tutti i colori della pelle e dei costumi, delle uniformi e i turbanti, i costumi e le insegne, nella Seconda guerra mondiale. Oggi non ne abbiamo più memoria: guardiamo l’Inghilterra e pensiamo alla Brexit, a Boris Johnson che si becca il Covid come Briatore e ai ragazzi nei pub. Ma, sapete, c’era una volta un impero. Lo dico perché lo ricordo: prendete un mappamondo e provare a immaginare che cosa fosse l’impero britannico che Churchill pronunciava – come ogni buon conservatore – “thi Empaaahh”. L’impero andava dal Canada ai Caraibi, dall’Egitto al Sud Africa, all’India col Pakistan, dall’Australia alla Nuova Zelanda, quelle terre che oggi fanno parte dei “Fine Eyes” i cinque occhi, che comprendono gli Stati Uniti, ma non il Sudafrica. Re Giorgio, il vecchio Bernie che aveva sempre balbettato (“The King’s Speech”, se ricordate il film) e che era stato costretto a fare il re al posto del fratello amato dalle folle, che volle sposare la divorziata americana Wally Simpson e che poi andò a fare la corte ad Hitler a Berlino, tanto che Hitler contava di rimetterlo un giorno di nuovo sul trono. Elizabeth era una ragazzina ciclista e volenterosa e si era innamorata di quello strafico greco che è il principe Filippo (per accudire il quale ha deciso di non esercitare quasi più i suoi uffici regali) sul quale gravava però l’ipoteca del Duca di Mountbatten, il king maker che finì sbriciolato sulla sua barca da una bomba islandese negli anni Settanta. Quando il re morì, Elisabetta viveva felice a Malta con suo marito Filippo, di cui era pazza, e lui faceva la carriera militare nella Royal Navy. La morte del padre era prematura e fece saltare tutti i piani: Filippo dovette lasciare la carriera e trasformarsi in una specie di cameriere consorte; lei smise di correre in bicicletta o guidare da scavezzacollo la sua jeep a Malta e tornò a fare la regina di una Piccola Bretagna che non era più l’impero più grande del mondo. Era successo all’Inghilterra qualcosa di simile a quel che era accaduto con la Prima guerra mondiale all’Austria, che da grande impero centrale fu ridotta a quella piccola nazione che è ancora oggi. Il mondo cambiava radicalmente. Comandavano ormai soltanto Stati Uniti e Urss: Churchill sapeva bene che quello era il prezzo richiesto dagli americani per pagare la salvezza della Gran Bretagna assediata da Hitler: noi vi salveremo, ma voi lascerete l’impero perché noi americani non ammettiamo imperi. Si potrà dire naturalmente che gli americani hanno il loro impero, ma mai tecnicamente: dalla guerra con la Spagna all’inizio del Novecento avevano trattenuto come colonia le Filippine fino alla fine della Seconda guerra mondiale, ma decisero che dovevano a quel popolo la libertà senza condizioni, anche per ricompensare il contributo filippino alla guerra contro i giapponesi. La Francia stava cominciando a perdere i suoi pezzi in Estremo Oriente, cioè nel Sud Est asiatico, le antiche colone del Tonchino del Vietnam, Cambogia e Laos con le loro città edificate imitando Parigi. I rivoluzionari comunisti che avevano combattuto contro i giapponesi avevano studiato tutti alla Sorbonne a Parigi, erano degli intellò cresciuti sotto la protezione del partito comunista francese e la Francia stava per andare incontro alla disfatta militare di Diem Bien-Phu. Il mondo stava cambiando molto radicalmente: non più imperi, re e regine (salvo Elizabeth), molta guerriglia nelle colonie dei Paesi europei che ne avevano ancora, come il Congo belga e le colonie britanniche, stava cominciando quella separazione del mondo fra americani, russi e terzomondisti. E da noi? La televisione. Ne avrete letto tanto e visto e molti di voi c’erano. Ma ricordate che cos’era un televisore? Un marziano tondeggiante in mezzo al salotto con tutte righine dentro che si distorcevano e potevate passare ore a regolare quelle righine lungo tutta la scala dei grigi. Poi, il telegiornale. C’era il martedì pomeriggio un telefilm western per i ragazzi. Qualche cartone animato, non voglio fare la storia della televisione, ma ricordare un’emozione. Io mi emoziono facilmente: dopo l’arrivo del colore non riuscii per anni a separarmi dallo stupore per il fatto che le immagini fossero a colori. E ricordo benissimo proprio l’incoronazione di Elisabetta seconda in diretta, in Mondovisione, una visione tutta distorta, da far schifo, ma era una diretta. Intanto il vecchio Winnie, Winston Churchill, era tornato ad essere primo ministro e annunciò con tono distratto che il suo Paese stava preparando la bomba all’idrogeno. Non se ne poteva fare a meno: russi e americani si erano già portato avanti, i francesi seguivano. Noi italiani non eravamo nessuno. Ancora ci odiavano per il fascismo e anche per aver cambiato fronte quando i tedeschi erano ormai sconfitti. Proprio nel 1952 l’Unione Sovietica mise il veto al nostro ingresso all’Onu, così come fece con il Giappone. Non ci volevano. Ma fummo arruolati nella comunità della difesa europea, cioè l’embrione poi abortito di un esercito europeo che non si è mai fatto e che avrebbe dovuto essere sottoposto al comando anglo-francese. Accadevano fatti dall’esito ignoto: un oscuro generale cubano, Fulgencio Batista, fece un colpo di Stato all’Avana per conto dei grandi casinò americani e prese il potere. I fratelli Castro e altri futuri ribelli studiavano dai gesuiti, In Italia Mario Scelba, il ministro degli interni di ferro, l’anticomunista intransigente (che io conobbi e intervistai sul letto di morte molti anni dopo) decise di varare una legge che mettesse al bando i fascisti vietando la ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma. I fascisti dichiarati a quell’epoca erano milioni, per non dire dei monarchici che conquistavano il municipio di Napoli con il sindaco Achille Lauro, di cui si dice che regalasse una scarpa prima e una dopo il voto ai suoi elettori. Ma ricordo perfettamente questa Napoli del 1952 imbandierata con le croci Savoia, il nodo Savoia e tutti quei principi, duchi, e popolani monarchici. E poi, appunto, i fascisti che si organizzavano, celebravano, marciavano e menavano. Gli studenti fascisti passavano a vie di fatto – cioè menavano a pugni e con bastoni – nelle scuole e nelle università. La polizia picchiava e manganellava. Gli inglesi, persino, che amministravano una parte di Trieste, caricavano selvaggiamente i triestini che quell’anno manifestavano per il ritorno all’Italia sulle note di “Trieste mia” e “Vola colomba”, canzoni patriottiche da Sanremo, di un nazionalismo timido. Fu persino necessario bloccare il fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, perché voleva formare alleanze con i neofascisti: Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti (suo numero due) si opposero e l’Italia cominciò a prendere una forma più definita: l’anticomunismo non impediva un radicale antifascismo, anche se cresceva la violenza sia verbale che fisica nella vita quotidiana. Agli americani però importava soltanto l’atteggiamento di chiusura e ostilità nei confronti dei comunisti e il Sifar, il nostro servizio segreto al centro di una serie di scandali futuri, seguiva le direttive americane per un maccartismo sempre più energico contro tutti i comunisti e anche i socialisti loro alleati. Lo stesso accadeva in Francia dove il Pcf, riemerso dalle ceneri della vergogna per aver appoggiato con trepidante entusiasmo l’alleanza militare fra Urss e Germania dal settembre 1939 al giugno del 1941, era diventato una forza politica potente e totalmente allineata sulle posizioni sovietiche, molto di più di quanto non lo fosse il partito comunista italiano di Palmiro Togliatti, che trovava sempre un modo sottile per evitare giudizi negativi su Stalin. La Francia, inoltre, era ogni giorno di più un obiettivo sensibile per le sue colonie, non soltanto in estremo oriente, ma specialmente in Nord Africa e in Algeria, dove si profilava uno scontro titanico prima della inevitabile rinuncia all’impero coloniale (benché ancora oggi la Francia sia un Paese europeo con colonie). Una visita del generale americano Ridgway a Parigi provocò moti di piazza repressi nel sangue, con scioperi generali e scontri. Era la guerra fredda nella sua versione quasi calda che provocava fiammate nel momento e nei luoghi più diversi. La Repubblica Democratica tedesca, cioè la Germania Orientale comunista, si fece il suo esercito integrato con quello sovietico, diventando la forza armata più temibile del nascente Patto di Varsavia, ancora non ufficiale, ma che sarà l’alleanza anti-Nato dell’Europa sotto controllo sovietico. Il mondo si spacca sempre di più, si contrappone, la caccia è aperta nei paesi delle ex colonie e ovunque si combattono guerra non dichiarate, insurrezioni popolari non tutte spontanee e gli eserciti occidentali costruiscono reparti antiguerriglia da usare in Africa, Asia e America Latina. Ma il colpo più potente lo sferra Mosca, sostenendo il colpo di Stato in Egitto di quattro ufficiali, fra cui l’astro nascente Nasser, che nazionalizzerà il canale di Suez e l’ingegnere egiziano Yasser Arafat, che fonda il nucleo dirigente del futuro fronte della liberazione della Palestina. Israele nel frattempo crea il più sofisticato e moderno servizio segreto del mondo, con regole e compiti che non condivide con altri. Il Mossad inizia la sua vita operativa dando la caccia nel mondo a tutti i gerarchi nazisti che l’hanno fatta franca. Gli Stati Uniti, dopo Harry Truman, eleggono il vecchio e saggio generale Dwight Eisenhower come presidente degli Stati Uniti, cioè colui che ha guidato gli eserciti alleati alla vittoria contro i nazisti. Una volta alla Casa Bianca, Eisenhower diventa un presidente bipartisan, non ossessionato dall’anticomunismo maccartista, ma piuttosto dai rischi di un eccessivo potere dell’apparato industriale-militare nato dalla concorrenza tecnologica con l’Urss nella guerra fredda. Il mondo sa di essere in bilico fra due blocchi, anzi tre. Nulla è certo, ma tutto è molto scuro e soverchiante. L’esistenzialismo come atteggiamento filosofico si sparge dalla Francia all’Europa e all’Italia, fino a sfiorare New York. Le canzoni esprimono venature angosciose e l’amore è ancora contaminato dall’idea di morte. Charles Aznavour canta “L’amour et la guerre” e i teatri si affollano per le commedie del nonsenso. Anche l’umorismo appare enigmatico o simbolico, come quello del rarefatto Renato Rascel.
25 gennaio – L’Unione sovietica, insieme ad altri quattordici paesi, pose il veto all’ingresso dell’Italia fra i paesi membri dell’Onu. Il nostro Paese entrò poi il 14 dicembre del 1955.
6 febbraio – A soli venticinque anni Elisabetta II diventa regina del Regno Unito e succede al padre re Giorgio VI. La sovrana è da allora alla guida della Gran Bretagna, al quarto posto nella classifica dei regni più lunghi della storia.
10 marzo – L’Esercito Nazionale di Cuba, guidato dal generale Fulgencio Batista, mise in atto un vero e proprio colpo di stato, stabilendo una dittatura militare nel paese.
24 aprile – Alcide de Gasperi e Giulio Andreotti impedirono a don Luigi Luigi Sturzo, in occasione delle elezioni amministrative, di formare liste civiche con il Movimento Sociale Italiano e monarchici in funzione anticomunista.
27 maggio – Italia, Francia, Germania Ovest, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo aderiscono al trattato Ced (Comunità Europea di Difesa) condividendo un unico esercito, la Forza Atlantica.
16 giugno – Il generale statunitense Matter Bunker Ridgway è in visita a Parigi e nella capitale francese: si verificano scontri molto violenti fra manifestanti e forze dell’ordine.
23 luglio – Entra in vigore il trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la Ceca.
A cura di Chiara Viti
Storia d’Italia, 1953: lo Stivale spaccato da guerre di religione. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Avevo dodici anni e, mentre camminavo verso il Senato, gli strilloni dei giornali (esistevamo gli strilloni che vendevano le copie sul braccio) gridarono: «È morto Stalin! È morto Baffone! I comunisti di tutto il mondo in lutto!». Era vero: era proprio morto Stalin. Non che lo conoscessi molto, ma da anni si parlava sempre soltanto di lui, che ci guardava dai manifesti. Ora descritto come belva, ora il buon vecchio Uncle Joe, come lo chiamavano gli americani, ma anche l’uomo nelle cui fauci milioni di persone erano sparite. Era ancora un’Italia da guerre di religione e la religione era un tema politico perché il Papa Pio XII era un anticomunista militante e proprio in quell’anno dagli Usa mandarono a Roma come ambasciatrice Clara Boothe Luce, una anticomunista ossessiva, sicura che i russi avessero avvelenato gli affreschi della sua camera da letto per ucciderla. Clara pretendeva di impartire al Papa lezioni di anticomunismo ed Eugenio Pacelli un giorno esplose: «Signora, le disse: la prego di credere: sono cattolico anch’io». Per fortuna, in quel 1953 si chiuse la sanguinosissima guerra di Corea con armistizio al 38mo parallelo, ancor oggi il confine che Trump ha varcato per stringere la mano al grasso ragazzo che «sparava razzi». Gli americani avevano avuto un altro bagno di sangue, più simile a quello della Prima guerra mondiale delle trincee che a quello della seconda. La Cina aveva perso quasi due milioni di soldati in Corea, mentre intanto il generalissimo Chiang Kai-shek (che con Mao aveva combattuto contro i giapponesi prima della resa dei conti) si era ritirato nell’isola di Taiwan con tutta la sua armata sconfitta. Chiang ricevette dagli americani armi sufficienti per una lunga resistenza e quella resistenza dura fino ad oggi, mentre si addensano su quell’isola e quei mari nuovi venti di guerra nel Mare del Sud della Cina e nello stretto di Formosa dove si sono radunate la flotta americana, quella australiana, l’indiana, la giapponese e perfino la Vietnamita, perché il Vietnam di oggi – scherzi della Storia – è alleato militarmente degli americani contro i cinesi. Il mondo del 1953 lasciò uova di serpente che ancora devono schiudersi. Intanto a Taiwan hanno varato una democrazia pacifista ecologica che attragga gli ecologisti in un fronte anticinese, mentre la Cina cerca di arrestare l’emorragia delle aziende come Samsung e Apple che fuggono dal suo territorio, provocando disoccupazione. Sempre nel 1953 a Bruxelles i sette nani della finanza e dell’industria cercano di trasformare la Comunità del carbone e dell’acciaio in un embrione di Europa. L’idea era caldeggiata dagli americani per un solo motivo: bisognava impedire che per la terza volta dopo il 1870, il 1914 e il 1939 il mondo finisse nell’apocalisse per la faida infinita tra Francia e Germania. Certo, il Manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli e i padri fondatori, contava. Ma alla base della concreta idea d’Europa c’era il desiderio di riconoscere alla Germania la supremazia industriale purché rinunciasse ad avere un peso militare: le veniva assegnato solo il minimo sindacale per stare nella Nato, ma la sua fortuna sarebbe consistita nel rinunciare ai carri armati per produrre Mercedes e Audi, lasciando agli Usa il compito e la spesa della sicurezza, posizione che oggi Trump ricusa, tirandosi indietro dagli impegni del secolo scorso. Ci fu un grandioso e appassionante delitto nel 1953: il primo dei grandi delitti italiani e che passò alla storia come “caso Montesi”. Ne parlai con Gabriel Garcia Marquez, dopo aver scoperto che il grande scrittore era stato all’epoca inviato a Roma da Bogotà e aveva scritto tutto sul caso Montesi. Il caso consisteva nel ritrovamento del cadavere di una povera ragazza, Wilma Montesi, nuda e morta sulla riva del mare a Torvaianica. Di che cosa era morta? Non si sa. Dunque, tutte le ipotesi erano buone. Perché non cocaina? Feste fra ricchi potenti che divorano ragazze innocenti? Boss democristiani? E perché no. Non emerse nulla, ma il ministro Piccioni ebbe la carriera stroncata benché innocente. L’opinione pubblica chiedeva che si trovassero i colpevoli fra gli alti papaveri della Dc: era uscita la canzone Papaveri e papere cantata da Nilla Pizzi e per “alti papaveri” si intendeva gli intoccabili, viziosi politici nei cui festini si sacrificavano le sventurate ragazze del popolo. Tutto molto enfatico, con il quotidiano modernissimo Paese Sera (comunista) e Momento Sera (centrista) che uscivano con più edizioni al giorno, i reporter tutti usciti da un romanzo di Chandler, tutti a imitare gli americani, specialmente i comunisti. L’aria da guerra fredda soffiava sempre più greve. Intanto, sempre a proposito di guerra fredda, Charlot, ovvero il popolare comico inglese Charlie Chaplin si vide incriminato dagli americani come sospetto comunista e non tornò più in America fino al 1971 quando ricevette l’Oscar alla carriera. Intanto, sempre in quell’anno, coniugi Julius ed Ethel Rosenberg furono portati nella stanza della morte di Sing Sing di New York (oggi è un museo), legati alla sedia elettrica e – come dicono gli americani – “fritti”. Sembra non ci siano dubbi sul fatto i due – più probabilmente Julius – passarono i segreti atomici ai russi, Ma a mandarli sulla sedia c’era di sicuro il desiderio di vendicarsi contro i commies che avevano superato gli americani nella qualità delle bombe, essendo arrivati a quella al plutonio. L’esecuzione fu atroce, penosa, con le luci gialle che s’abbassavano quando la leva che dirottava l’energia era abbassata e i corpi tremavano davanti ai giornalisti seduti sulle sedie a distanza di sicurezza. Furono fatti friggere a lungo col fumo che usciva dalla calotta avvitata sul loro cranio, finché non morirono. D’altra parte, ancora si fucilavano reduci nazisti, anche con qualche irreparabile errore giudiziario. Le elezioni non fecero scattare la legge truffa, ma furono comunque vinte dal centro e dunque proseguirono i governi democristiani di coalizione, con socialisti di Nenni e comunisti di Togliatti all’opposizione. L’Italia cominciava a riprendersi industrialmente e i consumi crescevano. La moda italiana cominciava a imporsi su quella francese e le auto italiane godevano di buon prestigio. Anche l’alfabetizzazione procedeva, gli analfabeti diminuivano e la televisione era diventata il nuovo dizionario, teatro, maestro di scuola, amico, padre spirituale, scatola dei sogni. Nei paesi capitava che attori come Alberto Lupo, che recitavano il ruolo del cattivo, fossero inseguiti coi forconi. I lettori di telegiornali erano spesso applauditi o insultati per le notizie che davano. Il calcio e il ciclismo dominavano le fantasie dei ragazzi, specialmente maschi e costituivano la valvola di sfogo contro le frustrazioni collettive. Gli sport di massa funzionavano come antidepressivi e come eccitanti. E pochi fecero caso a una notizia che avrebbe cambiato la prospettiva della vita: la scoperta del Dna, l’acido desossiribonucleico sul quale sono scritte in lingua proteica tutte le nostre caratteristiche personali e di specie. La Chiesa non era molto contenta degli eccessivi progressi della scienza. Ma tutti furono felici quando a Roma si inaugurò lo Stadio Olimpico ospitando il match Italia-Ungheria. E nell’Est? Che fanno quelli dell’Est sovietico, adesso che Baffone è morto? Se ne sapeva poco. Si disse che gli ebrei avevano tirato un sospiro di sollievo perché Stalin stava per lanciare una purga contro i medici “cosmopoliti”, cioè ebrei, per fare un repulisti antisemita in tutto il partito. Qualcuno disse che gli avevano fatto la pelle. Quanto meno, nessuno aveva soccorso Stalin crollato a terra. Dopo un periodo di incertezza, in cui sembrava che avesse vinto l’obeso Malenkov, alla fine emerse il nuovo vero leader Nikita Kruscev, contadino e soldato che aveva lavorato a fianco di Stalin e di cui denuncerà le criminali malefatte al XX congresso del 1956. Per ora Nikita è un novizio che conta meno di Palmiro Togliatti e del leader cinese Mao Zedong. Quando gli operai di Berlino Est scioperano per orario di lavoro e salario, il partito dei lavoratori da Mosca gli manda i carri armati. È la prima strage, cui seguiranno quelle di Budapest e di Praga. Il cubano Fidel Castro, appena laureato, raduna in montagna un gruppo di rivoluzionari e decide di assaltare la caserma Moncada. Li prendono tutti e li mettono sottochiave, ma “l’assalto alla Moncada” diventerà l’inizio della rivoluzione. Gli americani si preoccupano: ma questo Fidel Castro, non sarà comunista per caso? Gli americani prendono la guerra fredda molto sul serio: e alla General Electric licenziano i sospetti comunisti. Ma dall’America arrivano anche nuovi oggetti e stili di vita, dalla caramella col buco ai cosmetici a basso costo e i dentifrici per un alito da drago alla menta, e svanisce il sentore delle ascelle e dei piedi in un Paese che era abituato a un bagno in bagnarola settimanale e qualche pediluvio nel bagnapiedi di zinco. Non si usava molto la carta igienica, sostituita da quella di giornale con cui si foderava anche il secchio dell’immondizia che gli immondezzai prelevavano dietro la porta di casa con dei grandi sacchi di juta. I preti erano vestiti come don Camillo e non trovavi un gay neanche col lanternino. I padri e le madri mollavano schiaffoni senza risparmio e i figli se li prendevano zitti, con le orecchie rosse e la testa bassa.
LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1953
5 marzo. Muore Stalin.
31 marzo. Approvata dal Parlamento italiano la nuova legge elettorale, che le opposizioni chiamano la “legge truffa”. Assegna il 65% dei seggi alla coalizione di liste che raggiungeranno il 50 per cento dei voti.
11 aprile. Una ragazza di 24 anni, Wilma Montesi, viene trovata morta nella spiaggia di Torvaianica. L’inchiesta diventa un giallo politico. Finisce sotto accusa un gruppo di ragazzi della Roma bene che avevano tenuto un festino in una villa lì vicino. Uno di questi ragazzi è Piero Piccioni, figlio di Attilio, probabile successore di De Gasperi alla guida della Dc. La carriera politica di Attilio è travolta. E anche la vita del giovane Piero, che risulterà poi del tutto innocente.
17 aprile. Il grande attore e regista Charlie Chaplin annuncia che non tornerà più negli Stati Uniti dove è stato messo sotto accusa dai maccartisti che sostengono che sia comunista.
17 maggio. A Roma viene inaugurato lo stadio Olimpico con la partita di calcio tra Italia e Ungheria (l’Ungheria, in quegli anni, è considerata la più forte nazionale del mondo).
29 maggio. Un alpinista neozelandese e uno del Nepal conquistano l’Everest, cioè la vetta più alta del mondo.
2 giugno. Elisabetta è incoronata regina d’Inghilterra.
7-8 giugno. Si svolgono le elezioni politiche in Italia, la legge elettorale non scatta perché nessuna coalizione raggiunge il 50 per cento dei voti. La coalizione centrista (Dc, Psdi, Pri e Pli) candidata a ottenere la maggioranza assoluta, si ferma al 49,85 per cento.
19 giugno. A New York vengono uccisi con la sedia elettrica i fisici Julius ed Ethel Rosenberg, marito e moglie, con due figli piccoli, accusati di avere passato segreti militari ai sovietici per costruire la bomba atomica. In tutto il mondo clamorose proteste antiamericane.
26 luglio. Fidel Castro dà l’assalto alla caserma Moncada. Militarmente è un fallimento ma di fatto inizia la rivoluzione cubana.
28 luglio. De Gasperi si presenta alla Camera per avere la fiducia sostenuto solo dal suo partito e dai monarchici. Non ottiene la fiducia. Finisce la carriera di De Gasperi che morirà l’anno dopo, Anche la famosa legge truffa viene cancellata dal Parlamento. Il nuovo presidente del consiglio è Giuseppe Pella.
7 settembre. Il comitato centrale del Pcus elegge Nikita Krusciov segretario generale del partito. Krusciov è il commissario politico che guidò la resistenza di Stalingrado. È lui il successore di Stalin.
Storia d’Italia, 1954: dalla nascita della Tv al caso Montesi che stroncò la carriera di Piccioni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Gli americani avevano già portato il dentifricio Colgate, la caramella col buco Life Saver, il tostapane e il burro di arachidi ma nel 1954 ci scaricarono il Rapporto Kinsey: tutto sul sesso. Nell’Italia d’allora il sesso era interdetto – come argomento – alla maniera di un paese islamico, o anche cattolico e perfino comunista. Un po’ tutta l’Europa era così. Gli inglesi dicevano che di due cose non si deve parlare esplicitamente: dei servizi segreti e di quel che succede in camera da letto, perché tutti sappiamo di che si tratta e non è proprio il caso di parlarne. invece il Rapporto Kinsey frutto di anni di studio, interviste, filmati, tutto pubblicato sul settimanale italiano Oggi. Uno shock, uno scandalo, una avidità repressa e anche un grande senso di liberazione. Dunque, a quanto pare, tutti in tutto il mondo, uomini donne e gay, copulano, si accoppiano, ma diciamolo pure, scopano. O se preferite si accoppiano, mettetela come vi pare. Si parlava anche di masturbazione con dettagli da far svenire le madamine per bene, e – senza un velo di riguardo, nemmeno allusivo – di rapporti anali. La Chiesa la prese malissimo ma la gente non parlava d’altro. Non per questo si può dire che il 1954 fosse un anno felice. Tutti nodi seguitavano a venire al pettine: il caso Montesi si ingigantiva benché non uscisse fuori nulla e il ministro Attilio Piccioni dovette dimettersi per il coinvolgimento di suo figlio nelle serate con Wilma Montesi, la giovane morta trovata sulla spiaggia. La storia di Trieste finalmente arrivava a una fine anche diplomatica col passaggio definitivo all’Italia. La Germania smetteva di essere la nazione punita ai margini della comunità – come era accaduto dopo la fine della Prima guerra mondiale, con vessazioni che spianarono la strada ad Hitler– e già esistevano in natura, colpivano paesi e investivano dighe quelle che oggi con orgoglio neolinguistico chiamiamo “bombe d’acqua”. Il 13 gennaio in Austria una bomba d’acqua spianò il villaggio di Blons e uccise duecento abitanti. Nessuno le chiamava così perché i feroci acquazzoni con frane morti e dispersi erano all’ordine del giorno. Era finita l’epopea di Alcide de Gasperi, aveva tentato Amintore Fanfani e fallì, sicché ci provò il ministro di polizia Mario Scelba, l’uomo della “celere” col manganello, ma anche quello che aveva messo al bando ogni possibile riedizione del partito fascista. L’Unione Sovietica perfezionava la sua penetrazione in Egitto appoggiando il nuovo rais Gamal el-Nasser il quale pretenderà da Mosca la gigantesca diga di Assuan, un nuovo esercito fiammante in grado di distruggere Israele e un esercito di istruttori capaci di far funzionare il Paese. Marilyn Monroe non era ancora considerata la bimba del sesso che diventerà fra poco, ma intanto sposa Joe Di Maggio, un super-palestrato italo-americano eroe nazionale di Baseball. Prossimo talamo, Arthur Miller, intellettuale e commediografo. Si chiude anche, con l’eliminazione di Gaspare Pisciotta (il cognato killer per conto dei carabinieri) la faccenda del bandito Giuliano, chiudendo molte bocche che non potranno mai più raccontare la pazzesca avventura dell’esercito separatista, su cui avevano contato in molti prima di liberarsene per sempre. La Dc palermitana resta turbata e spaccata e molti anni più tardi il “resident” del KGB a Roma venne nella Commissione d’inchiesta che presiedevo per raccontarci una serie di spregiudicate operazioni fra americani e russi, condotte in Sicilia e su cui è difficile fare la tara.
I guai grossi cominciano però in Vietnam, una delle colonie francesi nel sud-est asiatico che durante la guerra patriottica contro gli invasori giapponesi si era battuta con valore e che dopo la guerra non aveva alcuna voglia di tornare sotto Parigi. I francesi non si resero minimamente conto di quel che li aspettava e pensarono di avere di fronte dei guerriglieri “Viet-minh” (che gli americani si chiamarono Vietcong”) e invece si scontrarono con uno dei più poderosi eserciti in uniforme del mondo, armato sia dall’Unione Sovietica che dalla Cina comunista e ben diviso in divisioni, reggimenti e compagnie con un’artiglieria di prim’ordine e per di più affiancato da un esercito partigiano di sostegno in larga parte femminile che aveva portato a spalla su per le montagne, ben smontate, tutte le armi necessarie per la battaglia finale che si combatté sull’altopiano di Dien Bien Phu. La stampa francese criticò in modo sprezzante lo Stato maggiore per l’invio di un vero esercito in Indocina, con quella che sembrava una smisurata potenza di fuoco che aveva spedito in Vietnam per combattere quattro straccioni di guerriglieri nascosti nella giungla. Capirono troppo tardi di trovarsi nel mezzo di una battaglia campale più simile a quella combattuta fra americani e tedeschi nelle Ardenne che a una scaramuccia coloniale. L’esercito francese vide emergere dall’altissima vegetazione grandi pezzi di artiglieria pesante di fabbricazione russa e cinese. Per l’opinione pubblica francese e poi europea e infine mondiale fu un grande shock. A primi del 1900 una potenza asiatica, il Giappone, aveva vinto e umiliato una potenza europea come la Russia zarista. In Corea gli americani erano stati costretti ad arretrare fino al 38mo parallelo da cui erano partiti, e adesso stava accadendo di nuovo: il più forte esercito continentale europeo era tenuto in scacco in mezzo alla giungla da un esercito modernissimo portato sotto le gallerie ed emerso dal nulla. di cui non avevano idea. La battaglia fu lunga e sanguinosa, ma alla fine i francesi dovettero arrendersi e umiliarsi, chiedere e firmare la propria resa. La cosa più interessante, nel corso di questa guerra, fu il ruolo americano: gli americani che avevano sostenuto lo smantellamento dell’impero britannico e l’indipendenza dell’India e dell’Egitto, adesso parteggiavano più o meno apertamente per i vietnamiti e i cambogiani che smontavano l’impero francese. Occorreranno quasi dieci anni prima che gli americani decidano, cotto Kennedy, di sostituirsi ai francesi e perdere, dopo altri dieci anni, un’altra guerra sanguinosissima che terminerà con la fuga degli americani da Saigon aggrappati agli elicotteri che decollavano dalla terrazza dell’ambasciata. Ma nel 1954 gli eroi della guerra antifrancese, Ho Chi Minh, Giap e i cinesi Mao e Chu En Lai erano per lo più grandi ammiratori dell’America che aveva vinto la Seconda guerra mondiale, che aveva sostenuto la Cina. Inoltre, il personale politico delle forze anticolonialiste parlava francese e inglese avendo studiato a Parigi ed essendosi formato sul modello del partito comunista francese. Nello sport il ’54 fu l’anno dell’epico scontro calcistico per la finale dei Mondiali fra Germania Occidentale e Ungheria giocata a Berna il 4 luglio. La Germania vinse 3-2 ma l’eroe celebrato da tutti gli spettatori fu il capitano ungherese Puskas (che fuori dal campo era arrivato al grado militare di colonnello), che segnò tutti i gol della sua squadra, più l’ultimo annullato. E accadde in quel giorno, quasi dieci anni dopo la fine della guerra, qualcosa che dal 1939 non si era più vista: una bandiera tedesca, della Germania occidentale chiamata RFT, salì sul pennone di uno stadio di calcio, accompagnata dalle note dell’inno tedesco. Ciò fece molto piacere ai tedeschi, anche se non entusiasmò il resto del mondo. Ma in Germania già cresceva una nuova generazione che chiedeva rispetto: noi non siamo i nostri padri, siamo innocenti e non vogliamo portare sulle spalle il peso del passato altrui. Del resto, gli ungheresi di Puskas erano allora i maghi del football per eleganza, intelligenza e capacità di sorprendere. Tutti i ragazzini europei giocavano a calcetto nelle strade minacciandosi il mitico “tiro ungherese”. Puskas dopo Berna tornò in patria come un eroe nazionale, ma quando due anni dopo si trovò in Spagna mentre i carri sovietici entravano a Budapest per schiacciare la rivoluzione antirussa, se ne resterà prudentemente in Spagna per diventare una delle stelle del Real Madrid. Il mondo si stava consolidando, Nikita Krusciov era ancora un oggetto sconosciuto, con quella sua faccia da buon contadino, di cui molti conoscevano il passato di ottimo ufficiale e di uomo fedele a Stalin anche negli anni del terrore. L’idea che l’Europa possa costituire da sola un proprio esercito unito e indipendente da quello americano e russo, fallisce bocciata dal Parlamento francese che non aveva alcuna intenzione di sciogliere la Francia nel resto dell’Europa. La Francia, come l’Inghilterra vuole la sua propria bomba atomica e la sua indipendenza di manovra, essendo ancora una delle potenze coloniali e per di più subito dopo aver perso una grande colonia in una umiliante sconfitta coloniale, cosa che stava causando un ritorno del nazionalismo e dell’isolazionismo francese, che aveva serpeggiato anche durante l’umiliante occupazione e collaborazione con i tedeschi. Intanto Achille Compagnoni e Lino Lacedelli scalano il K2 con Walter Bonatti guidati da Ardito Desio e tutto il mondo ne parla e sugli schermi del pidocchietto (cinematografi da quattro soldi, generalmente dei preti) tutti vanno a vedere il cinegiornale dell’impresa. Certo, anche la tv ne parla, ma per vedere la tv bisogna ancora stare tutti accatastati in cucina intorno all’enorme tubo catodico, o nei bar dove te lo appendevano sotto il soffitto. Così, quando l’immagine scarrucolava, qualcuno doveva salire sui tavoli e perché non esisteva il telecomando. A fine estate, dopo aver risolto la questione di Trieste tornata all’Italia, dopo aver riammesso la Germania nel salotto buono con la partita contro l’Ungheria e la sua ammissione nella Nato, quando insomma tutti sognavano un autunno mite e glorioso, ecco che arriva la bomba d’acqua. Di quelle catastrofiche fece franare la Costiera Amalfitana da Cava dei Tirreni a Vietri, Maiori, Minori fino a Salerno, causando più di trecento morti e seimila senzatetto. L’Italia del fango e dello smottamento si conferma la vera frontiera italiana. Il Paese non si regge e si inginocchia sotto i mutamenti climatici, ma anche sotto i temporali. Ma va peggio alla Francia, che non ha ancora digerito la sconfitta indocinese e si trova di nuovo in guerra con la più amata e francesizzata delle sue colonie: l’Algeria, guidata dal Front de Libération National, che alla fine la Francia perderà per referendum e che causerà la più grande trasmigrazione di residenti africani, arabi e coloni, i cosiddetti “Pieds Noirs” sul suolo francese. Ma sarà una lunga e terribile guerra che contorcerà tutta la politica europea e mondiale. È cominciata una nuova era: quella delle guerre non dichiarate, ma guerre di fatto. Le insurrezioni anticoloniali guidano questa nuova tendenza che farà delle guerre e degli eserciti repressivi la nuova costante del futuro mezzo secolo, man mano che tutti i territori coloniali raggiungeranno, almeno nominalmente, l’indipendenza passando per lo più da un regime colonialista a uno dittatoriale.
LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1954
3 gennaio – Nasce la Tv in Italia.
14 gennaio – Marilyn Monroe sposa il campione di baseball Joe Di Maggio.
9 febbraio – Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, viene ucciso con un caffè avvelenato nel carcere dell’Ucciardone.
Si porta nella tomba il segreto sui mandanti della strage di Portella della Ginestra.
23 febbraio – Nasce il primo vaccino contro la poliomielite.
13 marzo – L’esercito vietnamita guidato dal generale Giap sconfigge i francesi nella battaglia di Dien Bien Phu. I francesi son costretti a lasciare il Vietnam.
18 aprile – In Egitto prende il potere Nasser.
4 maggio – Golpe in Uruguay. Prende il potere Alfredo Stroessner che lo manterrà per più di 35 anni.
17 maggio – La corte suprema americana dichiara illegale la segregazione razziale.
4 luglio – Finale dei campionati mondiali di calcio. La grande Ungheria di Puskas viene sconfitta dalla Germania federale. Strascico infinito di polemiche: i tedeschi erano drogati? L’arbitraggio fu pilotato?
31 luglio – Lino Lacedelli, alpinista ampezzano, conquista il K2, cioè la vetta più difficile dell’Himalaya.
18 settembre – Il caso Montesi porta alle dimissioni del ministro degli esteri Attilio Piccioni, perché suo figlio è sospettato di essere stato coinvolto nella morte della giovane trovata senza vita sulla battigia di Torvaianica. Il figlio di Piccioni in realtà non c’entra niente ma gli equilibri nella Dc cambiano per sempre.
Il guzzantino. Storia d’Italia, 1955: in Tv arriva Mike Bongiorno e la Fiat lancia la 600. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Quando sono nato, l’Italia entrava in guerra con vergogna: attaccando la Francia già arresa ai tedeschi e i francesi ci chiamarono Maramaldi. Inoltre, i francesi all’inizio sulle alpi liguri ci fecero neri e rievocare i primi anni di questa storia e della mia vita è stato poco coinvolgente. Ma con il 1955 la faccenda cambia. Come tutti i quindicenni ero sempre innamorato. Non si andava a vere feste, non parliamo di dormire a casa di amici e quanto alle femmine il loro atteggiamento d’ordinanza era lo stupore. Noi non avevamo coraggio e loro avevano una paura dannata di tutto: della verginità, della gravidanza, malattie, reazioni paterne, matrimoni forzati, non c’era la pillola e non tutte usavano l’assorbente restando sotto il controllo ciclico matriarcale. Ma c’erano i Platters. C’era Pat Bone. C’era il primo Modugno. Noi balli sulla mattonella, si concentravano le digressioni negli angoli strategici di casa. Il giradischi e il Juke-box, la magica scatola luminosa dove i dischi scendevano e le ragazze si stringevano al collo e fra un bacio e una lacrima saliva una disperazione. Era arrivata la Seicento e dunque il sesso in macchina era finalmente possibile, se solo riuscivi a non far partecipare la leva del cambio. Nel 1955 esplose la libertà: arrivò il Rock’n Roll e l’indumento che non sarebbe mai più tramontato: il blue-jeans nella sua versione scorticante, colore unico e tessuto unico, risvolti alti fini, cuciture rosse enormi. Il Rock’n Roll esplose nei cinema quando la gente abbandonava le scomode poltroncine di legno e si metteva a ballare nei corridoi. La chiesa di sua santità Eugenio Pacelli era preoccupatissima: l’americanismo ormai entrava da tutte le fessure della vita tradizionale e della fina modestia italiana, i manifesti mostravano baci prossimi all’orgasmo e ballavamo per strada e con le donne potevi persino accennare al problema sessuale senza beccarti un ceffone e nasceva dopo la Vespa anche la Lambretta e si scriveva con la Olivetti che era il sogno di ogni studente, a rate, mille lire al mese. Gli inglesi si lamentano: noi abbiamo inventato lo scooter e gli italiani se ne sono appropriati. Gli italiani si appropriavano di tutto, inventavano tutto, erano dei draghi, non lamentosi come oggi. Nasceva l’auto Bianchi con la Bianchina, la nostra risposta alla Deux Cheveaux Citroen, meno adatta all’amore, ti saluto la posizione del missionario. Ma con la Seicento parte l’intera famiglia sui primi tratti dell’Autostrada del Sole, vanno a ruba i tavoli da picnic e si sfornano lasagne domenicali. In compenso, chiude la produzione della Cinquecento giardinetta, minuscola imitazione del caravan americano, in cui entravano anche sei persone, purché due nel bagagliaio. Il primo Rock’n Roll era un’estensione del boogie-woogie, e provocò una reazione conservatrice di tutte le Nille Pizzi e i Cinico Angelini, con la riscossa terrificante di “Son tutte belle le mamme del mondo quando il lor bimbo stringono al cuor” e poi milioni di canzoncine innocue, ma rimate, dall’arietta innocente, orecchiabili e cretine fra strazi gioiosi come Piripicchio e Pitricicchio e l’infernale barca che tornò sola come la cavallina storna, perché tre fratelli avevano dato la loro vita per salvare una bella bionda. La poetica italiana per italiani è da asilo infantile, da asilo senile, da allegro convento, e intanto si inaugura a cavolo un frammento della metropolitana di Roma. In politica, si manda al Quirinale il bell’uomo Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra con i voti dei neofascisti, ciò che avrà conseguenze nel 1960. Viene emesso un francobollo sbagliato, il famoso “Gronchi Rosa” che pochi fortunati si contenderanno. Si avverte nell’aria l’impressione che l’Italia “vada a sinistra” perché Gronchi è di sinistra insieme al fido Fernando Tambroni, uno che provocherà un disastro nel luglio del 1960. Il festival di Sanremo si trasmette, ma in differita: dopo il varietà “Un due e tre” di Vianello e Tognazzi che perderanno presto il posto per aver fatto della satira. È il momento del trionfo di Claudio Villa che stravince con Buongiorno tristezza sia pure cantando in playback per una laringite. Villa è l’antimoderno per eccellenza, il Francisco Franco della canzone italiana che ha sempre puntato sulle melodie che piacciono a napoletani e romani. I francesi sono irrequieti: hanno perso il Vietnam, stanno affrontando la ribellione dell’Algeria. La classe media scende in piazza con le casseruole dietro a Pierre Poujade. Tira un’aria indecifrabile di casseruole sbattute, il vecchio mondo imperiale tira le cuoia e Francia e Gran Bretagna sono preoccupatissime per l’egiziano Gamal Nasser che parla di nazionalizzare il canale di Suez. Nasser vuole anche strozzare Israele impedendo alla Stato ebraico l’accesso al petrolio. Da tutto l’Est sovietico arrivano storie di sofferenza, specialmente dall’Ungheria. Se la nuova Repubblica Federale Tedesca è ammessa nella Nato e autorizzata ad avere un suo esercito sotto il comando militare integrato, l’Est sovietico risponde formando la sua “Nato dell’Est” che si chiamerà “Patto di Varsavia” e vi partecipano con l’Urss, la Germania Est, la Polonia, la Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria, Romania e Albania. La Repubblica Democratica Tedesca veste i propri soldati con uniformi della tradizione tedesca e non all’americana come quelli occidentali. Persino la lingua tedesca è accuratamente preservata, nell’Est comunista, dalle influenze occidentali. Ogni anno il Patto di Varsavia programmerà un’unica esercitazione che prevede un attacco improvviso delle forze imperialiste, alle quali le forze del patto socialista, dopo aver respinto l’assalto si spingeranno in un travolgente contrattacco fino a chiudere tutti i porti atlantici impedendo così uno sbarco americano. In Argentina finisce la parabola di Peron, deposto da un colpo di Stato mentre in Italia fa passi avanti la Ceca col mercato comune. Gli Inglesi non sono attratti dall’Unione europea che considerano una vicenda interna tra francesi e tedeschi. Ma sono invece preoccupati con i francesi per il progressivo crollo dei due imperi: quello britannico e quello francese che stava franando nelle rivolte arabe dell’Africa del Nord. Winston Churchill che era tornato brevemente al governo, si dimette definitivamente. L’India è indipendente per colpa dei “cugini” americani che non tollerano alcun impero. A Londra Ruth Ellis di ventinove anni, è impiccata per aver ucciso il suo amante. È l’ultima impiccagione del Regno Unito. La sua storia sarà raccontata in Ballando con uno sconosciuto: un film terribile su una ragazza abusata e perseguitata da un uomo e che, quando lei finalmente si ribella e lo uccide, viene giustiziata. Un’altra epoca finisce: il boia di Londra con la sua scienza di pesi con cui spezzare la terza vertebra e causare una morte istantanea. Antonio Segni sardo democristiano conservatore diventa primo ministro e sarà il futuro presidente della Repubblica. Nasce il Terzo Mondo. Organizzato dal principio: né con l’America né con l’Unione Sovietica. Nasce un nuovo gruppo di Stati, guidato dall’indonesiano Sukarno, che non voleva schierarsi né con gli Usa né con l’Urss. Ma esplodono in tutto il mondo, Africa e Asia in particolare, guerre di decolonizzazione contro i vecchi padroni europei. Gli americani non soccorrono gli europei. Io a quindici anni mi trovavo con mio padre in Austria e vidi partire sia i sovietici che gli americani da Vienna che era stata occupata come Berlino. La partenza delle truppe russe fu guardata dalle finestre in modo torvo e una breve cerimonia per inaugurare la statua al milite ignoto sovietico andò deserta. Furono le mie prime fotografie. L’Est e l’Ovest non sembravano affatto attirati dalla convivenza pacifica ma solo dalla necessità di evitare una guerra per sbaglio. Quanto al resto, si odiano. La guerra non esplose, salvo che in Asia, ma in Europa la vivevamo con una forma d’angoscia particolare che spingeva all’edon