Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

I PARTITI

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

I PARTITI

INDICE PRIMA PARTE

 

 

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Beppe Grillo: Il Dottor Elevato.

I Grillini e l’Islam.

I Ministri a 5 Stelle.

La disintegrazione stellare.

Gli ex M5S.

Casta a 5 Stelle.

Il Nepotismo – Favoritismo Stellare.

I Conflitti d’Interesse.

La candidatura a punti.

I Finanziamenti a 5 Stelle.

Il Grillismo.

Pensioni d’oro e vitalizi. Noi siamo Noi.

La coerenza dei Grillini.

L’Onestà dei Grillini.

La Rimborsopoli.

Cinquestellopoli.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Lega Razzista Antimeridionalista.

Il Bossismo.

Fu Lega Nord Padania.

Salvini è Fascista.

Salvini è Comunista.

I Salviniani.

I Comunisti contro il Comunista Salvini.

Processate Salvini!

Giù le mani dalla Polizia…

La Questione Morale.

L’Onestà dei leghisti: altro che Roma Ladrona.

Moscopoli.

I 49 milioni.

Dio, Patria, Famiglia Spa.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Antropologia Comunista.

I Comunisti e la Chiesa.

I Comunisti ed il Nazismo.

Comunismo: quando il falso diventa vero.

La caduta del Comunismo.

Socialismo e scissioni.

Vocazione: Scindersi…

Il Poverismo.

La bella vita dei comunisti.

La Lega Padana Comunista.

Il Pd giustizialista figlio della sua storia.

I Sinistri Fratturati.

La sinistra e gli ebrei.

La Sinistra e le Donne.

Ramelli, lo Squadrismo Rosso ed il negazionismo.

Rizzo. L’Ultimo Comunista.

Il Zingarettismo.

Il Renzismo Junior.

Il Renzismo Senior.

I Renziani.

I Comunisti contro il Comunista Renzi.

Il Calendismo.

Emanuele Macaluso.

Ritratto di Giorgio Gori.

La storia della morte di Che Guevara.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli amici Terroristi.

Il Delitto di Vittorio Bachelet.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il ’68 nasce nel 1960.

Il Fumetto sul ’68.

 

 

I PARTITI

SECONDA PARTE

 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Lega Razzista Antimeridionalista.

Cesare Zapperi per il “Corriere della Sera” il 24 giugno 2020. «Non esiste che al mio fianco ci siano persone che non credono nell'autonomia o che abbiano anche solo il minimo dubbio». Luca Zaia declina così l'aut aut che Matteo Salvini ha intimato agli alleati di centrodestra per concedere il via libera ai candidati nelle Regionali di settembre.

Come farà ad esserne sicuro, presidente?

«Chiederò un impegno pubblico scritto - spiega il governatore leghista -. Candidarsi in Veneto significa impegnarsi per l'autonomia senza se e senza ma».

Gli alleati di Fratelli d'Italia, il partito di Meloni, non sembrano d'accordo.

«In Veneto hanno già votato per l'autonomia. In generale, direi che c'è chi arriva prima e chi arriva dopo, ma non capire che questo processo è irreversibile significa essere fuori dalla storia».

Addirittura...

«Volere bene al Paese non significa solo cantare bene l'Inno di Mameli e sventolare il Tricolore».

L'autonomia sarà inserita nel vostro programma?

«Non ce n'è quasi bisogno visto che è già scritta nella Costituzione. Si tratta solo di realizzarla».

Ne è sicuro?

«Luigi Einaudi nel 1948 sosteneva che bisogna dare a ciascuno la sua autonomia. E anche Luigi Sturzo si definiva unitario per federalista impenitente. Se lo dicevano loro che sono stati tra i padri della Patria, non vedo cos' altro dobbiamo aspettare».

Se ne parla da decenni, ma il tema non pare ancora largamente condiviso.

«Il problema è che a Roma, ma non solo, si continua a vedere l'autonomia come una sottrazione di potere. E invece è tutt' altro: un'assunzione di responsabilità».

C'è chi teme la moltiplicazione dei centri decisionali.

«Allora mettiamola così: l'autonomia è centripeta, unisce il Paese; il centralismo è centrifugo, spinge alla divisione perché ciascuno cerca la propria libertà».

Ma lei crede davvero che il traguardo sia vicino?

«Anche il Muro di Berlino sembrava inscalfibile. Eppure, il 9 novembre del 1989 un gruppo di ragazzi vi salì sopra e diede il via all'abbattimento. Ecco, il centralismo è il nostro Muro di Berlino, una gabbia che non ha più ragione di esistere e che non può più essere tollerata. Non lo dice Zaia, lo dice la storia».

Le resistenze ci sono, inutile nasconderselo.

«Sono di due tipi. Da un lato, c'è chi teme la sottrazione di potere. Sono i più beceri, i più dannosi. Dall'altro, chi vede nel federalismo un modo per mettere in discussione l'unità d'Italia. Ecco, inviterei questi ad aprire gli occhi e a non ragionare per pregiudizi».

Tipo quelli, che anche voi avete alimentato, del Nord che vuole staccarsi dal Sud?

«Le rispondo così: la Lega ha avuto il grande merito storico di porre il tema del federalismo. Il limite è stato consentire che se ne desse una lettura distorta».

Beh, certi slogan...

«Tutti siamo maturati, anche la Lega è cresciuta. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ogni partito ha avuto la sua evoluzione. Avete presente il passaggio da Pci a Pds a Ds a Pd?»

La Lega è diventata un partito nazionale. Adesso è più facile anche per voi parlare a tutto il Paese.

«Alimentare la divisione tra Nord e Sud non ha alcun senso. Anche il Meridione ha bisogno di affrancarsi dal centro. Se ci riesce aiuterà anche noi ad essere sempre più competitivi. Gli Stati che funzionano, guardatevi attorno, sono tutti federalisti».

Salvini ha perso smalto negli ultimi mesi. Non teme che questo possa avere ricadute nella battaglia per l'autonomia?

«Non penso proprio. La Lega non è in crisi, gli alti e bassi ci sono sempre stati. Noi abbiamo solo un modo di farci valere: rispondere con i fatti. Se Salvini ci aiuta a raggiungere l'autonomia si sarà guadagnato la nostra eterna riconoscenza».

Il ritratto del governatore. Chi è Luca Zaia, il Presidente leghista del Veneto che ha messo nell’ombra Matteo Salvini. Roberta Caiano su Il Riformista il 21 Settembre 2020. Solo pochi giorni fa il quotidiano francese Le Monde ha incoronato il governatore del Veneto Luca Zaia come ‘campione della Lega’, battendo di fatto il capo del partito Matteo Salvini. Un’intera pagina dedicata al ritratto del Presidente sembra aver trovato conferma nei risultati delle elezioni regionali, che hanno visto Zaia, 52 anni, rieletto per la terza volta alla guida della regione con una percentuale del 74,50 %. Il Doge, infatti, è al governo ininterrottamente dal 2010. Leghista della prima ora e anima della Liga Veneta, Zaia è il protagonista per eccellenza della battaglia per l’Autonomia e la sua gestione della pandemia da coronavirus in Veneto ha contribuito in maniera determinante al risultato finale.

CHI E’ – Originario di Bibano di Godega di Sant’Urbano, Luca Zaia proviene da una famiglia venetissima. Dal 1998 all’aprile 2005 è stato presidente della provincia di Treviso, nonché vicepresidente della giunta regionale del Veneto tra il 2005 e il 2008, con deleghe al turismo, all’agricoltura, allo sviluppo montano e all’identità veneta. Tra l’8 maggio 2008 e il 16 aprile 2010 ha ricoperto l’incarico di ministro delle politiche agricole alimentari e forestali nel governo Berlusconi. In questi due anni, Zaia ha documentato la sua attività con alcuni volumi tecnici editi dal Ministero. Sposato dal 1999 con Raffaella Monti, non è mai stato iscritto a nessun partito fino a quando non ha conosciuto la Lega di Umberto Bossi, il cui colpo di fulmine lo ha spinto ad aderire in età giovanissima. Nel 1998, con una campagna elettorale in cui la Lega Nord/Liga Veneta si presenta da sola, viene eletto Presidente della Provincia di Treviso diventando il governatore più giovane d’Italia per ben sette anni. Ma il tetto massimo della popolarità e dei consensi lo raggiunge nel 2010, quando viene eletto Presidente della Regione Veneto con il suo primo mandato, per poi essere riconfermato nel 2015. Le elezioni del 2020, però, sono la prova decisiva nella sua incisività di leader regionale con una vittoria schiacciante per il terzo mandato consecutivo.

ELEZIONI 2020 – La Lega, dunque, rimane un caposaldo in una regione come quella veneta, dove l’avversario del centrosinistra Arturo Lorenzoni ha ottenuto poco meno del 17 %. Ma questa volta Zaia si è presentato alle elezioni in una lista differente da quella del Capitano. La Lega, infatti, nel raggruppamento di centrodestra con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ha presentato tre liste: Lega Salvini che fa riferimento a Matteo Salvini, Zaia Presidente è quella personale del candidato, mentre Lista Autonomia Veneta raccoglie una serie di amministratori locali. Come i risultati hanno dimostrato, la lista del governatore ha ampiamente stracciato anche quella della Lega Salvini con oltre 25 punti di scarto. Le voci che vedevano i due leghisti ai ferri corti sembrerebbero trovare riscontro nel ritratto che il quotidiano francese ha dedicato a Luca Zaia: “Forte di una eccellente gestione della crisi sanitaria mette nell’ombra il capo del suo partito, Matteo Salvini, di cui non condivide la linea estremista e antieuropea”, si legge nella descrizione del governatore. Infatti, soprattutto nella gestione della pandemia da coronavirus, dove il Veneto era in testa per numero di contagiati, il Doge ha guadagnato la fiducia dei suoi concittadini portando avanti i valori e gli ideali che hanno sempre contraddistinto il partito leghista, fino alla terza vittoria consecutiva. A smentire però la maretta tra Salvini e Zaia ci ha pensato il vicesegretario della Lega Lorenzo Fontana, il quale nel corso di una diretta durante le proiezioni delle elezioni ha affermato che “non ci sono problemi sotto questo punto di vista”. Anche se solo pochi giorni prima delle elezioni fu proprio Matteo Salvini ad incaricare Fontana di spedire una lettera agli oltre 400 segretari di sezione per raccomandare loro di far appoggiare la lista Lega Salvini e non quella di Zaia. “Nessuna scalata al partito, Salvini stia tranquillo”, aveva dichiarato dal canto suo Luca Zaia ai microfoni de la Stampa qualche mese fa. Eppure il timore che il successo crescente di  Zaia potrebbe non relegarsi ai soli confini del Veneto ma estendersi fino alla poltrone di segretario nazionale del partito, potrebbe così aver spinto la stessa Lega a dividersi e a confutare “l’avversario”. L’Autonomia, principio cardine della filosofia leghista, potrebbe infatti essere uno dei motivi dell’ascesa di Zaia creando così all’interno del partito un secondo polo, una Lega non solo sovranista che guarda a tutta l’Italia, ma radicata nei territori del Nord. Ma ora che Luca Zaia ha stravinto, cosa accadrà nella Lega? Probabilmente nulla nell’immediato, vista la capacità di entrambi i leader di mantenere una certa stabilità all’interno del partito. Ma forse, queste regionali, potrebbero portare a qualche riflessione in più a lungo termine.

Carlo Pavan, leghista a difesa dei benestanti: “Tutti pensano ai poveri, ma ai ricchi chi ci pensa?”. Redazione de il Riformista il 5 Giugno 2020. “Tutti pensano ai poveri, ma ai ricchi chi ci pensa?”. È una parte dell’intervento, diventato virale, del consigliere leghista di Udine Carlo Pavan. Il discorso, tenuto nell’aula consiliare della città friuliana lo scorso 18 maggio, è emerso sui social soltanto in queste ore, scatenando reazioni di ilarità. Pavan interviene e si lamenta della distribuzione dei fondi per l’emergenza: “Quando si parla di supporto non c’è equità sociale e ve lo dimostro. Parlano tutti di dare fondi ai poveri e ai ricchi che pagano l’Imu chi ci pensa? Ci sono anche i ricchi a Udine, non soltanto i poveri. È chiaro che sono classi da tutelare di più, quelle povere però la disparità di trattamento i democratici non la citano”. Il consigliere della Lega fa quindi un esempio: “L’altro giorno mi hanno detto che da Mediaworld c’erano 200 persone in fila per l’iPhone nuovo a 600 euro. Mi chiedo: ma questi sono davvero poveri o finti poveri?”. Il metodo per stabilirlo, secondo Pavan, è molto semplice: “Erano tutti con la tuta. Io non ho niente contro quelli che stanno in tuta, ma non erano certo in giacca e cravatta”. Al termine dell’intervento quindi l’esponente leghista si lascia andare anche ad una previsione: “Il 2020 è un anno bisestile. C’è stata l’acqua alta a Venezia, doveva arrivare il meteorite e poi c’è stato il coronavirus. Se dovesse arrivare qualche altra catastrofe e finiamo tutti i soldi, poi dove li prendiamo?”. L’intervento ha attirato diverse critiche. Enrico Bertossi, capogruppo di PrimaUdine. scrive sui social:”Al di là di ogni polemica politica credo in tanti anni di non aver mai sentito un intervento più vergognoso in consiglio comunale. Al netto delle corna e della pagliacciata dei guanti di colore diverso…. Vorrei capire perché il presidente non è intervenuto”. Critiche anche dal capogruppo del Partito Democratico in consiglio comunale, Alessandro Venanzi: “Ne ho visti di consigli in 12 anni, ma non si è mai toccato un livello così basso come in questa consiliatura”.

Lega, gli orfani padani infelici e confusi del nuovo corso. Pino Casamassima il 14 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il sogno di separare il nord «con un bel muro all’altezza di Bologna» s’è tramutato nell’incubo di «prima gli italiani». Liliana Segre non parteciperà al convegno sulle nuove forme dell’antisemitismo organizzato dalla Lega per il 16 gennaio. «Ritengo – ha spiegato – che non si debba mai disgiungere la lotta all’antisemitismo dalla più generale ripulsa del razzismo e del pregiudizio che cataloga le persone in base alle origini, alle caratteristiche fisiche, sessuali, culturali o religiose». Della serie “a buon intenditor…”. In realtà, il “buon intenditor” Salvini ha indetto quel convegno più pro Israele che contro l’antisemitismo. «Lanceremo una grande campagna in difesa di Israele, perché i suoi nemici sono miei nemici» ipse dixit. Che l’antisemitismo non si coniughi d’emblée con Israele e la sua politica tout court, è un fatto, ma qui interessa un altro fatto: la scomparsa della Lega. E i conseguenti orfani. Sì, perché la Lega Nord è morta. Ora c’è la Lega di Salvini. Non una evoluzione della prima: proprio un’altra cosa, come ha sobriamente sottolineato col dito medio Bossi nel congresso che ha sancito il trapasso della sua creatura. La sua, quella di Bossi, era infatti la Lega che dava addosso a «Roma ladrona» e ai meridionali. Era il tempo in cui, guarito dalla giovanile infatuazione per il comunismo – rigorosamente padano, come il parmigiano – Salvini aveva scoperto la vocazione per il canto. Nel segno del comando bossiano, si esibiva sui minimalisti palcoscenici delle feste leghiste cantando «Senti… senti… senti che puzza… senti… senti… senti… arrivano i napoletani» come testimoniano un video e una condanna spuntata dalle carte del processo di Torino che lo vede imputato per vilipendio della magistratura. Sulle elezioni del 26 gennaio in Emilia Romagna, Salvini punta ( e rischia) parecchio relativamente al corso delle nuova Lega. Un corso che non vede l’assalto a quella che è storicamente percepita come la zecca rossa più che la zona rossa d’Italia da parte di un Carroccio che – dopo aver ampiamente sfondato sulla direttrice della autostrada A4 facendo leva su «Le ragioni del Nord» – tenta ora di intercettare un elettorato tradizionalmente di sinistra ( come quello di Sesto San Giovanni, ormai ex Stalingrado d’Italia). È una Lega diversa quella che vede lo scarrocciato partito di Salvini andare lancia in resta contro il bolscevico Stefano Bonaccini per sostituirlo con la pulzella di Bologna: quella Lucia Borgonzoni che – scarsa in geografia – compensa con una solida preparazione politica, come dimostrano le due leggi da lei avanzate sulle rievocazioni storiche e sui disabili. «Ma ci sono già quelle leggi» ha vociato qualche paesano. Vero, ma lei – come la ha insegnato la Bestia di Salvini – ripete le cose che «così diventano vere». A tentare l’intentabile, cioè la conquista della terra del liscio e dei tortellini, non è dunque la Lega “per l’indipendenza della Padania”, ma un altro partito che di uguale ha solo la dicitura Lega. Prova ne sia che pure la Borgonzoni ripete nei comizi «Prima gli italiani», slogan primario di questo nuovo partito. ( Ed è il meglio che le viene, quando è ammessa ai presidi del capo). Quello slogan è stato uno dei mantra dell’ultima adunata nel pratone di Pontida: quella che ha ufficialmente salutato la nascita di un partito – nazionale – di estrema destra. Il movimento – regionalistico di Bossi e Maroni non esiste più. Quello sosteneva pure una sorta di antifascismo militante. «Andremo a prendere fascisti uno per uno» tuonava il Bossi nei comizi in cui prendeva le distanze dagli italiani. «C’è forse qualche italiano qui in mezzo?» chiese con voce e modo rauco in un comizio a Maderno, sul Garda. Trovandomi lì per dovere di cronaca, stavo per alzare incautamente la mano quando mia moglie mi salvò dall’insano gesto. Nell’ultima edizione del festival di Pontida, i leghisti della prima ora hanno dovuto ingoiare nuove – irritanti – parole d’ordine: quelle poi risuonate nel recente congresso. All’ombra di Alberto da Giussano, sono cadute di nascosto le lacrime dei tanti orfani leghisti ustionati di illusioni. Il sogno di separare il Nord «con un bel muro all’altezza di Bologna» s’è tramutato nell’incubo di «Prima gli italiani». E il professor Gianfranco Miglio ( buonanima) è tornato quel Carneade che era prima d’incontrare Bossi. «Sono andato a Pontida anche quest’anno – dice un leghista della prima ora che incontro in Valsabbia, terra da numeri bulgari per la Lega di Bossi – ma non mi è piaciuto quello che ho sentito». Diciamola tutta: Salvini è un traditore che manco Iago. «Prima gli italiani? E tutti questi anni abbiamo scherzato, allora?». Poi c’è l’antifascismo, nel senso che non ce n’è più traccia, anzi… «Non è un mio problema. Non mi interessa niente di fascisti o comunisti – spiega l’ex dreamer della “padania libera” –. A me interessa che i miei soldi restino qui». L’orfano padano si sente insomma tradito da chi ha ucciso l’antico sogno di separare i destini della padania dal resto di un paese – tuttora – percepito come «terrone» da Bologna in giù. Il glorioso «non si affitta ai meridionali» degli anni 60 riapparso recentemente in più città del Nord lascia qualche speranza a chi si sente di dover praticare una sorta di resistenza attiva sul fronte della Lega «per la liberazione della padania». Cartelli che certificano una resistenza. La persistenza della filosofia leghista della prima ora. E chissà che un giorno – magari con il terapeutico aiuto del serensissimo Luca Zaia – Matteo Salvini possa rinsavire e tornare ai bei canti di un tempo contro i napoletani.

Bossi ricorda a Salvini cos’è la Lega: “Aiutiamo il Sud a casa loro, sennò straripa come l’Africa”. Redazione de Il Riformista il 21 Dicembre 2019. “Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo ‘a casa loro’ straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa”. Queste le parole di Umberto Bossi durante il suo intervento al congresso federale della Lega a Milano.

“L’Africa non è stata aiutata e – ha proseguito l’ex leader leghista – ci arrivano tutti addosso”. Dichiarazioni che hanno scatenato le risate dei presenti e il silenzio di Matteo Salvini. Il capo politico del Carroccio era seduto vicino a Bossi ma non è intervenuto né si è dissociato da quanto ascoltato. Le parole dell’ex Sanatur hanno scatenato l’indignazione degli abitanti del Sud Italia dove la Lega negli ultimi mesi è in forte ascesa. Un incidente diplomatico che non passerà inosservato.

Polemiche per la frase di Bossi sul Sud: “Straripano come l’Africa”. Laura Pellegrini il 22/12/2019 su Notizie.it. Infiammano le polemiche per la frase di Bossi sul Sud Italia pronunciata al Congresso della Lega: Matteo Salvini non è intervenuto in alcun modo. Umberto Bossi ha partecipato al Congresso della Lega insieme a Matteo Salvini nel quale è stato lanciato il nuovo Statuto che rinnova il partito. Tuttavia, l’ex leader del Carroccio è andato incontro a una serie di polemiche per una frase pronunciata contro il meridione della nostra penisola. Bossi, infatti, avrebbe detto: “Mi sembra giusto aiutare il Sud altrimenti straripano come l’Africa”. Salvini, invece, ha spiegato la questione con altri termini: “La nostra gente del Nord deve vivere tranquillamente e pagare meno residuo fiscale di 100 miliardi di euro”. La Lega ha cambiato il suo Statuto durante il Congresso tenuto a Milano sabato 21 dicembre. Matteo Salvini, insieme a Umberto Bossi e i suoi sostenitori hanno partecipato alla festa. Uno degli obbiettivi del partito è quello di rinnovare l’Italia e rappresentare tutti i cittadini. Anche per questo motivo, infatti, la denominazione è passata da “Lega Nord” a “Lega”, nonostante nella sede ufficiale appaia ancora la vecchia denominazione. Umberto Bossi, a tale proposito, ha suscitato grandi polemiche per una frase pronunciata contro il Sud Italia. L’ex leader del Carroccio, testualmente ha detto: al Sud “straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa”. Nel suo discorso avrebbe aggiunto anche: “Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo ‘a casa loro’ straripano e vengono qui”. “L’Africa non è stata aiutata e – ha aggiunto ancora l’ex leader leghista – ci arrivano tutti addosso”.

La mancata replica di Salvini. A molte persone, infine, non è sceso nemmeno il mancato feedback del leader leghista Matteo Salvini sulle parole del collega Bossi. Ma non si esclude un successivo commento magari sui social.

Salvini e i Terroni. Come la mettiamo con le parole di Bossi? Michel Dessi il 23 dicembre 2019 su Il Giornale. È il 23 dicembre, la vigilia della vigilia di Natale. Al suono della sveglia delle 07.00 ho aperto gli occhi e ho pensato: “è un giorno come gli altri. Si torna a casa e sarà il solito Natale.” Ipocrita. Come la gente che finge di volerti bene e ti saluta con grande affetto augurandoti “buone feste a te e famiglia”. Invece no. Non è un giorno come gli altri. È un bel giorno. L’unica Frecciargento Roma – Reggio Calabria arriva al binario 7. La banchina è affollata più del solito. Mamme, bambini, mariti. Passeggini e bagagli. Tanti bagagli. E giochi. Molti. Stranamente la Freccia 8345 parte puntuale. Alle 08.58. La chiamano freccia solo perché salta qualche stazione e tira dritto verso la Calabria. Risparmiando così un po’ di tempo. In realtà è un comune treno. Come quelli che ci sono al Sud. No, non è comodo come le freccerosse. Niente alta velocità. Si sa, il Paese è diviso in due. Spezzato da vecchi retaggi culturali e mala politica. Neanche i 5 stelle sono riusciti a cambiare le cose. E non ci riusciranno. Si illude chi pensa il contrario. “Prima la TAV!” Dicono. Perché regalare l’alta velocità  agli ‘ndranghetisti? Per farli arrivare prima a Roma o a Milano? Meglio evitare. Come se la ‘ndrangheta non fosse infiltrata bene in quei territori. È arrivata perfino in Valle D’Aosta. Come nel resto d’Italia. Il treno dei Terroni è pieno. I vagoni diventano casa, anche se per poco. Precisamente quattro ore e mezza. Il tempo di raggiungere la Nostra Terra. Il Meridione. I bambini sono felici. E la loro felicità è contagiosa. Si stupiscono per qualsiasi cosa. Loro non si lamentano. Sono tutti felici di tornare a casa, nella propria Terra. La Terra di Calabria. Bella e dannata. Maledetta dalla classe dirigente. Così la chiamano. A casa li aspettano le nonne, felici per l’arrivo dei nipotini che non vedono da tanto tempo. Il sugo sarà già sul fuco. Le polpette in forno. C’è un bambino accanto a me, avrà due anni, con due grandi occhi ghiaccio. È in braccio alla sua mamma. Elenca balbettando il nome dei nonni e degli zii. È felice. Felice di rivederli. Felice di viaggiare. Guarda fuori dal finestrino e indica il cielo. “Aturro”, dice. Gioca. Spensierato.  C’è chi legge e chi, assorto, guarda fuori dal finestrino. Il tempo scorre, come i pensieri. C’è chi ascolta musica e chi socializza. Chi si preoccupa per il proprio cagnolino e chi studia. Sono i migranti. Siamo i migranti. Li osservo e non posso che pensare ad Umberto Bossi, e alle sue ultime parole pronunciate al congresso federale della Lega. “Mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo ‘a casa loro’ straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa”. Penso. E mi trattengo dallo scrivere. Poi mi ricordo del suo grande sogno “la Padania libera ed indipendente”. Per fortuna è infranto. Sono contento che Salvini abbia cambiato pelle alla Lega. Che abbia cancellato Bossi e i suoi compagni. Che abbia archiviato il rito dell’ampolla. Del partito fondato nel 1989 da Bossi resta solo il ricordo. Brutto. L’acqua del Po è evaporata e la boccetta di Bossi è stata riposta da Matteo Salvini per fare spazio al Presepe. Il verde lega si è sbiadito e il blu è dominante. Il simbolo cambia e il partito si evolve. Un partito che esiste in funzione del “capitano”. E, speriamo, negli interessi degli italiani. Anche dei Meridionali. Dei terroni.

Bufera su Umberto Bossi: “Aiutare il Sud a casa loro, altrimenti vengono qui come l’Africa”.  Redazione Bufale il 21 Dicembre 2019. Stanno facendo discutere molto le dichiarazioni di Umberto Bossi in occasione del congresso della Lega che si è tenuto oggi 21 dicembre, considerando la presa di posizione dell’ex leader del Carroccio su un tema delicato come quello del Sud. Da anni, infatti, Salvini sta provando a segnare un cambio di rotta del partito, al punto da cambiarne anche la denominazione. Si è passati da Lega Nord a Lega, nonostante le polemiche dei mesi scorsi sulla scritta presente all’ingresso della sede principale, ancora focalizzata sulla vecchia denominazione.

Cosa ha detto Umberto Bossi sul Sud davanti a Salvini. In particolare, oggi si torna a parlare di Umberto Bossi dopo alcune “imprese” di suoi figlio dei mesi scorsi, come avrete notato attraverso alcuni nostri approfondimenti. In particolare, l’ex trascinatore della Lega ha affermato che gli sembra giusto aiutare il Sud, altrimenti se non dovessero essere aiutati “a casa loro” ci sarebbe un rischio concreto. Citando testualmente quanto dichiarato dal diretto interessato, infatti, i meridionali “straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa“. Questo in sintesi quanto affermato Umberto Bossi nel suo intervento in occasione del tanto atteso congresso federale della Lega Nord a Milano. Rafforzando quanto affermato in precedenza, come ricorda Repubblica, “l’Africa non è stata aiutata e ci arrivano tutti addosso“. Un raffronto, quello di Bossi, che non è stato apprezzato né dai denigratori della Lega sui social, né da parte dei suoi sostenitori. Soprattutto considerando la recente crescita del Carroccio nel Mezzogiorno. Ad alcuni, non è piaciuta nemmeno la mancata replica di Salvini alle parole di Umberto Bossi, ma qui si entra in un campo che a noi non compete. Alla luce delle richieste che ci sono pervenute, possiamo solo far presente che le parole dell’ex leader della Lega siano a tutti gli effetti autentiche. Questo il video che sta circolando nelle ultime ore.

Bossi sproloquia e dalla Lega sghignazzi e silenzi. Pubblicato: 22 Dicembre 2019 da Paolo Di Marco su dedalomultimedia.it. Umberto Bossi sproloquia “giusto aiutare il sud ma a casa loro sennò straripano qui come gli africani” e tutti a ridere e a sghignazzare. Il senatur non stava bevendo un buon bicchiere di rosso in una bella e confortevole taverna padana accanto verdi amiconi di merende infarcite di lauree albanesi o fondi, per così dire, impropri. Stava tenendo il suo bel discorso al congresso federale della Lega Nord a Milano. Ed era proprio a fianco di Matteo Salvini preoccupato quest'ultimo solo di tasteriate l'ennesimo post senza alzare gli occhi dal video. Non è uno stupido ed ha capito immediatamente che il suo caro amicone padano gli stava propinando una bella insalata. Non si è unito ai sghignazzi, e questo gli fa onore al cospetto di tanti maleducati, ma non ha neppure risposto per le rime come avrebbe dovuto fare un vero leader nazionale. E questo per chi sta al sud e ancora di più per i leghisti meridionali dovrebbe essere una sorta di peccato mortale. Invece niente, nessuno si è sentito offeso, tutti hanno calato la testa supinamente. Ho cercato disperatamente una reazione leghista targata Sicilia o Enna; ho trovato solo una serie di firme su un documento #processatecitutti. Per il fango in faccia del “Senatur” nulla. Che schifo. Che schifo. Che schifo. Lo ripeto e lo scrivo tre volte ma non basterebbero mille volte. Non punto il dito aprioristicamente contro chi ha fatto una scelta leghista, la democrazia è bella per questo è varia e c'è posto per tutti. Punto il dito contro chi la propria identità di siciliano e di meridionale la ha svenduta e messa sotto il culo solo per poter cavalcare l'onda lunga che oggi Salvini può offrire. Un seggio in parlamento, in un consiglio regionale o in un consiglio comunale lavano ogni affronto. Che schifo. Che schifo. Che schifo. La storia anche recente racconta che il grande male della politica nostrana è stata la genuflessione ai diktat romani. Chi vuole cambiare tutto oggi ha solo spostato indirizzo prima Roma, adesso Milano con l'aggravante dell'insulto. Ripeto non demonizzo i leghisti meridionali, alcuni sono pure cari amici. Ma non posso stimare chi non ha amore per la propria terra. E l'amore esige prima di tutto rispetto. Al senatur consiglierei di andare a guardare dei video, non a leggere libri capisco che è stancante ed è uno sport da lui poco apprezzato. Mi riferisco ai numerosi servizi dello scrittore-giornalista Pino Aprile sul furto continuo che dal 1861 ad oggi le regioni del nord, con il consenso di Roma-ladrona, perpetrano ai danni delle comunità del Sud. Se ha argomenti, cioè documenti, fatti seri e non insulti, risponda.

Crippa (Lega Salvini): "Bossi sbaglia, insultare il meridione non fa il bene del partito". Il Corriere del Giorno il 22 Dicembre 2019. “Ho incontrato tante persone per bene al Sud. Dobbiamo valorizzare le diversità, non solo le identità” perché “la nuova Lega si giocherà una partita importante al sud”. “Bossi ha sbagliato, insultare i meridionali non fa il bene della Lega”. Intervistato dall’AdnKronos, il vicesegretario della Lega, Andrea Crippa, ha così replicato alle parole del vecchio leader, intervenuto ieri al Congresso straordinario che ha mandato in soffitta la Lega Nord, lasciando il passo alla Lega di Salvini. “Ho incontrato tante persone per bene al Sud – sottolinea l’ex leader dei giovani padani, voluto da Salvini al suo fianco come vice – . Dobbiamo valorizzare le diversità, non solo le identità” perché “la nuova Lega si giocherà una partita importante al sud“. Per Crippa quindi “certe dichiarazioni sul sud sono state offensive, hanno offeso tante persone che stanno contribuendo al progetto della Lega, che sono in campo per dare finalmente risposte diversa alle persone del meridione“. “La Lega – aggiunge il vice di Salvini – ha in mente un progetto nazionale, dove sono inclusi tutti gli uomini e le donne che hanno voglia di ridare una speranza di un futuro migliore anche ai giovani del sud che in questo momento stanno andando all’estero a fare quei lavori che gli stessi europei non vogliono più fare“. “Io non rinnego nulla del passato – assicura Crippa – ma certe dichiarazioni di esponenti della Lega, dove si insultano persone del meridione non fanno il bene né della Lega, né di quelle persone che vedono in noi la speranza di cambiamento, per il rinnovamento di una politica ancorata a temi vecchi, che vuole salvaguardare solo scranni e stipendi“.

·        Il Bossismo.

Pasteggia a champagne  con un’amica e non paga  il conto al ristorante:  Riccardo Bossi denunciato. Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. Non erano stati proprio spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè, come cantava il compianto Fred Buongusto. In compagnia di un’avvenente signora mora, seduto a un tavolo dell’Antica Osteria Cavallini di via Mauro Macchi, Riccardo Bossi aveva trascorso la vigilia di Natale consumando un pasto a base di pesce innaffiandolo con una bottiglia di vino da 40 euro e da una di champagne da 90. «Non ho il portafoglio, pagherò con un bonifico», ha detto al momento di saldare il conto da 240 euro facendo notare il suo cognome famoso. Il ristoratore, egiziano di origine, ha denunciato di non aver avuto un euro e l’ha querelato per truffa. Il ristoratore gli aveva anche scontato 40 euro. D’altronde Riccardo Bossi era un cliente abituale, anche se sempre come ospite di qualcuno, e proprio per questo gli sono state date le coordinate bancarie del conto corrente del ristorante sicuri che avrebbe pagato. Come si spiega nella querela depositata in Procura a Milano, il 27 dicembre Bossi ha inviato puntualmente per mail la ricevuta di un bonifico da 230 euro. Solo che controllando nei giorni successivi il ristoratore si è accorto che di quel bonifico sul conto non c’era traccia. Quando lo ha chiamato per avvertirlo, Bossi ha insistito sulla «bontà del pagamento» finché ha promesso che sarebbe tornato per pagare di persona. Nessuno lo ha più visto. Non è la prima volta che Riccardo Bossi viene denunciato per conti non pagati. A settembre 2019 a Firenze per i 66 euro spesi in un ristorante dal quale era andato via dicendo che non aveva soldi e che andava a prelevare al bancomat.

·        Fu Lega Nord Padania.

Matteo Salvini contro Giulio Gallera, il derby tra i politici lombardi che si odiano da 15 anni.  Gianfranco Turano su L'Espresso il 16 novembre 2020Mentre il morbo infuria, i due ex enfant prodige della politica milanese continuano a scontrarsi. Ora è il leader leghista che chiede la testa del forzista. Ma i rapporti tra i due sono tesi da molto prima che spuntasse il Covid-19. Ce la farà anche stavolta Giulio Gallera, assessore regionale forzista al Welfare della Lombardia a salvare la poltrona? Sembra di sì. Il suo soccorritore, il presidente leghista e avvocato varesino Attilio Fontana, ha affrontato l'ira del suo leader di partito Matteo Salvini pur di conservare al suo posto il collega del foro di Milano ma non è chiaro per quanto ancora ci riuscirà.È un derby milanese, anzi milanista, quello che oppone Salvini a Gallera. È un derby con radici antiche, quando due erano consiglieri per il Comune di Milano e già non si sopportavano, pur appartenendo come oggi allo stesso schieramento politico. Eppure, a parte i rossoneri e il centrodestra, i due hanno in comune anche l'amore precocissimo per la politica. Se ci fosse qualcosa da festeggiare con 19 mila morti di Covid-19 in regione più altri ventimila morti sospette conteggiate dall'Istat, quest'anno Gallera potrebbe celebrare i 32 anni di carriera politica ufficiale, senza contare l'impegno da liceale nelle file dei Giovani Liberali. Salvini ha solo, si fa per dire, 27 anni di anzianità. Debutta a vent'anni nella consiliatura di palazzo Marino del 1993 con il primo e per ora ultimo sindaco leghista di Milano, Marco Formentini, che prende il posto di un commissario prefettizio nominato per il caos di Tangentopoli, partita proprio dal milanese Pio Albergo Trivulzio nel 1992. Pur essendo di quattro anni maggiore, Gallera conquista palazzo Marino quattro anni dopo, nel 1997, quando la città passa dalla Lega a Forza Italia con Gabriele Albertini. A differenza del collega leghista, che veste maglioni orrendi verde Po, Gallera esibisce giacca, cravatta e orologio di marca, da studente universitario di buona famiglia. Anche Salvini è universitario e di buona famiglia, figlio di un dirigente di azienda. Ma negli anni giovanili ama frequentare il centro sociale Leoncavallo, oltre che concorrere a quindici anni al quiz “Doppio slalom” su Canale 5. Il futuro segretario vede nella Lega di Umberto Bossi un movimento popolare, antiborghese e piuttosto di sinistra. Le liti iniziano sul finire della seconda giunta Albertini. A marzo 2004, sul dossier della nuova privatizzazione della municipalità dell'energia Aem, il leghista tenta di rimettere in discussione l'accordo con Gallera che ribatte «l'accordo della Casa delle libertà non si modifica in nessun modo». Un mese dopo, a proposito delle zone, Salvini attacca l'assessore al decentramento Gallera che «ha sbagliato sia nel metodo, pessimo, sia nel merito, scarso». A giugno la destra perde le provinciali di Milano contro Luigi Penati e Gallera commenta: «Matteo Salvini non ha imparato nulla dalle elezioni provinciali perse soprattutto a causa della litigiosità all'interno della Casa delle Libertà. L'eccessiva ricerca di visibilità individuale, o di un solo partito, rischia di portare tutti alla sconfitta. Mi auguro che il periodo di vacanza possa servire al consigliere Salvini per meditare su questo aspetto e trovare un nuovo e personale equilibrio». Ad agosto Gallera e i forzisti chiedono le dimissioni del capogruppo e coordinatore provinciale leghista. Nel luglio 2006 i due si scontrano sulla tassa dell'inquinamento e a dicembre dello stesso anno di nuovo sul progetto di intitolare una strada di Milano al leader del Psi Bettino Craxi, morto sei anni prima. Giulio Gallera : «Siamo a favore: un grande statista, un uomo politico milanese di grande prestigio internazionale, la cui vicenda giudiziaria non può offuscare quello che ha fatto». Salvini ribatte: «Noi siamo assolutamente contrari. Non c'è accanimento da parte nostra ma per Milano i fattori negativi superano quelli positivi. Non lo vedo come personaggio tale per cui mio nipote un giorno potrà passeggiare orgogliosamente per via Craxi». Un altro tema delicato è quello della sicurezza (aprile 2007). Salvini: «Faremo, nelle modalità che abbiamo indicato, una ronda a settimana, cominciando da mercoledì prossimo. La prima passeggiata volontaria la faremo probabilmente in un campo della zona sud della città, area dove i cittadini protestano ogni giorno di più». Gallera boccia l'iniziativa. Sul taglio delle auto blu (dicembre 2007), Forza Italia taccia di demagogia l'emendamento presentato da Matteo Salvini. «Il comune di Milano è un comune virtuoso», secondo il capogruppo azzurro, «e in questi due anni ha fatto una grande razionalizzazione della macchina comunale recuperando numerose risorse per abbassare le tasse e fornire più servizi ai cittadini. L'emendamento di Salvini dà invece un'immagine negativa della nostra amministrazione che non rende merito all' attività finora compiuta». Quando il sindaco Letizia Moratti nomina assessore Massimiliano Finazzer Flory (dicembre 2008) al posto di Vittorio Sgarbi, Salvini non la prende bene. «Il metodo della nomina ci lascia perplessi», commenta, «francamente ci aspettavamo qualcosa di più di uno che organizzava i salotti all'Ottagono. Speriamo di essere smentiti». Uno degli scontri più epici è quello sulla proposta salviniana di riservare vagoni della metro ai passeggeri extracomunitari in puro stile apartheid (giugno 2009). Giulio Gallera definisce la proposta «razzista, non merita commento». I due litiganti continuano a punzecchiarsi per tutto il 2010 sul condono per le multe dell'Ecopass (Gallera favorevole, Salvini contrario), sullo scandalo delle molestie sessuale dell'ex assessore all'ambiente forzista Paolo Massari a una diplomatica norvegese. Salvini dichiara: «Bene ha fatto il sindaco a chiedere le dimissioni di Massari visto che il suo non è un caso politico, ma un caso di squallore personale. Ci auguriamo che sia l'ultima performance che una parte della maggioranza regala a Milano». Gallera invece fa il garantista verso il collega di partito e l'accusa finisce in nulla. Massari sarà arrestato per stupro dieci anni dopo, a giugno del 2020. Sempre nel 2010, a settembre, i due litiganti tornano a scontrarsi. «Il ministro Maroni ha salvato l'amministrazione comunale da una figuraccia», dichiara Salvini. «A differenza del Pdl, la Lega sui rom ha una idea sola». Che non è molto diversa da quella di FI ma quando non c'è simpatia ogni occasione è buona. «Se un funzionario pubblico come il Prefetto non segue le indicazioni ricevute dal ministro dell'Interno allora si deve dimettere», attacca Gallera, «oppure il ministro Maroni ha detto pubblicamente cose differenti rispetto alle indicazioni date al Prefetto e allora significa che la Lega vuole che ai rom siano assegnate le case popolari». Poi i due prendono strade diverse. Salvini fa carriera nel partito a livello nazionale. Gallera va in Regione, dove proprio Roberto Maroni lo nominerà assessore alla sanità il 28 giugno 2016 al termine di un braccio di ferro durato mesi dopo l'arresto del precedente assessore, il forzista Mario Mantovani. Gallera, primo degli eletti nelle elezioni del marzo 2018 con 11722 voti e nuovamente assessore al Welfare, gestisce un potere enorme derivante da un budget annuale di 19 miliardi di euro, pari a quattro quinti dell'intero bilancio regionale. Tutto questo, nonostante il declino di Berlusconi e di Forza Italia. Ma la lite continua. Un lancio Ansa del marzo 2019 riporta questa dichiarazione di Gallera: «Un decreto legge specifico per mantenere nelle scuole dell'infanzia i bambini non vaccinati sarebbe un autogol preoccupante in tema di immunità e di educazione alla prevenzione ed un passo indietro per la salute dei nostri figli. Non servono proposte di legge di retroguardia». L'assessore al Welfare della Regione Lombardia commenta così la proposta del vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini in tema di obblighi vaccinali. Nessuno dei due lo poteva sapere ma era l'inizio di una nuova guerra.

Repubblica.it il 12 settembre 2020. "No", quello di Giorgetti sul referendum non è uno strappo. È il commento di Matteo Salvini da Matera, durante un comizio a sostegno del candidato sindaco di centrodestra, Rocco Luigi Sassone, dove anche qui è stato accolto tra fischi e contestazioni come ieri nella tappa di Torre del Greco. "Se qualcuno - ha aggiunto Salvini - la pensa in maniera diversa, sicuramente non mi arrabbio e non mi offendo. Il referendum è il trionfo della democrazia, la Lega non è una caserma a differenza di altri movimenti siamo uomini e donne liberi. Noi abbiamo votato 'sì' perché il Parlamento può lavorare efficacemente anche con meno parlamentari". Quel "qualcuno" a cui fa riferimento Salvini è appunto Giancarlo Giorgetti, il numero due del Carroccio che ieri ha precisato: "Al referendum voterò No. E lo farò convintamente" sfidando così Salvini che invece ha scelto il Sì. "La posizione sul referendum" della Lega e di Matteo Salvini è dunque per il "sì, per coerenza. Ho votato quattro volte 'sì' e voterò per la quinta volta 'si'. Non voglio fare - ha aggiunto - come un Renzi qualunque che prima vota 'no' e poi per salvare la poltrona vota "sì"". 

Salvini sul Wall Street Journal. Tra i vari impegni della campagna elettorale, Matteo Salvini ha rilasciato un'intervista al Wall Street Journal dove affronta temi di politica internazionale come le elezioni americane e tematiche ma anche questioni legate alla politica italiana. Su Donald Trump ha detto: "Ero uno dei pochi politici italiani che credeva nella sua vittoria e che ha fatto il tifo per lui quattro anni fa. E continuo a credere che sia stato un buon presidente e spero che venga rieletto". Su alcune questioni internazionali, ha proseguito l'ex ministro dell'Interno "come le relazioni con la Cina, con l'Iran e la stretta relazione con Israele - abbiamo la stessa identica opinione. Se io fossi primo ministro, Gerusalemme sarebbe riconosciuta come capitale di Israele dal mio governo e le relazioni con Cina e Iran sarebbero sospese". Il leader della  Lega affronta anche il tema europeo: "Il nemico del sogno europeo è la burocrazia di Bruxelles. Non è Salvini. Questa burocrazia europea ha tradito il sogno europeo. Il trattato fondante della Ue aveva stabilito la piena occupazione come sua priorità. Quindi il lavoro - che è teoricamente materia della sinistra, ma di cui i socialisti si sono dimenticati - la piena occupazione e, aggiungerei io, anche famiglia e immigrazione". Non mancano i passaggi sul processo di Catania che - ricorda il WSJ - potrebbe costargli fino a 15 anni: "Penso che il processo finirà in niente. Durante il mio mandato come ministro, abbiamo dimezzato il numero di morti e dispersi in mare". Salvini scommette sul voto prima del 2023: "Più che i politici, sarà la società a far saltare questo governo".

Marco Conti per ''Il Messaggero'' il 12 settembre 2020. «Conosco due delle tre persone (arrestate ndr), sono persone oneste, corrette e quindi dubito che abbiano chiesto o fatto qualcosa di sbagliato». La difesa di Matteo Salvini arriva di prima mattina parlando a Radio anch' io e copre almeno due dei tre commercialisti finiti ai domiciliari nell'inchiesta milanese sul caso Lombardia Film Commission. Intervento dovuto, seppur bilanciato da una ribadita «piena fiducia nella magistratura», perchè l'inchiesta rischia di mettere in crisi i meccanismi di selezione dei collaboratori che dovrebbero sostenere l'azione politica del Capitano. Ed è qui che la Lega per Salvini premier mostra ancora una volta - dopo il caso Gianluca Savoini - i suoi limiti rispetto alla Lega Nord della stagione d'oro di Umberto Bossi quando in Parlamento, o a far da consulenti, ci si arrivava con tutt' altri meccanismi. Chiusa con la performance delle scope la stagione del Senatur, arrivato prima Roberto Maroni e poi Matteo Salvini alla guida del partito, sono cominciati i dolori con le responsabilità per quei 49 milioni di rimborsi elettorali spariti che i tre segretari si sono rimbalzati a suon di bilanci e che sono ancora al centro di un'inchiesta della magistratura milanese. I due commercialisti sui quali Salvini prova a mettere la mano sul fuoco sono i due consulenti dei gruppi parlamentari che frequentano Montecitorio e Palazzo Madama ormai da anni. Tanto potenti che alla Camera Andrea Manzoni - formalmente revisore contabile della Lega - ha il privilegio di occupare la stanza che per anni fu di Umberto Bossi, cedutagli senza batter ciglio dal capogruppo Riccardo Molinari. Nel centrodestra cresce l'attesa per il risultato delle regionali del 21 settembre anche per regolare qualche conto interno che non può non toccare soprattutto Salvini in quanto leader di una coalizione che, malgrado tutto, continua a presentarsi unita ad ogni appuntamento elettorale. Se il 21 settembre finirà con un pareggio o dovessero farcela solo i candidati di FdI nelle Marche e in Puglia con la Toscana ancora al Pd, chi ha iniziato ad interrogarsi sul venire meno del tocco magico del «Capitano» avrebbe argomenti ancor più solidi per rilanciare un dibattito iniziato giusto un anno fa quando Salvini, nel giro di una settimana, perse la poltrona di ministro dell'Interno e il governo. Anche se le stagioni sono diverse, impressiona l'uso che la Lega di Bossi fece del suo consenso nei governi Berlusconi del 2001 e 2008. La Lega di Salvini lo ha raddoppiato, decuplicato rispetto alla segreteria di Maroni, in Italia e anche in Europa, ma politicamente non si avverte mentre l'annuncio di imminenti elezioni anticipate - che Salvini ripete da più di un anno - si è ormai sgonfiato e in arrivo ci sono gli oltre duecento miliardi del Recovery fund. Ed è qui, nell'intreccio tre le inchieste della procura milanese, i risultati delle elezioni regionali e l'avvio a Catania del processo per la nave Gregoretti, che rispunta Giancarlo Giorgetti. L'ex sottosegretario, numero due del Carroccio, mente raffinata che ha attraversato tutte le stagioni della Lega, l'altra sera si è schierato per il No al referendum. Lo ha fatto durante un'iniziativa nel milanese con il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana, il governatore che dall'emergenza Covid è uscito con più ammaccature. Giorgetti spiega il suo No con l'intenzione di non voler fare «un favore ad un governo in difficoltà, incapace di gestire il contraccolpo economico al sistema Italia di questi mesi e in evidente imbarazzo in vista dei prossimi mesi, che saranno durissimi. Il governo Conte - conclude - è inadeguato. Ed è anche per questo che voterò No». Giorgetti - molto più di Salvini - si fa così portavoce del malessere del Nord e spinge sull'unica leva che ha a disposizione per far cadere il governo alla vigilia del varo del Recovery fund. Un mega-piano di spesa dove il Carroccio - ancor più forse di FdI e sicuramente di FI - non toccherà palla anche per la difficoltà della Lega nazionale di Salvini ad interloquire con quei mondi produttivi della Lombardia e del Nordest che per anni hanno fatto le fortune della Lega. Ed è vero che in democrazia i voti si contano e non si pesano, ma le elezioni sono lontane e i 209 miliardi molto più vicini. Giorgetti ha ancora una volta fiutato l'aria. A dispetto del suo carattere, si è esposto sul referendum nel tentativo di saldare l'unica competizione elettorale in grado di creare problemi alla maggioranza, con le preoccupazioni post-Covid di imprese e famiglie.

Repubblica.it il 13 settembre 2020. "No", quello di Giorgetti sul referendum non è uno strappo. È il commento di Matteo Salvini da Matera, durante un comizio a sostegno del candidato sindaco di centrodestra, Rocco Luigi Sassone, dove anche qui è stato accolto tra fischi e contestazioni come ieri nella tappa di Torre del Greco. "Se qualcuno - ha aggiunto Salvini - la pensa in maniera diversa, sicuramente non mi arrabbio e non mi offendo. Il referendum è il trionfo della democrazia, la Lega non è una caserma a differenza di altri movimenti siamo uomini e donne liberi. Noi abbiamo votato 'sì' perché il Parlamento può lavorare efficacemente anche con meno parlamentari". Quel "qualcuno" a cui fa riferimento Salvini è appunto Giancarlo Giorgetti, il numero due del Carroccio che ieri ha precisato: "Al referendum voterò No. E lo farò convintamente" sfidando così Salvini che invece ha scelto il Sì. "La posizione sul referendum" della Lega e di Matteo Salvini è dunque per il "sì, per coerenza. Ho votato quattro volte 'sì' e voterò per la quinta volta "sì". Non voglio fare - ha aggiunto - come un Renzi qualunque che prima vota "no" e poi per salvare la poltrona vota "sì"".

Bossi torna a ruggire contro Salvini: Settentrione barattato con i voti del Sud. Il Senatùr: "Senza Veneto e Lombardia, l'Italia non ha peso". Pasquale Napolitano, Martedì 11/08/2020 su Il Giornale. La fronda del nord rialza la testa nella Lega e mette nel mirino la «svolta nazionale» di Matteo Salvini. Scende in campo, dopo un lungo silenzio, al fianco dei frondisti, Umberto Bossi. Il fondatore della Lega Nord affida alla Nuova Padania, organo ufficiale del Carroccio e punto di riferimento della platea leghista al Nord, l'attacco contro la linea politica dell'ex ministro dell'Interno: «Oggi (il riferimento è alla svolta salviniana) il Nord viene barattato per i voti al Sud. La questione settentrionale, di nuovo al centro del dibattito leghista, con i venti frondisti che si levano da Lombardia e Veneto, resta il faro». «Io dico spiega il Senatur nell'intervista alla Nuova Padania, che Adnkronos anticipa nei passaggi salienti - che occorreva non avere paura di continuare a tenere alta la bandiera della questione settentrionale, anche se poi ti attaccano». Da Gemonio il vecchio leader ribadisce la sua posizione, già espressa all'ultimo congresso della Lega nord, lo scorso dicembre, contraria alla svolta nazionalista di Salvini: «È il Nord che deve muoversi», scandisce: «Perché tutto è rimasto come un tempo. Neutralizzata anche la spinta federalista, la nostra devolution, oggi il Nord è al centro di uno scambio». «Il Palazzo non ti dà niente, l'autonomia non te la vogliono dare, e si vede. Ma non è motivo per interrompere la battaglia - spiega ancora il Senatur -. Le ragioni del Nord sono vive e non sono cambiate. Il Nord fa ancora paura a Roma, senza la Lombardia e il Veneto l'Italia non è ricevuta da nessuno, non pesa economicamente, politicamente, commercialmente. Dove ci sono Lombardia e Veneto invece si vince». Il messaggio è ancora una volta contro Salvini per il fallimento della trattativa sull'autonomia. Poi Bossi ricorda i valori (che oggi sembrano traditi) su cui è nata la battaglia del Carroccio: «La Lega è nata perché c'erano due Italie con esigenze diverse, velocità diverse, una politica marcatamente assistenziale che non dava frutti. Il Nord era già in Europa, ma Roma guardava a Sud. Come oggi.... Volevamo dissequestrare le nostre regioni che stavano per finire nelle mani della mafia, della camorra, della 'ndrangheta. Il Nord doveva reagire, e cacciare via i corpi estranei della criminalità organizzata, dovevamo creare gli anticorpi e l'anticorpo era la Lega, nemico delle mafie». L'intervento di Bossi, che incassa subito l'apprezzamento di Gianni Favia, sfidante di Salvini al congresso del 2017, piomba nel bel mezzo della tempesta, scatenata in casa leghista dalla campagna di tesseramento per la «Lega per Salvini Premier» che manda in pensione la vecchia Lega Nord. Una mossa che fa soffiare in casa leghista venti di scissione e soprattutto malumori sulla leadership dell'ex ministro dell'Interno.

Estratto dell'articolo di Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 10 agosto 2020. (…) Ma come racconta uno degli uomini più vicini a Matteo Salvini, "questa era l'ultima delle cose che doveva capitarci, in un momento già complicato". Tre onorevoli "furbetti" (su cinque) richiedenti sussidio all'Istituto di previdenza appartengono alla loro scuderia. (…) Il segretario non trattiene la rabbia, scopre che i "sospettati" sono in gran parte suoi parlamentari negli stessi minuti in cui il sito di Repubblica ne dà notizia. Addio: primo giorno di vacanze in Toscana (dopo il comizio mattutino con tanto di contestazione a Viareggio) mandato per aria. "Sono incazzato e deluso, anche se la responsabilità è dei singoli e non può essere attribuita alla Lega", è sbottato coi suoi al telefono, con epiteti vari affibbiati ai tre. E se la misura immaginata su due piedi non è l'espulsione ma la sospensione è perché prima, spiegano i suoi, "vogliamo sapere cosa obiettano questi tre". Con la speranza vaga che siano stati i loro commercialisti e non i diretti interessati a presentare istanza. Un deputato forse mantovano, un meridionale e una donna, sono i tre identikit rimasti però privi di riscontri fino a tardi. Quel che è deflagrata subito, a dispetto della Bestia salviniana, è la reazione sulle sue pagine Facebook e Instagram: commenti sarcastici se non insulti. "Chiunque siano, immediata sospensione", twitta Salvini nel tardo pomeriggio. Una rapida ritirata rispetto a quanto aveva dichiarato con sdegno solo tre ore prima, dando la misura di quanto non potesse immaginare fossero suoi uomini: "Che un parlamentare chieda i 600 euro destinati alle partite Iva in difficoltà è una vergogna. Che un decreto del governo lo permetta è una vergogna. Che l'Inps (che non ha ancora pagato la cassa integrazione a migliaia di lavoratori) abbia dato quei soldi è una vergogna. In qualunque Paese al mondo, tutti costoro si dimetterebbero". Svelata l'appartenenza dei "furbetti", però, l'ex ministro non invoca più dimissioni ma la "immediata sospensione". Troppo tardi. Sulla sua pagina Facebook, proprio in coda a questo post, i commenti già non si contano. "Che tre dei cinque deputati siano leghisti è la schifosa normalità", gli replica @zucchinadimare, oppure "strano, nessun tuo post a riguardo", gli scrive D.B allegando la notizia che impazza sui siti. "Ha saputo dei parlamentari che hano preso il bonus e sono stati scoperti dall'Inps?", infierisce G.L. (…)

Estratto dell’articolo di Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 9 agosto 2020. Soddisfatti o rimborsati. La Lega Nord, col suo carico da 49 milioni di debiti verso lo Stato, sta restituendo in questi giorni i 50 euro che gli iscritti (nostalgici e non) hanno pagato da dicembre ad oggi per rinnovare la tessera al vecchio partito. […] L' anomalia viene svelata dalla denuncia mossa in questi giorni da Fava e Pini. Il sospetto da loro avanzato è che con l' escamotage delle tessere gratis si stia costruendo una maggioranza di tesserati salviniani "teste di legno" che al prossimo congresso della Lega Nord ricambierà il favore regalando simbolo e logo al nuovo soggetto politico nazionale. I "nordisti", al contrario, pretendono di poterlo mantenere in vita per correre alle amministrative. […]«Il rimborso è davvero strano per un partito che sarebbe debitore di 49 milioni e i cui iscritti avrebbero anche il diritto di devolvere i 50 euro a titolo di donazione», ragiona Pini. […]

Alessandro Sallusti e la verità che nessuno osa dire: "Salvini l'utile idiota di Conte e di Di Maio". Libero Quotidiano il 09 agosto 2020. Il governo Pd e M5s è nato dopo lo strappo di Matteo Salvini che ha voluto concludere l'esperienza gialloverde in anticipo. E se molti addossano al leghista la colpa di aver peggiorato la situazione, non è della stessa idea Alessandro Sallusti. Il direttore del Giornale, nel suo editoriale, prende le difese dell'allora ministro dell'Interno: "Per un attimo il leader della Lega pensò di poter svoltare, andando a votare forte del trenta e passa per cento che i sondaggi gli accreditavano. Ma l'attimo durò per l'appunto un attimo, fu da subito chiaro anche a lui che nessuno, ma proprio nessuno, aveva intenzione di consegnargli le chiavi del Paese mettendo fine anticipatamente alla legislatura". Infatti, nonostante la crisi di Ferragosto, gli italiani non andarono a votare. Anzi, si ritrovarono con un governo di incapaci che vanno avanti a suon di "salvo-intese". "I più, anche nel suo mondo - prosegue Sallusti - ritengono che fu un clamoroso sbaglio, figlio di inesperienza, di un eccesso di esuberanza e di sicurezza e, perché no, di arroganza. Ma i più dimenticano che la Lega non aveva i numeri parlamentari, né gli appoggi internazionali, per provare a incidere davvero sull'azione di governo". Per il direttore il leader della Lega non avrebbe potuto chiedere, né tantomeno ottenere qualcosa: "Salvini insomma, di lì a poco sarebbe diventato l'utile idiota di Conte e di Di Maio, che avrebbero comunque addebitato a lui l'inevitabile paralisi del governo e del Paese".

La Lega è solo Nord, il flop di Salvini e delle sue passeggiate al Sud. Gianluca Passarelli su Il Riformista il 9 Agosto 2020. Per capire cosa rimanga della Lega nord dopo il Consiglio Europeo che ha allocato 750 miliardi per il Recovery fund attribuendone 209 all’Italia bisogna partire da lontano, e non da Bruxelles. La Lega presenta il suo gioco, lo schema seguito per anni, sin dagli albori. Gli zoologi sanno che molti animali pur facendo percorsi lunghi, ed esplorando il terreno circostante, inevitabilmente, tornano alla propria tana. Sempre. Da cui non vogliono, non possono e non sanno allontanarsi. Questa dinamica è esattamente quanto successo alla Lega (Nord) e al suo capo, il senatore Matteo Salvini. Una volta liberatosi del fardello ideologico del partito fondato e guidato dal leader carismatico Umberto Bossi, Salvini ha pensato di potere condurre verso nuove lande la Lega e i suoi seguaci. Il tentativo audace di espandersi si è però schiantato contro la realtà fattuale, ché per costruire un partito nazionale non bastano escursioni culinarie o comizi in riva al mare. Certo, per diversi disattenti osservatori, e politici pragmatici dai palati poco fini, è apparso a un certo punto che fossimo di fronte alla Lega nazionale. Taluni con sprezzo del pericolo e dell’onta arrivarono a definire la Lega Nord quale novella Democrazia Cristiana, ossia il fu partito complesso, complicato, articolato, contraddittorio, controverso, ma che ha contribuito fortemente al consolidamento democratico del Paese. Il contrario della Lega, partito di estrema destra, xenofobo e basato sulla difesa di un solo territorio, il Nord, e di una sola categoria, gli imprenditori. Da quel territorio la Lega non è mai uscita, ha fatto delle escursioni, delle esplorazioni, dei tentativi, ma è sempre tornata alla tana. Salvini ha provato a stabilire delle casematte, degli avamposti in territori ostili, e cavalcando spregiudicatamente il razzismo contro i neri, gli immigrati, e ogni diverso, ha tentato di scatenare una guerra sociale aizzando gli animi del popolo minuto per celare l’assenza di proposte politiche valide per superare le diseguaglianze. La parabola discendente della Lega e del sen. Matteo Salvini è altresì evidente considerando le vicende politiche dell’ultimo anno trascorso. L’ebbrezza del 34% raccolto alle elezioni europee del 2019 ha indotto il capo della Lega Nord ad immaginare una possibile scalata al Governo, senza aver fatto i conti con la sua superficiale conoscenza delle dinamiche parlamentari e appena sufficiente di quelle di potere. Il territorio era per lui e i suoi peones culturalmente nuovo, estraneo, sebbene la Lega lo abbia frequentato per trent’anni e avendo governato per 10 degli ultimi 25 anni. Salvini non ha solcato i Palazzi ministeriali e ha snobbato quelli parlamentari non perché vagabondo o cialtrone, come pure comodo dire per il Partito democratico, per disinteresse o mancanza di rispetto, ma semplicemente perché quei luoghi sono altro rispetto a quanto a lui consono. Non avendo competenze specialistiche, ed essendo un politico generalista, era ovviamente meglio attrezzato per le riunioni con i propri elettori e soprattutto militanti, i quali per definizione, in qualsiasi partito non esigono prove empiriche rispetto alle proposizioni presentate. Inoltre, nel caso della Lega, la forte personalizzazione ha censurato qualsiasi discussione e definitivamente azzoppato un partito che negli anni aveva coinvolto in discussioni migliaia di persone su temi controversi, ma rilevanti (dal federalismo al ruolo dello Stato e al mercato). Che il disagio per i luoghi “nuovi” fosse persino una afflizione fisica era evidente in Salvini, che però ha accettato, sempre a favore di telecamera e senza contraddittorio, di recarsi nel tanto disprezzato Sud, di dialogare con i lavoratori statali da sempre scherniti dalla Lega, e finanche di indossare giacca/cravatta e occhiali dozzinali su consiglio di spin di provincia. Era come mettere la pelle di un orso sopra un cavallo. Nessuna novità, dunque, sotto il sole pallido di Bruxelles. Salvini sta giocando la sua legittima partita, e davvero non si capisce perché dovrebbe cambiare. La Lega è stata storicamente ostile all’Unione europea, tranne per una breve fase prima dell’Euro in cui cianciava di Europa delle regioni. Ma soprattutto la Lega è anti/italiana. E su questo punto Giorgia Meloni ha infatti abbandonato l’amico e competitore perché non riconoscere l’interesse nazionale sarebbe stato troppo per Fratelli d’Italia. Il Recovery fund è una policy importante, presenta vantaggi e qualche rischio calcolato, ma è nel complesso un’ottima notizia per il Paese. Per Salvini, come egli stesso ha recitato, la scelta del Consiglio europeo rappresenta una sciagura, proprio perché indebolisce il suo afflato, o meglio la sua presa nazionalista. In realtà, la saggia decisione dei leader europei, lo renderà ancora più aggressivo sul piano politico nei prossimi mesi, ma sarà inevitabilmente risucchiato nella spirale del nazionalismo territoriale, del Nord prima, del territorio produttivo che soffre per mano della strega cattiva prusso/francese. È inesorabile, Salvini non ha mai lasciato il Papeete, non può farlo, perché è la sua cifra, l’ambiente in cui nuota meglio. Fosse stato alla negoziazione sarebbe stato in grave imbarazzo non avendo i talenti per condurre una negoziazione che richiede savoir faire, conoscenza delle lingue, proposte, visione, competenze tecniche e abilità negoziali, reputazione e credibilità. Il resto è folklore, gioco delle parti, come le comparsate del leader nazionalista Geert Wilders, il cui atteggiamento però rappresenta un vero pericolo che mette a repentaglio la tenuta del tessuto sociale, culturale e politico dell’Unione Europea. Infine, va ricordata la recente rappresaglia di Salvini nei confronti della sinistra partendo da temi di destra. Dall’immigrazione, alla solidarietà, al lavoro, la Lega sta tentando di mettere in difficoltà i progressisti italiani giocando la carta del tradimento dei valori. In questa chiave va letta la provocazione su Enrico Berlinguer. Senza scomodare le persistenti suggestioni circa la Lega come partito portatore di istanze progressiste, la mossa di Salvini è un agguato valoriale al mondo di sinistra. Ma la vera partita è tra internazionalismo e sovranismo, sebbene qualche allocco pensi che la Lega lavori per i derelitti. Può darsi che finalmente il Pd capisca che con la Lega non c’è proprio nulla da dialogare sui fondamentali, e che pertanto dovrebbero essere lontani. Sulla questione settentrionale, ad esempio, farebbero bene anche ad essere più cauti alcuni dirigenti democratici. Il Sud non è la zavorra del Paese, che si salva solo unito. Per cui, meglio tornare a miti consigli sull’autonomia differenziata, sul Nord sofferente e il Sud inguaribile cialtrone. A meno che una parte del PD non consideri in cuor suo la Lega un modello da imitare, in qualche misura. Ma ricordino che la Lega non si è mai allontanata dalla tana, ha fatto solo una lunga passeggiata, ma tornerà, presto o tardi, guidata da Salvini o altri, nel quadrilatero tra Lodi, Treviso, Varese e Cuneo. È legge di natura.

Povera Lega Nord, Salvini ha buttato nel Po il sogno di Bossi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Agosto 2020. Non è un cambio di simboli, ma di identità. Lo spadone, il Carroccio, Pontida, la coppa di acqua del Po, la scimmiottatura di Asterix, più Obelix (l’amico gigantesco del gallo che mangia granita di cinghiale), le bardature con lenzuola verdi, Roma Ladrona. Tutta quella roba lì era un grande armamentario scenografico che voleva dire: secessione, via il Nord dal Sud, via gli italiani che producono da quelli che li derubano, andiamo piuttosto con i tedeschi, con le minoranze etniche delle montagne, e vai con la polenta e i knoedoli, tutti sulla ferrata e poi a ‘mbriagarsi di sgnappa e di vin, un po’ brilli, priapici (il “ce-l-ho-lunghismo”). Quel residuo di «Ma mi, ma mi» di Strehler col commissario di polizia meridionale che se la fa coi nazi «el me diséva sto brut terùn: si tu parlasse io firmo ccà, il tuo condono, la libertà». E la vergine Pivetti? Che l’era devota alla madonna e costituiva l’ala mariana ma con lo spadùn per signorine, tutta un’altra musica anche in torpedone, a cantare i nostri canti, ad amare le nostre montagne, a far le fabbriche nella nostra pianura e le partite Iva dei nostri tempi, e le congiure separatiste fora da quei terùn di merda che màgneno sempre i maccaroni co le polpette, e non è che siamo razzisti anzi mio nonno era di Catanzaro e la mamma di Canicattì eppure siamo tutti belli nordici. E poi Miglio. Ve lo ricordate il filosofo della Lega? Che signùr! Sciur! Che bella testa, che finezza, che arguzia, che dibattiti in tivvì anche col Massimo Cacciari che era contro ma era anche a favore e capiva e spiegava e se le davano che era un gran piacere. Quella Lega. Cazzo, compagni. Eddài, mica vuoi mettere co’ ‘sta roba del Salvini che l’è tutta piena di romànni co’ la pastasciutta in bocca e la salvietta al collo, ma anche ‘sti napoli del sud. Quello passato, sì, era un mondo. L’Umberto era un mondo. Lo vidi in Senato il giorno prima del coccolone in jeans e grinta e brindammo. Il giorno dopo, la botta. Mesi di coma. L’Umberto ce la fa, l’Umberto non ce la fa. E il Maroni? Era al sax. Molti di loro erano passati dai comunisti, l’Umberto aveva cominciato a studiare medicina. Poi aveva mollato tutto. Era rimasta quella voglia di Resistenza in montagna, di brigate Garibaldi e faceva quei comizioni antifascisti che se li sarebbe voluti mangiare vivi, ‘a te ricord? Oggi, ‘sto Salvini qui butta tutto in mare, tutto in vacca e fa la Lega di se stesso, nazionalista sovranista e via il Carroccio, e vaffanculo Alberto da Giussano, e vaffanculo Pontida, ma che belìn è? Che minchia ci rappresenta? Ma è Lega, questa? L’Umberto era un rivoluzionario da carbonari. Roba da cantina. Si cantava Ivan Della Mea, si cantava anche Brassens milanesizzato da Nanni Svampa, ci si inciuccava nelle cave, si amoreggiava anche al Carcano in pè, contr’al mur perché non avevi neanche la Seicento. Era un’Italia milanese di sinistra notturna da Navigli che quand’ ‘riva el cald e riesco no a dormir e vado in giro a vedere chi passa e chi attacca i manifesti al muro. Era un altro Nord, antigaribaldino, antitaliano, allocato su una isola utopica inesistente – la Padania – e avevano dato un’anima a un popolo unito soltanto nell’odiare Roma Ladrona, che poi era sempre la loro stessa Roma perché in fondo se l’erano venuta a prendere a cannonate proprio lor, quel Venti settembre del 1870. Comunque: negazionisti sull’Italia, mito celtico, razzisti a parole, sbruffoni e intelligenti, romantici e popolani, ma. L’Umberto era un figo (con la “g” mentre i romani dicono fico) terrificante, tutte le lo volevano fare, ai congressi vende le mutandine da «noi le nostre donne ce le scopiamo non vogliamo la fecondazione artificiale». Urla delle leghiste. Ma te l’immagini se l’Umberto avesse detto che apriva la Lega-Puglia? Gli avrebbero sparato. O Lega-Tor Bellamonaca? Ma siete scemi? Il Matteo ha capovolto tutto: partito nazionalista standard, buono sia per Orban che per Oberdan, tanto nell’autunno della storia tutti i gatti sono bigi e le mucche volanti, anche. Non stiano a guardare al capello. Tutti in culo alla Merkel e a Macron, morte all’Europa, morte all’Euro, Viva Borghi e viva Bagnai, hasta la victoria, forse. Nazionalismo misura extra-large, si porta sempre e gli puoi far fare un giro in lavatrice, programma multietnico. Italians first? Sai che trovata. Fòra l’africani. Però intanto il Balotelli che parla bresciano te lo tieni e fai finta di essere daltonico. La Lega perde la ragion d’essere, la veste, il contenuto, lo charme, il colore, le armi, il sex appeal. I fascisti – bella faccia di bronzo però ci credevano – cantavano faccetta nera sarai romana e per bandiera tu c’avrai quella italiana. Faccetta nera, italiana? Ma figurati. E adesso che succede? Succede che la Lega dell’Umberto, che veleggiava su un sogno pazzesco e mai avvenuto, ha perso la vela e il veto ed è diventata un monumento funebre che si regge su una sloganistica d’accatto: prima noi e poi loro, dovemo magnà mejo noi de li servaggi, ma signora mia non ha sentito che questi non si lavano mai. Ma perché fanno tanti figli se poi non hanno di che dargli da mangiare e ce lo vogliono rubare a noi? Col Matteo non si vola alto. Programmi, non pare. Federalismo? E ched’è, è robba che se magna? E poi, come dice l’Umberto che tutto vede e poco commenta: la Giorgia, nel senso della Meloni, s’è sganciata dal nazionalismo puro e si sta facendo rifare i panni da lady Thatcher, sia pure de noantri. Nelle mani di Crosetto, veleggia e risale. Ma Matteo, buttato il Carroccio nel santo Po, rischia di seguirlo sui fondali col cappio al collo.

Marco Cremonesi per il ''Corriere della Sera'' il 4 agosto 2020. «Il governo? Durerà fino a quando coloro che vogliono fare i presidenti della Repubblica non decideranno di liquidarlo». Maria Latella intervista Giancarlo Giorgetti alla festa della Lega romagnola, a Cervia. Il numero 2 del partito lo dice chiaro, le possibilità di un governissimo stanno a zero: «Io sono stato il propugnatore della possibilità che tutte le forze responsabili si mettessero al servizio del bene comune». Sennonché, «questa responsabilità è stata snobbata e il governo si sente forte anche dei poteri internazionali». Ma quando «tra qualche mese gli italiani subiranno i danni di questo atteggiamento, che cosa dovremo dire? Che qualcuno non ha saputo cogliere il momento storico». L'ex sottosegretario parla anche di legge elettorale: «Quello che va evitato è il ritorno a un proporzionale puro in cui partiti malconci fanno nascere e morire i governi nel Palazzo. Questo Paese ha bisogno di qualcuno non dico con i pieni poteri anche se quando lo dice Salvini è un dramma è quando lo fa Conte tutto va bene». Sui sondaggi in calo della Lega, è ottimista: «I sondaggi saranno le Regionali. Se vinciamo noi, il governo ne dovrà prendere atto». Il vicesegretario leghista, alla fine, a Cervia è intervenuto. Sia pure in video collegamento. Nessun caso Giorgetti, a sentire i leghisti: «Rappresentava la Lega a una cerimonia importante come l'inaugurazione del ponte San Giorgio». Certo, la sintonia non è quella dei tempi migliori, i malumori non sono scomparsi. Però è vero che Giorgetti è stato lo stratega per la Lega delle due ultime partite politiche significative, quella per arrivare al rinvio della legge elettorale e, nelle ultime ore, quella sulle preferenze di genere. Insomma, sarebbe falso che il vice di Salvini si sia messo da solo in stand by. È lui stesso a tratteggiare il suo carattere: «C'è chi è centravanti e chi gioca in porta, io fin da bambino mi sono messo in porta». Solo in un caso, ha detto, lascerebbe la Lega: «Se Salvini rinunciasse alla ragione per cui sono entrato, il principio di autodeterminazione dei popoli. Ma Salvini non rinuncia». È vero però che la scarsa propensione di Salvini alla trattativa politica a tutto campo per superare l'impasse politica non è stata condivisa da Giorgetti. Ma, sorpresa: i più salviniani tra i salviniani sono convinti che la colpa vera sia di Giorgia Meloni. Proprio mentre la leader di FdI prometteva che lei e Salvini andranno «al governo insieme per dare all'Italia un governo forte e coeso», un alto dirigente leghista sbuffava: «È lei che con i suoi no impedisce qualsiasi apertura politica, incluso il governo Draghi di cui parlava Giorgetti». Però, giusto ieri Salvini ha ammesso la possibilità di una trattativa persino con i 5 Stelle per l'elezione del capo dello Stato: «Se ci sono nomi di garanzia, sì». Di nomi, Salvini non ne fa. Ma resta sicuro sulla sua leadership nel partito: «Quella la decidono gli elettori il giorno del voto e la Lega è ampiamente il primo partito». In Liguria, però, a mettersi sulla strada di un buon risultato è la defezione di una figura come quella di Giacomo Chiappori. Leghista dal 1989, uomo simbolo della Lega ligure, ha rotto con il partito e si candiderà a governatore con Grande Liguria.

Estratto dell’articolo di Carmelo Lopapa e Claudio Tito per “la Repubblica” il 4 agosto 2020. (…) La parola "scissione", allora, per la prima volta scuote anche il Carroccio. Certo, in questo caso contano molto i rapporti personali tra i dirigenti: quelli che si sentono ancora legati al Senatur e quelli della generazione sovranista. E poi ci sono le divisioni regionali. La diffidenza è una caratteristica storica dei leghisti. Veneti e Lombardi sono da sempre avversari interni. (…) Il presidente della Regione Veneto nelle ultime settimane ha fatto testare in alcuni sondaggi il potenziale di una sua eventuale lista personale, la Lista Zaia. Risultato: nella sua regione conquisterebbe quasi il 40 per cento. E la Lega scenderebbe al 10. Una prospettiva che fa letteralmente impazzire l'ex ministro dell'Interno. Sarebbe uno smacco e una sfida. Non è un caso, infatti, che Salvini tenga gli occhi costantemente puntati su quella componente del partito. C'è un episodio, abbastanza recente, che fa capire quanto sia denso il sospetto. Toni Da Re è un eurodeputato del Carroccio, eletto nel 2019. Ma soprattutto è l'ex segretario della Lega in Veneto. Un fedelissimo di Zaia. Appena approdato a Strasburgo è stato rimosso. Al suo posto Salvini ha mandato l'ex ministro Lorenzo Fontana, tra l'altro uno dei testimoni viventi dei legami del Carroccio a trazione salviniana con la destra radicale, nella fattispecie con "Fiamma Futura". Il tutto è stato motivato con una norma statutaria che prevede l'incompatibilità tra parlamentare e segretario regionale. Peccato che quella disposizione è disattesa ovunque. Tranne, appunto, che in Veneto. La Lega, insomma, è una comunità in cui si litiga e non poco. Magari non lo si da a vedere, ma il fuoco dello scontro è sempre acceso. (…)

CHE ARIA TIRA NELLA LEGA? DAGONOTA l'11 giugno 2020. La leadership di Salvini nella Lega è ancora forte ma i mugugni degli scontenti aumentano. Soprattutto da parte di quel mondo vetero-leghista - fabbrichetta, partita Iva e territorio - che non ha mai digerito la trasformazione della Lega in un partito nazionale. E che vede nella guerra all’Unione europea, all’euro e a Bruxelles più danni che vantaggi. Le elezioni regionali sono uno spartiacque per gli equilibri interni. La vittoria di Zaia in Veneto e una sconfitta di Salvini per interposta persona in Toscana, con Susanna Ceccardi, renderebbe più forte la posizione di chi chiede collegialità nelle decisioni, svolta europeista e meno cazzeggio. Nel Carroccio, intanto, è già partito lo scaricabarile per il caso Lombardia. A Salvini viene rimproverato di aver teleguidato Attilio Fontana, attraverso l’ex compagna, l’avvocatessa Giulia Martinelli, capo della segreteria del governatore. Al Pirellone la resa dei conti sul “chi ha sbagliato più forte” potrebbe ritorcersi contro l’assessore Giulio Gallera, che è di Forza Italia e dunque più sacrificabile.

E.P. per “il Messaggero” l'11 giugno 2020. «A settembre arriverà l'onda del disagio sociale e la cavalcheremo. Il governo andrà in difficoltà. Io non ho fretta». Nella Lega in molti lo chiamano Matteo il temporeggiatore. Del resto lo stesso Salvini taglia corto: «Possono essere quattro mesi o due anni, ma ci stiamo preparando per tornare al governo». Il realismo di Giorgetti, nel suo colloquio di ieri con il Messaggero sull'impossibilità di andare alle elezioni in questo momento non scalfisce le convinzioni del Capitano. E i suoi fedelissimi invitano chi si agita all'opposizione a mantenere la calma. «E' l'architetto. Sta preparando il disegno, bisogna avere fiducia», spiega un big' della Lega. Nessuno, in realtà, ha intenzione di contrastarne la leadership ma in tanti che lo affiancano da anni nelle sue battaglie lo invitano a cambiare registro. «Matteo non può fare tutto da solo, non può reggere spiega uno dei dirigenti di primo piano tutto sulle sue spalle. La politica da campagna elettorale va bene per i sondaggi ma ora è arrivato il momento di organizzare la Lega come forza di governo». E allora l'appello rivolto nelle segrete stanze di partito è per una Lega meno leninista e più europeista. E che il Capitano faccia non solo il segretario della Lega ma anche il leader di una coalizione che vuole condurlo a palazzo Chigi. La comunicazione non c'entra «ma ci vorrebbe una vera segretaria politica, dovrebbe permettere che nella Lega ci siano anime diverse, non parliamo di correnti. Del resto c'è già una destra rappresentata da Zaia, la sinistra rappresentata da altri», dice la stessa fonte. Un partito più aperto, quindi. Anche sul modo di interfacciarsi con Bruxelles. La linea di Giorgetti sulla necessità di discutere di tutto, anche del Mes, di fornire garanzie a Berlino e Parigi sulla possibilità che «Conte non è l'unica alternativa che ha l'Italia» è sempre più condivisa nel partito di via Bellerio. La tesi della possibilità di un dialogo con il Pd in chiave interna, invece, è minoritaria. «La maggioranza sta facendo tutto da sola. E per noi è una fortuna», dice l'ex viceministro Garavaglia, «significa che toccheranno a loro anche i forconi». «A marzo Salvini ha aperto alla possibilità di un piano B' ma ha rischiato di rimanere con il cerino in mano. Difficile che faccia un'altra apertura», sostiene l'ex ministro Fontana, «Giorgetti parla di un esecutivo della Divina provvidenza? Qui ci vorrebbe l'esorcista ma in Europa è giusto sedersi al tavolo». «Noi gli fa eco il leghista Rixi non siamo contrari ad un confronto su un'ipotesi di governo istituzionale ma come si fa a fare una torta con il sale? Questo Parlamento non è in grado di dialogare. Basterebbe la nascita di un nutrito gruppo di moderati grillini ma al momento nessuno vuole staccare la spina». «E poi continua - adesso ci sono le Regionali, non si possono mandare messaggi di altro genere». Il ragionamento è sempre lo stesso: per un esecutivo di unità nazionale occorrerebbe che nessuno dei leader del centrodestra si sfilasse. E allora la spinta dei leghisti al proprio Capitano è quella di cominciare a giocare un'altra partita. Ovvero costruire sul serio la piattaforma di un centrodestra unito perché questo il refrain' «qui tutti vanno in ordine sparso». E' vero che non ci sono le urne all'orizzonte «tuttavia osserva un altro big' del Carroccio serve una linea univoca, magari anche un unico fronte. Per esempio che pensiamo di fare sulla legge elettorale visto che i rosso-gialli accelereranno sul proporzionale? E con la Merkel?». L'avversione per Conte e i grillini è ormai cronica ma le strade che vengono suggerite a Salvini sono in sostanza due: la prima porta al dialogo con il Pd, la seconda a stringere un patto di ferro con Meloni e Berlusconi. «Basta guerra dei selfie con Fdi e non dimentichiamo mai che il Cavaliere ha la potenza dei mezzi di informazione. Costruiamo un'alleanza di ferro», il consiglio che da settimane i dialoganti della Lega danno al proprio leader. «Senza ovviamente svantaggiare una forza che ha un consenso enorme e il favore delle piazze», la premessa. Di fatto la paura dei lumbard è l'isolamento. Da qui la richiesta a Matteo il temporeggiatore a parlare perché parli con la Ue e con «quei pezzi dello Stato» che remerebbero contro il premier.

Luca Bottura per “la Repubblica” il 29 maggio 2020. La presunzione della gauche più o meno caviar: se un leghista si esprime in italiano corrente, senza al contempo emettere sforzi di petto, partono i fuochi d' artificio. Accadde al Caporale quando rivelò che in gioventù, per rimorchiare al Leoncavallo, faceva il comunista. È successo a Bobo Maroni, il moderato che addentava le caviglie ai poliziotti ma prima (avveduto) si era fatto ritrarre su una panca mentre leggeva l' Unità . Sta capitando al presidente del Veneto, Luca Zaia. Che ieri, intervistato dal Giornale dei Giusti, ha pronunciato la frase: "Salvini stia sereno". Dunque a breve dovrebbe sedersi prima in via Bellerio e poi a Palazzo Chigi. Nella sua carriera esistono due picchi rilevanti. Il primo è l' assunzione di un autista, così evita di farsi fotografare in autostrada ai 200 all' ora e dare la colpa ai limiti troppo cogenti. Il secondo è l' ingaggio del virologo Crisanti, il quale gli ha evitato di schiantarsi col Covid. Rispetto a Fontana, ne convengo, Eisenhower. Ma a buriana appena passata già Zaia staziona in tv e intima al suo salvatore di non andare in tv a fargli ombra. Uno senza il quale sarebbe ricordato come il tizio che accusava i cinesi di mangiare topi vivi. Insomma: per la "ola", almeno, aspetterei.

Gad Lerner per “il Venerdì - la Repubblica” il 29 maggio 2020. Ammetto di nutrire un sentimento di (perversa?) simpatia nei confronti del deputato leghista bergamasco Daniele Belotti, recordman italiano di preferenze, 105 mila alle elezioni del 2018, buona parte delle quali raccolte nella martoriata Val Seriana. Sì, proprio lui, quello che il 14 maggio scorso alla Camera reagì alle critiche espresse al sistema sanitario lombardo dall' onorevole messinese Giovanni Currò (M5S) divaricando platealmente il pollice e l' indice di ambo le mani nell' inequivocabile gesto di minaccia: «Ti faccio un c così». Trattasi di una promessa che il Belotti, nei suoi 52 anni di vita, deve aver reiterato centinaia di volte sugli spalti della curva Nord dell' Atalanta, cui è ininterrottamente abbonato da quando di anni ne aveva solo sette. Ol belòt è ormai il leader riconosciuto di quei focosi ultras nerazzurri, non proprio degli agnellini. La mazzata del Covid si è abbattuta su di loro proprio quando la squadra rivelazione delle ultime stagioni del calcio italiano si era affacciata sul palcoscenico europeo. Bisogna riconoscere che hanno reagito distinguendosi in encomiabili opere di volontariato, al fianco degli alpini e dell' associazionismo cattolico. Chiedere a Belotti se si sente prima dirigente politico o capo ultras sarebbe insensato: lui è figlio di salumieri con bottega in piazza Pontida. Un nome, un programma: per anni è stato lui lo speaker dei raduni leghisti sul "sacro" pratone, prima che gli subentrasse il fedelissimo di Salvini, Alessandro Morelli. Ma in compenso Belotti, dopo aver fatto il segretario del Carroccio a Bergamo e l' assessore regionale, ha svolto incarichi di commissario politico nelle nuove diramazioni leghiste di Lazio e Toscana, prima di diventare nientemeno che capogruppo alla Commissione Cultura di Montecitorio. Del resto, non è forse autore di ben tre libri? Tutti dedicati, ça va sans dire, all' epopea della Dea Atalanta. La prima volta che mi sono imbattuto in questa figura di capopopolo, è stato allorquando l' antropologa francese Lynda Dematteo -impegnata in una ricerca sul campo sul leghismo bergamasco- entrò senza bussare nel suo ufficio di segretario politico e lo sorprese appoggiato al davanzale che leccava il gelato sparso sulla spalla di una nota militante. Per nulla turbato, Belotti le sorrise e la invitò a prenderne il posto. Diciamo che il femminismo non è il suo forte. Da lui ho anche ricevuto l' invito a un dibattito sull' immigrazione alla Berghem fest di Alzano Lombardo, cui purtroppo altri impegni mi impedirono di partecipare. Se mi richiama, e mi promette di non farmi un c… così, ci vado. Nell' attesa che diventi ministro della Cultura.

La ruspa di Salvini si è rotta, spariti ladri e migranti. Fulvio Abbate su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Era Salvini. Chi ne amava lo straordinario «animale politico» (cit.) deve sentirsi molto risentito, o magari soltanto notevolmente deluso. I titolari, anzi, gli affittuari dei residence populisti contavano molto sul talento ritenuto lungamente indubitabile di Matteo Salvini, lo consideravano tra i migliori concessionari naturali, autodidatta capace però di svelarsi campione, la fascia di “Capitano” al braccio per conclamate capacità, un centravanti superdotato, uomo del consenso. Pensavano addirittura che potesse raggiungere le vette del collega Orban già al governo, molto più della stentata, sebbene vittoriosa alle urne, Marine Le Pen. Nel nostro caso, da un chiringuito di Milano Marittima magari anche di Gioiosa Marea e Ionica. Erano assolutamente convinti che il prescelto, Salvini, avesse talento perfino magistrale da ricostruttore, pensa! Pensavano: ha rilevato un partito boccheggiante, la Lega Nord, che si caratterizza per la sua cifra localistica, da sabba nibelungico-brianzolo, facendone un progetto concreto del consenso globale, pure quelli cui un tempo lui orinava in testa, i “colerosi” meridionali, lo applaudono, un Maradona della politica, tutti a implorargli selfie, cose che accadevano una volta soprattutto ai divi Mediaset. Gli argomenti? Semplicissimi, gli bastava ampliare l’eco degli umori profondi, duodenali della piazza, della “gente”, del “popolo”, non quello blandito dai “comunisti con il Rolex”, no, quello vero, gagliardo, ruspante, il forcone pronto nello stanzino degli attrezzi accanto al Folletto. Incolpare i migranti d’ogni responsabilità, indicarli come i ladri del futuro dei residenti storici, “prima gli italiani” era scritto sul suo cappellino tattico, poi le tasse, troppe, troppe… Si era inventato addirittura un sentire cattolico devozionale e miracolistico personale, un sanfedismo in polo e bermuda, una sempre sua personale, ideale Collina delle Croci, anzi, dei rosari, raccolti uno per volta – «… un rosario un voto, un rosario un voto…» – simile a quella visitata dal papa polacco in Lituania, ma anche, volendo, La collina dei ciliegi, almeno quando il karaoke di Radio Rock gli metteva il microfono davanti e lui, simpatico, si buttava sulla base a cantare come fosse al Villaggio Tamurè: «E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante cancella col coraggio quella supplica dagli occhi… Planando sopra boschi di braccia tese». Queste ultime, volendo, anche protese nel saluto che sappiamo. Lui al centro, tra medagliette votive ed ellepì di Lucio Battisti, un portento. Perfino i dettagli sembravano perfetti nella percezione del suo popolo, nel senso che il “radical chic”, lo stronzone supponente, alle spalle, sugli scaffali della propria libreria bianca di designer durante il collegamento con un talk, mostra i dorsi dei libri Einaudi e Adelphi e magari anche un vaso di Ettore Sottsass, a queste finezze Salvini contrappone il pelouche da bancarella che dice “Abbracciami!”, lo stesso che, volendo, si applica con le ventose sul lunotto dell’auto, versione seriale di ciò che un tempo era il cane che dondolava la testa, o perfino la replica del barattolo di Merda d’artista di Piero Manzoni, sicuramente un regalo- «… Vedi, Matteo, e questa sarebbe arte? Mah!» – così tutti lì a diventare semiologi, a imbastire considerazioni del tipo: le mensole Ikea di Zingaretti sono vuote, le mensole Ikea di Salvini sono piene di significanti. Di oggetti decisamente forti alla vista, gli oggetti «dell’Italia che sul serio esiste, maggioritaria!». Tutto perfetto, anche i numeri gli davano ragione. Con molti a pensare implicitamente: irrilevante, se ci sia o ci faccia, certo è che colpisce il bersaglio, va a punteggio, come nel gioco delle bocce si avvicina sempre al pallino, e gli altri invece a corrergli dietro. Anche la Meloni che, inizialmente, sembrava arrancare, impossibilitata a fare altrettanto bene come l’alleato nell’opposizione, perché se lui dice «ruspa», tu, cercando di non apparire troppo fascista, cosa puoi dire di più? Salvo poi riprendersi, sia pure dopo una cosmesi moderata rispetto al clerico-postfascismo. Tutti a dire certo che a suo modo è davvero bravo, bravo anche quando va in giro con la maglia del leggendario Puskás, storica stella della Nazionale magiara di calcio, per non dire dei giubbini da piantone di questura. Tutti a un certo punto a pensare di imparare da lui, da Matteo che tacita ogni possibile dissenso accentrando su di sé l’intera propaganda della Lega risorta dall’ictus di Bossi, davanti all’uomo di mondo Giorgetti, lì accanto a pensare un «mah, vediamo dove vuole arrivare!», come la barzelletta di Totò con Pasquale, almeno a giudicare dalle rilevazioni di gradimento.  Poi, si sa come vanno le cose, arriva un’epidemia globale, e proprio Matteo diventa Pasquale: arrivano i primi schiaffi. Inutile adesso dire che la politica è più complessa dell’accusare le Ong, dare della “zecca” a una ragazza con i dread. Resta il fatto che improvvisamente gli sono venuti meno degli spauracchi perfetti: i migranti, i “professoroni”, i “radical chic”. Dove è finita “La Bestia” dei social del suo attendente mediatico Luca Morisi, quello che gli aveva anche messo in mano, come a una convention di collezionisti di militaria, il fucile Carcano? Mancava soltanto il selfie con il panzerfaust perché facesse la parte inversa dell’Allende sovranista assediato nel palazzo dell’Europa ladrona. Irrilevante ormai perfino la sua risposta a chi gli domanda se mai ha pippato coca, con lui che giustamente garantisce non aver mai toccato sostanze. Non c’è bisogno di essere politologi per intuire il declino di Salvini che riuscì a essere uno nessuno e centomila, con sottofondo di Mille giorni di te e di me di Claudio Baglioni; improvvisamente, la pallina della roulette si ferma e, pensa, va a finire sulla casella del Nessuno. Certo, si potrà anche risollevare, potrà anche trovare nuovi temi, “… fateci uscire, non possono tenerci prigionieri!” in questo costretto a contendere la fine del lockdown a Matteo Renzi, messo bene anche quest’altro, carotando nel profondo l’orrore subculturale di tutti noi, attuali proscritti d’Italia, anzi, “sudditi”; ci sarà mai vera sostanza per costruire il villino del sovranismo che vorrebbe innalzare? Solo un intellettuale di destra dall’abito cardato, sovente ospite dei talk, persiste nell’affermare che la solo destra sognata dalla sinistra non vorrebbe Salvini, perché Matteo è pop, un po’ come Mussolini, cioè «a misura d’uomo, più umano, più vero», come il Pippero di Elio e le Storie Tese, sincero. Magari la politica è un po’ più complessa, e chissà quanto sarebbe riuscito a reggere se, sulla fiducia, gli avessimo dato, chiavi in mano, come un’auto vinta alla lotteria, i “pieni poteri”. Quasi quasi, qualcuno così pensa, ma sì, diamoglieli, magari assistiamo al suo precipizio finale. Prima dell’euro stesso.

L'incoerenza del Capitano. Salvini e il 2 giugno, quando per il leader leghista non c’era “un cazzo da festeggiare”. Redazione su Il Riformista il 2 Giugno 2020. Oggi si professa patriota e difensore degli italiani, ma Matteo Salvini ha un passato che non può essere dimenticato. Il leader della Lega, sceso in piazza oggi a Roma assieme al centrodestra per la manifestazione “L’Italia non si arrende” in occasione del 2 giugno, soltanto pochi anni fa dimostra opinioni ben diverse. Ieri, per esempio, l’ex ministro dell’Interno aveva detto: “Grazie al presidente Mattarella: non solo ha scelto di essere a Codogno per la Festa della Repubblica, ma col suo appello alle Istituzioni che devono essere all’altezza del dolore degli italiani ricorda a tutti che le vittime e la sofferenza non possono essere la scusa per miseri attacchi politici. Un messaggio quanto mai opportuno, dopo che abbiamo letto addirittura di ‘dossier’ per colpire la Lombardia e i suoi morti”. Eppure nel 2013, in occasione del 2 giugno, festa della Repubblica, Salvini rimarcava in un tweet come non ci fosse “un cazzo da festeggiare”. Non pochi utenti sono tornati a commentare quel messaggio ricordando il cambiamento nella linea politica del Capitano, passato dai toni di scherno nei confronti del 2 giugno a difensore della patria e degli italiani.

Da deejay.it il 2 giugno 2020. Negli anni ’80 l’attuale presidente della regione Veneto Luca Zaia aveva 18 anni, e si pagava gli studi facendo il PR per le discoteche. Negli ultimi giorni è circolata sul web una foto che lo ritrae giovanissimo vicino ad Albertino, il quale ha pensato quindi di telefonargli nella puntata di sabato 30 maggio del Deejay Time. “Era un grande momento per Radio DEEJAY, tu eri una star, ricordo i ragazzini in coda per un tuo autografo”, gli racconta Zaia. “Io organizzavo le feste e mi pagavo gli studi facendo il PR: Albertino era la nostra special guest”. Nella chiacchierata il governatore del Veneto ragiona con Alba sul bagaglio di esperienze che gli ha lasciato questo lavoro, e su come gli sia poi tornato utile nella carriera politica: “Mi davano del discotecaro: ma è un autogol. Non c’è da vergognarsi, ma da esserne orgogliosi. La discoteca è una scuola di vita”. Infine, si sbilancia sulla riapertura in Veneto di Club e discoteche (“Spero di riaprire per il 15 giugno”) e sceglie una canzone di quell’epoca da passare come disco.

Tra le due Leghe la lombarda primeggiava, ma adesso i più potenti sono i veneti di Zaia. Roberto Vicaretti il 19 aprile 2020 su Il Dubbio. Nell’era pre- Covid 19 il quadro politico era chiaro. C’era un governo con una base parlamentare numericamente buona, un amalgama politico non realizzato e, forse, non realizzabile e con un consenso tra i cittadini, sondaggi alla mano, non proprio entusiasmante. E c’era un’opposizione forte nel Paese, reduce da una lunga sequenza di successi elettorali a livello regionale e territoriale, con un leader riconosciuto come Matteo Salvini. Ma il passaggio di Covid- 19 nel nostro Paese non ci lascerà in eredità lo stesso mondo politico dell’epoca precedente e il segretario della Lega dovrebbe prepararsi alla nuova fase senza dare nulla per scontato. Alcune novità dipenderanno inevitabilmente dalle dinamiche internazionali, ma molto sarà legato anche a come partiti e leader si stanno muovendo in questi mesi. Fa certamente bene Salvini a marcare a uomo il premier Conte e le forze di governo, ma una parte importante delle sue attenzioni l’ex ministro dell’Interno dovrebbe dedicarle a quanto accade in casa sua. È da lì che possono venire le insidie maggiori e il pericolo ha il volto dei due governatori simbolo del centrodestra: Attilio Fontana e Luca Zaia. Per ragioni di storia e di cronaca. Lombardia e Veneto sono la culla del leghismo e, con buona pace del progetto nazionale e sovranista, il Carroccio dovrà sempre fare i conti con le proprie origini. Ma Lombardia e Veneto sono anche due delle zone d’Italia più colpite dall’epidemia e, al tempo stesso, rappresentano due diversi modelli di risposta all’emergenza. Reazioni che hanno prodotto risultati opposti e oggi Luca Zaia può immaginare la fase 2 del suo Veneto senza suscitare preoccupazione e una buona dose di paura nel resto d’Italia, mentre la Lombardia di Attilio Fontana non può fare lo stesso. C’entra, ovviamente, la diversa dimensione dell’epidemia. Ma non solo. Semplificando al massimo: nella tragedia Covid- 19 quella del Veneto – al netto del clamoroso scivolone sui cinesi che mangiano topi – è la storia di una risposta di successo, quella della Lombardia di una lunga sequenza di errori e passi falsi. E la difesa accorata e appassionata che Salvini fa della sua Regione può diventare un clamoroso autogol anche perché dietro le mosse recenti del governatore Fontana si intravedono bene la spinta e il suggerimento politico del segretario della Lega. Spinte e suggerimenti che, al contrario, non superano il confine veneto dove Luca Zaia applica il suo “prima i Veneti” anche rispetto alle esigenze politiche dell’ex ministro dell’Interno. Salvini rischia così di pagare il disastro lombardo, senza incassare il risultato del lavoro veneto. E di ritrovarsi un contendente interno per la leadership del centrodestra. L’apprezzamento di Silvio Berlusconi per Zaia è noto e, soprattutto, il governatore ha le physique du rôle per attirare anche quel mondo moderato ancora restio a cedere alle sirene del salvinismo. Nella storia politica e nel lavoro amministrativo di Zaia si è, infatti, sedimentato, accanto al leghismo autonomista delle origini, anche buona parte della tradizione politico- culturale del Veneto bianco e democristiano, decisamente lontano dal populismo sovranista di Salvini. Il semisilenzio di Zaia sul Mes, cavallo di battaglia della Lega in Parlamento, malcela anche una lettura europea diversa tra il segretario e il governatore, attento agli umori del tessuto imprenditoriale veneto che, per usare un eufemismo, non vedrebbe bene un’ipotesi di Italexit. Non sono passate inosservate le parole che il segretario ha usato per rispondere a una domanda sulla suggestione del presidente veneto a Palazzo Chigi: “È uno dei migliori che abbiamo nella Lega. È una risorsa in futuro, per tutto il Paese”. Un elogio condito, però, di tanti paletti con quella parola – “risorsa” – che non è mai viatico di buone soluzioni nella politica italiana recente. Rischia così di tornare alla luce, seppur in uno scenario completamente diverso, uno dei tornanti tipici della storica della Lega: il conflitto tra veneti e lombardi. In principio fu Umberto Bossi e la sua Lega Lombarda contro la Liga Veneta; un duello politico durissimo che consegnò la guida del mondo federalista al Senatur. Un confronto che, sottotraccia, è andato avanti negli anni con una costante: il predominio del fronte lombardo. L’ultimo veneto a provarci, Flavio Tosi, si è ritrovato fuori dal movimento. I meccanismi e la storia del partito dicono che Salvini non ha nulla da temere, ma, per la prima volta nella storia del Carroccio, la sfida non è per la guida della Lega. Il traguardo è più ambizioso e nella strada per Palazzo Chigi bisogna saper costruire alleanze, curare relazioni trasversali e mostrare una buona dose di realismo politico. Sono queste caratteristiche a fare di Luca Zaia il primo sfidante del suo segretario federale.

Maurizio Belpietro per ''La Verità'' il 27 aprile 2020. Pare che qualcuno sogni di spaccare la Lega. Per dare vita a un governissimo, con dentro tutti, dal Pd ai 5 stelle, da Italia viva e Leu a parte di Forza Italia, in alcuni ambienti vicini alla maggioranza sarebbero al lavoro per dividere il partito di Salvini. Approfittando di un presunto momento di debolezza dell' ex ministro dell' Interno, le sirene governative vorrebbero ammaliare l' ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel primo governo Conte, ossia Giancarlo Giorgetti, senza tralasciare però Luca Zaia, che da governatore del Veneto è un altro dei pezzi da novanta dell' ex Carroccio. Non si sa se l' operazione di cui da giorni si mormora e che qualche quotidiano ha anche accreditato alla fine abbia fondamento, se davvero ci sia terreno fertile per una rivolta dei colonnelli leghisti. Spesso la fantasia dei cronisti gioca brutti scherzi, e dunque è possibile che qualcuno abbia ingigantito i malumori. Tuttavia, anche a voler prendere per buono il presunto ammutinamento nei confronti del Capitano leghista, vorrei ricordare ciò che è accaduto nel partito fondato da Umberto Bossi negli ultimi 25 anni. Già, perché le ribellioni al leader, ma soprattutto il tentativo di dividere il movimento per riuscire a tirarne un pezzo da una parte, non sono cose nuove per l' ex Carroccio. È vero che con gli anni molte cose sono cambiate, ma sino dalla sua fondazione la Lega è sempre stato un partito leninista, con il culto del capo, e chiunque vi si sia opposto diciamo che non è finito benissimo. Ho la fortuna di aver seguito il Senatur e le sue truppe sin dall' inizio o quasi, e dunque ho potuto osservare di persona molti degli scontri interni. Ricordo per esempio quello che vide contrapposti Bossi e Franco Castellazzi, un politico pavese che nei primi anni della storia leghista era di fatto il numero due del partito, nonché presidente della Lega lombarda. Nel 1991, fra il Senatur e il vice sorsero alcuni contrasti dovuti ai rapporti con il Psi e la Dc e in quattro e quattr' otto Castellazzi, che all' epoca era consigliere regionale lombardo, fu fatto fuori e sostituito ai vertici della Lega da Francesco Speroni. Contro l' ex numero due si scagliarono in tanti, Gianfranco Miglio compreso, e nonostante in seguito l' ex presidente abbia provato a ritornare nella mischia con una lista autonomista padana, fondando anche un movimento che si presentò alle elezioni provinciali, in poco tempo sparì dalla scena. Non meglio andò a Luigi Negri, un leghista di Codogno che, ai tempi del ribaltone orchestrato da Bossi contro Silvio Berlusconi, capitanò una pattuglia di lealisti nei confronti della Casa delle libertà. Nonostante l' appoggio garantito dal Cavaliere, la scissione finì malamente e tutti i rivoltosi sparirono in fretta dal Parlamento, rassegnandosi alle retrovie e in qualche caso al ritiro dalla vita politica. Qualcuno forse obbietterà che sono storie di un quarto di secolo fa, quando il partito era modellato su Umberto Bossi e non c' era spazio per nessun altro. Vero. Tuttavia, anche in tempi recenti ci fu chi pensò di sbarrare il passo a Salvini. Il Capitano aveva appena preso tra le mani una Lega ridotta al lumicino dopo gli scandali del Trota Renzo Bossi e di Francesco Belsito. Maroni aveva provato a risollevarne le sorti, ma il partito sembrava destinato a un lento tramonto e per questo l' ex ministro del Lavoro e dell' Interno scelse di concentrarsi sulla Lombardia. Flavio Tosi, sindaco di Verona e per qualche anno segretario della Lega Veneta, dopo due tornate provò a cercare una ribalta nazionale, candidandosi alla guida della Regione contro Zaia, ma fu sconfitto. Uscito dalla Lega, prima appoggiò il referendum di Matteo Renzi, poi fondò insieme con Enrico Zanetti e altri «Noi con l' Italia», ma alle politiche del 2018 non riuscì neppure a essere eletto nel Veneto. Sì, la storia della Lega è costellata di scissioni, anzi di tentativi di scissione, ma tutti sono finiti come ho raccontato. Ora c' è qualcun altro che prova a spaccare il partito? Prego, si accomodi: restiamo in attesa di seguire gli sviluppi del nuovo ammutinamento.

Addio Lega nord: Salvini chiude con il passato e lancia nuova sfida. Il Consiglio federale ha dato il via libera all'unanimità" al commissariamento degli organi della Lega nord. Commissario federale è il deputato Igor Iezzi. Gabriele Laganà, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Un evento storico per la politica italiana. Da oggi, infatti, la Lega nord, il partito nato nel 1991 dalla federazione di diversi movimenti autonomisti regionali, sostanzialmente non esiste più. Matteo Salvini ha, infatti, avviato il processo di rifondazione della ''Lega Salvini premier'', movimento nazionale creato due anni fa e che sta conquistando sempre più consenso tra gli italiani. Il Consiglio federale del vecchio Carroccio, tenutosi nella sede di via Bellerio con la pesante assenza del fondatore Umberto Bossi, ha dato il via libera "all'unanimità" al commissariamento degli organi del movimento nordista. Commissario federale è stato nominato il deputato milanese Igor Iezzi, ex giornalista della Padania e tra i più cari amici di Salvini. La Lega nord, di cui Bossi rimane presidente a vita, non chiuderà ufficialmente anche perché titolare del debito con lo Stato per la condanna sui rimborsi irregolari tra il 2008 e il 2010 ma, in pratica, resterà una scatola vuota. Una sorta di simbolo a testimonianza di un percorso politico lungo e talvolta difficile ma che ha lasciato profondi segni nella politica italiana. Salvini, segretario federale della Lega Nord dal dicembre 2013, ha parallelamente dato il via a un processo di riorganizzazione della formazione che porta il suo nome al fianco della dicitura "premier". Un modo, questo, per sottolineare la ferrea volontà di tornare al governo dopo. Per fare ciò, l’ex ministro dell’Interno ha sviluppato un piano ben preciso: allargamento del partito, presenza sul territorio, attenzione agli elettori che si riconoscono in altri schieramenti politici e, ovviamente, il prosieguo delle battaglie portate avanti fino ad ora. Il nuovo soggetto politico, che a breve sarà strutturato in dipartimenti tematici, entro dieci giorni avvierà un percorso di congressi locali, provinciali e regionali, lungo almeno un anno e che culminerà nel congresso nazionale. La guida del dipartimento Esteri sarò assegnata a Giancarlo Giorgetti. Una scelta, questa ben precisa e che risponde a due esigenze. Innanzitutto si vuole evidenziare come il partito sia compatto, senza distinguo di sorta. Poi, con Giorgetti, Salvini punta ad un nuovo corso in Europa, magari cercando con il passare del tempo di allontanarsi dalle posizioni sovraniste e populiste che hanno carrate rizzato la Lega nord fino ad ora. Un passo forse necessario per farsi accettare da Bruxelles . Una mossa azzardata che però potrebbe allontanare militanti ed elettori più euroscettici. Nel corso del consiglio federale, il segretario leghista ha parlato del recente voto in Emilia-Romagna e in Calabria, soffermandosi soprattutto sul dato deludente registrato dal partito nelle grandi città della "roccaforta rossa".

Lega: nata a Milano "Lega lombarda Salvini premier". (AGI il 10 febbraio 2020.) - E' nata, stamane a Milano, la Lega lombarda Salvini premier. L'associazione, articolazione regionale della formazione cui fa riferimento Matteo Salvini, è stata fondata, davanti ad un notaio, dai seguenti "soci fondatori": i deputati Paolo Grimoldi, Daniele Belotti, e Fabrizio Cecchetti, i senatori Gianmarco Centinaio e Stefano Borghesi, e il governatore lombardo Attilio Fontana. Nell'articolazione del partito di via Bellerio, la Lega lombarda Salvini premier prenderà de facto il posto della vecchia Lega lombarda, fondata da Umberto BOSSI nell'aprile del 1984, costola dal quale il senatur, nel febbraio del 1991, costituì la Lega Nord, come confederazione delle varie formazioni autonomiste del Nord allora esistenti. "Questo nuovo movimento, analogamente alla Lega Salvini premier, proseguirà le battaglie che da anni portiamo avanti per i cittadini lombardi, per il territorio lombardo e per il suo sistema economico e produttivo. Le nostre stelle polari saranno Matteo Salvini, l'autonomia e sempre prima gli italiani", spiega Grimoldi.

Fuoco amico su Salvini, Bossi lo attacca: “Sbaglia, il nazionalismo fa perdere la Lega”. Redazione de Il Riformista il 3 Febbraio 2020. Fuoco amico su Matteo Salvini. Il segretario della Lega è stato duramente preso di mira dallo storico leader del Carroccio Umberto Bossi, quando il partito aveva ancora il ‘Nord’ nel nome. Un intervento a gamba tesa a pochi giorni dalla decisione di Salvini di rifondare la “Lega Salvini premier” e di commissariare invece gli organi della Lega Nord, di cui Bossi rimane presidente a vita. L’atto di accusa di Bossi arriva dalle pagine di Repubblica, in una intervista concessa dalla sua abitazione di Gemonio, a Varese, a Gad Lerner. Lo storico leader della Lega Nord ha più volte ribadito la sua posizione contraria alla svolta nazionalista di Salvini: “Altro che prima gli italiani, per quello basta e avanza la destra nazionalista. Ora spero sia chiaro: se trasferisci la Lega al Sud, poi diventa più difficile chiedere il voto alla Lombardia, al Veneto e all’Emilia”, rivela Bossi. “La gente si chiede: la Lega fa ancora gli interessi del Nord, sì o no? Basta fare due conti. Più della metà degli elettori italiani vive sopra il Po. Se perdiamo questi, è finita. La priorità è batterci per l’autonomia, e per raggiungerla l’esperienza insegna che serve mantenere anche buoni rapporti con la sinistra, più sensibile della destra a questo tema”, apre quindi il "Senatur". Bossi, che non era presente alla riunione durante cui è stato deciso il commissariamento, nell’intervista ha detto di conoscere il nuovo commissario Igor Iezzi solo di vista («È un ragazzo, questo il suo limite») e ha spiegato di aver aderito al gruppo “Lega per Salvini premier” in Senato “per forza di cose”, “ma una tessera nazionalista mica fa per me”. 

Bossi: ''Salvini sta sbagliando, il nazionalismo è un danno per la Lega''. Il leader della Lega nord Umberto Bossi, intervistato da Repubblica, critica la svolta di Salvini e rilancia sulla questione settentrionale. Gabriele Laganà, Lunedì 03/02/2020 su Il Giornale. La svolta nazionalista impressa alla Lega nord, oggi Lega Salvini premier, non piace a Umberto Bossi, il fondatore del partito nato nel 1991 dalla federazione di diversi movimenti autonomisti regionali. E il Senatur fa poco o nulla per nascondere il suo malcontento e le sue preoccupazioni. In un colloquio con Gad Lerner pubblicato su Repubblica, Bossi ha ammesso di essere tormentato per il futuro della Lega, nata con un’anima lombarda e poi padana e non sovranista e populista. I timori sono aumentati dopo che lo scorso venerdì al vertice del partito al posto di un segretario è stato nominato un commissario, il giovane deputato Igor Iezzi, ex giornalista della Padania e tra i più cari amici di Salvini. Il Senatur si augura che questo non significhi che la Lega ''non deve fare più niente. Capisco che il commissario serva a dare garanzie ai magistrati, questa Lega Nord non può sparire del tutto perché deve pagare i soldi''. Bossi, però, non si arrende e si mostra più combattivo che mai tanto da rilanciare la questione settentrionale affermando afferma in modo perentorio che “il problema dell'autonomia del Nord resta più aperto che mai, non sa in quanti mi vengono a trovare dal Veneto e dalla Lombardia, e io cerco di convincerli a restare nella Lega perché è qui che dobbiamo dare battaglia. Non penso affatto che sia finita". Il fondatore della Lega, applaudito nell’ultimo congresso federale, ha ammesso che se anche il nuovo statuto consente la doppia iscrizione non prenderà la tessera della ''Lega per Salvini premier''perché una ''nazionalista mica fa per me. Ci sono tanti militanti che non approverebbero. Molti sono già andati via, attirati dal movimento Grande Nord di Roberto Bernardelli. Sbagliano prospettiva. Soffrono perché la Lega ha tolto la parola al Nord. Ma non è finito il mondo. Un recupero è possibile". Imbeccato da Lerner, Bossi si è detto sorpreso dai risultati, da lui giudicati non positivi, della Lega alle Regionali del 26 gennaio. Per il Senatur, la svolta nazionalista che doveva servire a sfondare al Sud non è stata un successo. Anzi Bossi rincara la dose arrivando a fare i complimenti a Stefano Bonaccini, vincitore della tornata elettorale nel feudo rosso dell’Emilia-Romagna, giudicato bravo ''ad agganciarsi per tempo al treno di Lombardia e Veneto, con il progetto del regionalismo differenziato''. È questo il punto su cui insiste Bossi. La Lega nazionalista ha commesso l’errore di concedere alla sinistra ''uno spazio che doveva essere il suo''. ''Come non capire che il popolo emiliano- ha aggiunto il Senatur- vuole raggiungere il traguardo dell'autonomia, sul modello di Zaia e Fontana. Era la prima cosa da offrirgli. Altro che prima gli italiani, per quello basta e avanza la destra nazionalista''. Secondo Bossi, se ''trasferisci la Lega al Sud, poi diventa più difficile chiedere il voto alla Lombardia, al Veneto e all'Emilia” perché “la gente si chiede: la Lega fa ancora gli interessi del Nord, sì o no? Basta fare due conti. Più della metà degli elettori italiani vive sopra il Po. Se perdiamo questi, è finita''. Lo sfondamento nel Mezzogiorno per il Senatur non avverrà mai perché “nell'Italia meridionale l'elettorato si divide per clientele, come facciamo a credere che la Lega nazionalista diventi primo partito del Sud? E' stato un errore provarci. Le ultime elezioni ci dicono che la strategia di andare al Sud è entrata in crisi. Torniamo indietro fin che siamo in tempo. Sono convinto che l'autonomia è una meta che raggiungeremo, per questo tengo duro". L’obiettivo è quello di tutelare il nord. E per ottenere l’autonomia, Bossi consiglia di mantenere anche buoni rapporti con la sinistra in quanto “più sensibile della destra a questo tema". Ciò non significa, però, cambiare alleati. Il fondatore della Lega nord critica poi la mossa di Matteo Salvini di allearsi in Europa con partiti di estrema destra o populisti ed euroscettici come il Front National di Marine Le Pen, il tedescco Alternative fur Deutschland o il sovranista ungherese Orbàn."Cercava una legittimazione internazionale. Quel genere di alleanze ti può aiutare momentaneamente a prendere qualche voto in più, ma poi nessuno li vuole, non sono spendibili per conquistare dei risultati. Gli alleati ti devono servire per governare, se scegli l'estrema destra dopo è difficile trovare qualcuno che fa gli accordi con te”. Bossi confida che a parte i suoi fedelissimi leghisti della prima ora, Bossi non ha molti rapporti con lo stato maggiore del nuovo corso. L’unico con cui parla è Giancarlo Giorgetti che spesso gli fa visita.''Ma il suo ruolo ora è di indirizzare Salvini. Poi, si sa, ci sono altri che attaccano il carro dove ordina il padrone''. Il Senatur, quasi in uno scatto di nostalgia, nel corso dell’intervista parla anche di uno dei protagonisti della Prima Repubblica: Bettino Craxi. Bossi ricorda che con il leader socialista non ha mai avuto un ero contatto personale anche perché Craxi''mi mandava i suoi emissari in regione Lombardia'' per chiedere voti in Parlamento a Roma in cambio del federalismo. Ma il Senatur, seppur tentato, non ha mai ceduto: ''Era una scorciatoia con la trappola in fondo''. A chiudere intervista ci pensa la moglie Manuela che ci tiene ad aggiungere un ricordo della sua vita privata che le sta a cuore:"Conosce la storia di mio nonno paterno, Calogero Marrone, venuto su da Favara in Sicilia per dirigere l'anagrafe di Varese sotto il fascismo? Scoprirono che falsificava i documenti per aiutare a fuggire gli ebrei e gli antifascisti perseguitati. Per questo lo deportarono nel lager di Dachau dove trovò la morte nel 1945. Ora lo Yad Vashem di Gerusalemme lo ha insignito del titolo di Giusto fra le Nazioni".

Vittorio Feltri contro Umberto Bossi: "Dovrebbe stare zitto, Matteo Salvini è più bravo di lui". Libero Quotidiano il 4 Febbraio 2020. Un nuovo scontro tra Umberto Bossi e Matteo Salvini, con il primo che ha attaccato il secondo in un'intervista a Repubblica, criticando la svolta nazionalista impressa alla Lega. Da par suo l'ex ministro dell'Interno ha replicato al Senatùr affermando che i soli padri nobili della Lega sono gli elettori. Ennesimo scontro, la frattura tra i due è sempre più profonda. E cosa ne pensa, Vittorio Feltri? Il direttore di Libero ha detto la sua in un'intervista al Tg4, dove non ha lasciato spazio ad alcuna ambiguità: "A me sembra una sciocchezza quella di Bossi, che mi è simpatico e ha fondato un partito che poi si è sviluppato. Ma non scordiamo che non ha mai superato il 7-8% dei consensi, mentre Salvini ha ottenuto alle ultime elezioni il 40% e di norma è sul 30 per cento - rimarca il direttore -. Questo significa che Salvini è più bravo di Bossi, al quale converrebbe stare zitto. A Salvini conviene andare avanti per la sua strada, su cui è arrivato ad ora molto lontano: ha portato la Lega ad essere il primo partito italiano. Non si può dare del fesso a chi ha portato Salvini a quei livelli", conclude Vittorio Feltri.

Giancarlo Giorgetti, il retroscena dalla cena. Brambilla a Tagadà: "Cosa pensa di Salvini, Bossi e citofoni". Libero Quotidiano il 7 Febbraio 2020. Gli sfoghi privati di Giancarlo Giorgetti, spiattellati in tv da Gianluca Brambilla. L'imprenditore milanese ha incontrato con una delegazione di colleghi del Nord il numero due della Lega e si è parlato di tutto, da tasse e fisco a politica pura. "Giorgetti - ha spiegato Brambilla in collegamento con Tiziana Panella a Tagadà, su La7 - mi ha detto che i citofoni non lo entusiasmano (il riferimento è alla mossa elettorale di Matteo Salvini al Pilastro di Bologna, con la citofonata alla casa di un 17enne tunisino accusato da una vicina di essere uno spacciatore, ndr), ma che con quelli del Movimento 5 Stelle non era possibile andare avanti al governo". Giorgetti e Salvini d'accordo sulla rottura, dunque, ma in velato disaccordo sulla linea politica tenuta in tempo di elezioni. E che l'aria nella lega sia frizzante lo ha testimoniato anche la molto chiacchierata intervista di Umberto Bossi a Gad Lerner su Repubblica, in cui il Senatùr contestava al suo erede la scelta di abbandonare il Nord per creare una "Lega nazionale" destinata, a suo dire, al fallimento. I rapporti tra Bossi e Salvini non sono, come evidente, idilliaci e questa scudisciata non ha aiutato a riavvicinarli. "Giorgetti - ha rivelato sempre Brambilla - vorrebbe che Salvini andasse a trovare Bossi". Difficile, per il momento. All'incontro con gli imprenditori, però, si è parlato anche di politiche fiscali. "Noi ci vogliamo intestare la battaglia che è stata eliminata di fatto la flat tax per le partite Iva e questa è una porcheria. Molti hanno aperto la partita Iva nella speranza di fare altro che 100mila euro. Abbiamo ucciso il bambino nella culla".

Roberto Maroni, bomba prima del congresso: "Questa Lega di Salvini un partita leninista". Scissione del Nord? Libero Quotidiano il 21 Dicembre 2019. Al Congresso leghista che si terrà questa mattina, sabato 21 dicembre, tutto è possibile. Parola di Roberto Maroni. "Se Matteo Salvini non ascolterà il Nord, il partito diventerà leninista". Dunque, per l'ex segretario della Lega "nascerà qualcosa di nuovo". La Lega però, per Maroni, rimarrà sempre la Lega, "vengono mantenuti i padri fondatori, ci sono riconoscimenti persino per il sottoscritto e per Bossi. Sarà un passo verso l'evoluzione - spiega in un'intervista alla Stampa -, sarà un soggetto politico diverso ma con le radici nel passato. Salvini poteva anche fare una scelta diversa, con un congresso che metteva in liquidazione il partito. Invece così non è. Almeno salvo sorprese". Una fra tutte? Che il Nord tanto centrale nel partito fondato da Umberto Bossi venga messo all'angolo. "In quel caso - prosegue - potrebbe anche nascere qualche cosa di diverso, che torni a rappresentare le istanze dei ceti produttivi del nord". Insomma, un partito leninista "in grado di tenere dentro tutto" alla Dc-maniera, "con diverse anime". 

Gad Lerner, la stretta di mano a Umberto Bossi e il commento: "Perché mi sono commosso". Libero Quotidiano il 21 Dicembre 2019. A Milano, al congresso della nuova Lega targata Matteo Salvini, c'era anche Gad Lerner, che copriva l'evento per Repubblica. E quando Umberto Bossi ha lasciato l'hotel dove si è tenuta la kermesse ha salutato Lerner, tra i due una calorosa stretta di mano. Dunque, la firma di Repubblica, sul sito del quotidiano ha scritto un breve e sentito articolo dedicato al Senatùr: "Trent’anni dopo… e va bene, stringersi la mano e poi darsi perfino una carezza col vecchio Umberto Bossi stamattina, a quello che sarà probabilmente l’ultimo congresso della Lega Nord, con lui che ne esce esausto ma fiero, ha fatto venire gli occhi lucidi a entrambi", ha premesso. Dunque la prima stoccata a Salvini: "Lui non avrebbe mai concepito un partito che si chiamasse Lega per Bossi premier". Lerner poi ricorda come la loro "relazione professionale" è stata "talora aspra, visto il personaggio, ma sempre nel segno del rispetto, che fossimo a Pontida o in piazza San Marco a Venezia. E quando da un leghista mi arrivava un insulto di troppo, l’Umberto telefonava subito per dire che era un pirla", ricorda Lerner. Infine sottolinea: "Vederlo così fragile, applaudito per poi dimenticarselo, eppure tenace nelle sue idee che non condivido, mi ha provocato un moto di tenerezza". Lerner conclude: "Si può (si poteva?) essere avversari, andare perfino allo scontro duro in tv, e poi darsi il cinque, con il vecchio senatùr".

Tosi sintetizza: "La Lega è morta, c'è il partito del Capitano". Bossi, il sud e l’Africa, Salvini corre ai ripari: “Sui meridionali abbiamo idee diverse”. Redazione Il Riformista il 23 Dicembre 2019. Umberto Bossi conferma e rilancia. Dopo le parole pronunciate durante il congresso della Lega sabato scorso a Milano, il fondatore del Carroccio ribadisce il proprio pensiero sul Sud Italia. Raggiunto dall’AdnKronos, l’ex Senatur spiega il suo ragionamento che l’ha portato a pronunciare la frase “mi sembra giusto aiutare il Sud, mi sembra giusto, sennò se non li aiutiamo ‘a casa loro’ straripano e vengono qui. È un po’ come l’Africa”. “Creare lavoro ed occupazione al Sud” così da renderlo “una terra che non obblighi le persone ad una migrazione lavorativa deleteria per le stesse regioni, creando poi difficoltà per le regioni del nord che devono già risolvere il problema della disoccupazione presente”. “La mia dichiarazione al congresso è stata molto chiara – ribadisce il Senatur – . Ho detto che ‘certo bisogna aiutare anche il Sud, questo mi sembra giusto che se non li aiuti a casa loro, poi straripa e vengono qui (al Nord). E’ un po’ come l’Africa che non è stata aiutata e ci arriva tutta addosso, quindi prevedere con scelte giuste e sagge che vadano meglio a noi e a loro”. Dire che è quanto succede con l’Africa, significa dire che anche lì “la forte ondata migratoria è dovuta al fatto che non si è investito nei loro paesi”. E quindi, aggiunge all’Adnkronos il fondatore della Lega “le politiche d’investimento devono essere fatte nella terra d’origine per consentire uno sviluppo economico che non porti ad una migrazione lavorativa impossibile da sostenere, visto la situazione attuale lavorativa del paese Italia”. Parole dalle quali si dissocia il segretario della Lega Matteo Salvini: “Bossi? Io gli porto eterna riconoscenza perché lui ci ha svegliati. Se poi lui ritiene che la Lega debba occuparsi solo di un pezzo di Paese, beh, questa non è la mia idea”. In una intervista a “La Verità”, l’ex ministro dell’Interno assicura che con il vecchio capo non è però rottura: Al Congresso “lui c’era. E si è espresso a favore. Il nuovo statuto è stato approvato all’unanimità. E a me va bene così”. Una sintesi dell’evoluzione della Lega la offre Flavio Tosi: “Quando sei leghista per 25 anni come me ci rimani per sempre, anche se Salvini mi ha buttato fuori -ha affermato Tosi-. E’ la Lega che purtroppo come partito è morto. Le battaglie per le quali io e quasi tutti i leghisti di quell’epoca entrammo in Lega sono state cancellate. Vengono utilizzate come slogan al nord, ma a livello nazionale il federalismo è un tema che è stato cancellato. Basti guardare che prima eravamo pro-Catalogna e pro-Scozia, adesso Salvini è pro-Johnson e della Catalogna non parla più. In Lega Bossi mi chiamava l’italiano in modo dispregiativo perché non sono mai stato secessionista, io sono federalista, sono rimasto ai temi del federalismo e dell’autonomia”. Flavio Tosi è intervenuto così ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. “Bossi dopo la malattia del 2004 non è più Bossi. Vorrebbe avere lo spirito e la verve di prima, ma mi ha fatto un po’ tenerezza vederlo parlare al congresso, perché Salvini fa e disfa come vuole, ormai la Lega è diventato il partito di Salvini, i consensi sono legati a Salvini”, conclude Tosi.

«Non più solo Nord». Salvini lanciala Lega nazionale per alzata di mano. Pubblicato sabato, 21 dicembre 2019 su Corriere.it da Marco Cremonesi. Le critiche del leader del Carroccio agli assenti «pigri». Calderoli (Lega): «Resta anche il vecchio partito». Il nuovo partito nasce con una «scarica di mazzate». Quelle di Matteo Salvini che inizia il suo intervento al congresso della Lega Nord picchiando giù duro su (tutti) i leghisti: «Personalismi, approssimazione, litigi, pigrizia... Noi siamo qua perché gli italiani contano su di noi e non abbiamo il diritto di essere pigri». I suoi minimizzano, parlano di «tecnica motivazionale» non rivolta contro nessuno in particolare. Però, dice Salvini, «se i parlamentari hanno ritenuto di fare qualcosa di diverso piuttosto che venire al congresso, allora non hanno capito niente». In effetti, la platea che cambia la storia della Lega non è debordante: il presidente Giancarlo Giorgetti aprendo il congresso dichiara 126 presenti (su circa 500 aventi diritto). Non ci sono gli esponenti dell’opposizione interna e gli esponenti della Lega salviniana, nei posti a loro riservati in fondo alla sala, non aumentano di molto il numero. Ma il regolamento non prevede soglie legali e la rivoluzione si compie per unanime alzata di mano registrata dal notaio: ora potrà formalmente partire la costruzione del nuovo partito salviniano. Ma il congresso è per Salvini anche l’occasione di un ritocco d’immagine. Giuliano Ferrara lo chiama «il Truce»? E lui parla dell’«Italia del sì che guarda avanti e sorride, il battesimo di un movimento che non vuole più occuparsi di una parte del paese ma abbracciarlo tutto». Anche il tam tam sull’Emilia-Romagna come Regione «rossa» da espugnare, si risolve in un rovesciamento di prospettiva: il capo leghista convoca il suo partito per il 18 gennaio a Maranello, la città della Ferrari «dove c’è il rosso italiano che piace nel mondo. E io propongo a tutti di venire vestiti di rosso». Infine, corregge l’impostazione dei leghisti che non amano papa Francesco: «C’è chi cerca di metterlo in politica, ma lui quando parla di immigrazione usa soprattutto due termini: “limiti” e “prudenza”». C’è ancora lo spazio per elogiare i governatori Zaia e Fontana per aver portato le Olimpiadi in Italia, scordandosi di Giorgetti. Poi, però, i toni fiammeggianti ritornano quando Salvini parla della possibilità di essere processato per i fatti della Gregoretti: «Se c’è qualcuno che invade il campo altrui, non è la politica. E se qualcuno pensa di impaurirmi con la minaccia del carcere sbaglia. Come dice Trump, questi giudici non attaccano me, ma il popolo». La voce si alza: «Anzi, propongo al congresso di autodenunciarci in massa». In qualche modo, Salvini ricorda il Berlusconi che incitava i «missionari della libertà». Anche per lui «il confronto è tra libertà e dittatura», ma i nemici per Salvini non sono soltanto i comunisti: «Il punto non è vincere le elezioni. C’è una battaglia globale di cui o siamo coscienti o perdiamo. Qualcuno non ha capito che siamo l’ultima ancora di salvezza per il popolo cristiano occidentale». Non per nulla Salvini era entrato nella sala del congresso con un grosso presepe, prima di tuonare contro i parroci che «offrono la parrocchia per il Ramadan. Non fanno qualcosa contro la religione, fanno anche qualcosa di criminogeno». L’ultima delle cannonate è per Beppe Grillo: «Quando entra ed esce dall’ambasciata cinese, va a trovare una dittatura. Parlano di democrazia e Rousseau e poi baciano la pantofola a una dittatura».

Bossi al congresso della Lega: “Se Salvini vuole il simbolo raccolga firme”. Antonella Ferrari il 21/12/2019 su Notizie.it.  Umberto Bossi ha raggiunto il congresso straordinario della Lega a Milano ed è stato accolto da un fragoroso applauso da parte dei delegati: “Oggi non si chiude nessuna Lega – ha detto -. Siamo noi che concediamo. Salvini non ci può imporre un caz.. e lo diciamo con franchezza, le cose imposte non funzionano“. Era stata incerta fino all’ultimo la presenza al congresso, quello che sancisce di fatto la fine del partito da lui fondato per lasciare spazio alla nuova Lega Salvini Premier. Umberto Bossi, seduto sulla sua sedia a rotelle a causa dei problemi di salute, è arrivato all’hotel Leonardo da Vinci di Milano per presenziare al congresso che sancirà il nuovo statuto della Lega. “Oggi un funerale? Col caz.., oggi è il funerale degli altri: la Lega è un partito nazionale dei popoli del Nord e questo ormai tutti l’hanno capito” ha detto mostrando il dito medio. “Non ci sono litigi per fortuna, sarebbe solo un modo per dare soddisfazione agli altri” ha poi detto a pochi passi da Salvini.

“L’autonomia? Una battaglia da proseguire”. “Sull’autonomia non siamo riusciti a ottenere niente, ma è una battaglia che la Lega deve mantenere – ha detto poi Bossi prima di commentare l’operato di Matteo Salvini – È uno di quelli che vuole combattere ancora. La battaglia della Lega sarà sempre cambiare le cose, il centralismo, fare in modo che il Paese diventi davvero democratico. Il fatto che adesso vogliano condannare Salvini vuol dire che qualcosa lo abbiamo fatto bene, non ho mai visto un segretario della Lega che sia stato tranquillo“.

Bossi sulle sardine. “Non bisogna sottovalutare le sardine – ha detto Bossi arrivando al congresso -, sono un’operazione intelligente. Rappresentano la spunta sociale contro il Palazzo. All’inizio lo abbiamo fatto anche noi della Lega. Le sardine non diventeranno un partito, il partito c’è e si chiama Pd“.

 (AGI il 21 dicembre 2019.) - Umberto Bossi rispolvera il dito medio nel corso del suo intervento al congresso federale della Lega Nord. "I giornalisti fuori mi hanno chiesto se oggi si celebra il funerale della Lega. Col cazzo io rispondo, Oggi non si celebra nessun funerale", ha affermato il senatur.

Da ilmessaggero.it il 21 dicembre 2019. Matteo Salvini apre a Milano il congresso federale della Lega, che servirà a cambiare lo statuto per creare un partito nazionale. Ma «oggi non è il funerale della Lega. Non c'è nessun funerale alle porte», precisa Umberto Bossi, giunto in carrozzina e accolto da una standing ovation. I delegati al congresso della Lega hanno approvato per alzata di mano il nuovo statuto del partito. «Oggi è l'inizio di un bellissimo percorso, è il battesimo di un movimento che ha l'ambizione di rilanciare l'Italia nel mondo», ha detto il leader della Lega Matteo Salvini, arrivando con un presepe in mano donato, ha detto, da artigiani campani. «Sono contento di dirvi che oggi non si chiude nessuna Lega, questo congresso nella sostanza dà la possibilità di avere il doppio tesseramento, sarà possibile essere iscritti alla Lega e alla Lega per Salvini», spiega invece Umberto Bossi. E «Se Salvini vuole avere la possibilità di avere il simbolo della Lega nel partito chre sta facendo, deve raccogliere le firme». Intanto Salvini torna a parlare del caso Gregoretti. «Non penso che questi giudici attacchino me, attaccano un popolo. Non c'è in ballo la mia libertà personale, è un attacco alla sovranità nazionale, alla sovranità popolare, al diritto alla sicurezza, al diritto alla difesa dei confini. Sono tranquillissimo, anzi - ha concluso Salvini - se dovessi andare in tribunale, ci andrei a testa alta: penso, però, che dovrebbero prenotare un tribunale grande grande, perchè ci sarà tanta gente insieme a me». La nuova Lega «è già nei fatti» ma «il dna rimane», ha detto Giorgetti. «Oggi ci saranno delle modifiche statuarie di adeguamento della forma giuridica della Lega rispetto alle sfide del nuovo millennio. Il mondo intorno è cambiato, l'idea di fondo dell'autonomia rimane ma deve essere declinata in modo diverso in un mondo sempre più globalizzato» ha detto Giorgetti. «Salvini - ha aggiunto - è stato molto bravo a interpretare il nuovo mondo e a cambiare il modo di comunicare, che oggi è importantissimo in politica. Questa è una fase nuova ma nella Lega l'evoluzione c'è sempre stata se si guarda alla sua storia. Siamo l'unico partito che fa i congressi, non accettiamo lezioni di democrazia da nessuno».

Paolo Colonnello per “la Stampa” il 21 dicembre 2019. L' ex segretario della Lega Roberto Maroni si dichiara un «inguaribile ottimista» per il congresso del Carroccio che andrà in scena questa mattina a Milano, ma avverte: «Se il Nord non verrà più ascoltato potrebbe nascere qualcosa di diverso».

Oggi sarà il congresso che archivierà la Lega come l' abbiamo conosciuta?

«No, non sarà così. Ho visto le modifiche statutarie: la Lega rimane Lega, vengono mantenuti i padri fondatori, ci sono riconoscimenti persino per il sottoscritto e per Bossi»

Quindi niente funerale?

«Ma no, sarà un passo verso l' evoluzione, sarà un soggetto politico diverso ma con le radici nel passato. Salvini poteva anche fare una scelta diversa, con un congresso che metteva in liquidazione il partito. Invece così non è. Almeno salvo sorprese".

Tipo?

«Sono convinto che anche dopo questo congresso, il nord rimarrà centrale, e così l' autonomia. E se così non sarà, be', allora potrebbe anche nascere qualche cosa di diverso, che torni a rappresentare le istanze dei ceti produttivi del nord".

Un invito a Salvini a non deragliare?

«Salvini non ha bisogno di alcun invito. Sta cercando di portare la Lega fuori dai suoi confini tradizionali. Ma il nuovo partito sarà comunque federale e manterrà le sue identità territoriali".

Umberto Bossi si è lamentato di essere stato messo ai margini. Perché?

«Guardi, nel nuovo statuto Bossi sarà confermato presidente a vita, salvo rinunce. La guida di Salvini ha impresso una velocità al partito che ha reso faticoso per tanti e non solo per Bossi rimanere al passo. E' naturale che Bossi si senta un po' emarginato ma è la naturale evoluzione della vita. Umberto è molto amato. Anzi, consiglio a Salvini di fargli un elogio molto forte: se lui ora è segretario è perché c' è stato Bossi, se al sud possono votare la nuova Lega è perché c' è stato Bossi».

Se il partito oggi è più a destra però non è per colpa di Bossi.

«L' aspirazione della Lega è diventare un partito egemone, che detti la linea al Paese. E' chiaro che la Lega di Salvini ha dovuto occupare spazi che però non sono solo di destra, perché un partito oltre il 30 per cento è molto di più».

Un partito leninista?

«Per me che vengo da lì, è un complimento».

 Non si direbbe un partito di sinistra.

«Ma no, si tratta di fare un partito molto bene organizzato che tenga dentro tutto.

La Dc aveva diverse anime, per dire, e non è mai stato un problema» Ma per ottenere l' egemonia ci vuole una base culturale, ideale. Quale sarebbe quella della Lega?

«Non so se con la politica social, queste cose valgano ancora. Secondo me non ha più senso parlare di influenza culturale. Bisogna fare i conti con la realtà e avere consensi in mille modi diversi».

Quindi l' obiettivo alla fine è il potere per il potere?

«In effetti su questi temi c' è quasi il vuoto. Non c' è più strategia, c' è solo tattica. L' orizzonte dei partiti ormai è solo il 26 gennaio, la data delle elezioni in Emilia».

Le Sardine vi stanno incalzando e hanno sostituito la piazza di Salvini...

«Il potere viene e va. Le Sardine sono una novità e possono influenzare gli eventi di gennaio. In Emilia c' è un 47 per cento di indecisi e le Sardine parlano a loro e certamente sono ostili al candidato di centro destra. Potrebbero fare la differenza. Come diceva Mao: grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente. Ci sarà da divertirsi».

Mario Ajello per “il Messaggero” il 21 dicembre 2019. Ancora compaiono, a Milano e soprattutto sui ponti stradali e sui muri nelle contrade di provincia lumbard, le scritte contro «Roma Ladrona» e inneggianti alla «Lega per l'indipendenza della Padania». Anche a ridosso della sede del Carroccio in via Bellerio c'è una scritta così. Chissà se verranno cancellate anche queste, ora che la Lega Nord non ci sarà più - se non come una bad company da lasciare impelagata nella storiaccia dei 49 milioni di rimborsi elettorali spariti - per effetto del congresso-lampo oggi a Milano. In cui Salvini chiude il partito di Bossi e lancia la Lega per Salvini Premier. Il tutto in poche ore, senza interventi se non quelli del leader, senza rimpianti, senza nostalgia, senza la presenza di Bossi anche perché non sta bene, senza attardarsi in grandi ragionamenti o in discussioni di linea politica, senza maggioranza e minoranza perché sono tutti d'accordo (compreso Maroni) con Matteo e senza eleggere nuovi organigrammi o cose così. Un congresso no-congresso, insomma. E il solo Fava, che sfidò Salvini per la segreteria e ne uscì rottamato, non parteciperà alla festa perché «è un vero e proprio funerale, anche se mascherato». Un brivido potrà venire però stamane dalla Sardine milanesi. Hanno deciso di fare un flash mob a poche centinaia di metri dall'Hotel da Vinci, sede delle assise, e potrebbero venire a contatto con i leghisti. Intanto annuncia Salvini: «Alberto da Giussano ce lo teniamo stretto nei nostri cuori, attaccato al bavero della giacca e nelle nostre bandiere. Il guerriero resta con noi». Il simbolo infatti non si cambia. Anzi, potrà essere dato in francising a liste associate alla Lega nazionale che è già nata e ben operante e ora viene ufficialmente codificata. Si tratta solo di una modifica allo statuto (quella per passare dal vecchio Carroccio al nuovo) che però, pur se si tenta di minimizzare la svolta storica, rappresenta un superamento delle radici. Via tutta l'epopea nordista incarnata nel partito di Bossi, fondato il 12 aprile '84 dall'Umberto giovane in cerca d'autore (lo trovò nel politologo secessionista Miglio e nel mito di Alberto da Giussano), insieme alla moglie Manuela (maestra elementare e terrona) e a 4 amici, un odontotecnico, un rappresentante di commercio, un commerciante, un architetto. Tra i quali Giuseppe Leoni, poi primo deputato lumbard e ora arrabbiatissimo con Salvini che chiude quella storia nel congresso lampo di stamane. Partito molto personalizzato (parla solo Salvini oggi). Niente più Bossi, ma resterà presidente onorario a vita della bad company. E restano figure storiche come Francesco Speroni. A sua volta convertito al pragmatismo: «L'idea di fondare un nuovo partito non è nostra. Ma del procuratore di Genova, Francesco Cozzi, che ha detto che se nasce un nuovo partito non sarà possibile sequestrare i beni di un partito che non è la Lega Nord, che è stata condannata a risarcire i 49 milioni». La novità è che il segretario non sarà più in carica per tre anni ma per 5. Non ci sarà più una segreteria politica federale, così tutto è più veloce e più personalizzato. E compare, nel nuovo articolo 15 dello statuto, un particolare essenziale: il segretario non avrà più alcune funzioni tra cui quella di «riscuotere i finanziamenti pubblici e i rimborsi elettorali per la Lega Nord». Liberare Salvini da questa mega-rogna, ecco. Ma sarebbe riduttivi limitare tutto a una questione di soldi, anche se il tema è preminente. L'altro aspetto è che nasce la Lega per Salvini Premier (Lsp) per sfondare anche al Sud (ma lì il Carroccio una classe dirigente decente ancora non ce l'ha) e per puntare (nonostante ciò strida con l'apertura al Mezzogiorno) sull'autonomismo come succedaneo, non meno rischioso, dell'antico secessionismo.

·        Salvini è Fascista.

Matteo Salvini, Renato Farina: "Ha soffiato Berlinguer alla sinistra ma tranquilli, non è comunista". Renato Farina su Libero Quotidiano il 10 luglio 2020.  Ci fu un libro di Anonimo, in realtà Gianfranco Piazzesi, intitolato «Berlinguer e il Professore», anni 70. Oggi siamo a «Berlinguer e il Capitano», alias Matteo Salvini, il quale ha osato parlare bene del cugino comunista di Cossiga, addirittura proclamando la Lega come erede dei «valori di una certa sinistra, quella di Berlinguer, degli operai e degli insegnanti, quella degli artigiani e del lavoro». Pertanto ritiene «un bel segnale» il trasferimento degli uffici romani del Carroccio in via delle Botteghe Oscure, giusto davanti al palazzo che fu sede dello stato maggiore del Pci, indi «abbandonato dal Partito democratico» (Salvini, ieri, all'Aria che tira, La7). Orrore, scandalo. Non della destra, come ci si aspetterebbe, e come saremmo tentati di fare noi stessi che stimiamo Stalin solo perché ha ammazzato più comunisti di tutti (Montanelli dixit), bensì della sinistra. Non l'avesse mai fatto. A Salvini sono saltati in testa, con convulsioni da tarantolati, sia i capi azzimati sia la teppa dei compagni: tutti a reclamare il possesso esclusivo delle reliquie berlingueriane. I morti e le loro opere non appartengono più alla propria parte, grande o piccola che sia, ma versano il loro lascito all'umanità. È capitato a Gesù Cristo di essere qualificato come primo comunista, primo liberale, primo ribelle eccetera, lo citano volentieri gli atei, e neanche il Papa si lamenta; non si vede perché Berlinguer non possa dare consigli postumo alla Lega. Un po' di senso dell'ironia non guasterebbe.

Sacrilegio - Niente da fare. Paragonarsi a Berlinguer, è stato considerato sacrilegio. Manca solo che denuncino Salvini per vilipendio di cadavere, art. 410 codice penale. La salma, imbalsamata e interpretata dagli assai inferiori successori e seguaci, deve restare intoccabile nel sarcofago vigilato dalle guardie rosse di vergogna. Avrebbero preferito di gran lunga, invece dei complimenti, un Alberto da Giussano pronto a sputare su quella memoria. E che, visto che avrà l'ufficio soprastante a quello del glorioso compagno avesse rivendicato, in caso di necessità, la soddisfazione di orinare col pensiero sulla storica scrivania del successore di Togliatti. Allora sì, sarebbe stato perfetto, identico al nemico con gli occhi da Hannibal e la lingua da trivio che quelli di sinistra amano raffigurare. Volgare e scemo. Invece Salvini ha detto qualcosa di vero e intelligente a proposito di operai e artigiani (insegnanti non credo). I numeri, che sono gli unici valori a pesare in democrazia, dicono che i metalmeccanici di Berlinguer sono saltati sul Carroccio. Quello di Alberto da Giussano è ormai il partito maggioritario dei lavoratori di officine e fabbriche grandi e piccole, al punto che hanno dichiarato di votare Lega molti tesserati della Cgil. Berlinguer, con la sua eleganza e sobrietà, piaceva moltissimo agli operai e ai borghesi. Non hanno mai capito che cosa fosse «eurocomunismo», ma agli operai bastava la seconda parte della parola e ai borghesi la prima parte, per applaudire uno che era così fine, e conquistava al partito anche gli aristocratici perché come il segretario del Pci beveva il tè in vestaglia non c'era nessuno, secondo la criticatissima e perfetta vignetta di Forattini. Non era dileggio, spiegava con una iperbole l'unicità del fenomeno: di un Partito comunista che continuava a incassare l'oro di Mosca, succhiato agli zero dei Gulag, ed era al 35 per cento dei consensi.

La lezione - Un tocco magico che ha tanto da insegnare. Salvini non è uno sprovveduto, e ha capito che se vuole essere il capo di un partito maggioritario deve includere piuttosto che escludere, non limitare il proprio perimetro in un unico ambito sociale e culturale. Questa capacità di rapporto con la gente comune, la disponibilità a raggiungere il popolo ovunque, fino a crepare in un comizio, come davvero accadde a Berlinguer (Padova, 7 giugno 1984) resta un esempio da cui un leader ha da attingere. Lo stimato de cuius preferiva il tè al mojito? Non ci si fossilizza su un aperitivo... I gerarchi e gerarchetti del Partito democratico non riescono a capacitarsi tuttora dell'accaduto. Per costoro il cambio di colore delle masse popolari dal rosso al verde, e comunque al centrodestra, resta un furto di vernice. Il vento del cambiamento d'epoca non lo percepiscono. Per questo stanno attaccati con un feticismo superstizioso ai sepolcri, convinti di assorbire il carisma magico della sacra salma. Ma in politica il carisma e la capacità di comunicazione funzionano se sono radicate negli interessi profondi di coloro cui chiedi il consenso. Se la sinistra dimentica i protagonisti del lavoro inseguendo la retorica degli ultimi, anche una seconda venuta di Berlinguer, portato in braccio non più da Benigni ma da Fiorello e Crozza, sarebbe l'apparizione di un fantasma.

Valhalla rosso - Il fatto è che la sinistra italiana non sa reggere con dignità i momenti in cui la storia ti taglia le gambe, e non sopporta l'invasione simbolica di Salvini, per questo getta anatema. Il successore di Bossi deve aver toccato per caso o per malizia la pietra del meccanismo che ha fatto scattare il Codice Rosso. È penetrato nei confini mentali del loro Valhalla segreto, dove passeggiano Marx, Lenin e Berlinguer, i venerati archetipi della loro religione mai perduta, anche se ufficialmente rinnegata almeno nei più: Botteghe Oscure = Berlinguer = Comunismo. Pronti al ridicolo di rinfacciare alla Lega 49 milioni che sta peraltro restituendo allo Stato, quando Berlinguer, Togliatti, Cossutta, Napolitano non hanno restituito un rublo ai milioni di prigionieri innocenti che con il loro lavoro forzato hanno finanziato e lucidato gli ottoni e i mobili di Botteghe molto Oscure.

Dall’aratro alla ruspa il paragone (per gioco) tra Mussolini e Salvini. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. Paragonare il Duce al Capitano è «come confrontare Rita Hayworth ed Elettra Lamborghini». Parte da questa premessa Pietrangelo Buttafuoco, per il volume che PaperFirst, la casa editrice del Fatto quotidiano, sta per mandare in libreria. Una premessa necessaria per capire che si tratta di un divertissement intellettuale: per apprezzarlo bisogna leggerlo senza le lenti dell’ideologia. L’autore parte dallo storico pamphlet di Ezra Pound, Jefferson e/o Mussolini, in cui il poeta dei Cantos accostava il presidente americano al dittatore italiano, e ne aggiorna il titolo, che diventa Salvini e/o Mussolini. Ne nasce un dizionario, dalla A di America — Salvini viene buggerato dall’infido Trump che gli preferisce «Giuseppi» Conte, Mussolini dopo un feeling iniziale paga l’alleanza con Hitler fino al disastro militare — alla Z di Zorro, eroe favorito di entrambi. Comincia così il gioco delle analogie e delleLa copertina differenze, delle vite parallele, di «Ieri» e «Oggi». Entrambi hanno un grande vecchio che incombe e di cui non riescono a liberarsi: «Il re di Salvini è Berlusconi; il Berlusconi di Mussolini è Vittorio Emanuele III». L’opposizione la faceva Benedetto Croce e ora la fa Fabio Fazio. «Mussolini ebbe come agiografa Margherita Sarfatti, Salvini ha Annalisa Chirico». La nemica ieri era Violet Gibson, che spara al Duce ferendolo al naso, oggi è Carola Rackete (ma c’è anche chef Rubio, «ostile al punto di essere diventato un termine di paragone. Alex Zanotelli, un religioso, missionario comboniano, lancia un terribile anatema contro Salvini — «va processato per la sua disumanità» — e il leader della Lega così replica: «Ma Chef Rubio s’è travestito da prete?»). Salvini ha Bibbiano, Mussolini lo scandalo di Gino Girolimoni (cui vengono attribuiti ingiustamente crimini sui bambini). L’ispiratore dichiarato e rinnegato di Salvini è Umberto Bossi (ma la Lega Nord non ha mai rinunciato all’indipendenza della Padania, a differenza del movimento parallelo Lega per Salvini Premier), quello di Mussolini è Jan Hus, eretico bruciato vivo cui dedicò un libro prima della svolta clericale. Salvini ha Ruini, Mussolini il Papa in persona che lo definisce «l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare». Salvini litiga con la grande eccentrica Asia Argento ma poi scatta con lei un selfie sorridente; Mussolini si lega ma poi litiga con Leda Rafanelli Polli, «sacerdotessa di Zoroastro ma anche musulmana di derivazione sufi». Uno salutava romanamente, l’altro vibra schioccanti baci ai rosari. Mussolini aveva Mino Maccari e Leo Longanesi, «i due nani di Strapaese» come li definiva lo spilungone Curzio Malaparte, che li descriveva mentre «passeggiano nervosamente sotto il letto tutta la notte»; Salvini deve accontentarsi di Luca Morisi, poiché «l’algoritmo traccia il solco ma è la Bestia che lo difende. A chi Tik Tok? A lui». E ancora: il simbolo della lista dei Comunisti padani, guidati da Matteo quando portava l’orecchino e frequentava il Leonka, era Che Guevara; il giovane Benito aveva al fianco Bombacci, che diventerà comunista per poi morire al suo fianco. Uno aveva la camicia nera, l’altro la felpa. Uno Leni Riefensthal, la regista di Olympia premiata con la Coppa Mussolini al Festival del cinema di Venezia, l’altro Maria Giovanna Maglie. Uno era messo in ombra da Balbo, l’altro dalla Meloni. Uno tuonava contro Cagoia, simbolo di viltà mutuato dal dannunzianesimo, l’altro contro il detestato Conte. Ieri le colonie marine, oggi il Papeete. Ieri la trebbiatrice della battaglia del grano, oggi la ruspa della battaglia contro i rom. Ieri Costanzo Ciano, oggi Denis Verdini. A volte le due strade si incrociano: come quando Salvini cita Mussolini — «noi tireremo diritto», «molti nemici molto onore», «chi si ferma è perduto» —, o meglio crede di citarlo: la seconda frase è del condottiero tedesco von Frundsberg, la terza di Dante. A patto di non alzare troppo il sopracciglio e di non prenderlo troppo sul serio, Buttafuoco si conferma insomma il vero narratore (come si sarebbe detto ieri, mentre oggi si preferisce storyteller) della politica italiana.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 27 febbraio 2020. La principessa Mirta e l'amatissima Edda, il tormentone Facebook e il cinegiornale, la felpa e la camicia nera, il mojiito e il Sangue Morlacco, il Papeete e le colonie marine, la ruspa e la trebbiatrice, Che Guevara e Bombacci. E' un gioco talmente innocente e raffinato, ma racconta anche così bene la gran mole di sciocchezze che circondano il racconto dell'Uomo Forte e dei suoi poteri, soprattutto nell'Italia della Resistenza perenne e dell'antifascismo sempre a bandierina dritta, che il nuovo libro di Pietrangelo Buttafuoco il co-protagonista se lo e' messo sulla scrivania, e lo ha lasciato immortalare, subito beccato da Dagospia. Salvini, insomma, manda a dire che non intende offendersi del possibile paragone con il Duce, lui che da qualche intollerante di ritorno è definito il Truce, senza rispetto e senza discernimento, utilizzando canoni novecenteschi frusti pur di non guardare con occhio asciutto, e analizzare il suo straordinario successo popolare. Ecco, a tutti quelli che "non gli siamo contro per quello che fa ma gli siamo contro per quello che è", il libro di Buttafuoco darà molto fastidio perché e' con loro che ce l'ha. Salvini quel libro se l'e' messo sul tavolo anche perché difficile sarebbe offendersi visto che l'altro Lui è per Pietrangelo il Caro Amore, e nell'Olimpo suo sta molto più in alto di chiunque oggi in circolazione sulla terra. E visto che il Truce di oggi a Pietrangelo fa certo una grande simpatia umana e politica, ma nella sua categoria ideale e' saldamente e giudiziosamente collocato a destra, nel popolo, e invece l'originale è carne viva della sinistra, socialista, rivoluzionario, sempre distante, amato rabbiosamente da coloro che lo odiano. Nella ricerca di argomenti per rispondere alla dilagante e urticante polemica del giornalone unico su Salvini fascista, anzi sul fascioleghismo di Salvini, che' questa è la versione più recente a ritmo di coronavirus, Buttafuoco si imbatte in Ezra Pound, altro suo mito, in quel delizioso pamphlet dal titolo Jefferson e/o Mussolini, il presidente degli Stati Uniti e il duce della rivoluzione fascista,' l'idea statale', e gli piace il pretesto degli accostamenti tra ieri e oggi. Solo che lo fa per segnare le differenze, non le somiglianze, e qui in molti rimarranno delusi.. Parte così un catalogo, se preferite un dizionario, dalla a di America alla z di Zorro, di confronti impossibili tra ieri ed oggi, che sono a volte generosi, a volte divertenti, qualche volta tremendi. Potrà mai Silvio Berlusconi essere per Salvini quel che fu Vittorio Emanuele III per Mussolini, un Vecchio del quale non riescono a liberarsi? Quanto si è divertito Buttafuoco a paragonare nientemeno che l'opposizione di Benedetto Croce a quella di Fabio Fazio, o a mettere assieme Violet Gibson, che al Duce provò a sparare, con la Carola Rackete che sperona la barca della Guardia di Finanza? Alcuni confronti sono studiati con precisione pittorica, vedi quel Leo Longanesi affiancato a Luca Morisi, comunicatore in capo dello straordinario messaggio social di Salvini, la Bestia. Altri li racconta con emozione, come nel paragone tra il socialismo tricolore e Bettino Craxi, laddove uno sdogana il clima di guerra civile politica permanente dell'Italia del dopoguerra, e la forzatura dell'Arco costituzionale, l'altro intende chiudere definitivamente la ferita dell'esilio di Hammamet. Bettino Craxi e il suo destino affiorano qua e là con impianto dolente nel libro, a torto o a ragione per Buttafuoco è quello lo statista più simile al suo amato Benito, comune una sorte a testa in giù. Ci sono delle forzature dichiarate ma divertite. L’ispiratore rinnegato di Salvini è Umberto Bossi, quello di Mussolini è Jan Hus, eretico bruciato vivo, amato prima della svolta. Giorgia Meloni incomberebbe minacciosa su Salvini come Italo Balbo su Mussolini. Mussolini e/o Salvini si può anche decidere di leggerlo in modo comodo, e magari così piacerà di più ai lettori della casa editrice de Il Fatto, che pure meritoriamente pubblicano un irregolare come Buttafuoco. Ma quello che Buttafuoco pensa e intende non è fatto per piacere ai militanti del ' tutti contro Salvini", ai soci di quella elite che per celebrare l'esorcismo anti salviniano sono stati pronti ad allearsi col Movimento 5 Stelle, "rendendolo presentabile al cospetto del potere costituito". Della solidità precaria e traballante del sistema, Buttafuoco pensa che siano solo "un rigo nella pagina della storia", e di Beppe Grillo" all'ombra del quale tutti adesso stanno perché ha guadagnato i gradi della rispettabilità consegnandosi al sistema, scrive che e' ora destinato all'irrilevanza, quando ieri aveva costretto la politica a "trovarsi una maniera più italiana." Lo stile del Palazzo, quello stare indietro almeno trent' anni rispetto alla sensibilità del proprio tempo, ecco, quel rischio mortale per Pietrangelo Buttafuoco, che è un uomo libero e complicato, Matteo Salvini l'ha evitato, ha fatto lo scavalco, si è preso il suo like, ed è un like gigantesco. Se vi pare poco…

Ps Tra quadretti di oggi ci sono anche io nel libro, nientemeno che affiancata a Leni Riefensthal, la sfavillante regista tedesca di Olympia, premiata con la Coppa Mussolini al Festival del cinema di Venezia nel 1938. Qualcuno ha già provato a dirmi che dovrei offendermi o perlomeno fingere. Figuriamoci. La Riefensthal è morta a 101 anni, l'anno prima ha girato il suo ultimo documentario. Lo prendo anche come uno straordinario augurio. Non so e non credo che il trionfo della volontà sovranista sia tutto mio, caro Pietrangelo, ma so che la mia volontà non l'hanno fiaccata i o le Ciccio Formaggio del mondo.

Dagospia il 3 marzo 2020. Da Circo Massimo - Radio Capital. Salvini è il nuovo Mussolini? Alla domanda Pietrangelo Buttafuoco, nel suo libro "Salvini e/o Mussolini" (edito da Paper First), risponde convintamente di no. E a Circo Massimo, su Radio Capital, spiega alcune differenze: "Partiamo dall'immigrazione. Se da un lato la strategia politica di Salvini è stata quella di denunciare l'immigrazione come fenomeno di meticciato, dall'altro lato chi conosce la storia sa che Mussolini istruisce una stagione politica che Salvini condannerebbe senza tregua, a cominciare da Faccetta nera, l'inno del meticciato. A parte questo", continua, "si sovrappongono anche i piani, perché chi vuole male a Salvini dice che è come Mussolini, ma chi vuole bene a Salvini si sforza di immaginarlo come Mussolini. Questo è l'inghippo mentale italiano assoluto. E questo deriva dal fatto che non solo non abbiamo memoria, ma non siamo in grado neppure di fare la storia, e di mettere a confronto i due personaggi: uno è l'apoteosi della destra, l'altro inequivocabilmente appartiene all'album della storia del socialismo. Tant'è vero", ricorda Buttafuoco, "che si chiama Benito, e il padre lo chiamò così in omaggio a Benito Juarez, una sorta di Garibaldi riuscito delle Americhe". "Dobbiamo copiare quello che ha fatto l'altra grande nazione d'Europa che ha vissuto l'altra grande stagione del totalitarismo, e mi riferisco alla Russia", dice l'autore, "Qualche giorno fa Putin ha chiaramente detto che non possiamo immaginare un punto bianco e un punto rosso della nostra storia, che contiene entrambi. Non c'è dubbio che il fascismo, nella forma di prassi di Benito Mussolini, fu il volano della modernizzazione in Italia: era un paese rurale che per la prima volta incontrava degli eventi di mobilitazione delle masse, inaudito per l'epoca, a cominciare che le donne uscivano di casa. Diede all'Italia un volto nuovo, a cominciare dall'urbanistica e dal fatto che le teste più fresche, più giovani, venivano costrette ad affrontare la realtà. È un fatto che ci fu una mobilitazione in termini di scienza, di tecnologia". Questo, secondo Buttafuoco, porta a un paradosso: "Il fascismo non fu fascista, non lo possiamo giudicare con il metro di oggi, e neanche interpretarlo con le lenti di oggi. Noi, a differenza dei russi che pure hanno vissuto una stagione di totalitarismo con 100 milioni di morti, non abbiamo mai avuto la serenità di considerare la storia nel suo percorso, quindi siamo destinati a gettare una parte di noi stessi per l'incapacità di saperla affrontare. Quindi tutte le forme, anche rinnovate, di fanatismo sono sbagliate perché impediscono di attraversare la storia con la consapevolezza di portartela dietro. Se ci pensiamo", conclude Buttafuoco, "l'Italia ha paura, nella parata del 2 giugno, a portarsi dietro la bandiera con lo stemma sabaudo. Questo è ridicolo. Come pensare che a Mosca, nella parata della vittoria, non portino con sé la bandiera con la falce e martello così come portano con sé quella zarista". 

Aldo Di Lello per secoloditalia.it il 2 marzo 2020. Salvini e/o Mussolini di Pietrangelo Buttafuoco (PaperFIRST by Il Fatto Quotidiano, euro 12.00) è un libro di rara perfidia. Nel senso che le 155 pagine che lo compongono sono all’insegna di un’intelligenza giocosa e crudele. La somma di intelligenza e crudeltà dà come risultato, per l’appunto, la perfidia. Che tanto più risulta perfida quanto più la si esprime giocando. La perfidia di Buttafuoco colpisce innanzi tutto gli «antifascisti in assenza di fascismo». Quelli dai riflessi pavloviani in eccitazione perenne e dalla salivazione abbondante. Diventata sovrabbondante dopo le europee dello scorso anno, quando Salvini fece strike nell’urna. E dopo, soprattutto, il mojito che è andato di traverso a Matteo nella fatale estate del Papeete. Fatto che propiziò la nascita del Giuseppi Due. Dispiace , sia detto per inciso, che a paragonare improvvidamente il Capitano al Duce sia stato, tra gli altri, in un recupero di furbizia “democratica”, il compianto Giampaolo Pansa. Il cui ultimo libro , uscito pochi mesi prima di morire, reca in copertina la foto di un Salvini insignito del titolo di “dittatore”. Un antifascista che arrivò a scrivere libri che smossero il cuore di tanti neofascisti, diventati improvvisamente smemorati (ben prima di Pansa ci fu Pisanò), è cosa che rimanda ai vari misteri buffi della coscienza italiana.

Ridendo dei travasi di bile antifascisti. Buttafuoco parte dalla premessa che c’è sempre un «capo dei puzzoni» contro cui gli odiatori “democratici” dirigono i loro travasi di bile. Negli ultimi trenta-quarant’anni c’è stato innanzi tutto Bettino Craxi. Poi c’è stato Silvio Berlusconi. Ora c’è Salvini. Con la precisazione che Buttafuoco non considera il Cavaliere un precursore del Capitano. Quanto piuttosto un suo ingombrante garante. Come fu, a suo tempo, il Re nei confronti del Duce. «Il Berlusconi di Mussolini è Vittorio Emanuele III». Speriamo solo che non finisca oggi come finì il 26 luglio del 1943. Al dunque Pietrangelo disattiva gli odiatori di professione e per vocazione ridicolizzandoli nel gioco del confronto tra passato e presente. Tra un passato pesante, tragico e mitico. E un presente leggero, farsesco e iperbolico. Fa il contrario, Buttafuoco, di quello che ha fatto l’esimio professore Emilio Gentile con il libro Chi è fascista (Laterza). Volume uscito lo scorso anno per contrastare la furoreggiante renaissance antifascista opposta all’onda montante del sovranismo. Una renaissance che ha partorito, tra le altre disonestà, la riproposta editoriale dello stolido e tossico libello di Umberto Eco Il fascismo eterno. Un distillato d’odio che permette all’ideologo- semiologo di favorire, ancorché post-mortem , l’abnorme secrezione di saliva antifascista. «Il fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti» e il «nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme». E tanto basta. Tanto basta a ricordare ai sovranisti che l’apparato politico- mediatico antifascista continua a odiarli ferocemente anche quando, amabilmente, li blandisce.

La “ruspa”, la “trebbiatrice” e altro ancora. Buttafuoco, dicevo, fa il contrario dell’illustre allievo di De Felice. Perché, a differenza dell’autorevole professore , non prende sul serio i neo-anti-fascisti. E non pretende quindi di confutare le loro tesi dimostrando, ex cathedra, che non esiste «alcuna analogia e somiglianza» tra il sovranismo di oggi e il fascismo di ieri. No, Buttafuoco fa l’unica cosa sensata contro gli antifascisti in servizio permanente effettivo: li prende perfidamente in giro. E lo fa raccogliendo, in ordine alfabetico, settanta medaglioni con la faccia di oggi e con il rovescio di ieri (o viceversa). Settanta flash moltiplicati per due, che fanno centoquaranta, su momenti, personaggi, parole chiave del presente che rimandano a momenti, personaggi, parole chiave del passato. E che creano una leggera ebbrezza o, se preferite, un gustoso cortocircuito. Come, quando, ad esempio, Buttafuoco mette a confronto le “macchine” sovraniste e quelle fasciste. Vale a dire la salviniana “ruspa” di oggi con la mussoliniana “trebbiatrice”di ieri. L’una «tormentone della campagna elettorale» del 2018. L’altra che riconduce alla Battaglia del grano del 1925, quando «Benito Mussolini si mette alla testa dei contadini e avanza, assiso sulla trebbiatrice, tra le spighe». Oppure come quando, parlando di xenofobia e razzismo, l’autore stabilisce la differenza tra la «zingaraccia», che minaccia di morte Salvini e alla quale il Capitano risponde «con un tiè!», e la Faccetta Nera, Bella Abissina della campagna d’Etiopia. «Il fascismo in cerca di un posto al sole non dice “negro”, tantomeno “negra” e lo ius soli lo canta con la poesia romanesca di Renato Micheli, su musica composta da Renato Ruccione, cantata da Carlo Buti». Che ne sa un povero cineasta in cerca di benemerenze politically correct come Checco Zalone, il quale, con il noioso film Tolo Tolo, è «inciampato, povero lui, nel benignismo»? «A discapito dell’originalità, il comico d’Italia, fabbrica una sceneggiatura tutta contro Salvini». E nel confronto tra ieri e oggi è coinvolto anche l’onesto sociologo Luca Ricolfi, che «rinuncia ai privilegi del suo status – essere un rappresentante dell’establishment» per annunciare ai suoi pari, accademici con la puzza sotto il naso e intellettuali snob, che la «Lega e il suo leader non sono il male assoluto ma semplicemente un’altra idea di politica rispetto Alla Sinistra». Il paragone è nientemeno che con Winston Churchill, il quale, nel 1927, durante un visita a Palazzo Venezia, «rinuncia ai pregiudizi propri del suo mondo e resta per oltre un’ora a colloquio –per sottolineare interesse- con l’uomo considerato dalle cancellerie borghesi nel mondo come un pericolo per lo status quo liberale». E Churchill dirà: «Il genio romano è impersonato da Mussolini». È impossibile, in questa sede, dare conto completo dei settanta medaglioni di Buttafuoco. Basterà solo dire che tutti questi confronti tra passato e presente sono un po’ come le ciliegie. Una volta che se n’è assaggiata una, non ci si ferma più e si svuota il piatto (o il libro, che dir si voglia) in men che non si dica.

Niente sconti al Capitano. Naturalmente, la perfidia di Buttafuoco si rivolge anche a Salvini e ai salviniani più ardenti. Nel senso che tra Il Duce e il Capitano non c’è proprio confronto che tenga. Non foss’altro perché il presente è sempre e comunque perdente rispetto al passato. Ma c’è anche il fatto che l’autore non fa comunque sconti a Salvini. Se, da un lato, gli riconosce la capacità di piacere «alla gente che non piace a nessuno» cioè la «gran folla del codice a barre», la capacità, insomma, di essere «l’italiano degli arcitaliani», dall’altro non si fa scrupolo di contestargli le «stupidaggini» che gli scappano di bocca in materia geopolitica e il fatto che «non scava in profondità i problemi complessi». In sostanza, il Capitano è imbattibile nel suo essere «figlio del suo tempo» e quindi nella sua capacità di attrarre consensi e voti. Ma, se vuole realmente entrare nella storia d’Italia, deve dimostrare anche la capacità di compierla, una rivoluzione, o almeno di provarci con una certa serietà. Deve essere ben consapevole che gli annunci di rivoluzioni immaginarie producono, alla fine, solo frustrazione. E che tanto più altisonante è l’annuncio, quanto più devastante è la frustrazione in assenza di apprezzabili realizzazioni. Su questo punto Buttafuoco sospende il giudizio. Senza pregiudizi. Se il Capitano sarà all’altezza, lo scopriremo vivendo. Nel frattempo l’autore così annota: «Dal liceo Manzoni–ottima scuola- sbuca Salvini chiamato alla prova, se mai riuscirà a cavarsela ora che in tante procure della Repubblica stanno fabbricando il sacco per rinchiuderlo e finirla lì». Come hanno fatto, le procure, con Craxi e come hanno tentato di fare con Berlusconi. Ma potrebbero non essere i magistrati l’ostacolo più impervio per Salvini. Né tantomeno potrebbero essere damerini invecchiati come Zingaretti o Giuseppi. L’ostacolo serio potrebbe invece venirgli da chi sta crescendo nell’orto del centrodestra : Giorgia Meloni.  Buttafuoco vi accenna due volte. Quando ricorda che il già citato Ricolfi «ha un debole» per la leader di FdI: «Ritiene sia il problema di Salvini. Ben più impegnativo di quanto possa esserlo il Pd». E quando, nel gioco dei confronti tra passato e presente, sottolinea che, se oggi la Meloni «mette in ombra» il Capitano, ieri era Italo Balbo a mettere in ombra il Duce. E, si parva licet, è legittimo pensare che potrebbe finire diversamente da come finì all’epoca. Non foss’altro perché il “ricevente ombra” di oggi non dispone di una Quarta Sponda dove spedire la “dante ombra”, come accadde più di 80 anni fa ai danni del “dante ombra” Pizzo di Ferro. Alla fine, vale la pena osservare che gli odiatori antifascisti non fanno altro che giocare con la chincaglieria rimasta in vendita nel mercatino dei cimeli del Novecento. Come tutti. Il problema è che non vogliono ammetterlo. E pretendono di parlare seriamente. Perché al dunque, nell’Italia delle passioni viscerali e travolgenti, la politica si riduce all’antropologia. C’è il tipo manierato e ipocrita. E il tipo sanguigno e verace. E scusate se è poco. Con buona pace dei dotti politologi. La perfidia di Buttafuoco ci invita a riflettere, anche e soprattutto, su questo.

Salvini non è Mussolini ma è arcitaliano come lui. Pietrangelo Buttafuoco avvicinando i due leader ne coglie tutte le distanze ma anche sottili affinità. Marco Gervasoni, venerdì 06/03/2020 su Il Giornale. Ebbene sì, Salvini è un nuovo Mussolini. Il lettore non si spaventi. Non siamo impazziti e diventati sinitrorsi, seguaci della risibile teoria di Umberto Eco del fascismo eterno. Non crediamo cioè che Salvini sia una reincarnazione del Duce. Ma pensiamo che si possano e si debbano accostare le due figure, completamente diverse tra loro, proprie di due epoche lontanissime l'una dall'altra.

Anzi, qualcuno ci ha già preceduto, e benissimo: Pietrangelo Buttafuoco con un volume originale anche nella costruzione, oltre che nella idea (Salvini e/o Mussolini, PaperFirst, 12 euro) la quale, per essere sviluppata, richiedeva per forza un non storico, visto che gli storici (chi scrive appartiene alla categoria) non sono molto dediti alla fantasia e alla creatività, sono molto filologici e troppo ... storicisti. Invece Buttafuoco è soprattutto un romanziere e un notevole prosatore (ai tempi in cui la prosa italiana si è impoverita e rinsecchita) tanto che questo libro andrebbe valutato prima di tutto come opera letteraria e di stile. È infatti lo stile della scrittura a rendere persuasivi o comunque possibili accostamenti che a prima vista potrebbero apparire bizzarri. Originale, dicevamo, è infatti il libro nella montatura. Una sorta di dizionario dell'immaginario di questi anni con situazioni, eventi, persone in misura più o meno diretta legati a Salvini: si va da «Bacioni» a «Citofono», da «Papetee» a «Socialismo tricolore», da Asia Argento a Maria Giovanna Maglie. Ma, e qui sta l'originalità, Buttafuoco ne cerca gli antecedenti nel Ventennio, attraverso un procedimento analogico in cui la similitudine è spesso colta attraverso i piccoli particolari. A volte poi l'analogia non esiste proprio, anzi c'è un divario totale tra ciò che Salvini pensa e quello che credeva Mussolini, si veda ad esempio la voce «Islam». Ma nella maggior parte dei casi invece prevale una certa consonanza tra i contesti mussoliniani degli anni Venti e Trenta e i nostri, si pensi all'esposizione del corpo in spiaggia o all'abbigliamento: certo Mussolini non indossava le felpe ma il suo vestire era per l'epoca assai informale e sportivo. E qui veniamo all'affermazione con cui abbiamo aperto il pezzo. Analogia c'è tra Mussolini e Salvini perché entrambi hanno intercettato l'immaginario profondo degli italiani, ne sono diventati parte, ne popolavano e ne popolano ancora spesso i sogni. Mussolini e Salvini hanno insomma capito l'anima italiana, assieme ad altre figure che qui, in una sorta di caleidoscopio del Novecento nazionale, non solo politico, emergono, come Craxi e Berlusconi. L'anima italiana: un termine molto in voga tra i bastian contrari fiorentini dell'età giolittiana, i Prezzolini i Soffici e soprattutto i Papini, che Buttafuoco, in un certo senso ultimo erede di quella tradizione, definisce giustamente gli haters del loro tempi. La sinistra disprezza l'anima italiana, noi invece (e certo anche Buttafuoco) l'amiamo anche quando magari ci irrita, ma è parte del nostro noi, cosicché alla fine sono mussoliniani e salviniani, senza saperlo, persino coloro che erano antifascisti ieri (e i più onesti furono in grado di riconoscerlo) e tra quelli che oggi sono contro il Capitano. Cosi come adorava l'anima italiana, pur detestandola, il grande Gadda, con il suo odio/amore per il Duce (Eros e Priapo è talmente un inno all'odio per il Duce da rovesciarsi nel suo opposto) Un Gadda che stilisticamente pervade tutto il libro ma che è visibile soprattutto nell'ultima parte, un breve saggio intitolato Da Rita Hayworth a Elettra Lamborghini, ovvero il Salvini prima di Salvini, in cui emerge la chiave della interpretazione: Salvini, come a suo tempo Mussolini, è «l'Italiano degli arcitaliani». E viene in mente il discorso che Mussolini tenne di fronte ai probiviri del Psi che lo espulsero il 24 novembre 1914: «voi credete di perdermi, ma io vi dico che vi illudete. Voi oggi mi odiate perché mi amate ancora». E chi ama Mussolini e Salvini più degli antifascisti di oggi, che ne sono ossessionati?

·        Salvini è Comunista.

SALVINI VUOLE TRASFORMARE LA LEGA NEL PCI. Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2020. L'ira fredda di Raffaele Fitto. E i governatori nella stanza dei bottoni della Lega. A 72 ore dalla chiusura delle urne, l'ex candidato governatore della Puglia rompe il silenzio con un post indirizzato a Matteo Salvini: «Da tre giorni in ogni dichiarazione parli di me! Mi verrebbe da dire meglio mai che tardi». Il leader leghista, infatti, non ha fatto mistero di considerare il candidato di Fratelli d'Italia non adatto alla sfida con Emiliano. E così, di fronte «all'ingiusto fuoco di fila di dichiarazioni da parte tua e dei tuoi», l'interessato si chiede come sarebbe finita se «rispetto a un anno fa la Lega, in Puglia, non avesse perso 16 punti percentuali: il doppio di quelli che sarebbero stati sufficienti per vincere! Tutti gli altri partiti della coalizione, invece, hanno tenuto molto bene o sono cresciuti». L'ex candidato e a suo tempo già governatore prosegue implacabile con il suo «come sarebbe finita»: se Salvini «avesse citato» Fitto «almeno una volta in tutta la campagna elettorale». Con un riferimento anche alla Toscana: «Dove si sono scelti candidati da te definiti freschi e proiettati nel futuro, non mi pare sia andata meglio». Interviene anche Mariastella Gelmini, la capogruppo azzurra alla Camera. Per dire che «non è utile in questa fase una polemica con gli alleati: Forza Italia è diversa da Lega e Fratelli d'Italia e deve marciare per la sua strada, ma non credo si prendano i voti attaccando gli alleati». Della difesa s' incarica Edoardo Rixi, salviniano influente: «Il tema su Fitto è che noi abbiamo fatto il possibile e abbiamo lasciato agli alleati i candidati migliori: Puglia e Marche erano vincibili e abbiamo messo i nostri candidati nelle regioni più complicate». Insomma: «Salvini ha la capacità di fare il leader perché è generoso e si intesta le battaglie più difficili». Intanto, si è aperto il «cantiere» Lega. Alla riunione dei segretari regionali di mercoledì scorso, convocata per un'analisi del voto alle regionali, Salvini ha annunciato l'intenzione di procedere con una riorganizzazione del partito che qualcuno chiama «modello Pci». I dossier sui diversi temi saranno istruiti da una serie di dipartimenti, ma al classico Consiglio federale si aggiungerà, sempre «modello Pci», una segreteria politica. L'idea, spiega un salviniano di assoluta ortodossia, è quella di «togliere ogni alibi» a coloro che negli ultimi tempi - e soprattutto dopo la delusione delle Regionali - hanno cominciato a lamentarsi dello scarso coinvolgimento del partito nelle decisioni del leader. E così, nella segreteria ci saranno i vice di Salvini (Giorgetti, Fontana, Crippa), i capigruppo alla Camera (Molinari), Senato (Romeo), al Parlamento europeo (Campomenosi). Ma la novità più rilevante è l'ingresso nella stanza dei bottoni di alcuni governatori: Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana. Ma la griglia non è definitiva.

Estratto dell'articolo di Anna Maria Greco per “il Giornale” il 25 settembre 2020. «Amareggiato per le critiche? Macché. Mi prendo una piccola soddisfazione: ho avuto 16mila voti più della somma delle liste di centrodestra. Lo dicono i dati».

Stefano Caldoro lascia il posto di governatore della Campania a Vincenzo De Luca, ma vuole uscirne con dignità. Per Salvini in Campania e in Puglia l'offerta non è stata all'altezza e per questo la coalizione ha perso, con lei e con Fitto. La sua risposta?

«Con una battuta, se io non ho scaldato i cuori, gli altri li hanno gelati. Perché il mio partito, Forza Italia, più la Lega, Fdi, Udc e altre liste connesse arrivano a 450.856 e io, con il voto disgiunto, da solo ne ho avuti 464.921, numeri ufficiali».

Rimane la schiacciante vittoria di De Luca e il suo 18%, da ex governatore.

«E questo si spiega con la dote Covid: oltre il 50% degli elettori ha deciso comunque di confermare il presidente uscente. È un fenomeno ampio, che ha riguardato tutti i presidenti che hanno gestito l'emergenza e ha portato una valanga di consensi personali, cifre pazzesche: Zaia al 57%, De Luca al 44, Toti al 30, Emiliano al 20, il più basso. Noi avversari giocavamo in metà campo, in un bacino ristretto».

Vuol dire che ha vinto la paura, più che il candidato?

«Ho fatto 20mila chilometri in campagna elettorale e tanti per strada mi dicevano: Non si doveva votare, non si cambia comandante quando guida la nave in tempesta'. Di destra o sinistra, ammiratori o critici verso De Luca, ripetevano tutti la stessa storia. (...)

Che dice delle critiche di Mara Carfagna, che si è sentita «epurata» dalla campagna elettorale e accusa dirigenti locali e nazionali di averla ridotta a resa dei conti interna?

«Non mi risulta che non sia stata invitate alle manifestazioni e non è vero che Fi in Campania sia divisa. Lei è una dirigente nazionale ma anche regionale, come vice segretaria vicaria della Campania non è che qualcuno dovesse invitarla. Ho avuto giudizi duri da lei e la mia risposta sono i miei voti. Comunque, tutto questo è irrilevante ai fini elettorali e non mi piacciono le polemiche. Per noi e per il centrodestra è il momento dell'unità».

Eppure il veleno scorre, Salvini dice che per le comunali 2021 vuole candidati imprenditori e in Fi si alzano voci critiche verso il vertice.

«Non contesto l'ipotesi di candidati civici, bisogna vedere se possono vincere. Con il vento in poppa è facile fare battaglie, ma ci vuole coraggio per affrontare la tempesta e io l'ho avuto. Ha pesato anche la mancata presenza del presidente Berlusconi, per forza maggiore. Ora è giusta l'autocritica e l'analisi, per migliorare, però nel centrodestra e in Fi dividersi sarebbe un errore. Gli elettori non capirebbero».

Dagospia il 24 luglio 2020. LA SOLITUDINE DI MATTEO di GIOVANNI ROBERTINI. Che relazione c’è tra la scomparsa del sorriso di una ragazza e l’ascesa al potere di un politico? Una storia d’amore quasi vera e la risposta a questa domanda. Matteo, detto Teo, ha più di quarant’anni quando si trasferisce nel monolocale all’ombra di un banano nella Milano dei boschi verticali. Fa il consulente per una casa discografica, cercando di portare al successo giovani trapper. In giornate solitarie perse tra sigarette, poke e ansiolitici, comincia a sviluppare una delirante ossessione per il politico suo omonimo, onnipresente nei programmi televisivi. Quel Matteo gli fa tornare in mente Tilla, l’ex compagna da cui si e appena separato dopo anni di convivenza. Teo e Tilla si conoscono dai tempi del liceo, lo stesso liceo frequentato dal politico ora in campagna elettorale permanente. I destini dei tre ragazzi si incrociano fin dagli anni Novanta, quando il risentimento di Matteo per essere rifiutato dalle liceali radical chic come Tilla accende la sua passione politica, per attraversare una lunga estate tra una Milano di teste rasate e tatuaggi e i puntuti scogli dei creativi di Ginostra, fino al deserto della Libia dove Tilla si trova oggi per una missione umanitaria. In una bizzarra teoria del complotto, che trasforma il romanticismo in resistenza politica, Teo cercherà di ritrovare il sorriso che ha perso e il suo nuovo posto nel mondo, che sia un monolocale di design o uno scoglio in mezzo al mare.

Estratto da ''La solitudine di Matteo'' di Giovanni Robertini (Baldini e Castoldi): Non bevo da parecchio tempo. Le sere senza l’alcol sono una sala d’aspetto per le emozioni dove il mio turno sembra non arrivare mai. Un gelato dal freezer, sigarette, televisione. Ho resistito solo due giorni senza nella casa nuova, poi ne ho comprata una a buon prezzo e una poltrona nera abbastanza comoda da permettermi di guardarla fino a saziarmi. I talk show durano più di tre ore, e sono di antipatica compagnia, quindi particolarmente adatti. In due settimane di discussioni su tasse, deficit, immigrazione e di briciole di sushi accumulate sulla finta pelle lucida dove mi siedo, ho sviluppato un’ossessione per un politico. L’ho osservato ammiccare, rimproverare, scansare attacchi, fingere e dire la verità. Ricordo i suoi cambi d’abito, da programma a programma, camicia bianca o ancora più sportivo, mai distinto, neanche con la giacca. L’ho inseguito col telecomando, di canale in canale, solo perchè mi faceva pensare a Tilla, a quando c’eravamo conosciuti la prima volta. Matteo, il politico che occupava le serate della casa, aveva fatto il nostro liceo, un anno e una classe più avanti, stessa sezione, la D. Il caso di condividere lo stesso nome, anche se mi hanno tutti sempre chiamato solo Teo, cominciava ad apparire in tutta la sua allucinata forza, tanto da svegliarmi quando il primo telegiornale del mattino lo pronunciava, rimbombando tra le mura della solitudine come il richiamo di un muezzin dal minareto della moschea. E solo una coincidenza che il sorriso di Tilla sia mancato poco più di un anno fa, quando Matteo dopo le elezioni e diventato uno degli uomini più importanti e discussi d’Italia? Tanto il sorriso di Tilla sembrava promessa di felicita, quanto quello di Matteo assomiglia al rancore di un ghigno. Le sue labbra nei pixel della televisione si mostrano insicure, nonostante siano protette dalla peluria della barba, come se fossero mozzicate da parole prepotenti che cercano di uscire anche quando e il turno di tacere, stando al regolamento dei talk show. Il gioco dei confronti tra il volto di fronte a me e quello della mia ex compagna che offusca tutto, sovrapponendosi al reale, esplode in uno spettacolo notturno di elettricità neurale. Sistemi complessi di ricordi si sfasciano e si ricompongono nel caos del caso. Tilla e Matteo sono vite dello stesso pianeta? Quel pianeta esiste ancora o e stato disintegrato? Trovo in rete una foto di Matteo ai tempi del liceo. Faceva già politica, lo si capisce dalla cravatta verde con lo stemma del partito. Ha una pettinatura più antica dell’epoca che lo contiene e, sopra la camicia abbottonata fino alla cima del collo, ha un maglione con la cerniera lampo di un azzurro tragico, sicuramente un regalo di famiglia, nessuno dei suoi coetanei avrebbe affidato la propria giovinezza a un colore cosi sfigato. Eppure gli occhi sparati contro l’obiettivo del fotografo hanno la certezza della vittoria, non sono ancora campioni, ma si sentono forti abbastanza da poterlo diventare. Perchè un campione in potenza indossa la divisa dello sconfitto? Mi vengono in mente quei cowboy che nei film rubano il cinturone e il gilet di pelle al nemico che hanno appena ammazzato. Chi avrà ucciso quel Matteo cosi giovane? Sono tentato di chiamare Tilla, di chiederle cosa si ricorda di Matteo quando andavamo a scuola. Desisto presto dall’idea, non vorrei che lo considerasse un pretesto per parlare di noi, avrebbe anche ragione, almeno in parte. Telefono a Lorenzo, un mio ex compagno di classe che scendeva sempre dal tram insieme a lui. Il nostro liceo aveva una sorta di chiamata a spicchio, in quella grossa arancia caduta a terra che era la citta all’inizio degli anni Novanta. Dal centro si aprivano due linee divergenti che arrivavano a includere non solo la periferia sud-ovest ma anche alcuni comuni dell’hinterland, cosi che il figlio del giornalaio potesse sedere allo stesso banco del figlio dell’imprenditore. Lorenzo era figlio di un sindacalista della Cgil e abitava al Giambellino, storico quartiere operaio e di occupazioni. L’ultima volta che l’avevo visto, tre anni fa in fila a un concerto dei Massive Attack, mi aveva detto di fare il grafico in un’agenzia di pubblicità. E stupito di sentirmi, balzo i convenevoli e gli chiedo subito di Matteo. Lo apostrofa in malo modo, livore e insulti, quasi si sentisse tradito più dalla persona che dal politico. Gli augura ogni male, e invoca resistenza. Vorrei dirgli che resistere non serve a niente, non lo faccio. Devo ricomporre il caos e la sua resistenza mi può essere utile ad accelerare il movimento. Scopro che Matteo abitava in zona Inganni, non un quartiere signorile ma dignitoso. Lorenzo e stato contaminato da quella pioggia ideologica radioattiva a bassa intensità che era la sezione di partito che frequentava suo padre portandoselo dietro la domenica quando giocava a carte con gli amici. Quindi diluisco le sue affermazioni nell’azzurro attempato del maglione di Matteo, ripenso ai cowboy e cosa facevano alle loro prede. Chissà se il padre sindacalista del mio ex compagno aveva nell’armadio un indumento di un colore simile. Secondo Lorenzo, Matteo era uno della piccola media borghesia, ne ricco ne povero, nato in una famiglia che galleggiava decorosamente nell’oceano dei salariati, navigando tra supermarket, villeggiature estive, università e promesse di riscatto. Parliamo a lungo, e quell’odio che mi arriva dall’altra parte del telefono per il razzista, populista, fascista Matteo m’infastidisce e distrae. Devo attraversare il tunnel del mistero, ricordarmi il sorriso di Tilla, guardare il politico famoso alla televisione, perdermi nel mio dolore di solitudine per trovare quello che cerco. Lo saluto senza sapere cosa faccia oggi che ci sono un sacco di grafici pubblicitari a spasso, disoccupati.

Fabio Martini per “la Stampa” il 10 luglio 2020. Sembrava una piccola storia, un capriccio del caso: la Lega che va ad abitare a cinquanta metri dal Bottegone, per 45 anni la "casa" del Pci. La notizia - spuntata sui siti - sembrava finita lì. E invece Matteo Salvini - dopo averci pensato due giorni - ha rilanciato con una provocazione delle sue e nel giro di qualche ora è riuscito ad accendere una fiammeggiante polemica, alimentata soprattutto dagli eredi della sinistra comunista. Tutto è iniziato tre giorni fa, allo spuntare della notizia: la Lega ha preso in affitto un appartamento in via delle Botteghe Oscure, proprio davanti alla vecchia sede del Pci, qualcosa in più di un palazzo: il simbolo di una storia. Peraltro dismessa dagli eredi almeno 20 anni fa. Ma col passare delle ore quella notizia è diventata "pruriginosa", ha acceso polemiche online e Salvini ha pensato che valesse la pena rilanciarla: «I valori di una certa sinistra che fu quella di Berlinguer, i valori del lavoro, degli operai, degli insegnanti, degli artigiani, sono stati raccolti dalla Lega. Se il Pd chiude Botteghe oscure e la Lega riapre, sono contento: è un bel segnale». In pochi minuti dardi indignati hanno raggiunto il capo della Lega. Dal Pd sono stati espressi «orrore e pietà» (Emanuele Fiano), «come parlare di Cristo e Barabba (Achille Occhetto). Lapidario Nicola Zingaretti: «Chiamate il 118». In realtà nella sua breve comunicazione Salvini si è espresso in modo ambivalente, proprio per provocare un incidente: ha parlato dell'eredità di Berlinguer, ma facendo riferimento ad operai e artigiani, ai valori che sarebbero stati, a suo avviso, «raccolti dalla Lega». Un messaggio studiato con i guru della "Bestia" e mirato ai tanti elettori popolari, una volta di sinistra e che da anni, pur votando o simpatizzando per la Lega, restano affezionati ai leader carismatici della sinistra. E infatti, al netto dell'impossibilità di assimilare i valori di Salvini a quelli di Berlinguer, è vero che risultati elettorali e ricerche sul voto delle diverse classi sociali danno in larga parte ragione alla provocazione del capo della Lega. Nelle ultime elezioni il Carroccio ha fatto il pieno in molti quartieri popolari di quelle che per mezzo secolo sono state inossidabili zone "rosse". Arrivando a conquistare innumerevoli roccaforti un tempo inespugnabili: a partire dalla operaia Sesto San Giovanni, la Stalingrado d'Italia, dove governa un sindaco leghista. La ricerca Itanes che dopo ogni elezione produce la più precisa radiografia sulle motivazioni degli elettori (undicimila persone, interpellate prima e dopo le elezioni) ha dimostrato che il Pd - erede sia pur non esclusivo del Pci - ha mantenuto un primato nella "generazione 1968 " ed rimasto il partito dei "garantiti". Ma abbandonato dagli operai "comuni" e anche da quelli "qualificati ": appena il 12,6% di loro ha appoggiato il partito democratico. E la classe sociale per la quale la moderna sinistra è nata, gli operai, nel 2018 ha appoggiato massicciamente i due partiti populisti, 5 Stelle e Lega, ai quali erano andati oltre il 65% dei voti di quella fascia sociale. Ma non basta. Interessante un'altra ricerca, stavolta curata dalla Ipsos, concentrata sulla Cgil, da oltre un secolo il sindacato della sinistra. In questo caso la ricerca si è concentrata sulle Europee 2019: nel segreto dell'urna il 18,5% degli iscritti ha votato per la Lega, con un gradimento per Matteo Salvini che ha toccato il 44%. Con un travaso dai grillini alla Lega rispetto alle ultime politiche. La provocazione di Salvini, più o meno riuscita, era indirizzata a loro.

Federico Capurso per “la Stampa” il 10 luglio 2020. «È vergognoso che Matteo Salvini tenti in questo modo di appropriarsi della storia del Pci». La voce di Emanuele Macaluso si fa d'un tratto limpida, rocciosa, quasi volesse sospendere il tempo e le 96 primavere alle spalle, pur di difendere l'eredità del Partito comunista di cui è stato a lungo dirigente, da parlamentare e da direttore dell'Unità. Ora che di fronte alla storica sede del Pci in via delle Botteghe oscure, a Roma, aprirà una sua sede la Lega, Macaluso parla di «imbroglio, nient' altro».

Macaluso, dov' è l'imbroglio?

«La Lega non ha nulla a che fare, nemmeno lontanamente, con la storia di via delle Botteghe oscure. Salvini crede di potersi appropriare di un pezzo della tradizione politica italiana prendendo in affitto un palazzo in quella strada, ma per me sarà solo un bottegaio che ha comprato un negozio con la sua vetrina, come tanti altri ce ne sono in quella via».

Salvini sostiene invece che i valori del partito di Enrico Berlinguer siano stati raccolti dalla sua Lega. Una provocazione?

«Più che altro, è la dimostrazione che è un imbroglione. Berlinguer è stato un uomo della sinistra vera e profonda, che ha avuto un ruolo nella storia di questo paese. Lui con la sinistra non c'entra nulla. Si professa sovranista, mentre noi eravamo internazionalisti».

Eppure la Lega ha grande consenso nel mondo operaio, sostengono i leghisti, proprio come il Pci. E da anni si trovano a vincere spesso le elezioni nelle vecchie Stalingrado d'Italia.

«Non c'entra nulla il popolo di riferimento con i valori di un partito. La Lega, poi, ha sempre avuto una fascia di consenso tra gli operai, ma ce l'aveva da avversaria del Pci. Ci siamo combattuti a lungo. Ha poca memoria Salvini».

Anche Massimo D'Alema provò a portare la Lega a sinistra.

«E infatti, guardi un po' come si concluse quell'esperimento. C'è stato un momento in cui Bossi cercava di differenziarsi e di avere qualche spunto di sinistra, ma lui, Salvini, ha fatto della Lega una forza di estrema destra».

Passa mai davanti alla vecchia sede del partito?

«Quando sono a Roma, spesso mi capita di passarci davanti. Alla nostalgia ci si abitua con gli anni, ma quel che provo vedendo quella porta chiusa è un sentimento diverso: è nostalgia politica. Perché mi ritrovo a pensare a cosa ha significato, quel palazzo, non solo per la sinistra e il Pci, ma per l'intero Paese. E so quale ruolo il Pci sia riuscito a costruire per l'Italia, in certe fasi della sua storia, anche nei rapporti internazionali».

Quella tradizione, oggi, non la rivede in nessun partito?

«A questo punto, credo sia qualcosa di irripetibile».

Ci sarebbe il Pd.

«Che però ha dentro ex cattolici, ex centristi, ex comunisti. E gli manca ancora qualcosa».

Cosa?

«Per diventare un partito come lo era il Pci, dovrebbe prima sciogliere alcuni nodi, primo tra i quali decidere se è una vera forza democratica di sinistra o meno. I giochini visti negli ultimi anni non possono più andar bene».

Il tentativo di portare il Movimento nel campo progressista può funzionare?

«Il Movimento 5 stelle è un guazzabuglio di persone di destra, come Luigi Di Maio, e persone di sinistra, come Roberto Fico. Questo infantilismo e il voler essere amorfi è anche il motivo della loro crisi di consenso, ora che sono al governo. Fino a quando non risolveranno le loro contraddizioni, anche attraverso una scissione, non potranno esprimere una politica unitaria apprezzata da altri partiti, di sinistra o di destra che siano».

L'EVOLUZIONE DEI SALVINIANI. 1995, quando la Lega in Puglia correva con il centrosinistra. Michele De Feudis il 16 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. “Niente è come sembra” canta Franco Battiato. Per le elezioni di settembre il governatore Michele Emiliano chiama a raccolta i pugliesi democratici contro Salvini e la Lega, ma c’è stata una stagione nella quale la spada di Alberto di Giussano era piantata come una bandierina proprio nel centrosinistra. Basta girare all’indietro le lancette e tornare al 23 aprile 1995. Alle regionali pugliesi si confrontano il Polo della Libertà - Fi, An, Ccd e Ambiente club - con candidato il professor Ninì Distaso (poi vittorioso) e il Polo progressista con due partiti con la falce e martello nel simbolo (Pds e Rifondazione comunista), i Popolari, i Verdi, i laici di centro e proprio la Lega Italia federale di Umberto Bossi, schierata al fianco dello studioso Luigi Ferrara Mirenzi. Nel 1995 il Carroccio era reduce dalle manovre con le quali aveva staccato la spina al primo governo Berlusconi e pensava a una evoluzione nazionale in nome del federalismo macroregionale teorizzato dall’ideologo schimittiano Gianfranco Miglio. Massimo D’Alema, leader del Pds ha recentemente ricordato quegli eventi: «Nel 1994 dissi al Manifesto che la Lega era una costola del movimento operaio. Lo affermai perché gli operai votavano Lega». E così in Puglia l’alleanza fu naturale. I risultati modesti: i leghisti raccolsero solo 6841 voti e lo 0,35% (adesso sono la prima forza del centrodestra). L’intuizione di D’Alema conserva una sua attualità: la Lega - che ha combattuto la Legge Fornero e fatto approvare «quota 100» - è il partito più votato nelle fabbriche e nelle periferie, mentre i dem spopolano nei quartieri borghesi. E la sfida tra elettorati metropolitani e blocchi sociali delle periferie e delle campagne sarà una chiave per interpretare la prossima contesa regionale di settembre… [michele de feudis]

Nel lessico salviniano la forma è sostanza: se parli come mangi il pensiero conta meno. Pino Casamassima su Il Dubbio il 29 gennaio 2020. Il leader che si fa popolo ma non spiega le scelte politiche vive di adesioni acritiche: «non lo so ma mi fido del mio capitano». E’possibile che a Matteo Salvini risulti difficile confrontarsi su più argomenti. Ne deriva che ha bisogno di concentrare la sua azione solo su un punto per volta. Per meglio dire, un nemico per volta: da attaccare con una forma coincidente con la sostanza. Prima i meridionali, poi i migranti, poi gli spacciatori ( con le due ultime categorie intercambiabili, mentre la prima è stata graziata da quando serve come «voto utile» ). Di questo format, il Capitano leghista ha fatto un must che finirà col diventare oggetto di studio a Scienze politiche, e che – dopo le elezioni in Emilia Romagna e Calabria – sarà replicato nelle prossime in Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania, Puglia, oltre che in un migliaio di comuni, fra cui tre capoluoghi di regione ( Aosta, Trento, Venezia), e 14 di provincia ( Enna, Agrigento, Reggio Calabria, Crotone, Nuoro, Matera, Trani, Andria, Chieti, Fermo, Macerata, Arezzo, Mantova, Lecco). La coincidenza fra forma e sostanza nel concetto della politica di stampo salviniano è ben riconoscibile nell’episodio del citofono, laddove il leader leghista ha messo in atto una rappresentazione peggiore di quella del Papeete, perché se un ex ministro nonché aspirante premier agisce così, i suoi elettori potrebbero sentirsi autorizzati ad avere poche o scarse verso gli avversari di turno. Se su quella spiaggia, da vice premier e ministro dell’Interno, si esibiva a torso nudo chiedendo inquietanti “pieni poteri”, davanti a quel portone, e con un abbigliamento da grande magazzino ma da aspirante premier ( perché «io sono come voi» ), reclamava in buona sostanza un voto su di sé. Trasformando le elezioni regionali emiliane e calabresi in un test nazionale, chiedeva un plebiscito ( in terra rossa) che gli consentisse poi di «suonare al citofono di Giuseppi Conti», dimentico probabilmente che in Italia i referendum ad personam finiscono male. In entrambi gli episodi, il linguaggio è stato lo stesso, cioè di basso livello. Sorprendentemente qualcuno ha detto che Salvini «è un grande comunicatore». L’aggettivo «grande» riconduce sempre non soltanto a un ordine di dimensione geometrica, ma pure di qualità: in questo caso, una autentica blasfemia. Il linguaggio di Salvini è volutamente “rozzo” come quello delle piazze che lo osannano, com’è successo a Bibbiano, dove la Lega ha chiuso la campagna elettorale in Emilia. I selfie quotidiani postati sui social con tanto di tagliatelle, salamine, oltre all’immancabile Nutella dopo lo scivolone che aveva innervosito Ferrero ( e i suoi lavoratori), sono la rappresentazione estetica dell’etica salviniana: quella che necessita di un lessico che unisca eletto ed elettore con un progressivo processo di identificazione. Salvini utilizza un linguaggio del corpo e della parola che vuole essere identico a quello dei suoi fan, e la sua «grande» novità politica si riduce a questo: cioè, nella forma che diventa sostanza. Ma un uso tanto disinvolto quanto utilitaristico della comunicazione politica rischia di generare ( se non l’ha già fatto, visto il lessico da trivio sdoganato anni fa dai «vaffa» di Grillo) una deriva che cancellerà ogni differenza – etica ed estetica – fra elettori ed eletti. Quella differenza che segna( va) i diversi livelli di preparazione degli elettori e degli «eletti». Che tali dovrebbero essere: eletti. Cioè, migliori, non specchio dei loro elettori, ché altrimenti s’azzera il senso stesso della democrazia rappresentativa. Il rappresentante deve essere insomma il meglio di quanto possa esprimere un determinato numero di rappresentati. Col suo linguaggio, con la sua fisicità, Salvini ha mescolato il tutto. E per riuscire nella sua «rivoluzione» ha dovuto precipitare il «popolo» nella condizione di «plebe» : quella massa che in un servizio giornalistico, a domande precise sui decreti Salvini sulla sicurezza, non è stata in grado di rispondere. La risposta che più delle altre ha fotografato quella condizione è al contempo la meno balbettante, seppur coerente nella sua autocertificazione d’ignoranza: «Non lo so, ma io mi fido del capitano». Siamo alla democrazia rappresentata «a prescindere». Quella risposta indica la rottura del rapporto fra elettore ed eletto: non c’è più bisogno delle elezioni, perché la fiducia in un Capitano, un duce, un re è totale, a prescindere da quel che dice e fa. Una fiducia che trova costante conferma nei gesti e nel linguaggio del nostro condottiero, che è «come me, perché parla e mangia come me». Questa coincidenza è la fine della politica per come la politica è andata delineandosi dai primi, timidi e incerti passi ( non per tutti) al tempo di Pericle. In politica, infatti, la forma deve veicolare una sostanza di modelli che orientano le diverse pulsioni presenti in una società. Prima della deriva e del crollo dei costumi politici a livello fisico e lessicale, un ministro, in spiaggia, ci andava in giacca e cravatta: perché quello che passeggiava con le sue figlie sulla battigia non era il signor Aldo Moro, ma un ministro della Repubblica, cioè una figura istituzionale.

Nicola Pinna per la Stampa il 13 gennaio 2020. Lui festeggia spargendo cuoricini e in poche ore raccoglie l' applauso di 25 mila persone, un' ovazione che nel linguaggio dei social si misura a colpi di "mi piace". È la solita standing ovation, la dose quotidiana di supporto digitale che Matteo Salvini ottiene per ogni post pubblicato sulla sua iperdinamica pagina Facebook. Una sterminata valanga di consensi che ha fatto del leader della Lega il più seguito tra i politici europei nell' oceano dei social. L' unico che lo batte, e pure di gran lunga, è Donald Trump, che però gioca la sua partita in un altro girone. Nel vecchio continente il più forte è lui, l' ex ministro dell' interno, allenato da un team di specialisti della comunicazione digitale che sceglie ogni giorno i temi su cui scatenare il pubblico che si gode via smartphone la baruffa politica. Il segreto del successo Migranti a casa, sovranismo a quintali e pacchia finita: temi ricorrenti fino all' ossessione, che ancora catturano (senza segni di defezione) le attenzioni di chi alimenta il baratto dei "mi piace" e di chi condivide post, slogan e fotografie. Tutto moltiplicato per tre, anzi per quattro, visto che il leader leghista ha fatto da poco il suo debutto anche su Tik-tok, il social dei balletti preferito dagli adolescenti. E se qui c' è spazio solo per i video, su Twitter e Instagram il vangelo leghista si declina in mille modi: slogan, foto e condivisioni a ritmo continuo. La contesa sui like Il confronto tra Salvini e gli altri esponenti politici italiani sembra una partita tra squadre che scendono in campo con un numero diverso di giocatori. La differenza è tutta nella potenza della "bestia", la macchina della propaganda salviniana dotata di armi di distruzione di massa pronte per essere scagliate sui digital-rivali. Pure i 5 Stelle, nati e cresciuti tra web e social, stentano a rincorrere. Luigi Di Maio, capo politico del Movimento, riesce a mettere in cassaforte giusto la metà del bottino salviniano e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si ferma ancora più indietro: 1 milione di seguaci su Facebook, meno di 500 mila su Twitter e Instagram. In Europa il più forte è il presidente francese Emmanuel Macron, che vince su Twitter con 4,4 milioni di follower, a cui si aggiungono i 2,5 milioni di Facebook e un altro milione e mezzo di Instagram. L' uomo che in qualche modo assomiglia di più a Salvini per linguaggio e carattere è il primo ministro britannico, Boris Johnson, al quale l' impegno sulla propaganda virtuale sembra portare meno consensi. Chi ha deciso di non presentarsi nello regno di chi strilla è la cancelliera tedesca Angela Merkel: giunta quasi a fine carriera ha chiuso il profilo Facebook e quello Twitter. Su Instagram c' è, ma con l' insegna ufficiale della Cancelleria: discorsi e niente propaganda. Politica che oggi sembra di un' altra epoca.

Il Viminale non paga più la "Bestia" di Matteo Salvini. E risparmia mezzo milione di euro. La ministra dell'Interno Luciana Lamorgese si libera dello staff scelto dal leghista suo predecessore e opta per una squadra molto più ridotta. Che costa un quinto. Mauro Munafò il 10 gennaio 2020 su L'espresso. Mezzo milione di euro l'anno. Anzi, anche di più: 560mila euro per essere precisi. È questo quanto si risparmia grazie alle scelte della ministra dell'Interno Luciana Lamorgese rispetto a quanto Matteo Salvini spendeva per i suoi fedelissimi. Il leader della Lega aveva portato con sé al Viminale, negli uffici di diretta collaborazione del ministro, quattordici persone tra segreteria politica e ufficio stampa e comunicazione. Uno squadrone che alle casse statali costava 718mila euro l'anno e che comprendeva, tra i suoi elementi, alcuni degli uomini della cosiddetta “bestia” , il team dedicato alla comunicazione attraverso i diversi canali sui social network di Salvini. La nuova ministra Luciana Lamorgese, che non ha neanche una pagina Facebook, ha preferito invece un approccio radicalmente differente come si può vedere anche dal numero di persone che ha assunto nel suo staff. Al momento risultano infatti solo due i professionisti incaricati direttamente da Lamorgese, per un costo complessivo di 152mila euro l'anno. Grazie al doppio incarico di ministro dell'Interno e di vicepremier del primo governo Conte, Matteo Salvini ha potuto assumere con il budget dell'esecutivo quattordici persone al Viminale per un costo complessivo di 718mila euro, a cui si devono aggiungere altre sette persone presso gli uffici della Presidenza del Consiglio per un importo di 538mila euro l'anno. In totale fanno oltre 1,2 milioni di euro l'anno per la sua squadra. Agli uffici della vicepresidenza del Consiglio Salvini aveva portato Susanna Ceccardi come consigliere per i programma di governo: 65mila euro l'anno che Ceccardi ha lasciato una volta eletta all'Europarlamento. Gli altri staffisti erano: Alessandro Amadori, consigliere per l'analisi politica e sociale (65mila euro), Lorenzo Bernasconi, segretario particolare (100mila euro) Claudio D'Amico, consigliere per le attività strategiche internazionali (65mila euro), Iva Garibaldi, storica responsabile stampa del leghista (120mila euro), Massimo Villa, consigliere per l'esame delle questioni attinenti alle funzioni esercitate dal Vicepresidente (65 mila euro) e il capo di gabinetto Paolo Visca (35mila euro oltre al compenso come consigliere parlamentare). Al ministero dell'Interno Matteo Salvini ha costruito una squadra ancora più corposa: Stefano Beltrame, consigliere diplomatico (95mila euro), Gianandrea Gaiani consigliere per le politiche sulla sicurezza (65mila euro) e i collaboratori Giuseppe Benevento, Luigi Peruzzotti e Andrea Pasini (41mila euro ciascuno). A questi si aggiungono Gennaro Terraciano che ha svolto l'incarico a titolo gratuito e Cristina Pascale, collaboratrice di lungo corso del ministero dell'interno, retribuita 30mila euro. Un discorso a parte lo merita la già citata “Bestia”, in parte gestita da professionisti retribuiti con i fondi ministeriali (altri sono invece a libro paga dei gruppi parlamentari della Lega). Durante la sua permanenza al Viminale, Salvini ha assunto il suo responsabile dei social network Luca Morisi come “consigliere strategico per la comunicazione” per 65mila euro l'anno, a cui si aggiungono gli 85mila euro annui per Andrea Paganella, capo della segreteria di Salvini e socio di Morisi nella società di comunicazione Sistema Intranet Srl, al lavoro dal 2014 per Salvini. Nell'ufficio stampa del ministero dell'Interno sono stati assunti come collaboratori Leonardo Foa (figlio del presidente della Rai Marcello ), Daniele Bertana, Fabio Visconti e Andrea Zanelli, ognuno con un contratto da 41mila euro l'anno. Tutti i contratti citati, trattandosi di uffici di diretta collaborazione con personale scelto a chiamata dal ministro, sono ovviamente decaduti con la fine del mandato governativo di Salvini.

Il mini staff di Lamorgese. Rispetto ai numeri di Matteo Salvini, la ministra Lamorgese ha optato per una squadra assai ridotta. A cinque mesi dal suo insediamento, la titolare del Viminale ha nominato solo il giornalista del Corriere della Sera Dino Martirano come suo portavoce e capo ufficio stampa (120mila euro annui), e ha riconfermato la collaboratrice e già citata Cristina Pascale (con un lieve aumento di stipendio a 32mila euro l'anno).

Ilaria Del Prete per Leggo.it l'1 gennaio 2020. Matteo Salvini senza limiti. Il segretario della Lega ha pubblicato sui suoi social, da Twitter a Facebook passando per Instagram, un video su Facebook in cui interpreta una sorta di scenetta per riproddure la celebre clip ormai virale in cui Papa Bergoglio, strattonato da una fan insistente, schiaffeggia la sua mano. Salvini non si ferma neanche davanti al Pontefice, e cavalca l'onda dell'ironia come se il Santo Padre fosse un avversario politico qualunque. Salvini si trova in montagna, su una pista da sci, in compagnia della fidanzata Francesca Verdini. Anche lei si presta alla parodia di Papa Francesco interpretando la ormai famosa fedele "molesta". Nei panni di Bergoglio c'è lo stesso Salvini, che viene preso per mano dalla finta fan. Quindi simula rabbia, fa il gesto di reagire con uno schiaffo. Ma poi cambia idea e alla fine, invece di allontanarsi bruscamente come ha fatto il Papa, rivolge una carezza alla finta sostenitrice, per poi allontanarsi divertito. Il post è titolato: «Strattonato da fan agitata», accompagnato da un cuoricino.

Amedeo La Mattina per “la Stampa” il 2 gennaio 2020. «Ora tutti mi criticano perché ho giocato con Francesca dicendo che non rispetto il Papa. Ma fatevi una risata, cominciamo il 2020 con una carezza e in allegria, non con il musone. Questi della sinistra sono dei parrucconi». Matteo Salvini in montagna con la figlia e la fidanzata sdrammatizza il post che sta facendo discutere e che è diventato un caso politico.

Forse il suo è un modo per sottolineare la distanza da Papa Francesco su tante questioni, a cominciare da quella dell' accoglienza dei migranti?

«Ma figuriamoci, io ho rispetto per il Papa che ha sempre parlato di accoglienza con limiti e prudenza. Sottoscrivo. Poi il pontefice si rivolge al mondo, io agli italiani. Io critico i benpensanti della sinistra e le femministe che non difendono le donne dalla subcultura islamica».

Ecco, Francesco dice che bisogna ripartire dal rispetto della donna.

«Perfetto, giustissimo, ma voglio ricordare che il rispetto della donna è incompatibile con un certo tipo di Islam: non si possono spalancare le porte agli immigrati di religione islamica e poi parlare di rispetto della donna. Il Cardinale Biffi sosteneva l' immigrazione dai Paesi più vicini e non islamici perché sono più compatibili dal punto di vista culturale e hanno una diversa considerazione delle donne».

Nella Lega però le donne non hanno ruoli apicali.

«In Umbria abbiamo vinto con Donatella contro Giovanni, in Emilia vinceremo con Lucia contro Stefano, in Calabria con Jole contro Pippo. Le abbiamo candidate non perché donne ma perché brave. Giulia Bongiorno nel mio governo ideale sarebbe ministro della Giustizia domani mattina. Erika Stefani da ministro ha fatto una grande lavoro: se i Cinque stelle non le avessero messo i bastoni tra le ruote oggi avremmo l' autonomia che faremo quando saremo al governo».

A proposito di tutela dell' ambiente, nel discorso di fine anno il presidente Mattarella si è soffermato sulla green economy, dicendo che si tratta anche di una prospettiva economica e di nuova occupazione. La Lega è interessata a questa prospettiva verde o anche lei non crede nel Pianeta ci sia un'emergenza ambientale?

«Io credo alla green economy, all' emergenza ambientale. Penso che il futuro dell'economia vada da quella parte e che in quella direzione si crei sviluppo economico. Ma bisogna essere concreti e non avere idee integraliste, ideologiche o, peggio ancora, ipocrite. La sinistra si riempie la bocca di slogan ma poi le Regioni Lazio e Campania non hanno un piano rifiuti. In Emilia-Romagna viene impedito il taglio degli alberi nei greti dei fiumi e la ripulitura dei torrenti: questo non è green ma idiozia. Per non parlare della plastic tax, voluta dal governo e solo rinviata, che penalizza le aziende italiane che sono già le più verdi».

Lei ha detto che a capodanno si fanno i discorsi più melliflui, più incolori, più insapori, mentre le sue sono parole scomode. Allora il presidente Mattarella è mellifluo?

«Non parlavo di Mattarella ma del governo che è quanto di più incolore e insapore ci sia. Un governo senza anima. Uno dei peggiori del dopoguerra: quello di Monti addirittura era migliore. L'ho combattuto, ma almeno aveva un'idea, un progetto. Prima c' erano Craxi, Spadolini, lontani da me, ma oggi abbiamo Zingaretti, Conte, Di Maio. Berlinguer era sei spanne sopra Zingaretti. Anche la Cgil di Lama era un altro pianeta. Il Pci era una sinistra con dei valori mentre oggi il Pd è il peggio del peggio, la peggiore eredità che Berlinguer e Lama potessero augurarsi».

Conte però nei sondaggi batte Salvini. Alle prossime elezioni politiche vedremo il premier, sostenuto dal Pd, contro di lei?

«Se pensano che Conte possa essere il loro candidato allora sono proprio alla canna del gas. Conte non ha un voto, non esiste: ha scoperto il gusto della poltrone e ci vuole rimanere. È passato da "viva la flat tax" ad "abbasso la flat tax", dal no all' autorizzazione a procedere contro di me al sì. Conte è irrilevante: si goda il potere finché può. Per i sondaggi anche Monti e Gentiloni erano in vetta ma poi si è visto che non avevano il voto del popolo».

Lei non ha i voti per evitare l' autorizzazione a procedere sulla vicenda Gregoretti. Accetterà il processo e lo trasformerà in un argomento da campagna elettorale?

«Voglio vedere i 5 Stelle al Senato votare l' opposto di quello che hanno votato pochi mesi fa per difendermi. Voglio vedere i senatori votare contro l' interesse nazionale e sostenere che quello che io ho fatto, con il consenso di tutto il governo di allora, era per mio interesse personale. Dopodiché sono pronto a farmi processare e rischiare 18 anni di carcere».

I sondaggi dicono che in Emilia-Romagna Borgonzoni è dietro Bonaccini di 3-4 punti. Come pensa di recuperare? E cosa risponde a chi dice che Borgonzoni più che una candidata sembra una sua ventriloqua?

«Intanto fare queste affermazioni su Lucia dimostra che i veri maschilisti stanno a sinistra. E poi i sondaggi Swg che ho io dicono che il centrodestra è avanti di 2 punti e che la Lega è al 33%. E che Borgonzoni è al 47% contro il 45 % di Bonaccini».

La Libia è una polveriera, c' è un concreto rischio di infiltrazioni terroristiche. Come si sta muovendo il ministro degli Esteri Di Maio?

«È inesistente. Noi in Libia siamo fuori da tutti i giochi, abbiamo perso la faccia e la credibilità. Eravamo i numeri uno e ci siamo fatti fregare pure dai turchi. In politica estera riparare agli errori è la cosa più difficile. Con l' amministrazione americana stiamo facendo la figura dei cioccolatai, Grillo e Di Maio sembrano quelli che fanno le pubbliche relazioni per Pechino. Siamo arrivati a votare all' Onu contro Israele. Io mi vergogno da italiano di essere rappresentato da questi signori».

Salvini è come Sordi, più bravo di Bossi ma un po’ stalinista. Paolo Guzzanti il 20 Dicembre 2019 su Il Riformista. Matteo Salvini è una macchina politica modernissima perché capace di autocorreggersi, imparare e riprogrammarsi. Ha fatto l’analisi grammaticale dei gravi errori di comunicazione durante la crisi estiva e si presenta sempre con un linguaggio riadattato. Non so se disponga di una squadra di spin doctor, ma certamente ha intorno a sé una squadra di gente che se ne intende: al comizio di San Giovanni il palco era un’astronave di tecnologia, postazioni di computer dietro le quinte, specialisti del suono, delle luci, nulla lasciato al caso. Silvio Berlusconi era eccitato e sbalordito: il vecchio modernista sentiva che una nuova era spaziale aveva preso il posto di quella in cui lui aveva mandando le Panda su e giù per le montagne a portare con la cassetta del secondo tempo dei film alle sue televisioni per dare l’impressione di una rete nazionale che era proibita. Un altro mondo. E, politicamente, Berlusconi aveva fatto quella operazione spregiudicatissima di mettere insieme i leghisti di Umberto Bossi con i fascisti di Gianfranco Fini, ma senza maritarli in chiesa, creando maggioranze impensabili per stoppare la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Oggi Salvini è un apprendista stregone punto cinque, punto sei, chissà. Fa storcere il naso ai veterani bossiani come Giuseppe Leoni, primo deputato storico della Lega, che rimpiange l’anima federalista e rifiuta quella fascista. Ma è un apprendista per ora vittorioso perché il suo progetto assurdo, l’ha portato a dama mettendo insieme terroni e padani. La Lega Nord di Bossi era nata per la secessione federalista dal Regno delle Due Sicilia e dello Stato della Chiesa. Salvini ha avuto l’intuizione di un partito nazionale che occupasse con linguaggio faticosamente ai liniti dell’arco costituzionale (ricordate l’arco costituzionale? Tutti dentro, salvo i fascisti) lo spazio del nazionalismo. Sono gli italiani dei nazionalisti? Sì, ma non come patrioti inglesi. Piuttosto come tifosi di una squadra di calcio con i cartelli lerci arrotolati sotto la giacca. È allo stadio che gli italiani si formano nella loro Accademia di West Point, la loro Sorbone e Trinity College. Quando un giornalista americano chiese a Mussolini chi gliel’avesse fatto fare a inventare il partito fascista, l’ex duce prossimo a piazzale Loreto rispose sfacciatamente: “Io ho fornito soltanto riti e costumi, ma il fascismo se lo sono inventato gli italiani”. Mussolini barava, ma non era stupido. Come mai, d’altra parte, la regione più nera e stra-fascista d’Italia, diventò poi la più rossa, a stessa Emilia-Romagna che a gennaio si teme, che possa votare Salvini? La valvola di sicurezza degli italiani è il trasformismo. Non parlo dei cosiddetti voltagabbana politici che agiscono nel mandato costituzionale “senza vincolo di mandato”, ma proprio degli italiani. Gli ebrei italiani, ad esempio, salvo Carlo Levi pittore, erano tutti più o meno fascisti, come è stato ampiamente riconosciuto nel dibattito che accompagnò la presentazione del libro “Gli ebrei romani dopo le leggi razziali”. Gli italiani ebrei avevano partecipato eroicamente e anche con larghi contributi al Risorgimento ed avevano combattuto tutte le guerre per la loro patria ed erano stati anche nei governi Mussolini, prima che spaventati, si sentirono indignati e traditi dal capo fascista. Il quale aveva una fidanzata ebrea Margherita Sarfatti ed era pazzo di Sigmund Freud (detestato da Benedetto Croce oltre che da Hitler), il quale si rivolgeva a lui chiamandolo “protettore della civiltà”. Mussolini si vendette i compatrioti ebrei non perché fosse antisemita, ma per pura viltà e opportunismo, non avendo i mezzi per combattere una guerra e piatire la mancia tedesca gettando sul tavolo delle trattative una carrettata di morti e di esclusi. Molto italiano. Questo è il genere di vergogna che portiamo addosso. Anche Salvini è molto italiano. Ha capito di aver rotto le palle con i suoi santini e madonne e bacetti a Gesù bambino come gli avevano consigliato le beghine di paese e ha capito che per fare cassa doveva fare una sola cosa: mettersi all’uscita del cinema Italia e ritirare il consenso degli italiani furiosi per l’immigrazione assenza controllo, e terrorizzata. Fino all’arrivo di Marco Minniti al Viminale, il Pd si era venduto il Paese facendo arrivare i disgraziati africani – peraltro i più ricchi in grado di pagare circa milleseicento euro di biglietto su gommone – e gettarli in pasto alla mafia, alla ‘Ndrangheta e a tutti i piccoli affaristi che potevano stiparli in qualsiasi stalla, scantinato, albergo demolito, nutrendoli – inchiesta del procuratore Gratteri in Calabria – di mangime per maiali arricchito con polivitaminici e assegnando loro cessi in cartongesso che crollavano al quinto sciacquone. Migliaia di italiani si sono fatti la Ferrari e la Lamborghini incassando i sussidi per mettere in recinto gli africani e spacciandosi per buoni, creature angeliche, col sorriso di papa Francisco de las Andes. Gli italiani che si son o visti arrivare in paese migliaia di disperati e incazzati, affamati e pronti a tutto, comunque percepiti come aggressivi, pericolosi e sconosciuti, hanno reagito come reagiscono tutte le macchine umane. Io ricordo che quando andavo a partecipare ai dibattiti televisivi con esponenti del PD, dopo la trasmissione ricevevo da loro le confidenze della disperazione perché sentivano che l’elettorato comunista o di sinistra li stava mollando: “Alle riunioni non dicevamo più con Bersani che c’è una vacca nel corridoio, ma che c’è un Africano”. Il Pdi sotto i governi Renzi e Gentiloni, con la breve parentesi di Minniti che è stato prontamente segato dalla corsa alla segreteria, ha fatto tutto da sé per ingordigia di buonismo peloso e da pronto incasso, mandando in bestia i suoi elettori, guarda i rossi umbri che in casa hanno solo libri Feltrinelli. Son o loro che hanno creato le condizioni perché qualsiasi politico con i piedi per terra e la testa sulle spalle si organizzasse per vendemmiare quel ben di Dio. Così è nato Salvini. Gli sbarchi erano già ridotti dell’ottanta per cento grazie a Minniti (e Macron fece una scenata memorabile in proposito) e Salvini ha potuto soltanto interpretare il ruolo di capitano, più precisamente Capitàn Fracassa. Fermava le navi Ong e si trovava di fronte tutta la sinistra che interpretava il ruolo di “noi siamo i buoni e voi siete i cattivi” e lui, Salvini a perso la battaglia della Diciotti i cui occupanti furono presi in carco dalla Chiesa e subito dispersi nei boschi dei Castelli romani, ha litigato con la capitana tedesca che aveva dalla sua parte tutto il mondo Greta, una potenza mondiale micidiale. Mettendosi all’incasso della reazione di spavento, indignazione e rifiuto istintivo della retorica pro-immigrazione senza controlli e regole, senza garantire un tetto ai nuovi venuti, la sicurezza, la salute, l’istruzione, Salvini ha fatto il pieno. Non un pieno facile, perché ha dovuto capovolgere il nordismo trasformandolo in sovranismo nord-sud-est-ovest-ista, cosa resa sempre più semplice dalla festosa attitudine degli italiani di saltare sul carro del vincitore e soccorrerlo se non ne ha bisogno. Salvini non è fascista, a mio parere, anche perché nessuno oggi potrebbe essere fascista. Ci sono i neofascisti che quando li vai a misurare alle elezioni scopri che valgono lo zero virgola zero, neanche le tracce di albumina. Perché non esistono, grazie a dio. Non esistono come politica, come minaccia, e sono in piedi soltanto perché l’antifascismo è stato proclamato religione anziché storia e dunque ha bisogno che ci siano dei fascisti altrimenti manca di punto di applicazione. I neofascisti sono un eritema perenne in tutte le democrazie e dopo la caduta del comunismo sovietico la sorpresa di noi occidentali fu che, scoperchiato l’impero del male (copyright Ronald Reagan) sotto quel coperchio era tutto un pullulare di nazisti, naziskin, razzisti, antisemiti, gente tatuata con tutta l’attrezzeria runica, tutta schifezza che tra l’altro non ha niente a che fare neanche col fascismo italiano, andatevi almeno a leggere la storia. Salvini è in realtà Alberto Sordi. Quei personaggi di Sordi in cui incarnava l’opportunista strutturale: “Come dici, piccola? Sei una negretta venuta dall’Africa nera? A negrè, io te rispetto. ‘A vòi ‘na banana? E pìjete na banana”. Ve ne accorgete meglio quando Salvini usa loffiamente il termine “bimbi” al posto di bambini perché fa più sciroppo. E in genere quando parla e ricostruisce continuamente e con grandissima diligenza (è un enorme merito) la lingua popolare degli italiani della grande provincia unica, modulandosi e riadattandosi come un mutante sbarcato su un pianeta ostile in Terronia, partecipa in diretta alle intemerate contro di lui, ascolta, immagazzina, rielabora, impara e risponde sempre meglio. Poiché la sinistra è di sua natura, ormai e purtroppo, cerebrolesa e inscatolata sottolio, detta sinistra non ha neuroni sufficienti per capire che dare del fascista a Salvini è proprio come spararsi sui coglioni nella famosa barzelletta. Ma attenzione: Salvini è vulnerabile altrove. È filo-putiniano. Di ferro. Lasciamo perdere la faccenda dell’hotel Metropol e dei suoi microfoni nascosti (per forza: è l’albergo in cui si riuniscono gli uomini dell’intelligence). Lasciamo perdere i rubli, dollari, euro, fiorini e denaro di Monopoli. Il punto è: Salvini, come la LePen, è abbracciato con Putin e deve accollarsi il putinismo come religione. Ora Putin – proprio in queste settimane – sta riabilitando Stalin per motivi identitari spiegati in Italia dal suo ideologo viaggiante Dughin. Provate a chiedere a Salvini che ne pensa di Stalin e del comunismo sovietico. Vedrete come svicolerà parlando d’altro. Lo stesso la Meloni, che a sua difesa può ben dire di non conoscere la storia e spesso neanche la geografia. Ma chiedete dei giudizi netti, precisi, univoci, e avrete risposte contorte e molto benaltrismo: ben altri sono i problemi, ben altri i temi… Salvini è ormai un esperto navigatore e gli opinionisti e i giornalisti televisivi sanno che se vogliono fa carriera e tenere a contratto la cadrega devono praticare un sovranismo preventivo, magari un po’ problematico – il dubbio del resto è stato elevato a virtù civile anziché dichiarato piaga nazionale – e riavrete la stessa Italia che descriveva Manzoni nel discorso sul carattere degli italiani, Manzoni nel romanzo e nella colonna infame e Collodi con Pinocchio vittima del gatto e della volpe. Dna, tutto scritto. Salvini legge quel Dna come un cieco legge il Braille. E in questo, per ora, nessuno lo batte e, dunque, aspettatevelo pure dietro l’angolo, perché dietro l’angolo ce l’avete messo voi, un voi ecumenico.

·        I Salviniani.

Lega, Salvini crea la segreteria "allargata" per restare solo al comando. Carmelo Lopapa su La Repubblica il 26 ottobre 2020. Doveva essere un organismo snello e operativo quello pensato per affiancare il leader nelle scelte più delicate. Ma di fatto è un comitato ampio, composto da ben 33 dirigenti che rappresentano tutta la nomenclatura leghista, governatori compresi. All'insegna del "tutti dentro, nessuno conta" al di fuori del capo. Sembrava avesse imparato la lezione, Matteo Salvini. "Più delego e più sono contento", aveva detto dopo la sconfitta in Toscana e il calo dei consensi delle regionali rispetto alle Europee, dopo il tonfo delle amministrative. Non si era spinto fino all'autocritica, dote che non gli appartiene. Ma aveva annunciato ai suoi e a tutti una svolta: la nascita di una segreteria politica snella e operativa dalla quale farsi affiancare per le scelte più delicate. Sembrava l'avvento della primavera "araba" in Lega, uno squarcio di democrazia interna in un partito che - dai tempi di Umberto Bossi, va detto - ha conosciuto solo la legge del capo. E invece, a un mese di distanza, quando il segretario ha finalmente svelato la composizione della squadra, si scopre che non è poi così snella come tutti si aspettavano. I 33 dirigenti che la compongono rappresentano di fatto tutta la nomenclatura della Lega, una falange. Talmente allargata e diluita, commenta chi pensava di rientrarvi ma insieme a pochi altri, che l'effetto sarà quello del "tutti dentro, nessuno conta". La conseguenza, piuttosto chiara nel partito, è che continuerà a comandare sempre e soltanto il capo. Dentro ci sono i tre vicesegretari Giorgetti, Fontana e Crippa, non più alcuni governatori come pensato all'inizio, bensì tutti: Attilio Fontana, Zaia, Fedriga e Tesei. Con loro Fugatti, a capo della provincia di Trento. E poi il presidente del Copasir, Raffaele Volpi, i capigruppo di Camera, Senato e Eurogruppo (Molinari, Romeo e Campomenosi). Ma tra i tanti altri - da Giulia Bongiorno a Lucia Borgonzoni a Claudio Durigono - sono comparsi anche Andrea Paganella, capo della segreteria di Salvini e coordinatore degli staff, uomo ombra del leader e "gestore" unico dell'agenda e dei contatti, e un personaggio chiave del "salvinismo", quel Luca Morisi che ha inventato di fatto la comunicazione social. Insomma, l'ideatore della "Bestia" leghista che ha mietuto in questi anni contatti e consensi. Tanto basta per comprendere come la squadra sia stata creata dall'allenatore a propria immagine e somiglianza. Il segretario federale ha spiegato in queste ore che il suo partito non è "di plastica, come il M5S". Sostiene che per una forza politica vera serve un organismo di vertice articolato e composito. Nello stile del tanto vituperato Pd. Sarà pure così. Ma è difficile fin d'ora immaginare - fatta eccezione per l'unico vero alter ego ai vertici del partito, Giancarlo Giorgetti - che nelle prossime riunioni della segreteria qualcuno alzerà il dito per criticare la linea ondivaga di Salvini sulla strategia anti Covid o la convivenza con l'estrema destra in Europa. Come restare contenti senza delegare.

I fondi per i disabili finiti sui conti dell’ex deputato leghista Toni Rizzotto. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Salvo Toscano. La Guardia di Finanza sequestra 500.000 euro al politico e a un suo collaboratore. Erano stati erogati dalla Regione per un istituto di formazione e assistenza. I finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo hanno sequestrato complessivamente 500 mila euro a Toni Rizzotto di 67 anni, ex deputato regionale all’Assemblea regionale siciliana che faceva parte del gruppo della Lega, e Alessandro Giammona, di 45 anni, accusati di peculato per aver sottratto somme di denaro dalle casse dell’Istituto formativo per disabili e disadattati sociali (Isfordd), ente destinatario di fondi pubblici erogati della Regione Sicilia. Il provvedimento è del gip del tribunale di Palermo. Le indagini, coordinate dalla procura, scaturiscono da denunce del 2017 da diversi ex dipendenti dell’ente di formazione, nelle quali venivano segnalate irregolarità nella gestione delle somme che dovevano essere impiegate per le finalità istituzionali per l’organizzazione di corsi di formazione a favore di categorie tutelate per l’inserimento nel mondo del lavoro. Secondo quanto accertato dai finanzieri Rizzotto, nella sua qualità di presidente dell’ente, avrebbe ricevuto tra il dicembre 2012 e l’agosto 2016, senza averne titolo, la somma di 32.520 euro tramite bonifici bancari e assegni tratti sui conti correnti dell’Isfordd, mentre Giammona, responsabile esterno operazioni, potendo utilizzare le credenziali di accesso ai conti correnti dell’Istituto di formazione fornitegli dal presidente, si sarebbe autoliquidato somme per un totale di 456.993 euro negli anni 2013-2017, finalizzate a compensare le prestazioni, pur in assenza di qualunque rapporto lavorativo formalizzato con l’ente che dal 2012 al 2015 ha ricevuto finanziamenti pubblici per 1.500.000 euro.

Da corrieredellacalabria.it il 18 gennaio 2020. Una trovata “geniale” per ogni campagna elettorale. Prima o poi qualche spin doctor di quelli che mutano il corso delle carriere politiche se ne accorgerà e verrà a tributare i giusti onori a Leo Battaglia da Castrovillari, eterno candidato di Calabria. Siamo seri (il giusto): la prima trovata non fu proprio geniale. Se ne vedono ancora i segni sui muretti di quasi tutte le statali della Provincia di Cosenza. I “Leo Battaglia alla Regione” sono ancora lì: l’allora candidato a Palazzo Campanella fallì l’aggancio al sogno della politica che conta; promise di cancellarli ma niente. Mettiamola così: sapeva già che ci avrebbe riprovato cinque anni dopo, passando da Fratelli d’Italia alla Lega, si è portato avanti con il lavoro. La seconda trovata spetta al fratello gemello, Francesco. Che in un appello per le Comunali di Castrovillari se ne uscì con una sorta di “votatemi, tanto non vi vede nessuno”. Una nuova declinazione (vincente, è stato eletto in consiglio comunale, e senza imbrattature) del celeberrimo “nell’urna Dio ti vede, Stalin no” con il quale la Dc vinse le drammatiche Politiche del 1948. Per le Regionali del 2020, però, Leo Battaglia si è superato. Avendo a disposizione un doppio “naturale” – il suo gemello, appunto – ha deciso di sfruttare la posizione di vantaggio rispetto agli altri candidati. Così, all’evento di Crotone nel quale Matteo Salvini ha presentato i candidati alle Regionali del Carroccio, ha mandato suo fratello (cerchiato in verde nella foto sopra). Sul palco, accanto al leader della Lega che arringava la folla, c’era il gemello Francesco. A cena, di nuovo Francesco a stringere mani e parlare di politica. E Leo? Beh, lui continuava la campagna elettorale sul territorio per rastrellare consensi e, magari, superare quota 2.271, che nella scorsa tornata regionale non fu sufficiente ad assicurargli un posto al caldo dell’Astronave della politica calabrese. Sono i vantaggi di avere un doppelganger in casa, un gemello buono, pronto a prendere il tuo posto. E realizzare, senza alcuno sforzo, il sogno di ogni politico nel corso della campagna elettorale: possedere il dono dell’ubiquità. Altro che scritte che imbrattano i muri, qui si tratta di raddoppiare sforzi, appuntamenti elettorali e (magari) consensi. Certo, c’è il rischio di far arrabbiare i vertici calabresi della Lega e il Capitano in persona, che potrebbe non gradire la presenza di un sosia sul palco al posto del candidato originale. Chissà se oggi, nel suo secondo tour elettorale calabrese, Salvini incontrerà Battaglia. Ma soprattutto, quale dei due? Quello originale o il gemello consigliere comunale? Mistero fitto. Di quelli che neppure l’ex ministro dell’Interno potrà risolvere con certezza assoluta. 

·        I Comunisti contro il Comunista Salvini.

Matteo Salvini moderato è un'illusione. La sua destra sarà sempre illiberale. L’identificazione totale tra leader e partito obbliga alla propaganda permanente. Per questo immaginare una svolta del leader della Lega è come credere all'Isola che non c'è. Sofia Ventura il 2 gennaio 2020 su L'Espresso. Che animale è la Lega per Salvini Premier? Spesso quando si discute di politica, quando ci si interroga su ciò che accade e cosa invece potrebbe altrimenti accadere, si compie l’errore di prescindere dalla natura dei protagonisti. Si proiettano i propri desideri sul tale leader o il tale partito e si ragiona su ciò che dovrebbero fare, come se chiunque e qualunque organizzazione potessero intraprendere qualunque via, senza limiti. E invece i limiti ci sono, eccome, e hanno a che fare con ciò che un leader o un partito “sono”. La Lega, dopo il congresso straordinario dei giorni precedenti le festività natalizie, ha fornito un riconoscimento formale all’ulteriore processo di personalizzazione, rispetto alla Lega Nord di Bossi, impresso dalla segreteria di Matteo Salvini. La vecchia Lega assume sempre di più la forma della bad company e apre definitivamente la strada alla nuova Lega. La quale possiede nientemeno che il nome del suo leader. Ciò che Berlusconi aveva fatto per le campagne elettorali, designare la lista con il proprio nome, Salvini replica per la propria “campagna permanente”. In ogni momento il partito è un partito per “Salvini Premier”, quella è la “mission” dell’organizzazione. Si potrebbe quasi ipotizzare che la strada intrapresa abbia prodotto il passaggio da un partito personalizzato a un partito (quasi) personale. Il quasi sta a ricordare che nel trasloco dall’una all’altra Lega si muoveranno pezzi della Lega territoriale. Ma che forza potranno avere nella Lega nazionalizzata e personale il cui traino è l’artefice e (per ora) garante della forza elettorale? La nuova Lega non ha altro volto che quello di Salvini. Il volto mediatizzato, spettacolarizzato, ubiquo - dai social alle piazze - di Salvini. E si esprime attraverso la parola di Salvini, orgogliosamente populista, unica interprete della volontà popolare. La cifra della Lega per Salvini Premier non può dunque essere altro che la cifra dello stesso Salvini, che a sua volta fonda la propria forza sulla mobilitazione continua, il surriscaldamento costante del dibattito pubblico, la perenne divisione del mondo in forze del bene e forze del male, la periodica evocazione di complotti ai danni del popolo, vessato da malvagie élite al soldo di poteri più o meno oscuri. Tout se tient : estrema personalizzazione, nazionalizzazione, messaggio manicheo e surriscaldato, consenso nell’opinione pubblica. Salvini, la Lega per Salvini Premier, i fan scatenati sul web, le piazze plaudenti e le signore commosse costituiscono una sorta di corpo unico. Questa è la “natura” della Lega per Salvini Premier, del salvinismo. Un tale “animale” non potrà che comportarsi secondo certi schemi. Non potrà rinunciare al suo messaggio radicale e populista, né tantomeno allo stato di eccitazione permanente. Pena la perdita del consenso, obiettivo supremo e pressoché esclusivo. Al tempo stesso non potrà che assumere posizioni mutevoli, anche con modalità improvvise, e incoerenti, poiché la linea è sempre in capo al leader e ai suoi umori, detentore del bene supremo: la capacità di attirare sostegno e voti. Il leader, anche se non prevediamo nel breve periodo, potrebbe perdere forza e popolarità. Ma a questo punto della storia trascinerebbe probabilmente con sé la propria creatura. Altri potrebbero prenderne le redini, forse. Altri più moderati e equilibrati. Ma con il consenso decimato. Il salvinismo, ripetiamo, è dunque questo corpo complesso dove ogni pezzo partecipa del tutto e consente il successo presso l’opinione pubblica. Il salvinismo non può che essere così. Pensarlo più moderato, capace di abbandonare l’attitudine anti-sistema, la propaganda urlata e politicamente scorretta e di adottare linee coerenti, costanti e ragionevoli, significa pensare l’isola che non c’è. La destra italiana con Salvini non potrà che essere una destra illiberale e di mobilitazione permanente. Lungi dall’essere ”problem solver” (risolutrice di problemi) non potrà che essere creatrice e sfruttatrice di problemi. Perché questa è la sua natura. Il resto sono pii desideri.

Federico Giuliani per ilgiornale.it il 27 dicembre 2019. Una squadra di calcio femminile di Ancona iscritta agli elenchi ufficiali della Figc ha deciso di chiudere l'anno sportivo disputando una partitella in famiglia. Fin qui non ci sarebbe niente di male, se non che, prima del fischio d'inizio, i protagonisti della festa si sono schierati a centrocampo esponendo un cartello che ha preso di mira niente meno che Matteo Salvini. “Diamo un calcio a Salvini”, recitava il messaggio veicolato dall'Ancona Respect. Lo slogan è stato esposto per protestare contro la “presenza tossica” del leader leghista in quel di Ancona. Anche se è difficile trovare una spiegazione logica all'esposizione di un cartellone del genere in una giornata spensierata e distante dal mondo politico, il team biancorosso ha così giustificato la sua decisione: “Attraverso lo sport ogni giorno contestiamo e ci opponiamo al clima di odio e razzismo propagandato da leghisti e fascistoidi di turno. Ogni giorno dimostriamo a tutte e tutti che nuovi modi di vivere il calcio e la città sono possibili. Non permettiamo che si speculi sulla nostra città o che si sparga odio per raccogliere qualche voto”. Il comunicato dell'Ancona Respect si è concluso tirando in ballo fascismo e razzismo, rigorosamente connessi a Salvini: “Ancona è la nostra città e sappiamo riconoscere benissimo da soli quali sono i suoi nemici. Fuori fascisti e razzisti da Ancona, qua gli unici stranieri siete voi”. Al di là dell'infelice e censurabile cartellone, il fatto che la squadra abbia coinvolto in un'iniziativa del genere anche la formazione under 12 lascia alquanto perplessi.

La risposta della Lega. Non a caso il deputato della Lega, Paolo Grimoldi, si è soffermato proprio su questo particolare per denunciare l'accaduto: “Purtroppo stiamo entrando in un altro ventennio, quello dei fascisti Rossi, o arancioni, o arcobaleno, quelli che hanno individuato un nemico in chi non la pensa come loro e pur di eliminarlo, anche fisicamente, usa ogni metodo, anche l’indottrinamento dei bambini. Succede già in molte scuole, purtroppo, succede su un campo da calcio, ad Ancona, dove bimbi di 11 anni vengono manipolati e subiscono il lavaggio del cervello con la scusa di una partita di pallone, intitolata diamo un calcio a Salvini. Ci rendiamo conto della gravità di episodi come questi? Se inculchi l’odio verso un nemico ad un bimbo di 11 anni cosa speri di ottenere? Di farne un militante? Un estremista? Stiamo tornando al ventennio, mala tempora currunt”.

Diritti negati, revisionismo e discriminazioni: così la destra di Salvini governa sul territorio. Viaggio nei comuni e nelle regioni amministrate dai sovranisti, impegnate in una guerra senza quartiere ai simboli "avversari". E dove governatori, sindaci e consiglieri comunali fanno a gara nel riabilitare il fascismo, togliere gli striscioni per Regeni, negare sale a chi la pensa in maniera diversa. Federico Marconi e Mauro Munafò il 7 gennaio 2020 su L'Espresso. Quando un esercito conquista la roccaforte del nemico, per prima cosa toglie la bandiera degli sconfitti per issare la sua. È il gesto simbolico per eccellenza: mette la parola fine a ogni contesa, chiarisce subito e in maniera inequivocabile chi comanda. È quello che hanno fatto nell’ultimo anno e mezzo gli amministratori locali della Lega di Matteo Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Governatori, sindaci, consiglieri regionali e comunali: i politici più legati ai territori, quelli che ne tastano il polso, più vicini agli umori degli elettori. Non si sono accontentati dei risultati elettorali, ma hanno dato il via a una guerra diffusa contro i simboli e le bandiere degli avversari, dei “nemici” politici. Sale del comune negate a libri o a dibattiti “scomodi”, patrocini tolti agli eventi del mondo Lgbt+, striscioni di campagne di sensibilizzazione strappati via, rimozione e alterazione progressiva della memoria della resistenza antifascista, cittadinanze negate ai reduci dei campi di concentramento e confermate a Mussolini, luoghi della cultura vietati ad artisti non allineati alle idee dei nuovi potenti, limiti burocratici alla libertà di culto. Sono solo alcune delle bandiere rimosse dopo l’insediamento degli amministratori sovranisti. Tra il 2018 e il 2019, anno appena concluso, L’Espresso ha contato circa ottanta episodi di questo genere in tutta Italia, da Nord a Sud, isole comprese. Divieti e boicottaggi che spesso rimangono confinati negli articoli delle cronache locali senza suscitare forti reazioni. Ma che quando arrivano sotto i riflettori della ribalta nazionale, sono quasi sempre derubricati in fretta come gaffe, giustificati con cavilli tecnici dei regolamenti comunali o identificati come folklore di qualche politico di provincia in cerca di visibilità. Non sono episodi di poco conto, nonostante patrocini, striscioni, cittadinanze onorarie non abbiano nessun costo per le tasche dei cittadini. Il valore è simbolico. Proprio per questo, mettendo insieme i vari gesti, viene alla luce una strategia più ampia: non vale più la regola secondo cui passate le elezioni chi amministra è “il sindaco di tutti”, anche di chi non lo ha votato. Non c’è una semplice alternanza al potere, come in ogni democrazia sana, ma un cambio di paradigma e di valori di riferimento che deve essere evidente ai cittadini. E che, gli piaccia o meno, devono accettare.

NON C’È POSTO PER REGENI. La prima bandiera che gli amministratori sovranisti non possono sopportare nei loro territori è in realtà uno striscione giallo. Quello con su scritto “Verità per Giulio Regeni” ed esposto a partire dal 2016 sulle facciate di oltre 250 comuni d’Italia. La campagna di Amnesty Italia per chiedere giustizia e tenere i riflettori accesi sul caso del ricercatore italiano brutalmente torturato e ucciso in Egitto da uomini legati al regime di Al-Sisi è una vera ossessione per la Lega. Non a caso, appena eletti a Ferrara, i leghisti hanno pensato bene di farsi fotografare trionfanti con il logo di Alberto da Giussano a coprire il telo giallo fuori dal palazzo del Comune. Telo giallo che ad ottobre è stato poi bruciato da ignoti. A giugno è stata la regione Friuli Venezia Giulia, governata dal 2018 dal leghista Massimiliano Fedriga, a decidere che la sede di Trieste, città in cui è nato Regeni, non doveva più esporre il vessillo di Amnesty. «È l’ennesima pretestuosa provocazione», ha risposto Fedriga al coro di critiche, con tanto di contrattacco. «Malgrado non condivida la politica degli striscioni e dei braccialetti, non ho fatto rimuovere lo striscione per più di un anno per non portare nell’agone politico la morte di un ragazzo». Bontà sua. D’altra parte era stato lo stesso Matteo Salvini, nella sua prima uscita da ministro dell’Interno sul tema, a dichiarare al Corriere della Sera: «Per noi, l’Italia, è più importante avere buone relazioni con un Paese come l’Egitto». Così l’elenco di comuni de-regenizzati dal centrodestra si è allungato: Treviso, Pisa, Mogliano, Montichiari, Alba, San Daniele del Friuli, Cassina de Pecchi. Fino ai casi da guinness dei primati per velocità: a Sassuolo, nel modenese, lo striscione è stato rimosso tre settimane dopo la vittoria alle urne del Carroccio. A Cagliari invece ci hanno messo un po’ di più, cinque settimane. Nella sede della Regione Piemonte di Torino lo striscione ereditato dall’amministrazione di centrosinistra lo hanno tenuto, ma lo hanno affiancato a quello che chiede “Verità su Bibbiano”. Anche dove la Lega è in minoranza poi non sta con le mani in mano, come dimostra la mozione al consiglio comunale di Fidenza per far togliere il simbolo per Giulio. Le motivazioni ufficiali di queste rimozioni variano dal comico al surreale. «È una vicenda non più di attualità», «in centro storico stava male», «il municipio non è lo stadio». C’è persino chi si giustifica dicendo che la scritta era rovinata o impolverata e per questo andava eliminata. «Nella destra italiana manca una cultura dei diritti e così ogni campagna che ne parla viene percepita come qualcosa di estraneo, degli altri» commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ong promotrice dell’iniziativa su Regeni. «Questo attacco alla campagna per la verità su Giulio non è solo triste, ma è qualcosa di pericoloso e da condannare per due ragioni. Per prima cosa in questo modo si ingabbia una battaglia che dovrebbe essere di tutti dentro una sola parte politica. E, seconda cosa, rinforza l’idea sbagliata che queste iniziative debbano durare solo un tempo stabilito invece di andare avanti fino a quando non viene raggiunto il risultato».

LA MEMORIA DI PARTE. Non è solo la richiesta di verità per Giulio Regeni a essere considerata di parte. Anche quando si parla di Shoah, di resistenza, e di iniziative per tramandarne la memoria, c’è un’espressione usata da molti sindaci di Lega e Fratelli d’Italia: «È divisivo». Un ritornello che ormai torna sempre più spesso. Come per il viaggio per Auschwitz che Deina, associazione che realizza “percorsi educativi rivolti a giovani partecipanti”, voleva organizzare. E per cui ha chiesto un contributo, 370 euro, per pagare le spese di uno studente residente nel comune al sindaco di Predappio, città dove è nato e sepolto Benito Mussolini. Roberto Canali, primo cittadino di centrodestra eletto in quella che è stata per anni una storica roccaforte della sinistra, a quell iniziativa ha detto no. «Abbiamo preferito non collaborare con chi organizza questi viaggi, perché questi treni vanno solo da una parte. Quando i “treni della memoria” andranno in tutte le direzioni e si fermeranno anche presso altri luoghi di oppressione del Novecento, come per esempio il Muro di Berlino o le Foibe, allora la nostra amministrazione contribuirà all’iniziativa». A chi gli ha fatto notare che l’associazione organizza viaggi anche in altri luoghi simbolo della violenza del Novecento, ha risposto: «A noi hanno chiesto soldi solo per Auschwitz». Se per il sindaco di Predappio un viaggio della memoria è di parte, per quello di Schio, comune nel vicentino, le pietre d’inciampo in ricordo delle vittime delle deportazioni nazifasciste «portano odio e divisioni». Ha risposto così la maggioranza dei consiglieri comunali, eletti con la Lega e Fratelli d’Italia, alla mozione del centrosinistra per ricordare le 14 vittime che vivevano nella cittadina. «Iniziative del genere rischiano di portare di nuovo odio e divisioni. Come possiamo pensare di ricordare solamente qualcuno a discapito di altri?», ha affermato un consigliere eletto nella lista a sostegno del sindaco. Che a sua volta ha tuonato: «Non accettiamo strumentalizzazioni». Il primo cittadino di Schio non è l’unico che si è dovuto difendere da “strumentalizzazioni”. È la stessa espressione che hanno utilizzato decine di amministratori di centrodestra che hanno bocciato mozioni per dare la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. La senatrice a vita, sopravvissuta alla deportazione nel lager di Auschwitz, è costretta a vivere sotto scorta per le minacce ricevute dopo l’istituzione della Commissione parlamentare contro l’odio, da lei proposta. Uno degli ultimi episodi è quello di Cigliano, in provincia di Vercelli: il 29 dicembre il sindaco ha definito “strumentale” la richiesta di un consigliere comunale - di Fratelli d’Italia - di concedere la cittadinanza alla senatrice: «Una proposta senza senso, io mi asterrò dal voto». Un altro caso tra tanti, sempre in Piemonte, è quello di Biella: il sindaco, il leghista Claudio Corradino, ha prima negato l’onorificenza a Segre per poi proporla al conduttore di Striscia la notizia Ezio Greggio - che ha rifiutato «per rispetto alla senatrice». Il primo cittadino, dopo le polemiche, ha fatto marcia indietro, scusandosi: «Sono stato un cretino».

QUANDO IL VALORE È “DIVISIVO”. «Ci sono però tantissimi sindaci che non sono così: come i seicento che hanno partecipato alla manifestazione organizzata da Beppe Sala a Milano in sostegno di Liliana Segre». Non vede tutto nero Carla Nespolo, presidente dell’Anpi. Anche l’associazione che riunisce i partigiani negli ultimi mesi ha subito le ostilità delle amministrazioni di centrodestra. Come a Trieste, il 25 aprile, quando il sindaco leghista Roberto Dipiazza non ha voluto i partigiani sul palco delle celebrazioni della Liberazione: «Così la festa non è divisiva». O a Lentate sul Seveso, in Brianza, dove la sindaca di Forza Italia ha “abolito” per un anno le celebrazioni: «Nel 2020 avremo una festa apartitica e apolitica». Non solo il 25 aprile, ma anche tante altre iniziative, come le pastasciutte antifasciste in memoria dei sette fratelli Cervi uccisi dai fascisti il 28 dicembre 1943. Tra chi ha negato il patrocinio, ci sono i sindaci della Lega di Sassuolo e Mirandola, comuni nel modenese: «No alla pastasciutta antifascista perché “anti” è divisivo», hanno motivato la loro decisione. «Purtroppo c’è ancora chi non sa che se non ci fosse stata la Resistenza e i partigiani, non ci sarebbe stata la Repubblica. È difficile da dire 75 anni dopo. E dà più fastidio vedere che molti sono amministratori locali, quelli più vicini ai cittadini», afferma all’Espresso Carla Nespolo. «Come si fa a dire che l’antifascismo “è divisivo”? Ci sono stati antifascisti di ogni colore e cultura politica. Non è un valore di una parte, è il valore fondativo della nostra Costituzione. La stessa su cui giurano quando vengono eletti». Un giuramento che non sembra preoccupare i tanti sindaci che ammiccano ancora al fascismo. Come quello di Terralba, in provincia di Oristano, che nonostante una raccolta di firme per togliere la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, gliel’ha confermata. O quello di Anzio, sul litorale laziale, che oltre a confermare l’onorificenza al dittatore, l’ha negata a una vittima locale delle persecuzioni razziali. O il sindaco di Gorizia, che lo scorso gennaio ha ricevuto in comune una delegazione della X Mas, reduci dei battaglioni del principe nero Junio Valerio Borghese. E quello di Finale Emilia, che sul palco del 25 aprile elogia pubblicamente un gerarca fascista. Iniziative, queste, evidentemente non “divisive”.

NON SI MARCIA PER I DIRITTI. Dal nero all’arcobaleno. «Utero in affitto, sdoganamento della pedofilia, poliamore sono gli obiettivi che vogliono raggiungere». Con queste parole, a metà dicembre, una consigliera comunale di Rieti ha espresso la sua «più ferma opposizione» alla candidatura della città come sede del Lazio Pride 2020. «Voleva difendere la famiglia tradizionale», ha cercato di sedare le polemiche il primo cittadino del comune laziale, un ex missino ora in Fratelli d’Italia. «Io però non darò l’autorizzazione». È solo l’ultimo caso di amministratori di centrodestra che si oppongono alle manifestazioni per i diritti Lgbt+. Sono decine in tutta la penisola: Novara, Pisa, Monza, Frosinone, Piombino, Genova, le province di Varese e Trento, la Regione Lombardia. Spesso giocano sui pregiudizi, con affermazioni ai limiti della diffamazione. Altre volte avanzano motivazioni ideologiche. Come la giunta regionale lombarda, che ha negato ogni tipo di sostegno al prossimo Milano Pride: una mozione chiedeva di illuminare il Pirellone con i colori della bandiera arcobaleno, «come è stato fatto nel 2019 per il Family Day». Proposta bocciata dalla maggioranza: «È una baracconata che non rappresenta nemmeno tutti gli omosessuali», la risposta seccata di un consigliere leghista. «Il clima politico degli ultimi mesi ha sdoganato un atteggiamento ancora più ostile da parte di alcuni amministratori, che si sentono autorizzati ad avere atteggiamenti che un tempo non si sarebbero nemmeno sognati», evidenzia Gabriele Piazzoni, segretario nazionale Arcigay. «Non solo per quanto riguarda i patrocini per i Pride, ma anche per l’abbandono della Rete Ready da parte di alcuni sindaci della Lega». La Rete Ready è un sistema nazionale che mette in relazione le amministrazioni contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Un progetto che non pesa sulle casse locali, ma che - come L’Espresso ha raccontato lo scorso ottobre - sta venendo “smantellato” da molti comuni di centrodestra: Siena, Pistoia, Sesto San Giovanni, Trieste, Piacenza, Udine e la Regione Friuli Venezia Giulia hanno tutti abbandonato l’iniziativa che, grazie a dei finanziamenti, avvia corsi di aggiornamento, formazione e sensibilizzazione. A Genova invece, il sindaco Marco Bucci ha aderito all’accordo dei comuni liguri in difesa della “famiglia tradizionale” proposto dal Forum Ligure delle Famiglie. Una delle tante iniziative che hanno fatto della Liguria la regione con il più alto tasso di “clericalismo istituzionale” del 2019, secondo il report annuale dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Uno dei fattori che ha inciso su questo primato è stata l’approvazione, a gennaio, di una proposta per garantire agevolazioni e benefici nella fruizione dei servizi pubblici solo alle famiglie iscritte in un registro comunale che comprende solo coppie sposate con figli ed esclude tutte le altre. «Arcigay e le altre associazioni hanno sempre più ostacoli. Poi però ci sono un comune, una provincia, una regione, perfino ministri del governo che hanno dato il loro appoggio al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona del 2019», continua Piazzoni. «Una riunione di reazionari, ultraconservatori e sovranisti vari che per la prima volta si è potuto tenere in un paese occidentale con il placet delle istituzioni. Anche in questo caso rappresentavano tutti?».

LE MANI SULLA CULTURA. A Verona il centrodestra è andato anche oltre. La giunta ha approvato a maggio l’acquisto di uno stock di fumetti su Sergio Ramelli, il ragazzo neofascista ucciso nel 1975, realizzato dalla casa editrice Ferrogallico, vicina a Forza Nuova, con l’intento di regalarlo alle scuole. «Sergio Ramelli non viene ricordato quale vittima della violenza politica di quegli anni, bensì - non casualmente attraverso una graphic novel - per inoculare il virus della bontà di quelle idee totalitarie e sanguinarie che il fascismo portava con sé», ha protestato in un’interrogazione parlamentare il Pd. Il caso dimostra quanto anche la cultura, con i libri e con gli spazi per gli eventi, sia un elemento chiave di questa guerra di simboli e valori. Sempre in Veneto l’attore comico Natalino Balasso è stato escluso dal cartellone del teatro Stabile, diretto dall’ex portavoce del governatore leghista Luca Zaia. «Questi della Lega si sono impossessati dello stabile del Veneto e hanno fatto un editto per non farmi lavorare nelle strutture pubbliche», ha denunciato Balasso su Facebook. Il suo non è un episodio isolato. Come aveva raccontato L’Espresso alcuni mesi fa , le amministrazioni sovraniste hanno subito voluto dire la loro sui festival e sugli eventi del territorio, punendo quelli non graditi. All’Aquila, il sindaco di Fratelli d’Italia ha fatto saltare il festival degli incontri voluto dal ministero della Cultura per il decennale del terremoto e ha pubblicamente affermato che non avrebbe permesso gli interventi di Roberto Saviano e di Zerocalcare. La rassegna Vicino/Lontano di Udine invece, rea di organizzare il troppo internazionalista premio Terzani, si è vista ridurre a un terzo il contributo della Regione diventata “verde”. D’altra parte nel pantheon dei riferimenti leghisti, a Terzani si è sempre preferita Oriana Fallaci. O, in tempi recenti, il filosofo sovranista Diego Fusaro, ospite d’onore con le sue letture musicate “Bibbiano, il gender è già fra Noi” del teatro comunale di Senago in provincia di Milano. Fortemente voluto dalla sindaca leghista. A novembre a Genova invece, in occasione del Festival dell’Eccellenza Femminile, Il regista Gabriele Paupini è dovuto entrare in scena per denunciare agli spettatori di essere vittima di una censura: «Dobbiamo censurare una scena di nudo presente nello spettacolo per pressioni politiche, la Lega non apprezza il nudo maschile, non si vogliono vedere piselli nell’aula magna dell’università di Genova», ha spiegato Paupini. Lo stesso partito che si vantava di “avercelo duro” si è riscoperto pudico. Decidere chi può parlare e chi no è quanto successo anche a Pompiano, nel bresciano. Qui l’amministrazione a maggioranza Lega e Fratelli d’Italia ha negato allo scrittore Federico Gervasoni la biblioteca del comune per presentare il suo libro sul neofascismo locale . «È meglio lasciare fuori la politica dalla biblioteca, è un luogo di cultura». E la cultura, come si è appena visto, è una loro esclusiva.

ANTIMAFIA FUORI DAL COMUNE. Una sala, in questo caso il teatro comunale, è stata invece negata a Libera e a Don Luigi Ciotti. Il prete antimafia doveva parlare in un’iniziativa a Oderzo, vicino Treviso. Ma la sindaca leghista non ha concesso né patrocinio né spazi pubblici: «È fuori discussione la statura morale di Don Ciotti, ma sono altrettanto note alcune sue precise prese di posizione politiche», si è giustificata. «Se fossi riuscita a parlargli molto probabilmente non ci sarebbe stato alcun problema. Gli avrei chiesto di evitare di dare giudizi morali sulla scelta di Salvini di chiudere i porti». Se a Oderzo può parlare di lotta alla mafia solo chi è d’accordo con la linea politica del Carroccio, a Udine non si può discutere di fine vita. «Non posso permettere che spazi comunali ospitino eventi di propaganda di cose illegali», ha motivato così il sindaco leghista la mancata concessione di una sala comunale a Beppino Englaro e alla sua associazione “Per Eluana”. Era il 7 dicembre, due mesi dopo la sentenza della Consulta che ha stabilito che aiutare a morire non è sempre un reato. Un tema spinoso, su cui dovrebbe intervenire il Parlamento. Ma per il sindaco è meglio che non se ne parli.

Il bollettino parrocchiale choc: Salvini paragonato a Mussolini. L'accostamento sarebbe apparso in un testo della chiesa di Santa Maria Maddalena. Parte del documento è stata riportata sulla pagina Facebook del sindaco di Borgosesia. Andrea Pegoraro, Martedì 24/12/2019, su Il Giornale. Matteo Salvini paragonato a Benito Mussolini, anche se indirettamente. È scoppiata la polemica a Vercelli per quanto sarebbe apparso nell’ultimo bollettino parrocchiale della chiesa di Santa Maria Maddalena. Parte del documento è stata riportata sulla pagina Facebook del sindaco di Borgosesia, il deputato Paolo Tiramani. Il testo è stato postato nella tarda serata di ieri. Come riporta anche vercellinotizie.it, il bollettino sarebbe stato scritto da don Massimo Bracchi, il quale narra lo scenario politico italiano nell’ultimo anno. Il sacerdote sottolinea che “Salvini ha tentato il colpo sfiduciando il premier Conte e rompendo l’alleanza con Di Maio e i cinquestelle. E così si è dato la zappa sui piedi”. Secondo il prete, infatti, il capo della Lega credeva di andare al voto per guadagnare ancora più consensi e invece poi è nato un nuovo esecutivo, il Conte bis, formato da Partito democratico e grillini. Poi arrivano le frasi incriminate: “Aveva detto “datemi pieni poteri” - si legge nel bollettino - ricordandoci un’altra figura del nostro passato italiano che i pieni poteri se li era presi con gli stessi atteggiamenti populistici e di salvatore della patria. Ma quanti lutti, quanta sofferenza e quanta vergogna l’Italia avrebbe dovuto vivere…” Il sacerdote prosegue nel suo ragionamento e dice che Salvini confida di rifarsi nelle prossime elezioni, “che dovrebbero essere un plebiscito alla sua opposizione, mentre io mi auguro si possa contare sull'intelligenza e il buon senso degli italiani”. Il sindaco di Borgosesia, Paolo Tiramani, ha quindi postato sulla sua pagina Facebook il testo del bollettino e ha evidenziato che “da uomo cattolico nutro molta Fede e molto rispetto. Tuttavia non capisco alcuni preti che utilizzano ogni mezzo per fare dell’assurda politica”. In passato il leader della Lega è stato più volte preso di mira da alcuni sacerdoti. Basti pensare a padre Alex Zanotelli, che l'aveva definito "un genio melefico" riguardo alla scelta di chiudere i porti alla nave della ong Sea Watch. Il missionario aveva ricordato che per la Bibbia il più grande peccato è la non accoglienza e che è ancora più grave non accogliere i poveri. Ben più gravi erano state le affermazioni di padre Bartolomeo Sorge. La scorsa estate il teologo gesuita aveva sottolineato che "la mafia e Salvini comandano entrambi con la paura e l’odio, fingendosi religiosi. Si vincono, resistendo alla paura, all’odio e svelandone la falsa pietà".

"Vergogna, vattene via!". Salvini insultato alla festa della Befana. Il leader della Lega, arrivato alla festa organizzata dal Sindacato autonomo di polizia, è stato insultato da una coppia di bolognesi, che lo ha accusato di strumentalizzare i bambini: "Questa non è la festa di un politico". Lavinia Greci, Lunedì 06/01/2020 su Il Giornale. "L'Antoniano è un posto di inclusione. Ma cosa viene a fare qua? Ma va là...", "Vattene via", "Vergognati, vai a casa tua". E ancora: "Questa è la festa dei bambini. Lui è un politico, non è un bambino. Cialtrone". Lo scenario è quello di una festa come le altre, organizzata durante le vacanze di Natale, in occasione dell'Epifania, al Teatro Antoniano di Bologna. Ma fuori dal celebre auditorium, si è consumata un'altra contestazione contro il leader della Lega, Matteo Salvini, arrivato nel capoluogo emiliano in occasione della "Befana del Poliziotto".

La contestazione. Secondo quanto riportato da Repubblica, infatti, l'ex ministro dell'Interno, impegnato in un tour elettorale in tutte l'Emilia-Romagna, dove si voterà il prossimo 26 gennaio, in queste ore, sarebbe stato fischiato e insultato da alcuni passanti proprio al suo arrivo all'ingresso dell'Antoniano, che ospita in questa giornata la festa organizzata dal sindacato auotonomo di polizia Sap. Accusato di appropriarsi di un'occasione di festa per i più piccoli, a prendere le difese del leader leghista sono stati altri cittadini, che hanno risposto alle contestazioni: "La vergogna siete voi", "Stai zitto, idiota.Vai a casa di Prodi a chiedere i soldi".

Le critiche a Salvini. In particolare, i due contestatori, avrebbero insistito a prendersela con il leader leghista sottolineando il fatto che quello era un momento di festa tutto dedicato ai bambini: "È la festa della Befana per i più piccoli, non di un politico". E poi: "I bambini all'Antoniano, adesso, si strumentalizzano...Ma va là". La discussione è proseguita in strada tra chi non voleva Salvini e i suoi sostenitori. Già nella giornata di ieri, sui muri del teatro emiliano, erano comparse delle scritte contro l'organizzazione sindacale che, però, oggi erano già state cancellate.

"Non vedo l'ora di farmi processare". Intanto, il leader della Lega, rispondendo ai giornalisti in riferimento caso della nave Gregoretti, ha dichiarato: "Non vedo l'ora di farmi processare, con me processano gli italiani. Andranno contro la storia, vorrei guardare negli occhi i giudici mentre mi dicono che merito 15 anni di carcere". All'interno del teatro Antoniano, Salvini ha preso posto in prima fila e ha distribuito ai più piccoli le caramelle cadute dal sacco della Befana, scattando con i bambini anche diverse foto.

Le aggressioni. Intanto, nei giorni scorsi, durante le festività natalizie, si sarebbero registrate alcune aggressioni ai danni di gazebo della Lega a Ferrara. In base a quanto ricostruito, un gruppo di attivisti avrebbe minacciato al grido di "razzisti di m...." alcuni militanti, cittadini e volontari che firmavano le proprie candidature. E poi, sempre in questi giorni a Bologna, sarebbe comparsa la scritta "Salvini boia".

Minacce di morte choc a Salvini: "Pronta per te una pistola, coglione". Nuove minacce contro Matteo Salvini. Su Twitter, un hater si augura che un terrorista lo faccia fuori, quindi le parole choc: "Ti aspetto a Cesena, è pronta per te una pistola". Il leghista: "Non so se mi faccia più schifo o pena". Gianni Carotenuto, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. Non bastano le scritte sui muri e le contestazioni di piazza. Ora ogni strumento è lecito per combattere Matteo Salvini e la Lega. Anche le minacce di morte. Il capo del Carroccio è stato nuovamente vittima dell'odio social. Non i soliti insulti, a cui l'ex ministro dell'Interno è ormai abituato, ma qualcosa di più. Che lo ha spinto a denunciare l'hater con un post pubblicato su Facebook. "Non so se questo signore mi fa più schifo o pena", il commento di Salvini al delirante - e pericoloso - messaggio di un utente che si augurava: "Spero che il primo vero terrorista ti faccia fuori", prima di aggiungere: "Ti aspetto a Cesena, ho pronta una pistola". A 20 giorni dalle elezioni regionali in Emilia-Romagna, che il centrodestra confida di strappare al centrosinistra, ogni strumento è lecito per conquistare qualche voto. Tra Pd e Leu da una parte, Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia dall'altra, si profila un testa a testa. I sondaggi non rassicurano il governatore dem uscente Stefano Bonaccini, tallonato dalla leghista Lucia Borgonzoni. Cresce la paura della sinistra emiliano-romagnola di dover cedere la guida della Regione agli odiati "fascisti". Dunque non sorprende più di tanto l'escalation di minacce contro Salvini e il centrodestra. Prima, a Ferrara, l'attacco "rosso" a un gazebo leghista. Poi le scritte "Salvini boia" e "Acab" comparse su un muro di Bologna. E proprio nella città delle due torri, a novembre, i centri sociali avevano organizzato un corteo di protesta contro il Carroccio. Che si era addirittura "permesso" di tenere un evento politico al Paladozza alla presenza di Salvini e Borgonzoni.

Minacce di morte "sgrammaticate" a Salvini. Altro che democrazia. Come testimonia l'ultima aggressione social al leader leghista. Su Twitter, in risposta a un post di Salvini, è comparso il messaggio di un utente dove si legge letteralmente: "Spero che il primo vero terrorista ti faccia fuori, così impari a dare aria hai denti, comunque ti aspetto a Cesena ce pronto un 7,57 magnum, fidati che farà centro...... coglione, pensaci bene noi non ti vogliamo in casa nostra......". Parole deliranti a cui il segretario del Carroccio ha risposto con il sorriso: "Non so se questo “signore” mi fa più schifo o più pena. Sicuramente non mi fa paura. P.s. Invece di sparare minacce e comprare fucili, acquista un vocabolario della Lingua Italiana!". In effetti, tra errori di grammatica e sintassi, l'hater di Salvini non ne ha azzeccata una. Dimostrando anche poca conoscenza delle armi, visto che la pistola "7,57 magnum" non esiste. Probabilmente questo "signore" sa sparare solo insulti. Per fortuna.

Jasmine Cristallo contro Matteo Salvini: “Abominevole”. Antonella Ferrari il 23/12/2019 su Notizie.it. La coordinatrice delle sardine calabresi, Jasmine Cristallo, è stata ospite della puntata di Otto e Mezzo con Lilli Gruber e non ha perso occasione di attaccare l’ex ministro Matteo Salvini proprio per il suo operato al Viminale: “Abominevole” lo ha definito riferendosi alla vicenda della nave Gregoretti. Il leader del Carroccio, però, non ha perso tempo e ha ripostato il video dell’intervento televisivo: “Le sardine escono allo scoperto“. Gli utenti social si sono quindi nettamente divisi tra chi prende le difese della Cristallo e chi invece sta dalla parte di Salvini. Il video ripostato da Matteo Salvini è stato sì una risposta all’attacco subito ma anche l’occasione per riaccendere la polemica. La provocazione è stata infatti colta dalla Cristallo che è subito tornata all’attacco: “Da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo – ha scritto la sardina – e difendere il mio diritto al dissenso, a battermi per un mondo civile in cui le donne non vengano brutalizzate. Lo devo alle donne, a mia figlia e anche alla sua” ha detto facendo riferimento a Matteo Salvini. “Racconterà a sua figlia che espone foto di donne solo per farle dileggiare e violentemente aggredire con frasi e aggettivi raccapriccianti?“.

Il riferimento alla figlia di Salvini. L’attacco di Jasmine Cristallo è quindi proseguito con riferimento espliciti al ruolo di padre del leader leghista: “Pensa a come si sentirebbe se fosse sua figlia ad essere vittima di quella stessa violenza che infligge ad altre donne? Posso per ora raccontarle come ha reagito la mia di figlia, che ha 19 anni e ha commesso la sciocchezza di leggere i commenti a me destinati dai suoi campioni di civiltà: tremava“. “Non mi aspetto delle risposte – ha concluso rivolgendosi direttamente a Salvini -, ma sappia che da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo“.

La "sardina" Jasmine Cristallo scrive a Salvini: "Mi batto anche per sua figlia". Jasmine Cristallo durante la trasmissione di Lilli Gruber Otto e mezzo. La coordinatrice del movimento calabrese, già vittima di pesanti attacchi sui social, si rivolge al leader della Lega, che ieri sulla sua pagina Facebook ha postato un intervento dell'attivista in tv a cui sono seguiti una lunga serie di commenti. La Repubblica il 22 dicembre 2019. "Da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo e difendere il mio diritto al dissenso, a battermi per un mondo civile, in cui le donne non vengano brutalizzate. Lo devo alle donne, a mia figlia ed anche alla sua". Jasmine Cristallo, coordinatrice di '6000 Sardine' in Calabria e attivista del movimento, militante della sinistra ma senza una tessera di partito, promotrice della 'rivolta dei balconi' di Catanzaro e da sempre impegnata nel volontariato, lo ha scritto in un messaggio in cui si rivolge al leader leghista Matteo Salvini, che ieri sulla sua pagina Facebook ha postato un link all'intervento della leader delle Sardine calabresi a Otto e mezzo. Un post a cui sono seguiti una lunga serie di commenti. "Racconterà a sua figlia - ha chiesto Jasmine - che espone foto di donne solo per farle dileggiare e violentemente aggredire con frasi e aggettivi raccapriccianti?". "Quando teneramente le mette lo smalto o assiste alle recite natalizie, ci pensa - ha aggiunto - a come si sentirebbe se fosse sua figlia vittima di quella stessa violenza che infligge ad altre donne?  Posso per ora raccontarle come ha reagito la mia di figlia, che ha 19 anni ed ha commesso la sciocchezza di leggere i commenti a me destinati dai suoi campioni di civiltà: tremava". "Le ho spiegato che certe battaglie passano anche attraverso queste prove certamente non gratificanti, ma - ha sottolineato -che meritano, comunque, di essere condotte con tenacia e convinzione". "Quanto a lei, Salvini - è la conclusione -, non mi aspetto delle risposte ma sappia che da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo e difendere il mio diritto al dissenso, a battermi per un mondo civile, in cui le donne non vengano brutalizzate. Lo devo alle donne, a mia figlia ed anche alla sua". Cristallo è stata vittima di pesanti attacchi sui social anche dopo la sua partecipazione, alcuni giorni fa, alla trasmissione tv Stasera Italia su Rete 4. Tra i post anche uno dai toni minacciosi contro il quale l'attivista calabrese ha annunciato di voler sporgere denuncia. "Jasmine- recitava il messaggio minatorio - con tutto il rispetto, attenzione di non pestare troppo la coda del cane che dorme, perché quando si sveglia è pericoloso. Tu hai un figlia, non vorrei che passi una storia come quella di Bibbiano visto che sostenete la sinistra".

Umberto Bossi fa il dito medio? E Repubblica si scatena: "Oscena minaccia da scimpanzè". Libero Quotidiano il 22 Dicembre 2019. Repubblica come al solito predica bene e razzola male. Invece di prendersela con la ragazzina che ha fatto il dito medio nella foto in cui immortala Matteo Salvini mentre dorme, critica Umberto Bossi. "La grande regressione della politica fa sì che per interpretare certe scenette congressuali se ne cerchi l'origine negli studi su gorilla, oranghi e scimpanzè - è questo l'incipit dell'articolo del quotidiano di Verdelli - da cui sembra che si mostrino l'un l'altro il dito medio come oscena minaccia per affermare il loro potere - non possedendo i primati il dono della parola". Un riferimento esplicito al "gestaccio" - così l'hanno definito - che il fondatore della Lega, ospite d'onore al Congresso, ha fatto "di fronte a una platea "che ha applaudito come estremo e triste omaggio a un celodurismo tanto malandato quanto indomito". Poi non poteva mancare il riferimento a Salvini, d'altronde è il loro più acerrimo nemico: "Lui è un habitué del dito medio, il che lo rende prestigioso bersaglio, vedi il recentissimo selfie della ragazzetta in aereo. Insomma: chi la fa, l'aspetti. Ma la catena della muta e abituale scimmioneria oltrepassa ormai i proverbi". 

Dito medio categoria dello spirito. Augusto Bassi il 21 dicembre 2019 su Il Giornale. La sardina Jasmine Cristallo ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Lilli Gruber che per lei dirsi di sinistra significa “un’istanza dell’essere, una categoria dello spirito”. Lo comprendiamo. Nel vedere come agisce questo banco di pesci – che vive e nuota insieme per ragioni sociali, muovendosi in maniera coordinata – ascoltandone le valutazioni che hanno definito la condotta di Salvini “abominevole”, lo comprendiamo. E troviamo nel gestaccio vigliacco riservato da tale Erika all’ex ministro mentre riposava in aereo, lo sviluppo naturale di questa spiritualità. Nelle parole della Cristallo c’è infatti la pietra filosofale della sinistra: cretinismo ontologico. La razza ha lasciato lo spazio all’anima. Dirsi di sinistra significa rivendicarsi ontologicamente superiori. Manifestando viva istanza contro gli spiriti inferiori, abominevoli. E noi comprendiamo. La sinistra è una categoria dello spirito: come un dito medio fatto di nascosto.

Nicola Porro sulla ragazza del dito medio a Salvini: "Ipocrisia della sinistra, a chi volete dar lezioni?" Libero Quotidiano il 21 Dicembre 2019. Ha fatto discutere la foto postata su Instagram della ragazza che ha mostrato il dito medio ritraendosi in aereo al fianco di un Matteo Salvini addormentato, che la 19enne si era trovata al fianco per caso. Ha fatto discutere soprattutto perché il leader della Lega ha rilanciato sui suoi social la fotografia, su quegli stessi social dove lei stessa la aveva postata. Lei può, lui no. È scattato il consueto linciaggio, con accuse che piovevano da più parti: "È stata esposta alla gogna", il ritornello ricorrente. Ma c'era anche chi, come una professoressa intervenuta a Tagadà su La7, affermava che la colpa di quel dito medio a Salvini fosse di Salvini, poiché primo responsabile del presunto "clima d'odio" che respireremmo al giorno d'oggi. Una serie di discrete fesserie contro le quali si scaglia, tra gli altri, Nicola Porro. Lo fa rilanciando sul suo sito personale un articolo di Dino Cofrancesco. E Porro punta il dito contro "l'ipocrisia dei benpensanti che vorrebbero darci lezioni di vita". Il giornalista, retorico, s'interroga: "Cosa vuoi che sia fare il gesto del dito medio... se di mezzo c'è Salvini".

Le disavventure social di un ex ministro, finto bello addormentato. La foto della sardina è inquietante per quel che rivela ovvero che siamo purtroppo diventati, almeno per un’ampia parte del Paese, una società incivile. Dino Cofrancesco il 21 Dicembre 2019 su Il Dubbio. «Al fine de le sue parole il ladro/ le mani alzò con amendue le fiche/ gridando: ’Togli, Dio, ch’a te le squadro’!». Sono versi del XXV Canto dell’Inferno di Dante e chi inveisce contro il Creatore è Vanni Fucci da Pistoia, detto “Bestia”. Il gesto osceno e l’epiteto infamante ricordano – è proprio il caso di dire citando Virgilio, si parva licet componere magnis (se è lecito paragonare le cosepiccole alle grandi) – un’altra bestia nostrana, Matteo Salvini, che per sfida girava con una maglietta«Meglio Bestia che Renzi» e chiamò “bestia”la potente macchina social messa al suo servizio nel 2014 da Luca Morisi. Certo Salvini non è Vanni Fucci: si sarà pure reso colpevole di crimini contro l’umanità, con gli episodi delle navi Diciotti e Gregoretti, ma non ha nulla a che vedere con la professione di Arsenio Lupin e del suo avo pistoiese, immortalato da Dante.D’altronde anche il gesto osceno è diverso. “Far le fiche” (chiudere a pugno la mano, inserendo il pollice tra indice e medio, a rappresentare l’organo sessuale femminile posseduto dal pene, il pollice appunto) è diverso dall’innalzamento del dito medio , segno del pene in erezione, che compare nel selfie che la signorina E.L., seduta in aereo vicino a Salvini, ha scattato, approfittando della pennichella del Capitano. Tutto sommato, ci troviamo dinanzi a un passo avanti compiuto dalla civiltà delle buone maniere. Il gesto del dito medio, in fondo, è più stilizzato rispetto all’altro, privilegiato non solo da Dante ma anche da Rabelais e da altri, ed è anche meno volgare del gesto dell’ombrello che, per essere effettuato, richiede due mani, dovendo l’una toccare il centro del braccio dell’altra (lo ricordiamo tutti nella scena de I vitelloni in cui l’Albertone nazionale lo faceva ai lavoratori passando con la macchina davanti a un cantiere stradale). E tuttavia il selfie della sardina (?) resta un episodio che non va drammatizzato – «una stupidata un po’ vigliacca» l’ha definita Francesco M. Del Vigo sul Giornale – ma che è inquietante per quel che rivela ovvero che siamo purtroppo diventati, almeno per un’ampia parte del Paese, una società incivile. Salvini, come bello addormentato, già altre volte è stato al centro di selfie molto discussi. Involontariamente certo, come capita al compagno di merenda che, nella foto della scampagnata, viene ritratto con le corna che, senza che lui se ne accorgesse, gli ha fatto il vicino. E’ capitato un anno fa, quando l’ex fidanzata Elisa Isoardi, ha voluto immortalare l’after sex con l’allora vice-ministro con una foto su Instagram, forse pensando al celebre quadro di Sandro Botticelli (National Gallery di Londra) in cui si vede Venere che accenna un sorriso mentre Marte «dorme sfinito dalle fatiche dell’amore e lascia che le sue armi diventino giocattoli» per i piccoli satiri. Ovviamente il selfie della Isoardi è molto meno estetico del quadro e, rispetto a quello di E.L, è “tutta pubblicità” per il leader del Carroccio, in anni segnati dalle (stupide) vanterie erotiche del Cavaliere. Va riconosciuto, però, che è non meno lesivo di quel sacrosanto diritto alla privacy che con tanta insistenza politici e giornalisti rivendicano quando si tratta delle loro persone. Sennonché questo ordinario episodio di maleducazione ha avuto un risvolto grottesco, che oggi non poteva mancare. La vicina di Salvini non si è limitata a far vedere la sua bravata ad amici e parenti stretti ma l’ha postata, come detto, sul suo profilo Instagram. A questo punto la senatrice del Carroccio, Roberta Ferrero, l’ha ripresa su Twitter, senza pixelare il volto della giovane , sicché non sono mancati gli insulti dei fan di Salvini, che hanno indotto la giovane a disattivare il proprio profilo. Apriti cielo! Giuditta Pini, deputata del Pd ha scritto su Twitter: «Se sei una donna e contesti Matteo Salvini, lui ti esporrà a ogni genere d’insulti. Non ti insulterà lui, lo farà fare da altri. La vergogna non è in chi contesta, la vergogna è in chi usa il suo ruolo per avallare la violenza. Non lasciamo sole queste donne». Insomma se si dileggia Salvini e lui si difende la vittima diventa l’offensore. Siamo il Paese in cui il principio liberale e occidentale della distinzione dei ruoli e del rispetto che si deve ad ogni persona, per dirla alla napoletana. «non ha mai praticato». Tanti anni fa, Giorgio Almirante, al ritorno da un comizio, fece sosta nell’autogrill di Cantagallo e i dipendenti appena lo videro si rifiutarono di servirlo ed entrarono in sciopero. Un episodio di cui vergognarsi davvero. Cui seguì, per dovere di cronaca, la reazione di Ordine Nuovo, in nome della giustizia-fai-da-te, altro esecrabile “costume di casa”. C’è poco da fare, gli abiti totalitari della mente e del cuore sono il virus che fascismo e comunismo ci hanno trasmesso e che non riusciamo a debellare. La Pini, laureata in Mediazione linguistica e culturale, potrebbe forse rileggersi qualche classico del pensiero liberale e democratico d’area euro-atlantica. Constaterebbe che il dissenso politico non autorizza l’insulto e l’irrisione.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 dicembre 2019. Oggi ci occupiamo di ragazze che si fotografano mentre fanno il dito medio verso Matteo Salvini, in aereo, ossia un esempio di come la tecnologia oggigiorno permetta di far circolare notizie importanti ovunque e in poco tempo. Riassunto delle puntate precedenti. Una 19enne carina e con un brutto maglione, mercoledì, prende un aereo e si accorge che a fianco c' è Salvini addormentato, dopodiché scatta un selfie con il dito medio e lo pubblica su Instagram, un social network dove le immagini hanno giustappunto soppiantato le parole; la pagina della ragazzina permette di apprendere dei dettagli fondamentali, tipo che le piacciono la pasta alla carbonara, i gatti e i cibi grassi. Lo scatto è costellato da cuoricini - il giornalismo è amore per i dettagli - e scatena centinaia di commenti e condivisioni. Poi Salvini si sveglia, scende dall' aereo, apprende della dedica e decide di riprendere l' immagine replicandola su un altro social, scrivendoci: «Che bello viaggiare in compagnia di personcine educate! E poi magari vanno in piazza per combattere odio, violenza e maleducazione». Allora che cosa succede? Non perdetevi la puntata successiva. Seconda puntata. Succede che tanti dei tantissimi seguaci di Salvini sul social network («follower») scrivono al profilo social della ragazza e la prendono anche a male parole, tanto che lei decide di disattivare il profilo. Prima di ripartire da Roma, Salvini posta un secondo tweet seduto in aereo e scrive «Spero di avere una vicina di volo educata». Pubblicità. Altra puntata, titolo: s' incazzano tutti con Salvini. Questo perché - in ordine sparso - ha fatto scattare «il meccanismo di gogna mediatica» contro la ragazza, aiutato dal suo leggendario «team di comunicazione» come altre volte; inoltre non ha pixelato (offuscato) il volto della ragazza, che non è una minorenne in questo modo diventa riconoscibile dalla decine, centinaia, migliaia di persone che volessero ucciderla; altre conseguenze indirette sono, intanto, che sono nati una serie di profili fake della ragazza (cioè falsi) che usano sue immagini personali e inventano frasi che probabilmente lei non ha detto. È finito - domanda - il riassunto delle puntate precedenti? Risposta: boh, non sappiamo, la completezza dell' informazione potrebbe risentirne (sono pericoli per la democrazia) ma procediamo con lo scritto di ieri della ragazza: «Visto che Salvini mi ha bloccata sulla sua pagina ufficiale, non mi rimane altro che scrivere come stanno le cose». E qui l' Italia si è fermata. «Sorpresona, non sono una sardina» ha scritto prima di ringraziare Salvini «per aver esposto il mio nome ovunque, facendo sì che mi arrivassero insulti pesanti, minacce di morte, intimidazioni varie e materiale pornografico». Il materiale pornografico è l' unica cosa a cui crediamo ciecamente. Poi ha raccontato che la foto era stata condivisa con amici «per evidenziare l' incredibile coincidenza di prendere un volo low-cost e ritrovarsi seduti insieme a Salvini».E il dito medio, anche detto vaffanculo? Quello «era rivolto alle persone a cui ho inviato la foto privatamente e nulla aveva a che vedere con Salvini (il quale è circondato anche da cuoricini vari)... Non sono di sinistra e non sono di destra. Di politica mi importa ancora poco... Non mi aspettavo un' esposizione mediatica di questa portata e non sono minimamente interessata a diventare famosa per qualcosa che ho fatto con tutt' altre intenzioni... Il cyberbullismo esiste e io ne sono stata vittima». Dopodiché ci siamo rotti, e saltiamo subito alle conclusioni. Nostre.

1) Clamorose eccezioni a parte, grazie a internet, le notizie non esistono più: esiste del materiale generico e non verificato (chissà se la ragazza pensa quello che ha scritto, chissà se l' ha scritto lei, chissà se esiste o è un ologramma, chissà se è un pezzetto di formaggio; la tecnologia ha solo moltiplicato i dubbi e creato materiale dal quale possiamo trarre opinioni a nostra misura e sempre condivise da un sacco di gente;

2) La notizia può essere, perciò, che lei è una maleducata, che Salvini è uno che mette alla gogna la gente, che lei ha maglioni che fanno schifo, che lei ha maglioni bellissimi, che Salvini vola in low cost perché è uno di noi, che Salvini vola in low cost perché è uno straccione (e cosa crede di dimostrare) oppure che Salvini non ha trovato altri voli, che lei odia Salvini, che lei ama Salvini, che Salvini soffre di narcolessia, che è solo una campagna per far pubblicità alla pasta alla carbonara, che Salvini ci perderà voti, che Salvini ci guadagnerà voti, che si avvicina l' ora della nostra morte - allegria - e che una parte del tempo residuo lo stiamo occupando così.

Noi giornalisti siamo complici: di questo e di altro. Se avete letto sin qui, lo siete anche voi. Ma non perdetevi la prossima puntata. Pubblicità.

·        Processate Salvini!

La ministra Azzolina querela Salvini: “Più volte ha fatto post sessisti”. Notizie.it l'11/10/2020. La ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina ha sporto querela contro il leader della Lega Matteo Salvini per aver pubblicato post sessisti su internet. Intervenendo durante la trasmissione radiofonica di Selvaggia Lucarelli “Le Mattine di Radio Capital”, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha annunciato di aver sporto querela nei confronti di Matteo Salvini a seguito dei numerosi post sessisti pubblicati dal leader della Lega sui suoi profili social. La ministra ha inoltre parlato dell’odio online emerso contro la sua persona da quando è diventata ministra e in particolare da quando quello della scuola è diventato uno dei principali temi dell’emergenza coronavirus. Nel corso della trasmissione, la ministra Azzolina ha dichiarato: “Ho sporto querela nei confronti di Matteo Salvini mesi fa, perché ha fatto più post sessisti e tante volte questi sono stati rilanciati dalle donne, mi ha fatto molto male. Gli esponenti politici  sono quelli che devono dare l’esempio fuori. Io una volta da parlamentare difesi una collega di Forza Italia insultata sui social. Il colore politico non conta”. “Da quando sono diventata ministro l’odio social si è acuito molto. Un po’ tutti i giornali si sono divertiti in questi anni con me“, ha in seguito aggiunto la ministra dell’Istruzione, precisando come non essendo mai stata prima d’ora così esposta mediaticamente n un ruolo pubblico non si era mai resa conto della violenza dei commenti sul web: “Da persona che viene dalla scuola, non ero abituata a tutto ciò, a tutte queste volgarità, la prima volta mi è venuto da vomitare, poi ho interiorizzato e ora prova solo pena per queste persone”.

La replica di Salvini. Non si è fatta attendere la replica del segretario leghista, che su social ha scritto: “L’incapace Azzolina mi ha querelato? Mi viene da ridere! Assumi professori e bidelli, riporta a scuola i bimbi disabili con i loro insegnanti di sostegno, compra i banchi promessi (senza rotelle!) e sistema aule, mense e palestre, ti pagano per questo”.

I tagli alle "t" nella grafia che svelano chi è Salvini. Salvini marca in modo deciso le "m" e le "t" che rivelano la sua personalità attraverso la grafia: chi è davvero il leader della Lega. Evi Crotti, Domenica 12/01/2020, su Il Giornale. Un biglietto dimenticato da Salvini in un comizio svela i piani per la campagna elettorale regionale in Emilia-Romagna. Pur tenendo conto che gli appunti possono peccare per poca chiarezza dovuta alla premura, non perdono però l’aspetto grafico fondamentale, ossia la struttura e della fisionomia delle lettere. Come esempio valga la lettera “m” che può essere ad arco, a festone o stiracchiata come nel caso degli appunti di Salvini a indicare una natura dinamica e impaziente, soprattutto quando un’idea gli si affaccia alla porta della mente. Lo scritto in questione mette in evidenza una struttura temperamentale tra il sanguigno e il melanconico (secondo la teoria di Ippocrate) il che significa che egli non si sofferma su tematiche personali, ma è portato a vivere dinamicamente nella società creando rapporti umani e spostandosi di continuo, affascinato dalla novità. Il carattere indaffarato e iperattivo lo porta ad essere sempre sulla cresta dell’onda. Sensuale, caloroso e fondamentalmente ottimista, ha bisogno di mettersi in mostra per essere il personaggio del momento, consapevole di poter dare molto e di essere d’aiuto al prossimo. Infatti, la sua aggressività, di tipo verbale e operativo, è indicata dai tagli delle “t” posti all’apice superiore delle aste, dalla scorrevolezza del gesto grafico e da una buona occupazione dello spazio, nonostante il fatto che si tratta di semplici appunti. Matteo Salvini, che si voglia o no, appartiene alla categoria degli aggressivi e quindi degli uomini produttivi, almeno secondo Erich Fromm. Così si spiegano certe espressioni esagerate e frutto di emotività, ma mai di malevolenza o violenza. I suoi modi possono apparire provocatori, ma sono animati da una fede politica incrollabile, per cui è difficile che egli provi sentimenti di “vendetta basati sull’invidia”. Certo la dinamicità, la sicurezza e la combattività restano elementi fondamentali per portare a termine la sua missione.

Impariamo da Trump, per battere Salvini servono idee migliori delle sue non i Pm. Piero Sansonetti de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Donald Trump se l’è cavata bene. La storia dell’impeachment non l’ha danneggiato per niente. Fu così, più di 20 anni fa, anche con Clinton. Lo misero in croce per una storia di sesso, lui fu assolto e poi vinse le elezioni di mezzo termine del 1998.  Va bene così. Anche in America, con una certa frequenza, vince la tentazione di affidare alla magistratura, o comunque alla giustizia, le sorti della battaglia politica. Così ha fatto Nancy Pelosi, convinta magari non di cacciare Trump dalla Casa Bianca, ma comunque di assestargli un colpo micidiale che lo avrebbe reso zoppo in campagna elettorale. È andato tutto al contrario: ora sono i democratici ad entrare zoppi in campagna elettorale. E possono sperare solo di essere salvati da Bloomberg, un altro miliardario, forse più miliardario di Trump. Quanto sono lontani i tempi di Bill Clinton, ragazzetto povero dell’Arkansas! Ora sarebbe bello se i politici italiani dessero un occhio all’America e imparassero qualcosa da questa vicenda. La tentazione di tagliare le gambe a Salvini usando la magistratura e le sue folli idee sul sequestro di persona, lo capisco, è forte. Ma magari ora è più chiaro a tutti quanto sia un’idea fessa. Come l’idea bislacca della Nancy Pelosi. Non si batte Salvini a mezzo Pm. Per batterlo bisogna avere qualche idea migliore delle sue. E francamente non è molto difficile. In Emilia, per esempio, tal Bonaccini ha dimostrato di averle. E poi bisogna convincersi che se dai una mano alla magistratura, e le dice “pensaci tu”, lei si prende tutto il braccio e ti sottomette. Oggi ti demolisce Salvini, domani demolisce te, dopodomani la democrazia. Un po’ di coraggio, amici parlamentari di sinistra. Liberatevi del giogo a Cinque stelle. Dite chiaro: Giudici, sciò. Salvini è un reazionario xenofobo ma non per questo va messo in prigione.

Marco Antonellis per Dagospia il 9 febbraio 2020. Il Caso Gregoretti come l'impeachment per Donald Trump? In entrambi i casi, per Matteo Salvini, c'è di mezzo "una sinistra che cerca di vincere con mezzi legali ciò che non può vincere con mezzi democratici". Almeno stando a quanto dichiarato al New York Times in vista di quello che sarà con tutta probabilità il "processo dell'anno" se mercoledì prossimo il Senato darà il definitivo via libera dopo quello della Giunta. Si comincerà alle 9,30 proprio con l'esame del parere della Giunta per le immunità che con la bocciatura della relazione Gasparri ha dato luce verde al processo per l'ex ministro dell'Interno. Le sorprese però potrebbero venire dopo, in occasione del voto in Senato. Perché diversamente da quanto annunciato finora i leghisti potrebbero cambiare idea e non votare più a favore dell'autorizzazione a procedere nei confronti del loro Capitano. Insomma, una vera e propria retromarcia con l'escamotage della "libertà di coscienza" oppure uscendo dall'aula al momento del voto. Da Via Bellerio spiegano che "se in Senato votassimo a favore del processo si verrebbe a creare un pericoloso precedente che potrebbe incidere sul successivo procedimento giudiziario perché assomiglierebbe troppo ad un'ammissione di colpevolezza" e poi ora "non siamo più in campagna elettorale come il mese scorso". Insomma, non servirebbe a niente continuare a fare i duri e puri. Meglio prepararsi al piano B.

Il New York Times intervista Salvini e lo definisce “esperto di vittimismo politico”. Redazione de Il Riformista il 9 Febbraio 2020. Matteo Salvini per il New York times sarebbe un “esperto di vittimismo politico”. Il prestigioso quotidiano statunitense ha intervistato il leader della Lega, in merito al caso Gregoretti. Nell’articolo intitolato “Perché a Matteo Salvini non importa essere indagato” Salvini viene paragonato a Silvio Berlusconi, che “ha trascorso decenni a dipingere i pubblici ministeri italiani come opposizione comunista del Paese, con grande fortuna politica”. Due campioni di vittimismo che sanno come usare le accuse a loro favore. L’articolo è firmato dal giornalista Jason Horowitz ha fatto un’attenta analisi della situazione politica italiana con un focus sull’immigrazione, sottolineando come per Salvini finire sotto processo potrebbe rivelarsi un vantaggio dal punto di vista politico. “Salvini ha sostituito Berlusconi come leader de facto della destra italiana, sebbene si sia seduto in disparte da quando il suo governo di coalizione è caduto l’estate scorsa”, scrive il New York Times. Nell’intervista, peraltro, Salvini preferisce paragonarsi al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, recentemente uscito indenne dal procedimento di impeachment. “La sinistra prova a vincere usando mezzi giudiziari visto che non può vincere attraverso mezzi democratici: ma contro Trump tutto finirà in un nulla di fatto, contro di me lo stesso”, dice nell’intervista Salvini. Sul caso Gregoretti afferma che, se la richiesta di autorizzazione a procedere contro di lui passerà l’esame del Senato, “metteranno sotto processo l’intero popolo italiano – continuando – Ogni mese c’è una indagine a mio carico sul tema dei migranti”.

Massimo Malpica per “il Giornale” il 20 febbraio 2020. Che l' elemento sia acqua o aria, per Matteo Salvini se declinato in salsa giudiziaria diventa fuoco. Dopo l' autorizzazione a procedere per il caso della nave Gregoretti, ora sono gli aerei a trasformarsi in materia scottante e a causare nuovi grattacapi al leader leghista. Finito nel mirino per 35 voli di Stato compiuti quando era ministro dell' Interno, tra l' estate del 2018 e l' agosto dello scorso anno. A occuparsi della questione, infatti, è il tribunale dei ministri di Roma, il cui collegio è presieduto da Maurizio Silvestri, che ha ricevuto le carte dalla Corte dei conti per il tramite della procura di Roma a dicembre scorso, procura che dopo aver ricevuto il fascicolo ha provveduto a indagare Salvini per abuso d' ufficio. Solo un atto dovuto, almeno fino a quando il collegio per i reati ministeriali del Tribunale di Roma non avrà accertato o escluso - le eventuali responsabilità dell' ex titolare del Viminale. La novità, come ha scritto il Fatto Quotidiano, è che il presidente Silvestri (del collegio fanno parte anche Marcella Trovato e Chiara Gallo) ha scritto già da un mese abbondante - ai piani alti di Vigili del fuoco e Polizia chiedendo lumi sull' utilizzo dei loro velivoli per ospitare a bordo l' ex ministro e componenti del suo staff. Il sospetto, che motiva l' ipotesi di reato, è che Salvini abbia approfittato dei passaggi aerei per affiancare ai suoi impegni istituzionali comizi, eventi politici e attività squisitamente da leader leghista, non da ministro dell' Interno. Dei 35 decolli sotto la lente d' ingrandimento del tribunale dei ministri della Capitale, ventuno sono voli sul Piaggio P180, un bimotore turboelica nove posti (venti Salvini li ha fatti con un velivolo della polizia, uno con il P180 dei Vigili del fuoco) e 14 quelli effettuati a bordo di elicotteri della Polizia. A ricostruire i voli di Stato salviniani e a sovrapporli agli impegni non istituzionali del leader del Carroccio in giro per l' Italia era stata Repubblica, ipotizzando che a margine di tagli del nastro in caserme o di trasferte per presenziare a conferenze stampa, Salvini abbia di fatto approfittato dei passaggi aerei per partecipare a comizi o per apparire in tv dalla D' Urso. L' ex titolare del Viminale ha sempre detto che tutti quei voli «erano per motivi di Stato, da ministro dell' Interno, per inaugurare caserme», aggiungendo polemicamente di non aver «mai fatto voli di Stato per andare in vacanza, quello lo fanno altri». E in un certo senso, la Corte dei conti gli aveva dato ragione, escludendo qualsiasi danno erariale, pur ritenendo illegittimo l' uso dei voli di Stato, riservati a meno di espressa autorizzazione solo al capo dello Stato, ai presidenti delle due camere, al premier e al presidente della Consulta. Per la magistratura contabile, però, quei voli sul piccolo Piaggio executive anche se «illegittimi» - erano comunque costati meno dei corrispondenti voli di linea. Dunque la palla è passata alla procura e poi al Tribunale dei ministri. Su Facebook, Salvini sembra aspettarsi il peggio. «Pare stia arrivando un altro processo per abuso d' ufficio scrive il leader leghista - ormai faccio collezione come le figurine Panini. Io non ho paura perché male non fare paura non avere, confido nel giudizio della magistratura che è al 90% sana». Ma il caso potrebbe finire in archivio più che a processo, sia per il precedente della Corte dei conti sia perché dal Dipartimento di Pubblica sicurezza ritengono che quei voli siano tutti decollati secondo le regole. E inoltre il collegio del tribunale dei ministri di Roma, a novembre scorso, ha già chiuso una precedente grana di Salvini, archiviando l' indagine che lo vedeva indagato per abuso d' ufficio e rifiuto di atti d' ufficio per la vicenda della nave Alan Kurdi.

Sansonetti: "Salvini? A processo ci vadano i pm". Raimo: "Ha già perso con la sua retorica fascista". Sabato si terrà l'udienza preliminare del processo a Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per il caso riguardante la nave Gregoretti. Ecco l'opinione dello scrittore Christian Raimo e del giornalista Piero Sansonetti. Francesco Curridori e Domenico Ferrara, Giovedì 01/10/2020 su Il Giornale. Sabato si terrà l'udienza preliminare del processo a Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per il caso riguardante la nave Gregoretti che nel luglio 2019 era stata bloccata per vari giorni dalla Guardia Costiera per ordine del leader della Lega che, all'epoca, era vicepremier e ministro degli Interni del governo gialloverde. L'Italia, come sempre, si divide tra giustizialisti e garantisti e così ilGiornale.it ha deciso di raccogliere l'opinione dello scrittore Christian Raimo e del giornalista Piero Sansonetti su questo tema.

Matteo Salvini va condannato? E, se sì, perché?

Raimo: “Per me la questione non è giuridicamente interessante. Ma trovo risibile la difesa di Salvini della difesa del territorio italiano perché le persone che arrivano su dei gommoni e rischiano la vita in mare non ci vogliono fare una guerra. Hanno semplicemente desiderio di una vita migliore”.

Sansonetti: “Salvini non va condannato perché non ha commesso il reato per il quale è accusato e non andava neanche mandato a processo perché è un ministro che ha fatto delle scelte che io ritengo sciaguratissime. Ma tra un reato e una scelta sciaguratissima c’è una certa differenza. Non andava mandato a processo. La magistratura ha voluto fare un atto di forza, dimostrare che è molto più potente del Parlamento che si è inginocchiato ossequiosamente come spesso fa”.

Se Salvini è un sequestratore, perché il premier Conte e gli altri ministri non lo hanno bloccato quando erano al governo insieme?

Raimo: “Anche questa è una questione posta male. Ridurre a questa la difesa da parte di Salvini sembra quelle giustificazioni che davamo ai nostri genitori da bambini: ma l'ha fatto anche lui!”.

Sansonetti: “La domanda contiene già la risposta. È evidente che è così. O Salvini è un sequestratore (e, secondo me non lo è), allora, in questo caso, lo sono tutti i rappresentanti del governo oppure i rappresentanti del governo non dovevano votare la sua messa in stato d’accusa. E aggiungo: se la magistratura sapeva che era in corso un sequestro di persona doveva mandare i Nocs a liberare i sequestrati. Se non l’ha fatto, la magistratura, ossia tutti i magistrati competenti sono corresponsabili del sequestro di persona e vanno processati. Hanno il dovere di interrompere un reato in corso”.

Durante il governo gialloverde, a luglio 2019, la nave Gregoretti è rimasta bloccata in mare per 7 giorni. Un anno dopo, con i giallorossi al potere, è stata la Ocean Viking ad aspettare per ben dieci giorni prima di poter far sbarcare i migranti. Perché, allora, Salvini va a processo e la Lamorgese no?

Raimo: “Anche questa è una questione posta male. Benissimo se Salvini o chi per lui vuole difendersi in questo modo chieda l'incriminazione di Lamorgese”.

Sansonetti: “Sono contento che Lamorgese non vada a processo e che nessuno lo abbia richiesto. Sia chiaro, io penso che i naufraghi si debbano far sbarcare e che il senso di umanità debba essere superiore alla politica e alla propaganda. Purtroppo il comportamento di Salvini è un po’ più urlato di quello degli altri, ma è identico ai vari Di Maio, Lamorgese, Minniti. Anzi, Minniti era pure più cattivo perché se la magistratura vuole intervenire sugli accordi dell’Italia con i torturatori libici non so che reati riesce a tirar fuori…”.

Nel caso Gregoretti (come per la Diciotti) la Procura di Catania aveva chiesto l'archiviazione per Salvini, ma il tribunale dei ministri ha comunque deciso di portarlo a processo. Palamara diceva: "Salvini ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo". Non è che dietro si nasconde il desiderio di eliminare per via giudiziaria il leader del centrodestra Salvini così come è avvenuto con Berlusconi?

Raimo: “Salvini ha perso politicamente nell'estate 2019. Ha perso perché la sua strategia feroce sull'immigrazione ha incontrato una opposizione non dai partiti ma da piccole resistenze democratiche. Carola Rackete ha vinto da un punto di vista politico e simbolico. Una donna intelligente e coerente che cerca chiaramente di salvare delle persone, un politico che se ne frega. Quello è stato il punto di svolta che ha incrinato la sua narrazione, non il suicidio del Papeete”.

Sansonetti: “Non credo ai complotti, ma al fatto che i magistrati abbiano un potere mostruoso e sproporzionato in uno Stato di diritto e che, oltretutto, si rincorrono nella gara al più forcaiolo. Non basta che un procuratore dica: ‘qui non c’è nulla’ perché comunque arriva un tribunale dei ministri che respinge la richiesta di richiesta del procuratore e voglio che l’imputato sia processato ugualmente. Molto spesso mi si dice: ‘Ma come? L’hanno esaminato in nove magistrati. Perché hai ancora dubbi?’. Semplice, perché quei nove sono una garanzia per l’accusa e non per l’imputato. Di quei nove almeno uno sarà forcaiolo? Basta uno che ti perseguita, gli altri otto, che magari sono persone normali, non contano nulla. È il caso di Cosentino che "vanta" nove anni di persecuzioni, tre anni di prigione e 520 citazioni come mafioso da parte del Fatto Quotidiano e come lui ce ne sono tanti altri di innocenti. Salvini è solo il caso più eclatante. Credo che esista un meccanismo che consenta a un numero limitato di persone non particolarmente preparati, i magistrati d’assalto che possono disporre delle nostre vite come vogliono. Possono annientarci come i bounty-killer nel Far-West, ma almeno cercavano i criminali. Loro cercano chiunque …”

A tal proposito, la leadership di Salvini si è incrinata oppure no?

Raimo: “La sua narrazione è incrinata certo perché non ha saputo rinnovarsi di fronte a una realtà che mutava. Nel marzo 2019 ci sono 5 manifestazioni politiche portano in piazza una nuova generazione al di là dei partiti: 2 marzo People, 8 marzo sciopero femminista, 15 marzo sciopero globale per il clima, 23 marzo ambientalismo contro le grandi opere, 29 marzo contro ddl e convegno sulle famiglie. Con questa generazione politica Salvini non ha carisma. La risposta di Simone di Torre Maura, 15 anni, non tanto "Non me sta bene che no", ma "È che è colpa dei rom?" alla retorica salviniana o fascistoide sulla criminalizzazione dei migranti, degli stranieri, e sul tentativo di dividere poveri italiani e poveri stranieri, è perfetta”.

Sansonetti: “Sì, si è incrinata e non solo per i casi giudiziari. Salvini ha fatto degli errori molto gravi, come spesso fanno i leader politici che guadagnano troppi consensi in un tempo troppo breve. In politica non è prevedibile che un partito, in sei mesi, vada dal 12-13% al 35%. È difficilissimo gestirlo e Salvini non ci è riuscito. Il caso giudiziario gli ha portato solo popolarità perché l’opinione pubblica se deve esprimere un giudizio si esprime a favore di Salvini, diversamente da come farei io".

Matteo Salvini, Repubblica: dopo Gregoretti, presto indagato anche per Open Arms. Un nuovo capo d'accusa. Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. Nuova indagine contro Matteo Salvini sugli immigrati. Repubblica sgancia la bomba: "L'ex ministro dell'Interno, già imputato per sequestro di persona aggravato a Catania, nel giro di qualche giorno lo sarà ufficialmente anche a Palermo". Un accerchiamento giudiziario che riporta l'Italia ai tempi di Silvio Berlusconi premier. "Al palazzo di giustizia - scrive il quotidiano diretto da Maurizio Molinari -, sono arrivate dal Senato le carte che contengono l'ultima autorizzazione a procedere votata il 31 luglio, per i 107 migranti rimasti ostaggio sette giorni sulla Open Arms, nell'agosto 2019, al largo di Lampedusa". A Catania l'udienza per la Gregoretti è fissata il 3 ottobre, poi verrà appunto il turno di Palermo, ancora in attesa della fissazione di un'udienza preliminare.

Oltre al sequestro di persona, è stata formulata contro l'ex capo del Viminale anche  l'accusa di rifiuto di atti d'ufficio "per aver omesso, senza giustificato motivo - è scritto nell'atto d'accusa - di esitare positivamente le richieste"  di un porto sicuro, il 14, il 15, il 16 agosto 2019, "provocando consapevolmente l'illegittima privazione della libertà dei migranti, costringendoli a rimanere a bordo dalla notte fra il 14 e il 15 fino al 18, quanto ai minori, e per tutti gli altri sino al 20". Era il caso della famosa ispezione del pm di Agrigento Luigi Patronaggio a bordo della nave, nei giorni in cui il governo Conte 1 e la maggioranza gialloverde si stavano sfaldando. 

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 25 settembre 2020. L'ex ministro dell'Interno Matteo Salvini è già imputato per sequestro di persona aggravato a Catania, nel giro di qualche giorno lo sarà ufficialmente anche a Palermo. Al palazzo di giustizia, sono arrivate dal Senato le carte che contengono l'ultima autorizzazione a procedere votata il 31 luglio, per i 107 migranti rimasti ostaggio sette giorni sulla "Open Arms", nell'agosto 2019, al largo di Lampedusa. I faldoni sono stati consegnati al tribunale dei ministri, che li ha girati alla procura diretta da Francesco Lo Voi, ora i pubblici ministeri si apprestano a chiedere la fissazione di un'udienza preliminare per l'imputato Salvini. Proprio come è accaduto a Catania, dove l'udienza inizierà il 3 ottobre. Lì, "parte offesa" sono i 134 bloccati sulla motonave della Guardia Costiera Gregoretti per cinque giorni, nel luglio dell'anno scorso. […]

Salvini: «Vogliono processarmi di nuovo, stavolta per la Open arms». Errico Novi su Il Dubbio l'1 Febbraio 2020. Come ormai da tradizione, è il leader della Lega a dare notizia di una richiesta di autorizzazione a procedere avanzata nei suoi confronti dai pm: si tratta del Tribunale dei ministri di Palermo, che lo accusa di sequestro di persona e abuso d’ufficio per il caso della nave spagnola aperto a Ferragosto. Matteo Salvini, tra le altre cose, capovolge tutti gli schemi del processo mediatico. Se di solito sono gli avvisi di garanzia a informare l’opinione pubblica degli accertamenti in corso su un indagato (nella maggior parte dei casi  all’oscuro a sua volta della sgradevole circostanza), con il leader della Lega non c’è da fare alcuna fatica: è lui a sbandierare i siluri che gli arrivano dalle Procure. Oggi lo fa per l’ennesima volta: «Mi è arrivata un’altra richiesta di processo perché ad agosto ho bloccato lo sbarco di clandestini dalla nave di una Ong spagnola: ormai», proclama Salvini, «le provano tutte per fermare me e impaurire voi: vi prometto che non mollo e non mollerò, mai!», è la promessa finale. Si tratta del caso Open arms. Ed è il Tribunale dei ministri di Palermo a chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere per l’ex ministro dell’Interno. Le accuse: sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio in concorso. Reati che secondo i pm palermitani sarebbero stati commessi dal 14 al 20 agosto 2019 «per la conseguente privazione della libertà personale di numerosi migranti». Il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, a novembre aveva condiviso le ipotesi di reato con le quali il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio gli aveva inviato il fascicolo sul caso Open arms. Adesso il Tribunale dei ministri ha accolto la richiesta delle due Procure siciliane. Secondo le tre giudici, il decreto sicurezza non può essere applicato a navi che soccorrono persone in difficoltà perché «il soccorso in mare è obbligatorio». Salvini era stato indagato ad Agrigento per aver impedito ad agosto lo sbarco, e trattenuto a bordo della nave spagnola Open arms, 164 migranti soccorsi in zona Sar libica. La vicenda fu sbloccata dal sequestro dell’imbarcazione disposto, per motivi di emergenza sanitaria, dal procuratore di Agrigento Patronaggio. Lo stesso magistrato ad agosto aprì una indagine a carico di ignoti per sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. Poi gli atti furono trasmessi a Palermo e da qui al Tribunale dei ministri.

Salvini: «Mi vogliono processare anche per Open Arms, non mollerò mai». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. I migranti sbarcarono solo grazie a un blitz del pm di Agrigento dopo 19 giorni di permanenza in mare. «Mi è arrivata un’altra richiesta di processo perché ad agosto ho bloccato lo sbarco di clandestini dalla nave di una Ong spagnola. Ormai le provano tutte per fermare me e impaurire voi: vi prometto che non mollo e non mollerò, mai». Lo ha dichiarato il leader della Lega Matteo Salvini. A novembre, l’ex ministro dell’Interno era stato iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. I fatti risalgono allo scorso agosto, quando 164 migranti rimasero per 19 giorni per 19 giorni a bordo della Open Arms davanti alle coste di Lampedusa. Il caso riguarda la Open Arms, la nave della ong spagnola cui Salvini, da ministro dell’Interno, aveva vietato l’ingresso nel «mare territoriale nazionale». L’organizzione non governativa aveva presentato ricorso e il Tar del Lazio aveva deciso di sospendere il divieto. A novembre, la procura di Palermo aveva trasmesso al Tribunale dei Ministri il fascicolo a carico dell’ex ministro per la mancata concessione del POS (porto di sbarco sicuro) alla nave. Secondo il procuratore Francesco Lo Voi, Salvini, con quella decisione, aveva causato la «conseguente privazione della libertà personale in pregiudizio di numerosi migranti giunti nelle acque di Lampedusa». La vicenda della Open Arms fu una delle più lunghe e tormentate tra quelle che caratterizzarono il rapporto tra Salvini e le Ong. L’imbarcazione, che aveva raccolto 161 naufraghi, rimase in mare in attesa di un porto di sbarco ben 19 giorni tra il primo e il 20 agosto del 2019, proprio nei giorni in cui si consumava la crisi di governo. Sia l’Italia che Malta negavano il porto di approdo finché la nave si avvicinò a Lampedusa, entrando nelle acque territoriali italiane. A quel punto, per far sbarcare i profughi fu necessario un «blitz» a bordo del pm di Agrigento Luigi Patronaggio (lo stesso che ora chiede di processare Salvini) con due medici che constatarono la insostenibile situazione sanitaria. A quel punto sequestrò la nave, determinando di fatto la necessità di far scendere a terra i migranti. Subito dopo Patronaggio annunciò di voler indagare se c’erano state omissioni da parte di «pubblici ufficiali» (senza specificare quali) nel negare lo sbarco ai naufraghi. Per l’ex ministro dell’interno si tratta della terza richiesta di processo .Il Senato ha già negato l’autorizzazione a procedere per il caso della nave «Diciotti» mentre il 12 febbraio prossimo arriverà a Palazzo Madama la richiesta di via libera per quello della nave «Gregoretti». I giudici, che hanno già inviato al Senato la richiesta di processo per la Open Arms contestano al leader leghista l’omissione di soccorso; il tribunale ha sostanzialmente accolto le indicazioni dei pm palermitani e riafferma l’obbligo di prestare soccorso in mare. I giudici definiscono non politico ma «amministrativo» l’atto di vietare l’approdo ai migranti deciso da Salvini.

Diodato Pirone per “il Messaggero”  il 2 febbraio 2020. Mancano una decina di giorni al voto dell' Aula del Senato sul processo a Matteo Salvini per il caso Gregoretti ma al leader della Lega è arrivata una nuova richiesta di autorizzazione a procedere per il blocco di una nave di immigrati. La vicenda è quella della Open Arms, dell' agosto scorso. È stato lo stesso leader della Lega a darne notizia attaccando le procure: «Ormai le provano tutte per fermare me e impaurire voi: vi prometto che non mollo e non mollerò, mai» perché «sono tutti processi politici che non mi spaventano». Il tribunale dei ministri di Palermo gli contesta il sequestro di persona. Secondo i giudici, non solo c' è l' obbligo di prestare soccorso ma, per vietare lo sbarco, mancavano i presupposti previsti dal decreto sicurezza bis firmato proprio dall' ex ministro degli Interni. Non c' era cioè motivo di ritenere che l' approdo potesse rappresentare un pericolo per la sicurezza. Come in una storia circolare, la Open Arms anche in queste ore ha tenuto sul filo le autorità. La nave della ong, con a bordo 363 migranti salvati nei giorni scorsi in cinque operazioni davanti alla Libia, ha lanciato appelli all' Italia e a Malta affinché indicassero un porto sicuro. «Anche quello è un sequestro? - ha chiesto Salvini in una diretta Facebook - Io sono un criminale, ma se lo fanno Conte o Lamorgese cos' è, un atto di interesse nazionale?». La soluzione è arrivata in serata, con l' autorizzazione del Viminale per lo sbarco a Pozzallo, dopo che la Commissione Europea aveva ricevuto la richiesta di coordinare la ripartizione dei migranti e si era messa in contatto con vari Stati. Sul fenomeno migratorio, ha spiegato il premier Giuseppe Conte parlando della visione del governo, «soluzioni nazionali, o nazionalistiche, non hanno chance di successo. Senza entrare nel caso Salvini. La migrazione richiede invece un approccio multi-livello europeo e internazionale fondato sui principi di solidarietà e di responsabilità condivisa». È la terza volta che i senatori sono chiamati a decidere se dare il via libera a un processo a Salvini. La prima risale al marzo 2019, quando il leader della Lega era ancora ministro degli Interni nel governo gialloverde. In quell' occasione, il Senato negò l' autorizzazione a procedere per la vicenda Diciotti, rimasta per cinque giorni nel porto di Catania con a bordo 177 persone, nell' agosto 2018. La seconda, una decina di giorni fa. Cambiata la maggioranza è cambiato anche l' esito in giunta per l' autorizzazione a procedere, che ha votato per il processo, decidendo sul «caso Gregoretti»: 135 immigrati che, nel luglio 2019, non vennero fatti sbarcare dalla nave militare che li aveva soccorsi al largo di Lampedusa. Su questa vicenda, il 12 febbraio ci sarà l' ultimo passaggio parlamentare: spetterà all' Aula del Senato esprimersi. «Io chiederò di andare a processo», ha ribadito Salvini.

Gregoretti, per Salvini il pm potrebbe chiedere l’assoluzione. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. I paradossi del caso Gregoretti non si sono esauriti al Senato — dov’è andato in scena il balletto dei rinvii, dei voti a favore di chi era contrario e infine del non voto leghista —, ma sono destinati a proseguire nel palazzo di giustizia di Catania. È lì che adesso torneranno gli atti del procedimento, e la Procura (dopo un nuovo rimbalzo di carte con il Tribunale dei ministri) dovrà chiedere la fissazione di un’udienza preliminare. Ma a chi? Di nuovo al collegio che ha già chiesto e ora anche ottenuto di processare Matteo Salvini, oppure a un ordinario giudice dell’udienza preliminare (gup) da individuare tra i sedici in servizio alle falde del l’Etna? Una sentenza della Corte costituzionale del 2002 sembra aver chiarito che si debba andare davanti al gup, quando stabilì che l’iter processuale a carico del ministro debba proseguire «secondo le forme ordinarie, vale a dire per impulso del pubblico ministero e davanti agli ordinari organi giudicanti competenti». Ma proprio nell’ufficio dei pm guidati dal procuratore Carmelo Zuccaro ci si sta interrogando in queste ore se quella pronuncia (che fu «interpretativa di rigetto» di un’eccezione di incostituzionalità, non di accoglimento) sia vincolante o meno. La legge costituzionale del 1989 sui reati ministeriali dispone infatti che dopo l’autorizzazione il fascicolo venga restituito al tribunale dei ministri «perché continui il procedimento secondo le norme vigenti». Come se il soggetto chiamato a continuare fosse lo stesso tribunale e non un altro giudice. Ma un po’ perché la Consulta ha già detto la sua, e un po’ perché il tribunale dei ministri ha svolto fin qui le funzioni di inquirente, sarebbe strano che ora dovesse anche vestire i panni del giudicante chiamato a decidere sul rinvio a giudizio di Salvini. È dunque presumibile che la Procura uscirà da questa complessa questione tecnico-giuridica chiedendo a un gup la fissazione dell’udienza preliminare. E qui si assisterà a un’altra stranezza di questa vicenda. Solitamente, anche nei casi di «imputazione coatta» imposta da un gip al quale il pm aveva chiesto l’archiviziazione di un caso, la Procura formula l’accusa e conclude chiedendo al gup il rinvio a giudizio. Stavolta di scontato c’è solo la prima parte, e cioè la richiesta di fissazione dell’udienza preliminare con il capo d’imputazione contro l’ex ministro dell’Interno: sequestro di persona aggravato di 131 migranti commesso a Catania e Augusta, tra il 27 e il 31 agosto 2019. Un atto dovuto. Il resto è incerto, perché già all’esito dell’indagine svolta dal Tribunale dei ministri, gli stessi pubblici ministeri (il procuratore Zuccaro e il sostituto Andrea Bonomo, che in questo caso ha sottoscritto gli atti) avevano sostenuto il contrario: per loro non ci fu alcun sequestro. Il fatto non costituisce reato, scrissero nella richiesta di archiviazione, perché lasciare i migranti a bordo per tre giorni (al quarto fu decisa l’autorizzazione allo sbarco, sebbene formalizzata solo l’indomani), assistiti per ogni necessità, al fine di stabilire dove dovessero essere collocati una volta scesi dalla nave, non è un periodo di privazione della libertà «apprezzabile» per essere considerato un sequestro. I pm potrebbero insistere su questa posizione e proporre il proscioglimento dell’imputato Salvini, oppure il rinvio a giudizio se dovessero mutare orientamento al termine dell’udienza preliminare. Nella quale l’ex ministro potrà chiedere di essere interrogato, il suo avvocato presentare nuovi atti e sollecitare nuovi accertamenti. Poi la Procura formulerà le proprie conclusioni (lì si vedrà se cambierà idea oppure no), quindi il giudice deciderà: processo o archiviazione.

Dagospia il 13 febbraio 2020. Da “Radio Cusano Campus”. Antonio Di Pietro è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sul caso Gregoretti. “Dobbiamo partire da un presupposto tecnico: tenere bloccate delle persone sul suolo italiano è un atto di prepotenza che si chiama sequestro di persona. Stabilito questo la legge dice: se tu che sei al governo lo fai per difendere i confini e l’indipendenza dello Stato, anche se questo è reato tu non sei perseguibile. Questo è il tema. Stabilito che nel caso di specie, la nave militare era italiana e non una nave da guerra straniera, stabilito che sopra alla nave non c’erano kamikaze ma dei poveracci che morivano di fame, a me disturba il comportamento pilatesco di chi adesso vuole scaricare solo su Salvini una responsabilità politica che è anche di altri membri del governo. Il pubblico ufficiale ha l’obbligo di impedire il reato, il presidente del Consiglio e gli altri ministri dovevano impedirlo. Se Salvini va a processo per stabilire se è reato o no, perché non ci vanno pure gli altri ministri? Oggi fanno finta di dire che Salvini ha fatto tutto da solo, ma quella politica scellerata che è abuso delle proprie funzioni è una responsabilità costituzionale che riguarda tutti i componenti del governo. Se Salvini deve essere giudicato penalmente, devono essere chiamati in corresponsabilità tutti gli altri. Se un carabiniere vede uno che sta rubando non è che dice: no, non intervengo perché sono fuori servizio. Il silenzio di Conte e degli altri ministri mi ricorda Ponzio Pilato, si sono girati dall’altra parte e hanno fatto finta di niente. Personalmente ritengo che il blocco della nave Gregoretti sia stato un abuso, detto questo, hanno fatto una scelta politica così come con la Diciotti. O questo abuso ha soltanto una valenza politica, allora votate e assumetevi la responsabilità davanti al popolo, oppure non potete fare due pesi e due misure altrimenti trasformate Salvini in una vittima. Io fossi stato al governo o all’opposizione avrei votato per lasciare giudicare ai magistrati”. Sulla prescrizione. “Mettendo da parte la reciproca antipatia personale con Renzi, non si può dire sempre che Renzi sbaglia ogni volta che parla. A mio avviso, quando c’è un rinvio a giudizio io cittadino voglio sapere se ho a che fare con una persona innocente o colpevole. Il problema di fondo è che oggi non lo vengo a sapere perché non si sa quando comincia e quando finisce il processo. Volete che ci sia la prescrizione? Bene, però stabilite che il termine iniziale della prescrizione cominci da quando il reato viene scoperto non da quando viene commesso. La maggior parte dei reati vengono scoperti anche anni dopo. Persone come Andreotti e Berlusconi hanno beneficiato la prescrizione per reati che sono stati scoperti molti anni dopo rispetto a quando sono stati commessi”. 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 13 febbraio 2020. Era scontato che Matteo Salvini fosse mandato a processo. La maggioranza frigge dalla voglia di farlo fuori in qualsiasi maniera, lo si evince dal suo comportamento. E adesso attende con ansia che l'ex ministro dell' Interno venga stroncato per via giudiziaria. Non ha capito che affidandosi alla magistratura per distruggere un avversario potente e ineguagliabile rischia di consegnarsi ad essa mani e piedi. Ne è in parte già schiava e d'ora in poi lo sarà del tutto. Si è predicato anni che è necessario confermare il primato della politica sulla giustizia, eppure lorsignori, pur di eliminare il Capitano, si sono rimangiati il postulato come fosse una patatina fritta. E non se ne vergognano, al contrario trepidano in attesa della conclusione del processo, sperando che finisca male, anzi malissimo, per l' imputato. Siamo di fronte a un Parlamento sgangherato e incapace di gestire la cosa pubblica. Basti pensare che la legge cosiddetta spazzacorrotti, applicata retroattivamente per incarcerare ingiustamente Roberto Formigoni (5 mesi di reclusione gratis) è stata giudicata dalla Corte costituzionale inammissibile. Vuol dire che il promotore della medesima Bonafede ha agito da dilettante del diritto. Insomma la nostra impressione è che il potere dominante tenda a usare i codici e le toghe quali strumenti di lotta partitica. Il che è una sorta di abusivismo deleterio che avvelena vita pubblica e privata. Salvini si è difeso inutilmente con argomenti di buon senso tuttavia ciò non è stato sufficiente a influenzare le testoline dei suoi accaniti nemici, i quali hanno insistito masturbando ragionamenti privi di fondamento. Il problema nasce da motivi squallidi e sporchi, far secco un uomo che li sovrasta ed è capace di sintonizzarsi col popolo, popolo che preferisce Salvini ad altri politicanti incollati alla poltrona. 

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 13 febbraio 2020. Salvini sarà processato per sequestro di persona. La decisione era talmente scontata che ieri abbiamo praticamente annunciato l' autorizzazione a procedere contro l' ex ministro dell' Interno come se fosse cosa fatta. Non perché in redazione fossimo dotati di una palla di vetro atta a prevedere il futuro, ma semplicemente perché sarebbe bastato fare i conti per avere la certezza che il capo della Lega non sarebbe riuscito a sfuggire al plotone d' esecuzione che era stato allestito dalla maggioranza giallorossa. I 5 stelle, il Pd, Italia viva e Leu non vedono l' ora di levarsi dai piedi un rompiscatole all' opposizione e dunque gettarlo tra le braccia dei giudici è sembrata la soluzione più rapida per sbarazzarsi di un concorrente. D' ora in poi, invece di girare l' Italia per fare campagna elettorale, Salvini dovrà recarsi in tribunale a difendersi dalle accuse. Giulia Bongiorno, che l' ex ministro si è scelto come avvocato difensore, ha provato in ogni modo a convincere i senatori, ma la sua arringa è stata fatica sprecata, in quanto tutto era già deciso. Sventolare i fogli con le dichiarazioni del presidente del Consiglio sull' obbligo di riassegnare i profughi ad altri Paesi prima di farli sbarcare o la trascrizione dell' intervista tv al ministro della Giustizia sulla condivisione delle decisioni a proposito della Gregoretti, non ha indotto la maggioranza a un rimorso di coscienza. Salvini va processato punto e basta, perché così la prossima volta che dovrà parlare di immigrazione starà bene attento alla spada di Damocle che pende sul suo capo e che rischia di tagliargli la testa con una condanna a 15 anni. Fin qui, dicevamo, la «condanna» parlamentare nei confronti di uno dei leader dell' opposizione e del capo di quello che al momento risulta essere il primo partito d' Italia. Salvini, come egli stesso ha spiegato, non ha rubato e non si è messo in tasca un euro di tangenti. Semplicemente ha deciso di mettere in pratica ciò che aveva promesso agli italiani durante le elezioni e per cui aveva preso i voti. Sulla Gregoretti, e sulle altre navi fermate, la sua è stata una scelta politica coerente con il programma annunciato agli italiani. Ma a quanto pare, prendere decisioni politiche, popolari o impopolari, è roba da codice penale. Dunque ci permettiamo di segnalare alla magistratura una serie di altri governanti che si sono resi responsabili di reati «politici». Cominciamo da lontano, ripescando il nome di Massimo D' Alema il quale, nonostante la Costituzione ripudi la guerra, nel marzo del 1999 da presidente del Consiglio fece alzare in volo i tornado italiani mandandoli a bombardare Belgrado e, per di più, senza passare dal Parlamento. Segue Giuliano Amato, altro premier, che il 10 luglio del 1992, nonostante la solita Costituzione tuteli la proprietà privata e pure il risparmio, si rese responsabile di un furto con destrezza sui conti correnti degli italiani, prelevando nella notte il 6 per mille a ricchi e poveri. Non si può tralasciare Romano Prodi, il cui governo, nel 1997, per fermare gli sbarchi di immigrati albanesi, mandò le navi della Marina militare italiana. Una di queste, mentre tentava di eseguire le disposizioni ricevute, si scontrò con la Kater i Rades, una bagnarola partita dal porto di Durazzo con a bordo 120 persone che cercavano di sfuggire all' anarchia e alla povertà in cui era sprofondato il Paese. Nell' incidente l' imbarcazione colò a picco e 83 persone perirono. Il naufragio non può che avere come responsabile politico l' allora presidente del Consiglio il quale, peraltro, spiegò le misure di pattugliamento delle coste con la seguente dichiarazione: «La sorveglianza dell' immigrazione clandestina attuata anche in mare rientra nella doverosa tutela della nostra sicurezza e nel rispetto della legalità che il governo ha il dovere di perseguire». Di che lo vogliamo accusare? Di strage? L' elenco può continuare con i protagonisti dei nostri giorni. Roberto Speranza, che unico tra i ministri europei ha bloccato i voli da e per la Cina, rischia la richiesta di autorizzazione a procedere per interruzione di pubblico servizio e, per la quarantena disposta agli italiani di ritorno da Wuhan, anche il sequestro di persona. Luigi Di Maio, come responsabile della Farnesina, invece potrebbe finire sul banco degli imputati con l' accusa di abbandono di minore, per aver lasciato a Pechino il diciassettenne con la febbre. Non la può scampare neppure Luciana Lamorgese, che ha tenuto al largo per un bel po' di giorni due navi delle Ong in attesa che si votasse prima in Umbria e poi in Emilia Romagna: per lei il sequestro di persona potrebbe essere aggravato dai futili motivi. E che dire di Mario Monti, che s' inchinò alla Merkel e alla Ue invece che al popolo italiano che, da Costituzione, è il vero sovrano dell' Italia? Per lui una bella accusa per alto tradimento calzerebbe a pennello. Sì, processiamo i politici per ciò che hanno fatto. Ma tutti però, non solo quelli che fanno comodo alla maggioranza che sta al governo. Perché chi ha governato negli ultimi 30 anni una qualche responsabilità politica per come siamo messi ce l' ha di certo. 

Da “la Repubblica” il 13 febbraio 2020. Succedono cose mai successe. Per esempio, che in Senato il capo della Lega e dell'opposizione attacchi questo giornale senza citarlo, lo sbeffeggi parlandone come di un ex importante quotidiano, si spinga a dire che se altri organi di informazione avessero fatto preoccupare sua figlia per un titolo come quello di Repubblica ("Cancellare Salvini", intervista a Delrio sui decreti sicurezza da lui imposti) sarebbero intervenuti i Caschi blu dell'Onu a portare via quel direttore e quei giornalisti. Per adesso sono arrivate soltanto minacce di morte e intimidazioni, ma diamo tempo al tempo. Non annoieremo i nostri lettori rispiegando per l'ennesima volta il senso di quel "cancellare", che soltanto un politico spregiudicato come appunto Salvini poteva trasformare in un attacco alla sua persona. Né torneremo su bassezze dolorose come quelle di chi ha voluto paragonare la nostra prima pagina del 15 gennaio alla campagna che portò all'uccisione del commissario Calabresi. Aspettando che i Caschi blu o altre forze di ripristino della democrazia arrivino finalmente nella sede di Repubblica a fare giustizia, e a rimuovere i cattivi, rassicuriamo il senatore Salvini che finché questo non accadrà continueremo a fare il nostro lavoro, contro qualsiasi forma di disinformazione e di propaganda, mestieri nei quali l'ex ministro dell'Interno si conferma importante maestro. Salvini ricade nel vizio di attaccare Repubblica, arrivando ad auspicare la rimozione del direttore Verdelli e di tutti i giornalisti. Vorremmo ricordare all'ex ministro - che ha definito la nostra testata "un ex importante quotidiano" senza avere neppure il coraggio di nominarla - che di ex al momento c'è solo lui: uscito dal Viminale dopo l'inquietante richiesta di "pieni poteri". E che le minacce alla stampa, tipiche dei regimi illiberali, non ci fanno paura: Repubblica è e resterà presidio fondamentale di libertà e democrazia.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 13 febbraio 2020. Con una sceneggiata da terrone padano e "sequestrando" persino i propri figli - anche loro! - «per la Patria» e «la mia Italia», Matteo Salvini ha cercato ieri di trasformare la sconfitta in vittoria. Con il «processatemi» e il «voterò contro me stesso disobbedendo ai miei avvocati» si è fatto cavia, vittima ed eroe della giustizia politica: «Oggi tocca a me ma domani, quando toccherà a voi di sinistra, vi difenderò io». E ha così riunito la destra come mai, dopo Berlusconi, era accaduto. Da Santanché sino a Bernini, da Gasparri sino a Malan e sino a Casini, che è la quota di centrodestra dentro la sinistra, è stata per tutti la giornata delle mozioni, delle arringhe e degli incantamenti, mentre nella tribunetta degli ospiti del Senato c' era pure la deputata Giorgia Meloni, venuta ad amarlo e a detestarlo come sempre accade ai "numeri due" per scelta e per destino. E però, prima che da ex ministro sequestratore della nave Gregoretti, Salvini andrebbe processato come padre e non perché ha per i figli una dedizione speciale - chi in Italia non ce l' ha? - ma perché invece di custodirli tra i segreti del cuore li ha consegnati alla peggiore demagogia, alla rissa d' aula, li ha appunto "sequestrati" come aveva fatto con la nave Gregoretti, e ha poggiato la propria "innocenza" sulle loro giovani vite. Ha cominciato con la citazione a raffica dei messaggi che gli mandano, «forza papà», e con l' afflizione, evocata almeno tre volte, di questi suoi eroici bimbi ogni volta che papà viene raccontato sui giornali «come un criminale cattivo». E mai c' era stato un attacco a un giornale così frontale come quello che Salvini ha sferrato a Repubblica , ai suoi giornalisti, al suo direttore e sempre in nome di sua figlia che si sarebbe spaventata per il titolo Cancellare Salvini: «Ma papà, perché ti vogliono cancellare?». E il vittimismo è diventato qui barocco e minaccioso come vuole la nuova sottocultura della destra, da Trump a Orbán. Nell' ansia però di farsi scudo della figlia che ha solo 7 anni, Salvini ha recitato male. Non è infatti verosimile che una bimba così piccina ragioni con la testa dei Sallusti e degli altri giornalisti salvinisti che hanno spacciato un titolo sui decreti, appunto da cancellare, per una minaccia fisica. Cancellare i decreti sull' immigrazione è un lavoro che si fa con la gomma in consiglio dei ministri o in parlamento. Solo Salvini ha la ruspa in testa. Solo lui può vedere nel verbo cancellare una soluzione finale. Ecco, modificando la macchina del fango in macchina del piagnisteo, il falso autentico del titolo deformato è diventato uno slogan, un virus della propaganda, la parola d' ordine che Salvini ripete da un mese. In Emilia, durante la campagna elettorale, ha persino saccheggiato le edicole per esibire nei comizi il titolo-killer. Purtroppo non c' è solo da ridere. Sporcare e aggredire i partiti nemici è una sgrammaticatura che sta ancora dentro il grande gioco della politica, un eccesso di demagogia che la dialettica democratica può ancora tollerare. Ma Salvini ha l' ambizione di mettere i piedi in redazione, che è una vecchia pulsione illiberale. Tanto più oggi che, come i lettori sanno, Repubblica è sotto attacco ed Eugenio Scalfari e Carlo Verdelli ricevono ogni tipo di intimidazione. Un uomo di Stato, un leader, se ne sarebbe ricordato. Salvini, nella confusione dei suoi insulti, ha invece rivendicato di essere un giornalista. Ma evidentemente ha battuto anche questo nella polvere, insieme all' amore più prezioso, quello per i figli ai quali racconta se stesso - lo ha detto ieri in Senato - come il papà che ha salvato migliaia di vite umane, «almeno tredicimila nel Mediterraneo», il papà che ha guidato la ruspa per abbattere la villa dei Casamonica, che «infatti minacciano me e non voi chiacchieroni dell' antimafia puah», «voi che al primo pericolo mafioso ve la date a gambe». La novità retorica della ruspa antimafia, la nuova filosofia dell' ex ministro che, avendo indossato la felpa della polizia, ora in Senato si permette di dare lezioni a Pietro Grasso non era stata prevista neppure da Sciascia, fermo con il suo don Mariano Arena agli uomini, ai mezzi uomini, agli ominicchi, ai piglianculo e ai quaquaraquà. Salvini vi aggiunge i pataccari Instagram, «una foto e hai sgominato un clan», una roba spudorata che umilia vittime ed eroi, ed è lunare rispetto all' iconografia tradizionale, quella selvaggia dalla lupara alle stragi, quella degli omicidi dei magistrati e dei giornalisti. E di nuovo capisco la tentazione di riderne, ma c' è una morale andata a male nella rivendicazione del kitsch antimafia, nell' immagine dell' ex ministro sturmtruppen , del miles (vana)gloriosus con l' emoticon - ricordate? - del muscolo gonfio: «Capitano, salva l' Italia e ruspali tutti». Con ruspa e dinamite in Italia sono state abbattute le Vele a Scampia, Punta Perotti a Bari, le baracche a Bologna e Catania..., ma Salvini adesso racconta quella ruspa che lanciò contro gli immigrati, i disperati, i poveracci, i naufraghi e i nomadi come l' arma del nuovo prefetto di ferro. E meno male che ce lo ricordiamo bene: godeva che nei Casamonica ci fosse un' origine Rom e fece della demolizione un' eroica pagliacciata esibendo lo stesso cattivo gusto della villa demolita. La sua ruspa brillava di felicità come il gabinetto d' oro e mosaico dei Casamonica. E comincia così a prendere senso l' inaudito di quel «vi chiedo rispetto non per me, ma per mio figlio» con lo spettacolo inedito dell' applauso a un giovanissimo, innocente e sconosciuto, sulle cui spalle il padre si getta come una croce. Eccoli dunque tutti in piedi, tutti i leghisti e l' intero centrodestra a spellarsi le mani per il figlio di papà Matteo, nella nuova guerra sacra contro «la via giudiziaria» alla politica. E si sono infatti risvegliati gli avvocaticchi, i vecchi retori «contro la giustizia feroce e iniqua che vuole processare la politica». È tornato il vecchio sapore degli Schifani e dei La Russa: «La sinistra italiana ha esportato in America l' idea di battere per via giudiziaria il nemico politico che non riesce a battere per via elettorale». Ho chiuso gli occhi e li ho rivisti tutti, i Cirami e i Cirielli sino alla faccia primigenia, quella di Previti. Per esempio, tanto per citarne uno, ieri Luigi Vitali, uno sconosciuto avvocato di Forza Italia, voleva proprio mangiarseli tutti i giudici italiani, gridava e gli tremavano gli occhiali sul naso «contro l' infondatezza della notizia del reato». Torna dunque l' avvocato parlamentare come simbolo irrisolto di un' epoca. Ed è un' impalpabile estenuazione, un appiccicoso essudato questa presunta riscossa del potere politico contro quello giudiziario che fa di Salvini il nuovo padrone del centrodestra. Per esempio Francesco Zaffini (Fratelli d' Italia) ieri voleva metterci «non solo le mani, ma anche i piedi». E Lucio Malan: « Sapete qual è la riforma che vogliono fare? Chi sale al governo manda in galera quelli che hanno governato prima». Ma è con l' avvocato Bongiorno che la gag è diventata irresistibile: «Ti disobbedisco, Giulia» le ha detto Salvini annunziando che avrebbe votato per farsi processare mentre lei gli consigliava «non farlo, testone». Per lei dire no alla richiesta del processo avrebbe «onorato il Senato». E ancora: «Noi oggi siamo giudici e non Azzeccagarbugli». Anche se l' idea, applauditissima, che la nave Gregoretti non sia stata «sequestrata» ma solo «rallentata» sembra uno degli impedimenti dirimenti dell' avvocato manzoniano. Il comico "rallentamento" della Bongiorno prende infatti posto tra i cavilli con cui Azzeccagarbugli imbrogliava Renzo. " Error , conditio , votum , cognatio ". La vedremo, avvocato difensore con una dedizione speciale per il suo leader, al processo che il Senato ha votato ieri sera: «Sì, è vero, ero stata io a convincerlo a non rinunciare all' immunità per il caso Diciotti» aveva detto. Nel caso Gregoretti non l' ha convinto ma è solo un trucco da fiera quest' uscita di sicurezza della disobbedienza all' avvocato. Gli italiani sanno che Salvini non aveva comunque i numeri per evitare il processo. Ha finto di mostrare il petto solo per unire il centrodestra e diventare il nuovo eroe dei malandrini d' Italia, il Dreyfus da balera padana. 

Luca Fazzo per “il Giornale” il 13 febbraio 2020. E adesso c' è solo da fare il processo: il primo processo a un politico che il suo (presunto) reato non lo ha fatto di nascosto ma l' ha promesso, annunciato, esibito e rivendicato. Questa mattina la presidenza del Senato trasmetterà alla Procura della Repubblica di Catania il provvedimento con cui ieri sera l' aula di Palazzo Madama ha concesso l' autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini, ex ministro dell' Interno, chiesta dalla stessa Procura lo scorso 16 dicembre per il reato di sequestro di persona aggravato. È uno snodo cruciale della vicenda giudiziaria, l' atto formale che nel giro di pochi giorni trasformerà Salvini da indagato a imputato e lo avvierà verso il processo. La macchina, insomma, è partita. Cosa accadrà adesso, in concreto, è presto detto. Il provvedimento approderà sul tavolo del procuratore della Repubblica, Carmelo Zuccaro: è il magistrato che in settembre aveva chiesto di prosciogliere Salvini «per infondatezza della notizia di reato», ma che era andato a sbattere contro il diniego del Tribunale dei ministri del capoluogo etneo. Di fatto, Zuccaro ha chiesto al Senato di poter processare Salvini per una accusa in cui neanche lui crede. Ma è la legge che lo ha costretto a farlo. E la stessa legge lo obbliga ora a chiedere il rinvio a giudizio per il leader leghista. Zuccaro dovrebbe firmare il provvedimento nel giro di qualche giorno. A quel punto tutto torna sul tavolo del tribunale dei Ministri catanese: e anche lì i giudici hanno già fatto sapere apertamente come la pensano, ovvero che Salvini è responsabile di avere sequestrato illegalmente per quattro giorni i 131 migranti a bordo della Gregoretti, e di averlo fatto «non per motivi di ordine pubblico ma per volontà meramente politica». Quindi la richiesta di rinvio a giudizio che la Procura si prepara (suo malgrado) ad avanzare verrà sicuramente accolta, e in tempi abbastanza brevi. Data ipotizzabile di inizio del processo: la prossima primavera. A quel punto, però, tutto cambia. Da una situazione in cui i diversi uffici giudiziari hanno già avuto modo di dire chiaramente come la pensano, il caso Salvini approderà davanti ad altri magistrati, davanti a una sezione del tribunale ordinario di Catania che di questa storia non si è mai occupata. È lì che si giocherà la sorte dell' imputato Salvini: e non sarà un processo breve. Il fascicolo d' inchiesta è corposo: dentro ci sono le prime indagini compiute dalla Procura di Siracusa, gli sviluppi eseguiti da quella di Catania dove l' inchiesta approdò per competenza, e soprattutto i risultati della vasta attività di indagine compiuta direttamente dal Tribunale dei ministri. Decine di testimonianze, migliaia di documenti. E tra i testimoni in aula, due si annunciano cruciali: uno è il presidente del consiglio Giuseppe Conte, che secondo Salvini era pienamente coinvolto nelle decisioni. L' altro è il prefetto Matteo Piantedosi, che interrogato dai giudici catanesi in ottobre disse testualmente: «Non credo che l' unica autorità competente ad autorizzare lo sbarco sia il ministero dell' Interno», e per questo è stato accusato di mentire. Tornerà a dire le stesse cose?

Michela Allegri per “il Messaggero” il 15 febbraio 2020. Il primo atto formale che avvicinerà Matteo Salvini all'aula di udienza sarà la trasmissione del fascicolo dell'autorizzazione a procedere al Tribunale dei ministri di Catania da parte del Senato. Ma non è detto che la permanenza del leader della Lega sul banco degli imputati sia lunga: l'orientamento della procura etnea sembra essere quello di chiedere il suo proscioglimento, ribadendo quanto sostenuto nella richiesta di archiviazione per il caso Gregoretti, non recepita dal Tribunale dei ministri. Adesso il procuratore Carmelo Zuccaro  dovrà necessariamente formulare una richiesta di rinvio a giudizio. Ma si tratta di un atto dovuto, specifica la Procura, visto che la decisione del Tribunale dei ministri funziona come un'imputazione coatta e i pm non hanno la possibilità di avanzare richiesta di archiviazione. Hanno però la facoltà di chiedere il proscioglimento davanti al gup, in sede di udienza preliminare. E, appunto, sembra proprio questo l'orientamento della procura di Catania. Nei prossimi giorni verrà esaminata la memoria depositata dall'ex ministro dell'Interno e la stessa cosa varrà per gli atti che verranno depositati in udienza dalle parti civili eventualmente costituite. Ma in assenza di nuovo materiale investigativo e di nuove prove, i magistrati della procura etnea difficilmente cambieranno opinione. A decidere, comunque, sarà il giudice, che potrà optare per il proscioglimento, sposando la tesi della Procura, o per il rinvio a giudizio, seguendo invece l'orientamento del Tribunale dei ministri. Intanto il presidente dell'ufficio del gip, Nunzio Sarpietro, dovrà scegliere se affidare il fascicolo a un collega oppure procedere personalmente.

L'ACCUSA. Salvini è accusato di sequestro di persona aggravato, per il ritardo nello sbarco di 131 migranti che in luglio erano a bordo della nave Gregoretti. Un sequestro che, secondo il procuratore Zuccaro, non ci sarebbe stato. Era scritto nella richiesta con cui il magistrato chiedeva di archiviare il caso: «Non sussistano i presupposti del delitto di sequestro persona, né di nessun altro delitto, e ciò anche a prescindere dalle valutazioni in ordine sia alla riconducibilità o meno della condotta del Ministro alla categoria degli atti politici, o di alta amministrazione, sia alla sindacabilità giurisdizionale degli atti politici o di alta amministrazione». Per il procuratore, infatti, l'avere prolungato per circa tre giorni la permanenza a bordo della nave Gregoretti dei migranti salvati in mare da unità militari italiane - garantendo comunque loro assistenza medica, viveri e beni di prima necessità, e consentendo l'immediato sbarco di coloro che presentavano seri problemi di salute e dei minorenni -, e ferma restando l'intenzione ministeriale di assegnare il Pos in tempi brevi, consentendo lo sbarco e il trasferimento in hotspot per la fase di identificazione, «non costituisce una illegittima privazione della libertà personale». Un'impostazione che non sembra essersi modificata dopo la decisione del Tribunale dei ministri.

LE TAPPE. In aula si procederà come per un normale procedimento penale. In sede di udienza davanti al gup, la Procura e la difesa potranno chiedere nuova attività istruttoria, oppure depositare atti, documenti e memorie. I 131 migranti, compresi i legali rappresentanti di minorenni, associazioni o enti pubblici, potranno invece chiedere di costituirsi parte civile. Dopo le richieste della procura e le discussioni degli avvocati, il gup stabilirà se prosciogliere Salvini o andare a processo. Una decisione che dovrebbe arrivare dopo l'estate. In caso di rinvio a giudizio, il dibattimento si terrebbe davanti a una sezione del Tribunale penale di Catania, con rito ordinario. Intanto, però, la Giunta per le autorizzazioni a procedere si prepara a un altro duro scontro sul leader della Lega: il 27 febbraio dovrà pronunciarsi sull'autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri di Palermo sul caso Open Arms, la nave di una ong spagnola che nell'agosto 2019 soccorse oltre 160 persone in tre diversi interventi nel Mediterraneo e che rimase in mare in attesa di un porto di sbarco per 19 giorni.

Open Arms, i pm: «Il no di Salvini allo sbarco fu un vero e proprio reato, non un atto politico». ASimona Musco il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. L’accusa dei magistrati di Palermo contro l’ex ministro dell’Interno: fu sequestro di persona. Il no allo sbarco imposto alla Open Arms dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini non fu un atto politico, ma «un vero e proprio reato ministeriale». Sono queste le conclusioni del Tribunale dei ministri di Palermo, che hanno inviato alla giunta per le autorizzazioni del Senato 114 pagine, con le quali argomentano le ragioni alla base della richiesta  di autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, accusato di plurimo sequestro di persona. Un reato, si legge nelle carte dei magistrati di Palermo, aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti le sue funzioni ed anche in danno di minori. L’episodio riguarda il rifiuto di ingresso in acque territoriali imposto ai 107 migranti giunti in prossimità di Lampedusa a bordo della ong “Open Arms”, nella notte tra il 14 e il 15 agosto scorso, violando convenzioni internazionali e norme interne in materia di soccorso in mare e di tutela dei diritti umani. In particolari, Salvini avrebbe violato, tra le altre, la convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso in mare, la convenzione Unclos e la Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e abusando dei propri poteri ometteva, «senza giustificato motivo, di esitare positivamente le richieste di Pos inoltrate al suo ufficio il 14, 15 e 16 agosto, provocando consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale dei predetti migranti, costringendoli a rimanere a bordo della nave per un tempo giuridicamente apprezzabile, precisamente dalla notte tra il 14 ed il 15 agosto sino al 18 agosto 2019, quanto ai soggetti minorenni e per tutti gli altri sino al 20 agosto 2019, data in cui, per effetto dell’intervenuto sequestro preventivo della nave, disposto dalla procura della Repubblica di Agrigento, venivano evacuate tutte le persone a bordo». Secondo i pm, la mancata indicazione del Pos rappresenterebbe «una determinazione volontaria e pienamente consapevole del ministro», che pur essendo tenuto per legge ad indicare alla nave un porto sicuro, si è rifiutato, «senza che sia neppure ipotizzabile una sua riconducibilità a negligenza o disattenzione». Tale gesto rappresenterebbe, dunque, «una volontaria ed intenzionale riaffermazione della linea già delineata dal ministro dell’Interno, a fronte dell’ingresso di migranti nelle acque territoriali italiane a bordo di natanti di organizzazioni non governative». Salvini sarebbe stato dunque pienamente consapevole di come il proprio rifiuto di concedere alla Open Arms un Pos sulle coste italiane «incidesse, comprimendoli, sugli interessi e i diritti fondamentali delle persone soccorse». Ciò anche alla luce della consapevolezza, accertata dagli atti prodotti dallo stesso ministero, che «all’origine della intera vicenda vi fossero episodi di soccorso in mare di persone in situazione di difficoltà, tanto che lo stesso decreto interministeriale del primo agosto 2019 assume tale dato di fatto tra le sue premesse, affermando che si era avuto un soccorso di natante “in distress”». Inoltre, la presenza a bordo di minori, di soggetti che intendevano avanzare richiesta di asilo e, più in generale, il progressivo peggioramento delle condizioni psicofisiche delle persone trasportate «erano circostanze puntualmente portate, in tempo reale, a conoscenza del ministro». Nessuno spazio, dunque, «per ipotizzare una carenza di volontarietà della condotta»: le normativa in materia era, infatti, «indiscutibilmente nota» al ministro dell’Interno che, però, ha «esplicitamente inteso considerarla in posizione secondaria rispetto alla potestà di operare un controllo delle frontiere effettivo, utilizzando tale forzatura per indurre le autorità dell’Unione europea a cooperare più efficacemente alla redistribuzione dei migranti in tutti i Paesi dell’Unione». Leggi, afferma l’atto del tribunale dei ministri, che non potevano «essere disattesi o violati in funzione del perseguimento della spiegata linea di indirizzo politico».

La corrispondenza con Conte. Dagli atti emerge anche la fitta corrispondenza tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e Salvini tra il 14 e il 17 agosto 2019, mentre la nave aspettava l’assegnazione di un porto di sbarco. Il 15 agosto, il ministro Salvini sottoscriveva una nota di risposta ad una nota del giorno precedente a firma del premier Conte, con cui lo si era invitato «ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull’imbarcazione». Salvini replicava però che i minori erano da ritenere soggetti alla giurisdizione dello Stato di bandiera anche con riferimento alla tutela dei loro diritti umani, aggiungendo, inoltre, Che, inoltre, non vi erano evidenze per escludere che gli stessi viaggiassero accompagnati da adulti che ne avevano la responsabilità, comunque ricadente sul comandante della nave. Il 16 agosto, Conte replicava ribadendo con forza la necessità di autorizzare lo sbarco dei minori a bordo, anche alla luce della presenza della nave al limite delle acque territoriali (in effetti vi aveva già fatto ingresso) e potendo, dunque, configurare l’eventuale rifiuto un’ipotesi di illegittimo respingimento – si legge – aggiungeva di aver già ricevuto conferma dalla Commissione europea della disponibilità di una pluralità di Stati a condividere gli oneri dell’ospitalità dei migranti della Open Arms. Invito al quale Salvini aveva replicato il 17 agosto, «assicurando che, nonostante non condividesse la lettura della normativa proposta dal Presidente Conte, suo malgrado avrebbe dato disposizioni tali da non frapporre ostacoli allo sbarco dei “presunti” minori a bordo della Open Arms, provvedimento che definiva, comunque, come di “esclusiva determinazione” del Presidente del Consiglio», si legge nella richiesta. A seguito di un’ispezione, i migranti a bordo vennero trovati in una «situazione di grande disagio, fisico e psichico, di profonda prostrazione psicologica e di altissima tensione emozionale che avrebbe potuto provocare reazioni difficilmente controllabili, delle quali, peraltro, i diversi tentativi di raggiungere a nuoto l’isola costituivano solo un preludio».

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 17 febbraio 2020. «La Open Arms doveva andare in Spagna o a Malta, ma il comandante della nave ha deliberatamente rifiutato il Pos (place of safety, il «porto sicuro») indicato successivamente da Madrid, perdendo tempo prezioso al solo scopo di far sbarcare gli immigrati in Sicilia come già aveva fatto nel marzo 2018 ricavandone un processo per violenza privata e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina»: così l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini si difende nella memoria depositata presso la Giunta per le immunità che deve decidere a proposito del caso Open Arms, la nave mercantile battente bandiera spagnola e affittata dalla ong Pro-Activa Open Arms che ad agosto arrivò in Italia e rimase in attesa dell’autorizzazione ad entrare in porto. Secondo Salvini «i primi Paesi contattati e informati da Open Arms dopo le operazioni di salvataggio erano stati la Spagna (Paese di bandiera della nave) e Malta (zona più vicina al punto dei salvataggi). L’Italia non aveva alcuna competenza e alcun obbligo con riferimento a tutti i salvataggi effettuati dalla nave spagnola Open Arms in quanto avvenuti del tutto al di fuori di aree di sua pertinenza». Per dimostrarlo Salvini elenca «la corrispondenza La Valletta e Madrid nei primi giorni dell’agosto 2019 a proposito del Pos nella quale c’è un reciproco palleggio di responsabilità ma non viene mai citata Roma». Secondo l’ex titolare del Viminale «è sicuramente lo Stato di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio che deve indicare il Pos nei casi di operazioni effettuate in autonomia da navi ong». Open Arms ha chiesto il Pos all’Italia la sera del 2 agosto ma, secondo Salvini, «non può ricadere sullo Stato italiano l’onere di una risposta di competenza di altri Stati. Open Arms poteva dirigersi verso altri Paesi che avevano l’obbligo di accoglierla». Secondo i giudici - che hanno accolto le motivazioni della procura di Palermo - anche la decisione del Tar che aveva annullato il decreto firmato da ministero dell’Interno, Difesa e Infrastrutture per impedire alla Open Arms ingresso, sosta e transito e nulla ha pesato sulla scelta di inviare le carte in Parlamento, ma per Salvini «non si può confondere l’ingresso in acque territoriali, a fini di sicurezza e navigazione e di assistenza alle persone bisognevoli, con il diritto allo sbarco e all’attracco». Salvini afferma che «l’imbarcazione era omologata per sole 19 persone. Il comandante, dopo il primo salvataggio effettuato in zona sar libica il primo agosto con 55 persone portate a bordo, ne ha prese altre 69 il 2 agosto: doveva immediatamente dirigersi verso Spagna, Malta o Tunisia. Invece ha deliberatamente scelto l’Italia quale luogo di attracco e sbarco». E scrive «il comandante ha rifiutato il Pos concesso dalla Spagna il 18 agosto e addirittura rifiutato l’assistenza offerta dalla Capitaneria di Porto italiana che si era detta disponibile ad accompagnare la nave verso la Spagna, prendendo a bordo alcuni immigrati. In più, la stessa Spagna aveva inviato verso Lampedusa l’unità Audaz per dare assistenza alla Open Arms (18 agosto). È quindi paradossale affermare che, per il solo fatto di essere entrata in acque italiane senza aver ottenuto il Pos, possa configurarsi il reato di sequestro di persona».

Ecco il piano delle toghe per sferrare l'attacco a Salvini. In un documento di 110 pagine i giudici del tribunale dei ministri di Palermo hanno motivato la loro richiesta di aprire un procedimento giudiziario contro l'ex ministro Matteo Salvini sul caso Open Arms. La giunta per le immunità del Senato si esprimerà il prossimo 27 febbraio. Mauro Indelicato, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. Non solo la condotta, ma anche il ruolo di primo piano assunto nella decisione di imporre lo stop all’ingresso della nave: sono questi i due elementi maggiormente valutati dal tribunale dei ministri nei confronti di Matteo Salvini sul caso Open Arms. Nella giornata di sabato, come si ricorderà, proprio il tribunale dei ministri di Palermo ha richiesto un nuovo procedimento nei confronti del segretario della Lega. I giudici vorrebbero avere il quadro chiaro della situazione su quanto accaduto nelle giornate intercorse tra il 14 ed il 20 agosto scorso. In quella settimana, la nave dell’Ong spagnola Open Arms è rimasta a largo di Lampedusa per via del divieto di ingresso ordinato da Salvini, in quel momento ministro dell’interno. Una situazione quella la cui svolta è arrivata per l’appunto il 20 agosto, quando il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio è salito a bordo della nave per verificare quanto stava accadendo. Il magistrato ha ritenuto la situazione talmente grave da ordinare il sequestro della Open Arms, il suo ingresso a Lampedusa e lo sbarco dei migranti. Successivamente, la procura della città siciliana ha avviato un’inchiesta prima contro ignoti e poi contro Matteo Salvini. Le accuse sono quelle di sequestro di persona ed omissione di atti d’ufficio. A novembre il procedimento è passato da Agrigento a Palermo: essendo, all’epoca dei fatti contestati, ancora ministro in carica, Salvini deve essere giudicato dal tribunale dei ministri insediato nel capoluogo siciliano. E così, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dopo aver esaminato le carte, ha sposato la linea del collega di Agrigento passando a sua volta il fascicolo al tribunale dei ministri. Dopo la richiesta del procedimento contro Salvini, nelle scorse ore sono uscite le motivazioni che hanno spinto il tribunale a far proseguire l’iter giudiziario nei confronti del leader della Lega. Sotto esame, in primo luogo, la condotta di Salvini: “Sul caso Open Arms – si legge in uno stralcio della richiesta emanata dai tre giudici che compongono il tribunale dei ministri di Palermo – il senatore Salvini ha violato le convenzioni internazionali”. Andando poi a leggere più nel dettaglio, si evince come a pesare sul giudizio del tribunale sia la situazione a bordo della Open Arms riscontrata dal procuratore Patronaggio: “Il grado di esasperazione in cui versavano i migranti, già stremati dalle durissime prove fisiche e psichiche subite prima del soccorso operato dalla Open Arms e angosciati dal terrore di venire respinti e riportati in Libia – si legge nelle carte rese note dall’AdnKronos – rende intuitivo come non tanto il prolungamento anche di un solo giorno di navigazione (con il conseguente protrarsi della situazione di grave disagio nella quale pure tali migranti avevano sino a quel momento viaggiato), quanto il fatto stesso di allontanarsi dalle coste italiane, ormai tanto vicine da poter essere raggiunte a nuoto, si sarebbe rivelato del tutto insostenibile ed incomprensibile”. Dunque, secondo i giudici, in quel contesto Salvini non avrebbe potuto vietare l’accesso della nave dell’Ong spagnola. Nel documento, i giudici hanno fatto riferimento anche al resoconto redatto dalla psicologa salita a bordo della Open Arms assieme a Patronaggio in quel 20 agosto. “Matteo Salvini e Matteo Piantedosi, capo di gabinetto del Viminale, nel non concedere un porto sicuro alla nave Open Arms nell'agosto 2019 avrebbero violato le convenzioni internazionali – si legge poi nel documento del tribunale – La condotta omissiva ascritta agli indagati, consistita nella mancata indicazione di un Pos alla motonave Open Arms, è illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens”. Fin qui dunque la parte che riguarda la condotta di Salvini giudicata contraria alle norme da parte dei giudici palermitani. C’è poi, come detto ad inizio articolo, un’altra parte che invece pone l’ex ministro sotto la lente di ingrandimento delle indagini per via del suo ruolo politico. In particolare, secondo il tribunale dei ministri non c’è alcun dubbio sul fatto che l’iniziativa volta a negare l’accesso alla Open Arms sia unicamente da attribuire a Salvini e non all’interno governo Conte I. “Va anzitutto evidenziato l'indiscutibile ruolo di primo piano svolto e, per certi versi, rivendicato dal Ministro Salvini – si legge tra le 110 pagine del documento – Sin da quando, apprendendo dell'intervento di soccorso posto in essere in zona Sar libica dalla Open Arms, coerentemente con la politica inaugurata all'inizio del 2019, adottava nei confronti di Open Arms, d'intesa con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, il decreto interdittivo dell'ingresso o del transito in acque territoriali italiane, qualificando l'evento come episodio di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress del natante su cui i soggetti recuperati stavano viaggiando”. Ma non solo: secondo i giudici lo stesso presidente del consiglio Giuseppe Conte non sarebbe stato d’accordo con la decisione presa da Salvini. Le prove portate avanti dal tribunale in tal senso, sarebbero contenute in uno scambio di lettere tra il premier e l’allora ministro: “Il 15 agosto il ministro Salvini – si legge tra le carte della richiesta – sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14.8.2019 del Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, con cui lo si era invitato ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull'imbarcazione. Con tale nota respingeva ogni responsabilità al riguardo, evidenziando che i minori a bordo della nave spagnola dovevano ritenersi soggetti alla giurisdizione dello Stato di bandiera anche con riferimento alla tutela dei loro diritti umani. Che, inoltre, non vi erano evidenze per escludere che gli stessi viaggiassero accompagnati da adulti che ne avevano la responsabilità, comunque ricadente sul comandante della nave e che, infine, aveva già dato mandato all'Avvocatura Generale dello Stato per impugnare il decreto di sospensiva del Presidente del Tar del Lazio, che di fatto aveva rimosso ogni ostacolo all'ingresso della nave in acque territoriali”. “Il 16 agosto – scrivono ancora i giudici – il Presidente del Consiglio dei Ministri rispondeva alla citata missiva del ministro Salvini, ribadendo con forza la necessità di autorizzare lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms, anche alla luce della presenza della nave al limite delle acque territoriali (in effetti vi aveva già fatto ingresso) e potendo, dunque, configurare l'eventuale rifiuto un'ipotesi di illegittimo respingimento. Conte aggiungeva di aver già ricevuto conferma dalla Commissione europea della disponibilità di una pluralità di Stati a condividere gli oneri dell'ospitalità dei migranti della Open Arms, indipendentemente dalla loro età”. Infine, secondo il tribunale dei ministri di Palermo la responsabilità di Salvini lo si evince anche dalla richiesta, effettuata dalla Capitaneria di porto, di far sbarcare i migranti a Lampedusa. (Clicca qiui e leggi il documento integrale). La richiesta a procedere contro Salvini da parte del tribunale dei ministri di Palermo, sarà votata il prossimo 27 febbraio in sede di Giunta per le immunità del Senato. Lo si è appreso nelle scorse ore ed a comunicarlo ufficialmente è stata la presidenza della Giunta. Il voto è stato fissato per le ore 16:00, i componenti saranno dunque tenuti ad esprimersi sull'eventuale via libera del procedimento sulla base del documento di 110 pagine inviate da Palermo. Il 12 febbraio invece, l'aula del Senato si esprimerà su un'altra richiesta nei confronti di Salvini, la quale riguarda il caso Gregoretti.

Open Arms, Matteo Salvini nei guai peggio della Gregoretti? Le note pronte a mettergli i bastoni tra le ruote. Libero Quotidiano il 5 Febbraio 2020. Matteo Salvini torna nel mirino della magistratura. Questa volta è il tribunale dei ministri di Palermo a chiedere l'autorizzazione al Senato affinché si proceda contro il leader della Lega per il caso Open Arms. Una questione analoga alla Gregoretti, ma che - secondo il Corriere della Sera - potrebbe essere più spinosa. Il motivo? A differenza della Guardia Costiera a cui Salvini aveva negato lo sbarco di comune accordo con Giuseppe Conte, qui, sul caso Open Arms, spuntano due note. In entrambe il premier aveva sollecitato l'ex ministro dell'Interno a far sbarcare i minori a bordo della nave. Ragione, questa, che spinge il tribunale a credere che la decisione fu "presa in totale autonomia". E che il suo "non fu un atto politico" ma "un'attività amministrativa" svolta "nell'esercizio delle funzioni". L'imbarcazione della Ong rimase bloccata per 19 giorni con 164 stranieri, ma le violazioni contenute nel capo di imputazione riguardano soltanto quello che accade a partire dalla decisione del Tar che aveva ritenuto illegittimi gli atti di Salvini. Il Corriere infatti riporta la relazione nella quale viene specificato che "il 15 agosto il ministro Salvini sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14 agosto del presidente Conte, con cui lo si era invitato ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull'imbarcazione". Urgenza alla quale il premier bis faceva riferimento anche nella seconda lettera senza successo. Solo il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha sbloccato la situazione obbligando il Viminale a far scendere i migranti. 

Fiorenza Sarzanini per il ''Corriere della Sera'' il 5 febbraio 2020. Ci sono volute due note del premier Giuseppe Conte per convincere l' allora ministro dell' Interno Matteo Salvini a far sbarcare i minori dalla nave Open Arms. Una è stata inviata lo scorso 15 agosto, l' altra il giorno successivo e soltanto il 18 agosto è arrivato il via libera. La prova, secondo il tribunale dei ministri di Palermo, che la scelta del titolare del Viminale fu «presa in totale autonomia». E che il suo «non fu un atto politico» ma «un' attività amministrativa» svolta «nell' esercizio delle funzioni». La relazione trasmessa alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato elenca le accuse relative alla gestione della vicenda e contesta a Salvini di aver «trattenuto a bordo per sei giorni 107 persone». In realtà la nave della Ong rimase bloccata per 19 giorni e inizialmente erano imbarcati 164 stranieri, ma le violazioni contenute nel capo di imputazione riguardano soltanto quello che accade a partire dalla decisione del Tar che aveva ritenuto illegittimi gli atti di Salvini. E dunque Salvini è indagato per «sequestro di persona aggravato dal fatto che la condotta è stata commessa da parte di pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni». La Giunta si riunirà il 27 febbraio per votare l' eventuale sì alla concessione dell' autorizzazione a procedere, mentre l' aula si pronuncerà il 12 febbraio sul caso della nave Gregoretti per cui è stato il tribunale dei ministri di Catania a sollecitare la richiesta per arrivare al processo. Il leader leghista rilancia sostenendo che per la Gregoretti chiederà di essere processato e su Open Arms dichiara: «Articolo 52 della Costituzione. La difesa della Patria è sacro dovere di ogni cittadino. Chi lo spiega a quel giudice?». In realtà sono proprio i giudici a sottolineare come «non risultano utilmente invocabile generiche e non comprovate ragioni di tutela della sicurezza pubblica: nonostante gli accessi a bordo di autorità italiane, infatti, nessuna di esse ha mai evidenziato alcun indizio di peculiari e concrete condizioni oggettive (come, ad esempio, la presenza di esplosivi o armi a spiccata potenzialità offensiva) o soggettive di pericolo conseguente allo sbarco sul territorio italiano delle persone a bordo; pericolo, che, come confermato dal prefetto Garroni e dal questore di Agrigento Iraci, nel caso di specie si è poi rivelato, nei fatti, del tutto insussistente». E per questo gli contestano di aver «agito in autonomia» in particolare «sin da quando, apprendendo dell' intervento di soccorso posto in essere in zona Sar libica dalla Open Arms, coerentemente con la politica inaugurata all' inizio del 2019, adottava nei confronti di Open Arms, d' intesa con i Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti, il decreto interdittivo dell' ingresso o del transito in acque territoriali italiane, qualificando l' evento come episodio di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di stress del natante su cui i soggetti recuperati stavano viaggiando». E per questo chiedono che sia archiviata la posizione del capo di gabinetto Matteo Piantedosi, che era stato indagato per gli stessi reati. Nella relazione viene specificato che «il 15 agosto il ministro Salvini sottoscriveva una nota di risposta ad una precedente missiva del 14 agosto del presidente Giuseppe Conte, con cui lo si era invitato "ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti sull' imbarcazione" e con tale nota respingeva ogni responsabilità al riguardo, evidenziando che i minori a bordo della nave spagnola dovevano ritenersi soggetti alla giurisdizione dello Stato di bandiera anche con riferimento alla tutela dei loro diritti umani». Il giorno dopo Conte ha risposto a Salvini «ribadendo con forza la necessità di autorizzare lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della Open Arms». Poi lo ha invitato «ad attivare le procedure, già attuate in altri casi consimili, finalizzate a rendere operativa la redistribuzione». E così ha cercato di far sbarcare tutti i migranti. Tentativi inutili tanto che, viene ricordato, alla fine è stato è stato il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio a sbloccare la situazione sequestrando la nave e obbligando il Viminale a far scendere i migranti a terra.

Gregoretti, Nicola Molteni contro Luciana Lamorgese: "A bordo tre migranti a rischio per la sicurezza". Libero Quotidiano il 6 Febbraio 2020. Tutti sanno che Matteo Salvini rischia il processo per aver rifiutato di far sbarcare i migranti a bordo della nave Gregoretti, ma nessuno sa che all'interno - secondo il governo tedesco - c'erano tre immigrati "ad alto rischio per la sicurezza nazionale". C'erano, appunto, perché secondo Nicola Molteni i clandestini hanno già fatto perdere le proprie tracce. Il deputato leghista ha infatti presentato un'interrogazione al ministro dell'Interno Luciana Lamorgese dopo che, alcuni articoli di giornali e servizi tv, hanno confermato la notizia. Si tratta, nello specifico, di due senegalesi e un sudanese. Uno di questi è stato anche monitorato dai servizi italiani, perché poco prima di Natale aveva cercato di entrare clandestinamente in Svizzera: respinto, si era poi spostato tra Torino, Milano e Como. "Le ultime tracce - spiega Molteni - rivelerebbero la presenza di questo soggetto nel Nord Italia mentre degli altri due, l'altro senegalese e il sudanese, non si hanno notizie da mesi". Per il leghista è urgente sapere come sono state organizzate le ricerche dei tre soggetti. "A Como il senegalese sarebbe stato arrestato per furto, processato per direttissima ma rimesso subito in libertà: pretendiamo che il governo ci spieghi. Non possiamo sottovalutare la sicurezza dei cittadini. Peraltro, non è un problema di sicurezza solo per l'Italia ma per tutta Europa", chiosa nella speranza che il governo giallo-rosso sia trasparente.

Gregoretti, Salvini cambia strategia: in Senato niente ok al processo. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Cesare Zapperi. L’ex ministro dell’Interno prepara la difesa per il voto di mercoledì in Aula, dove i suoi potrebbero astenersi o uscire. Mercoledì l’Aula del Senato voterà sulla richiesta di mandare a processo Matteo Salvini per il caso Gregoretti. Ma a differenza di quanto avvenne in commissione il 20 gennaio scorso, stavolta la Lega potrebbe non esprimersi a favore. Una scelta non determinante ai fini della decisione perché la maggioranza (M5S-Pd-Iv-Leu), che pure allora non partecipò allo scrutinio, ha i numeri più che sufficienti per mandare alla sbarra l’ex ministro dell’Interno. Ma tra i consiglieri più vicini a Salvini c’è chi consiglia di muoversi con cautela. Si osserva, infatti, che un via libera al processo anche da parte del partito dell’accusato potrebbe costituire una implicita ammissione di colpa in sede giudiziaria. Ecco perché si sta valutando come muoversi esattamente in Aula e le opzioni a questo punto sono due: o astenersi oppure abbandonare l’emiciclo e non partecipare al voto. Tattica parlamentare a parte, Salvini continua a sostenere di essere più che pronto a sottoporsi al giudizio. Lo ha detto anche nel colloquio con l’inviato del New York Times: «Non ho nulla da temere». E a riprova fa filtrare attraverso i suoi canali i capisaldi della sua linea difensiva. Il punto di partenza è racchiuso in una affermazione: «La Gregoretti ha salvato gli immigrati col parere favorevole di Salvini, intervenendo in acque maltesi. È quindi inverosimile immaginare che un ministro voglia salvare delle persone per poi sequestrarle». Cioè, il ministro non può essere stato così machiavellico da correre in soccorso di chi rischiava la vita per poi prenderlo in ostaggio a fini politici. Il Tribunale dei ministri di Catania, invece, ritiene che i comportamenti tenuti dall’allora responsabile del Viminale in quei giorni abbiano integrato l’ipotesi di reato di sequestro di persona. Ma anche su questo, i legali di Salvini ribattono: «Non si trattava di sequestro: le persone a bordo erano al sicuro e protette. La discesa a terra era rallentata semplicemente dalle trattative per la redistribuzione e per la doverosa verifica delle persone a bordo: è evidente l’interesse nazionale — viene ancora spiegato nel documento in fase di elaborazione —. Va segnalato che il governo tedesco ha poi fatto sapere che tre persone a bordo della Gregoretti erano soggetti in grado di mettere a rischio la sicurezza nazionale». I leghisti insistono poi sulla tesi che tutto il governo era consapevole di quanto avvenendo sulla Gregoretti e che quindi, non avendo nessuno manifestato in modo netto la propria contrarietà, tutti fossero d’accordo con la linea del ministro dell’Interno. «In ballo c’era la difesa dei confini, quindi un interesse pubblico» che l’esecutivo doveva tutelare.

Bongiorno: «Salvini  non spinga per il sì al processo sulla Gregoretti». Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Cremonesi. La senatrice leghista e avvocato consiglia il leader: «Non sarà breve e l’esito sarebbe incerto». «Io spero davvero che Matteo Salvini decida di non avallare la linea dell’autorizzazione a procedere nei suoi confronti». Giulia Bongiorno, a due giorni dal voto in Senato sul processo all’ex ministro dell’Interno per i fatti della nave Gregoretti, dà voce al sentimento che nella Lega è diffuso: «È sbagliato che da molti anni a questa parte la politica abbia rinunciato a molte delle sue funzioni».

Perché avrebbe rinunciato?

«È evidente che il Parlamento abbia abdicato al potere di legiferare in alcune materie sensibili e che per una sorta di pudore abbia rinunciato a tutelare la sua indipendenza. Basta guardare ai molti via libera alle autorizzazioni degli ultimi anni, che nasce anche dal timore dei parlamentari di essere considerati dei privilegiati. I poteri dello Stato devono essere separati e indipendenti, ma se uno dei poteri viene meno, il vuoto è riempito dal potere giudiziario che è proprio quello che invece dovrebbe controbilanciare».

Nel caso specifico cosa accade?

«Il cortocircuito istituzionale fa sì che il ministro dell’Interno non possa esercitare uno dei suoi compiti principali, la difesa dei confini nazionali».

In parecchi, in questi giorni, la mettono giù piatta: Salvini scappa dal processo.

«Tutti non fanno che chiedere se salveremo o non salveremo Salvini. Non è questo il punto. Il Senato deve verificare se ha agito nell’interesse pubblico. E quel che vale oggi per Salvini tutelerà in futuro chi svolge questa funzione».

Non è normale che un ministro possa essere processato se la magistratura ritiene che abbia commesso reati?

«Non ha commesso alcun reato: rallentare lo sbarco in attesa della redistribuzione dei migranti non è sequestro di persona. Ma la legge prevede che il Senato sia giudice su un tema cruciale. E cioé, se il ministro abbia agito nell’interesse pubblico. E il Senato su questo aspetto fondamentale è l’unico giudice altrimenti da domani sarà la magistratura a stabilire se un atto politico è di interesse pubblico».

Salvini ha chiesto alla giunta delle Immunità di votare a favore del processo. Dovrebbe dire ai senatori di comportarsi in modo opposto?

«Io ribadirò a Salvini che deve essere orgoglioso di quello che ha fatto e capisco che lui voglia dimostrare che non scappa dal processo. Ma deve tutelare il dovere del ministro di difendere i confini. La strada giusta non è rinunciare alla valutazione sull’interesse pubblico: compete solo al Senato».

Salvini rischia comunque il processo. La preoccupa?

«Io parlo di principi costituzionali e non di tifoserie. E posso assicurarle che il mio timore non è l’esito del processo ma i tempi. L’idea che un uomo possa rimanere per anni e anni a processo non dovrebbe piacere a nessuno. E questo certamente lo farò presente a Matteo Salvini. Lui pensa di andare in aula e dimostrare davanti a tutti in tempi brevi che ha ragione. Però, questo rischia di non succedere. I tempi potrebbero essere lunghissimi e c’è il problema di restare bloccati per anni, ostaggi del processo».

C’è anche chi sostiene che, al contrario, ci potrebbe essere l’interesse che il processo venga definito quanto prima in modo da far scattare per Salvini l’incandidabilità prevista dalla legge Severino.

«Resto convinta dell’insussistenza del sequestro di persona. Non significa che si tratterà di un processo che si risolverà in breve né è possibile prevederne l’esito. Il mio maestro, il professor Coppi, mi ha insegnato che la legge è uguale per tutti, ma i giudici no».

Gregoretti, Matteo Salvini smentisce il dietrofront: "Sarò in aula, non vedo l'ora di farmi processare". Libero Quotidiano il 10 Febbraio 2020. Matteo Salvini ha cambiato idea sul voler andare a processo per il caso Gregoretti? A giudicare dalle sue ultime dichiarazioni, sembrerebbe proprio di no. A due giorni dalla discussione in Senato sull'autorizzazione a procedere, il leader leghista conferma che "sarò in aula e non vedo l'ora di essere processato perché ritengo di aver fatto il mio dovere per difendere i confini dell'Italia. E se per qualcuno è un crimine, allora chiariamo la vicenda una volta per tutte". Salvini non sembra quindi voler accogliere il suggerimento di Giulia Bongiorno che, dalle pagine del Corriere della Sera, lo aveva invitato a "non avallare la linea dell'autorizzazione a procedere nei suoi confronti". Inoltre il leader leghista esprimendosi in questi termini smentisce l'indiscrezione di Repubblica, secondo cui i rappresentanti del Carroccio mercoledì 12 febbraio sarebbero pronti a lasciare l'aula per non votare a favore del processo. 

Gregoretti, la Bongiorno avvisa Salvini: “Ricordati che la legge è uguale per tutti, ma i giudici no…”. Il consiglio dell’avvocato ed ex ministro sulla decisione del leader leghista di farsi processare. Il Dubbio l'11 febbraio 2020. «Io spero davvero che Matteo Salvini decida di non avallare la linea dell’autorizzazione a procedere nei suoi confronti per il processo sulla Gregoretti». L’appello, l’ennesimo, arriva dall’avvocato e senatrice della Lega, Giulia Bongiorno, in un’intervista al Corriere della Sera. Giulia Bongiorno resta convinta «dell’insussistenza» del reato di sequestro di persona compiuto da Salvini anche se, relativamente al giudizio, ritiene che «non significa che si tratterà di un processo che si risolverà in breve nè è possibile prevederne l’esito».

E a tale proposito, l’avvocato Bongiorno ricorda quanto diceva il suo maestro, il professor Coppi, il quale le ha insegnato che «la legge è uguale per tutti, ma i giudici no». Secondo Bongiorno, «è sbagliato che da molti anni a questa parte la politica abbia rinunciato a molte delle sue funzioni» tra le quali c’è «il potere di legiferare in alcune materie sensibili e che per una sorta di pudore abbia rinunciato a tutelare la sua indipendenza», ciò che portato al «cortocircuito istituzionale» che «fa sì che il ministro dell’Interno non possa esercitare uno dei suoi compiti principali, la difesa dei confini nazionali». Poi l’avvocato-senatore chiosa: «Tutti non fanno che chiedere se salveremo o non salveremo Salvini. Non è questo il punto. Il Senato deve verificare se ha agito nell’interesse pubblico. E quel che vale oggi per Salvini tutelerà in futuro chi svolge questa funzione».

E sulla "Mare Jonio" ora rischia l'accusa la Finanza. Le Fiamme gialle sequestrarono la nave nel 2019. Ma non avevano l'autorità di intimare l'alt. Mauro Indelicato, Giovedì 30/01/2020 su Il Giornale. Definirlo paradosso è forse troppo poco e non rende del tutto l'idea del «ribaltone» a cui si potrebbe assistere nei prossimi giorni presso il tribunale di Agrigento: dopo la richiesta di archiviazione per Luca Casarini e il comandante Pietro Marrone, le indagini potrebbero mettere sotto inchiesta i finanzieri che hanno sequestrato una nave Ong lo scorso anno: la Mare Jonio. La vicenda è nata nel marzo del 2019, quando l'imbarcazione dell'Ong Mediterranea Saving Humans si è affacciata a largo di Lampedusa con 49 migranti a bordo. Al timone c'era il capitano Pietro Marrone, capo missione invece era Luca Casarini. Dopo essere arrivata in prossimità delle acque italiane, dal Viminale è stato imposto alla nave il divieto di ingresso a Lampedusa: a volere questa posizione è stato soprattutto l'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini. Nonostante l'alt intimato dalla Guardia di Finanza, la Mare Jonio si è spinta in acque italiane e, in quel momento, è entrata in scena la procura di Agrigento. Sequestrata l'imbarcazione, dagli uffici del tribunale siciliano è partita l'inchiesta nei confronti di Casarini e Marrone. Per i magistrati agrigentini è stato il «battesimo di fuoco»: dopo il caso Mare Jonio, in estate la procura si imbatterà nelle vicende Sea Watch e Open Arms. Sarà proprio la procura guidata da Luigi Patronaggio ad affrontare, tra gli altri, il caso relativo a Carola Rackete, la capitana della Sea Watch 3 che a Lampedusa ha forzato il blocco, arrivando a speronare una motovedetta della Finanza. Una vicenda, questa, finita con la scarcerazione della capitana tedesca, decisa a luglio dal Gip Alessandra Vella e confermata dalla Cassazione. Per quanto riguarda il caso Mare Jonio, invece, nella giornata di martedì è arrivata la richiesta di archiviazione dei pm per Luca Casarini e Pietro Marrone. A distanza di dieci mesi dal via alle indagini, i magistrati hanno ritenuto non meritevoli di giudizio i due indagati per i reati loro contestati: favoreggiamento dell'immigrazione e mancato rispetto di un ordine di una nave militare. Ma la vicenda non dovrebbe finire qui: così come anticipato da Il Fatto Quotidiano, la procura di Agrigento potrebbe indagare sulle Fiamme Gialle. Si potrebbe cioè ribaltare il quadro: i finanzieri dalla cui azione è partita l'indagine rischierebbero di diventare indagati. Questo perché, secondo i magistrati, non c'erano motivazioni per intimare l'alt alla Mare Jonio. Sotto la lente di ingrandimento, in particolare, sono finite alcune intercettazioni in cui i militari avrebbero avvisato la nave Ong del divieto di ingresso sulla base di un ordine dell'autorità giudiziaria. Tuttavia tale ordine non è mai stato emanato, né l'autorità giudiziaria ha il potere di farlo. Da qui la possibilità di ravvisare un reato nel comportamento dei finanzieri. Un ribaltamento della scena che desterebbe, se confermato, non poco clamore.

Salvini, su sbarco 400 migranti a Taranto: "denuncio Conte e Lamorgese". Il Corriere del Giorno il 28 Gennaio 2020. “Ci troveremo in tribunale con il signor Conte e la signora Lamorgese. Così vediamo se la legge è uguale per tutti e il criminale è solo Salvini. Fatemi capire: se lo sbarco lo blocca Salvini, sono un criminale, se lo sbarco lo bloccano loro, fanno il loro lavoro…” ha proseguito l’ex-ministro dell’ Interno. Il governo giallorosso ha riaperto i porti ai migranti. E lo ha fatto guarda caso un minuto dopo il voto in Emilia Romagna e Calabria. Una conferma evidente con i porti spalancati alle ong a poche ore dalla tornata elettorale per le Regionali, c’era un certo timore di perdere consensi. A urne chiuse e con la vittoria del centrosinistra in Emilia Romagna, il Governo Conte a composizione “giallorossi” è stato aperto alla Ocean Viking il porto di Taranto  dove sbarcheranno più di 400 migranti. E non finisce qui: infatti altri 200 migranti sarebbero già pronti per uno sbarco nei nostri porti dopo il pressing delle Ong sull’esecutivo. In una diretta Facebook il leader della Lega Matteo Salvini ha annunciato una denuncio per “sequestro di persona” nei confronti del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del ministro dell’Interno Lamorgese (nessuno dei due è deputato e quindi privi di immunità parlamentare). “A Taranto sbarcheranno 400 migranti a bordo di una nave delle Ong. Con i problemi di lavoro, inquinamento, agricoltura, l’unico modo che ha questo governo per ricordare la Puglia è far sbarcare migliaia di migranti. E ci hanno messo 4 giorni per concedere un porto sicuro, e allora denuncio per sequestro di persona il presidente del Consiglio Conte e il ministro dell’Interno Lamorgese. E’ sequestro di persona solo quando sono coinvolto io? “. ha detto il leader della Lega. “Ci troveremo in tribunale con il signor Conte e la signora Lamorgese. Così vediamo se la legge è uguale per tutti e il criminale è solo Salvini. Fatemi capire: se lo sbarco lo blocca Salvini, sono un criminale, se lo sbarco lo bloccano loro, fanno il loro lavoro…” ha proseguito l’ex-ministro dell’ Interno che rincara la dose: “Se sono criminale io, lo sono anche loro, se ho fatto il mio dovere io, lo hanno fatto anche loro. Con una piccola differenza  che gli sbarchi sono quintuplicati“.  ha osservato ancora Salvini. che ha annunciato la sua presenza a Taranto il prossimo 19 febbraio. Dall’ inizio anno sono stati 1.300 gli sbarchi .  Il Viminale ha comunicato che sono quasi 1.300 i migranti sbarcati in Italia dall’inizio dell’anno. Fino a martedì mattina erano infatti arrivate 870 persone ma a queste vanno aggiunte le 407 a bordo della Ocean Viking, la nave di “Sos Mediterranee” e “Medici senza frontiere” in rotta verso Taranto dopo aver avuto l’autorizzazione allo sbarco. Nello stesso periodo dell’anno scorso erano state 155 le persone arrivate in Italia. Dai dati del ministero dell’Interno emerge inoltre che proviene dall’Algeria il maggior numero di coloro che sono arrivati nel nostro paese, 249 persone. Ci sono poi gli ivoriani (126 persone) e i bengalesi (91). I minori non accompagnati sbarcati sono 114, ma il dato e’ aggiornato al 27 gennaio.

Tutti i guai del Capitano dalla Calabria all'Emilia-Romagna. Da domani Salvini dovrà fare i conti con le fratture all'interno del partito oltre che con le grane giudiziarie, che coinvolgono la nuova Lega: l'inchiesta per riciclaggio dei 49 milioni, quelle sul finanziamento illecito e per finire l'indagine della procura di Milano sul Russiagate leghista. Giovanni Tizian il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Una giornata particolare per la Lega quella del 26 gennaio 2020. Nel pomeriggio elettorale di domenica, la portavoce di Matteo Salvini, Iva Garibaldi, ha pubblicato una foto su Facebook: abbracciata alla candidata presidente Lucia Borgonzoni, caricava i suoi con il motto di Mussolini dell'entrata in guerra, «Vincere e vinceremo», senza riflettere sul fatto che il giorno dopo si sarebbe celebrata la giornata della memoria per ricordare le vittime della Shoa. La carica con lo slogan del Ventennio, però, non ha funzionato. L'Emilia ha risposto. E non si Lega. La Calabria neppure, nonostante abbia vinto il centrodestra, dove peraltro il risultato era scontato. Lo era non tanto per meriti del leader leghista, piuttosto perché è dal 1995 che ogni cinque anni si alternano governi di colore diverso: una legislatura al centrodestra e una al centrosinistra. Il partito di Salvini, quindi, non può esultare come avrebbe voluto. Il dato politico, dunque, è doloroso per il Capitano: la Lega non conquista la roccaforte del Pd e il risultato elettorale calabrese non incorona Matteo Salvini leader della destra italiana. Una sconfitta pesante per il capo leghista, che sognava l'Emilia e la Calabria sovraniste e si è ritrovato schiacciato dalla sua stessa e stanca retorica. La Lega ha fallito l'operazione lungo la via Emilia. Qui gli elettori hanno bocciato Lucia Borgonzoni, oscurata dal leader leghista durante i comizi e nei giri di piazza. Del resto Borgonzoni non ha mai amministrato neppure un condominio e per gli emiliani chiamati a votare alle amministrative l'inesperienza ha un peso. Seminare il panico su Bibbiano, poi, non ha sortito alcun effetto. La conferma ufficiale sta nei voti ottenuti dal Pd nel paese ostaggio della propaganda nazionalista. La narrazione oscura sui bambini strappati alle famiglie è stata respinta al mittente. È sufficiente farsi un giro per i paesi e le città della regione per comprendere quanto gli emiliani siano consapevoli dell'efficienza dei loro servizi sociali e delle politiche per le famiglie. Insomma, raccontare agli emiliani che Bibbiano incarna un sistema diffuso, una voragine che risucchia minorenni e li lascia orfani di mamme e papà, non solo non ha funzionato ma rasenta la fantascienza. Resta, certo, la strumentalizzazione di questi mesi, questa sì sulla pelle dei bambini compiuta dalla Lega. L'ex ministro, in questo, è stato maestro di spregiudicatezza: il 23 gennaio sul palco di Bibbiano, in una piazza semivuota, ha invitato a parlare quattro genitori(solo una madre di Bibbiano) che hanno raccontato le loro storie di allontanamento forzato dai loro figli. Nella piazza del paese conquistata dalla Lega si faceva fatica a trovare un bibbianese. Un segnale di quanto sarebbe accaduto nelle urne. Tanto che il leader leghista, nella prima conferenza stampa dopo gli exit poll, nel lungo elenco di luoghi in cui è stato in campagna elettorale non cita Bibbiano. Salvini sull'Emilia ha scommesso un pezzo della sua leadership. Ha polarizzato eccessivamente, come l'altro Matteo, Renzi, all'epoca del referendum costituzionale. Si è giocato tutte le carte possibili: dalla sofferenza delle famiglie, appunto, all'abito da sceriffo urbano alla ricerca di spacciatori nei quartieri popolari. Senza successo. E questo avrà conseguenze all'interno della Lega. Perché tra i militanti c'è ancora chi non ha digerito il nazionalismo. C'è chi attende la prima difficolta del segretario per provare a riportare il partito alla sua natura originaria: il partito del Nord. Da domani Salvini, ormai ridimensionato, dovrà fare i conti anche con queste fratture. Oltreché con le grane giudiziarie che coinvolgono la nuova Lega per Salvini premier: l'inchiesta per riciclaggio dei 49 milioni, quelle sul finanziamento illecito e per finire l'indagine della procura di Milano sul Russiagate leghista. Fratture interne alla Lega finora sopite dal successo di Matteo Salvini alle elezioni europee, un trionfo possibile soprattuto per il consenso raccolto al Sud. Come in Calabria, per esempio. Consenso che però alle elezioni regionali è calato molto. Ben lontano dall'oltre 22 per cento di maggio scorso, Salvini ha dovuto fare i conti con una classe dirigente per nulla nuova. E a poco è servito il tour del Capitano fin dentro la procura di Catanzaro per mostrarsi vicino al procuratore antimafia Nicola Gratteri, con foto annessa dell'ultimo libro scritto dal magistrato. Il problema della Lega calabrese sono i riciclati di altri partiti, in primis. Ma anche rappresentanti sul territorio con parentele ingombranti: dal deputato leghista con il suocero in carcere per estorsione aggravata dal metodo mafioso al consigliere comunale consuocero del boss del paese. In questa opacità è corso ai ripari dopo aver incassato ottimi risultati alle politiche del 2018 e alle europee del 2019. Ha nominato un commissario padano: Cristian Invernizzi, che ha dovuto però dirigere un'orchestra di rappresentanti molto ambiziosi. Tuttavia la Lega calabrese proverà in tutti i modi a contare con gli assessori e con un forte vicepresidente, che farà da spalla alla governatrice Jole Santelli. Strategie politiche per contare anche senza i voti necessari per farlo. Salvini, insomma, da domani sarà un Capitano dimezzato.

Tutte le tappe che separano Salvini dalle “sue prigioni”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 22 gennaio 2020. Nave Gregoretti, dal voto in Aula alle aule dei tribunali. E’ ancora molto lunga ed impervia la strada che dovrà, eventualmente, condurre Matteo Salvini alla sbarra. Il voto di lunedì nella Giunta per le autorizzazioni del Senato ha rappresentato infatti solo l’inizio di un percorso il cui esisto è quanto mai incerto. E questo nonostante il leader della Lega si sia già dichiarato pronto ad affrontare il carcere e la scrittura, come Silvio Pellico, delle “Mie prigioni”. La legge prevede che il pm entro 15 giorni, accertata la natura “ministeriale” del reato, trasmetta “omessa ogni indagine” gli atti al Tribunale dei ministri competente. Sarà questo organo inquirente composto da tre giudici eletti a sorte nel locale distretto di Corte d’Appello, a svolgere le indagini preliminari. In pratica con le funzioni del giudice istruttore nel vecchio codice di procedura penale. Sul divieto di sbarco dalla nave Gregoretti deciso da Salvini, il pm aveva chiesto l’archiviazione. Il collegio istruttorio, invece, era stato di diverso avviso è aveva richiesto l’autorizzazione a procedere, trasmettendo quindi gli atti alla Camera di appartenenza dell’ex ministro dell’Interno. Superato il primo scoglio del voto della Commissione, la parola finale spetterà all’Aula. Se anche Palazzo Madama dovesse dare il via libera il fascicolo tornerà allora in Sicilia. Secondo i magistrati del tribunale di ministri che hanno ipotizzato il reato di sequestro di persona a carico di Salvini, “le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro”. Secondo il tribunale, “le persone soccorse ben potevano essere tempestivamente sbarcate e avviate all’hotspot di prima accoglienza per l’attività di identificazione, salvo poi essere smistate negli hotspot di destinazione secondo gli accordi raggiunti a livello europeo”. Queste le condotte incriminate che, una volta appunto tornato a Catania il fascicolo, dovranno essere alla base delle future attività istruttorie del pubblico ministero e degli “ordinari organi giudicanti competenti”, essendo vietata la costituzione di tribunali speciali. La Procura di Catania, pertanto, potrà riproporrà il capo d’imputazione formulato contro Salvini dal Tribunale dei ministri per sottoporlo al giudice dell’udienza preliminare, che dovrà decidere sul rinvio a giudizio. La Procura catanese s’era già pronunciata per l’archiviazione del caso «Gregoretti» ritenendo – a differenza della “Diciotti” – che non esistevano gli estremi del sequestro di persona; insussistenza del reato sotto il profilo oggettivo, oltre che soggettivo. Che farà davanti al gup? E che cosa deciderà il gup, rinvio a giudizio o proscioglimento? Le possibilità sono quelle previste per le udienze preliminari. Nessuna differenza. In caso di rinvio a giudizio, per Salvini si aprirebbe poi la possibilità di accedere al rito abbreviato, in caso non volesse essere processato con il rito ordinario. Tutto ciò solo per il primo grado. Poi l’appello e la Cassazione.

Se a Salvini non basta un avvocato, ne vuole mille. Giulia Merlo su Il Dubbio il 21 gennaio 2020. Il leader del Carroccio ha annunciato che aprirà un indirizzo mail per i legali che vogliono consigliargli una linea difensiva per il processo sul caso Gregoretti. Galvanizzato dalla piazza di San Giovanni in Persiceto, ebbro degli applausi mentre proclamava che si sarebbe fatto processare per il caso Gregoretti ma che sarebbe servito un tribunale abbastanza grande da ospitare «la maggioranza degli italiani», Matteo Salvini ha fatto un altro proclama. Ad essere tanti, infatti, non saranno solo gli italiani, ma anche i suoi avvocati: «Mi difenderanno cinquecento o mille avvocati che si metteranno a disposizione», ha tuonato il leader del Carroccio, annunciando che sarà aperto «un indirizzo email per tutti gli avvocati italiani che vorranno partecipare alla difesa». Per rimanere nel faceto, vien da chiedersi come abbia reagito il suo difensore di fiducia, Giulia Bongiorno, a vedersi affiancare tal schiera di colleghi. Anzi forse proprio lei potrebbe finire messa all’angolo in quanto consigliera della strategia difensiva appena gettata alle ortiche: lei (ben conscia che il processo penale è una cosa seria come lo sono gli anni di pena) che era stata pragmatica ispiratrice del prudente passo indietro dal processo per il caso Diciotti. Con buona pace del valore del mandato difensivo (e dell’equo compenso per la prestazione professionale), agli avvocati italiani viene chiesto di “imbucare” la loro proposta difensiva: le iscrizioni al talent legale sono aperte, sotto a chi tocca.

La sinistra scafista vuole processare Salvini ma si vergogna di farlo prima del voto di domenica. Francesco Storace martedì 21 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Gli scafisti sono loro, vogliono processare Salvini e nascondono la mano perché domenica si vota. Questa sinistra è davvero uno strano animale senza cervello. Non hanno – i compagni terrorizzati dalle regionali di domenica prossima in Emilia Romagna e in Calabria – il coraggio delle loro azioni. La diserzione nella giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato dal voto su Salvini la dice lunga sulla loro viltà. Quei banchi vuoti, immortalati in fotografia dalla senatrice Fiammetta Modena, sono eloquenti. Se si volesse scherzare ma non troppo si dovrebbe dire che hanno talmente paura di votare che rinunciano pure loro a farlo. Magari pensano di essere da esempio per il popolo a cui negano la democrazia. Ma con il loro atteggiamento hanno sancito a chiare lettere che governare diventa reato e dei più gravi: sequestro di persona!. Pazzi, ecco che cosa sono. Il Pd e la sua maggioranza – grillini inclusi e incredibilmente – vuole Salvini a processo per il caso Gregoretti, ma facendolo di nascosto, vergognandosene, disertando la seduta della giunta presieduta da Gasparri. Con la coda da pusillanime di Luigi Di Maio: “Lui – pontifica Giggino – decise di bloccare da solo la nave Gregoretti, come ministro dell’Interno. Lo poteva fare per legge, ma adesso non ci venga a dire "difendetemi, dite che lo sapevate anche voi”. E se “lo poteva fare per legge” perché lo volete processare? In realtà, costoro non si rendono conto del caos che provocheranno. E del precedente che si crea. E’ l’azione di governo che diventa materia di processo, qualunque magistrato deciderà che cosa perseguire. Quel che più meraviglia è il Pd di Zingaretti, che – quando non tocca a loro – resta manettaro, sia pure con la marea di inquisiti che hanno tra le loro fila. Faccia tosta incredibile, si danno alla macchia, non si assumono responsabilità. Però una domandina semplice semplice bisognerebbe pure fargliela. Ma se l’ex ministro dell’interno è così pericoloso da meritare processo e magari galera, non era un motivo in più per votare subito?

Sono pagliacci ma ai giudici non potranno mentire…Si offenderanno se li definiamo pagliacci? Prima chiedono di arrestare un esponente dell’opposizione di quel livello, poi fanno la melina per non esporsi al contraccolpo elettorale. Con un paradosso. Per regolamento, quando in commissione si forma una maggioranza contraria al documento proposto, è tra i parlamentari che lo hanno rigettato che si sceglie il relatore per l’Aula. Quindi, sarà un esponente del partito di Salvini a chiedere a Palazzo Madama di processare Salvini. Se il Pd cercava il discredito delle istituzioni è riuscito a farlo con la consueta abilità. A febbraio non ci saranno elezioni di mezzo e lo stesso centrosinistra avrà meno scrupoli a mostrare il pollice verso. Poi, è immaginabile che cosa potrà succedere in tribunale. Altro che un giorno in pretura, il processo andrà in onda in mondovisione. Una marea di gente prenderà d’assedio il palazzo di “giustizia” e c’è da giurare che nella lista testimoni del leader della Lega figureranno Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Danilo Toninelli. E magari anche Alfonso Bonafede, guardasigilli. E al giudice non potranno mentire come sono abituati a fare…

«Nessuna emergenza di ordine pubblico» Ecco le carte dei giudici su Matteo Salvini. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Nessun «preminente interesse pubblico» e nessun pericolo nemmeno per l’ordine pubblico: i migranti della nave «Gregoretti» venivano trattenuti in mare mentre altri che arrivavano alla spicciolata sbarcavano tranquillamente. Sono questi alcuni dei passaggi contenuti nell’atto di citazione contro Matteo Salvini che il tribunale dei ministri di Catania ha inviato al Senato. E’ esattamente su quelle carte che l’aula di Palazzo Madama dovrà decidere entro la fine di febbraio se mandare a processo o no l’ex ministro dell’interno. Il giudizio, va ricordato, non dovrà prendere in eme la legittimità delle politiche adottate allora dal Viminale ma la sua compatibilità con le norme internazionali e italiane. Ecco comunque i punti saliente del fascicolo che i giudici hanno trasmesso al Senato. Primo quesito: il governo era stato ufficialmente informato della decisione di vietare lo sbarco a una nave militare italiana. La risposta dei giudici di Catania e negativa, sulla scorta di una nota trasmessa loro dalla presidenza del consiglio dei ministri che così recita: «La questione relativa alla vicenda della nave “Gregoretti” non figura all’ordine del giorno (dell’unica riunione del consiglio dei ministri tenutasi il 31 luglio, ndr) e non è stata oggetto di trattazione nell’ambito delle “varie ed eventuali”». Secondo interrogativo: ci sono differenze con il caso della nave «Diciotti», per il quale il Senato negò il processo a Salvini? Il tribunale dei ministri di Catania ne rilevano almeno una, non trascurabile: «La nave della guardia costiera “Diciotti”...è appositamente attrezzata per specifiche operazioni di soccorso in mare. La Gregoretti è invece destinata all’attività di vigilanza pesca e non è attrezzata per operazioni di questo tipo». Con conseguenze immediate per la vita a bordo: «I migranti sono ospitati sul ponte di coperta esposti agli agenti atmosferici (temperatura di 35 gradi). A questo si aggiunga che la ridotta composizione dell’equipaggio, solo 30 uomini, non consente la corretta gestione di un elevato numero di persone». Trattenute a bordo della «Gregoretti» c’erano 131 persone con numerosi casi di scabbia e tubercolosi. Salvini basò il suo divieto di sbarco solo sul cosiddetto «decreto sicurezza», ma la relazione approdata in Senato traccia un quadro normativo più complesso. «L’obbligo di salvare vite in mare costituisce un preciso dovere degli Stati - scrivono i magistrati - e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione. Le convenzioni a cui l’Italia ha aderito costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e in base agli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione non possono essere oggetto di deroga». A questo proposito vengono citati la Convenzione Unclos del 1974 e quella di Amburgo del 1979 che impongono i salvataggi in mare dei naufraghi e il loro immediato trasferimento in un luogo sicuro. In un passaggio della relazione viene poi ricordato quale sarà l’oggetto su cui i senatori dovranno esprimersi: «La Camera di appartenenza del ministro inquisito ha il compito di accertare la ricorrenza o meno degli estremi per concedere l’autorizzazione a procedere» che viene negata «quando l’assemblea reputi che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per il perseguimento di un interesse pubblico». In altre parole: che tipo di pericolo rilevante rappresentavano i migranti portati a bordo della «Gregoretti»? Matteo Salvini è accusato di sequestro di persona che per i giudici si sostanzia in un atto specifico: «ponendo arbitrariamente il proprio veto (da parte del ministro, ndr) all’indicazione di un “place of safety” al competente dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione...determinando la forzosa permanete dei migranti a bordo dell’unità navale Gregoretti con conseguente illegittima privazione della loro libertà personale». «Le condizioni precarie a bordo - nota ancora la relazione - erano assolutamente note al ministro, costantemente informato dalla catena di comando». Il tribunale di Catania rileva poi un altro elemento: non c’era ragione per non far sbarcare i migranti: «L’assenza di reali motivazioni che...potesse giustificare il veto posto dal Ministro...manifesta il carattere illegittimo della conseguente condizione di coercizione a bordo patita dai migranti». E ancora: «La circostanza che le persone a bordo della Gregoretti fossero non solo naufraghi ma al contempo migranti non giustificava alcuna differenziazione di trattamento nella procedura di sbarco». Salvini ha sempre rivendicato il no allo sbarco con motivazioni politiche: doveva convincere gli altri Stati europei ad accogliere i migranti, elemento che lo «solleverebbe» dal commettere reati. Questione cruciale perché si interroga sull’esistenza di un interesse superiore. Risposta dei giudici: «Va osservato come lo sbarco dei 131 cittadini stranieri non regolari non potesse costituire un problema di ordine pubblico per diverse ragioni: in concomitanza con il caso Gregoretti si era assistito ad altri numerosi sbarchi...nessuno dei soggetti ascoltati dalla procura di Catania e Siracusa ha riferito di informazioni sulla possibile presenza tra i soggetti soccorsi di persone pericolose per la sicurezza nazionale». Dunque «le decisione del ministro è stata adottata per la mera volontà politica di affrontare la gestione dei flussi invocando la ripartizione dei migranti a livello europeo». Conclusione: «non è ravvisabile alcuna scriminante politica, la decisione del ministro ha costituito una esplicita violazione delle convenzioni internazionali» e sulla distribuzione dei migranti non esistevano «obblighi vigenti in capo ad altri Stati». 

Antonio Massari per “il Fatto quotidiano” il 21 gennaio 2020. Sedici agosto 2018: il Diciotti, pattugliatore della Guardia Costiera, dopo aver soccorso 177 naufraghi, resta in mare fino al giorno 25, quando ottiene finalmente l' autorizzazione a sbarcare. Il Viminale attende cinque giorni per rilasciare il Place of safety, il cosiddetto Pos, e l'accusa di sequestro di persona, rivolta a Matteo Salvini, all' epoca ministro dell' Interno, riguarda proprio quei 5 giorni. 25 luglio 2019: la Gregoretti della Guardia Costiera ospita 135 naufraghi. Resta in mare fino al 31 luglio. Il Viminale attende tre giorni prima di rilasciare il Pos e l' accusa di sequestro di persona, rivolta ancora una volta a Salvini, anche in questo caso riguarda i tre giorni in questione. In entrambi i casi le stesse accuse. In entrambi i casi, il sequestro di persona, si realizza con il ritardo del Viminale nell' indicare il luogo in cui sbarcare. In entrambi i casi, infine, il ritardo viene collegato al raggiungimento di un accordo, in ambito europeo, per la redistribuzione dei naufraghi. Eppure le due vicende non risultano identiche. Vediamo perché. Differente, innanzitutto, è il contesto politico e anche il suo sviluppo. Quando il caso Diciotti approda in Parlamento la Lega è al governo con il M5S . Sia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sia il suo vice Luigi Di Maio, sia l' ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, scrivono alla Giunta per le autorizzazioni e chiariscono d'aver condiviso la scelta del Viminale di lasciare sulla nave i naufraghi in attesa di un accordo con gli altri paesi Ue. Il processo sfuma. Quando arrivano le accuse per il caso Gregoretti la Lega è all' opposizione. E Di Maio precisa: "Il caso Diciotti fu un atto di governo, l' Ue non rispondeva, servì ad avere una reazione. Quello della Gregoretti fu un atto di propaganda, il meccanismo di redistribuzione era già rodato". Intervistato da Peter Gomez nel Tg Sono le Venti, in onda sul canale Nove, ieri Conte ha dichiarato che il segretario della Lega "aveva fatto appena approvare il decreto Sicurezza bis che rafforzava le sue competenze". "Salvini - spiega Conte - ha rivendicato pubblicamente come una sua competenza specifica il se e quando far sbarcare le persone a bordo della Gregoretti. Circa il mio ruolo sull' indirizzo generale, io ci sono, anche per la circostanza specifica di un mio coinvolgimento riguardo alla redistribuzione dei migranti in Europa". Non è una sfumatura. Nella sua memoria difensiva, Salvini allega una serie di email intercorse tra lo staff del Viminale e quello di altri dicasteri, nei giorni del caso Gregoretti, che riguardano proprio le trattative con l' Ue per la redistribuzione dei naufraghi. Documenti che dimostrano la condivisione del governo nella strategia diplomatica. Non provano alcuna manifesta corresponsabilità nel tenere i naufraghi in mare per i tre giorni contestati. La vicenda - ha gia sostenuto Palazzo Chigi - non fu trattata in Consiglio dei ministri. Dalle cronache dell' epoca, comunque, non risultano espliciti inviti rivolti da Conte a Salvini affinché autorizzasse lo sbarco. Di Maio polemizzò sul trattamento riservato ai nostri militari: "L' Italia non può sopportare nuovi arrivi di migranti, noi abbiamo dato come Paese e quei migranti devono andare in Europa, però non si trattino i nostri militari su quella nave come dei pirati". Ed ecco invece la dichiarazione di Toninelli quando la Gregoretti ormeggia al porto di Augusta, il 28 luglio, due giorni prima dello sbarco, quindi nel pieno del sequestro di persona contestato a Salvini: "Ha ormeggiato stanotte al porto di Augusta, come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente". Più polemico Di Maio. Più accondiscendente Toninelli. Argomenti utili per un'analisi politica, ma non penale, poiché la responsabilità penale è personale e l'autorizzazione spettava al Viminale. Non a loro. Differente è anche "l'origine" del fatto storico, sebbene Diciotti e Gregoretti intervengano entrambe in acque maltesi. Solo nel primo caso, però, si assiste a un braccio di ferro su chi deve coordinare il soccorso. Nel secondo, secondo i giudici, il Viminale aveva ancor più chiaramente "l'obbligo di concludere la procedura" e aver omesso di indicare un porto sicuro "dietro precise direttive del ministro degli Interni" ha "determinato una situazione di costrizione a bordo". E anche a bordo la situazione è differente. Il "Diciotti" - si legge negli atti - è "un natante scelto e attrezzato per operazioni di soccorso in mare". La Gregoretti è "destinata all' attività di vigilanza pesca e non è attrezzata per questo tipo di eventi". E così i 131 naufraghi, dal 27 al 31 luglio, restano sul ponte di coperta con temperature che toccano i 35 gradi. Casi di scabbia accertati: 20. Per 131 persone, un solo bagno a disposizione. I minori sbarcano prima, sì, ma per disposizione della Procura minorile.

Caso Gregoretti, perché è diverso da quello Diciotti. A Salvini contestato il sequestro di persona per il blocco delle due navi, ma il quadro normativo è diverso. Nella vicenda giudiziaria hanno un peso le differenze tecniche delle due imbarcazioni e i tempi rispetto all'entrata in vigore del decreto sicurezza-bis. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 21 gennaio 2020. Il caso Gregoretti e il caso Diciotti, per il quale a Salvini è stato contestato l’identico reato di sequestro di persona, sono uguali? No. Nella richiesta di autorizzazione a procedere inviata al Senato sono i giudici del tribunale dei ministri di Catania (gli stessi che si occuparono della Diciotti) a precisare le differenze. Il quadro normativo in cui il comportamento contestato a Salvini fa riferimento è lo stesso in entrambi i casi ? No. Quando la Gregoretti ha preso a bordo i migranti era appena entrato in vigore il decreto sicurezza-bis che esclude espressamente che il divieto di ingresso in acque italiane e di sbarco possa essere applicato a navi militari italiane che, in quanto tali, non possono essere considerate un pericolo per la sicurezza nazionale. Le differenze tecniche delle due navi hanno un peso nella vicenda giudiziaria? Sì, i giudici sottolineano come mentre la Diciotti è «un natante appositamente attrezzato per operazioni di soccorso in mare», la Gregoretti è «destinata all’attività di vigilanza da pesca» e «la sua inadeguatezza ad ospitare un così elevato numero di migranti e le precarie condizioni di salute di alcuni sono state tempestivamente segnalate al Viminale». Che aveva l’obbligo di farli sbarcare subito. Sia per la Diciotti sia per la Gregoretti toccava all’Italia concedere il porto sicuro visto che i soccorsi sono avvenuti nella Sar maltese? I giudici rispondono nella richiesta di autorizzazione a procedere sottolineando la differenza. Nel caso della Diciotti ci fu una controversia tra Italia e Malta mentre nel caso della Gregoretti «è assolutamente pacifico che il coordinamento e la responsabilità primaria dell’intera operazione, seppure avviata in acque Sar maltesi, siano stati assunti dallo Stato italiano su esplicita richiesta di quello maltese». L’iter giudiziario delle due vicende è stato identico? La Procura di Catania ha sempre chiesto l’archiviazione di Matteo Salvini indagato per sequestro di persona e in entrambi i casi il tribunale dei ministri (nella stessa composizione) ha invece chiesto l’autorizzazione a procedere. Per la Diciotti la giunta del Senato, con 16 voti favorevoli e 6 contrari, l’ha negata. Per la Gregoretti invece in giunta (con i voti della Lega) è prevalso (da regolamento) il sì al processo con un pareggio (5 a 5) e con l’astensione della maggioranza.

Gregoretti, le grottesche giravolte di Matteo Salvini (e non solo) spiegate una per una. Domande e risposte per dipanare una vicenda in cui ogni partito ha pensato solo al consenso. E l'ex ministro ha finto di rinunciare ai suoi privilegi perché sa di non rischiare dal punto di vista giudiziario, ma di poter far bingo da quello politico. Alessandro Gilioli il 21 gennaio 2020 su L'espresso. Domande e risposte per dipanare il surreale caso Salvini-Gregoretti: una cosa che nemmeno Pirandello e Buñuel insieme sarebbero riusciti a scrivere con una sceneggiatura così.

Che cosa è successo ieri al Senato? Il presidente della Giunta per le immunità, Maurizio Gasparri (Forza Italia) ha proposto di «deliberare il diniego dell'autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Matteo Salvini», accusato dal Tribunale dei ministri di Catania di sequestro di persona in relazione al divieto di attracco imposto alla nave militare italiana “Gregoretti” con 116 migranti a bordo, nel luglio scorso. Hanno votato a favore della proposta Gasparri i senatori di Forza Italia e di Fratelli d'Italia. Hanno votato contro (cioè per concedere l'autorizzazione a procedere) i cinque leghisti, su indicazione dello stesso Salvini. Risultato: 5 a 5, perché gli altri 13 senatori della giunta (Pd, M5S, Leu, Svp, Misto) non si sono presentati. Con il pareggio, per regolamento la proposta del Presidente della Giunta viene bocciata, quindi c'è stata la prima autorizzazione a procedere. Fra un mese si andrà al passaggio successivo, cioè si voterà sulla stessa in Aula, con tutti i senatori. Al contrario del voto della giunta, quello dell'Aula sarà decisivo per mandare o no Salvini a processo davanti al Tribunale dei ministri di Catania.

Ma perché la Lega ha votato per far processare Salvini? Perché mancano cinque giorni alle elezioni in Emilia Romagna - quelle che Salvini definisce “un referendum” tra lui e il Pd, e per le quali lo stesso capo leghista sta battendo da oltre un mese palmo a palmo il territorio. Salvini è convinto che se vincesse lì cadrebbero sia Zingaretti sia Di Maio, insomma tutto il governo. La diffusione dei sondaggi è vietata in questi giorni, ma si dice che la partita sia aperta e quindi Salvini pensa di sfruttare elettoralmente questa «persecuzione giudiziaria» per spostare l'ago della bilancia a suo favore (ieri si è perfino paragonato a Silvio Pellico). Quando ci fu il caso della nave “Diciotti”, invece, Salvini si avvalse del voto dei suoi (insieme a quelli di tutto il centrodestra e del M5S, allora alleato di governo) e ottenne l'immunità. Era il 19 febbraio 2019 e allora finì 16 a 6; votarono per togliergli l'immunità solo Pd, Pietro Grasso (Leu) e Gregorio De Falco, da poco uscito dal M5S.

Quindi il M5s ha cambiato idea, in un anno? «Ovviamente loro dicono di no, cioè sostengono che il caso della nave “Diciotti” sarebbe diverso da quello della nave “Gregoretti”, e che nel primo la decisione di non far sbarcare i migranti per giorni fosse condivisa da tutto il governo mentre nel secondo Salvini avrebbe fatto da solo, senza coordinarsi con il premier Conte e con l'altro vicepremier Di Maio. Una tesi abbastanza debole, perché tutta Italia sapeva che cosa stava facendo Salvini e all'epoca non ci furono opposizioni al suo comportamento né da parte di Conte né da parte del M5S. Curioso è tra l'altro che allora il grillino Mario Giarrusso nel difendere Salvini in giunta arrivò a schernire quelli del Pd con il gesto delle manette, come a dire che loro erano manettari. Ieri invece Giarrusso è uscito dall'aula proprio insieme a quelli del Pd e di Leu.

Ma è “l'unico cambiamento di idea” in questa vicenda? No. Nel caso della nave “Diciotti”, Salvini era partito dicendo di volersi fare processare, poi invece si è avvalso dell'immunità. Questa volta è avvenuto il contrario esatto: all'inizio chiedeva lo scudo del Senato, poi con un colpo di mano mediatico improvviso ha chiesto l'autorizzazione a procedere per se stesso, invitando il tribunale di Catania a «trovare un'aula molto grande» perché con lui «verrebbe processato il 90 per cento degli italiani che vogliono i porti chiusi».

E il Pd si è contraddetto anche lui? Tecnicamente sì, perché un anno fa ha votato per l'autorizzazione a procedere, questa volta si è defilato non presentandosi al voto. Anche se era allora ed è anche adesso favorevole a far processare Salvini.

Perché allora ieri non si è presentato? Perché se avesse votato sì all'autorizzazione a procedere, avrebbe prestato il fianco alla strategia “vittimista” di Salvini; se avesse votato no, avrebbe clamorosamente salvato Salvini, quindi si sarebbe coperto di grottesco di fronte ai suoi elettori, insomma era impensabile. Sicché, per uscirne, quelli del Pd e di Leu non si sono presentati, insieme a quelli del M5S.

Qualcuno che si è comportato in modo coerente in questa vicenda c'è? Beh, tecnicamente sì: Forza Italia e Fratelli d'Italia in entrambi i casi sono stati contrari all'autorizzazione a procedere. Anche se può apparire surreale che Fi e Fdi per proteggere Salvini ieri abbiano votato in modo opposto a quello che chiedeva Salvini stesso. Ma qui entra in gioco la concorrenza interna al centrodestra: né Berlusconi né Meloni (specie quest'ultima, in grande crescita) vogliono stare al gioco della mitizzazione-vittimizzazione di Salvini.

In sostanza, ogni partito ha votato solo pensando al consenso elettorale? Esatto. L'intera gestione politica della richiesta di autorizzazione a procedere, da parte di tutti i partiti, ha ignorato gli atti dei giudici, i contenuti giudiziari: è stato trasversalmente e unanimemente un puro calcolo di vantaggio o di minor danno in termini di consenso elettorale.

Salvini rischia veramente il carcere? Ma no. Lo spiega bene oggi Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera. Se anche l'Aula del Senato lo mandasse a processo, inizierebbe una corsa a ostacoli intricatissima e tra l'altro sarebbe la procura ordinaria di Catania a dover riproporre il capo di imputazione formulato dal Tribunale dei ministri: peccato che la procura di Catania si sia già pronunciata sul caso della nave “Gregoretti” dicendo che non sussistono gli estremi del sequestro di persona. Insomma in termini giudiziari Salvini rischia pochissimo. Al contrario, se non gli avessero dato lo scudo dell'immunità al tempo della nave “Diciotti” avrebbe rischiato di più, perché su quel caso la procura di Catania disse invece che gli estremi del sequestro di persona c'erano. Questo potrebbe spiegare anche perché nella vicenda “Diciotti” Salvini si è avvalso dell'immunità e questa volta invece vuole farsi processare. A parte il fatto, come si diceva, che questa volta il caso scoppia a ridosso delle elezioni emiliane su cui Salvini conta moltissimo per far cadere il governo.

E intanto, che cosa è stato dei migranti sbarcati dalla nave “Gregoretti”? Nessuno è rimasto in Italia: tutti ricollocati, in gran parte in Germania. Il che (almeno ex post) rende un po' eccentrica la tesi di Salvini secondo la quale lui chiudeva i porti «per difendere i nostri confini». Tra l'altro, da quando Salvini non è più ministro dell'Interno, i ricollocamenti degli immigrati dall'Italia ad altri Paesi Ue sono quintuplicati. Quando era al Viminale, Salvini saltò sei vertici dei ministri dell’Interno europei su sette in tema di gestione dei flussi migratori. Da europarlamentare, non ha mai presentato alle 22 riunioni per riformare il trattato di Dublino, come gli ha ricordato giusto ieri vis-à-vis Elly Schlein, senza ottenere alcuna risposta. Oltre due minuti di video per testimoniare le risposte mancate di Matteo Salvini sulle assenze dei ministri leghisti alle 22 riunioni europee sul negoziato di Dublino. A porre la domanda è Elly Schlein, l'ex europarlamentare di Possibile ora candidata alle elezioni di domenica prossima nella lista Emilia-Romagna Coraggiosa in appoggio a Stefano Bonaccini. Il video è stato pubblicato sulla pagina Facebook di Schlein: "Finalmente, dopo due anni che faccio la stessa domanda a Salvini e alla Lega senza avere risposta, ieri sera l’ho incrociato a San Giovanni in Persiceto e gliel’ho fatta in faccia. Perché a Bruxelles non siete mai venuti a nessuna delle 22 riunioni di negoziato sulla riforma migratoria più importante per l’Italia? Giudicate voi la risposta" scrive lei. Lui la chiama "amica mia" e poi dopo l'attesa non risponde e scappa.

Quel morbo dell’opportunismo che tiene in vita i decreti Salvini. L'alleanza tra Pd e 5 Stelle doveva, tra le altre cose, portare alla cancellazione delle leggi sull'immigrazione volute dal leghista. Ma i dem hanno deciso che se ne parlerà solo dopo le regionali. Ignazio Marino il 21 gennaio 2020 su L'Espresso. Fare ciò che è giusto, non ciò che conviene. Può sembrare un’affermazione scontata, almeno dal punto di vista etico. E certamente è sempre stato un principio di riferimento nella mia vita da chirurgo. Ma nei pochi anni in cui mi sono dedicato alla politica attiva mi sono immediatamente scontrato con un principio assai diverso: la strada da seguire è quella che conviene al partito, o a se stessi. Ricordo il momento in cui me ne resi conto per la prima volta. Avevo appena depositato al Senato una proposta di legge sul testamento biologico e volevo discuterne con i senatori della maggioranza di centro-sinistra. Una senatrice del Pd, guardandomi dritto negli occhi, affermò che era inutile incontrarsi perché la decisione era “politica”. Tradotto: la legge non si votava. Compresi in quel momento, con sgomento, la differenza tra una decisione presa sul merito e una presa sull’opportunità politica. Passo dopo passo capii quanto l’affermazione di quella senatrice era la regola nella vita dei palazzi. E da sindaco di Roma mi capitò di condividere con un altro sindaco un momento di commiserazione reciproca. Il mio interlocutore durante una riunione mi disse: «Ignazio, devo abbellire il lungomare e sostituire la pavimentazione. Ho chiesto di selezionare materiali diversi sia di natura che di colore e la mia maggioranza mi ha fermato perché la decisione, mi hanno detto, è politica. Ma se io devo scegliere tra pietra, calcestruzzo o altro sulla base di criteri funzionali ed estetici, perché devo convocare una riunione di maggioranza?». Il perché è chiaro. La politica non è interessata all’eleganza o alla solidità della pavimentazione ma a chi verranno assegnati i lavori. Questi pensieri mi sono tornati in mente in questi giorni. Ho già scritto su queste pagine quanto io ritenga innaturale e sbagliato presentarsi alle elezioni indicando i propri valori, affermando che mai esisterà, ad esempio, un’alleanza con il M5S e poi percorrere la strada opposta, pur invocando scenari devastanti come il pericolo di un ritorno del fascismo in Italia. Quindi, ci è stato spiegato lo scorso agosto, l’alleanza si giustifica per il bene del Paese, e non per mantenere le poltrone in Parlamento. E, infatti, promisero solennemente che nella prima settimana la “santa alleanza” contro il fascismo avrebbe abolito gli odiosi decreti votati dalla Lega e dal Movimento Cinque Stelle che prevedono multe fino a un milione di euro per le navi che soccorrono migranti in mare evitando che affoghino e consentono l’arresto del comandante che porti in acque territoriali quelle vite salvate. Di settimane però ne sono trascorse venti, e in questi giorni il Pd ha deciso che non se ne parla proprio di abolire adesso quei decreti, ci sono le elezioni in Emilia-Romagna quindi è meglio aspettare. Conosco l’Emilia e moltissimi elettori sono giustamente e orgogliosamente legati ai valori della Resistenza e dell’antifascismo. Siete davvero convinti, signori del Pd, che con la vostra decisione di convenienza politica decideranno di sostenervi?

Giudici contro giudici, va a picco il mito dell’infallibilità. Massimo Brandimarte, già presidente del tribunale di sorveglianza di Taranto, il 21 gennaio 2020 su Il Dubbio. Sul caso Gregoretti, alcuni soloni proclamano: «Se sei innocente, fatti processare e ti assolveranno!» ma è questo il punto: se sei innocente, perché mai devono processarti? Sul caso della nave Gregoretti è netta la divisione tra giustizialisti e garantisti. Non tanto per libero convincimento, quanto per partito preso: il proprio. La prima cosa da evidenziare è che anche i magistrati possono sbagliare. Infatti il magistrato che non sbaglia mai è, per convenzione, solo l’ultimo a decidere. Si innesta su questo sfondo la vicenda della Gregoretti, la nave cui fu impedito per alcuni giorni di attraccare nei porti italiani dall’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Non è stata la procura della Repubblica ad agire contro il ministro. Anzi, questa ne richiese l’archiviazione. E’ stato, invece, il Tribunale dei ministri di Catania a negarla e ad avanzare richiesta di autorizzazione a procedere. La chiamano fisiologica dialettica- processuale tra magistrati. Che potrebbe durare all’infinito. Peccato che sulla graticola, frattanto, ci sia un terzo. Sarà per questo che monta la rabbia dell’avvocatura contro l’abolizione della prescrizione? Alcuni soloni proclamano: «Se sei innocente, fatti processare ed i giudici ti assolveranno!». Ma, se sei innocente, perché ti devono processare? L’avere prolungato per circa tre giorni la permanenza a bordo della nave Gregoretti dei migranti, garantendo comunque loro assistenza medica, viveri e beni di prima necessità e consentendo l’immediato sbarco di coloro che presentavano seri problemi di salute e dei minorenni non costituisce una illegittima «privazione» della libertà personale punibile ai sensi dell’art. 605 c. p. Lo afferma il procuratore della Repubblica dell’indagine. Domanda: poteva un ministro assumere decisioni in materia, senza un viatico del governo, preventivo o successivo, esplicito o implicito? Gli atti ufficiali di un ministro non possono non trovare paternità nella politica generale del governo, che, per Costituzione, è sotto la direzione del Presidente del Consiglio dei ministri. Se così non fosse, delle due l’una: o il ministro verrebbe “dimissionato” o cadrebbe il governo. Nello specifico, il titolare del dicastero dell’Interno si sarebbe uniformato alla posizione già assunta per il caso Diciotti. Se l’ordine impartito fosse stato non solo illegittimo, ma avesse comportato anche la commissione di un reato, i destinatari avrebbero avuto il dovere di non eseguirlo, in base all’art. 51 del Codice Penale, pena il loro coinvolgimento nel reato. Stesso discorso varrebbe per i subalterni militari, in quanto né l’art. 1349 del Codice dell’ordinamento militare né l’art. 729 del Regolamento militare ( d. p. r. n. 90/ 2010) consentono l’esecuzione di un ordine illegittimo, idoneo ad integrare un reato. Dunque, una ipotetica imputazione penale non potrebbe sorvolare sulla posizione di uno svariato numero di altre figure, a titolo di ipotetico concorso nel fatto, sia in linea orizzontale che verticale, dalle sfere politiche e civili a quelle militari, a meno che non si voglia codificare un aberrante principio di responsabilità penale ad personam, oggettiva, esclusiva ed assorbente. Per l’autorizzazione a procedere, occorre valutare se il ministro agì oppure no nell’interesse pubblico. La legge non lo dice espressamente, ma è implicito che si debba dapprima verificare che ricorrano i presupposti minimi di ragionevolezza dell’accusa. Infatti, se la contestazione apparisse sfacciatamente acrobatica, se non abnorme, quale interesse pubblico ci sarebbe da vagliare? Come, ad esempio, nel caso, in cui si accusasse un ministro di aver rubato le strenne a Babbo Natale! Assurdo, ma è per rendere l’idea. Un diniego all’attracco può davvero equivalere ad un sequestro di persona oppure si tratta di un’interpretazione ardita? Codice alla mano, commette sequestro di persona chi priva qualcuno della libertà personale, quella fisica, cioè di muoversi liberamente nello spazio. Rifiutarsi di dare ospitalità è per caso la stessa cosa che legare l’ospite ad un tavolo? Si ricorderà che la permanenza a bordo degli immigrati sulla nave Gregoretti della Guardia Costiera italiana dipese, innanzitutto, dal rifiuto allo sbarco precedentemente opposto altrove, in modo esplicito o implicito, e dalla necessità di attendere l’autorizzazione allo sbarco promessa, ma non mantenuta, da altri governi, generosamente messisi in fila, salvo poi ritirarsi. Tutto questo in attesa che l’UE, nella fittissima rete di relazioni diplomatiche intrecciate, prendesse una risoluzione collegiale ed impegnativa. Poiché le presunte persone offese sarebbero gli immigrati a bordo, bisognerebbe sapere da ciascuno di loro cosa volesse fare concretamente e non presuntivamente. Se la nave avesse raggiunto un qualunque altro porto estero, l’attracco sarebbe potuto avvenire, anche senza autorizzazione? L’equipaggio lamentò mai problemi personali legati alla permanenza a bordo? Senza risposte certe a queste domande non si va da nessuna parte. Non sono ammesse imputazioni penali all’ingrosso e per presunzione. Bisogna anche ricordare che all’epoca era già in vigore il cosiddetto decreto sicurezza bis ( decreto legge 14 giugno 2019, n. 53), finalizzato a contrastare l’immigrazione clandestina e che all’art. 1 attribuisce al ministro dell’Interno il potere di vietare sosta, transito ed accesso di navi non militari nei porti italiani, per ragioni di ordine e di sicurezza pubblici. Al dunque il problema della necessità o meno della collegialità governativa nemmeno si poneva, poiché il ministro disponeva degli strumenti normativi per decidere ed agire da solo. Quelli che il governo gli aveva concesso. E se così decideva, chiunque esso fosse stato, non si può dire che non si muovesse in una cornice di formale legittimità, reale o putativa che fosse. Il particolare che la Gregoretti fosse nave militare della guardia Costiera diventa, nel contesto generale, questione di lana caprina, visto che trasportava immigrati costituenti oggetto del decreto sicurezza bis. La palla è ora nelle mani della politica, nelle sedi istituzionali proprie. L’importante è che si decida in autonomia, secondo scienza e coscienza e, soprattutto, con il coraggio delle proprie idee e senza ipocrisia.

"Sinistra e giudici divorziano dal buon senso". Stefano Zurlo, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale.  È il congedo dal buonsenso. Luca Ricolfi, sociologo e autore di saggi acutissimi, da Il sacco del Nord a La società signorile di massa, ascolta le ultime, acrobatiche evoluzioni del caso Gregoretti e allarga le braccia: «Temo che a sinistra, e io vengo dalla sinistra, questo congedo sia definitivo».

Professore, cominciamo dal reato.

«Ma in questo caso il reato c'è o no?. Ci sono casi in cui il reato dipende dal giudice che prende in mano il fascicolo. La procura aveva chiesto l'archiviazione, il Tribunale dei ministri vuole processare Salvini. Quindi se anche fra i giudici c'è un margine così grande di interpretazione si capisce che la questione è politica. Non è, non dovrebbe essere penale. Ma c'è di più».

Che cosa?

«Qui c'è un divorzio dal buonsenso. Anzi no, dal senso comune che è più basico, il buonsenso richiede un minimo di saggezza. Qui stiamo parlando della modulazione dei tempi di un'operazione di sbarco dei migranti. Dov'è il crimine?».

I diritti non devono essere rispettati?

«È evidente che è tutto sproporzionato, eccessivo, senza senso. È lampante, almeno ragionando con i criteri dell'opinione pubblica, che siamo dentro la sfera di competenza della politica. Ma se proprio si voleva dare un senso a tutta questa vicenda, allora si doveva mettere sotto inchiesta tutto il governo».

Non lo si è fatto ed è iniziato un altro balletto nei Palazzi della politica.

«Siamo sempre al divorzio dal senso comune. Mi dispiace che la sinistra abbia scelto una linea giustizialista. C'è stato un periodo in cui qualcosa era cambiato e l'avevo sottolineato scrivendo una nuova prefazione per il mio saggio Perché siamo antipatici? Quando Veltroni prese in mano il Pd nel 2007 si manifestò una nuova sensibilità: Berlusconi non era più il nemico ma l'avversario».

Un passo in avanti?

«Si, ma poi, dopo la stagione renziana, il miglioramento, chiamiamolo cosi, è svanito. Ripeto, parlo senza disporre di particolari competenze giuridiche, ma quello che so è sufficiente per capire».

La sinistra ha scelto di non andare in giunta al momento del voto. Errore?

«Errore nell'errore. Perché se decidi di seguire una linea giustizialista poi devi seguirla fino in fondo. Non puoi fermarti davanti al calendario e alle convenienze elettorali».

Ma ai piani alti del Pd dicono che non volevano assecondare il vittimismo salviniano.

«Se hai preso una posizione, la dovresti tenere. In questo modo si dà a Salvini un assist formidabile».

A proposito, Salvini ha chiesto di essere processato. Ha fatto bene?

«No, secondo me il suo è un vittimismo artificioso». Anche lui ha forzato i toni. Ha esagerato».

I Cinque stelle?

«Qui c'è un problema ulteriore».

Il caso Diciotti?

«Certo, non si capisce perché si siano schierati con Salvini quando erano insieme a Palazzo Chigi e contro Salvini ora che è passato all'opposizione».

I due casi sarebbero diversi.

«Non mi sembra e la differenza non può farla questo o quel cavillo. In questa vicenda le manipolazioni da una parte e dall'altra non si contano più. È davvero una storia imbarazzante».

Non salva nessuno?

«No, salvo la Meloni e Forza Italia. Hanno tenuto una posizione più chiara e meno strumentale dall'inizio alla fine. Troppa ideologia fa male e allontana la gente dall'establishment».

Messinscene e recite a soggetto, così l’Aula è diventata un teatro. Paolo Delgado il 21 gennaio 2020 su Il Dubbio. Tutto, dalla costituzione alla giustizia, è stato piegato a gioco tattico nel quale i contenuti e la sostanza non contano più niente. La maggioranza non partecipa alla riunione della Giunta per le autorizzazioni del Senato, con all’odg il voto sulla richiesta di procedere contro l’ex ministro Salvini. La spiegazione del gesto illustrata dai quattro capigruppo di maggioranza è altisonante, tinta di indignazione etica. Volano addirittura le parole ‘ convocazione illegittima’, pronunciate dal capogruppo del Pd Marcucci. Essendo la stessa presidente del Senato Casellati oggetto della pesante accusa, l’addebito è davvero estremo. «Non si possono piegare le istituzioni a uso strumentale», tuonano i rappresentanti della maggioranza. E non basta. I senatori della Giunta, aggiungono i quattro capigruppo, non hanno potuto farsi un’idea precisa del caso perché il presidente della medesima Giunta Gasparri, anche lui nel mirino con la Casellati, ha rifiutato l’approfondimento di indagine chiesto dai gruppi di maggioranza. Messe così le cose sembra di trovarsi in una situazione se non proprio da golpe certo grave, marcata da profonda scorrettezza tesa a incidere su una decisione così importante. Invece è teatro, sceneggiata, recita a soggetto, con l’esortazione di sovraccaricare i toni, di rendere la pièce drammatica. In ballo, per la maggioranza, non c’è la sacralità delle istituzioni come non c’è la necessità di approfondire una vicenda sulla quale la decisione, finale e irrevocabile, di votare a favore dell’autorizzazione è già stata presa. C’è solo il calcolo elettoralistico in base al quale votare l’autorizzazione in Giunta prima delle elezioni di domenica sarebbe controproducente, forse esiziale. I toni alti mascherano ragionamenti che dire terra terra è molto poco. La Lega non è migliore dei rivali. Salvini sa che ormai il processo è inevitabile. Il voto dell’aula, probabilmente il 17 febbraio, è già scritto e non ci saranno sorprese. Quindi vuole almeno portare a casa il facile strumento di propaganda elettorale. Mira a dipingersi come martire prima e non dopo il 26 gennaio. Quindi propone di votare in giunta contro la sua stessa memoria difensiva, quindi a favore dell’autorizzazione. Non ha niente da perdere e tutto da guadagnare. Quindi anche lui ci va giù di brutta con la retorica: «Per rimanere libero sono pronto ad andare in prigione. Se devo andare in galera lo faccio a testa alta». Nel complesso è difficile ricordare un punto più basso raggiunto dal Parlamento: forse solo il voto della vergogna su Ruby "nipote di Mubarak". La faccenda in sé, infatti, sarebbe più che rilevante, dal momento che non capita tutti i giorni e neppure tutti i decenni che un ministro rischi la galera non per qualche malversazione ma per gesti compiuti ‘ nell’esercizio delle proprie funzioni’. Un passo del genere avrebbe richiesto, da una parte e dall’altra, massima serietà, persino punte di austerità. Anche elettori mediamente informati si sono ritrovati invece in un labirinto fatto di duelli in punta regolamento, tatticismi, mosse e mossette più furbe che astute poco consone alla solennità dell’evento e, al contrario, tali da ridurlo a una grottesca pochade. Il caso della nave Gregoretti si rivela già ora una chiave che rivela in pieno la realtà della situazione complessiva. Tutto, dalla Costituzione alla giustizia, è stato piegato a gioco tattico nel quale i contenuti e la sostanza non contano più niente e la pura delle elezioni politiche da un lato, il tentativo di arrivare a quelle stesse elezioni il prima possibile dall’altro, fanno premio su tutto. Ma la recita allestita sia dalla maggioranza che dall’opposizione intorno a questa vicenda, che ha raggiunto ieri vertici inauditi, dice qualcosa di più sul rapporto tra politica e Paese. La propaganda è sempre stata una componente essenziale della politica. Mai prima d’ora però aveva raggiunto un simile livello di primazia da un lato e di autonomia dall’altro. E’ ormai una propaganda totalmente slegata anche dall’ultimo lembo di realtà e che tuttavia determina e riordina ogni scelta politica. Un simile impero della propaganda si basa per necessità sull’assunto che gli elettori non possano capire, non siano in grado di capire. Che favole come quelle che hanno raccontato ieri tutti siano prese per buone da elettorato pronto a digerire tutto. Forse la chiave della crisi italiana andrebbe ricercata prima di tutto proprio in questa convinzione, condivisa da tutte le forze politiche, che il popolo che dovrebbero rappresentare sia composto da allocchi.

Gregoretti, ecco i veri motivi: perché Salvini si farà processare. Il leader leghista ha in mano le carte che inchiodano Conte. Ma non solo. Così può inguaiare tutto il Movimento 5 Stelle. Angelo Federici, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale.  Per Repubblica, che riporta le opinioni e i (tanti) crucci degli uomini del Partito democratico che hanno deciso di disertare il voto in giunta, dietro la scelta di Matteo Salvini di farsi processare ci sarebbe solamente un mero calcolo politico. In pratica, questa è la visione dei dem, il leader leghista vorrebbe farsi mettere in croce per passare all'incasso, con una mossa spregiudicata, alle prossime elezioni in Emilia Romagna e Calabria. Un genio del male, insomma, disposto a finire in cella (almeno sulla carta) per un pugno di voti in più. Ma è davvero così? Andiamo con ordine e ripercorriamo il caso Gregoretti. Il caso Gregoretti scoppia nel luglio del 2019, quando una nave della Guardia costiera, la Gregoretti appunto, carica a bordo una cinquantina di migranti che, in seguito a un terribile naufragio, erano stati fatti salire sull'Accursio Giarratano. Quel giorno, i corpi dispersi in mare sono almeno cento, mentre gli altri, i pochi fortunati, vengono soccorsi dalle imbarcazioni italiane e maltesi. La Gregoretti fa dunque rotta verso Lampedusa, dove fa sbarcare sei migranti che hanno bisogno di assistenza medica e poi si rimette in viaggio verso le coste italiane. Come riporta La Stampa, però, durante il viaggio la Gregoretti deve "soccorrere un altro gruppo di 91 migranti che era stato segnalato da pescatori tunisini". A bordo dell'imbarcazione ci sono ora 131 migranti. Tutto sembra far pensare che la nave attraccherà in un porto italiano, ma Salvini la blocca. Chiede l'intervento dell'Europa che, come al solito, preferisce chiudere gli occhi di fronte a ciò che sta accadendo nel Mediterraneo: "Non darò nessun permesso allo sbarco finché dall'Europa non arriverà l'impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave. Vediamo se alle parole seguiranno dei fatti. Io non mollo". La Gregoretti attracca infine al porto di Augusta il 26 luglio e la Capitaneria fa sapere che i migranti "a bordo sono assistiti dall'equipaggio e dal team medico in attesa, come confermato dal ministero dell'Interno, delle determinazioni politiche e del riscontro positivo dell'Unione Europea sulla ricollocazione dei naufraghi soccorsi". Nel frattempo, anche l'allora ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, fa la voce grossa con la Ue: "La Gregoretti ha ormeggiato stanotte al porto di Augusta, come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda, perché la questione migratoria riguarda tutto il Continente". Il governo, allora gialloverde, sembra compatto: stop alle partenze dei migranti e ripartizione delle quote tra tutti i Paesi dell'Ue. Segue una serie infinita di polemiche sul comportamento del ministro dell'Interno e del governo, ma alla fine i migranti vengono fatti sbarcare. Ora facciamo un salto in avanti e arriviamo al 18 dicembre del 2019 quando - ospite di Fuori dal Coro, il programma di Rete 4 condotto da Mario Giordano - Salvini annuncia: "A firma del presidente del tribunale dei ministri Nicola La Mantia, iscritto a Magistratura democratica, viene trasmesso al presidente del Senato che Salvini sarebbe colpevole di reato di sequestro di persona aggravato abusando dei suoi poteri. Rischio fino a 15 anni di carcere. Ritengo che sia una vergogna che un ministro venga processato per aver fatto l'interesse del suo Paese". E poi: "Vorrei sapere quanto costerà alla collettività questo processo". E questo nonostante la procura di Catania avesse chiesto l'archiviazione. Arriviamo così a oggi e al voto della giunta. Perché Salvini ha deciso di farsi processare? Come scritto su IlGiornale, c'è un motivo fondamentale dietro la decisione di Salvini di farsi processare: il leader della Lega, infatti, avrebbe in mano le carte che dimostrerebbero che l'affaire Gregoretti non riguarderebbe solamente lui, ma tutto il governo. Ogni decisione presa in quei tragici giorni di luglio sarebbe stata infatti condivisa da tutto il governo: "Per risolvere la vicenda Gregoretti ci furono numerose interlocuzioni tra Viminale, presidenza del Consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari" e "il via libera allo sbarco fu annunciato dal ministro dell'Interno, appena conclusi gli accordi per la redistribuzione degli immigrati in una struttura dei vescovi italiani e in cinque Paesi europei". Opinione confermata, seppur indirettamente, dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, il 30 luglio del 2019, afferma a In Onda su La7: "La posizione del governo è sempre la stessa: vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevamo scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l'Europa". Lo stesso Bonafede aggiunge poi: "Ringrazio il presidente Conte che continua a porre la questione nelle cancellerie d'Europa". Ma non solo. Salvini ha deciso di seguire una linea intransigente perché non vuole sconfessare la linea leghista, che poi è stata quella di tutto il governo gialloverde, sull'immigrazione. E questo anche perché, numeri alla mano, rappresenta uno dei successi di quell'esecutivo. Gli sbarchi (e pure i morti in mare) sono diminuiti e l'Europa ha cominciato a comprendere che la questione immigrazione deve essere affrontata da tutti i Paese membri. Ma questo molti sembrano dimenticarlo. Soprattuto all'interno del Movimento 5 Stelle.

Gregoretti, Salvini: «Chiederò ai leghisti di votare sì al processo».  E su Israele: «Quando io premier Gerusalemme capitale di Israele». Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. Tira ancora una volta l'asso dalla manica, Matteo Salvini: «Domani chiederò ai parlamentari della Lega di votare sì per farmi processare», dice in un comizio a Cattolica in vista delle regionali in Emilia Romagna, dimostrando di essere deciso a giocarsi il tutto per tutto pur di apparire senza macchie ai suoi elettori. Il leader della Lega sta aspettando che il Parlamento si pronunci per la vicenda Gregoretti, la nave che l'allora ministro dell'Interno aveva bloccato per tre giorni con a bordo 131 migranti al largo delle coste italiane. E per questo che si spinge ancora oltre: «Ci ho ragionato ieri e stanotte e sono arrivato a una decisione, che ormai è diventata una barzelletta che va avanti da anni, e ho deciso che chiederò a chi deve votare, quindi anche ai senatori della Lega, di farmi un favore. Votate per mandarmi a processo e la chiariamo una volta per tutte. Portemi in Tribunale e sarà un processo contro il popolo italiano, e ci portino tutti in Tribunale. Così la decidiamo una volta per tutte se difendere i confini dell'Italia, la sicurezza e l'onore dell'Italia è un crimine oppure se è un dovere di un buon ministro», ha detto Salvini. «Non ho più voglia di perdere tempo o far perdere tempo agli italiani, nei tribunali ci sono delinquenti veri da processare mi mandino a processo, trovino un tribunale abbastanza grande perché penso che milioni di italiani vorranno farmi compagnia». La Giunta per le immunità del Senato voterà lunedì 20 sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, accusato dalla procura di Agrigento di sequestro di persona per aver impedito, per tre giorni, quando era ministro dell’Interno, lo sbarco di 131 migranti tratti in salvo dalla nave della Marina Militare Gregoretti. La decisione, dopo giorni di polemiche politiche, è stata presa venerdì dalla Giunta del regolamento con il voto favorevole (e decisivo) della presidente del Senato Elisabetta Casellati. La maggioranza M5S-Pd avrebbe invece voluto rinviare il voto a dopo le elezioni regionali in Calabria ed Emilia Romagna per evitare che Salvini giocasse la carta del vittimismo in campagna elettorale. Il leader della Lega ha sempre sostenuto di aver agito in sintonia col governo, rispettando il contratto di governo gialloverde. Se diventerà premier, Matteo Salvini riconoscerà Gerusalemme capitale di Israele, ha intanto ribadito il segretario della Lega in un'intervista oggi al giornale `Israel Ha-Yom´ nella quale ha chiesto che la Ue «vieti» il Bds, il movimento di boicottaggio di Israele. Pochi giorni dopo il convegno al Senato sull'antisemitismo, Salvini ha ribadito al giornale - considerato vicino al premier Benyamin Netanyahu - che la Lega «non ha legami con organizzazioni politiche», come Casa Pound, Forza Nuova e Fiamma definite dal giornale «antisemite».

Da corriere.it il 17 gennaio 2020. La Giunta per le immunità del Senato voterà il 20 gennaio l’autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini sul caso Gregoretti. L’ha deciso la Giunta per il regolamento, approvando l’ordine del giorno del centrodestra per un verdetto il 20, nonostante scadano oggi i giorni perentori. Determinante il voto della presidente del Senato Elisabetta Casellati, che si è espressa a favore. Nella Giunta, reintegrata di due senatori di maggioranza, le due parti sono 6 a 6, esclusa la presidente. «Alla fine ha gettato la maschera: ha votato insieme alla destra per convocare una Giunta illegale, contro il regolamento e contro il buon senso. È un fatto molto grave. Da oggi non è più considerabile una carica imparziale dello Stato, ma donna di parte», attacca il capogruppo dem, Andrea Marcucci. Casellati, aggiunge la senatrice del M5s Alessandra Maiorino, «con il suo voto con le opposizioni smette di essere arbitro e indossa la maglia di una delle squadre in campo». Da parte sua, Casellati ha chiarito di essersi espressa «solo ed esclusivamente per contemperare diverse previsioni del regolamento altrimenti confliggenti tra loro (artt. 29 e 135 bis)», al fine di «garantire la mera funzionalità degli organi del Senato», si legge in una nota di Palazzo Madama. «Io avrei fatto lo stesso e avrei votato», ha detto Renato Schifani (FI), ex presidente del Senato.

«A testa alta». «Andrò in quel tribunale a testa alta, sicuro di rappresentare la maggioranza del popolo italiano», aveva detto in mattinata, in diretta su Telelombardia, il leader della Lega Matteo Salvini, parlando del voto sull’autorizzazione a procedere. «Sulla maggioranza Pd-5Stelle-Renzi-Conte non potrà scappare dal giudizio degli italiani, a partire da calabresi ed emiliano-romagnoli», ha aggiunto Erika Stefani, senatrice della Lega e membro della giunta per le autorizzazioni del Senato.

Determinante la data. La questione dell’imputazione per Salvini nasconde un importante nodo politico: votare il 20 gennaio, lunedì, a 5 giorni dalle elezioni regionali in Emilia-Romagna (domenica 26 gennaio, ndr) che la Lega ha investito di senso nazionale, spingerebbe Salvini a usarla come arma di propaganda. Si fa spazio, quindi, l’ipotesi che i gruppi favorevoli al processo (centrosinistra e Movimento 5 Stelle) possano disertare la Giunta delle immunità il 20 gennaio, visto che in Aula l’esito potrebbe essere ribaltato dalla maggioranza che sostiene il governo. Marcucci non conferma: «Non lo so, ne ragioneremo. Di sicuro la Giunta si riunisce in modo illegittimo».

Le reazione di Meloni (FdI) e Perilli (M5S). Ma le reazioni politiche a quanto successo in Senato sono tante. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, è dura: «Il tentativo di rinvio del voto sull’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Salvini era una vergogna degna di una maggioranza vigliacca che sa che la maggior parte degli italiani è d’accordo con le politiche che Salvini aveva fatto al tempo». Sul fronte opposto, non è meno polemico il capogruppo del M5S Gianluca Perilli: «Evidentemente c’è l’interesse di contraddire la linearità e la coerenza dei nostri comportamenti: noi invece stiamo affermando quello che abbiamo sempre affermato nelle sedi opportune. Questo suscita più di un sospetto». «La presidente Casellati ha votato con la destra convocando la Giunta sulla Gregoretti per il 20 gennaio. Un fatto gravissimo che mina la terzietà della seconda carica dello Stato. Noi di Italia Viva non ci stiamo», ha scritto su Twitter il presidente dei senatori Iv, Davide Faraone.

Nave Gregoretti, processo a Salvini con il sì leghista (ma la partita è ancora lunga). Quei doppi giochi pensando alle urne. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi, Marco Cremonesi, inviato a San Giovanni in Persiceto. Ammesso e non concesso che tutto vada come improvvisamente lui ha deciso che debba andare (almeno a parole), prima di poter scrivere Le mie prigioni sul caso «Gregoretti» Matteo Salvini dovrà aspettare ancora un po’. Perché l’auspicata autorizzazione a procedere concessa dal Senato non varrebbe un arresto né una condanna, così come il voto in Giunta di ieri sera. Dopo il clamoroso e per certi versi grottesco capovolgimento di fronti dovuto alla scelta aventiniana della maggioranza di ritirarsi al momento del voto, per protestare non tanto contro la propaganda dell’ex ministro ma contro le asserite «forzature» dei presidenti del Senato e della Giunta, si apre la partita dell’Aula. Che dovrà riunirsi e deliberare entro il 17 febbraio. A prescindere dalle strumentalizzazioni del procedimento giudiziario avviato, e dalla zoppicante coerenza con ciò che è stato detto fin qui sul presunto sequestro di 131 migranti trattenuti cinque giorni a bordo della nave militare Gregoretti (e di quel che gli stessi partiti fecero un anno fa, nel caso analogo della Diciotti), il Senato dovrebbe dibattere e decidere sul merito della richiesta avanzata dal tribunale dei ministri di Catania. Che per legge non può occuparsi di «stupratori, spacciatori e mafiosi», come reclama Salvini nei suoi comizi, ma è chiamato a verificare, appunto, ipotetici reati ministeriali. La questione non riguarda le scelte politiche dell’ex titolare del Viminale, bensì la loro compatibilità con il diritto e le norme, nonché un potenziale «interesse pubblico preminente» che possa prevalere sul reato contestato. Tutto qui. Secondo i tre giudici siciliani che compongono il collegio, infatti, «le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro». Quanto alla «difesa dei confini» invocata dal leader leghista per negare ai profughi il permesso di sbarco, i giudici hanno ritenuto che «la linea politica promossa dal ministro dell’Interno non fosse, in concreto, incompatibile con il rispetto delle Convenzioni internazionali vigenti». Secondo il tribunale, «le persone soccorse ben potevano essere tempestivamente sbarcate e avviate all’hotspot di prima accoglienza per l’attività di identificazione, salvo poi essere smistate negli hotspot di destinazione secondo gli accordi raggiunti a livello europeo». Argomenti rimasti finora pressoché assenti dalla discussione pubblica, tutta avvitata intorno a qualche slogan e frase a effetto. Ma qualora il fascicolo dovesse ripartire da palazzo Madama per Catania con l’autorizzazione a procedere, si aprirebbe un altro match, stavolta solo giudiziario, anch’esso dall’esito tutt’altro che scontato. L’iter prevede la restituzione degli atti al tribunale dei ministri «perché continui il procedimento secondo le norme vigenti», che come ha chiarito una sentenza della Corte costituzionale nel 2002 significa tornare davanti «al pubblico ministero e agli ordinari organi giudicanti competenti». La Procura di Catania dovrebbe quindi riproporre il capo d’imputazione formulato contro Salvini dal tribunale dei ministri e sottoporlo al giudice dell’udienza preliminare, che dovrà decidere sul rinvio a giudizio. Con una particolarità, che diventerebbe l’ennesimo paradosso di questa storia: la Procura etnea s’era già pronunciata per l’archviazione del caso «Gregoretti» ritenendo (a differenza che nel caso «Diciotti») che non esistano gli estremi del sequestro di persona; insussistenza del reato sotto il profilo oggettivo, oltre che soggettivo. Che farà davanti al gup? E che cosa deciderà il gup, rinvio a giudizio o proscioglimento? Prima del processo e dell’eventuale condanna (in tre gradi di giudizio, come sempre), l’accusa a Salvini dovrà superare questo ostacolo, nella corsa ancora molto lunga verso Le mie prigioni. 

ELISA CALESSI per Libero Quotidiano il 21 gennaio 2020. Matteo Salvini deve andare a processo per sequestro di persona. E a chiederlo è stata la Lega, su indicazione dello stesso leader leghista, votando, nella giunta per le immunità del Senato, contro la relazione di Maurizio Gasparri, di Forza Italia, il quale chiedeva, invece, di non celebrare il procedimento. La decisione ultima sarà presa in Aula. Ma l' esito, a questo punto, è scontato, visto che Salvini ha chiarito che la Lega in Aula voterà allo stesso modo. «Sì, sono testone. Sono curioso, faccio di testa mia e non ascolto i legali» che hanno sconsigliato il processo, ha detto. «Sono stufo di passare le mie giornate rispondendo su processi e cavilli. Se mi condannano mi condannano, se mi assolvono mi assolvono. Partita chiusa!». Il tutto si consuma in assenza, paradossale ma vero, della maggioranza, ossia la parte politica che più di tutti vuole il processo, ma che, ieri, ha disertato la riunione per protesta. Cosa succederà adesso? Entro i prossimi trenta giorni l'Aula potrebbe riunirsi ed esaminare la questione. Anche se, sempre secondo il regolamento di Palazzo Madama, l' assemblea potrebbe prendere semplicemente atto delle decisioni della Giunta e non arrivare a un voto. A meno che 20 senatori presentino una mozione di segno opposto, che a quel punto dovrebbe essere votata. Un rompicapo a conclusione di una sequela di fatti paradossali, ma perfettamente coerenti con i tatticismi di queste settimane, esasperati dall' attesa che si è creata intorno al D Day del 26 gennaio, quando si voterà in Emilia Romagna. Salvini, da Comacchio, ennesima tappa del tour emiliano, prima che la giunta si riunisse, aveva dato una indicazione netta: «Vogliono mandarmi a processo, ma senza dire come, quando e perché. Siccome mia nonna mi ha insegnato che se uno non ha fatto del male non deve avere paura, io ci voglio andare anche domattina a processo. Per andare a testa alta a ribadire che in Italia si arriva se si ha il permesso di arrivare, se si è persone perbene». E poi: «Vado in tribunale a nome del popolo italiano. Se mi arrestano, devono trovare un carcere bello grande per tenerci dentro tutti. Voglio andare in quel tribunale a rappresentare milioni di italiani che vogliono vivere tranquilli a casa loro». Aveva citato Giovannino Guareschi: «Diceva che ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare dalla prigione. Siamo pronti, sono pronto». E poi, ironico, Silvio Pellico: «Scriverò "Le mie prigioni" come Silvio Pellico, faccio un nuovo format televisivo». La prima svolta della giornata comincia nel pomeriggio, con una nota comune della maggioranza. «Non ci presenteremo in giunta in quanto la convocazione di oggi è frutto di gravi forzature sia del presidente Gasparri che della presidente Casellati. Non ci presenteremo anche perché non sono state accolte le richieste di approfondimenti istruttori avanzate in giunta. Siamo contrari all' utilizzo strumentale che il centrodestra sta cercando di fare delle istituzioni». In realtà, la ragione è un'altra: non vogliono che il caso Gregoretti, la nave della marina militare che aveva recuperato in mare 131 migranti e che l' ex ministro Salvini ha lasciato al largo per alcuni giorni in attesa si chiarisse il collocamento delle persone, sia usato, dalla Lega, come un' arma a suo favore in una sfida elettorale difficile come quella emiliana. E così tutti i dieci componenti della maggioranza (Pd, Iv, Leu, Gruppo Misto) non si presentano. Presenti solo le opposizioni, in tutto 10 senatori (5 della Lega, quattro di Forza Italia e uno di Fratelli d' Italia). Nonostante le assenze, la riunione comincia perché il numero legale, otto, è garantito. La seduta si conclude con un "no" alla relazione di Gasparri e, quindi, il via libera al processo nei confronti dell' ex ministro Salvini. I cinque leghisti, come annunciato dal leader del Carroccio, votano a favore. Contrari solo i 4 senatori di Fi e Alberto Balboni di FdI. Un pareggio, ma secondo il regolamento in casi come questo prevale il no. Durissimo il Pd: «Salvini e la Casellati», ha commentato Andrea Marcucci, capo dei senatori del Pd, «hanno ottenuto il loro piccolo risultato. Il prezzo pagato è quello di scassare le istituzioni e di dividere nuovamente il centrodestra. Il Pd e la maggioranza parlamentare invece sono uniti nel difendere prima di ogni cosa la dignità del Parlamento, che è più importante dei problemi giudiziari di Salvini». E sulla stessa linea è il M5S: «Quelli che dovevano essere arbitri imparziali, in particolare il presidente della giunta Gasparri, si sono trasformati in giocatori di una sola squadra, quella del centrodestra», ha detto Elvira Evangelista. «Salvini», ha commentato Luigi Di Maio da Bruxelles, dimostra di essere «passato dal sovranismo al vittimismo».

Salvini: negli atti del processo di Torino spunta la condanna per razzismo. Per i cori antinapoletani alla festa di Pontida del 2009. La Repubblica l'11 gennaio 2020. C'è una condanna per razzismo nel passato di Matteo Salvini. Il segretario federale della Lega, ed ex ministro dell'Interno, è stato destinatario di un decreto penale, quando cioè il giudice stabilisce su richiesta del pm una pena pecuniaria senza passare per il processo, per avere violato la cosiddetta legge Mancino, quella che punisce chi compie azioni discriminatorie, per alcuni cori contro i napoletani. Il decreto - come anticipato dal quotidiano Cronaca Qui e confermato in ambienti giudiziari - è contenuto negli atti del processo in cui, a Torino, il leader del Carroccio è a processo per vilipendio dell'ordine giudiziario. I fatti risalgono a una festa di Pontida del 2009, quando Salvini era capogruppo al Comune di Milano dell'allora Lega Nord e deputato da poco eletto al Parlamento europeo. Il coro anti-napoletani, ripreso da un cellulare, era finito online, ma non si era avuta notizia del decreto penale di condanna. "Se ci sono napoletani che si sono sentiti offesi, mi scuso - aveva dichiarato all'epoca Salvini - ma credo che un politico debba essere valutato per quello che fa, non per quello che dice un sabato sera tra amici quando si parla di calcio". 

Andrea Giambartolomei per ilfattoquotidiano.it l'11 gennaio 2020. “Matteo Salvini ha una condanna per razzismo: una pena di 5.700 euro per quel coro contro i napoletani intonato alla Festa della Lega Nord a Pontida nel 2009“. L’attuale segretario della Lega ed ex ministro dell’Interno, era stato colpito dal provvedimento per aver violato la legge Mancino, quella che punisce chi compie azioni discriminatorie. Di questa sentenza, però, non era mai emersa prima la notizia: è arrivata per mezzo di un decreto penale di condanna, quando su richiesta di un pm il giudice stabilisce una pena pecuniaria senza passare per un processo. Ne dà conto oggi Cronaca Qui, quotidiano di Torino, che ha scoperto questa notizia tra gli atti del processo contro Salvini per vilipendio alla magistratura, in corso nel capoluogo piemontese: “Salvini condannato per razzismo”, titola il giornale.

Quando Matteo Salvini cantava: “Napoli merda, Napoli colera…” I fatti risalgono al giugno 2009. La sera del 13 Salvini – all’epoca capogruppo della Lega Nord al Comune di Milano e deputato da poco eletto al Parlamento europeo – si trova a Pontida (Bergamo) alla Festa del Carroccio e, bevendo una birra in compagnia dei “Giovani padani”, lancia il coro discriminatorio: “Senti che puzza/scappano anche i cani: sono arrivati i napoletani. Sono colerosi, terremotati, con il sapone non vi siete mai lavati”. Qualcuno riprende la scena e il video finisce online il 7 luglio. Salvini si scusa, ma soltanto parzialmente: “Se ci sono napoletani che si sono sentiti offesi – dichiara quel giorno a Radio24 – porgo le mie più sincere e sentite scuse, ma ritengo che un politico vada valutato per quello che fa, non quello che dice un sabato sera tra amici quando si parla di calcio”. Poi si dimette dalla carica di deputato solo per una “singolare coincidenza”, come afferma lui, perché in quel giorno scadeva il termine per optare tra il seggio a Montecitorio e quello a Bruxelles, due ruoli incompatibili. Nel frattempo però, questo il fatto fino ad oggi sconosciuto e rivelato dal quotidiano torinese, due cittadini napoletani sporgono una querela finita alla procura di Bergamo, che iscrive Salvini nel registro degli indagati per diffamazione e violazione della legge Mancino, che punisce “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. L’accusa, ritenendo che l’indagato potesse subire soltanto una pena pecuniaria, chiede e ottiene dal giudice l’emissione del decreto penale di condanna finito adesso agli atti del processo torinese. Nel 2018 la Lega – per voce dell’allora ministro della Famiglia Lorenzo Fontana – propone proprio di abolire la legge Mancino e ottiene il sostegno di Salvini, ministro dell’Interno: “Già in passato la Lega aveva proposto di abolire la legge Mancino. Sono d’accordo con la proposta di Fontana: alle idee contrappongono altre idee, non le manette”. A mettersi di traverso è il Movimento 5 stelle, allora alleato di governo. L’abrogazione quindi non va in porto, ma viene modificata una condizione: il codice di autoregolamentazione delle candidature, adottato nel 2014 e rivisto dalla maggioranza gialloverde nella primavera 2019, non considera più come “impresentabili” i candidati condannati per la violazione della legge Mancino.

L’affondo di Salvini: «Vogliono eliminarmi per via giudiziaria». Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Marco Cremonesi. «Il 27 gennaio io sarò qui a festeggiare con voi. In cambio, a febbraio voi sarete in tribunale con me». L’ombra del processo possibile per i fatti della nave Gregoretti accompagna Matteo Salvini in tutte le tappe della sua maratona elettorale in Emilia-Romagna. E così, l’assai probabile via libera del Parlamento al procedimento nei suoi confronti chiesto da Tribunale dei ministri si prepara a diventare la nuova sfida politico-mediatica del leader leghista. Lui qualche volta ci scherza sopra, eppure è serio mentre percorre il corso Alberto Pio di Carpi: «La sinistra siccome non riesce a battermi politicamente, vuole eliminarmi per via giudiziaria». Sembra di aver schiacciato il tasto rewind e di sentir parlare Silvio Berlusconi, a scommettere che si rivedranno le scene di diversi anni fa, con i militanti che manifestano di fronte ai palazzi di giustizia, si rischia poco. Carpi galleggia nella nebbia, la sua magnifica piazza è vicina ma quasi non si vede mentre Salvini si ferma in ogni singolo negozio del corso. Qualche sera fa un gruppo di balordi ha preso d’assalto quattro negozi, ed è un problema. L’altro è che una decina degli esercizi commerciali del bel viale hanno chiuso o stanno per chiudere. «Perché non c’è un governo. Ma vi rendete conto? Hanno fermato tutto. Hanno spostato di venti giorni la riunione di maggioranza perché hanno paura di perdere. E così, nulla più si muove». La vittoria possibile in Emilia-Romagna, secondo Salvini, non potrà che avere ripercussioni serie sul governo: «Ma lo sapete che qui i 5 Stelle prenderanno il 5%? Ma di che cosa stiamo parlando? Possono andare avanti all’infinito con il 5%?». Quel che preoccupa Salvini è la politica estera: «C’è la guerra in Iran, c’è la crisi in Libia, qui davanti a casa. Io ho dei contatti riservati con fonti libiche, le ho coltivate per un anno da ministro. E dopo averle sentite, sono molto preoccupato…». Resta il fatto che il leader leghista ancora non se la prende troppo con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Sarebbe come sparare sulla Croce rossa. Lì il problema è Conte. Ve lo ricordate? “Ci penso io…” diceva. Aveva organizzato la conferenza di Palermo, un fallimento, e nemmeno ci ha invitati. Ci penso io, dice…». Poi, dopo aver comprato uno stock di mutande con gli elefantini, si infiamma: «Questo è un paese di matti. Il paese è fermo, ci sono serissime preoccupazioni per il futuro e si parla di Rula a Sanremo… Viva Rula!». Va detto che lui stesso non si sottrae. Perché il tormentone del giorno, dopo le rabbiose reazioni sui social contro la partecipazione a Sanremo della «sovranista» Rita Pavone, diventa «Il ballo del mattone» con cui Salvini chiude il comizio modenese. Appena disturbato dal «Bella Ciao» che suona da una finestra poco distante, adorna di striscione con sardine. E intanto, la campagna elettorale sta per affollarsi. Mercoledì sarà a Ferrara Giorgia Meloni, che tornerà il 17 e il 18 e anche nell’ultima settimana prima del voto. Mentre almeno tre appuntamenti sono quelli nell’agenda di Silvio Berlusconi, in arrivo sabato. Ma ancora nulla è dato sapere di un eventuale evento comune dei tre leader, che probabilmente si limiterà a una conferenza stampa. In arrivo anche i governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga.

Caso Salvini, c’era una volta Aldo Moro e diceva "no" ai processi politici. Piero Sansonetti l'8 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il discorso del quale pubblichiamo un molto succinto estratto fu pronunciato da Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, il 9 marzo del 1977. Esattamente un anno e una settimana prima del suo tragico rapimento e del processo che subì da parte delle Brigate Rosse e che si concluse con la sua condanna a morte e con l’esecuzione. Questo discorso di Moro è un monumento allo Stato di diritto e alla difesa dell’autonomia della politica e della dignità della politica. Oggi nella giunta per le autorizzazioni del Senato inizia la discussione sulla possibilità di mandare a processo l’ex ministro Salvini. Se non ci saranno ripensamenti da parte di qualche partito, o di un gruppetto di senatori, Salvini andrà a processo, come, nel 1977 – nonostante la strenua difesa di Moro – toccò al democristiano Luigi Gui, padre della riforma della scuola, e al socialdemocratico Mario Tanassi. C’è una qualche affinità tra questo processo e quello? No, nel merito. Le affinità stanno nella scelta dei partiti di votare secondo schieramento e non secondo diritto o secondo coscienza. Molti brani di questo discorso di Moro sono validi ancora oggi e possono tranquillamente essere usati nella discussione su Salvini. Soprattutto il rifiuto del fare coincidere scelta politica e reato e l’ammonimento sulla paralisi della politica. Chissà se qualcuno vorrà ascoltare Moro. Probabilmente no. Moro non c’è più nel Parlamento italiano: non c’è più, non c’è più, non c’è più. So con certezza, e sento acutamente, che siamo chiamati a mettere, ovvero a non mettere, in stato di accusa dei cittadini, siano o non siano essi ministri; a queste persone la condizione di accusati – se a tanto si deve arrivare – deriverà dalla nostra decisione, mentre per altri nelle medesime circostanze scaturisce da un atto della magistratura. Questa è la nostra responsabilità, disporre cioè, sia pure in modo non definitivo, della sorte di uomini, dell’onorabilità e della libertà delle persone, come accade appunto ai giudici il cui penetrante potere viene dalla legge appunto temperato e circondato di cautele. Alto e difficile compito è dunque il nostro, specie in presenza della diffidenza, del malcontento, dell'ostilità che, bisogna riconoscerlo, predominano oggi nell’opinione pubblica. Dinanzi ad un potere come questo, avendo nelle nostre mani il destino di altri uomini, anche la più piccola disattenzione sarebbe inconcepibile ed inammissibile. L’affidarsi a frammentarie notizie della lunga vicenda; il pensare che tutto sia stato già udito e compreso; immaginarci in una sorta di situazione obbligata, in una posizione di partito, in una ragione di disciplina; l’essere in una esigente corrente di opinione: tutto questo è in contraddizione, tutto questo è incompatibile con la funzione del giudicare. Abbiamo dinanzi degli uomini e dobbiamo saper valutare con lo stesso scrupolo, con lo stesso distacco, con lo stesso rigore, i quali caratterizzano l’esercizio della giurisdizione. Perché anche noi, pur con tutti i nostri dibattiti politici, siamo oggi, se non nella forma, nella sostanza, dei giudici. Lo siamo noi, come lo sono i nostri egregi colleghi dell’Inquirente. Un aspetto del giudicare, infatti, nella naturale dialettica delle posizioni, è l’accusare, il porre un carico di responsabilità, certo, sul piano strettamente giuridico, ipotetico; ma sul piano umano, già attuale, sopportato, pesante. Questo è un momento, ed un momento essenziale, del processo […] Non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamo fare è di lasciare libero corso alla giustizia, è fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto. No, siamo in ballo anche noi; c’è un dovere di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona. […] È quindi comprensibile che, come noi non possiamo rinunciare a compiere ora, in piena autonomia, con grande serietà il nostro dovere, neppure gli interessati possono, per superare un ostacolo politico, per approdare alla oggettività della giurisdizione, confessarsi degni di accusa e chiedere il rinvio al giudizio della Corte costituzionale. Se essi facessero così, se rinunciassero al dibattito, alla contestazione, alla dialettica di questa fase del processo, non soltanto compirebbero un lungo passo verso la condanna, ma verrebbero essi proprio a disconoscere la funzione illuminante e responsabile della pronuncia del Parlamento e ci esonererebbero indebitamente dalle nostre precise responsabilità. Dobbiamo dunque giudicare, formulare quel primo giudizio che si esprime in un atto di accusa, nel profilare, almeno come possibile o probabile, una responsabilità penale. La gravità di questo atto esige una adeguata motivazione. […] Se dobbiamo cogliere l’opinione pubblica, valutarne gli stimoli ed accentuare la nostra capacità critica, non dobbiamo, però, seguirla passivamente, ammiccare a lei, rinunziando alla nostra funzione di orientamento e di guida. Fare giustizia sommaria, condannare solo perché lo si desidera, offrire vittime sacrificali, ebbene, questo non sarebbe un atto di giustizia, ma pura soddisfazione di una esigenza politica. L’obbedire alla opportunità, benché la politica sia, in un certo senso, il regno dell’opportunità, non paga; colpire delle persone, senza che siano date rigorosamente le condizioni che ne giustificano e richiedono la condanna, è un atto di debolezza ed una violazione dei principi. Ed i principi sono, nel nostro ordinamento repubblicano, il rispetto della persona e la libertà, se la legge non lo impone, dall’accusa e dalla pena. Ciò vale sia se si tratti di ministri, sia se si tratti di semplici cittadini. Sono parimenti inammissibili una condizione di privilegio ed una condizione di pregiudizio, indistintamente, per tutti. Trasformare in reati atti di ufficio, finché non ne sia obiettivamente dimostrato il collegamento con un fenomeno di corruzione, è una violazione dei diritti dell’uomo ed una distorsione dell’efficace svolgimento dei compiti amministrativi, altrimenti esposti ad essere sempre paralizzati. […] Questo è un processo fondato sui sospetti e sui pregiudizi. Sono in gioco la libertà e, soprattutto, l’onore delle persone; e questo è un tema al quale il Parlamento è sempre stato estremamente sensibile. Perché mai dovrebbe dimenticare, oggi, questa alta ispirazione che gli fa onore? Perché dovrebbe cedere alla passionalità ed a non motivati orientamenti dell’opinione pubblica? […]. Naturalmente, ho sensibilità politica quanto basti per comprendere quanto sia difficile, per taluni di noi, imboccare questa strada. So che occorre molto coraggio e la capacità di affrontare una certa misura di impopolarità. […] C’è il rischio obiettivo di un’inammissibile politicizzazione e quello, altrettanto grave, che il nostro comportamento sia considerato inficiato da ragioni di parte, in una qualsiasi direzione. […] Intorno al rifiuto dell’accusa che, in noi, tutti e tutto sia da condannare, noi facciamo quadrato davvero. […] A chiunque voglia fare un processo, morale e politico, da celebrare, come sì è detto cinicamente, nelle piazze, noi rispondiamo con la più ferma reazione e con l’appello all’opinione pubblica che non ha riconosciuto in noi una colpa storica e non ha voluto che la nostra forza fosse diminuita. Non accettiamo di essere considerati dei corrotti, perché non è vero. […] E, come frutto del nostro, come si dice, regime, c’è la più alta e la più ampia esperienza di libertà che l’Italia abbia mai vissuto nella sua storia, una esperienza di libertà capace di comprendere e valorizzare, sempre che non si ricorra alla violenza, qualsiasi fermento critico, qualsiasi vitale ragione di contestazione. Non si dica che queste cose ci sono state strappate. Noi le abbiamo rese, con una nostra decisione, possibili ed in certo senso garantite. […] Noi non ci faremo processare. Se avete un minimo di saggezza, della quale, talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non sottovalutare la grande forza dell’opinione pubblica.

Consegnare Salvini ai Pm è il suicidio della politica. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Gennaio 2020. Matteo Salvini ha presentato una memoria difensiva al Senato per chiedere che non sia concessa l’autorizzazione alla magistratura per processarlo. Speriamo gli diano retta. In questa memoria si sostengono tre cose. La prima è che l’arrivo dei migranti e dei naufraghi costituisce un pericolo per la sicurezza nazionale. E per dimostrarlo si citano ponderose relazioni degli esperti del ministero che sostengono questa tesi. La seconda è che durante la crisi della Gregoretti tutto il governo era sulla linea del blocco allo sbarco, in modo compatto, e in particolare lo erano il presidente del Consiglio e il vicepresidente del Consiglio e il ministro degli Esteri e quello della Giustizia. E per dimostrarlo si esibiscono sette mail di palazzo Chigi e della Farnesina. La terza è che la linea politica che ha ispirato il blocco era scritta a chiare lettere nel programma di governo – il cosiddetto contratto – firmato dalla Lega e dai 5 Stelle. Tutto ciò cosa vuol dire? Semplicemente – dice Salvini – che le sue decisioni erano ispirate da scelte politiche condivise dalla maggioranza del Parlamento e che avevano lo scopo di difendere un interesse nazionale. Se il Parlamento dovesse accettare questa idea, dovrebbe, a norma di legge, negare ai giudici l’autorizzazione a processare Salvini per il reato, gravissimo, di sequestro di persona, che potrebbe costare fino a 15 anni di carcere e cioè potrebbe mettere fuorigioco il più prestigioso leader politico della destra italiana (o forse europea) e il personaggio politico più popolare nel Paese. Una bomba atomica. Sono giuste le tre osservazioni presentate da Salvini al Senato? Francamente considero inconsistente e propagandistica la prima osservazione, se presa a sé. Che quei 131 poveretti che stavano a bordo della Gregoretti fossero degli invasori e costituissero un pericolo per la nostra sicurezza, francamente è una tesi poco, molto poco credibile. Ma non mi pare che il Senato sia chiamato a decidere fino a che punto una posizione politica è davvero buona politica e da che momento in poi diventa invece pura propaganda. Né immagino che sia una valutazione che spetta alla magistratura. La differenza tra propaganda e “politica seria” può essere valutata dagli elettori, o dagli opinionisti, o da chiunque voglia, ma questa valutazione può tradursi in giudizi, invettive, articoli di giornale o voti alle urne: non in sentenze. La cosa diventa ancora più evidente sulla base della seconda e della terza osservazione di Salvini. Che, a differenza della prima, sono tutte e due assolutamente incontestabili. Il governo era compatto sulla linea del respingimento, e del resto quella linea era stata solennemente assunta come linea del governo al momento della stesura del programma e oltretutto continuamente ribadita dai due partiti della maggioranza, in modo univoco (chi non ricorda le polemiche di Di Maio e dei suoi giornali contro i taxi del mare e contro le Ong che effettuano opera di soccorso?) La dimostrazione – che a me pare inoppugnabile – della partecipazione del presidente del Consiglio e del vicepresidente del Consiglio e del governo, e della maggioranza parlamentare dell’epoca (5 Stelle più Lega) alle decisioni di Salvini è molto importante per due ragioni. Innanzitutto perché se la scelta era una scelta collettiva e di governo è fuori discussione il fatto che non fosse una scelta personale di Salvini per difendere qualche suo interesse ma fosse invece una chiarissima e convinta (e insindacabile dalla magistratura) scelta politica. E poi perché la maggioranza parlamentare che approvò quella scelta (e che aveva ribadito il suo giudizio in occasione della crisi della nave Diciotti, crisi identica a quella della Gregoretti per la quale il Parlamento non concesse l’autorizzazione a procedere contro lo stesso Salvini) è evidentemente responsabile come Salvini, e dunque non si riesce a spiegare come mai, oggi, proprio una parte di quella maggioranza (i 5 Stelle) sembra orientata a votare contro Salvini e quindi contro se stessa. Sarebbe una specie di confessione: Tutti noi siamo stati complici di un sequestro di persona. A quel punto non sarebbero tutti processabili, senatori e deputati di maggioranza, circa 500? (Almeno per concorso esterno…) Come se ne esce? In nessun modo, perché il 20 gennaio in Senato non si discuterà se la magistratura ha il diritto o no di processare le scelte politiche dei ministri e del Parlamento, si discuterà di quanti sono, in commissione, i senatori filo-Salvini e quanti sono gli anti-Salvini. Ecco: questo è un obbrobrio. Mettersi sotto i piedi il diritto, la separazione dei poteri, l’autonomia della politica, non certo per difendere gli immigrati ma solo per cambiare i rapporti di forza fra i partiti e i gruppi politici, è segno di grande irresponsabilità, E imporrà un prezzo molto alto alla politica, se nessuno avrà il coraggio di rompere i fronti. È chiaro che consegnare Salvini ai giudici è suicidio democratico. Recentemente Matteo Renzi ha citato un grandioso discorso di Aldo Moro pronunciato alla Camera nel marzo del 1977. In quel discorso Moro, che era un democristiano, ma anche uno statista e un giurista, difese con tutte le sue forze l’autonomia della politica e il diritto. Fu sconfitto. Vinsero i giacobini. Il ministro Gui e il ministro Taviani furono mandati a processo. Bisogna ripetere quella pagina oscura della politica italiana? E Matteo Renzi, che ha avuto il merito ricordarla ai giovani senatori di oggi – molti dei quali, forse, purtroppo, non conoscono Moro – voterà anche lui per consegnare Salvini ai magistrati? Ieri abbiamo pubblicato su questo giornale una dichiarazione molto bella di Yael Dayan, figlia del mitico generale israeliano Moshe, il trionfatore della guerra dei sei giorni. Ha detto: «Ho combattuto Benjamin Netanyahu tutta la vita. Però non voglio che sia processato, voglio sconfiggerlo nella battaglia politica». Avremmo bisogno, qui da noi, di tante, tante Yael Dayan. Ma non si trovano.

Tutti i guai di Matteo Salvini nell'anno che verrà. Resiste nei sondaggi. Ma si indebolisce sugli altri fronti. L’opposizione, la fronda interna, le inchieste sui lati oscuri del finanziamento al partito. Ecco come sarà il 2020 dello zar Matteo. Giovanni Tizian il 30 dicembre 2019 su L'Espresso. "Dasvidania” Lega Nord. Così ha stabilito lo Zar Matteo Salvini, eletto dai sondaggi di fine 2019 capo del primo partito italiano. L’anno del Capitano. Forte sul crinale dei consensi, ma fragile su quello giudiziario. Disarmato di fronte alle inchieste delle procure che hanno acceso i riflettori sul lato oscuro del partito: i 49 milioni, i finanziamenti, la trattativa con gli uomini di Putin , l’accusa di sequestro di persona per il blocco della nave Gregoretti. Salvini chiude il 2019 vulnerabile come non lo è mai stato. E si autoproclama leader maximo della sua Lega, scrivendo la parola fine sull’era di mezzo delle due Leghe, una indipendentista l’altra nazionalista. Lega Nord, appunto, e Lega per Salvini premier. Per due anni, infatti, Matteo Salvini è stato un segretario abusivo, contemporaneamente capo del vecchio e del nuovo partito. Non poteva esserlo, secondo lo statuto del Carroccio. Flavio Tosi pagò con l’espulsione l’aver fondato un suo movimento mentre era dirigente leghista. Matteo Salvini ha fatto finta di niente, fino al congresso del 21 dicembre scorso, che oltre a registrare il decesso della Lega Nord ha approvato il nuovo statuto blindato dai fedelissimi di Matteo. Nuovo statuto che concede la possibilità di appartenere sia alla Lega Nord che alla Lega per Salvini premier. Una moratoria anche per il capo, che ha finalmente celebrato la nascita del partito personale, scevro dall’opposizione interna, marginalizzata a partire dal 2013, da quando cioè è diventato segretario del partito fondato da Umberto Bossi nel 1989. La Lega Nord per l’indipendenza della Padania continua a esistere soltanto sulla carta. È il partito che deve restituire i 49 milioni di euro. La “bad company” che ha ottenuto dal tribunale di Genova la rateizzazione per i prossimi 70 anni. Poi c’è la “good company”, la Lega per Salvini premier. Qui confluiscono i contributi del 2 per mille e le donazioni degli imprenditori vicini al sovranismo. “Lega per Salvini premier” è un marchio registrato nel 2017. Un brevetto politico nato prima sui social che nelle piazze del Paese. Domiciliato nello studio di un commercialista di Milano, e non nella storica via Bellerio, cassaforte ideologica del leghismo settentrionale, del “celodurismo”, del secessionismo. «Oggi non celebriamo alcun funerale al partito», si sono affrettati a dire i colonnelli della Lega durante il congresso di Milano del 21 dicembre. Umberto Bossi è salito sul palco, nonostante le precarie condizioni di salute. Tra un dito medio e un elogio nei confronti di Matteo, ha usato il bastone («Nessuno ci può imporre in che partito stare») e la carota, elogiando il segretario per il successo in termini di consenso. In realtà, lo sa bene il senatùr: il 21 dicembre è stata seppellita la Lega Nord per l’Indipendenza con la Padania, nella forma e nella sostanza. Sostituita dal partito sovranista di Matteo Salvini. Il partito del Capitano, folgorato dal nazionalismo, che per quanto provi a vendersi agli elettori come il nuovo, sa bene di essere figlio della prima Repubblica, cresciuto nella palestra del Carroccio di Bossi ai tempi in cui proprio il fondatore era alle prese con i primi guai giudiziari: all’epoca si trattava del finanziamento illecito di Enimont, 200 milioni di Lire, che ha portato alla condanna di Bossi e del tesoriere di allora, Alessandro Patelli. La pronuncia definitiva sui quei fatti è del 1998. L’anno successivo un giovane Matteo Salvini aizzava la folla contro Roma ladrona: «Vogliamo fornire al sindaco l’occasione per dimostrare concretamente la sua opposizione al centralismo romano e la sua volontà di difendere davvero, con i fatti, gli interessi e le aspirazioni dei milanesi: venga con noi, al fianco di 700 meneghini stanchi dello strapotere romano, a marciare contro Roma ladrona il 5 dicembre. È un invito ufficiale: gli riserviamo fin da ora un posto sul Nerone Express». La capitale d’Italia, madre di tutte le nefandezze. Salvini invocava Nerone, l’imperatore che distrusse Roma con il fuoco. Un mese prima da consigliere comunale si era rifiutato di stringere la mano a Carlo Azeglio Ciampi, in visita nel capoluogo lombardo ed eletto a maggio di quell’anno presidente della Repubblica italiana. Matteo aveva 26 anni, ed era già segretario del Carroccio di Milano. All’epoca patria e nazione non appartenevano al lessico dei militanti in camicia verde. Scorrendo il dizionario padano di quel tempo troviamo piuttosto “Prima la padania”, “Prima il Nord”, slogan che hanno segnato i raduni di piazza e nel pratone di Pontida, luogo sacro della Lega Nord indipendentista. Il partito delle ramazze e dei cappi mostrati in Parlamento contro i ladri di “tangentopoli”. Mani pulite è in realtà un periodo ambiguo per il Carroccio. Da un lato i parlamentari guidati da Umberto Bossi invocavano la forca per i corrotti, dall’altro hanno dovuto fare i conti con l’inchiesta sul loro fondatore, sul tesoriere di quegli anni e sui 200 milioni di lire incassati da Enimont. Vestire i panni del tesoriere della Lega ha i suoi rischi. Del tesoriere ai tempi di Tangentopoli abbiamo detto. Poi è toccato a Francesco Belsito: mr 49 milioni di euro, il custode dei conti del partito artefice della truffa sui rimborsi elettorali insieme a Bossi. Da questa vicenda ha origine il debito di quasi 50 milioni che il partito deve allo Stato. Chi è arrivato dopo Belsito ha dovuto fare i conti con quel passato, anche perché Matteo Salvini da segretario ha rinunciato a chiedere i danni al fondatore del Carroccio. Giulio Centemero doveva incarnare la trasparenza del dopo truffa. Compito arduo, alle prese con il maxi debito e con la necessità di spendere per mantenere una macchina della propaganda costosa. Doveva far dimenticare “Ciccio” Belsito. E invece lo troviamo indagato a Roma e Milano per finanziamento illecito al partito: denari ricevuti dal costruttore Luca Parnasi e da Esselunga tramite l’associazione Più Voci, fondata proprio da Centemero nel 2015. In tutto 290 mila euro, più del doppio del finanziamento illecito ricevuto dalla Lega di Bossi ai tempi di Tangentopoli. Corsi e ricorsi della storia, i guai del vecchio Carroccio e le grane della nuova Lega di Salvini. Rappresentati dai leader, di ieri e di oggi, sul palco del congresso del 21 dicembre. Ma qual è lo scopo politico del partito di Matteo Salvini? Roberto Maroni, segretario del Carroccio prima di Salvini, in un’intervista all’Espresso aveva spiegato che Matteo vuole fare della Lega il partito egemone della destra italiana . Per farlo ha dovuto celebrare il funerale del Carroccio fondato da Umberto Bossi. E benché i leghisti ripetano che «la Lega non muore mai», la verità è che Salvini ha cancellato il Carroccio dalla scena politica e si è fatto il partito personale. L’unica certezza è che Bossi non si tocca. Salvini l’ha dimostrato con i fatti: ha rinunciato a costituirsi parte civile nel processo contro il fondatore per la truffa dei 49 milioni; gli ha garantito un posto al Senato con la nuova Lega; gli ha concesso delle piccole quote nelle società di proprietà del partito. Un partito ormai colonizzato dai salviniani. Che sono ovunque, amministrano le immobiliari del Carroccio, hanno ottenuto nomine delle municipalizzate, gestiscono il potere sui territori che un tempo era saldamente in mano di bossiani e maroniani. Un potere fatto di architetture finanziarie oltreché politiche. Un esempio? La rete di associazioni usata per ottenere soldi dagli imprenditori. Una strategia per non far passare i soldi dai conti del partito sotto osservazione dei giudici che chiedevano la restituzione dei 49 milioni. Tra queste associazioni culturali, c’è la Più Voci. Svelata da questo giornale nell’aprile 2018 con i relativi finanziatori segreti, l’inchiesta giornalistica ha portato all’apertura di due fascicoli di indagine per finanziamento illecito ai partiti, uno a Roma e uno a Milano. Indagini chiuse e richieste di rinvio a giudizio pronte sul tavolo dei pm. A differenza del ’93, però, il leader è salvo. Rischia di pagare soltanto il tesoriere di sua fiducia. La questione giudiziaria più spinosa, però, è certamente l’inchiesta per riciclaggio in corso a Genova. I pm della procura ipotizzano che la Lega abbia riciclato parte dei famosi 49 milioni di euro della truffa sui rimborsi elettorali. Nell’ultimo anno e mezzo sono state fatte decine di perquisizioni, inquirenti e investigatori sono andati anche in Lussemburgo. Questa inchiesta preoccupa molto gli ambienti leghisti e non tanto per i collegamenti con il paradiso fiscale dell’Europa. Crea il panico soprattutto per il vorticoso giro di denaro che dal partito è finito a imprese fornitrici della nuova Lega di Matteo Salvini e in parte rientrato a società di esponenti leghisti. Insomma, il sospetto dei magistrati di Genova è che parte dei 49 milioni sia stata riciclata così. Non è l’unico fronte che insidia il 2020 di Matteo Salvini. La procura di Milano sta conducendo l’inchiesta sul Russiagate italiano, sulla trattativa, cioè, dell’hotel Metropol del 18 ottobre a Mosca per finanziare il partito tramite una maxi partita di carburante. Il negoziato con i russi vicini a Cremlino è stato condotto da Gianluca Savoini, il fedele consigliere per la Russia, di Matteo Salvini. Savoini dopo lo scoop de L’Espresso è finito sotto inchiesta per corruzione internazionale insieme all’avvocato Gianluca Meranda e a Francesco Vannucci, entrambi al tavolo del Metropol insieme all’uomo di Matteo. A incastrare Savoini l’audio dell’incontro, con i dettagli dell’affare. Il 18 ottobre Matteo Salvini non c’era al Metropol. Era a Mosca il giorno prima, il 17 ottobre. Quella sera dopo un convegno pubblico, ha incontrato in gran segreto un pezzo grosso del governo russo, il vicepremier Dymitri Kozak con delega agli affari energetici. Salvini sapeva dell’incontro del giorno successivo al Metropol? Questa è la domanda che da dieci mesi non trova risposta. Anche perché l’ex ministro Matteo Salvini ha preferito non riferire in al Parlamento su questa vicenda. Negando agli italiani una spiegazione di quello strano ottobre moscovita. Matteo Salvini è un leader forte tra le mura della nuova Lega, ma ha perso l’originaria brillantezza fuori dal palazzo. Da ministro bloccava le navi con i migranti in mezzo al Mediterraneo, e guadagnava consenso. Oggi da senatore rischia il processo per il sequestro dei migranti bloccati a bordo della nave militare Gregoretti, con i 5 Stelle sono pronti a condannarlo con il voto. I sondaggi sono ancora dalla sua parte, anche se lo danno in calo. Salvini è al di sopra del 17 per cento delle politiche del 4 marzo, certo lontano dal trionfo delle europee. Ha la sindrome dell’assedio, lo Zar Salvini. Sotto attacco della magistratura, della stampa, degli avversari. Il 2019 di Matteo Salvini sarà ricordato per le risposte non date, per le menzogne dette sui 49 milioni, sulla Russia, sui finanziamenti ottenuti dagli imprenditori. Piuttosto che dare spiegazioni ha preferito staccare la spina al governo Conte 1. Voleva i pieni poteri, per non dover dare conto a nessuno. Il piano è fallito. E ora non gli resta che paragonarsi a Donald Trump, vittima come lui, sostiene Salvini, delle inchieste dei pm e dell’opposizione. Il vittimismo sarà sufficiente a vincere la prossima sfida? Tenere assieme, cioè, un partito dove le fronde padane continuano a non vedere di buon occhio la svolta sovranista. Con l’arrivo dei parlamentare eletti al Sud. Quelli che un tempo anche il Capitano chiamava “terùn”. E con Bossi che dal palco del congresso ha ricordato ai presenti, parlamentari del Sud inclusi, che i «meridionali vanno aiutati a casa loro, sennò straripano e finisce come con l’Africa». Passato e presente, nel nome dei 49 milioni.

Jena per “la Stampa” il 21 dicembre 2019. Salvini, come Craxi e Berlusconi, andrebbe sconfitto con la politica e non con i processi. Ma noi di sinistra sappiamo accontentarci.

Estratto dell'articolo di Massimo Malpica per "il Giornale" il 21 dicembre 2019. «Al termine dei quattro giorni di presunto sequestro ottenemmo che cinque Paesi europei si suddividessero gli immigrati. Una cosa è certa: lo rifarei. E se gli italiani lo vorranno, lo rifarò. Sempre che non ci siano stranezze legate alla legge Severino». Più che i 15 anni di carcere che rischia per le accuse di abuso d' ufficio e sequestro di persona per il blocco della nave Gregoretti, nella sua intervista al Corriere in edicola ieri Matteo Salvini tradisce quello che è il suo vero timore, relativamente alla questione del voto della giunta per le autorizzazioni sulla richiesta arrivata dal tribunale dei ministri di Catania. E il timore, appunto, è rappresentato dalle possibili ricadute sul futuro politico del leader della Lega proprio rispetto alla legge Severino. (...) Che impone, appunto, la sospensione degli amministratori pubblici, se condannati anche se solo in primo grado, per un periodo «di almeno 18 mesi». (...) In che modo la questione riguarda il leader leghista? Per Salvini, una eventuale condanna in primo grado non vorrebbe dire essere incandidabile, ma prevederebbe la sospensione in caso di elezione. Ed ecco dunque che quel riferimento tra le righe dell' intervista al Corriere evidenzia il vero timore del numero uno della Lega. Che teme che la trappola si materializzi grazie al combinato disposto tra una condanna in primo grado e quanto previsto dalla legge Severino. Che lo priverebbe degli effetti di una vittoria, costringendolo a finire sospeso - una volta eletto - subito dopo la chiamata al voto. È questo l' effetto che il leader leghista teme di più nell' appuntamento del 20 gennaio, ed è per questo che il «tradimento» degli ex alleati - con l' annuncio del voto a favore dell' autorizzazione del M5s da parte di Di Maio - non soltanto lo indispettisce. Ma lo preoccupa.

Estratto dell'articolo di Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 21 dicembre 2019. «Non è che ci sia molto da girarci intorno. A questo punto o mi arrestano o vado avanti. Di certo, dalla mia parte ci sono milioni di italiani, ecco perché non ho paura». Che strana vigilia di congresso ha vissuto Matteo Salvini. La sensazione di poter riavere in pugno l' Italia da qui a qualche mese, stavolta coi "pieni poteri" di Palazzo Chigi, e la contemporanea, sgradevolissima sensazione che tutto potrebbe sfuggirgli via come sabbia tra le dita. Come ad agosto. Peggio che ad agosto: con un «trappolone politico giudiziario» - lo definiscono in via Bellerio - pianificato per farlo fuori dalla scena, per sempre. Non c' è solo il macigno del caso Gregoretti, con la richiesta di processo per sequestro di persona che Di Maio e Conte ora vogliono assecondare. Ci sono altri timori e altri rumori che rimbalzano dal Palazzo di Giustizia di Milano, voci di inchieste in dirittura d' arrivo col nuovo anno, epicentro il palazzo della Regione, capitolo sanità. Solo illazioni, per ora. Che hanno contribuito tuttavia ad avvelenare la vigilia del congresso lampo di questa mattina in un albergone della periferia milanese. Quello che deve sancire la "scissione" della Lega nazionale blu trumpiana di "Salvini premier" dalla bad company Lega Nord che dovrà sopravvivere per rimborsare i 49 milioni di euro sottratti allo Stato. Cinquecento delegati convocati sotto Natale per sancire con un' alzata di mano il cambio di nome e statuto che il capo ha già deciso (assente per protesta la minoranza che fa capo a Gianni Fava). Ci saranno invece le Sardine, autoconvocate per un flashmob antisovranista. Sarà la spina nel fianco perpetua, ormai, per l' aspirante premier. Il quale sembra avere altri pensieri, per ora. «A Milano c' è qualcuno che mi vuole arrestare - ha urlato dal palco, ieri ad Aosta, nuova frontiera elettorale - non per corruzione ma per sequestro di persona, perché ho bloccato lo sbarco di 140 persone. Ma quando ci sarà il processo sarà una festa della libertà», avverte. Perché immagina che tutto possa consumarsi a febbraio, col voto in aula per l' autorizzazione a procedere che arriverebbe dopo le elezioni in Emilia Romagna del 26 maggio e dopo che altri cinque o sei senatori grillini - queste le stime al pallottoliere leghista - completeranno l' esodo verso l' opposizione. Dopo cioè che la maggioranza Conte avrà perso altri decisivi tasselli. A Palazzo Madama è al cellulare del capogruppo leghista Massimiliano Romeo che, raccontano, stanno arrivando parecchie chiamate di colleghi senatori, ex alleati del M5S. Lui, com' è scontato, minimizza, smussa gli entusiasmi. «La campagna acquisti non è nel dna della Lega - è la sua premessa - Se poi c' è qualcuno che ha già lavorato con noi e che condivide il nostro progetto, siamo disponibili a ragionare, come avvenuto con i tre passati con noi. Resto convinto però che il governo Conte non cadrà per il passaggio di uno o più senatori, ma solo quando Renzi o Zingaretti decideranno che è giunta l' ora di staccare la spina». Il primo soprattutto, sognano i leghisti. E quei parlamentari di Italia Viva che non danno più per scontato, pe r esempio, il via libera in giunta e poi in aula al processo per Salvini. Gli avversari sono altri, in questo momento, non certo Renzi. «Conte e Di Maio mi fanno pena, sono loro che svendono la dignità per un processo a Salvini, cambieranno mestiere, chiederanno il reddito di cittadinanza», è l' avvertimento rabbioso del capo leghista. «Perché una cosa è certa, nel 2020 si voterà. Sarà l' anno della liberazione ». Nel frattempo, pianifica il Vietnam. Palazzo Chigi fa sapere che nel caso Gregoretti Salvini ha agito in piena autonomia? Fonti della Lega annunciano che il senatore «ha conservato copia delle interlocuzioni scritte avvenute, numerosi contatti anche tra ministero dell' Interno, Presidenza del Consiglio, ministero degli Esteri e organismi comunitari ». Documentazione che, viene precisato, «al momento non verrà diffusa ». Non ora, ma presto: i legali del segretario, con la supervisione di Giulia Bongiorno come avvenuto nel precedente caso, stanno valutando se allegare quelle "interlocuzioni" alla memoria difensiva che andrà depositata entro il 3 gennaio in giunta per le autorizzazioni del Senato, in vista del voto del 20. A febbraio la parola passerà all' aula, ma con la roulette del voto segreto. E soprattutto, è il sogno di Salvini, con uno scenario politico «completamente mutato».

Gregoretti, Antonio Di Pietro sta con Matteo Salvini: "Luigi Di Maio ipocrita, come poteva non sapere?" Libero Quotidiano il 20 Dicembre 2019. Antonio Di Pietro sta con Matteo Salvini. Sul caso Gregoretti l'ex pm - ospite a L'Aria Che Tira - parla di tecnicismi senza però "negare il reato" commesso dal leader leghista. "L'unico problema su cui dovranno pronunciarsi i pm è se il reato è perseguibile o meno". Per Di Pietro, infatti, l'ex ministro dell'Interno potrebbe aver negato lo sbarco dei migranti a bordo della motovedetta della Guardia Costiera "non per interesse personale", ma per "interesse del Paese". In quest'ultimo caso il reato potrebbe non essere perseguibile. Ma non è finita qui, l'ex magistrato se la prende con Luigi Di Maio: "Il reato è stato commesso quanto al governo c'erano loro, come possono non essersi accorti che Salvini negava uno sbarco? Per la nave Diciotti - un caso analogo - il capo politico, Danilo Toninelli e Giuseppe Conte avevano sostenuto il leghista. E perché per la Gregoretti no?". Insomma, in questo "Di Maio è un ipocrita". E venirsene fuori dopo tre mesi dal misfatto, in concomitanza con il crollo nei sondaggi, qualche dubbio lo fa venire. 

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 21 dicembre 2019. Il governo giallo-verde era uno. Ma oggi le voci sono due, quella gialla e quella verde. E sono due le verità contrapposte sul blocco della nave Gregoretti, impedita di sbarcare i 130 migranti che aveva a bordo. Fu una decisione presa in splendida solitudine, si fa per dire, dall' allora ministro dell' Interno? O invece fu decisione collegiale, come ribatte oggi Matteo Salvini, che ha tenuto a dire che lui ha conservato copia delle interlocuzioni scritte tra ministero dell' Interno, Presidenza del Consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari, e che l' ha già affidata ai suoi legali. Un rebus che prima o poi andrà sciolto. E che è anche un caso politico, dato che tutti i partiti si sono già schierati, salvo i renziani. Sono 3 in Giunta che potrebbero cambiare gli equilibri. E il capogruppo Davide Faraone tiene il punto: «Leggeremo le carte e decideremo, senza isterismi e senza sventolare cappi e manette». Il premier Giuseppe Conte ha parlato attraverso una nota del segretario generale di palazzo Chigi: il tema della nave Gregoretti - ha sostenuto - mai è stato discusso in consiglio dei ministri, né è stato all' ordine del giorno, neppure tra le varie ed eventuali. La verità, come tante volte accade in politica, forse è nel mezzo. Sarà sicuramente vero che tra ministri non se ne è parlato al consiglio. Ma se si torna a quei giorni di fine luglio, bisogna dire che non si parlavano proprio. I rapporti si erano logorati e mancava ormai pochissimo alla rottura completa. Erano giorni di liti a distanza sulla Tav, le Grandi Opere, il taglio alle tasse. Erano i giorni del Russiagate e del famoso Savoini. Il 24 luglio, Conte va al Senato a riferire sui fondi russi, lamenta che Salvini non gli ha nemmeno risposto alle mail; il leghista lo ricambia accusandolo di cercare voti per una maggioranza alternativa. Certo, il 26 luglio, con la nave Gregoretti in vista della costa italiana, fu Salvini a tuonare e forse a farsi male da solo nel dire: «Non darò nessun permesso allo sbarco finché dall' Europa non arriverà l' impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave. Io non mollo». Io, io, io. In quel momento gli faceva gioco il ruolo di super-Salvini. E gli altri tacevano. Ma non fu sicuro il solo Salvini a ordinare alla nave della Guardia costiera di attraccare nel porto militare di Augusta. E a riguardare quei giorni, non si può non notare che l' ex ministro Danilo Toninelli il 28 luglio disse che la nave approdava al molo militare «come è normale che sia per una nave militare. Ora la Ue risponda». La Lega tira fuori anche un gustoso retroscena: il ministro Bonafede dichiarava il 30 luglio, nel corso della trasmissione «In Onda», che «c' è un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell' Interno e della Difesa». E concluse: «Ringrazio il presidente Conte che continua a porre la questione nelle cancellerie d' Europa». Salvini insomma dice che la decisione «fu condivisa». In effetti, quando il 31 luglio Salvini finalmente sbloccò la situazione, e concesse l' autorizzazione allo sbarco degli ultimi 116 disgraziati a bordo, fu perché arrivò la garanzia che sarebbero stati redistribuiti in alcuni Paesi europei. Garanzie che certo non erano passate per il Viminale. All'interno del governo, però, è verissimo che non si parlavano più perché la politica italiana era ipnotizzata da tutt' altro. Il 31 luglio, oltre lo sbarco, ci fu una memorabile lite sulla riforma della giustizia. Quel pomeriggio stesso, Salvini arrivava al Papeete di Milano Marittima e il figliolo veniva immortalato a bordo di una moto d' acqua della polizia. Il giorno dopo, 1 agosto, si sarebbe tenuta la famosa conferenza stampa sulla sabbia dello stabilimento e Salvini avrebbe tuonato: «Non sto al governo per fare le cose a metà». L' 8 agosto, il governo era morto e defunto. «Mi pare scontato che il governo fosse informato, è dimostrato dal fatto che tacque». Lapidaria, ma efficace Giorgia Meloni.

Caso Gregoretti, la difesa di Salvini: decisione presa col Governo: ecco le carte. Ecco le mail che provano come la decisione sia stata presa con tutto il Governo al contrario di quanto affermato dal premier Conte. Panorama il 4 gennaio 2020. Matteo Salvini ha presentato una memoria difensiva (leggi qui il documento) sul caso della nave pattugliatore della Guardia Costiera, Gregoretti, rimasta per giorni al largo delle coste italiane con i suoi 131 migranti; un caso per cui l'ex ministro dell'Interno rischia il processo su richiesta del Tribunale dei Ministri di Catania. Pagine in cui il leader della Lega spiega come la decisione di bloccare la nave fuori dai porti di Catania prima ed Augusta poi sia stata presa non su iniziativa unica ed indipendente del Viminale ma come decisione collegiale dell'interno Governo. L'esatto contrario di quanto va affermando da mesi Giuseppe Conte secondo il quale "non si è mai discusso del caso in Consiglio dei Ministri". Una memoria in cui viene fatto un meticoloso resoconto dell'accaduto, partendo dalla prima segnalazione di un peschereccio italiano, Accursio Giarratano, che alle 03.45 del 25 luglio 2019 individuava il gommone con a bordo i migranti partiti dalla Libia, che chiedevano aiuto. Da quel momento ora dopo ora, giorno dopo giorno, viene illustrato il susseguirsi di informazioni, comunicazioni tra i vari organi competenti, compresa anche gli altri ministri e la presidenza del Consiglio. Nelle osservazioni (a pagina 5) i legali di Salvini spiegano come: "Dalla semplice rassegna cronologica risulta evidente che, secondo una prassi consolidata, della vicenda si è occupato il Governo in modo collegiale, al fine di investire gli Stati membri della Ue della questione della distribuzione dei migranti salvati dalla nave Gregoretti... inoltre, sin dalla tarda mattina del 26 luglio la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha inoltrato formale richiesta di redistribuzione dei migranti...L'intervento collegiale del Governo risulta dalle interlocuzioni intervenute tra i diversi Ministeri competenti con cui venivano forniti aggiornamenti circa la disponibilità degli Stati membri alla distribuzione dei migranti dal Governo italiano..." Queste le carte. La palla ora passa alla Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama che ne discuterà il 20 gennaio.

Caso Gregoretti, Bongiorno attacca Conte: “Ho le prove schiaccianti”. Laura Pellegrini il 30/12/2019 su Notizie.it. Giulia Bongiorno, l’ex ministro della Pubblica Amministrazione ha deciso di difendere Matteo Salvini sul caso Gregoretti e attacca il premier Conte. Infatti, secondo Bongiorno, “la decisione è stata presa nell’interesse pubblico ed era stata condivisa”. Inoltre, la ricostruzione del caso effettuata dal Presidente del Consiglio sarebbe del tutto “enfatizzata” e “irrilevante”. Con queste parole l’ex ministro attacca il premier rivelando anche di avere delle “prove schiaccianti”. Matteo Salvini è pronto ad andare in Tribunale per discutere sul caso Gregoretti, che lo vede accusato di sequestro di persona per “aver privato della libertà personale 131 immigrati a bordo della nave”. Giulia Bongiorno, però, sostiene l’ex ministro e attacca il premier Conte. “Non serve un atto formale in Consiglio dei ministri – ha detto la senatrice -, ciò che conta è la condivisone effettiva di quella scelta e la compartecipazione attiva per trovare una soluzione al problema della redistribuzione dei migranti”. Anche i leghisti sostengono con toni molto tranquilli che “la decisione è stata presa nell’interesse pubblico ed era stata condivisa”. A comprovare tali dichiarazioni vi sarebbero infatti alcuni “documenti che ricostruiscono quei giorni e le varie comunicazioni che intercorsero”. Sarebbero queste quindi le “prove schiaccianti” che Giulia Bongiorno ha detto di aver contro il premier Giuseppe Conte e che potrebbero inguaiarlo. “Ci troviamo di fronte a un caso gemello a quello della vicenda Diciotti. E Conte, da giurista, sa bene che in entrambi i casi si perseguiva l’interesse pubblico”. Infine, l’auspicio di Bongiorno è ad “un voto sulle carte, e non un voto da tifosi”.

Gregoretti, la Lega svela le carte su Conte: "Abbiamo la copia dei contatti". Il premier si chiama fuori: "Il caso Gregoretti mai trattato in Cdm". Ma Salvini ha in mano le carte che lo incastrano: Palazzo Chigi veniva informato di tutto. Andrea Indini, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale.  Sul tavolo del quartier generale della Lega ci sono le carte che inchiodano Giuseppe Conte. Nero su bianco ci sono tutti i contatti intercorsi tra il Viminale e Palazzo Chigi per decidere come redistribuire i 131 immigrati clandestini che si trovano a bordo della nave Gregoretti. Risalgono agli ultimi giorni di luglio. Il funzionario informa i colleghi di aver già incassato il via libera di un Paese del Nord Europa a prendersi una parte degli irregolari e di essere in attesa della disponibilità (già sondata) di altri Stati dell'Unione europea. Alla fine della mail si propone poi di risentirsi dopo il fine settimana per definire meglio l'accordo. Tutti questi passaggi, come molti altri che ora sono in possesso degli uomini di Matteo Salvini, rischiano di inchiodare definitivamente il presidente del Consiglio. Come già in precedenza, quando altri scandali lo hanno travolto, Conte prova a lavarsene le mani e a chiamarsi fuori dalla mischia. A questo giro, dopo l'ennesimo assalto giudiziario per "abuso d'ufficio", lo fa scaricando su Salvini qualsiasi responsabilità della scelta di bloccare la nave Gregoretti davanti al porto di Augusta. In una nota stringata, inviata al Tribunale dei ministri di Catania l'11 ottobre scorso dal segretario generale del governo giallorosso, Roberto Chieppa, Palazzo Chigi mette per iscritto che l'inchiesta sulla Gregoretti differisce da quella aperta su un'altra nave, la Diciotti, che nel 2018 era stata lasciata, dallo stesso Salvini, davanti al porto di Lampedusa per quasi una settimana. Per i giudici del tribunale dei ministri di Catania le due vicende sono pressoché sovrapponibili sia sul piano giuridico sia su quello giudiziario. Tanto che le accuse mosse contro l'ex ministro dell'Interno sono identiche. La reazione dei Cinque Stelle e di Palazzo Chigi è stata, invece, differerente. Mentre a inizio anno avevano votato contro l'autorizzazione a procedere, ora si preparano a dare il via libera al processo. Per Luigi Di Maio e per Conte nel bloccare i 131 immigrati, soccorsi al largo della Sicilia il 25 luglio scorso, Salvini ha agito "per un interesse personale" e non collegialmente come aveva invece fatto quando aveva affrontato il caso della Diciotti. A riprova del fatto Palazzo Chigi spiega che "non figura all'ordine del giorno e non è stata oggetto di trattazione nell'ambito delle questioni 'varie ed eventuali' nel Consiglio dei ministri" del 31 luglio "né in altri successivi". La versione del premier cozza, però, con quella di Salvini. "Ci sono i fatti, le carte, le mail che dimostrano che fu una decisione collegiale - spiega - i decreti sicurezza li abbiamo approvati insieme...". Quindi anche con Di Maio e Conte. "Se poi qualcuno per amor di poltrona cambia idea...", insiste l'ex capo del Viminale. Dal quartier generale del Carroccio fanno sapere che "per risolvere la vicenda Gregoretti ci furono numerose interlocuzioni tra Viminale, presidenza del Consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari" e "il via libera allo sbarco fu annunciato dal ministro dell'Interno, appena conclusi gli accordi per la redistribuzione degli immigrati in una struttura dei vescovi italiani e in cinque paesi europei". Il punto è che non si tratta solo di parole spese nei corridoi della politica. Dopo il colpo basso di Conte, gli uomini di Salvini hanno passato al setaccio i propri uffici e recuperato le mail che inchiodano Palazzo Chigi. Si tratta di numerosi contatti che dimostrano come sia Conte sia Di Maio siano sempre stati coinvolti nella gestione dell'emergenza. Non solo. In quei giorni di fine luglio era stata contattata anche la Cei per sondare la disponibilità ad accogliere un determinato numero di persone. Non a caso il 30 luglio, mentre la nave Gregoretti si trovava ancora davanti al porto di Augusta, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede faceva sapere ai microfoni di In Onda su La7 che era in corso "un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell'Interno e della Difesa". "La posizione del governo è sempre la stessa - puntualizzava, poi, il Guardasigilli grillino - vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevamo scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l'Europa". aggiungendo "ringrazio il presidente Conte che continua a porre la questione nelle cancellerie d'Europa". Al momento tutta la documentazione, che è stata conservata da Salvini e che ora è al vaglio dei legali del Carroccio, non verrà diffusa per evitare di alzare ulteriormente lo scontro. Tuttavia, l'avvertimento a Conte è stato lanciato. E, dal momento che non è la prima volta che il premier viene pubblicamente smentito, un'altra bugia potrebbe costargli davvero cara.

Processare Salvini? I dubbi di Italia Viva. I numeri adesso tornano in bilico. Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 da Corriere.it. Concedere l’autorizzazione procedere per Matteo Salvini indagato per il caso Gregoretti? «Dal punto di vista umano e politico lo abbiamo già giudicato. Dal punto di vista giudiziario i nostri colleghi in giunta per le autorizzazioni leggeranno le carte e valuteranno nel merito cosa fare»: Davide Faraone, esponente di Italia Viva lancia il sasso nello stagno. Il suo partito tiene il giudizio in sospeso riguardo al processo contro l’ex ministro dell’interno e i numeri necessari per l’autorizzazione a procedere sono ora in bilico. Se infatti i renziani diranno no, Salvini potrebbe essere «graziato» dalla giunta per le autorizzazioni a procedere. «Non siamo giustizialisti e non siamo abituati ad utilizzare temi giudiziari per trarre benefici nella lotta politica» aggiunge Faraone . Linea ribadita anche dal deputato Marco Di Maio: leggere le carte e solo dopo decidere. La giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato dovrebbe votare sul caso della Gregoretti (nave della Marina italiana con 131 migranti a bordo alla quale, nel luglio scorso, fu impedito lo sbarco per cinque giorni) il 9 o 10 gennaio. I numeri, come detto, sono molto stretti. In teoria contro Salvini dovrebbero votare l’unica esponente del Pd (Anna Rossomando), 6 grillini, l’ex presidente del Senato Pietro Grasso e l’ex M5S Gregorio De Falco più i tre di Italia Viva. Totale 12 voti. Sul fronte opposto sono schierati Lega (5), Forza Italia (4), Fratelli d’Italia (1, il presidente della giunta Maurizio Gasparri) ai quali potrebbe aggiungersi l’esponente sudtirolese Durnwalder. E farebbero 11. A questo punto se i renziani dovessero farsi da parte, il verdetto verrebbe ribaltato e la giunta non potrebbe dare il via libera al processo contro Salvini. Quest’ultimo, intanto, ribadisce la sua linea di difesa: la decisione di bloccare la nave Gregoretti fu presa collegialmente dal governo, esattamente come era avvenuto nel caso della Diciotti (quando fu negata l’autorizzazione a procedere). «Il senatore Matteo Salvini ha conservato copia delle interlocuzioni scritte avvenute a proposito della Gregoretti - fanno sapere fonti della Lega -. Si tratta di numerosi contatti anche tra ministero dell’Interno, Presidenza del Consiglio, ministero degli Affari Esteri e organismi comunitari. Era stata contattata anche la Cei». Si tratta di una risposta a quanto affermato ieri da Palazzo Chigi secondo il quale l’argomento non fu discusso in consiglio dei ministri e nessuna decisione fu quindi condivisa.

Nave Gregoretti e il processo a Salvini Italia viva ha deciso: «Voteremo per il sì». Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. «Salvini nella sua memoria ci ha spiegato che il caso Gregoretti è identico a quello della Diciotti. Salvini certamente conosce le carte meglio di noi, e se lui dice che i casi sono identici, noi ci comporteremo in modo identico, votando come per la Diciotti a favore dell’autorizzazione al processo contro Salvini». Lo ha detto Ettore Rosato, coordinatore di Italia viva, rispondendo su come si comporterà il partito nel voto in Giunta per le immunità in Senato. Il voto in Giunta è previsto intorno al 20 gennaio. Giovedì 9 ci sarà una nuova seduta dell’organismo di palazzo Madama. La Giunta è chiamata ad esprimersi sulla richiesta del Tribunale dei ministri di Catania a procedere nei confronti di Matteo Salvini, accusato di «sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, dall’abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per avere commesso il fatto anche in danno di soggetti minori di età». L’episodio “incriminato” risale a luglio, poco prima che la Lega aprisse la crisi di governo: l’allora ministro dell’Interno non consentì lo sbarco a 131 migranti rimasti per giorni a bordo della nave militare. Ieri il leader leghista ha depositato la memoria difensiva in Giunta, sostenendo che la decisione di non far sbarcare i migranti è stata una scelta collegiale di tutto il governo e che il ruolo del premier Giuseppe Conte è stato rilevante. Insomma, esattamente - è la linea difensiva - come accadde per la vicenda della nave Diciotti, vicenda su cui il Senato si è espresso “salvando” dal processo Salvini. In quell’occasione i renziani (che erano ancora dentro il Pd, la scissione è successiva) votarono a favore dell’autorizzazione a procedere, ma il titolare del Viminale fu “salvato” dai voti contrari del Movimento 5 stelle, allora alleati di governo.

Appello a Renzi: è folle consegnare Salvini ai Pm. Piero Sansonetti il 20 Dicembre 2019 su Il Riformista. I Cinque Stelle hanno annunciato che voteranno per l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini, accusato dal tribunale dei Ministri di Catania di essere un gangster, e di avere sequestrato 131 persone. Pochi mesi fa avevano votato contro (stesse accuse, stesse procure, stesso Salvini), perché Salvini allora era al governo con loro. Ok. Penso che Giulio Andreotti, se messo a confronto con Di Maio, appaia come un ingenuo idealista. Uomo disinteressato al potere e suggestionato solo dai propri valori. Anche Italia Viva, però, ha annunciato che voterà contro Salvini. Posizione più giustificata di quella dei 5 Stelle, perché Italia Viva votò contro Salvini anche la volta scorsa. Però non è che se uno una volta ha commesso un errore clamoroso deve per forza ripeterlo. La richiesta del tribunale dei Ministri di Catania di procedere contro Salvini per sequestro di persona, motivata dalla sua decisione di non far sbarcare per diversi giorni 131 profughi che erano a bordo della nave Gregoretti in un porto siciliano, è una richiesta assurda. Per tre motivi. Primo: la Procura di Siracusa ha chiesto l’archiviazione delle accuse, perché infondate. Dunque la decisione del tribunale dei Ministri, che ha respinto la richiesta della Procura, è una richiesta evidentemente politica. Si dice: perché Salvini non si fa processare come un cittadino comune? Nessun cittadino comune sarebbe sotto processo, nelle condizioni di Salvini, dopo la richiesta di archiviazione. Secondo motivo: il reato contestato a Salvini (sequestro di persona) è chiaramente sproporzionato e scelto per ragioni puramente spettacolari. Terzo motivo: la scelta del tribunale dei Ministri di Catania di trasformare in questione giuridica una questione squisitamente politica, come la scelta di fare sbarcare o no – e quando fare sbarcare, e a quali condizioni – un gruppo di naufraghi, è una evidentissima invasione di campo che umilia la politica. La magistratura dice: la politica deve sottomettersi alla magistratura e concederle il potere di indirizzo sui governi. Personalmente ritengo le scelte di Salvini sui naufraghi sciagurate. Ma sciagurate non vuol dire delittuose. Possibile che Italia Viva non colga il fatto che questo nuovo attacco giudiziario a un leader politico di primo piano è l’ultimo atto di una offensiva che punta a radere al suolo tutto il potere della politica e il funzionamento stesso dello Stato liberale? Possibile che non veda come la richiesta di condannare a 15 anni di prigione il capo dell’opposizione sia una richiesta di tipo totalitario e fascista? Possibile che non abbia capito il senso del discorso di Matteo Renzi al Senato? Possibile che non intuisca che se si lascia la porta aperta, e si permette alla sopraffazione giudiziaria di entrare nel Palazzo e abbattersi su Salvini, poi non si salverà nessuno? È una domanda che lasciamo lì. Rivolta essenzialmente a Renzi.

Di Maio affonda sulla Gregoretti. Il leader del Movimento 5 Stelle cambia idea: per la Diciotti un pensiero, per la Gregoretti l'opposto. Il tutto per far fuori un avversario politico. Maurizio Belpietro il 20 dicembre 2019 su Panorama. Ci mancava anche il Papa. Siccome sui migranti la confusione non era sufficiente, tra giravolte in Parlamento e iniziative giudiziarie fuori tempo massimo, il Pontefice ha pensato bene di aggiungere anche la sua voce. «Inutile chiudere i porti», ha detto accogliendo un gruppo di profughi in arrivo da Lesbo. Che le sue parole siano arrivate il giorno dopo la richiesta del Tribunale dei ministri di processare Matteo Salvini per aver bloccato una nave carica di extracomunitari (la Gregoretti) è naturalmente un dettaglio, anzi una fortuita coincidenza, ma diciamo che l'intervento sembra dare la benedizione al procedimento della magistratura, dettando la linea alla maggioranza di governo. La quale è curiosamente sostenuta da un partito che si chiama 5 stelle e che l'altroieri, tramite il suo capo politico, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è affrettato a far sapere che dirà sì alla richiesta del Tribunale, dunque consegnando l'ex alleato di governo Matteo Salvini ai giudici. Che lo stesso Di Maio pochi mesi fa avesse annunciato il No grillino per un'identica richiesta avanzata dalla magistratura è naturalmente, come per le parole del Papa, un dettaglio. Se uno sta al governo è naturale che vieti ai pm di perseguire un alleato che siede accanto a lui nel consiglio dei ministri. Se invece sta al governo con altri compagni di viaggio è pure naturale che autorizzi i pubblici ministeri a perseguire in sede penale l'ex alleato, che ora incidentalmente è il capo dell'opposizione oltre che il leader del partito italiano a cui è attribuito il maggior numero di consensi.

Di Maio, servo dell’incoerenza. Andrea Indini su Il Giornale il 19 dicembre 2019. “L’interesse pubblico prevalente non c’era, fu un’azione personale”. A parlare non sono i magistrati che vogliono incastrare Matteo Salvini con il caso della Gregoretti, la nave militare con 131 immigrati clandestini a bordo a cui il Viminale vietò lo sbarco per quattro giorni, ma il forcaiolo Luigi Di Maio che, in barba a quando aveva difeso l’ex alleato leghista dall’inchiesta (identica) sull’affaire Diciotti, ha fatto sapere che trascinerà i suoi uomini a votare “contro l’interesse pubblico prevalente” e a favore del processo. È l’ultima giravolta di un movimento che, da quando ha deciso di andare a braccetto con il Partito democratico, ha rispolverato il proprio livore manettaro. Una cattiva attitudine che, quando sedevano al governo col Carroccio, avevano fortunatamente abbandonato, ma che ora si trovano a impugnare nuovamente per rimanere attaccati alla poltrona. Il 20 gennaio, meno di una settimana prima del voto cruciale per l’Emilia Romagna e, in seconda battuta, per le sorti del governo giallorosso, l’Aula di Palazzo Madama sarà chiamata a esprimersi (ancora una volta) su Salvini. Il quesito è semplice: deve essere processato o no per aver vietato alla Gregoretti di far sbarcare 131 irregolari partiti dalle coste libiche. Il caso risale all’estate scorsa ed è la fotocopia di quando, l’anno prima, il ministro leghista aveva bloccato un’altra nave italiana, la Diciotti, lasciando 177 immigrati in mare per sei giorni. A inizio anno il Senato aveva negato l’autorizzazione a procedere, anche con i voti dei parlamentari grillini. Oggi, invece, Di Maio si frega le mani e si prepara a far votare a favore. Cosa è cambiato? “Il caso Diciotti fu un atto di governo perché l’Unione europea non rispondeva e servì ad avere una reazione, che poi arrivò”, ha spiegato ieri uscendo dagli studi di Porta a Porta. “Quello della Gregoretti, dopo un anno, fu invece un atto di propaganda, perché il meccanismo di redistribuzione era già rodato e i migranti venivano redistribuiti in altri Paesi europei – ha concluso – è questa la differenza enorme tra i due casi, la differenza enorme tra la realtà e la bugia”. La verità è un’altra. A gennaio, quando il Senato si era espresso sulla Diciotti, il Movimento 5 Stelle sedeva al governo con la Lega. Adesso è a tavola con un altro commensale: il Partito democratico. E, quindi, disco verde alle manette. Anche se, come fa notare Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, “sul piano giuridico e giudiziario le due vicende sono quasi perfettamente sovrapponibili”. Non a caso a mordere le calcagna di Salvini sono gli stessi giudici del tribunale dei ministri di Catania (Nicola La Mantia, Paolo Corda e Sandra Levanti) che lo volevano inchiodare per la Diciotti e per un altro caso ancora, quello della nave Sea Watch. L’accusa è sempre la stessa: aver “bloccato la procedura di sbarco dei migranti”. Aver cioè difeso i confini del nostro Paese dall’ingresso di irregolari. Se per Di Maio, fino a qualche mese fa, la difesa dei confini era tollerata per tenersi stretta la sedia, per lo stesso motivo adesso non la tollera più e se ne va in tivù ad accusare l’ex alleato di non aver rispettato (inesistenti) accordi con Bruxelles che avrebbero provveduto all’immediata redistribuzione degli immigrati a bordo. Fantapolitica. Tanto che il deputato leghista Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno col ministro Salvini, non si fa troppi problemi a definirlo “un piccolo uomo”. E come dargli torno?

Di Maio ominicchio. Ora il leader del M5S accoltella Salvini. Aveva detto: processateci tutti. Alessandro Sallusti, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. «Ci sono gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà» fa dire Leonardo Sciascia a uno dei protagonisti del suo celebre romanzo Il giorno della civetta. È una classificazione del genere umano che ha fatto storia e che ha ancora una sua attualità a sessanta anni da quando fu coniata. Al punto che può essere utile per chiedersi a quale categoria di uomini appartenga Luigi Di Maio, dopo che si è dichiarato favorevole a vendere ai magistrati il suo ex amico e collega di governo Matteo Salvini.

Breve riassunto. Nell'agosto del 2018, governo gialloverde appena insediato, Salvini blocca al largo della Sicilia la nave militare Diciotti, con il suo carico di immigrati raccolti in mare. Poco dopo i giudici chiedono di poter indagare il leader leghista per sequestro di persona ma Di Maio e Conte si ergono a scudi umani: «È stata una decisione politica di tutto il governo, consenso negato» Passa un anno, luglio 2019. Salvini rifà la stessa identica cosa con la nave Gregoretti e oggi la magistratura richiede al parlamento di processarlo. Non essendo più un suo alleato, Di Maio dà il via libera: «È un fatto grave, se ne assuma la responsabilità». Ora Salvini rischia grosso: fino a 15 anni di galera, la conseguente decadenza da senatore e la non agibilità politica. Ma oggi non è questo il problema. Il problema è come fa un ministro della Repubblica e leader di partito parlo di Di Maio - a considerare la stessa ipotesi di reato «inesistente» se commessa quando la persona in questione era alleato di governo e «grave» se l'accusato è nel frattempo diventato avversario politico. E qui entra in ballo la classificazione di Sciascia, perché non stiamo parlando di politica ma del valore di un uomo, della sua coerenza, dei suoi valori. E se uno non è uomo e neppure mezzo uomo, ma nell'ipotesi migliore un ominicchio, che usa le leggi in base alla convenienza personale, ominicchio lo sarà sempre e in qualsiasi campo pubblico e privato. A me non preoccupa che fine farà Matteo Salvini, mi inquieta che il Paese sia finito nelle mani di gente così e che gente così amministri la giustizia in combutta con magistrati compiacenti e riverenti. Politicamente, Di Maio, non l'ho mai capito, ma ci sta. Ma da oggi ha anche, per il poco che vale, il mio disprezzo umano e spero che Conte premier e quindi complice di Salvini all'epoca del caso Gregoretti non lo segua in questa schifosa operazione.

·        Giù le mani dalla Polizia…

Gabrielli shock contro Salvini: "Usa sfintere di un altro". Poi si scusa: "Amareggiato". Il capo della polizia ad un convegno polemizza con la Lega. "In un Paese normale ci avrebbero preso a calci nel sedere". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. "A volte la mattina guardandomi allo specchio mi stupisco di come sia potuto arrivare a fare il Capo della polizia con la lingua che mi ritrovo". Chissà se nel pronunciare questa frase Franco Gabrielli si era reso conto di aver messo un piede oltre la sottile linea che divide il campo della politica da quello riservato ai servitori dello Stato. Perché non capita spesso di sentire il vertice degli agenti polemizzare con il leader di un partito di opposizione usando parole tipo "sfintere" o locuzioni proverbiali (ma poco educate) quali "Grazia, Graziella e…". L'Italia è un Paese strano. Ma questa è davvero una novità. Anche se lui stesso alla fine ammette di essere "amareggiato" per la "polemica strumentalmente creata" e si scusa "se tutto ciò può avere suscitato una comprensibile amarezza". Ma torniamo al 24 febbraio, quando Gabrielli è tra gli ospiti del IV seminario formativo per dirigenti sindacali organizzato dal Coisp. All'hotel Massimo D’Azeglio di Roma si parla dei valori delle divise, di integrità, impegno, responsabilità ed affidabilità. Durante il suo discorso, Gabrielli vira sulla spinosa questione della chiusura dei presidi della polizia stradale. Il tema è scottante e motivo di scontro politico. Oltre ai sindacati, anche Matteo Salvini ha più volte attaccato l'attuale governo per aver previsto la soppressione di una ventina di uffici della Polstrada tra cui il distaccamento di Casalecchio di Reno, entrato nella campagna elettorale in Emilia Romagna e diventato bandiera della battaglia leghista contro i sigilli. Del discorso del capo della polizia, IlGiornale.it è venuto in possesso (guarda qui) della parte in cui il prefetto non le manda a dire e critica apertamente la Lega. Gabrielli è convinto di aver visto "cose scandalose". Difende la riorganizzazione del dipartimento. Mostra i numeri di Casalecchio di Reno, dove i nove agenti impiegati nell'ultimo anno hanno realizzato appena 20 multe. E stronca la linea leghista che ne contesta la chiusura ("In un Paese normale ci avrebbero già preso a calci nel sedere"). Poi cita espressamente Salvini e l'ex sottosegretario Nicola Molteni, con reprimende frontali dai toni piuttosto coloriti. La Lega al governo non ha chiuso gli uffici? “Beh: grazie, Graziella e…”, dice Gabrielli lasciando in sospeso il famoso detto. E sulla richiesta di inviare più personale, aggiunge: "Ah si? Tua sorella. O tuo cugino". Non mancano lodi al ministro Lamorgese per aver concesso 1600 uomini in più, e parole di fuoco sulla soppressione delle specialità: "Lo avevo detto al ministro (...). Non puoi dire Le squadre nautiche non si toccano e poi non cambi la norma. Perché in quel momento ti comporti in un certo modo utilizzando lo sfintere di un altro". Non proprio toni istituzionali. Non è la prima volta che i due si scontrano. Nel 2016 Salvini chiese di "licenziare" l'allora prefetto della Capitale per alcune affermazioni sui "farmaci nordici" per Roma. Poi lo scontro si è ripetuto sulle magliette della polizia indossate dal leghista, sull'omicidio di Luca Sacchi e sul citofono al Pilastro. Stavolta però è diverso. Nel pomeriggio infatti Molteni si dice “stupito” e Salvini “rammaricato” per i toni “sgradevoli e ben poco istituzionali", anche se il leader si mostra pronto ad accettare le scuse per chiudere la polemica.

Il ragionamento che il Capo della polizia fa di fronte al sindacato è questo: alle promesse politiche devono sempre seguire le misure necessarie a mantenerle. Gabrielli parla addirittura di "truffa" dell'amministrazione sull'apertura - sollecitata dal governo gialloverde - di "nuovi uffici per 11.200 unità" mantenendo però "gli organici sempre immodificati". Una "truffa", dice il prefetto, che "non mi appartiene". Il riferimento sembra essere al piano approvato ad agosto 2019 dal duo Salvini-Molteni che prevedeva l'apertura di 50 presidi di polizia in 14 città metropolitane. In fondo è solo a loro due che può alludere quando critica la scelta di "istituire la questura di Monza e Brianza" per poi dire, come fatto dal Carroccio, che il vicino presidio della stradale di Seregno deve rimanere "in piedi". "Io appartengo alla scuola di chi pratica l'etica della responsabilità", dice Gabrielli. Bene. Secondo la regola di Max Weber, per "ogni azione" vanno poi considerate le sue "conseguenze". E alla fine è lo stesso Gabrielli a metter fine alla polemica: "Il clamore suscitato da frasi rubate in un contesto privato amareggiano per primo me perché mai ho voluto esprimere un giudizio sull’operato del senatore Salvini e dell’onorevole Molteni, che non mi compete, riconoscendo, al contrario, di avere avuto con loro una ottima collaborazione", dice, "Al pari del Senatore Salvini ritengo chiusa la polemica, strumentalmente creata, e mi scuso se tutto ciò può avere suscitato una comprensibile amarezza".

La precisazione del Coisp. In una lettera inviata al Giornale, il segretario del Coisp, Domenico Pianese, ha precisato: "Il video, non realizzato né diffuso dal sindacato di cui sono segretario generale, concerne le dichiarazioni del Capo della Polizia espresse nell'ambito del saluto formulato in occasione della inaugurazione della nuova sede del Coisp a Roma. Non si trattava di un convengo aperto al pubblico ma di una riunione ristretta in ambito esclusivamente sindacale. Il linguaggio informale - continua Pianese - connotato dalla cornice sindacale, ha toccato tematiche ripetutamente sollevate nelle ultime settimane concernenti la riorganizzazione dei presidi territoriali delle specialità della Polizia di Stato. In particolare, il Capo della Polizia, nel richiamare le ripetute critiche, da più parti, sollevate contro l'accorpamento di alcuni uffici sul territorio ha inteso rimarcare che tali dolorose iniziative sono da ricondursi al mancato aumento dell'organico, auspicato nel corso del precedente governo". E ancora: "Nel medesimo contesto il Capo della Polizia ha, inteso sottolineare ''l'ottimo rapporto instaurato con il Ministro Salvini e il sottosegretario Molteni''. Dunque, le frasi estrapolate dal contesto del discorso, durato oltre trenta minuti, ne stravolgono completamente il senso".

Franco Gabrielli, il video rubato: "Calci nel sedere". Durissimo con Salvini, poi le scuse e la rettifica. Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. "A volte la mattina guardandomi allo specchio mi stupisco di come sia potuto arrivare a fare il Capo della polizia con la lingua che mi ritrovo". Il 24 febbraio l'attuale Capo della polizia Franco Gabrielli è stato tra gli ospiti del IV seminario formativo per dirigenti sindacali. Durante il suo discorso sulla questione della chiusura dei presidi della polizia stradale polemizza aspramente con Matteo Salvini e l'ex sottosegretario agli Interni, Nicola Molteni.

IlGiornale.it è venuto in possesso della parte in cui Gabrielli non le manda a dire e critica apertamente la Lega. Il prefetto stronca la linea leghista ("In un Paese normale ci avrebbero già preso a calci nel sedere"). Poi cita espressamente Salvini e l'ex sottosegretario Nicola Molteni, con reprimende frontali dai toni piuttosto coloriti. La Lega al governo non ha chiuso gli uffici? “Beh: grazie, Graziella e…”, dice lasciando in sospeso il famoso detto. E sulla richiesta di inviare più personale, aggiunge: "Ah si? Tua sorella. O tuo cugino". Non mancano lodi al ministro Lamorgese per aver concesso 1600 uomini in più. Pronta la replica di Nicola Molteni: "Sono stupito: dopo 14 mesi di lavoro al ministero non avremmo mai immaginato una polemica di questo tipo, per i contenuti e per le espressioni utilizzate. Siamo orgogliosi dei risultati ottenuti dalla Lega al governo, e in particolare del piano di assunzioni per migliaia di donne e uomini in divisa, con 3mila nuovi agenti entro aprile 2020 più altri 1.500 ingressi frutto di concorso”. Dunque, parlando delle soppressioni delle specialità, Gabrielli afferma: "Non puoi dire le squadre nautiche non si toccano e poi non cambi la norma. Perché in quel momento ti comporti in un certo modo utilizzando lo sfintere di un altro". Parole pesantissime.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente precisazione del Coisp, sindacato di Polizia: Caro Direttore, mi consenta di fornirle alcune precisazione in ordine all’articolo redatto da Giuseppe De Lorenzo e pubblicato sul Suo giornale on line e relativo all’intervento del Capo della Polizia nel corso di un incontro con il Sindacato di Polizia COISP. Il video, non realizzato né diffuso dal Sindacato di cui sono Segretario Generale, concerne le dichiarazioni del Capo della Polizia espresse nell’ambito del saluto formulato in occasione della inaugurazione della nuova sede del COISP a Roma. Non si trattava di un convengo aperto al pubblico ma di una riunione ristretta in ambito esclusivamente sindacale. Il linguaggio informale, connotato dalla cornice sindacale, ha toccato tematiche ripetutamente sollevate nelle ultime settimane concernenti la riorganizzazione dei presidi territoriali delle specialità della Polizia di Stato. In particolare, il Capo della Polizia, nel richiamare le ripetute critiche, da più parti sollevate contro l’accorpamento di alcuni uffici sul territorio, ha inteso rimarcare che tali dolorose iniziative sono da ricondursi al mancato aumento dell’organico, auspicato nel corso del precedente governo. Nel medesimo contesto il Capo della Polizia ha inteso sottolineare “l’ottimo rapporto instaurato con il Ministro Salvini e il sottosegretario Molteni”. Dunque, le frasi estrapolate dal contesto del discorso, durato oltre trenta minuti, ne stravolgono completamente il senso.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente precisazione del prefetto Franco Gabrielli. Il clamore suscitato da frasi rubate in un contesto privato così, come ha precisato il segretario generale del Coisp Domenico Pianese, amareggiano per primo me perché mai ho voluto esprimere un giudizio sull’operato del Senatore Salvini e dell’Onorevole Molteni, che non mi compete, riconoscendo, al contrario, di avere avuto con loro una ottima collaborazione. Al pari del Senatore Salvini ritengo chiusa la polemica, strumentalmente creata, e mi scuso se tutto ciò può avere suscitato una comprensibile amarezza.

Gabrielli, macché frasi rubate. ​Il video era pubblicato online. Bufera sul capo della polizia. Lui: "Frasi rubate". Ma era tutto su Facebook. La Lega attacca: "Il governo non dice nulla?" Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Fermi tutti, c'è bisogno di una precisazione. E senza fare troppi voli pindarici, lo diremo direttamente: il video in cui si vede Franco Gabrielli rivolgersi a Matteo Salvini con espressioni "colorite" non è stato "rubato", come si è cercato di far credere in queste ore. Non dal Giornale.it, ovviamente. Ma nemmeno da altri. Perché il filmato finito al centro della bufera che si è scatenata sul Capo della Polizia era stato pubblicato sui social network, per poi essere stranamente rimosso. Breve riassunto dello scoop del Giornale.it. Lo scorso 24 febbraio il prefetto va ad un seminario organizzato dal sindacato Coisp e viene invitato a parlare. Gabrielli tiene un discorso di "oltre trenta minuti" e a un certo punto tocca la spinosa questione della riorganizzazione dei presidi della Polizia di Stato. Il tema è scottante perché sia i sindacati che la Lega sono contrari al piano di chiusure disposte dal Viminale a guida Lamorgese. Il prefetto la pensa diversamente e non lo manda a dire. Afferma che "in un Paese normale ci avrebbero già preso a calci nel sedere". Parla della "truffa che l'amministrazione ha fatto, realizzando uffici nuovi per 11.200 unità mantenendo gli organici immodificati". Critica la decisione di "istituire la questura di Monza e Brianza" (inaugurata da Salvini) per poi contestare, come fa il Carroccio, la chiusura del vicino presidio di Seregno. E alla fine nomina espressamente l'ex ministro dell'Interno e l'onorevole Molteni, criticandone le scelte con toni piuttosto coloriti. La Lega non ha chiuso gli uffici di polizia? "Beh, grazie, Graziella...", dice Gabrielli. Che poi tra le altre cose aggiunge: "Avevo chiesto che per non tagliare uffici avremmo avuto bisogno di più uomini", perché i conti si fanno col personale a disposizione e non dicendo "ah, gli uffici non chiuderanno". E infine: "Non puoi dire Le squadre nautiche non si toccano e poi non cambi la norma. Perché in quel momento ti comporti in un certo modo utilizzando lo sfintere di un altro". Bene. Ieri sia Salvini che Molteni si sono detti "stupiti" dai "toni sgradevoli" usati da Gabrielli. Il capo della Polizia si è scusato, e sembrava che la polemica fosse finita lì. Ma non è così. Il prefetto infatti ha parlato di "frasi rubate in un contesto privato" e di "polemica strumentalmente creata". Il segretario generale del Coisp Domenico Pianese, invece, ha visto dichiarazioni "estrapolate dal contesto" che avrebbero "stravolto il senso" del discorso. In realtà, ilGiornale.it ha pubblicato il video integrale dell'intervento di Gabrielli, quindi bastava guardarselo tutto. E soprattutto il documento non è stato affatto "rubato". Certo, non si trattava di un convegno aperto al pubblico, ma il filmato è stato caricato sulla pagina Facebook del Coisp Roma. Così come un altro spezzone di video, con un'altra parte di intervento, si poteva trovare sui social del Coisp Molise. Entrambi i file ora non sono più reperibili. Ma c'erano. Una domanda sorge spontanea: ma è normale che il capo della polizia si rivolga in quel modo a un partito di opposizione, di fronte ad una platea, benché in un contesto "riservato"? Secondo il Carroccio, non proprio. E infatti stamattina è tornato alla carica, lamentando pure il "silenzio del governo" e del ministro Luciana Lamorgese. Per l'ex sottosegretario Stefano Candiani, il prefetto non stava parlando "nel salotto di casa", ma di fronte a sindacalisti e poliziotti. Dunque "sorprende" che "cerchi di giustificarsi distinguendo tra contesto pubblico e privato" come se "l'importante non fosse la lealtà e la correttezza verso l'istituzione, quanto invece fare buon viso di fronte e parlare male alle spalle". Un atteggiamento definito "né leale né decoroso". Per ora non sono arrivate richieste di dimissioni, ma il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, ha annunciato un'interrogazione parlamentare. "È sorprendente", dice, che Gabrielli "si lasci andare a commenti polemici e coloriti nei confronti del leader del primo partito italiano".

Gabrielli, è bufera sulle frasi shock. E ora il governo lo difende pure. Salvini all'attacco: "Agenti meritano guida adeguata". Pd e M5S si schierano con Gabrielli. Lamorgese: "Ha la mia fiducia". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. Uno dietro l'altro, Pd e M5S si schierano a difesa di Franco Gabrielli. Lo scoop del Giornale.it tiene ancora banco e divide la politica. Mentre il Coronavirus imperversa, e la maggioranza annaspa alla ricerca di risorse per l'economia nostrana, le forze politiche si spaccano sulle parole choc del capo della Polizia. Nessuna solidarietà al Carroccio, né reprimende al prefetto per aver usato espressioni "colorite" parlando di un partito di opposizione. Anzi: Pd e M5S esprimono "pieno sostegno" a Gabrielli e denunciano "l'attacco sguaiato" di Salvini. In una conferenza stampa alla Camera, il leader della Lega è tornato oggi sul discorso tenuto da Gabrielli lo scorso 24 febbraio durante un seminario del Coisp all'Hotel Massimo D'Azeglio di Roma. "Penso che il massimo dirigente della pubblica sicurezza in questo Paese, quando parla, dovrebbe parlare in maniera diversa, al di là delle persone, ma nel rispetto dei ruoli e della verità storica - ha detto Savini - Mi dispiace enormemente anche a nome dei 90mila poliziotti che meritano una guida adeguata". Se non si tratta di una richiesta di dimissioni, poco ci manca. E infatti immediata scatta levata di scudi della maggioranza in difesa di Gabrielli. Nicola Morra parla di attacchi "vergognosi e pericolosi" di Salvini, che così facendo "minaccia la sicurezza nazionale". Per Vito Crimi, invece, il leghista ha "oltrepassato il segno" creando "una grave polemica ad arte". Il capo politico grillino difende senza appelli Gabrielli, cui rinnova la fiducia "senza esitazione alcuna", derubricando a "qualche frase colorita usata in una discussione privata" le frasi choc pronunciate dal prefetto di fronte ad una platea di poliziotti e sindacalisti. Solidarietà al Capo della Polizia arriva anche dal Pd. Il responsabile alla Sicurezza, Carmelo Miceli, biasima gli "attacca sguaiati" del leader del Carroccio. Per Roberta Pinotti le parole di Salvini nei confronti di un "servitore dello Stato" sono "gravi". Ed Emanuele Fiano ribadisce la linea (errata) del "video rubato ad una riunione privata", nonostante ilGiornale.it abbia già precisato che il filmato in questione è stato pubblicato sui canali social del Coisp Roma. Sorprende, comunque, che dal parte del Partito Democratico non sia arrivato neppure un commento sull'opportunità che il Capo della Polizia, in un contesto privato o meno, si prenda la briga di sferzare apertamente un leader politico. Anzi: per Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori Pd, Salvini "non può delegittimare un servitore dello Stato solo perché lo critica". Domanda: e se fosse successo a partiti inversi? Da via Bellerio, intanto, trapela l'irritazione del Carroccio per un nuovo audio - pubblicato da La Verità - "con nuovi commenti" di Gabrielli che ricalcano "nei contenuti e nei toni quelli che l'ex prefetto di Roma aveva usato davanti al sindacato Coisp e riportati pochi giorni fa da il Giornale". Ma è soprattutto la difesa a spada tratta messa in campo da Pd e M5S a sorprendere: "L'Italia non è un Paese normale", dice Stefano Candiani. E mentre il capogruppo Massimiliano Romeo sferza gli aversari che "sono specializzati nel difendere l'indifendibile", molti nel Caccoccio si chiedono: "È normale l’atteggiamento del capo della Polizia?". Per il ministro dell'Interno forse sì. Infatti a chi le chiede un commento sulle frasi del prefetto contro Salvini, Luciana Lamorgese si limita a ribadire che "Gabrielli gode della mia piena fiducia e di quella dei suoi uomini". Senza però mai entrare nel merito dei vari "sfintere", "grazie, Graziella" e "calci nel sedere".

GIU’ LE MANI DALLA POLIZIA! (DIRE il 3 marzo 2020) - "Le parole di Gabrielli? Credo che il massimo dirigente di pubblica sicurezza debba parlare in modo diverso. Mi dispiace, a nome dei 90mila poliziotti, che meritano una guida adeguata". Così Matteo SALVINI in conferenza alla Camera .

(LaPresse il 3 marzo 2020) - "Non consentiamo a nessuno di mettere il cappello sulla Polizia di Stato. Le istanze dei poliziotti sono portate avanti dai sindacati maggiormente rappresentativi e non abbiamo bisogno di leader politici che si ergano a loro portavoce". Così Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di Polizia Coisp, commenta le dichiarazioni di Matteo Salvini sul capo della Polizia Franco Gabrielli. "La guida del Dipartimento della Pubblica Sicurezza non poteva essere affidata a un figura migliore del Prefetto Gabrielli: la storia personale e i risultati conseguiti nella lotta alle Brigate Rosse e a ogni altra forma eversiva e criminale parlano per lui e meritano rispetto. Non accettiamo lezioni da chi immagina la Polizia di Stato come un’enclave personale da agitare nel dibattito politico", conclude. 

(ANSA il 3 marzo 2020) - "Un leader politico che avesse il minimo senso dello Stato e dopo aver espletato le delicate funzioni di Ministro dell'Interno, non dovrebbe cercare di minare la legittimazione del Capo della Polizia perché questo modo di agire erode la credibilità delle istituzioni e del delicato sistema della sicurezza nazionale, specie dopo aver avuto al suo fianco il Prefetto Franco Gabrielli e usufruito della sua grande professionalità, serietà, competenza e senso delle istituzioni". Lo dice il segretario del Siap Giuseppe Tiani dopo le critiche di Matteo Salvini al capo della Polizia. "Il paese e una classe politica seria e affidabile dovrebbero ringraziare l'operato del Prefetto Gabrielli e dei suoi poliziotti che, tra l'altro non hanno delegato Salvini a rappresentarli - aggiunge Tiani - per avere in questi anni difficili senza risorse (a parte le chiacchiere) e in piena emergenza terrorismo di matrice fondamentalista, aver servito lo Stato con grande professionalità ed affidabilità". Gabrielli, conclude il Siap, "non può essere trascinato in polemiche politiche dal colorito linguaggio populistico che producono solo una deludente forma di 'nichilismo' della politica". "Non sta a Salvini decidere chi ci deve rappresentare. Anche quando non abbiamo condiviso alcune posizioni di Gabrielli abbiamo sempre riscontrato in lui un interlocutore leale con elevato senso istituzionale". Lo dice il segretario del Silp-Cgil Daniele Tissone dopo le critiche di Salvini al capo della Polizia sottolineando la "necessità di affrontare e risolvere i problemi dei poliziotti a partire dal rinnovo del contratto e l'incremento degli organici". Richieste "sacrosante e legittime che - aggiunge Tissone - il precedente ministro dell'interno Matteo Salvini non ha mai avuto l'onestà politica e intellettuale di affrontare e risolvere". "Un'operazione del tutto strumentale" quella fatta nei confronti di Franco Gabrielli con l'obiettivo di "rimuovere un Capo che, avendo brillantemente guidato la Polizia di Stato e il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, è oramai diventato una figura ingombrante". Lo sostiene, in una nota, Felice Romano, segretario generale del Siulp dicendosi convinto che l'ex Ministro dell'Interno Matteo Salvini "sia perfettamente estraneo a questa deprecabile manovra". "Sarebbe opportuno comprendere chi sia il corvo che - aggiunge - ha ispirato tale squallida operazione, i motivi reconditi che lo stanno ispirando considerato che sta dimostrando sicuramente di non aver nessun rispetto per le istituzioni, soprattutto in questo clima di emergenza da coronavirus e non solo. Minare la credibilità della Polizia di Stato, screditando il suo massimo rappresentante, è miope e irresponsabile, ecco perché rispediamo al mittente chi sta ordendo tale operazione.

Edoardo Izzo per La Stampa.it il 3 marzo 2020. Un nuovo audio incrina ancor di più il difficile rapporto tra il capo della Polizia, Franco Gabrielli, e il suo ex ministro, Matteo Salvini. «È facile usare lo sfintere degli altri», commenta Gabrielli in riferimento al piano per l'apertura di nuovi presidi di polizia voluto dall'allora ministro dell'Interno. Un pensiero, quello del capo della Polizia, - pubblicato su La Verità - che sarebbe stato registrato in un incontro a ottobre con le sigle sindacali. Pur senza mai citarlo, ma parlando di «un uomo politico potente», Gabrielli parla della «differenza tra ciò che si vuole e ciò che si può fare». Non è il primo audio di Gabrielli che fa discutere. Già precedentemente il capo della Polizia aveva criticato l'ex ministro e anche in quel caso la conversazione era finita sugli organi di stampa. A stretto giro è arrivato il commento del leader della Lega. «Lontano da ogni spirito polemico, mi sembra sia già il secondo. - ha detto Salvini nel corso di una conferenza stampa -. Penso che il massimo dirigente della pubblica sicurezza in questo Paese, quando parla, dovrebbe farlo in maniera diversa, al di là delle persone, ma nel rispetto dei ruoli e della verità storica». «Mi dispiace enormemente anche a nome dei 90mila poliziotti che meritano una guida adeguata», ha detto ancora Salvini riferendosi a Gabrielli. Subito dopo è arrivato l'intervento dell'attuale ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese: «Il capo della polizia Franco Gabrielli gode della mia piena fiducia e di quella dei suoi uomini. Il suo impegno e il suo lavoro mostrano la piena adeguatezza al ruolo ricoperto». «In un momento così delicato per l'Italia, gli attacchi di Salvini al capo della polizia, il prefetto Gabrielli, risultano vergognosi e pericolosi. Salvini non ha il senso dello Stato e delle Istituzioni». È il commento del presidente della commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra. Diversi i commenti anche da parte dei sindacati di polizia, a difesa del loro capo. «Non sta a Salvini decidere chi ci deve rappresentare», sottolinea Daniele Tissone, segretario del Silp Cgil, ricordando che «anche quando non abbiamo condiviso alcune posizioni di Gabrielli abbiamo sempre riscontrato in lui un interlocutore leale con elevato senso istituzionale». C'è delusione invece in casa Lega. «Siamo amareggiati, perché dopo 14 mesi di stretta collaborazione al governo non ci saremmo mai aspettati simili attacchi e simili volgarità. E ci stupisce la reazione della maggioranza che cerca di far passare Gabrielli per vittima. Pd e 5Stelle ribaltano la realtà», dice il senatore leghista, Gian Marco Centinaio.

·        La Questione Morale.

Da globalist.it il 14 agosto 2020. "A me interessano relativamente poco i 600 euro incassati da 4 furbetti. Mi interessano di più i 49 milioni di euro. Dove sono finiti? Salvini sa dirmelo? No perché, a volerla dire tutta, in quel gruzzolo ci sarebbero anche i miei, di soldi, quelli di un architetto che ha pagato le tasse per tutta la vita". A parlare, in un'intervista a Repubblica, è Giuseppe Leoni, storico membro della Lega della prima ora, quella bossiana, che va all'attacco di Matteo Salvini e della sua nuova Lega, senza quel Nord che per Leoni ne rappresentava l'identità e lo scopo: "Non c'entra nulla con le nostre tradizioni. Hanno cambiato  nome, hanno stravolto le cose. Qui a Varese, dove vivo, la tensione è molto alta. Più del 50 per cento dei tesserati ha  rinunciato a rinnovare l’iscrizione al partito di Salvini. Non sono interessati a quella roba lì. E vogliono adesso tornare a fare politica sotto i vecchi simboli. Non coi traditori". Traditori perché "hanno soffocato lo spirito autonomista che soffiava dentro la Lega Nord. Noi avevamo un progetto federalista. Matteo Salvini ha scambiato il concetto di  federalismo con quello di federale fascista. Penso che si accorgeranno presto dell’errore compiuto. Quel che mi spiace e mi stupisce è che non dicano nulla coloro che hanno portato avanti il progetto di Bossi e che ora sono vicini al leader, da Giorgetti a Calderoli".

Aldo Grasso per "corriere.it" il 14 agosto 2020. Il senatore della Lega Roberto Calderoli ha una strana teoria sulla doppia preferenza di genere e l’ha voluta spiegare nell’aula del Senato durante un dibattito sulle misure per attenuare lo squilibrio tra eletti maschi ed elette femmine. Ecco le sue parole: «La doppia preferenza di genere danneggia il sesso femminile perché normalmente il maschio è maggiormente infedele del sesso femminile… il maschio solitamente si accoppia con quattro cinque rappresentanti del gentil sesso, cosa che la donna solitamente non fa. Il risultato è che il maschio si porta il voto di quattro cinque signore, e le signore si ripartiscono e non vengono elette». Applausi dalla parte destra dell’emiciclo. Teoria sessista? Frase infelice? Porcellum bis? Analisi avventata, come quelle a cui il senatore ci aveva abituati in passato? Bisognerebbe chiederlo a sua moglie, l’europarlamentare leghista Gianna Gancia. Probabile che lo assolva perché, intanto, la bêtise è diventata condizione umana, benzina psichica. Alla stupidità abbiamo tutti sacrificato qualcosa di essenziale; chi più, chi meno. La stupidità infatti è connessa al mondo del pensiero ma lo è ancora di più a quello della comunicazione: se avessimo scarse possibilità di esprimerci resterebbe confinata al carattere di certe idee. Così, invece, ha moltiplicato le occasioni per realizzarsi.

Adalberto Signore per “il Giornale” il 14 agosto 2020. Dopo il Covid e la gestione del lockdown, ci si è messa pure la questione morale a rendere ancora più profondo il solco che separa Matteo Salvini e Luca Zaia. Una distanza politica ed umana tenuta sempre accuratamente sotto traccia, ma che, con il passare dei mesi, rischia di sfociare in conflitto aperto. Non oggi, certo. Perché, a 37 giorni esatti dalle elezioni regionali, non avrebbe alcun senso e non gioverebbe a nessuno. Ma, magari, in autunno, quando il Doge - così lo chiamano i suoi - succederà per la terza volta a se stesso alla guida del Veneto. A quel punto, chissà, pure uno niente affatto avvezzo alle polemiche pubbliche come Zaia potrebbe decidere di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Soprattutto dopo le tensioni degli ultimi giorni. Ma andiamo con ordine. Gli ultimi mesi, è cosa nota, sono stati difficili in Lega. Con un Salvini perennemente in ansia per il calo di consensi e la contemporanea avanzata su scala nazionale di Fratelli d'Italia. Un quadro nel quale lo strapotere del governatore del Veneto non ha fatto che aumentarne le preoccupazioni. Non tanto per i rumors che lo danno come possibile competitor interno del leader, quanto per il fatto che i due hanno profili completamente opposti. E un successo elettorale di Zaia non farebbe che confermare i dubbi che in molti iniziano ad avanzare sulle ultime mosse di Salvini. Con la gestione dell'emergenza Covid-19, infatti, il governatore del Veneto ha confermato il suo profilo istituzionale, molto pragmatico e quasi mai disposto alle polemiche spicce da talk show. Esattamente il contrario dell'approccio antisistema di Salvini. Di esempi ce ne sono in abbondanza, ma il più significativo è la querelle sull'uso delle mascherine. Mentre Zaia non l'ha mai messo in dubbio, l'ex ministro dell'Interno si è mosso in maniera ondivaga, presenziando alle riunioni dei cosiddetti «negazionisti» del Covid e teorizzando allegramente che la mascherina non aveva alcuna utilità (salvo poi, per fortuna, tornare sui suoi passi). Così, con il passare dei mesi, la distanza tra i due si è andata ampliando. Fino alle ultime settimane, quando Salvini ha imposto al governatore di candidare gli assessori uscenti nella lista della Lega e non in quella «Zaia presidente». Non un dettaglio, visto che l'obiettivo è quello di evitare che in Veneto la lista personale del governatore superi anche questa volta quella del Carroccio. Cinque anni fa andò esattamente così: 23% una e 17,8% l'altra. Un risultato che, dovesse ripetersi alle Regionali del 20 e 21 settembre, avrebbe un diverso valore politico. Non solo confermerebbe che in Veneto Zaia da solo vale più della Lega, ma, in qualche modo, certificherebbe che un pezzo fondamentale del Nord produttivo non ha gradito la svolta nazionale che Salvini ha voluto imporre al partito. Ecco perché, raccontano in Lega, l'ex ministro dell'Interno non si sarebbe strappato le vesti per il coinvolgimento dei tre consiglieri regionali veneti nella vicenda dei bonus da 600 euro riconosciuti alle partite Iva per fare fronte al Coronavirus. Un colpo all'immagine di Zaia, anche in considerazione del fatto che tra loro c'è il vicepresidente della giunta regionale, Gianluca Forcolin. Non è un caso che il governatore abbia alla fine deciso di farli dimettere, assicurando che non saranno ricandidati. Scelta su cui Salvini e Lorenzo Fontana, il suo luogotenente in Veneto, hanno molto insistito. E che potrebbe portarsi dietro strascichi imprevedibili. Non è un caso che, intervistato da Repubblica, Forcolin abbia buttato lì che mentre lui è stato fatto fuori, «il governatore della Lombardia è ancora al suo posto». Attilio Fontana, infatti, è stato sempre strenuamente difeso da Salvini, nonostante la vicenda piuttosto imbarazzante dei camici lombardi che coinvolge il cognato e il suo conto svizzero da oltre cinque milioni, scudato cinque anni fa da due trust aperti nel 2005 alle Bahamas. Insomma, dopo gli ormai celebri 49 milioni, la questione morale torna ad assediare la Lega di Salvini. Prima con i conti all'estero e ora con i bonus dell'Inps (coinvolti anche tre deputati e altri cinque consiglieri regionali in Emilia Romagna, Liguria, Lombardia e Piemonte). E con il rischio concreto che il tema possa diventare materia di scontro all'interno del Carroccio, soprattutto tra lombardi e veneti che - chiedere a Umberto Bossi per conferma - in Lega non sono mai andati davvero d'accordo.

Esclusivo: l'avvocato di Luca Zaia con 400 milioni a Malta. Le società estere di Massimo Malvestio, per anni legale del presidente veneto: una rete di fondi maltesi con clienti anonimi. Che investono in Italia. Nelle autostrade dei Benetton. Leggi anche La replica dell'avvocato. Paolo Biondani ed Andrea Tornago il 12 agosto 2020 su L'Espresso. In piena emergenza coronavirus, il 7 aprile scorso, dagli stabilimenti di Grafica Veneta, in provincia di Padova, parte un grosso carico di dispositivi di protezione, allora introvabili: mezzo milione di mascherine. Destinazione: Malta. Sono le famose mascherine che il governatore veneto Luca Zaia, nelle settimane più drammatiche dell’epidemia, ha chiesto all’imprenditore Fabio Franceschi, titolare dell’azienda che stampa in esclusiva, tra l’altro, milioni di copie di Harry Potter. Zaia le ha indossate per mesi, nelle conferenze stampa quotidiane, con tanto di logo della Regione. La sola differenza è che in quelle inviate a La Valletta, al posto del leone di San Marco, campeggia la bandiera maltese. Poco dopo, in Italia, le mascherine di Zaia vengono accantonate dai medici. Dopo varie critiche, culminate nel video diventato virale di un farmacista, l’amministrazione regionale riconosce che, come avvertiva lo stesso produttore, «non garantiscono la protezione degli utilizzatori, né il mancato contagio di altri». A Malta però, quando arriva il carico, le mascherine sono merce rara e nessuno si mette a sindacare quanto siano efficaci. «Un gesto di buona volontà», lo definiscono i giornali dell’isola, che elogiano il dono di un italiano al popolo maltese.

La base a Malta del legale di Luca Zaia nel palazzo del mandante dell'omicidio di Daphne. Lo storico avvocato del governatore veneto ha un impero finanziario nel paradiso fiscale. Con sede nel grattacielo di proprietà dell'accusato per l'autobomba che ha ucciso la giornalista Caruana Galizia. Paolo Biondani ed Andrea Tornago il 13 agosto 2020 su L'Espresso. L'avvocato di Zaia che diventa socio dei Benetton nel business delle autostrade. Attraverso un ricchissimo fondo di Malta. Che ha il quartier generale nel grattacielo-simbolo dell'impero economico del presunto mandante dell'omicidio di Daphne Caruana Galizia, la giornalista assassinata con un'autobomba per le sue inchieste sulla corruzione nel paradiso fiscale europeo. L'Espresso, nel numero di sabato 15 agosto  pubblica un'inchiesta sulle società estere di un importante avvocato d'affari di Treviso, Massimo Malvestio, che è stato per anni il legale di fiducia e consigliere giuridico del governatore veneto Luca Zaia. Malvestio si è trasferito a Malta tra il 2013 e il 2014, creando una rete di fondi d'investimento e società finanziarie che gestiscono patrimoni privati per oltre 400 milioni di euro. Quando annunciò l'addio all'Italia, lo stesso governatore Zaia confermò così, in un'intervista al Mattino di Padova, il suo strettissimo rapporto con l'avvocato: «Continuerò a rompergli le scatole a Malta. Massimo Malvestio era e resterà il mio riferimento giuridico». I documenti esaminati dall'Espresso grazie al consorzio giornalistico Icij mostrano che le finanziarie maltesi di Malvestio, costituite a partire dal 2009, sono state utilizzate per acquisire consistenti partecipazioni in grande aziende italiane controllate da imprenditori del Nordest. Dal Veneto al Veneto, via Malta. Dopo una lunga e prestigiosa carriera nella regione tra politica, società pubbliche, banche e imprese private, l'avvocato fondatore dello studio BM&A di Treviso è diventato un grande sponsor di Malta, che ha difeso perfino all'indomani dell'omicidio-choc della giornalista Daphne Caruana Galizia. Intervistato dal Gazzettino di Venezia il 18 ottobre 2017, Malvestio si è lanciato in una difesa d'ufficio del paradiso fiscale: «Quale corruzione? Malta è un’isola felice. Qui si vive benissimo. Il delitto è maturato nell’ambito del traffico di droga e petrolio. Lo Stato non c’entra nulla». Le indagini, lunghe e sofferte, hanno invece confermato l'intreccio mortale tra politica, corruzione e affari sporchi. Dopo l'arresto dei tre presunti esecutori e di un intermediario, che ha confessato, l'inchiesta ha coinvolto uno degli uomini più ricchi di Malta, Yorgen Fenech, incriminato come mandante dell'omicidio. La giornalista uccisa era stata la prima a pubblicare notizie su un'anonima società offshore controllata da Fenech, chiamata Black 17, che ha versato tangenti su conti esteri di cui risultano beneficiari due ministri del governo maltese, che si sono dimessi per lo scandalo. I documenti maltesi ora mostrano che tutte le società finanziarie dell'avvocato Malvestio hanno la sede legale al quattordicesimo piano della Portomaso Business Tower: il grattacielo più alto dell'isola. Che appartiene proprio a Yorgen Fenech. Ed è l'emblema della potenza economica del suo gruppo Tumas, controllato da decenni dalla sua famiglia e intitolato al nome del nonno. Yorgen Fenech, che respinge ogni accusa, è stato arrestato il 20 novembre scorso mentre cercava di scappare da Malta con il suo yacht. Il pomeriggio precedente si era dimesso dalle cariche di vertice del gruppo, dove è stato sostituito dal fratello. Pochi giorni dopo è stato rilasciato su cauzione, tra le proteste dei familiari della giornalista assassinata e di tutta l'opposizione. Oggi anche l'avvocato Malvestio sembra deluso da Malta. E le carte confermano che ora progetta di trasferirsi con tutte le sue attività in un altro paradiso fiscale europeo: Montecarlo.

Malvestio, L’Espresso: 400 mln gestiti a Malta dal legale di Zaia da palazzo mandante omicidio Daphne. Replica querelante “affezionato” a Coviello come Zaia e Zonin. Giovanni Coviello il 14 Agosto 2020 su Vicenzapiu.com. Massimo Malvestio, lo storico avvocato del governatore veneto Luca Zaia, ha un impero finanziario nel paradiso fiscale con sede nel grattacielo di proprietà dell’accusato per l’autobomba che ha ucciso la giornalista Caruana Galizia. A rivelarlo è l’Espresso in edicola da sabato e già online che si occupa delle società estere dell’importante avvocato d’affari di Treviso, Massimo Malvestio, che è stato per anni il legale di fiducia e consigliere giuridico del governatore veneto Luca Zaia (criticato pochi mesi fa in consiglio regionale da Sergio Berlato proprio per i suoi legami con un avvocato particolarmente noto per essere… “malvestito“, ndr) e che, dopo aver lasciato l’attività forense, durante la quale ha anche rappresentato in cda di controllate e tutelato Veneto Banca e Vincenzo Consoli, salvo operare dei distinguo successivi alla sua “caduta” (leggi il nostro articolo per cui Malvestio ci ha querelato), ora fortemente ridimensionata, è diventato anche socio dei Benetton nel business delle autostrade attraverso un ricchissimo fondo di Malta. Tutte le società finanziarie dell’avvocato Malvestio, scrive sempre l’Espresso, hanno la sede legale al quattordicesimo piano della Portomaso Business Tower, il grattacielo-simbolo dell’impero economico di uno degli uomini più ricchi di Malta, Yorgen Fenech, presunto mandante dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, la giornalista assassinata con un’autobomba per le sue inchieste sulla corruzione nel paradiso fiscale europeo: Daphne era stata, tra l’altro, la prima a pubblicare notizie su un’anonima società offshore controllata da Fenech, chiamata Black 17, che ha versato tangenti su conti esteri di cui risultano beneficiari due ministri del governo maltese, che si sono dimessi per lo scandalo. Se Fenech, poi arrestato mentre provava a fuggire da Malta, respinge ogni addebito, oggi anche l’avvocato Malvestio sembra deluso da Malta: le carte confermano che ora progetta di trasferirsi con tutte le sue attività in un altro paradiso fiscale europeo: Montecarlo. Prima di pubblicare quanto anticipato da l’Espresso sull’inchiesta in edicola domani e, contestualmente, la replica dell’avvocato trevigiano-maltese non possiamo non rilevare, inter nos, tra noi e noi, come Malvestio, Luca Zaia per conto della regione e Gianni Zonin, un tris di Vip veneti con mille sfaccettature e con relazioni spesso incrociate fra di loro, siano accomunati anche da un altro dettaglio: tutti, alcuni in proprio più volte, altri anche con una devota “assessora”, sono tra i nostri querelanti più affezionati…Il direttore

Lo storico avvocato del governatore veneto ha un impero finanziario nel paradiso fiscale. Con sede nel grattacielo di proprietà dell’accusato per l’autobomba che ha ucciso la giornalista Caruana Galizia. Paolo Biondani ed Andrea Tornago il 13 agosto 2020 su L'Espresso. L’avvocato di Zaia che diventa socio dei Benetton nel business delle autostrade. Attraverso un ricchissimo fondo di Malta. Che ha il quartier generale nel grattacielo-simbolo dell’impero economico del presunto mandante dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, la giornalista assassinata con un’autobomba per le sue inchieste sulla corruzione nel paradiso fiscale europeo. L’Espresso, nel numero di sabato 15 agosto pubblica un’inchiesta sulle società estere di un importante avvocato d’affari di Treviso, Massimo Malvestio, che è stato per anni il legale di fiducia e consigliere giuridico del governatore veneto Luca Zaia. Malvestio si è trasferito a Malta tra il 2013 e il 2014, creando una rete di fondi d’investimento e società finanziarie che gestiscono patrimoni privati per oltre 400 milioni di euro. Quando annunciò l’addio all’Italia, lo stesso governatore Zaia confermò così, in un’intervista al Mattino di Padova, il suo strettissimo rapporto con l’avvocato: «Continuerò a rompergli le scatole a Malta. Massimo Malvestio era e resterà il mio riferimento giuridico». I documenti esaminati dall’Espresso grazie al consorzio giornalistico Icij mostrano che le finanziarie maltesi di Malvestio, costituite a partire dal 2009, sono state utilizzate per acquisire consistenti partecipazioni in grande aziende italiane controllate da imprenditori del Nordest. Dal Veneto al Veneto, via Malta. Dopo una lunga e prestigiosa carriera nella regione tra politica, società pubbliche, banche e imprese private, l’avvocato fondatore dello studio BM&A di Treviso è diventato un grande sponsor di Malta, che ha difeso perfino all’indomani dell’omicidio-choc della giornalista Daphne Caruana Galizia. Intervistato dal Gazzettino di Venezia il 18 ottobre 2017, Malvestio si è lanciato in una difesa d’ufficio del paradiso fiscale: «Quale corruzione? Malta è un’isola felice. Qui si vive benissimo. Il delitto è maturato nell’ambito del traffico di droga e petrolio. Lo Stato non c’entra nulla». Le indagini, lunghe e sofferte, hanno invece confermato l’intreccio mortale tra politica, corruzione e affari sporchi. Dopo l’arresto dei tre presunti esecutori e di un intermediario, che ha confessato, l’inchiesta ha coinvolto uno degli uomini più ricchi di Malta, Yorgen Fenech, incriminato come mandante dell’omicidio. La giornalista uccisa era stata la prima a pubblicare notizie su un’anonima società offshore controllata da Fenech, chiamata Black 17, che ha versato tangenti su conti esteri di cui risultano beneficiari due ministri del governo maltese, che si sono dimessi per lo scandalo. I documenti maltesi ora mostrano che tutte le società finanziarie dell’avvocato Malvestio hanno la sede legale al quattordicesimo piano della Portomaso Business Tower: il grattacielo più alto dell’isola. Che appartiene proprio a Yorgen Fenech. Ed è l’emblema della potenza economica del suo gruppo Tumas, controllato da decenni dalla sua famiglia e intitolato al nome del nonno. Yorgen Fenech, che respinge ogni accusa, è stato arrestato il 20 novembre scorso mentre cercava di scappare da Malta con il suo yacht. Il pomeriggio precedente si era dimesso dalle cariche di vertice del gruppo, dove è stato sostituito dal fratello. Pochi giorni dopo è stato rilasciato su cauzione, tra le proteste dei familiari della giornalista assassinata e di tutta l’opposizione. Oggi anche l’avvocato Malvestio sembra deluso da Malta. E le carte confermano che ora progetta di trasferirsi con tutte le sue attività in un altro paradiso fiscale europeo: Montecarlo.

La replica dell’avvocato Malvestio: "Mai gestito soldi di politici". L’avvocato Malvestio: Non ho mai gestito soldi di politici. Egregio Direttore, leggo oggi un articolo firmato dal mio compagno di corso all’università di Padova, dottor Paolo Biondani e dal dottor Andrea Tornago che invece non conosco. Premetto che prima di scrivere l’articolo ne’ il dottor Biondani  ne’ il dottor Tornago hanno ritenuto di farmi una telefonata o di contattarmi in un qualsiasi altro modo. Si sarebbero evitati questi errori che seguono e che sono tutti documentabili con atti pubblici.

– I nomi dei miei clienti non “ li conosce solo lui”: i nomi dei miei clienti li conoscono tutti quelli che quelli che per legge li devono conoscere e tra questi non vi sono il dottor Biondani e il dottor Tornago: si sappia invece che tra i miei clienti – neanche per il più infimo importo – non vi e’ una sola Persona Politicamente Esposta ( come la definisce la normativa) non una e neppure vi e’ mai stata e tutti hanno acquisto i miei fondi sol to attraverso bonifico di una banca di una giurisdizione del tutto trasparente. La Pubblicità dei miei fondi e dei sottoscrittori e’ la stessa di qualsiasi altro fondo della stessa categoria autorizzato nella UE.

– I dati sulle mie società maltesi sono pubblici: sono pubblicati nel Register of companies of Malta e nel sito della Malta Financial Services Authority.

– I signori Tom Anastasi Pace e Anthony Camilleri non sono affatto due “ fiduciari” sono due ex alti dirigenti della più grande banca maltese i quali lavorano per me da poco dopo essere andati in pensione.

– Non ho società’ alle Bahamas ne’ a Hong Kong ne’ le ho mai avute ne’ di nome Occasio ne’ con qualsiasi altro nome. Tanto lavoro su Occasio avrebbe dovuto invece consentire di comprendere che Occasio faun’ unica cosa: possiede il 14mo piano della torre di Portomaso dove sono i miei uffici che quindi sono miei fin dal 2013 quando li ho acquistati da QD HOTEL PROPERTY AND INVESTIMENT LTD già Qatari Diar Malta  atto del 31 ottobre 2013 notaio Margaret Haywood ins 18658/13) Il mio ufficio quindi é mio e non di proprietà “dell’accusato per la autobomba che ha ucciso Daphne ..”. Nel complesso di Portomaso ci sono credo oltre cinquecento proprietari e che sono nella mia stessa condizione.

– Ineffabile è poi il passaggio: “Finora però si ignorava che un avvocato di Treviso così vicino a Zaia avesse creato un impero finanziario di queste dimensioni”. Quindi non leggete neanche i giornali del vostro gruppo? Sono stato intervistato decine di volte dai vostri giornali e decine di volte citato e sempre si e’ detto della mia società maltese Praude se non altro perché nel 2017 abbiamo vinto il premio Reuter Lipper  come migliori gestori europei di fondi small cap (Mattino di Padova 3 novembre 2019 per dirne una).

– Se poi leggeste anche il Gazzettino ( 15.2.2020 edizione nazionale) – sempre preciso e documentato – avreste visto che non sono più socio dello studio BM&A fin dal primo gennaio 2014 e quindi nel sito dello Studio BM&A non mi “presento come socio fondatore” perché di quello studio non faccio più parte da oltre sei anni e se solo aveste guardato bene il sito lo avreste capito da soli. Quindi dei 645 Mila euro che dite lo studio avere ricevuto dalla Regione io non ho avuto un euro e visto che ci siamo: in tutti gli anni in cui Zaia e’ stato Governatore ho avuto un solo incarico legale cui ho rinunciato!  In quello studio ho solo il recapito obbligatorio per legge quale avvocato stabilito a Malta.

– A proposito di siti, leggere bene: non sono presidente di Praude ma del comitato investimenti di Praude.

– Scrivete che sono “ il consulente di fiducia di Roberto Meneguzzo” giusto per dire  subito che il dottor Meneguzzo ha patteggiato due anni e mezzo per corruzione “ e negli stessi mesi Malvestio sposta tutto a Malta” infatti “ L’ amore per Malta sembra scoccare all’ improvviso”. Il collegamento tra l’ arresto del dottor Meneguzzo e mio improvviso amore per Malta mi sfugge. Io a Malta le mie società le ho fondate nel 2009! Quanto al dottor Meneguzzo – uno dei maggiori finanzieri italiani che si rivolge a decine di avvocati –  vorrei vedere una solo mia fattura per attività di consulenza fatta al dottor Meneguzzo o una sua società, una! In vero sono stato sindaco di Palladio ma su indicazione dei soci di minoranza e neanche del dottor Meneguzzo di cui non sono proprio mai stato “ consulente di fiducia”.

– Quanto al fatto che “ continuo da mesi ad inondare la rete  di elogi a Zaia”: dove siano questi elogi non lo so: un’ intervista a Vvox a inizio anno dove dico che voterò Zaia perché il giornalista me lo chiede, un tweet della stessa intervista per elogiare i lavoratori della sanità del Veneto e non per elogiare Zaia e poi un solo retweet di un’ intervista che parla dei risultati raggiunti nel Veneto sul Covid anche con le mascherine di cui subito parleremo;

– Veniamo alle mascherine: a Malta le hanno usate quando non ne trovavano, a Malta ci sono stati pochissimi morti e potrei dire che sono contento così. “A Malta nessuno si mette a sindacare se sono efficaci” si legge nel vostro articolo, per dire che ho regalato 500.000 patacche buone a niente. Un’ altra cosa falsa. Prima di comprare le maschere ho chiesto al governo se sarebbero servite e il governo maltese – diversamente da quel scrivete -ha verificato ed  il Central Procurement and Supply Unit del Health Department del Ministero della Salute le ha ritenute adeguate all’ uso in “selected areas” e conformi ai certificati  che le accompagnavano.

– Stupendo anche l’accostamento tra la residenza del Governatore Zaia e la sede della Plavisgas, una società che io controllo. Scrivere che la sede della società e’allo stesso indirizzo dove hanno sede tutte le altre società dell’ amministratore unico (uno dei maggiori imprenditori veneti e socio di Plavisgas) no? Spiegazione troppo semplice?

– Infine si cita tra virgolette una mia dichiarazione al Gazzettino:  “Quale corruzione? Malta e’ un isola felice. Qui si vive benissimo. Il delitto é maturato nell’ambito del traffico di droga e petrolio. Lo stato non c’entra nulla”. In realtà quel che si e’ virgolettato era il riassunto non esattamente preciso giacché la specifica parte dell’ intervista e’ questa: Che idea si è fatto dell’omicidio Caruana? «Non ho un’idea definitiva, ovviamente, ma per le modalità con cui si è consumato questo efferato delitto, la pista più plausibile porta a pensare che la giornalista si fosse messa in rotta con i trafficanti di droga e petrolio. Probabilmente le sue indagini sono andate a toccare questo tipo di traffici ed interessi». Su Daphne:” La scomparsa di Daphne Caruana Galiza è un colpo molto duro alla democrazia. La sua era una voce di libertà autorevole.”  Certo poi ho difeso Malta ed il popolo maltese: ho dieci dipendenti maltesi, persone ottime che non possono essere infangate per la condotta di criminali. Avv. Massimo Malvestio

·        L’Onestà dei leghisti: altro che Roma Ladrona.

Lega, il potere di Fontana e quelle carriere decise ai tavolini di un bar di Varese. La Repubblica il 20/10/2020. Un sistema di relazioni e affari nato nel cuore del leghismo, la città di Varese, e cresciuto fino a conquistare il governo della regione più ricca d'Italia. Di quel potere, Attilio Fontana è oggi il volto e la rappresentazione, e ieri sera la puntata di Report su Rai 3 ne ha raccontato la trama. Intessuta di conflitti di interessi, regie occulte dietro le nomine, carriere decise non nei luoghi istituzionali della politica ma ai tavolini di un bar.  

Caianiello decide, Fontana nomina. Sono quelli dell'Haus Garden Cafè, un pub di Gallarate diventato nel tempo l'ufficio di Nino Caianiello e il centro della politica del centrodestra in Lombardia. Caianiello, detto il "mullah", il "ras delle nomine", ma anche "mister dieci per cento" per la "decima" che pretendeva dai politici che piazzava nelle amministrazioni locali e nelle municipalizzate, viene arrestato per corruzione il 7 maggio 2019 nell'inchiesta "Mensa dei poveri". Report lo ha intervistato sui suoi rapporti con Attilio Fontana e sulla genesi di alcune nomine nella giunta che oggi governa la Lombardia. Sollecitato dal giornalista Giorgio Mottola, Caianiello definisce Fontana un "front office", un politico che mette la faccia su decisioni di altri. "Hai visto che i tuoi.. i tuoi consigli li hi seguiti quasi tutti.." dice Fontana a Caianiello, intercettato, dopo aver definito la lista dei suoi assessori. "Non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.." risponde Ninuzzo, come lo chiamava il governatore. "Non è male, non è male la giunta secondo me" dice ancora Fontana. "Assolutamente.. no.. no è messa bene..", asseconda Caianiello che - nonostante una precedente condanna per concussione nel 2016 - per vent'anni è rimasto il padrone del centrodestra in Lombardia. "Io ho vissuto più la gestione politica del partito - spiega Caianiello a Report -. Mentre Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così". Il "mullah" spiega come sono nate le nomine di due tra gli assessori più influenti in Regione, Raffaele Cattaneo (all'Ambiente) e Giulio Gallera (alla Sanità), confermando quanto emerso dalle intercettazioni di "Mensa dei poveri". "Attilio disse: "vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l'incarico all'ambiente"". E su Gallera: "Sapevo che c'era questa legittima aspettativa da parte di Gallera. Io dico: per me Gallera va bene". "Risponde un po' agli ordini Fontana?" chiede Mottola. "Non ordini, agli accordi". "Attilio Fontana è un po' un front office?". "E' un front office".  

Il sindaco Fontana e il terreno della figlia. Lo scandalo dei camici in piena pandemia, con l'affare da 250mila euro affidato alla società della moglie e del cognato Andrea Dini, è ancora lontano. Report racconta come molti anni prima la giunta comunale di Varese, guidata da Attilio Fontana, abbia modificato la destinazione d'uso - da area a verde a edificabile - di un terreno di 4000 metri quadrati ereditato nel 2012 dalla figlia del sindaco, Maria Cristina Fontana. La trasmissione riporta la testimonianza di un ex dirigente del comune di Varese e del consigliere comunale del Pd Andrea Civati. "All'epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde - dice il funzionario -. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili". "Dai verbali del consiglio comunale - aggiunge Civati - non risulta una dichiarazione sul conflitto d'interessi del sindaco Fontana".   

Le consulenze dagli ospedali della Regione. Molti anni dopo, l'avvocato Maria Cristina Fontana risulta beneficiaria di alcuni incarichi legali dalle azienda sanitarie lombarde, i cui vertici sono stati nominati dalla Regione Lombardia e in alcuni casi sono di esplicita fede leghista. Tre incarichi nel 2017 arrivano dall'Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Cinisello Balsamo e Sesto San Giovanni, cinque arrivano nel 2018 e altri tre nel 2019, mentre un'altra consulenza arriva dall'ospedale Sacco di Milano. Per i contratti del 2019, l'azienda ospedaliera introduce una voce sui conflitti d'interessi. Ma in relazione all'avvocato Fontana non ne vengono indicati. E poi nell'aprile 2020, in piena pandemia, l'Asst Nord Milano aggiorna l'elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali. Tra i professionisti c'è sempre Maria Chiara Fontana.

Il maneggio abusivo alla moglie di Giorgetti. Un'altra storia, tutta varesina e tutta leghista, riguarda la moglie di Giancarlo Giorgetti e un maneggio all'interno dell'ippodromo della città. A parlare è sempre un ex dirigente del comune di Varese. "In questo ippodromo c'era effettivamente un maneggio abusivo - dice il funzionario -. Vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti". Si tratta di Laura Ferrari, che nel 2008 ha patteggiato una condanna per truffa. Appassionata di equitazione, riceve mezzo milione di euro da Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. Ma i corsi non sono mai stati fatti. A difendere la moglie di Giorgetti, l'avvocato Attilio Fontana. Durante la sua giunta, nel 2014, le sorelle Ferrari ottengono dalla società che gestisce l'ippodromo la gestione del centro della pista con il loro maneggio. Il contratto è un comodato d'uso gratuito: la moglie e la cognata di Giorgetti non pagano nulla. Poi nel 2018 cambia l'amministrazione e al maneggio arrivano i vigili. Chiedono le autorizzazioni comunali, ma i documenti non si trovano. "Quell'attività non era autorizzata - ha ricostruito  Civati - ed è stata elevata una sanzione". Per quattro anni, moglie e cognata di Giorgetti utilizzano lo spazio all'interno dell'ippodromo di Varese, trasferiscono le loro stalle private, organizzano corsi di equitazione, vengono sponsorizzate dal Comune. Ma grazie al contratto di comodato d'uso, non pagano un euro.  

Daniele Capezzone per “la Verità” il 19 ottobre 2020. Attilio Fontana, il presidente leghista della Regione Lombardia, è di nuovo in trincea. Per un verso, per la nuova ondata Covid; per altro verso, per gli attacchi mediatici che lo mettono nel mirino con accuse sempre più gravi e - parrebbe - fantasiose, addirittura con evocazioni di influenze dalla 'ndrangheta. Ma è la recrudescenza del coronavirus a preoccuparlo: «Avevo iniziato a girare la Lombardia per presentare il nostro piano di rilancio, e avevo trovato ovunque, anche nelle categorie più colpite dalle difficoltà economiche, una gran voglia di reagire e di ripartire, di rimettersi in gioco. La cosa mi entusiasmava, avevo il morale a mille. E invece è arrivata questa seconda botta, un' accelerazione fortissima in appena due o tre giorni». Il governatore lombardo, a partire da qui, ha accettato una conversazione a tutto campo con La Verità.

Allora presidente, davvero si sarebbe fatto condizionare nientemeno che dalla 'ndrangheta per le sue scelte in materia di sanità? Stasera una trasmissione Rai lancerà questa accusa, secondo le indiscrezioni già circolate nei giorni scorsi...

«Queste sono illazioni vergognose fatte per suggestioni incomprensibili ed inaccettabili. Mi riservo comunque di agire sia in sede penale che in sede civile».

Ma, a maggior ragione se fossimo alla rimasticatura di materiale giudiziario già esaminato e da cui non è venuto fuori nulla su di lei, secondo lei come nascono accuse mediatiche di questa pesantezza nei suoi confronti dalla trasmissione Report? Siamo a una campagna con un livello di gravità con pochi precedenti...

«Ah non so, forse perché hanno già cavalcato il cosiddetto caso dei camici. Per citare Stalin, pensano di affondare il coltello nel ventre. Ma non trovano un ventre molle, trovano l' acciaio».

E allora parliamo dei camici. Ci aiuti a fare chiarezza. Alla fine l' azienda di suo cognato ha fatto una donazione alla Regione, i lombardi non hanno pagato un euro, e lei aveva dato disponibilità a mettere dei soldi di tasca sua. La cosa può piacere o no, ma è materia penale?

«Mio cognato aveva fatto altre donazioni in quel periodo. Quando ho capito che la fornitura era onerosa, gli ho chiesto di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e ho cercato di corrispondergli il 50 per cento del mancato incasso. Il prezzo era il più basso fra quelli in quel momento pagati. Mio cognato ha accettato e quindi la Regione non ha pagato nulla. Ed è proprio lui che ad oggi ci ha rimesso».

Proseguiamo con le accuse. Da ultimo, sono state evocate consulenze per sua figlia. Di che si tratta?

«Di questo non parlo: parla mia figlia, che ha già inviato delle risposte che per ora la trasmissione non ha preso in considerazione... Aveva degli incarichi assolutamente trasparenti da un' assicurazione che poi era anche un' assicurazione di un' Asst».

Possibile che per colpire lei e la Lega si tenti una specie di assalto alla Lombardia?

«Lei capisce che l' operazione prevede due obiettivi appetitosi: provare a mettere nel mirino la Lega e tentare di prendere la Lombardia. Anche perché con il voto democratico in Lombardia non riescono a vincere, e allora tentano altre strade».

Al di là delle cose giudiziarie, lei vede un accanimento particolare verso la sua regione? Lo dico in modo ancora più esplicito: quando a marzo e ad aprile la prima regione italiana era in difficoltà, ha percepito qualche compiacimento di troppo da parte di alcuni a Roma e non solo? Lo dico in termini calcistici: se il più forte giocatore della squadra sta male, gli altri compagni dovrebbero preoccuparsi, non le pare?

«Non è che si sia solo percepito. Alcuni, giornalisti e politici, lo hanno proprio esplicitato, pronunciando parole pesanti».

Senta, hanno crocifisso lei e Bertolaso per l' ospedale in Fiera. Dicevano che non serviva più, che era una cattedrale nel deserto. Qualcuno l' ha chiamata per scusarsi e dire che avevano torto?

«Assolutamente no, non mi ha chiamato nessuno. Né per scusarsi per avermi dato del razzista quando chiedevo semplicemente di sottoporre a controlli chiunque fosse di ritorno dalla Cina. Né per avermi attaccato in modo assurdo perché in un video indossai una mascherina. Né per la storia dell' ospedale in Fiera. Devo anche dirle che se alcuni chiamassero, li riterrei in malafede, dopo tutto quello che hanno detto. La cosa più giusta l' ha detta uno dei finanziatori privati che hanno reso possibile quella realizzazione: siamo orgogliosi di aver preparato un' opera che speriamo non debba essere utilizzata per un' emergenza».

Quanti cittadini non lombardi vengono ogni anno a curarsi in Lombardia per motivi ordinari, Covid a parte?

«Prima del Covid erano 165-170.000».

Lei è pronto, se altre regioni saranno nei guai a causa del coronavirus, a ospitare i loro pazienti?

«Sì, se ce ne sarà bisogno e se saremo in condizione di farlo, cioè se non saremo a nostra volta sotto pressione».

Nel weekend il commissario Domenico Arcuri e il ministro Francesco Boccia hanno attaccato le regioni, sostenendo che molti ritardi siano colpa dei governatori. Scaricabarile o c' è del vero?

«Peggio che scaricabarile. Noi abbiamo sempre fornito in tempo i nostri dati. Sento anche che ci viene rimproverato di avere respiratori inutilizzati. Noi non ne abbiamo nessuno inutilizzato, tranne venti, ma solo perché non hanno la certificazione. Li teniamo da parte e li utilizzeremo solo se ci sarà un' urgenza drammatica».

Perché il governo ha atteso ottobre per far partire il nuovo bando sulle terapie intensive?

«Non lo so proprio. Bisognerebbe chiederlo a loro».

Vi hanno dato risorse in più per il trasporto pubblico locale?

«La risposta è semplice: no».

Su questo piano, come ve la caverete per potenziare il numero dei mezzi in circolazione?

«Noi stiamo cercando comunque di dare una risposta.

Però voglio dire, anche a difesa dei sindaci, che se hai una metro, non è possibile aumentare le corse oltre una certa misura. E quanto agli accordi con i bus privati, servono risorse per farli. Non solo il governo non ha dato soldi in più, ma a livello locale ci si ritrova con soldi in meno dalla bigliettazione per evidenti ragioni».

Non le pare che il governo, da maggio a oggi, abbia perso tempo? Anziché colpevolizzare i ragazzi o le famiglie che si sono fatte tra luglio e agosto una settimana di vacanza, non potevano pensare a tutte queste cose? Che hanno fatto questa estate, oltre che predicare? Dicevano che poteva arrivare una seconda ondata, ma non hanno fatto nulla per prepararsi, mi pare.

(Sorride). «Se mi chiede che hanno fatto, le dico: non lo so Non mi faccia dire altro, non voglio alcun tipo di polemica. Ho promesso di essere collaborativo».

Come siete messi con i vaccini influenzali?

«Mi permetta di fare chiarezza, perché ho letto tante polemiche urlate, insensate e strumentali. Come Regione, abbiamo acquistato 2.9 milioni di dosi, di cui solo 100.000 sub iudice, perché attendono la certificazione Aifa. Sono numeri più che doppi rispetto all' anno scorso: anche in considerazione del fatto che quest' anno molte più persone vogliono vaccinarsi. Segnalo che altre regioni confinanti, dall' Emilia Romagna al Veneto, hanno acquistato percentualmente gli stessi numeri».

Ci spiega la ratio delle restrizioni che scatteranno in Lombardia? Non teme di avere esagerato?

«Guardi che, con l' accelerazione e la crescita esponenziale dei casi che c' è stata negli ultimi giorni, semmai ho dovuto fare una mediazione rispetto alle richieste ancora più dure che venivano dal Comitato tecnico scientifico».

Non teme il colpo di grazia a bar, ristoranti e commercio? Chi li risarcisce questi imprenditori? Anche prima delle ultime misure nazionali, Confcommercio già stimava in tutta Italia un rischio di chiusura di 270-000 esercizi da qui a fine anno, un' ecatombe. Darete battaglia su questo punto rispetto al governo?

«Noi come Regione, in ogni occasione, ad ogni Dpcm governativo, presentando le nostre richieste o le nostre subordinate, abbiamo sempre chiesto un ristoro economico per le imprese dei settori oggetto delle misure restrittive. Ma vedo che non c' è stata risposta adeguata. Per questo continueremo a chiederlo in ogni occasione».

Consulenze negli ospedali della Regione alla figlia di Fontana, un altro conflitto di interessi per il governatore. Sono tre incarichi di consulenza per attività giudiziaria, ottenuti tra il 2018 e il 2019 presso le asst di Milano. Maria Cristina Fontana le ha avute da quando è subentrata al posto del padre nello studio legale di famiglia, a Varese. Sandro De Riccardis e Luca De Vito su su La Repubblica il 15 ottobre 2020. Una serie di consulenze legali incassate dalla figlia di Attilio Fontana dalle aziende sanitarie della Lombardia, i cui vertici sono stati nominati proprio dalla giunta regionale guidata dal governatore lombardo. Un nuovo conflitto di interessi per Fontana, dopo il caso della fornitura di camici da parte del cognato Andrea Dini (Fontana è indagato per frode in pubbliche forniture), e la nomina dell'ex socio di studio Luca Marsico nel Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici del Pirellone, che era costata al governatore un'indagine per abuso d'ufficio, poi archiviata. A imbarazzare ora il numero uno della Regione Lombardia sono tre incarichi assegnati a Maria Cristina Fontana, primogenita del governatore, subentrata al posto del padre alla guida dello studio legale di famiglia, uno dei più noti a Varese. La prima consulenza è stata assegnata con la delibera numero 526 del 6 settembre 2018 dall'Azienda socio sanitaria Nord Milano per un importo di 6.383,65 euro. Un secondo incarico parte il 20 settembre dello stesso anno: una consulenza di cui non si conosce il costo perché la spesa è coperta dall'assicurazione dell'ente sanitario. Una terza consulenza viene assegnata con una delibera del 31 gennaio 2019 dall'ospedale Sacco: 5.836,48 euro per occuparsi della "costituzione nel giudizio promosso davanti al tribunale di Milano" per la difesa dell'ente in una causa di lavoro. Ma c'è di più. Il rapporto con l'Azienda socio sanitaria Nord Milano diventa ancora più stretto, anche per il 2020, visto che il 29 aprile la stessa Asst, guidata dal direttore generale Elisabetta Fabbrini, delibera l'elenco dei professionisti legali cui affidarsi. Anche qui Maria Cristina Fontana risulta presente in due elenchi, quello degli avvocati da chiamare in caso di "medical malpractice" (ovvero casi di negligenze mediche) e quello dei legali esperti in "diritto fallimentare e procedure concorsuali". A rendere più delicata la faccenda, il fatto che le nomine dei dirigenti della sanità sono fatte proprio dalla giunta regionale: nel caso del Sacco Alessandro Visconti, nominato al vertice dell'azienda ospedaliera in quota Lega, mentre Fabbrini alla guida della Asst nord è stata nominata in quota Forza Italia. "Non si tratta di consulenze, ma di incarichi in procedimenti giudiziari - ha detto all'Ansa Maria Cristina Fontana - Inoltre, dal 2015 (in epoca ben antecedente all'elezione di mio padre) sono fiduciaria di una compagnia di assicurazione privata che fra i suoi assicurati ha anche Asst Nord Milano. Nell'ambito del rapporto lavorativo con la compagnia assicurativa, ho svolto degli incarichi di difesa della Asst a spese della stessa compagnia". Il nome di Visconti compare negli atti dell'inchiesta "Mensa dei poveri" sugli appalti pilotati nella sanità lombarda dal "burattinaio" delle nomine di Forza Italia Nino Caianiello. Ne parla proprio Attilio Fontana nel suo esame, da testimone, di fronte ai magistrati. I pm chiedono se la nomina di Alessandro Visconti alla guida del Sacco-Fatebenefratelli sia in quota Lega. "All'inizio del mio mandato - risponde Fontana - l'unico criterio seguito per la nomina dei dg delle Ats e delle Asst è stato esclusivamente quello delle professionalità e non di appartenenza politica", per il dottor Visconti, "non escludo che sia un simpatizzante della Lega". Ma qualche anno prima, dopo le nomine del 2014, è stato proprio Visconti ad ammettere la sua militanza leghista. " "Dal 1995 dono alla Lega il mio tempo, il mio impegno e in certi casi dei contributi in denaro: per tredici anni sono stato assessore a Sumirago, ho passato le domeniche nei gazebo, alle feste della Lega ho aiutato in cucina. Ho sempre sostenuto che i partiti più che sui soldi pubblici debbano contare sui finanziamenti della gente".  

Mogli, camici e cavalli dei paesi tuoi. Report Rai PUNTATA DEL 19/10/2020 Giorgio Mottola, collaborazione di Norma Ferrara, Federico Marconi, Giovanni De Faveri. Dietro allo scandalo dei camici del cognato di Fontana Report ha scoperto un sistema di potere che da anni avvolgerebbe la Regione Lombardia: appalti truccati, nomine pilotate e infiltrazione della ‘ndrangheta. Con interviste e documenti esclusivi l’inchiesta fa luce su nuovi e inediti conflitti di interesse del governatore Fontana. Viene ricostruita inoltre la presunta rete di corruzione messa in piedi tra Varese e Milano da una delle eminenze grigie più potenti della Lombardia: un politico di altissimo profilo, detto il Mullah, legato a Marcello Dell’Utri e consigliere di Attilio Fontana nella formazione della giunta regionale. In questo scenario la ‘ndrangheta avrebbe trovato terreno fertile. Deciderebbe giunte comunali, nomina sindaci e non sente più alcun bisogno di nascondersi.

MOGLI, CAMICI E CAVALLI DEI PAESI TUOI di Giorgio Mottola collaborazione Giovanni De Faveri - Norma Ferrara – Federico Marconi Immagini di Alfredo Farina – Davide Fonda – Andrea Lilli – Fabio Martinelli Montaggio e Grafica Giorgio Vallati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Intorno a questo grano si sta consumando un’insensata guerra, che rischia di comprometterne il recupero, ed è un peccato, perché è un grano tutto italiano e ha anche delle proprietà benefiche. Questo è quello che emergerebbe da uno studio che vi mostreremo in via del tutto esclusiva questa sera. Però, dopo esser tornati sui nostri passi. Nell’aprile scorso, in piena emergenza virus, Report ha scoperto che la Regione Lombardia aveva affidato senza gara, attraverso una procedura negoziata, una fornitura di camici, 75 mila, del valore di mezzo milione di euro alla Dama, una società che faceva riferimento alla moglie del governatore Fontana e a suo cognato. Incalzato dalle domande del nostro Giorgio Mottola, Dini aveva risposto “È avvenuto tutto a mia insaputa. Appena ne sono venuto a conoscenza, ho trasformato quel contratto in donazione”. Stessa versione del governatore Fontana. Insomma, a sua insaputa da governatore e anche da marito. Tuttavia, i magistrati, invece, sospettano che quel contratto di fornitura si è trasformato in donazione solo dopo che Report aveva cominciato a fare domande in Regione. Per questo ha indagato il governatore Fontana, per frode nella pubblica fornitura, perché non ha informato chi di dovere del conflitto di interessi. Indagato anche il suo manager, Filippo Bongiovanni, che è il direttore della stazione appaltante, Area. Perché è indagato? Per turbata libera scelta del contraente, perché ha assegnato la fornitura pur sapendo del conflitto di interessi. È indagato anche il cognato, Dini, per frode nell'adempimento della pubblica fornitura, perché, rispetto a quanto stabilito dal contratto mancano all’appello oltre 25 mila camici. In un sms, poi, anche la moglie di Fontana scrive al fratello e dice: cerca di recuperare più camici possibili. A svelare il velo dell’ipocrisia è stato chi beneficenza la fa sul serio: Emanuela Crivellaro. È la presidente di un’associazione, una Onlus che assiste bambini malati. Lei si presenta nell’ufficio di Dini proprio mentre sta chiudendo il contratto con la Regione. E gli dice: “Mi presti un po’ di camici? Mi dai un po' di camici, me li regali, che li distribuisco negli ospedali che hanno bisogno?”. Cosa ha risposto Dini? Lo sentiremo dalla sua voce, quella che è diventata la super testimone della procura di Milano ha deciso di raccontarci la sua storia dopo che il governatore Fontana ha cercato di chiarire la sua posizione in un infuocato consiglio regionale di mezza estate. Il nostro Giorgio Mottola.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 A seguito di una inchiesta di “Report” annunciata con toni scandalistici si è molto parlato della vicenda fornitura camici, divulgata dalla più faziosa informazione con il refrain ripetuto all’inverosimile: “Dama l’azienda del cognato del presidente cui partecipa al 10 per cento sua moglie Roberta”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’estate Attilio Fontana era stato chiamato a dar conto della fornitura di camici da mezzo milione di euro assegnata al cognato ma il governatore piuttosto che dare chiarimenti ha preferito attaccare duramente “Report”. E molti punti della vicenda sono quindi rimasti oscuri.

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA No, guardi, no no è una donazione, ci sono tutti i documenti.

GIORGIO MOTTOLA Però mi scusi, in realtà, leggendo le carte, sembra in realtà una… Non è una donazione. È un appalto, in realtà. Cioè, lei ha venduto dei camici.

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Effettivamente, i miei quando io non ero in azienda durante il Covid, chi se n’è occupato ha male interpretato la cosa, ma poi dopo io sono tornato, me ne sono accorto e ho immediatamente rettificato tutto perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione.

GIORGIO MOTTOLA L’hanno fatto a sua insaputa, insomma…

ANDREA DINI – AMMINISTRATORE DELEGATO DAMA SPA Sì. Appena l’ho saputo ho detto no, no, in Lombardia assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche Attilio Fontana con un post assicura che fin dall’inizio si trattava di una donazione. Ma a smentire la loro versione c’è un importante testimone. Mentre stava chiudendo l’affare con la Regione il cognato del governatore incontra Emanuela Crivellaro, presidente della fondazione benefica “Il Ponte del Sorriso” in quei giorni era alla ricerca di mascherine e camici da donare agli ospedali lombardi e per questo si era rivolta anche ad Andrea Dini.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” Me ne ha dati 300 e mi ha detto poi vedrò di dartene altri. Poi non ne sono arrivati più neanche uno. Io più volte l’ho sollecitato e lui mi ha risposto non posso perché sono sotto contratto con la Regione. Cioè, contratto esclusivo. Ho detto: guarda che anche l’ospedale è disposto a comprarli ma, non… lui ha detto che non poteva venderceli perché aveva un contratto con la Regione. Quindi…

GIORGIO MOTTOLA E qui siamo a metà aprile.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E qui siamo… no. Al 10 aprile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque contratto e non donazione. Ma come faceva Andrea Dini a sapere che avrebbe avuto un contratto con la Regione già il 10 aprile? L’esito della procedura negoziata è stato reso noto infatti solo sei giorni dopo, il 16 aprile. Come faceva a saperlo? Alla Crivellaro Andrea Dini racconta di avere un gancio diretto in Regione Lombardia.

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” E lui mi ha detto che era in trattativa con la Regione. E io gli ho detto: ah, sì tra l’altro so che è Cattaneo… insomma, o ce lo siamo detti a vicenda, a me pare di averlo tirato fuori io: è Cattaneo? E lui mi ha risposto sì, è proprio il mio riferimento.

GIORGIO MOTTOLA In Regione?

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” In Regione, è proprio il mio riferimento in Regione.

GIORGIO MOTTOLA Cattaneo, l’assessore?

EMANUELA CRIVELLARO – PRESIDENTE FONDAZIONE ONLUS “Il PONTE DEL SORRISO” L’assessore Cattaneo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Raffaele Cattaneo è uno degli uomini più fedeli del presidente della Lombardia. Esponente di Comunione e liberazione, a sorpresa due anni fa è stato nominato da Fontana assessore all’Ambiente sebbene alle regionali non avesse ottenuto preferenze sufficienti a farsi eleggere consigliere.

GIORGIO MOTTOLA Come mai lei ha fatto da intermediario tra il cognato di Fontana e la Regione Lombardia?

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma perché io sono stato incaricato di far fronte all’emergenza di dispositivi di protezione individuali, quindi mascherine, camici.

GIORGIO MOTTOLA Lei sapeva che Dini fosse il cognato di Fontana?

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sapevo che Dini fosse il cognato di Fontana, sì. Non lo conoscevo, non lo conosco di persona, lo conoscevo di fama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi l’assessore Cattaneo era a conoscenza del conflitto, ma non lo denuncia.

GIORGIO MOTTOLA Bastava segnalare che fosse il cognato del presidente Fontana.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì, certo. Certo.

GIORGIO MOTTOLA Questa segnalazione non è mai stata fatta.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Ma non è vero, non è vero. Cosa dove essere fatto. Quale, insomma, quale…

GIORGIO MOTTOLA Ci sono delle leggi sui conflitti di interessi.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Sì appunto, ma questi…

GIORGIO MOTTOLA Cioè la società non è solo del cognato, ma anche della moglie di Fontana.

RAFFAELE CATTANEO – ASSESSORE AMBIENTE REGIONE LOMBARDIA Però vede, in una istituzione, come lei ben sa ci sono responsabilità diverse. La mia responsabilità è stata quella di coordinare una task force che si occupava di garantire la disponibilità di Dpi (Dispositivi di protezione individuale ndr).

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma come ha fatto Dini a entrare in contatto con un assessore della Giunta regionale? La risposta l’hanno trovata gli investigatori nel suo telefono. Esattamente tre settimane prima della procedura negoziata, il 27 marzo Roberta Dini, moglie di Attilio Fontana, e proprietaria del 10 percento di Dama spa, scrive al fratello: “Prova a chiamare assessore Cattaneo di Varese. Sembra siano molto interessati ai camici. Questo mi dice assessore al bilancio Caparini”, che sarebbe Davide Caparini, assessore al Bilancio nella giunta regionale presieduta da Fontana. Poi Roberta Dini aggiunge: “Ho avvisato la moglie di Cattaneo, che conosco un po’, vuol dare una mano”. Di tutto questo Attilio Fontana assicura di non averne saputo nulla, almeno fino a una certa data.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Dei rapporti negoziali Aria-Dama nulla ho saputo fino al 12 maggio scorso, data in cui mi si riferiva che era stata concordata una rilevante fornitura di camici a titolo oneroso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 12 maggio è la data cruciale di tutta la vicenda. Il giorno prima, l’11 maggio, dalla redazione di Report abbiamo mandato alla segreteria di Fontana questa richiesta di intervista con alcune domande che facevano genericamente riferimento al ruolo dei privati nell’emergenza sanitaria. Secondo quanto ritengono i pm, sarebbe questa nostra mail a far scattare il campanello d’allarme nell’ufficio del presidente Fontana, che ordina al cognato di restituire i soldi e trasformare la commessa in una donazione.

ATTILIO FONTANA - PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA CONSIGLIO REGIONALE DEL 27/07/2020 Ma poiché il male, così come il bene è negli occhi di chi guarda, ho chiesto a mio cognato di rinunciare al pagamento per evitare polemiche e strumentalizzazioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque, a differenza di quello che Fontana e il cognato ci hanno raccontato all’inizio, l’idea della donazione è venuta solo in un secondo momento. E tra l’altro, l’idea non sembra entusiasmare troppo né Dini, né la moglie di Fontana. Scrive, infatti, Roberta Dini al fratello: “Attilio ora a Milano. Ti devi imporre. Lunedì si recupera tutto quello che si può”. E suggerisce di farsi restituire una parte dei camici già donati: “Stamattina consegnati 6mila camici. Almeno quelli possono essere resi”. Ed è forse per questa ragione che Attilio Fontana prova a rimborsare di tasca sua il cognato con un bonifico da 250 mila euro.

ATTILIO FONTANA Si è trattata di una decisione spontanea e volontaria, e dovuta al rammarico nel constatare che il mio legame di affinità aveva solo arrecato svantaggio a un’azienda legata alla mia famiglia. E così quel gesto è diventato sospetto, se non addirittura losco.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A sospettare in realtà sarebbe stata la sua stessa banca, che ha bloccato il bonifico da 250 mila euro segnalandolo come operazione sospetta. Quei soldi infatti vengono da un conto svizzero di Fontana che porta direttamente nei Caraibi, alle Bahamas, dove la famiglia del presidente ha avuto per anni un trust anonimo da 5 milioni di euro, la Montmellon Valley.

GIORGIO MOTTOLA Ma chi c’è dietro Montmellon Valley?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Uno studio di avvocati di Panama che si chiama “Morgan y Morgan”, antagonista di Mossak Fonseca, famoso per i Panama Papers, che operano proprio per creare, gestire strutture offshore. Quindi strutture che garantiscono gli anonimati bancari e societari dentro i quali ci sono un sacco di soldi.

GIORGIO MOTTOLA E che tipo di reputazione ha “Morgan y Morgan”?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO È come Mossak Fonseca, che reputazione devono avere? Cioè gestore di strutture offshore che servono per riciclare. Insomma, questo è.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Attilio Fontana, che aveva una delega per gestire il trust, sostiene che i 5 milioni di euro fossero i risparmi della madre dentista e del padre dipendente della mutua. La società anonima alle Bahamas viene chiusa dopo la morte della signora Fontana nel 2015.

GIORGIO MOTTOLA Dopo il 2015 Fontana chiude il trust alle Bahamas.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO IN RICICLAGGIO Proprio nel 2015 entra in vigore in Italia la normativa per la cosiddetta voluntary disclosure che consentiva a chi occultava denaro all’estero di poterlo regolarizzare pagando, come sempre succede, imposte pari a due cocomeri e un peperone. Era l’ultima spiaggia. Perché poi entravano in vigore delle normative penali che rendevano impossibile detenere denaro proveniente da delitto anche in Svizzera.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come mai tutte queste bugie? Che cosa nasconde questa vicenda?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Guardi quello che nasconde lo nascondete voi nella vostra testa.

GIORGIO MOTTOLA Però lei nascondeva anche dei soldi all’estero in paradisi fiscali, presidente.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Io nascondevo?! Stia attento a quello che dice, stia molto attento. Io ho dichiarato. Io ho dichiarato, quindi lei deve stare attento a quello che dice perché io per questa cosa io la querelerò.

GIORGIO MOTTOLA Però come mai?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, non c’è come mai. Non c’è nessun come mai.

GIORGIO MOTTOLA No, però le chiedo. No, perché lei ha anche mentito sui conti offshore, eh Presidente.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ma che offshore. Lei dovrebbe conoscere meglio...

GIORGIO MOTTOLA Però lei che le conosce bene, ce lo spieghi meglio lei.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No no. Ve lo spiegherà il magistrato. Ci vediamo… Ci vediamo…

GIORGIO MOTTOLA Anche sui conti offshore ha detto delle bugie, perché ha detto che non erano movimentati, ha detto che non c’erano state movimentazioni, invece nel 2005.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Lei non conosce niente e continua parlare.

GIORGIO MOTTOLA E ci aiuti a capire, come ha fatto sua madre e suo padre, un dentista e un dipendente della mutua…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quando la società alle Bahamas viene chiusa, i cinque milioni di euro finiscono, almeno in parte, su un conto svizzero dell’Ubs. Il conto è di proprietà di Fontana ma intestato all’ “Unione Fiduciaria”. È da qui che sarebbe dovuto partire il bonifico da 250mila euro per il cognato.

GIORGIO MOTTOLA Presidente non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle…

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA No, lei mi sta assalendo. E quindi, eh…

GIORGIO MOTTOLA Non voglio assalirla, voglio soltanto chiederle come mai ha fatto partire questo bonifico da 250mila euro da un conto schermato in Svizzera. Risponda solo a questa domanda. Cioè perché ha provato a partire i soldi da un conto schermato per suo cognato, perché non lo ha fatto partire da un conto italiano?

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Perché non ne avevo 250 mila sul conto italiano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il gruzzoletto l’ha tenuto in Svizzera, cinque milioni di euro che emergono solo nel 2015, quando Fontana decide di aderire alla Voluntary Disclosure. Dice: “Sono i risparmi di una vita dei miei genitori”. Madre dentista, padre dipendente della mutua. Però, insomma, noi di Report abbiamo avuto modo di leggere la relazione che ha accompagnato la sua adesione alla Voluntary Disclosure. Intanto emerge che lui autodenuncia il fatto di non aver denunciato alcuni dei suoi investimenti, dal 2009 al 2013, sui conti all’estero, e poi sono stati sanati - come ha detto il nostro Gian Gaetano Bellavia - con un cocomero e due peperoni, se uno li confronta con i cinque milioni di euro. Ma lo spirito della Voluntary Disclosure era anche quello di far emergere le attività con cui erano stati accumulati i capitali occultati all’estero. Nella relazione che ha potuto leggere Report, nella casella che riguarda la relazione di accompagnamento di adesione alla Voluntary fatta dal governatore Fontana, quella casella è vuota. Non si sa, almeno se è l’unico modello, perché non sappiamo se quello è l’unico modello, se qualcuno dell’Agenzia delle Entrate nel tempo abbia poi chiesto al governatore: da dove vengono, da quali attività provengono quei soldi? È una domanda che è rimasta senza risposta, per quello che ci riguarda. Mentre invece è chiaro che il governatore Fontana proviene da Varese. Da Varese proviene anche il suo predecessore, Roberto Maroni. E anche Bossi, e anche i dirigenti più importanti della Lega. Perché Varese è la roccaforte del potere leghista. Un potere che intimorisce al punto che, se un funzionario pubblico vuole denunciare un semplice conflitto di interessi, è costretto a farlo con la faccia mascherata. Andando a ritroso, alle origini di quel potere, si scopre che il conflitto di interesse non è tanto inteso come la violazione di una norma, ma una predisposizione dell’animo umano.

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Ho notato in alcune circostanze un uso improprio dei beni della collettività, dei soldi pubblici e dell’incarico pubblico.

GIORGIO MOTTOLA Quali sono le vicende che lei ha riscontrato?

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Noi abbiamo verificato l’esistenza di un cambio di destinazione d’uso per un terreno di famiglia, se non ricordo male intestato alla figlia, che poi è diventato qualche mese prima, terreno edificabile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed ecco il terreno dei Fontana: 4000 metri quadrati in una delle zone più pregiate di Varese. La figlia del governatore, Maria Cristina Fontana, lo ha ereditato nel 2012 insieme alla villa di famiglia da 15 vani immersa nel verde. All’epoca il terreno era iscritto al catasto come area esclusivamente verde. Ma poi la giunta Fontana ha modificato il piano regolatore del Comune e i 4000 metri della figlia sono diventati edificabili.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca Attilio Fontana ha dichiarato che aveva un conflitto di interessi su quei terreni?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Dai verbali del consiglio comunale non risulta una dichiarazione in questo senso del sindaco Fontana.

GIORGIO MOTTOLA Quindi, in consiglio comunale nessuno sapeva che quello fosse il terreno della figlia?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD No, no, nessuno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie al cambio di destinazione d’uso il valore del terreno si modifica di quasi dieci volte. E dai documenti che abbiamo ritrovato, il giorno in cui il consiglio comunale approva le modifiche al piano regolatore, Attilio Fontana risulta presente e partecipa al voto senza segnalare il suo conflitto d’interesse. Il copione si ripete identico anche quando un consigliere di minoranza presenta un emendamento per bloccare i permessi a costruire sul terreno della figlia.

GIORGIO MOTTOLA Lei presenta quell’emendamento per bloccare il cambio di destinazione d’uso?

ANDREA CIVATI - CONSIGLIERE COMUNALE VARESE – PD Esattamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Fontana non dichiara il suo conflitto di interesse neppure quando con il suo voto contribuisce a bocciare l’emendamento della minoranza ad hoc sul terreno. L’area della figlia diventa ufficialmente edificabile.

GIORGIO MOTTOLA E lei questo lo ha segnalato?

EX DIRIGENTE COMUNE DI VARESE Questa come tante altre cose sono state segnalate in Procura, in due esposti. Uno a Varese, e l’altro a Milano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A distanza di anni, la Procura di Varese ha aperto un’indagine a carico di Attilio Fontana per abuso di ufficio. Ma le accuse sono state subito archiviate, come annuncia lo stesso Fontana con una conferenza stampa.

ATTILIO FONTANA – Da TGR55 - intervista di Matteo Inzaghi del 10/10/2017 Sono molto contento anche perché l’unica cosa che ho avuto sempre come riferimento è stata la legalità e il rispetto delle norme. Sono perfettamente cosciente di chi sia l’autore della lettera anonima e lui sa che io lo so.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Intanto Maria Cristina Fontana ha iniziato a seguire le orme paterne. Avvocato in carriera, ha ereditato le quote dello studio legale del padre e iniziato ad assumere incarichi legali anche per la Regione Lombardia. In particolare, per l’Azienda sanitaria Nord Milano, che comprende gli ospedali di Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo.

GIORGIO MOTTOLA Queste sue consulenze si intensificano proprio nel momento in cui suo padre diventa presidente della Regione Lombardia dal 2018.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questa è un’affermazione molto grave e molto falsa, per cui se la ripete assumerà le responsabilità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma i documenti che abbiamo trovato sembrano smentirla. Per conto dell’Azienda sanitaria Nord Milano, Maria Cristina Fontana svolge tre incarichi nel 2017 e poi a partire dal settembre 2018, vale a dire poco dopo la nomina del padre, ne fa cinque. E altri tre nel 2019, a cui va aggiunto un altro incarico legale da 5800 euro all’ospedale Sacco. GIORGIO MOTTOLA Guardi noi abbiamo controllato e si intensificano dal 2018.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Questo non è assolutamente vero. Comunque lei non si deve permettere di telefonare così, anche perché sto lavorando.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei documenti inediti del 2019, le tabelle dell’Asst Nord Milano aggiungono una voce sui conflitti di interesse dei consulenti legali. E in corrispondenza del nome di Maria Cristina Fontana, viene specificato che non c’è nessun conflitto di interesse da segnalare. Nell’aprile 2020, invece, in piena emergenza Covid, la dirigenza dell’ospedale trova il tempo di riunirsi ed estendere l’elenco degli avvocati abilitati a fare consulenze legali per l’Asst Nord Milano. Il provvedimento riguarda anche Maria Cristina Fontana, che grazie a quella deliberazione, sembra allargare il campo di azione in cui può effettuare incarichi legali. A firmare il documento sono massimi dirigenti dell’Asst Nord Milano, nominati dalla giunta Fontana appena un anno prima.

GIORGIO MOTTOLA Ma come mai proprio nel pieno dell’emergenza Covid le è stato ampliato l’ambito in cui può fare consulenze per L’Asst Nord Milano.

MARIA CRISTINA FONTANA – AVVOCATO Senta, lei non ha nessuna autorità, quindi non le devo nessuna spiegazione. Cortesemente se mi lascia lavorare. Ripeto cosa che magari lei non sa cosa voglia dire.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma a Varese, durante l’amministrazione Fontana, c’è un’altra “questione di famiglia”. Stavolta però riguarda i familiari di un altro altissimo dirigente nazionale della Lega. Un conflitto di interessi pubblico e sotto gli occhi di tutti, di cui però finora nessuno ha mai parlato. È andato avanti per quattro anni e ha avuto come teatro l’ippodromo comunale di Varese.

EX DIRIGENTE – COMUNE VARESE In questo ippodromo c’era effettivamente un maneggio abusivo. Questo maneggio, cosa strana, vado a verificare, è gestito da due sorelle. La sorella maggiore scopro essere la moglie del senatore Giorgetti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie di Giorgetti si chiama Laura Ferrari e insieme alla sorella si occupa da anni di equitazione. Passione che già qualche anno le fu fatale. Laura Ferrari nel 2008 ha infatti patteggiato una condanna per truffa: aveva ricevuto mezzo milione di euro dalla Regione Lombardia per organizzare corsi di addestramento a istruttori ippici per disabili. I soldi sono arrivati, ma i corsi non sono mai stati fatti. L’avvocato scelto all’epoca dalla moglie di Giorgetti fu il principe del foro di Varese, Attilio Fontana. E proprio durante l’amministrazione Fontana, Laura Ferrari e sua sorella ottengono dalla società privata che ha in concessione l’ippodromo comunale di occupare il centro della pista con il loro maneggio.

DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 PRESENTATRICE Partiamo da Laura, e così, raccontaci un po’ che cosa accade, che cosa succede all’interno del vostro centro ippico.

LAURA FERRARI Allora la nostra è una scuola di equitazione e quindi è rivolta principalmente a bambini e abbiamo anche adulti.

GIORGIO MOTTOLA Con la loro associazione “Pony Club Le Bettole” impiantano nell’ippodromo box per i cavalli, un tendone per svolgere le attività anche d’inverno e organizzano corsi a pagamento, sponsorizzati dentro le scuole con brochure ufficiali del Comune di Varese.

DA L’OPINIONE EQUESTRE DEL 10/12/2014 LAURA FERRARI Questo ci consente di avere anche una buona pubblicità in tutto il comune di Varese, diciamo che è un bacino abbastanza, grande, importante.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, dai documenti ufficiali che abbiamo ritrovato non siamo riusciti a comprendere quanto la moglie di Giorgetti pagasse di affitto. Per usare l’ippodromo come stalla per i loro cavalli e per i corsi di equitazione a pagamento. GIORGIO MOTTOLA La moglie di Giorgetti per quell’ippodromo quanto pagava d’affitto?

ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Noi non lo sappiamo perché l’amministrazione comunale semplicemente dà in concessione a una società la gestione di tutto l’ippodromo, che è appunto il concessionario, che poi gestisce le sue attività, i suoi ricavi autonomamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo chiesto alla società concessionaria dell’ippodromo e ci ha spiegato che il rapporto con l’associazione “Pony Club le Bettole” era regolato da un contratto di comodato d’uso gratuito. Vale a dire che la moglie e la cognata di Giorgetti, per tutti gli anni in cui hanno occupato l’ippodromo, non hanno pagato nemmeno un euro. Le attività della loro associazione vanno avanti fino al 2018. Solo due anni fa, quando l’amministrazione non è più in mano alla Lega, scatta un controllo dei vigili. Chiedono alla cognata di Giorgetti di presentare la Scia, vale a dire le autorizzazioni comunali per il maneggio, ma la presidente dell’associazione risponde di non essere in grado di esibirla.

GIORGIO MOTTOLA Quell’attività di maneggio dell’associazione della moglie di Giorgetti era abusiva?

ANDREA CIVATI – CONSIGLIERE COMUNALE VARESE - PD Secondo la ricostruzione dell’amministrazione, quell’attività non era autorizzata, e per questo è stata elevata una sanzione.

GIORGIO MOTTOLA Pronto Laura Ferrari?

LAURA FERRARI – PONY CLUB LE BETTOLE Si?

GIORGIO MOTTOLA Salve, sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, Rai3.

LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE No, adesso io non posso parlare grazie.

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sulla sua associazione.

LAURA FERRARI - PONY CLUB LE BETTOLE Grazie. Non posso, non posso, salve. Salve, salve.

GIORGIO MOTTOLA Perché c’è arrivata notizia che occupaste abusivamente l’ippodromo di Varese. Pronto?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La moglie e la cognata di Giorgetti hanno presentato un ricorso contro la sanzione inflitta dal Comune. E ora la questione pende davanti al giudice di Pace. Ma che qualcosa non andasse forse non era un segreto di Stato.

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Tutti sapevano, nessuno ha fatto nulla, compreso il comandante dei vigili, compreso il prefetto, compreso il Comune.

GIORGIO MOTTOLA Come fa a sapere che gli altri erano al corrente?

EX DIRIGENTE - COMUNE DI VARESE Perché ho parlato con il prefetto, dottor Zanzi, lo stesso Prefetto su diversi argomenti ma anche su questo, mi ha detto che era già a conoscenza. Io ho detto testuali parole al prefetto: “dottor Zanzi, secondo lei cosa avremmo dovuto fare, cosa avrei dovuto fare, girare la faccia dall’altra parte”?

GIORGIO MOTTOLA Salve senatore sono Giorgio Mottola di Report Rai3.

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Però i giornalisti li facciamo tutti dopo.

GIORGIO MOTTOLA Però vorremmo farle soltanto una domanda perché ci risulta che sua moglie e sua cognata abbiano occupato abusivamente l’ippodromo di Varese per diversi anni mentre Fontana era sindaco.

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma figurati, dai su.

GIORGIO MOTTOLA C’è stata anche una denuncia in procura, una denuncia in prefettura. E alla persona che la ha denunciato questa cosa è stato risposto che tutti sapevano tutto.

VOCE ALTRO SOGGETTO Andiamo di là un attimo a parlare?

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma che… è tutto regolare…

GIORGIO MOTTOLA Eh no, sembra abusivo…Non mi spinga però!

GIANCARLO GIORGETTI – VICE SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Ma perché la devi chiedere a me questa roba qua?

GIORGIO MOTTOLA Perché si tratta di sua moglie e sua… Che sta facendo? Con la pancia?

SICUREZZA? Mi sta spingendo!

GIORGIO MOTTOLA È lei che mi sta spingendo con la pancia. Facciamo pancia contro pancia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pancia contro pancia. Per fortuna che il nostro Giorgio è attrezzato. Però è stato bravo a ricostruire la mappa di un potere che si muove a proprio agio nell’ambito del conflitto d’interessi. A partire da quel voto che, in consiglio comunale, ha cambiato la destinazione di alcuni terreni e che hanno di fatto moltiplicato il valore dei beni immobiliari delle proprietà di famiglia. Su quei fatti sono stati presentati due esposti. Uno presso il tribunale di Varese che si è concluso con una archiviazione. Abbiamo letto, noi di Report, le motivazioni ed emerge un particolare singolare: i magistrati hanno preso in considerazione il primo voto, quello che era sulla modifica dell’intero piano regolatore della città e hanno chiesto l’archiviazione perché “Il consiglio comunale” compreso Fontana “si è espresso cumulativamente”. Mentre le indagini, però, in maniera singolare, non hanno preso in considerazione il secondo voto, quello che riguarda un emendamento specifico, presentato dal consigliere di opposizione Civati, che avrebbe di fatto bloccato i permessi a costruire sui terreni della figlia. Lì Fontana ha partecipato al voto nei duplici panni di padre e sindaco della città e ha contribuito a bocciare l’emendamento. Questo, non si sa perché, non è stato preso in considerazione. Non sappiamo neanche che fine poi abbia fatto l’altro esposto, quello presentato presso la procura di Milano. Mentre, invece, sull’ipotetico conflitto di interessi che riguarda i rapporti dell’avvocato figlia del governatore con l’Azienda Sanitaria Milano Nord, ci scrive, ci fa sapere che i suoi sono stati “incarichi a spese della compagnia assicuratrice della quale è fiduciaria dal 2015”. Scrive anche che le sue aree di competenza “non sono aumentate ma sono state” – in qualche modo – “rimodulate”. Però né lei né i responsabili dell’azienda sanitaria milanese hanno detto nulla su un ipotetico, possibile conflitto di interessi che riguarda la parentela fra lei e il governatore, cioè con colui che di fatto nomina i dirigenti che le affidano gli incarichi. Per quello che riguarda, invece, l’altro conflitto scoperto da Report, quello di casa Giorgetti, che cosa è successo? È successo che nel 2014 moglie e cognata di Giorgetti, con una associazione, si infilano nell’ippodromo comunale di Varese. Gli spalanca le porte un privato, sostanzialmente. Loro lì che cosa fanno? Infilano le loro stalle private, fanno dei corsi di equitazione, a pagamento, che vengono anche sponsorizzati da brochure del Comune. Tutto questo possono farlo senza pagare un euro, questo perché il concessionario privato ha firmato con loro un contratto di comodato gratuito. Tutto regolare. Fino a quando, dopo un po’ di anni, cambiata la giunta, il colore della giunta, arriva un’ispezione dei vigili. E secondo i vigili c’è un’irregolarità. Quel maneggio non aveva l’autorizzazione per svolgere le attività. L’associazione che fa riferimento alla moglie di Giorgetti ci scrive “Noi però siamo una Onlus, non abbiamo bisogno di autorizzazioni”. Vedremo. Vorrei vedere se al suo posto ci fosse stata un’altra associazione, di un’altra signora, se avrebbe potuto godere di 4 anni dell’ippodromo gratuitamente. Pare che fosse il segreto di Pulcinella, come ha detto il funzionario pubblico che ha denunciato tutto questo. Però il prefetto Zanzi che, tirato in ballo lui stesso, ha detto: no, a me nessuno ha mai detto niente. Comunque si ha la percezione che probabilmente la rete avrebbe continuato a coprire se fosse rimasto lo stesso colore politico. Come anche nel caso, per esempio, della moglie di Fontana, che non ha avuto bisogno di chi parlare direttamente con il marito per la fornitura dei camici, lo ha fatto con la moglie dell’assessore Cattaneo. Chi è che ha scelto l’assessore Cattaneo? E Gallera, per esempio, che è assessore della Sanità in un momento così delicato, chi l’ha scelto? Chi vota pensa che chi viene eletto vada in assemblea a rappresentarlo. In realtà è più facile che sia il terminale di una ragnatela. Chi è il consigliere occulto di Fontana? L’uomo che tesse la ragnatela? Lo vedremo. È uno che… “Non si muove foglia senza che Nino non voglia”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Del sistema di potere che governa la Regione Lombardia riusciamo a vedere solo la facciata esterna. Ma nel chiuso delle stanze e nella quiete delle telefonate riservate si affollano figure oscure e consiglieri occulti in grado di condizionare alcune delle scelte più importanti di Attilio Fontana. Ricostruzione intercettazione

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Presidente, volevo farti gli auguri di buona Pasqua.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Auguri anche a te caro Ninuzzo, tutto bene?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ninuzzo, come lo chiama Fontana, è Nino Caianiello, per quasi vent’anni capo occulto di Forza Italia a Varese ed eminenza grigia del centrodestra Lombardo. Sebbene non ricopra alcun incarico ufficiale è stato per anni molto vicino all’attuale governatore.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Ho avuto tante occasioni di incontrare, di lavorare e di confrontarmi con Nino che anche nei momenti di difficoltà Nino ha saputo sempre trovare una soluzione ed è sempre stato assolutamente coerente con quello che ha detto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il nome di Nino Caianiello ai più non dice nulla. Ma per vent’anni è stato uno degli uomini più potenti della Lombardia. Molto legato a Marcello Dell’Utri, non c’è nomina o incarico pubblico tra la Provincia di Varese e la Regione che non sia stato discusso prima con lui. Per la sua fama di tagliatore di teste si è conquistato il soprannome di Mullah.

ANTONIO RAZZI IN VIDEO Caro Clerici, vedi che sono con Nino e ti do un bel consiglio da amico, fatti li cazzi tuoi.

NINO CAIANIELLO Hai capito o no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nino Caianiello è circonfuso da una misteriosa aura di potere. Nel 2016 ha subito una condanna definitiva per concussione e da allora è scomparso dai radar. Assente nelle foto ufficiali della politica, ha continuato tuttavia a partecipare a tutti i tavoli che contano compreso quello per la composizione della giunta nel 2018. Sulla scelta degli assessori regionali, Caianiello sembra aver avuto una grossa voce in capitolo. Ricostruzione Intercettazione

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Hai visto che i tuoi… i tuoi consigli li ho seguiti quasi tutti, nel senso che….

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Non te ne… non te ne pentirai vedrai, non te ne pentirai.

ATTILIO FONTANA – PRESIDENTE REGIONE LOMBARDIA Non è male, non è male la giunta secondo me.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Assolutamente… no… no è messa bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per capire quali siano stati i consigli dati a Fontana, siamo andati a chiederlo direttamente al Mullah.

GIORGIO MOTTOLA Pronto salve Nino Caianiello?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA Io volevo fare una chiacchierata con lei.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Eccomi qua. Ultimo piano.

GIORGIO MOTTOLA Ok, d’accordo, grazie.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la prima volta, dopo il suo arresto, Nino Caianiello accetta di parlare davanti a una telecamera.

GIORGIO MOTTOLA Leggendo le telefonate fra lei e Fontana, sembra che il presidente sia lei, che i ruoli siano in qualche modo invertiti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Per motivi diversi, perché io ho vissuto più la gestione politica del partito. Mentre invece Attilio era la persona da proporre. Non è lui il gestore della questione politica, se vogliamo dirla così.

GIORGIO MOTTOLA Risponde un po’ agli ordini, Fontana?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non ordini, agli accordi.

GIORGIO MOTTOLA Attilio Fontana è un po’ un front office?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È un front office.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dalle telefonate sembra che i consigli di Caianiello a Fontana abbiano riguardato in particolare la nomina ad assessore di Raffaele Cattaneo, l’assessore chiave per far ottenere il contratto dei camici alla ditta del cognato e della moglie. Ma soprattutto Caianiello sembra ispirare la nomina di Giulio Gallera, a cui il presidente Fontana darà il delicato assessorato alla sanità.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Attilio disse vedi che ho seguito il tuo consiglio, Raffaele entra in giunta con l’incarico all’ambiente.

GIORGIO MOTTOLA Lei con Fontana parla anche di Gallera.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Sì, parlo di Gallera perché sapevo che c’era questa legittima aspettativa da parte di Gallera.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei dà in qualche modo lei dà il suo benestare.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io dico per me Gallera va bene.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quella tra Fontana e Caianiello non era soltanto un rapporto tra alleati di coalizione. Quando il futuro governatore nel 2018 deve mettere in piedi per le regionali la sua lista personale è al Mullah che si rivolge.

GIORGIO MOTTOLA Lei è stato uno degli organizzatori della lista civica di Fontana?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io diedi una mano.

GIORGIO MOTTOLA Lei era un po’ il deus ex macchina di questa…

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io fui coinvolto da Matteo Bianchi e gli diedi una mano. Tant’è che alcune persone…

GIORGIO MOTTOLA Matteo Bianchi è il segretario provinciale della Lega.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Segretario provinciale della Lega. Gli demmo una mano nell’organizzare la lista.

GIORGIO MOTTOLA La lista. La lista per il presidente.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA La lista per trovare i candidati. La lista del presidente Fontana.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se da una parte dispensava consigli a Fontana su nomine e incarichi, dall’altra Caianiello tesseva anche un’altra ragnatela occulta di potere in cui finivano mazzette e corruzione. La sua tela avviluppava molti comuni della provincia di Varese e avvolgeva persino il cuore della regione Lombardia. La procura di Milano ha individuato il Mullah come il regista della nuova Tangentopoli lombarda.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Non si muove foglia che Nino non voglia o che Nino non sappia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E nella sua ragnatela c’era anche l’ex sindaco e dirigente di Forza Italia, Danilo Rivolta, per anni uno degli uomini più fedeli di Nino Caianiello. Trascorreva le giornate con il Mullah nel suo quartier generale, l’Hausgarden. Un bar di Gallarate, ribattezzato l’ambulatorio per la fila di gente che ogni giorno si formava nel locale per parlare, omaggiare e chiedere favori a Nino Caianiello.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Da me arrivava di tutto lì. Io ho ricevuto dal Pd alla Lega a… c’è stato di tutto e di più lì quindi. Poliziotti, carabinieri, guardia di finanza. Io ho ricevuto di tutto.

GIORGIO MOTTOLA Poliziotti, finanzieri veniva a chiederle favori?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA E mica li chiedevo io a loro.

GIORGIO MOTTOLA Chi veniva all’ambulatorio?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ah veniva di tutto. Io ho visto passare di tutto, guardi, dall’operaio al dirigente sanitario.

GIORGIO MOTTOLA Per chiedere che cosa?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Le più svariate cose. Chi un posto di lavoro, chi una sistemazione, chi la sorella, chi un posto in giunta, chi un appalto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ambulatorio, per favorire un appalto, piazzare un incarico o sollecitare una variante urbanistica, Caianiello intascava anche le mazzette. Intercettazione ambientale Manca solo il,uno , mille e son quelli del... dell’ultimo giro… m’ha combinato un casino quel deficiente.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO L’ho sempre saputo io. Sempre.

GIORGIO MOTTOLA Tutti pagavano la mazzetta.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO La decima. Le percentuali non le conoscevo. Però io politicamente lo ammiravo.

GIORGIO MOTTOLA Lei lo ammirava nonostante sapeva che prendesse le mazzette?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si, perché, comunque aveva messo in piedi un sistema, gliel’ho detto, che funzionava. Non era tanto legittimo però diciamo che l’hanno lasciato andare avanti per tanti anni questo sistema.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Le cifre delle cosiddette tangenti che si sono sentite e viste nel ‘92… oggi queste cose non esistono.

GIORGIO MOTTOLA Sono cifre molto più basse.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma non esiste assolutamente. Gli stessi professionisti fanno fatica. A…

GIORGIO MOTTOLA A sborsare.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA A tirare fuori i soldi e tutto il resto. E tanti, per esempio, si giustificavano a fronte dì dicendo, noi non riusciamo a muoverci in un modo o nell’altro.

GIORGIO MOTTOLA E quindi davano di meno rispetto a quello pattuito.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Uno diceva noi il sette percento non riusciamo a darlo, diamo il quattro percento, dicevamo vabbè fai se tu dici che è cosi è così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Caianiello ammette di aver preso mazzette, tuttavia li chiama contributi e giura che servivano solo a finanziare la macchina del partito e le campagne elettorali.

GIORGIO MOTTOLA Lei li chiama contributi, i magistrati le hanno chiamate tangenti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA È per quello che sono le tangenti io pagherò nelle sedi opportune. Per fare una manifestazione politica devi pagare la sala, devi fare i manifesti, devi pagare il microfono, se prendi i fiori perché arriva Maria Stella Gelmini anziché un deputato per fare un omaggio, queste cose costano. GIORGIO MOTTOLA Si però lì il giro dei soldi sembrava molto più ampio rispetto alla sala, i fiori……

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA No!

GIORGIO MOTTOLA …non era soltanto per le spese minime.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Noi abbiamo fatto le campagne elettorali e le campagne elettorali sono costate. E la campagna elettorale era per il partito e per il candidato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tanto il candidato lo decide lui. E gli sarà anche riconoscente. Perché Nino Caianiello, che per la prima volta ha svelato il suo ruolo di consigliere occulto nella formazione della giunta Fontana, rappresenta la cruna di quell’ago del potere dove devi passare, devi infilarti se vuoi candidarti o semplicemente se vuoi un favore. Davanti al bar dove lui accoglieva la gente, si formavano lunghe file, per questo si chiamava, veniva definito “l’ambulatorio”, anche perché Caianiello si prendeva cura di tutti quelli che bussavano alla sua porta, a partire dagli uomini delle forze dell’ordine, lo abbiamo sentito, anche a chi voleva candidarsi. E anche Fontana gli ha chiesto consigli. Non solo ha piazzato l’assessore Cattaneo e l’assessore Gallera, ma ha seguito quasi tutti i consigli nella formazione della giunta. È per questo che Caianiello si sente autorizzato a dire: guardate che Fontana è un semplice gestore della politica, non la fa lui. La politica si fa altrove da quel palazzo di vetro che è la Regione. Che di trasparente ha ben poco, ormai, se è vero che Caianiello, come dice la magistratura, è il regista della nuova tangentopoli lombarda. Lui si lamenta un po’ perché le percentuali sono passate dal 7 al 4 per cento, tempi magri anche per chi riceve le mazzette. Ma lui le chiama “contributi alla politica”. Sembra di ascoltare un vecchio refrain. Ma si può definire politica, questa, quando c’è chi paga per ottenere in cambio un favore che quasi mai coincide con l’interesse pubblico? È l’erosione lenta della legalità, e di questo passo poi è scontato che alla porta di Caianiello possa arrivare a bussare anche il diavolo senza aver bisogno di mascherarsi.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha fatto un patto con il diavolo a Lonate?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Diciamo di sì.

GIORGIO MOTTOLA Per farsi eleggere sindaco di Lonate ha accettato un accordo con la ‘ndrangheta.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO È vero. Si finisce in questa nuvola in cui si perdono un po’ le dimensioni. Ti sembra di salire in alto, in alto, in alto e si accettano certe cose.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2014 Danilo Rivolta è stato eletto sindaco di Lonate Pozzolo, comune di 11 mila abitanti che sorge a ridosso dell’aeroporto internazionale di Malpensa. Qui, nel cuore della provincia di Varese da tempo spadroneggia una delle locali di ‘ndrangheta più potenti e sanguinose di tutta la Lombardia. Negli ultimi 20 anni, gli abitanti di Lonate hanno assistito a incendi, esecuzioni per strada e cadaveri carbonizzati.

ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non ho alcun timore a definirlo, una sorta di laboratorio, laboratorio di ‘ndrangheta al Nord.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’ombra dell’aeroporto di Malpensa la ‘ndrangheta fa affari d’oro con il business dei parcheggi e dell’edilizia. Non controlla solo politici, professionisti e imprenditori. Negli anni ha infiltrato il tessuto sociale.

ALESSANDRA CERRETI - PUBBLICO MINISTERO DDA DI MILANO Non mi è mai capitato, Presidente, e come è noto ho lavorato per anni in Calabria, che in un processo noi abbiamo avuto 17 testimoni, su 17 testimoni 12 sono falsi. Ecco neanche in Calabria succede questo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L ‘ndrangheta qui come nel resto della Lombardia, gestisce un consistente pacchetto di voti che a ogni elezione porta in dote al candidato che è più in grado di soddisfare le loro esigenze.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha incontrato esponenti di famiglie calabresi di Lonate per fare questo accordo? DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Prima viene un rappresentante della famiglia De Novara che chiede di potersi candidare. Io gli dissi Franco pensaci bene forse meglio magari mettere un rappresentante giovane, sai…

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei sapeva che Franco De Novara fosse vicino agli ambienti della ‘ndrangheta insomma.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Sì lo avevo letto. Concordammo poi alla fine di mettere la figlia Francesca in lista.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Franco De Novara, all’anagrafe Salvatore, è un imprenditore attivo nel settore del movimento terra e dell’edilizia. Risulta imparentato con i boss della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Alle elezioni la figlia Francesca è tra le più votate e grazie alle sue preferenze Rivolta riesce a vincere di misura.

GIORGIO MOTTOLA Per la sua elezione a sindaco i voti della ‘ndrangheta si rivelano alla fine decisivi. DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Si rivelano decisivi sì.

GIORGIO MOTTOLA E quando scopre di aver vinto grazie ai voti dei calabresi, che cosa pensa?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Cominciano i problemi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il suo primo atto da sindaco è la nomina ad assessore di Francesca De Novara, sposata con Cataldo Malena, braccio destro dell’allora capo della cosca di Lonate Pozzolo.

GIORGIO MOTTOLA Lei subisce pressioni mentre è sindaco dalle famiglie calabresi?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Ho avuto delle richieste strane. Loro chiedevano in un certo senso legittimamente per quello che avevano fatto però non potevo garantire spudoratamente così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Lonate le famiglie originarie della Calabria occupano un intero quartiere con le loro villette. È qui che incontriamo Franco De Novara.

GIORGIO MOTTOLA Diciamo che il suo nome è un po’ chiacchierato.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Il mio nome? A me non mi risulta.

GIORGIO MOTTOLA Nella vicenda anche del sindaco Danilo Rivolta. Mi ha detto insomma degli accordi che avete fatto nel 2014.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Noi abbiamo fatto accordi?

GIORGIO MOTTOLA Eh. Lui dice che all’epoca faceste un accordo per portare i voti dei calabresi.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma lascia stare…dai.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Accanto a De Novara, notiamo un volto che ci sembra subito familiare.

GIORGIO MOTTOLA Lei è Francesca, giusto?

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io sono Francesca.

GIORGIO MOTTOLA Ah ecco, l’assessore.

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Eh…

GIORGIO MOTTOLA Lei si è candidata in lista? Francesca.

FRANCESCA DE NOVARA – ASSESSORE COMUNE DI LONATE POZZOLO (2014- 2017) Io mi sono candidata in lista perché Danilo Rivolta mi ha rotto i coglioni fino a casa per farmi candidare perché aveva bisogno delle quote rosa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dunque stando ai De Novara, si sarebbero ritrovati nella giunta comunale di Lonate Pozzolo non perché l’avrebbero chiesto ma perché pregati da Danilo Rivolta.

GIORGIO MOTTOLA Inizialmente era lei Franco che voleva candidarsi con lui?

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Io sono 40 anni che lavoro, io sono venuto in Lombardia con la valigia di cartone. Vedi come sono nero? Diglielo a Rivolta.

GIORGIO MOTTOLA Ma si parla anche di rapporti.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma quali rapporti?

GIORGIO MOTTOLA Con le cosche della ‘ndrangheta qui a Lonate.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Quali rapporti? Qua si lavora, qua sei vuoi mangiare, devi lavorare.

GIORGIO MOTTOLA Alfonso Murano era suo parente, no?

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Se c’era Alfonso Murano mo’ ti… ti picchiava.

GIORGIO MOTTOLA No, non mi dica così. Perché mi dovrebbe picchiare.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Non dire ‘ste minchiate.

GIORGIO MOTTOLA Anche suo marito Francesca è in carcere per ndrangheta.

FRANCO DE NOVARA - IMPRENDITORE Ma dico io come cazzo ti permetti tu di andare in giro per le case a suonare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alfonso Murano è lo zio di Francesca De Novara, ma particolare non trascurabile, era anche uno dei massimi capi della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo. Una sera di febbraio del 2006 è stato ucciso in un agguato. Sarebbe stato senz’altro orgoglioso di vedere otto anni dopo sua nipote Francesca occupare un posto in giunta nel comune che controllava. Ma nell’ascesa politica dei calabresi, avrebbe avuto un ruolo importante anche un altro politico sconosciuto ai più.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Non li ho incontrati direttamente, è stato fatto il tramite.

GIORGIO MOTTOLA Chi è stato questo tramite?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Corrisponde al nome di Peppino Falvo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo in Lombardia è conosciuto come il re dei Caf di Milano e provincia. È stato il coordinatore regionale dei Cristiano Popolari, il partito meteora fondato da Mario Baccini, ma nel momento del bisogno è corso in sostegno elettorale a tutto il centrodestra, da Forza Italia a più recentemente la Lega di Salvini.

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO DI LONATE POZZOLO Peppino se decideva di portare “X” persone a una manifestazione ci metteva il battito di una farfalla, ecco.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le doti di Peppino nel riempire di sue claque le assemblee politiche sono di dominio pubblico. Il capolavoro lo compie nella prima convention dei Cristiano Popolari. Quando Falvo riempie la sala di gente che non aveva idea di dove si trovasse.

INTERVISTE DI MARCO BILLECI – 03/12/2012

UOMO M’hanno portato qua, non so cosa dobbiamo fare.

MARCO BILLECI Chi lo ha portato, scusi?

UOMO Siamo venuti con un pullman.

MARCO BILLECI Un pullman da dove?

UOMO Da Lonate Pozzolo.

MARCO BILLECI Perché ha deciso di essere qua oggi?

DONNA Non lo so.

MARCO BILLECI Come non lo sa, è arrivata in pullman?

DONNA Sì, in pullman.

MARCO BILLECI Da?

DONNA Da Lonate.

UOMO 2 Io sono un carissimo amico di Falvo.

MARCO BILLECI Chi è, scusi?

UOMO 2 Falvo.

MARCO BILLECI Eh, mi dica chi è Falvo.

UOMO 2 È un calabrese che, è un mio carissimo amico.

GIORGIO MOTTOLA Falvo era l’intermediario fra le famiglie calabresi, gli ambienti di ‘ndrangheta e la politica?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Diciamo che era un collegamento, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questo ruolo opaco di cerniera tra politica e ‘ndrangheta, Peppino Falvo è finito sotto indagine a Milano. Incontriamo il re dei Caf proprio davanti a uno dei suoi sportelli.

GIORGIO MOTTOLA Lei sembra lì l’intermediario tra la politica e la ‘ndrangheta.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente, lo decideranno i magistrati, tranquillo.

GIORGIO MOTTOLA Rivolta dice che nel 2014 lei si è presentato a casa sua con Franco De Novara.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Ha rapporti stretti con Franco De Novara.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Non può negare.

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE Ci sarà la magistratura, tranquillo, non ci sono problemi.

GIORGIO MOTTOLA Però lei nega di avere avuto anche rapporti con i De Novara?

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No assolutamente, li conosco.

GIORGIO MOTTOLA E sa anche che Francesca era la nipote del boss che è stato ucciso?

PEPPINO FALVO - IMPRENDITORE No, questo non lo sapevo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Peppino Falvo nega tutto, ma l’accordo tra Rivolta e le famiglie calabresi sarebbe stato suggellato anche da un livello politico superiore: Nino Caianiello, l’uomo che non si muove foglia a Varese che lui non voglia.

GIORGIO MOTTOLA Nino Caianiello, cosa sapeva del suo accordo con la ‘ndrangheta?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ogni accordo lui lo avallava, ogni lista lui doveva controllarla. Ogni lista doveva convalidarla.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha mai incontrato i De Novara?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, li ho incontrati nell’ufficio a Gallarate di Peppino Falvo.

GIORGIO MOTTOLA Falvo fece da intermediario fra lei e De Novara?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA E Falvo mi rappresentò la necessità di poter dare delle garanzie che a livello locale i rappresentanti di Forza Italia non riuscivano a dare ai De Novara sul fatto che non sarebbero stati trattati male ma che comunque c’era una continuità del rapporto con Rivolta. GIORGIO MOTTOLA Però lei, diciamo, immaginava che fossero vicini agli ambienti di ‘ndrangheta?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Che erano sul filo sì, questo sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lonate non è solo un microcosmo. È lo specchio di quello che accade anche a Milano e nel resto della Lombardia. Quanto la presenza della ‘ndrangheta sia pervasiva lo spiega un boss di Lonate in un’intercettazione. Intercettazione

CATALDO CASOPPERO La ‘ndrnangheta, ogni paese c’è una ‘ndrangheta.

GIORGIO MOTTOLA Se si fa politica si può non avere rapporti con la ‘ndrangheta?

DANILO RIVOLTA – EX SINDACO LONATE POZZOLO Ritengo che siano pochi i comuni che non hanno questo tipo di influenza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così quando Danilo Rivolta viene arrestato ed è costretto a dimettersi, il copione rimane lo stesso. Alle ultime elezioni comunali di Lonate, nel 2019, la ‘ndrangheta si è limitata a cambiare cavallo, puntando su Enzo Misiano, il capo locale di Fratelli d’Italia che prova a minare il monopolio politico di Nino Caianiello. Intercettazione

ENZO MISIANO – EX SEGRETARIO FRATELLI D’ITALIA LONATE POZZOLOFERNO Cioè qualunque cosa fa, devo chiamare Caianiello. Ed io gli ho detto guarda chiama chi vuoi cioè non è un problema mio, non è il mio referente. Io non devo chiamare nessuno. Se tu devi chiamare Caianiello, chiama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino al suo arresto Enzo Misiano è stato il referente locale di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni. Ma il suo primo lavoro era autista e tuttofare del boss della cosca Giuseppe Spagnolo. Alle comunali di Lonate del 2019, Enzo Misiano convoglia i voti della ‘ndrangheta sulla lista di Ausilia Angelino, candidata sindaco del centrodestra e della Lega.

GIORGIO MOTTOLA Da quello che risulta, la ‘ndrangheta ha sostenuto dei candidati nella sua lista?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, se ha sostenuto me io su queste cose qui assolutamente non condivido. Perché io non sapevo nulla e di conseguenza ognuno si prenda la responsabilità personale.

GIORGIO MOTTOLA Ma Enzo Misiano però lo conosceva?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Enzo Misiano certo lo conoscevo, come lo conoscevano tutti.

GIORGIO MOTTOLA E lo frequentava quindi.

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Lavora in Comune. Lo conosce anche l’attuale sindaco.

GIORGIO MOTTOLA Prende le distanze da Enzo Misiano?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Ma stiamo scherzando. Adesso che sono saltati fuori i fatti prendo le distanze non solo da Misiano, ma da tutti. Mi dispiace. Perché io non li conosco, nessuno.

GIORGIO MOTTOLA Forse doveva fare più attenzione nella composizione della lista, probabilmente, no?

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 Innanzitutto, io su questo non desidero, glielo dico sinceramente, che venga messa in onda perché a me non interessa…

GIORGIO MOTTOLA Perché no? Lei era candidata sindaco mi scusi, non è che è un fatto privato è un fatto pubblico.

AUSILIA ANGELINO – CANDIDATA SINDACO LONATE POZZOLO 2019 No, perché lei sta… allora poi… basta…

GIORGIO MOTTOLA E’ normale che un politico incontri figure border line, vicine alla ‘ndrangheta?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Questa gente vota. Allora o stabiliamo che chi è in odore o è fra virgolette di…non votano e quindi non li contattiamo. Questi vanno, votano.

GIORGIO MOTTOLA Cioè lei dice votano, quindi anche se sono ‘ndranghetisti ma votano qualcuno deve andarli a prendere poi quei voti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Sì, e come si fa? Si vince anche per un voto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E poco importa se quel voto rischia di essere puzzolente. Lo ammette candidamente Nino Caianiello. D’altra parte, se lo smentisse, sarebbe come sminuire un po’ quel ruolo di playmaker della politica del centro destra in Lombardia. Alla corte del consigliere occulto di Fontana si sono presentati il candidato sindaco, i familiari di ‘ndranghetisti, tutti a braccetto con il facilitatore, l’uomo, il re dei Caf in Lombardia, l’uomo che riusciva a riempire, in caso di necessità, le sale per un convegno politico e portare consenso: Peppino Falvo. Poi, poco importa se chi si trascinava dietro non sapesse neppure che cosa stesse facendo lì dentro. L’importante è intercettare il loro voto, meglio ancora, anzi, se è un voto inconsapevole. Nella distrazione si riesce meglio magari a far eleggere i familiari di ‘ndranghetisti o, addirittura, l’ex autista di un boss. E tutti benedetti dalla politica. La ‘ndrangheta è in tutte le città, l’abbiamo sentito da chi ci vive dentro. E si presenta anche senza più bisogno di mascherarsi, di travestirsi. Questo da una parte. Dall’altra, invece, abbiamo funzionari dello Stato che per denunciare un semplice conflitto di interessi sono costretti a farlo a volto coperto. C’è migliore rappresentazione del degrado della politica? Chissà come Franca Valeri avrebbe oggi descritto la sua Milano. 

Vassalli, valvassori e valvassini. Report Rai PUNTATA DEL 26/10/2020 di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara e Federico Marconi. Report torna a occuparsi della Lombardia, dove Tangentopoli sembra non essere mai finita. Per entrare nel giro che conta degli appalti pubblici, come confermano anche alcune inchieste giudiziarie, bisogna pagare: in esclusiva a Report imprenditori, politici e amministratori locali raccontano come la corruzione in Lombardia sia diffusa dai piccoli comuni fino agli scranni del consiglio regionale. Parlano di finanziamenti occulti alla politica, mazzette sugli incarichi pubblici, bandi sistematicamente truccati. Report svela il lato oscuro della politica lombarda, avvolta da una ragnatela di imprenditori spregiudicati legati alla 'ndrangheta, faccendieri che pilotano le nomine ed eminenze grigie che, dietro alla Lega, avrebbero fatto man bassa di incarichi e consulenze. Un malaffare che avrebbe condizionato le scelte sulla sanità e in particolare sui test sierologici nel pieno dell'emergenza Covid-19, causando ritardi e aumento dei contagi. 

“VASSALLI, VALVASSORI E VALVASSINI” Di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara- Federico Marconi Riprese di Alfredo Farina- Davide Fonda Immagini di Andrea Lilli- Fabio Martinelli Montaggio di Giorgio Vallati.

GIORGIO MOTTOLA Il partito che ha provato a boicottarla di più a ostacolare i test sierologici è stata la Lega?

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Sì, di fatto sì, da parte della Lega abbiamo proprio notato questo isolamento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per fermare il sindaco di Robbio, il segretario della Lega Lombarda manda messaggi agli amministratori del suo partito. In questo, che siamo in grado di mostrarvi in esclusiva, scrive: “Ho parlato con Salvini: il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio è fuori dal movimento”.

GIORGIO MOTTOLA Lei dice addirittura in questo messaggio che ha parlato con Salvini, quindi la questione era molto importante.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Guardi io Salvini lo sento tutti i giorni, francamente mi sta chiedendo una roba di marzo.

GIORGIO MOTTOLA Ma in Lombardia soltanto voi leghisti avete provato a ostacolare in modo così forte i test sierologici rapidi. Perché? Forse perché stavate difendendo Diasorin? Difendevate gli interessi di Diasorin?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, allora, se dici una cosa così, io ti querelo. Ma querelo te, querelo te.

GIORGIO MOTTOLA Guardi che io le sto facendo una domanda. Con chi stava parlando?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Informati, studia, perché non sai una beata minchia.

GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi perché la Lega si è accanita così tanto sui test sierologici rapidi.

UOMO DELLA SICUREZZA C’è un evento, c’è un evento… GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi solo questo. E’ un parlamentare, è un onorevole, e la vicenda… sono morte 35mila persone, anche perché non hanno potuto fare i tamponi. Perché soprattutto con voi della Lega, vi siete accaniti così tanto contro i test sierologici rapidi.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Anche qui formuli una domanda sbagliata. Non siamo noi della Lega, ma sono le linee guida del ministro Speranza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in realtà Emilia Romagna e Veneto nello stesso periodo avevano già iniziato i test sierologici. Grimoldi, invece, in un altro messaggio definisce Francese, che li stava facendo, “quella merda di Robbio”. E l’effetto degli interventi del deputato sembra farsi sentire subito: “mi taccio”, risponde infatti l’amministratore leghista, ma avverte: “occhio che prima o poi verrà fuori che ha ragione lui”. Quasi tutte le amministrazioni leghiste non proseguono con i test sierologici nei loro comuni e alla maggior parte dei lombardi non resta che aspettare Diasorin.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lunedì abbiamo mandato in onda le dichiarazioni di Nino Caianiello, considerato il nuovo regista della nuova tangentopoli lombarda. Ecco. Lui ha ammesso ai microfoni del nostro Giorgio Mottola, di essere stato il consigliere occulto nella formazione della giunta regionale a guida Fontana. Lui che ha anche formato la lista civica che ha supportato il governatore. Ha ammesso di aver incassato tangenti e ha ammesso anche di aver ricevuto alla sua corte, familiari di ‘ndranghetisti che poi lo hanno anche supportato nel corso degli anni in varie elezioni perché la ‘ndrangheta ha detto candidamente “vota”. Ecco tutto questo ci ha sottoposto ad un tiro incrociato durante la settimana: il Governatore Fontana ci ha accusato, con i suoi assessori, ci hanno accusato di aver fatto una falsa rappresentazione dei fatti, una costruzione artefatta, un vile complotto. Insomma, ecco, secondo loro il problema alla fine siamo noi che quei fatti li abbiamo raccontati. Noi avevamo solo la presunzione di sollevare una questione morale che invece è rimasta in sottofondo come un fastidioso rumore. Ecco, per fortuna la procura di Milano la pensa diversamente: i magistrati Furno, Scudieri e Bonardi sono stati quelli che hanno scoperto questo sistema corruttivo nell’inchiesta “Mensa dei Poveri”. E poche ore fa la DDA ha inviato i suoi investigatori ad acquisire il materiale originale della nostra inchiesta. Questo perché le dichiarazioni di Nino Caianiello, sono l’istantanea, la fotografia della Tangentopoli 4.0, che supera quel sistema anche banale fatto di mazzette. È un sistema molto più sofisticato: è un sistema che prevede intanto la scelta del candidato, poi quello di affiancargli un professionista e tutto questo per formare un cerchio magico che è teso a drenare denaro pubblico e a esercitare un potere. Anche una gestione spregiudicata del potere che incide anche su quello che è un valore estremo: la salute. È una questione di vita e di morte. Ecco insomma, un sistema che ha reminiscenze feudali. Il nostro Giorgio Mottola

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Milano è stata l’epicentro dell’inchiesta giudiziaria più sconvolgente della storia recente: Tangentopoli. Ma più di un quarto di secolo dopo, in città e nel resto della Regione la corruzione sembra essersi soltanto evoluta.

GIORGIO MOTTOLA La sensazione è che Tangentopoli non sia mai finita.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Io dico che secondo me non finirà mai.

GIORGIO MOTTOLA Perché tangentopoli, secondo lei, non finirà mai?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Perché la politica ha un costo. Questo paese ha una serie di gangli che inevitabilmente anche attraverso la burocrazia la si alimenta. E poi il problema non è chi riceve in questo Paese, è chi propone.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi per farsi strada negli appalti a Milano e in provincia bisogna pagare. Lo sa bene Daniele D’Alfonso, giovane imprenditore milanese che fa di tutto per entrare nel giro che conta.

DANIELE D’ALFONSO – INTERCETTAZIONE Faccio una figura della Madonna, c’ho mezza Forza Italia cazzo questa sera. Tutti quelli di Varese. I numeri uno di Forza Italia e di Varese sono lì. Faccio una figura, faccio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per D’Alfonso i politici del comune di Milano e della Regione Lombardia sono una vera e propria ossessione. Paga loro feste in discoteca, le vacanze, le campagne elettorali e, secondo la procura di Milano, paga anche un fiume di tangenti. Per questo qualche mese fa, D’Alfonso è stato arrestato, ma ai magistrati finora non ha mai confessato nulla.

GIORGIO MOTTOLA Perché cercavi così spasmodicamente rapporti con la politica?

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Beh, perché volevo lavorare sempre di più. Se vado da solo, ci sono dieci Daniele che fanno il lavoro…

GIORGIO MOTTOLA …che fanno la tua stessa cosa.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo.

GIORGIO MOTTOLA Non è pazzesco che si debbano usare i politici per fare questa roba?

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Se vuoi lavorare a Milano è così. Perché è pazzesco puoi anche stare in giro a cercare altri lavoretti, provare a tribolare.

GIORGIO MOTTOLA Però nel giro grande senza i politici non ci entri.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo, per i lavori un po’ grossi come quello che ho preso io. Io ho preso… Quando mi hanno arrestato avevo 18 milioni di lavori firmati tra privato e pubblico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per entrare nel giro che conta Daniele D’Alfonso prova ad agganciarsi al treno di Nino Caianiello, assumendo, il suo pupillo: Pietro Tatarella, consigliere comunale di Forza Italia e astro nascente della corrente del Mullah.

PIETRO TATARELLA – EX CONSIGLIERE COMUNALE MILANO (CONSIGLIERE COMUNALE DI MILANO DAL 2011 AL 2019) Nino hai un grande pregio che è quello di saper sempre puntare sui giovani e anche andando controcorrente. Un difetto però ce l’hai: gli spaghetti come me li fai mangiare tu proprio, non si riescono a digerire. Stai senza pensieri. Ciao.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma evidentemente senza pensieri non sono stati a lungo visto che poi li hanno arrestati tutti. A partire dal consigliere Tatarella, a cui ogni mese D’Alfonso versa 5000 euro per procacciargli contatti e lavori.

GIORGIO MOTTOLA Gli hai dato veramente un botto di soldi a Tatarella…

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Mi ha presentato dei gruppi grossi!

GIORGIO MOTTOLA Ti ha presentato anche tanti politici.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Eh sì, certo, dieci anni siamo stati insieme.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è così che D’Alfonso riesce a ottenere appalti anche con l’Amsa, l’azienda dei rifiuti del comune di Milano, per il quale la sua ditta si occupa di spazzamento neve e soprattutto smaltimento di rifiuti speciali.

GIORGIO MOTTOLA Sarebbe stato più complicato senza Tatarella entrare in quel giro.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo, è ovvio. Non sarei proprio entrato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Daniele D’Alfonso non ha rapporti solo con la politica. La sua ditta ha legami molto stretti con alcune aziende della ‘ndrangheta lombarda. In particolare, con una società di movimento terra di Buccinasco che fa riferimento al capomafia Giosafatto Molluso. Per conto di Molluso e del figlio Giuseppe, D’Alfonso ha assunto ex appartenenti alle cosche e portato a termine lavori edili.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Siamo amici da una vita.

GIORGIO MOTTOLA Hai degli amici belli pericolosi, però.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE A me non hanno mai messo una mano addosso, te lo direi. Non mi hanno mai toccato.

GIORGIO MOTTOLA E dovevi lasciargli anche qualcosa?

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE No niente, no mai dato un euro, mai chiesto un euro.

GIORGIO MOTTOLA Però è pazzesco, gli ‘ndranghetisti non ti hanno mai chiesto soldi, i politici sì.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Certo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pietro Tatarella non è l’unico ad aver ricevuto denaro da Daniele D’Alfonso. Soldi in nero sono arrivati anche al gruppo di Fratelli d’Italia in Regione Lombardia e a diversi consiglieri regionali di Forza Italia, molto vicini a Nino Caianiello.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Io ho conosciuto Daniele D’Alfonso tramite Pietro Tatarella.

GIORGIO MOTTOLA E voleva una mano?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA E voleva una mano. Sì. Perché lui per esempio a me chiese: dice io non riesco a lavorare in provincia di Varese. Perché voglio partecipare ai bandi ma non mi invitano.

GIORGIO MOTTOLA E venne a chiedere da lei la chiave d’ingresso.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Lo misi in contatto con un amministratore della società. E dissi: invitatelo, no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nonostante la cattiva reputazione, il portafoglio di D’Alfonso torna utile per le regionali del 2018. Caianiello mette infatti in contatto l’imprenditore milanese con alcuni dei suoi candidati.

GIORGIO MOTTOLA E D’Alfonso le espresse l’intenzione di finanziare la campagna elettorale di Forza Italia per le regionali?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Ma D’Alfonso si sapeva che dava una mano alla campagna elettorale. Lui stesso propose, dice, io poi ricambierò … per ricambiare devi dare solo i contributi quando ci sono le campagne elettorali.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alle elezioni regionali del 2018 che decreteranno il successo di Fontana e del centrodestra, Daniele D’Alfonso si scatena. Sperando di essere entrato finalmente nel giro che conta inizia a sborsare in nero decine di migliaia di euro per la campagna elettorale.

GIORGIO MOTTOLA Il 2018 per te diventa una specie di pesca per trovare altri politici che possono darti una mano alle elezioni regionali.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Si, è così se vuoi lavorare. Cioè allora, cosa vuoi fare? Devi morire di fame o devi lavorare? Io ho 60 famiglie da mantenere, cosa faccio?

GIORGIO MOTTOLA Quindi per te le elezioni regionali sono un momento in cui puoi andare lì e trovare… DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE È 15 anni che li conosco, è quindici anni che ho rapporti privati…

GIORGIO MOTTOLA Che paghi qui, paghi là.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Che se io ho una campagna elettorale da dare una mano, devo dare una mano alla campagna elettorale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i candidati che D’Alfonso sostiene con più soldi in nero c’è Fabio Altitonante. Delfino di Caianiello, riesce a farsi eleggere consigliere regionale ed ottiene da Fontana la nomina a sottosegretario della giunta regionale con la pesantissima delega alla rigenerazione dell’area Expo.

GIORGIO MOTTOLA 20mila euro ad Altitonante sono… diciamo…

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Sono venuti dopo però…

GIORGIO MOTTOLA Però sono di riconoscimento per quello che aveva fatto prima.

DANIELE D’ALFONSO - IMPRENDITORE Sono questioni di rapporti. Che ti dico di no? Cioè è vero. Sarei un pazzo a dirti non è vero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per i soldi presi da D’Alfonso, Fabio Altitonante è stato arrestato. Costretto a dimettersi da sottosegretario della giunta Fontana, ha conservato lo scranno nel consiglio regionale. Ma nonostante l’arresto e l’imminente processo quest’estate si è anche candidato sindaco in un piccolo comune abruzzese, Montorio al Vomano.

GIORGIO MOTTOLA Posso fare qualche domanda?

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Chi sei?

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola di Report, Rai3.

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Ah.

GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle: lei si dimette da sottosegretario alla Regione Lombardia e si viene a candidare a sindaco qui, non le sembra un enorme controsenso?

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Mi hanno chiesto se con la mia esperienza potevo supportarli in questa rinascita del paese.

GIORGIO MOTTOLA È accusato di aver intascato 25 mila euro.

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA No, io sono accusato di traffico di influenze.

GIORGIO MOTTOLA Perfetto, però sempre 25mila euro sono. Comunque.

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Traffico… no, però non sono mazzette, tutt’ora sono consigliere regionale della Lombardia. Ho appena votato un bilancio da 25 miliardi di euro in consiglio regionale.

GIORGIO MOTTOLA Come giustifica quei 25mila euro dati da D’Alfonso?

FABIO ALTITONANTE – CONSIGLIERE REGIONE LOMBARDIA Io non sono mai entrato nel merito. Io credo nella giustizia, ci sarà un processo e sono certo che ne uscirò pulito.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Glielo auguriamo perché sarebbe una bellissima notizia anche per tutti i cittadini lombardi. Altitonante però è stato arrestato, si è dimesso da sottosegretario della giunta, ha conservato però il suo posto da consigliere e anche lo stipendio. Nelle more del processo, ha ritenuto opportuno candidarsi a sindaco. Pare che in Abruzzo non possano fare a meno della sua esperienza. A questa altezza hanno fissato l’asticella dell’etica o se volete semplicemente quella dell’opportunità. Nella campagna elettorale dell’ex sottosegretario alla giunta ha contribuito, ha avuto un ruolo anche D’Alfonso con i suoi 25mila euro. Ecco lui ha pagato, D’Alfonso, gettoni - così chiama le mazzette come se i politici fossero dei jukebox – anche all’altro delfino Pietro Tatarella, l’altro delfino di Caianiello. Gli erano indigesti gli spaghetti che cucinava il suo mentore però digeriva meglio invece i cinque mila euro in nero che ogni mese gli dava D’Alfonso. Ma proprio grazie a questo rapporto che D’Alfonso aveva creato con Caianiello, che era riuscito a incamerare diciotto milioni di euro di lavori. Dentro ci era finito dentro anche un boss con la sua ditta. “Però” dice D’Alfonso “a me non hanno mai torto un capello né chiesto un euro a differenza dei politici”. Ma quello che abbiamo raccontato è ancora a un livello basico del sistema molto più sofisticato che aveva messo in piedi Caianiello, fatto da professionisti fedeli e anche riconoscenti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei comuni e nelle società pubbliche della provincia di Varese e di mezza Lombardia ogni singolo incarico, ogni consulenza affidata a un avvocato, a un commercialista, a un ingegnere, a un tecnico o uno studio professionale doveva avere il benestare di Nino Caianiello.

GIORGIO MOTTOLA Tutte le nomine, tutti gli incarichi, tutte le consulenze date da enti pubblici sono oggetto di una spartizione…

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Beh, c’è un accordo politico… perché poi, chi li nomina?

GIORGIO MOTTOLA Tutti i bandi sono truccati, praticamente.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ci sono degli amministratori che poi fanno delle scelte. Gli amministratori che fanno riferimento alla propria area politica, propongono i propri.

GIORGIO MOTTOLA Quindi vengono scelte persone di fiducia dei partiti.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Se io concordavo con i partiti “va bene, allora ognuno fornisce il proprio nome, c’è lo spazio per tutto il resto”, ognuno sapeva, per propria quota, che il mio candidato si chiamava Giovanni e gli altri proponevano Nicola e ognuno se ne faceva carico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in questo spoil system a cui avrebbero partecipato tutti partiti, quando il professionista riceveva l’incarico in quota Caianiello, gli toccava pagare anche una tassa occulta.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Avevo degli amici professionisti che me l’avevano confessato loro che…

GIORGIO MOTTOLA Che pagavano la mazzetta.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Che retrocedevano, sì. Ad esempio un professionista mi ha raccontato che veniva chiamato dal commercialista di turno che rappresentava la partecipata e diceva “guarda ti ho mandato in pagamento la fattura, sai cosa devi fare”. Lui capiva e andava, prelevava i contanti e portava dove doveva portare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel sistema Caianiello, chi veniva nominato da un’amministrazione pubblica era tenuto a retrocedere una percentuale sul compenso che riceveva per l’incarico. L’accordo veniva esplicitato al professionista immediatamente prima della nomina.

GIORGIO MOTTOLA Chi otteneva una nomina, un incarico, una consulenza in percentuale sul proprio compenso quanto doveva retrocedere?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Il professionista quando veniva nominato in un consiglio di amministrazione, in un ente pubblico e tutto il resto gli dicevamo “bene, quando farete il… prenderete ‘st’incarico, sapete che dovete versare, se potete, se potete, il 10 per cento”.

GIORGIO MOTTOLA Questa però, formalmente, Caianiello, si chiama mazzetta.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Mazzetta riconosciuta al sottoscritto, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E se la mazzetta deriva dall’incarico dato a un professionista di fiducia per far lievitare i finanziamenti occulti basta moltiplicare gli incarichi, i lavori e le consulenze.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Ma lui mi ha costretto a inventarmi dei lavori a Lonate per collocare professionisti per fare. Una roba. Ma guardi che a pensarci cose da pazzi. Cioè, uno non ci arriva mai. GIORGIO MOTTOLA Cioè si inventava l’incarico solo per dare i soldi a quel professionista.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Sì.

GIORGIO MOTTOLA Perché poi il professionista doveva girare i soldi a Caianiello.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Sì. GIORGIO MOTTOLA Ma quanto erano le percentuali?

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Il 5%… parliamo dal 5% al 10%, dipende.

GIORGIO MOTTOLA Dal 5% al 10%.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E a volte i contributi alle spese venivano consegnati cash direttamente a Caianiello, come hanno documentato le registrazioni degli investigatori.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Questa persona venne, mi portò il quid, che era intorno ai 500 euro, e tutto il resto, dicendo: questa è la decima per l’incarico e tutto il resto.

GIORGIO MOTTOLA Lei però se li è presi.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io li presi e poi li ho riversati nelle spese della gestione corrente del partito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in provincia di Varese alla spartizione di nomine e appalti non partecipavano solo gli uomini e il partito di Nino Caianiello.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Ma questa è una cosa, mi permetto di dirle, che in modo diverso, o comunque magari anche uguale, lo fanno tutti i professionisti, non solo quelli che venivano, facevano riferimento all’area di Forza Italia. GIORGIO MOTTOLA Anche gli altri professionisti pagavano la decima agli altri partiti…

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Secondo me sì. Anche perché, come si fa a reggere un partito? Quando si faceva una nomina del collegio sindacale, i membri del collegio sindacale di solito erano tre: uno della Lega, uno di Forza Italia e uno del Pd. E questi professionisti solo a Forza Italia riconoscono queste cose?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comune di Gallarate è stata la roccaforte del sistema Caianiello. Qui il Mullah aveva uno dei suoi uomini di fiducia: il segretario di Forza Italia Alberto Bilardo. Arrestato per aver preso mazzette, ai magistrati ha raccontato un altro pezzo della storia: “nella Lega – ha spiegato durante un interrogatorio - non c’è una sola persona che prende soldi direttamente ma c’è una suddivisione degli incarichi, ad esempio, quando Mascetti prende un incarico poi fa lavorare altri professionisti”. Il riferimento è ad Andrea Mascetti, uno degli esponenti più misteriosi e più potenti della Lega in Lombardia.

GIORGIO MOTTOLA Ai magistrati ha detto che anche la Lega aveva un sistema simile a quello che avevate voi.

ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) Quello che c’è scritto e che ho detto io nelle carte è sicuramente vero. È a prova di smentita.

GIORGIO MOTTOLA Rispetto ad Andrea Mascetti, Mascetti si è accaparrato…

ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) È un serio e capace professionista.

GIORGIO MOTTOLA Assolutamente, che si è accaparrato tutti quanti gli incarichi della consulenza della provincia di Varese.

ALBERTO BILARDO – EX SEGRETARIO FORZA ITALIA GALLARATE (VA) Perché è di una preminenza assoluta. Assoluta. Perché è il riferimento sicuramente di tutta la provincia di Varese e anche oltre. Io capisco e mi piacerebbe tantissimo poterle raccontare qual è la mia opinione su queste cose… ma le racconterei anche qualcosa di più, ma non posso farlo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma qualcosa in più su Andrea Mascetti e su come funzionava il sistema di spartizione sul fronte Lega lo scopriamo grazie a un altro esponente del centrodestra di Gallarate, ex assessore all’Urbanistica in comune e compagna di Danilo Rivolta.

ORIETTA LICCATI – EX ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI GALLARATE (VA) La Lega dava solo incarichi a Mascetti.

DANILO RIVOLTA - EX SINDACO LONATE POZZOLO (VA) Studio Mascetti, attenzione!

ORIETTA LICCATI – EX ASSESSORE URBANISTICA COMUNE DI GALLARATE (VA) Studio Mascetti. Tutti, quindi praticamente Forza Italia li dava a loro e questo li dava a Mascetti. Per quanto riguarda l’A336 Ospedale Unico dove lì c’è un altro casino che verrà fuori, tutti gli incarichi sono stati dati a Mascetti per conto Lega. Poi lei dice, retrocede la Lega? Non lo so cosa fanno a casa loro, però sono stati imposti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra il 2016 e il 2019 nel solo comune di Gallarate Andrea Mascetti ha avuto incarichi per oltre 85mila euro. Ma la sua rete di consulenze sembra estendersi anche in molti altri comuni della provincia, come sa bene Nino Caianiello.

GIORGIO MOTTOLA Per conto della Lega in provincia di Varese chi si accaparrava la maggior parte degli incarichi?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA So dove vuole arrivare. Lo studio legale che veniva dato come riferimento leghista in provincia di Varese viene vagheggiato nello studio dell’avvocato Mascetti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La rete di consulenze dell’avvocato Mascetti che siamo riusciti a ricostruire comprende una decina di comuni nella sola provincia di Varese e altrettanti nel resto delle province lombarde. Andrea Mascetti è uno degli avvocati più rinomati di Varese, agli inizi della sua carriera ha collaborato con lo studio di Attilio Fontana e da allora non si sono più separati. Quando è stato eletto presidente della Lombardia, uno dei suoi primi atti è stato nominare Mascetti suo consulente per gli affari legali a 50.000 euro all’anno.

GIORGIO MOTTOLA Andrea Mascetti è un uomo di Attilio Fontana?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Io direi che Attilio Fontana è un uomo di Andrea Mascetti. Andrea Mascetti è sempre stato una potenza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Monica Rizzi, ex assessore regionale in Lombardia, è una dirigente storica della Lega Nord. Vicinissima a Umberto Bossi, ha osservato da vicino l’ascesa politica di Andrea Mascetti, che in Lega entra negli anni ’90 ma non ricopre mai né incarichi pubblici né dentro al partito.

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Lui non faceva parte del nazionale, non faceva parte del federale però si sapeva che esisteva, un po’ un’eminenza grigia che girava.

GIORGIO MOTTOLA Da dove deriva tutto questo potere di Mascetti?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Beh, lui ha questa associazione sua che ha indirizzato molto le politiche culturali, eccetera, all’interno della Lega.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’associazione di Andrea Mascetti si chiama Terra Insubre, un’associazione culturale che rivendica le origini celtiche della Lombardia, pubblica una rivista trimestrale e organizza convegni e iniziative in giro per la Lombardia, strizzando l’occhio al secessionismo della vecchia Lega.

ANDREA MASCETTI - AVVOCATO Abbiamo certamente raggiunto un obiettivo, quello di far conoscere l’Insubria a livello popolare. Prima era qualcosa di relegato agli studiosi di storia, alcuni ambienti accademici o economici. Oggi molte persone sono consapevoli di essere in qualche modo insubri.

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io ho anche aderito a quella associazione.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha aderito a Terra Insubre?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Io ero riuscito a diventar socio di Terra insubre.

GIORGIO MOTTOLA E un napoletano come lei che ci fa in un’associazione che si chiama Terra insubre?

NINO CAIANIELLO – EX DIRIGENTE FORZA ITALIA Lì in quella sede c’erano le opportunità per poter fare determinati incontri, lì incontravi gran parte del mondo leghista, ecco.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quale fosse lo spirito di questi incontri ce lo racconta un leghista che è stato per 20 anni membro delegato all’assemblea di Terra insubre.

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui è stato bravo perché si è inventato questa associazione culturale e da lì ha creato un sistema che io l’ho definito una CL della Lega, una compagnia delle opere della Lega.

GIORGIO MOTTOLA Perché? MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Prima ha cominciato a creare dei gruppi di professionisti e se li è fidelizzati.

GIORGIO MOTTOLA Terra insubre serve soprattutto a fare relazioni tra i professionisti?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE È un centro di lobby

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in questa presunta lobby sembra che ci fosse un grande interesse innanzitutto per il settore sanitario.

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui aveva creato un gruppo di sanità forte a Varese che contava un centinaio di medici e con questo è entrato negli ospedali.

GIORGIO MOTTOLA Mascetti è uno in grado di condizionare le nomine dei direttore sanitari?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Si, si è stato sicuramente…

GIORGIO MOTTOLA E direttori generali nelle ASST?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Sì, sì.

GIORGIO MOTTOLA Lui che cosa ottiene in cambio?

MEMBRO DELEGATO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Lui intanto prende le consulenze come avvocato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E di consulenze per gli ospedali lombardi Andrea Mascetti ne ha fatte diverse negli ultimi anni. Una da 47mila per l’azienda sanitaria di Melegnano. 36 mila per l’ospedale di Monza, 22 mila Bergamo Ovest, 10mila euro azienda sanitaria 7 Laghi, 23 mila Asl di Varese e altri 50 mila quella di Como. Ma per Andrea Mascetti e Terra Insubre non sono stati sempre tempi d’oro. All’epoca della Lega Nord di Umberto Bossi, l’associazione dell’avvocato varesotto era infatti finita nel libro nero.

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA I rapporti di Umberto Bossi con Terra Insubre erano pari a zero, proprio non se l’è mai filata per nulla. Ha effettivamente detto è un covo di fascisti.

GIORGIO MOTTOLA Bossi ha definito Terra Insubre un covo di fascisti?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Sì, un covo di fascisti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa è una foto inedita di Andrea Mascetti da giovane. Con una mano regge il tricolore e con l’altra fa il saluto fascista. Il passato da estremista di destra dell’avvocato varesotto è condiviso da un altro illustre frequentatore di Terra Insubre.

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA E se poi pensiamo che un Savoini che aveva il duce in busto in ufficio in Lega viene da lì.

GIORGIO MOTTOLA Savoini viene da Terra Insubre?

MONICA RIZZI – EX ASSESSORE REGIONE LOMBARDIA Sì, era in Terra Insubre.

GIORGIO MOTTOLA Savoini e Mascetti hanno un rapporto molto stretto?

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Sì sì. Io Savoini devo averlo conosciuto le prime volte penso tramite Terra Insubre.

GIORGIO MOTTOLA Li vedevi insieme?

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Si, si. Anche per l’identità.

GIORGIO MOTTOLA Neofascista?

MEMBRO ASSEMBLEA TERRA INSUBRE Ahahah.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Savoini è l’ex portavoce di Matteo Salvini. Come vi avevamo mostrato l’anno scorso, aveva l’ufficio alla Padania tappezzato di simboli nazisti e foto di SS. Lo scorso anno, durante un incontro d’affari al Metropol di Mosca, Savoini avrebbe contrattato con alcuni emissari russi una compravendita di petrolio che doveva servire a far arrivare alla Lega di Salvini oltre 65 milioni di euro in nero. Nelle conversazioni registrate al Metropol di Mosca spunta anche il nome di Andrea Mascetti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché spunta il nome del super legale Andrea Mascetti? Il super legale della Lega? È il 18 ottobre del 2018. Mosca, all’hotel Metropol è in atto una trattativa per una partita di gasolio. Ecco. Secondo i magistrati della procura di Milano, che indagano per corruzione internazionale, quella trattativa avrebbe dovuto portare 65 milioni di dollari in nero nelle casse della Lega per finanziare la campagna elettorale delle europee. Noi lo diciamo chiaramente: quei soldi non sono mai stati trovati. Però a condurre quella trattativa c’è Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini. Dialoga con dei russi, in mezzo c’è anche un esponente di un partito politico fondato dall’ultranazionalista, il filosofo Dugin, vicino a Putin. E parlano di questa compravendita di petrolio che sarebbe dovuto avvenire anche attraverso dei mediatori. Ora. C’è un uomo affianco a Savoini che indica anche la banca idonea per fare questo tipo di operazione: Banca Intesa. Perché dice: noi abbiamo all’interno di quella banca uno che sedeva nel comitato direttivo. Si chiama Andrea Mascetti, con lui possiamo parlare. Ora, Andrea Mascetti, all’epoca Mascetti sedeva nel comitato direttivo di Banca Intesa e siede ancora oggi in quel comitato, è anche nel cda di Banca Svizzera, Banca Intesa Svizzera. Lui dice: quando ho letto queste dichiarazioni mi è venuto da sorridere perché insomma non mi aspettavo mi tirassero in ballo in una vicenda nella quale io non c’entro assolutamente nulla. Però con Savoini lui ha condiviso un percorso, ha condiviso delle ideologie, ha condiviso anche l’appartenenza a Terra Insubre. Terra Insubre è questa associazione culturale che secondo un ex membro avrebbe l’ambizione di essere un po’ la versione leghista di Comunione e Liberazione, di fare lobby. Che è molto attenta anche alla parte della sanità, agli affari della sanità e addirittura Mascetti, secondo lui, sarebbe in grado anche di influenzare le nomine per ricevere poi in cambio delle consulenze. Ora; noi lo premettiamo subito: Mascetti è un professionista di grande qualità però, insomma ha scalato posizioni importanti; è riuscito ad arrivare anche a capo di quella che è la fondazione più ricca e importante del paese. Ha fatto tutto da solo? Se vai in giro a fare già questa semplice domanda, trovi degli interlocutori terrorizzati.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Mascetti è sempre stato molto legato a Giorgetti.

GIORGIO MOTTOLA Fin dall’inizio.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Fin dall’inizio si, si. Cioè non è che abbia avuto un percorso diverso da quello di Giorgetti.

GIORGIO MOTTOLA Procedono insieme, insomma, il percorso. Più quota politica prende Giorgetti.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD La risposta è la domanda che mi hai fatto all’inizio.

GIORGIO MOTTOLA Cioè che il suo potere dipende da Giorgetti.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Non è che viene dal cielo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il rapporto tra i due risale molto nel tempo. Nella foto di gruppo in cui Mascetti e altri camerati fanno il saluto romano, c’è anche Giancarlo Giorgetti, all’epoca militante del Movimento Sociale Italiano. Quando la Lega va al Governo con i 5 Stelle e Giorgetti diventa sottosegretario alla presidenza del Consiglio, non sembra essersi dimenticato dell’amico. Mascetti viene nominato consigliere di amministrazione di una delle più importanti aziende di Stato, l’Italgas.

GIORGIO MOTTOLA Io volevo farle un’altra domanda sui suoi rapporti con Andrea Mascetti.

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA È un mio amico, certo.

GIORGIO MOTTOLA Molto stretto però.

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Certo.

GIORGIO MOTTOLA Andrea Mascetti in tutti i comuni, in tutte le partecipate lombarde ha incarichi. Come mai?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA E perché lo vieni a chiedere a me?

GIORGIO MOTTOLA Forse perché anche l’incarico all’Italgas.

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ma figurati.

GIORGIO MOTTOLA É stato favorito da lei, no?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ah, questo…

GIORGIO MOTTOLA Chiedo, chiedo…

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Assolutamente falso.

GIORGIO MOTTOLA Lei non ha mai fatto il nome di Mascetti per incarichi pubblici?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Assolutamente falso.

GIORGIO MOTTOLA Però lei fa parte anche di Terra Insubre giusto?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA È un’associazione e come tanti altri anche io certo.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Giorgetti è quello che ha gestito tutte le nomine quando c’era Bossi, tutte.

GIORGIO MOTTOLA Le nomine delle banche dice…

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Delle banche… Era l’uomo dei soldi e delle nomine. Sempre Stato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E quando Bossi esce di scena e cade il veto su Terra Insubre, Mascetti ottiene la sua prima nomina cruciale nel settore bancario, entrando a far parte degli organi di indirizzo della Fondazione Cariplo: la più importante e ricca fondazione bancaria del paese, azionista di Banca Intesa.

GIORGIO MOTTOLA Che in Fondazione Cariplo… c’è una sua mano rispetto all’incarico che ha avuto Mascetti?

GIANCARLO GIORGETTI – VICESEGRETARIO FEDERALE LEGA Ma voi pensate, ma io… che cosa cazzo c’entro io con queste cosa qua. Che voi pensate che io faccio tutte queste cose? Adesso basta, grazie. Comunque chiedete a lui perché i suoi incarichi li prende lui, mica li prendo io.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A Varese i membri della diramazione locale di Fondazione Cariplo vengono decisi formalmente dalla Provincia e nell’ultima tornata di nomine Andrea Mascetti era nella terna dei consiglieri indicati. Con chi ha trattato la sua riconferma?

NINO CAINIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Ci fu un incontro per fondazione Cariplo, la Lega chiese di poter ottenere i tre posti che la provincia avrebbe nominato in quota Lega. Dissi per me va bene. A condizione che in cambio prendo un assessore in più o un posto in consiglio di amministrazione in meno.

GIORGIO MOTTOLA Con chi fece questo incontro sulla Fondazione Cariplo?

NINO CAINIELLO – EX DIRIGENTE DI FORZA ITALIA Con Matteo Bianchi e con Mascetti. C’era forse anche Gambini.

ANDREA MASCETTI AVVOCATO Fondazione Cariplo da tantissimi anni interviene su molte aree di interesse che sono l’ecologia, la ricerca scientifica, l’assistenza sociale, i servizi sociali alla persona e la cultura. Quindi per noi intervenire sui territori è proprio una missione che è dentro di noi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Fondazione Cariplo gestisce un budget di 250 milioni di euro all’anno che vengono distribuiti tra donazione e contributi a enti di ricerca, fondazioni benefiche e associazioni. Su una parte di questi soldi, Andrea Mascetti ha voce in capitolo, in quanto membro della Commissione Centrale di beneficienza di Cariplo. Quando abbiamo chiesto a un membro della commissione informazioni sulle attività di Mascetti in Fondazione, al solo sentirne il nome si è spaventata e ha preteso l’anonimato.

GIORGIO MOTTOLA Quando io le ho detto di Andrea Mascetti lei mi ha detto una cosa e mi ha fatto…

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Che c’è da averne paura. Si.

GIORGIO MOTTOLA Di Andrea Mascetti?

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Dei mondi con cui Andrea Mascetti credo sia in contatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da quando Mascetti è in Cariplo la Fondazione ha finanziato progetti alla associazione Terra Insubre per quasi 100mila euro. E altri soldi sono poi arrivati dalla diramazione locale di Cariplo a Varese, la Fondazione Comunitaria del Varesotto, in cui Mascetti è consigliere.

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO Fondazione Varesotto. Lì i conflitti di potere sono… tantissimi oltre anche a qualche problema di trasparenza negli investimenti fatti da quella fondazione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alcune delle iniziative finanziate dalla Fondazione Comunitaria del Varesotto sono state proprio quelle di Terra Insubre: 5000 euro per un progetto sui celti in Lombardia, 6600 sull’alimentazione dei Celti, 1500 sempre sulla presenza dei celti nel varesotto, 6600 euro per un progetto sul dialetto lombardo e 11 mila per la festa di Terra Insubre. E dalla fondazione non sono mancati finanziamenti neanche alla Corte dei Brut, l’associazione dell’estremista di destra Rainaldo Graziani, alle cui iniziative partecipano Gianluca Savoini e il filosofo legato a Putin, Alexander Dugin.

DIRIGENTE FONDAZIONE CARIPLO È la logica classica della Lega. Su tutti i posti che si aprono noi dobbiamo esserci e portarli a casa. Poi dall’interno della Lega, si ridistribuiscono secondo equilibri… che è la logica feudale. Prima riconosco chi è il nemico e mi oppongo e porto a casa quello che posso. Poi del malloppo che ho portato a casa io che sono il vassallo distribuisco ai valvassori e ai valvassini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mascetti, con noi ha preferito non parlare. Però ci ha scritto. Nega ingerenze da parte dell’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giorgetti per quello che riguarda le sue nomine. Quella nella fondazione Cariplo – scrive - è stata decisa da 40 consiglieri. Banca Intesa invece l’ha indicato come consigliere indipendente per le sue indiscusse qualità professionali. Su quanto aveva invece affermato Caianiello, in merito alla spartizione delle nomine all’interno della Fondazione Varesotto, Mascetti ci ricorda che quei nomi sono, il suo nome è nella terna espressa dall’allora presidente della provincia di Varese in quota centro sinistra. Poi, in merito ai finanziamenti e alle donazioni alla sua associazione Terra Insubre, Cariplo ci scrive che non ci sono conflitti di interesse che riguardano Mascetti. Mascetti stesso ci ricorda: guardate io l’ho fondata quella associazione, ma oggi sono socio ordinario. Mentre in merito alla nomina nel cda di Italgas ci scrive che è arrivata su proposta di Assogestioni che rappresenta i fondi internazionali. Nega poi di aver avuto, Mascetti, ruoli per quello che riguarda le nomine di dirigenti negli istituti sanitari o negli istituti di altra natura. Ci scrive infine che a lui interessa fare cultura, non politica e che non ha da tempo alcun ruolo attivo nella Lega. Ora, noi, fino a prova contraria, gli crediamo. Tuttavia abbiamo ritrovato delle email all’interno del database del consorzio di giornalismo investigativo OCCRP, indirizzate al senatore Armando Siri, dalle quali si evincerebbe una realtà un po' diversa da come Mascetti ce l’ha raccontata: un ruolo nella Lega di Salvini nei mesi precedenti alle elezioni, Mascetti lo avrebbe avuto. Tra il 2017 e il 2018 è stato il supervisore del programma culturale della Lega; gli avrebbe anche dato una mano l’ex vice direttore del Foglio Alessandro Giuli, un nostro collega. Un programma culturale un po' esoterico, che avrebbe alla base, al centro la sacralità di un simbolo: il sole delle alpi. Poi il 29 settembre del 2017 Mascetti a Varese fa da link tra Salvini e un esponente di un movimento dell’estrema destra, Generazione Identitaria, che in Francia organizza anche campi paramilitari. Emerge anche che Mascetti invia degli spunti per la campagna elettorale provenienti da alcuni dirigenti della Fondazione Cariplo. E a chi li invia questi spunti? Li invia alla responsabile della segreteria del governatore Fontana, Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini. Ora, al di là del ruolo che ha avuto Mascetti, insomma che cosa emerge da questa storia? Che la politica è un po’ come un magnete: pretende che tutto graviti intorno a lei. È un po’ la logica del vassallo, del valvassore e valvassino, insomma. E a questo principio non c’è deroga neppure quando in ballo c’è un valore alto come la salute pubblica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel periodo più nero dell’emergenza Covid, quando le bare dei morti di Bergamo venivano portate via dai camion dell’esercito, in Regione Lombardia era quasi impossibile sottoporsi a un tampone. E così alcuni sindaci coraggiosi hanno deciso di fare da soli.

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Non venivano fatti i tamponi alle persone, la gente veniva lasciata in casa da sola, avevamo famiglie intere con sintomi, famiglie intere disperate perché si continuavano a contagiare l’uno con l’altro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Roberto Francese è il sindaco di Robbio, cittadina immersa nelle risaie della provincia di Pavia. Lo scorso marzo il primo cittadino ha deciso di rimediare alla mancanza dei tamponi con una campagna di test sierologici aperta a tutta la popolazione.

GIORGIO MOTTOLA Alla fine quanti test è riuscito a fare qui a Robbio?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Ma qui ne abbiam fatti, solo i cittadini di Robbio, 4500. Quindi praticamente a tutti.

GIORGIO MOTTOLA Al comune quanto è costato?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Zero perché è partita una gara di solidarietà. Molti hanno pagato anche per chi non poteva.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così se all’inizio i positivi erano solo 20, a Robbio grazie ai test sierologici ne vengono scoperti altri 400, senza pesare su ospedali e casse pubbliche.

GIORGIO MOTTOLA Per un’iniziativa di questo tipo avrà avuto il pieno plauso da parte della Regione?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Eh, purtroppo la Regione ha mandato diverse pec e e-mail dove comunque ci diceva di non andare avanti perché non eravamo autorizzati.

GIORGIO MOTTOLA E per quale ragione?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Ci hanno risposto che non si poteva prelevare il sangue.

GIORGIO MOTTOLA Cioè la regione Lombardia ha di fatto vietato, in quel periodo, i test sierologici sul territorio?

ROBERTO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Di fatto sì. Molti, come Cisliano, dalla sera alla mattina hanno dovuto dire a migliaia di persone di stare a casa loro perché, comunque, questi divieti erano perentori, tassativi e poco interpretabili.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cisliano è uno dei comuni della provincia di Milano che ha seguito l’esempio di Robbio, organizzando in proprio, a costo zero per le casse del Municipio, una campagna di test sierologici di massa. Ma neanche qui l’iniziativa è stata presa bene dalla regione.

LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Alla fine mi è arrivata una diffida. Quindi più chiaro di così non si poteva essere.

GIORGIO MOTTOLA Da chi?

LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Da parte di Ats che ci ha bloccato per una serie di ragioni. Io li ho chiamati cavilli burocratici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Al comune di Robbio è arrivata la stessa mail. Ve la mostriamo in esclusiva. Il direttore sanitario dell’Ats di Pavia definisce l’iniziativa inopportuna e quindi il sindaco è pregato di soprassedere agli accertamenti programmati. In un’altra mail, è ancora più esplicito e specifica che l’Ats di Pavia non dà l’autorizzazione alla ricerca di anticorpi antivirus avviata dal sindaco nel comune di Robbio.

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Noi abbiam detto guardate non spendendo un euro di soldi pubblici andiamo avanti comunque seguendo i protocolli sanitari nazionali. Se quelli regionali son diversi spiegateci il perché. Non ci han più risposto e noi siamo andati avanti fino alla fine.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In diverse mail le aziende sanitarie lombarde spiegano che bisogna attendere i test ufficiali della regione. Vale a dire il test sierologico che il Policlinico San Matteo di Pavia stava mettendo a punto con Diasorin. La società italiana di biotecnologia che aveva da poco chiuso un contratto in esclusiva con la Lombardia. Ma quando i sindaci si muovono per fare i test ai propri cittadini, il test di Diasorin non era ancora pronto. E non lo sarebbe stato prima di un mese.

LUCA DURÈ – SINDACO CISLIANO (MI) Non si capiva perché bisognava aspettare la certificazione di un test di Diasorin quando c’erano già dei test certificati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 3 marzo, sei giorni prima che fosse ufficiale la scelta di Diasorin, il Policlinico San Matteo, riceve una mail da Technogenetics. Una società di biotecnologie che all’epoca aveva a disposizione test sierologici già certificati e già usati in Veneto e in Emilia Romagna. Vista l’emergenza Technogenetics li mette a disposizione del San Matteo.

GIORGIO MOTTOLA E che cosa le è stato risposto dal San Matteo?

SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Nulla.

GIORGIO MOTTOLA Nulla?

SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Nulla, neanche ricezione del messaggio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sebbene i test di Technogenetics fossero già pronti a inizio marzo, la Regione Lombardia non li prende neanche in considerazione e, senza fare una gara d’appalto, acquista per 2 milioni di euro 500.000 test da Diasorin che però saranno disponibili solo a fine aprile. E visto che quei test si basavano su una tecnologia sviluppata inizialmente dal San Matteo, Diasorin lascia alla Regione royalties pari all’1 percento.

SALVATORE CINCOTTI – CEO TECHNOGENETICS Chi sta in questo settore sa benissimo che non si parla meno del 10 per cento in questi casi in termini di royalties; bastava fare una gara e a quel punto probabilmente il San Matteo avrebbe spuntato sicuramente delle condizioni migliori facendo l’interesse pubblico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mesi dopo la Procura di Pavia ha aperto un fascicolo sull’appalto a Diasorin. La Guardia di finanza a sorpresa si è presentata anche a casa di Andrea Gambini ex segretario della Lega a Varese, che però non risulta indagato, ma soprattutto direttore dell’Istituto Insubrico per la vita. I cui uffici sorgono in questo parco in provincia di Varese accanto a quelli di Diasorin. Diasorin infatti è uno dei più importanti clienti dell’ Istituto Insubrico per la vita. Negli ultimi tre anni ha versato nelle sue casse oltre 700mila euro e lo scorso anno, con un versamento da 1 milione 100 mila euro ha rappresentato da sola oltre il 90 per cento del fatturato di Servire srl, una partecipata dell’Istituto Insubrico, che conta solo 7 dipendenti ed è presieduta sempre da Andrea Gambini.

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda rispetto all’attività dell’Istituto Insubrico e Servire S.R.L.?

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Tutto pubblico.

GIORGIO MOTTOLA L’Istituto Insubrico ha avuto poi un ruolo rispetto a Diasorin?

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Può vedere le fatture elettroniche tutte depositate all’agenzia delle entrate. Né l’Istituto Insubrico, né io, né niente abbiamo fatto niente di particolare, infatti non risulto indagato. Quindi, per me la cosa finisce qui. GIORGIO MOTTOLA Ha subito delle perquisizioni

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Buona giornata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la testimonianza di ex dirigenti apicali della Lega, l’ascesa politica e manageriale di Andrea Gambini sarebbe legata a doppio filo alla figura di Andrea Mascetti.

EX PARLAMENTARE LEGA NORD È quello che è stato in questi giorni perquisito per la storia della Diasorin, Andrea Gambini, per esempio.

GIORGIO MOTTOLA Anche Andrea Gambini è vicino a lui?

EX PARLAMENTARE LEGA NORD Eh, è stato lui a volerlo capogruppo e commissario della sezione di Varese della Lega. È stato lui a metterlo prima vicepresidente della lega e poi al Besta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino a poco tempo fa, Andrea Mascetti, è stato vice presidente dell’Istituto Insubrico e con Andrea Gambini, oltre al passato in Cariplo, ha condiviso fino al 2017 le quote di una società che si occupa di genetica e ha sede in Svizzera, la Suisse Regenerative.. Ma due anni fa Gambini ha ricevuto dalla giunta Fontana un’altra nomina in campo scientifico: presidente dell’Istituto Besta, uno dei più importanti centri di ricerca neurologica d’Europa, per il quale abbiamo scoperto che Andrea Mascetti svolge consulenze legali. Quella di Andrea Gambini sembra davvero una fulgida carriera soprattutto se si considera che, leggendo il suo curriculum, il suo ultimo lavoro non assegnato dalla politica, è stato addetto alle vendite di questa farmacia a Tradate, in provincia di Varese.

GIORGIO MOTTOLA Solo una domanda.

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Mi costringe a chiamare i carabinieri che è fuori da tre giorni.

GIORGIO MOTTOLA Si ma una sola domanda, come ha fatto da semplice farmacista a diventare dirigente di alcuni…

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Non sono un semplice farmacista.

GIORGIO MOTTOLA Sì, lei ha lavorato in farmacia prima di diventare un dirigente del Besta.

ANDREA GAMBINI – DIR. GENERALE ISTITUTO INSUBRICO PER LA VITA Legga il curriculum. Non ho autorizzata l’intervista.

GIORGIO MOTTOLA Ma quali sono i suoi rapporti con Mascetti? È vero che Mascetti, aspetti!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’inchiesta Diasorin, Alessandro Venturi, presidente del San Matteo indagato per l’appalto dei test, ha affidato la sua difesa legale a un avvocato dello studio Mascetti. Ma nella vicenda dei test è buona parte del mondo leghista lombardo che sembra aver giocato un ruolo. Quando i sindaci ribelli disobbediscono al divieto delle aziende sanitarie e proseguono lo screening, scendono in campo i pezzi da novanta.

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Addirittura due deputati della Lega in quei giorni anziché pensare a capire perché in Regione Lombardia non venivano fatti i test, la gente non veniva ricoverata, la gente veniva lasciata a casa a morire, si sono impegnati per fare diverse pagine di interpellanza parlamentare al ministro della Salute Speranza, dicendo che quello che veniva fatto nei comuni come Robbio e gli altri non era giusto e andava monitorato ed eventualmente fermato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’interpellanza ha come primo firmatario Paolo Grimoldi, deputato e segretario della Lega Lombarda. Non si limita agli atti ufficiali in Parlamento. Ai sindaci leghisti arrivano infatti molte pressioni anche da altri dirigenti del partito.

GIORGIO MOTTOLA Il partito che ha provato a boicottarla di più a ostacolare i test sierologici è stata la Lega?

RENATO FRANCESE – SINDACO DI ROBBIO (PV) Sì, di fatto sì, da parte della Lega abbiamo proprio notato questo isolamento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per fermare il sindaco di Robbio, il segretario della Lega Lombarda manda messaggi agli amministratori del suo partito. In questo, che siamo in grado di mostrarvi in esclusiva, scrive: “Ho parlato con Salvini: il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio è fuori dal movimento”. PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Non mi ricordo perché mando tanti messaggi dopodiché il sindaco di Robbio, non mi pare che… Dov’è Robbio?

GIORGIO MOTTOLA Lei ci ha fatto un’interpellanza quindi la geografia almeno dovrebbe conoscerla.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Io firmo le interpellanze degli altri, dubito che io sia primo firmatario.

GIORGIO MOTTOLA Lei dice addirittura in questo messaggio.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Si.

GIORGIO MOTTOLA Che ha parlato con Salvini, quindi la questione era molto importante.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Guardi io Salvini lo sento tutti i giorni, francamente mi sta chiedendo una roba di marzo, ma...

GIORGIO MOTTOLA Ma in Lombardia soltanto voi leghisti avete provato a ostacolare in modo così forte i test sierologici rapidi. Perché? Forse perché stavate difendendo Diasorin? Difendevate gli interessi di Diasorin?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, allora se dici una cosa così io ti querelo, ma querelo te.

GIORGIO MOTTOLA Io le sto facendo una domanda. Solo i consiglieri e i parlamentari della Lega si sono accaniti così tanto con i test sierologici rapidi.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Scusa non ti rispondo più perché sei un maleducato e continui a cambiare la formulazione della domanda perché ti ho già dimostrato che hai torto marcio.

GIORGIO MOTTOLA Lei non sta rispondendo per questo riformulo.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No sei tu che non stai rispondendo. Mi hai chiesto del sindaco di Robbio della Lega, cioè mi hai anche detto una cosa sbagliata perché mi formuli le domande senza sapere l’a b c.

GIORGIO MOTTOLA Con chi stava parlando allora?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Informati e studia perché non sai una beata minchia!

GIORGIO MOTTOLA Mi spieghi perché la Lega si è accanita così tanto sui test sierologici rapidi? Mi spieghi questo, mi spieghi solo questo.

VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA C’è un evento, c’è un evento scusa, c’è un evento

GIORGIO MOTTOLA No però! É un parlamentare, è un onorevole e la vicenda… Sono morte 35 mila persone anche perché non hanno potuto fare i tamponi. Perché, soprattutto voi della Lega, vi siete accaniti così tanto contro i test sierologici rapidi?

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Anche qua formuli una domanda sbagliata.

GIORGIO MOTTOLA E la riformuliamo.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Non siamo noi della Lega ma sono le linee guida del ministro Speranza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma in realtà Emilia Romagna e Veneto nello stesso periodo avevano già iniziato i test sierologici. Grimoldi, invece, in un altro messaggio definisce Francese, che li stava facendo, “quella merda di Robbio”. E l’effetto degli interventi del deputato sembra farsi sentire subito: “mi taccio”, risponde infatti l’amministratore leghista, ma avverte: “occhio che prima o poi verrà fuori che ha ragione lui”. Quasi tutte le amministrazioni leghiste non proseguono con i test sierologici nei loro comuni e alla maggior parte dei lombardi non resta che aspettare Diasorin.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Va bene, mi dai il nome, tu hai il nome di questo?

GIORGIO MOTTOLA Giorgio Mottola, Report, Rai3.

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Perfetto perché tu ogni volta che associ me a Diasorin io ti querelo.

GIORGIO MOTTOLA Ma può chiedere scusa per il fatto che ha vietato…

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA No, tu chiedi scusa per le domande assolutamente infondate che fai.

GIORGIO MOTTOLA … per aver vietato, per aver ostacolato così tanto i test rapidi che potevano consentire di scoprire tanti positivi in quel momento?

VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA Dobbiamo iniziare l’evento

PAOLO GRIMOLDI – SEGRETARIO LEGA LOMBARDA Però scusa dobbiamo iniziare l’evento.

GIORGIO MOTTOLA Mi dica solo questo, chiede scusa o no? Ha sbagliato o no a ostacolare i test rapidi? Mi dica.

VOCE DI UN UOMO DELLA SICUREZZA Deve iniziare un evento per favore

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non parlano. Viene da chiedersi perché il gotha della Lega chiede lo stop dei test sierologici agli amministratori della Lombardia, quelli del centro-destra. Ecco. Siamo in piena emergenza, a marzo. Non c’è la possibilità di fare i tamponi; alcuni sindaci prendono l’iniziativa, fanno i test sierologici alla popolazione. Quello di Robbio per esempio dopo alcuni giorni passa da 20 positivi a ben 400. Si scatena la reazione del segretario della Lega Nord in Lombardia, Paolo Grimoldi ecco manda, invia un sms minaccioso a tutti gli amministratori della Lega “ho parlato con Salvini” dice “se seguite l’esempio del sindaco di Robbio, siete fuori dal partito”. Un amministratore gli risponde, dice vabbè “non possiamo però fare la guerra ai sindaci che promuovono i test sierologici sul territorio, perché la gente e tutto il mondo della sanità chiede quei test”. Ma l’anomalia degli sms coinvolge anche il presidente del San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi. È indagato anche lui in questa vicenda; si avvale per la tutela legale, dello studio Mascetti. Perché è colui che ha in qualche modo dialogato esclusivamente con Diasorin. Non ha neppure risposto al telefono al competitor Technogenetics. Nel pieno delle indagini, gli investigatori scoprono che il professor Venturi ha cancellato dal telefono tutte le sue chat su WhatsApp. Questo “con l’obiettivo” scrivono, “di celare informazioni estremamente rilevanti e compromettenti” per quello che riguarda lui, ma anche altri soggetti. Quali? Per questo, La Guardia di Finanza ha sequestrato i telefonini del governatore Attilio Fontana e anche quelli della responsabile della sua segreteria, Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini. Adesso noi non sappiamo se riusciranno a recuperare quelle chat e cosa emergerà, se emergerà da quelle chat. Certo è che, se dovessero emergere delle responsabilità, degli interessi su questa vicenda, sarebbe veramente triste, triste, triste che l’avidità umana sovrasti un bene come quello della salute dei cittadini.

"Sesso in cambio di cocaina": i verbali delle orge a Bologna. Rabbia e sconcerto da parte della Lega: “Per Cavazza pena esemplare se colpevole”. Una minorenne abusata non sarebbe stata in grado di difendersi. Valentina Dardari, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale. Sette le misure cautelari eseguite dai carabinieri della compagnia Bologna Centro nei confronti di altrettanti soggetti accusati a vario titolo di induzione alla prostituzione e reati in materia di stupefacenti. Nel mirino alcuni professionisti della Bologna bene che organizzavano o partecipavano a festini a base di cocaina e sesso con ragazze minorenni. Tra le persone coinvolte anche il 27enne agente immobiliare Luca Cavazza, candidato per la Lega con Lucia Borgonzoni alle ultime elezioni regionali. Per lui sono scattati i domiciliari.

La reazione della Lega. Alla notizia, il senatore leghista Andrea Ostellari, commissario del partito in Emilia, ha subito commentato: “Proviamo rabbia e sconcerto nel leggere dell'operazione del nucleo operativo dei carabinieri della compagnia Bologna Centro, che ha eseguito misure cautelari per induzione alla prostituzione e reati in materia di stupefacenti. Tra le vittime anche ragazzine minorenni. Apprendiamo che ai domiciliari ci sarebbe anche Luca Cavazza candidato alle scorse regionali: se colpevole, auspichiamo una pena esemplare". Dopo accurate verifiche, Ostellari ha affermato che Cavazza non risulta iscritto al partito. Domiciliari anche per Fabrizio Cresi. Per l'imprenditore Davide Bacci, proprietario della “Villa Inferno”, a Pianoro, comune in provincia di Bologna, dove si svolgeva la maggior parte dei festini, è scattata invece la custodia in carcere, sulla base dell'ordinanza del giudice per le indagini preliminari Letizio Magliaro e delle richieste del pubblico ministero Stefano Dambruoso. Sarebbero soprattutto due le minorenni coinvolte negli incontri a base di sesso, soldi e droga.

Una minorenne abusata sotto l'effetto della droga. Tutto è partito dalla denuncia della madre della 17enne che per giorni non aveva visto rincasare la propria figlia. Sul cellulare della ragazza video e foto inequivocabili che la riprendevano in rapporti sessuali con uomini molto più vecchi di lei. Una delle ragazze avrebbe sostenuto, in sede di denuncia, di aver partecipato a uno dei festini sotto l’effetto della cocaina. Dopo aver assunto un grande quantitativo di droga, non più lucida, sarebbe stata coinvolta in atti sessuali. I presenti avrebbero approfittato di lei, che non era in grado in quel momento di opporre resistenza. Ai festini sembra girassero anche centinaia di euro. Alle ragazze, oltre alla cocaina, sembra venissero dati anche soldi per le loro prestazioni sessuali. A confermare quanto avvenuto anche l'altra 17enne, ex compagna di scuola della giovane e due donne, una delle quali prostituta, presenti alla festa. Come si legge nell'ordinanaza della procura di Bologna,"Cavazza, nell'accompagnarla presso la villa di Bacci e nell'introdurla alla festa aveva reso ben chiaro alla giovane che ci sarebbe stata una fattanza, vale a dire un consumo collettivo di cocaina procurata dal Bacci". La ragazza ha anche precisato che l'uomo l'aveva convinta a partecipare alla festa. Quando sono arrivati, sempre secondo quanto raccontato dalla ragazza, c'erano già altri giovani che stavano assumendo droga. "Lì ricordo di aver avuto un rapporto sessuale con lui che non sono riuscita a negare anche perché ero in casa sua dove avevo assunto gratuitamente parecchia coca", ha raccontato la minorenne. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, la minore conobbe alcuni tra gli indagati frequentando proprio gli ambienti della tifoseria della Virtus Basket. Sono in corso ulteriori accertamenti sui telefoni e tablet sequestrati agli indagati per verificare la presenza di eventuali filmati e chiarire il possibile coinvolgimento di altre persone nella vicenda. Tre le misure cautelari più gravi, mentre a quattro persone è stata applicata la misura dell'obbligo di firma, tra queste anche un ingegnere. Secondo quanto emerso dalle indagini, la loro posizione sarebbe meno grave perché non coinvolti direttamente nell'organizzazione dei festini ma il loro ruolo sarebbe stato quello di semplici partecipanti. Gli indagati dalla procura sono in totale otto.

Il ruolo chiave del Cavazza. Uno degli otto indagati ha spiegato esattamente il ruolo chiave che aveva il Cavazza: "Cavazza aveva il compito, e lo svolgeva continuativamente, di individuare giovani donne da avviare alla prostituzione, ovvero da condurre nei luoghi ove tale attività di prostituzione si consumava, in cambio di cocaina. Tale attività veniva compiuta con modalità quasi professionali da parte del Cavazza, attesa anche la sua possibilità di continui contatti anche nell'ambiente sportivo dei tifosi della locale squadra di pallacanestro della Virtus Bologna dal medesimo frequentato, e la sua condizione di utilizzatore di sostanza stupefacente che evidentemente lo poneva nella continua necessità di reiterare le condotte". Anche il racconto della 17enne da cui è partita tutta l'indagine, non lascia spazio a dubbi. Con la sua testimonianza si è scoperchiato un mondo sotterraneo, fatto di droga e sesso. "Io chiaramente ero la più giovane del circuito stretto di Cavazza al Paladozza e lui, io ne ero consapevole, mi utilizzava per accedere a delle feste dove si sarebbe consumata coca, per assumerne lui gratuitamente e poi offrire me per attività sessuale di gruppo. Io accettavo perché volevo la coca". Uno scambio quindi, dove forse la minorenne ha voluto giocare una partita per lei troppo grande, nella quale avrebbe potuto solo perdere.

"Ero sotto l'effetto della coca e non capivo niente". Le ragazze venivano riprese e fotografate durante i festini. I video e le loro immagini finivano poi nelle mani dei partecipanti e di altri amici del giro. In una occasione la 17enne è stata registrata da Bacci mentre faceva sesso con 29enne. Il giorno seguente la ragazza aveva visto il video in questione e aveva deciso di rallentare i suoi rapporti con l'imprenditore. Come lei stessa ha spiegato: "Con Bacci ho preferito rallentare i miei rapporti anche perché sono venuta a conoscenza del fatto che aveva fatto circolare il video. Nessuna mi aveva costretto a farlo ma io ero sotto l'effetto della coca e non capivo niente". E poi il video non era finito solo tra le mani di chi quei festini li conosceva eccome. Circolava anche tra persone che non c'entravano nulla con quell'ambiente. "Questo video era giunto anche alla visione di un caro amico di famiglia proprietario peraltro dell'appartamento in cui vivo con mia madre. Fu proprio lui ad avvisarmi di fare attenzione perché c'era questo video che circolava" ha raccontato ancora la 17enne agli investigatori.

Monica Rubino per repubblica.it il 13 agosto 2020. Oltre ai tre deputati che hanno incassato il bonus Inps destinato alle partite Iva durante l'emergenza coronavirus - i due leghisti Dara e Murelli e un grillino il cui nome verrà rivelato domani - e gli altri due onorevoli di Iv e Lega a cui è stata rifiutata la domanda, ci sono anche circa 2mila amministratori locali che hanno chiesto e ottenuto il sussidio. La stragrande maggioranza sono sindaci e consiglieri comunali di piccoli comuni, sui quali non si può gettare addosso la croce perché la loro attività politica è quasi volontariato. Meno giustificabili, invece, sono i consiglieri regionali con le loro indennità mediamente sugli 8mila euro al mese, ma che possono superare anche i 12mila. Tra questi ultimi si nota una prevalenza della Lega e il leader Matteo Salvini conferma che non saranno ricandidati nelle regioni prossime alle elezioni. Dei dieci finora individuati, infatti, otto sono del Carroccio distribuiti in cinque Regioni. Uno è del Pd, l'altro di Forza Italia. I leghisti sono così ripartiti: tre in Veneto, due in Piemonte, uno in Emilia Romagna, uno in Liguria e uno in Lombardia. Quest'ultimo è Alex Galizzi, che ha ammesso di aver intascato l'aiuto anche se si è giustificato dicendo: "Non lo ricordavo". Il consigliere dem è piemontese, mentre quello forzista è friulano.

Gli otto della Lega. In Veneto ad aver preso il bonus sono Riccardo Barbisan, Alessandro Montagnoli e il vicepresidente della Regione Gianluca Forcolin. Tutti e tre fedelissimi del governatore Luca Zaia, in corsa per le regionali di settembre e lanciatissimo nei sondaggi. Salvini oggi ribadisce da Forte dei Marmi: "Abbiamo già deciso, Zaia l'ho sentito, non saranno ricandidati". E torna ad attaccare il presidente Inps Pasquale Tridico: "Non ha pagato Cig, cosa aspetta a dimettersi?". Ma il vice di Zaia Forcolin, intervistato oggi da Repubblica, si è difeso: "Io cacciato dalle liste e Fontana ancora al posto suo in Lombardia?". Tuttavia, dopo un colloquio con Zaia, tutti e tre alla fine hanno rinunciato alla candidatura, evitando la pubblica "decapitazione". In Piemonte i due consiglieri del Carroccio percettori del bonus sono Matteo Gagliasso, 27 anni compiuti da poche settimane, di Alba, e Claudio Leone 53 anni, di Rivarolo Canavese. Tutti e due sono stati eletti per la prima volta in Consiglio regionale un anno fa in coincidenza con la vittoria del centrodestra che ha portato al governo della Regione Alberto Cirio. Sia Leone sia Gagliasso sono entrambi detentori di partita Iva. Hanno già restituito gli importi all'Inps, ma la restituzione non li ha salvati dalla sospensione dal partito, decisa oggi. In Emilia Romagna il leghista sotto accusa è Stefano Bargi, 31enne di Sassuolo. Assieme ad altri due soci è proprietario di un locale a Maranello, il Beer Stop, ed è iscritto a un'associazione di categoria che ad aprile ha fatto la richiesta di bonus per tutti e tre. Il bonus gli è arrivato ad aprile e a maggio e ha investito quei soldi per riavviare il locale colpito dallo stop dovuto al lockdown. In mattinata Matteo Rancan, capogruppo leghista in Regione ha annunciato la sua "sospensione dal partito". In Liguria il consigliere regionale uscente Alessandro Puggioni, 51 anni di Rapallo, si è autodenunciato e ha deciso di autosospendersi dalla Lega, partito in cui milita dal 1995. Puggioni si  è "auto-sospeso" e ha annunciato di volere rinunciare alla candidatura alle regionali di settembre. In Lombardia, come accennato, Alex Galizzi, consigliere regionale della Val Brembana e titolare della Brembo informatica, ha ricevuto il bonus assieme a un socio. Ma nel difendersi critica la legge: "Me ne ero dimenticato. Bastava mettere un limite sul reddito dell'anno precedente e non ci sarebbero stati problemi".

Da “Avvenire” il 13 agosto 2020. Un piccolo imprenditore del tessile e una consulente di finanziamenti europei, entrambi con un reddito dichiarato oltre i 100mila euro. Ecco chi sono i due deputati leghisti col bonus: Andrea Dara, 41 anni di Mantova, ed Elena Murelli, 45 anni di Piacenza. Il loro nome circolava da giorni, senza che dagli interessati giungessero smentite o ammissioni. È una nota del capogruppo della Lega Riccardo Molinari, che ne comunica la sospensione, a dare la conferma: sì, sono Dara e Murelli due dei tre parlamentari (il terzo sarebbe un 5 stelle) che hanno chiesto e ottenuto il bonus da 600 euro riconosciuto dal governo alle partite Iva per far fronte all'emergenza Coronavirus. Andrea Dara, nato a Castel Goffredo in provincia di Mantova il 7 gennaio 1979, è un piccolo imprenditore nel settore tessile e abbigliamento. Eletto nella circoscrizione Lombardia 4 nelle file della Lega, nel 2019 ha dichiarato - come si legge nella dichiarazione consegnata alla Camera - redditi per 109.324 euro. È stato consigliere comunale a Castiglione delle Stiviere (dove possiede anche otto immobili, sempre secondo la sua dichiarazione dei redditi) dal 2007 al 2011, poi vicesindaco nel 2016 fino alla sua elezione alla Camera. Elena Murelli ha compiuto da poco 45 anni (è nata il 29 luglio 1975). Con una laurea in Economia e commercio e un master in gestione dell'economia di rete, alterna l'attività di consulente in finanziamenti europei a quella di docente a contratto all'Università Cattolica della sua città, Piacenza. Nella Lega dal 2001, politicamente si divide tra il Consiglio comunale di Podenzano, nella pianura piacentina, e lo scranno alla Camera (dal 2018). Lo scorso anno ha dichiarato un reddito totale di 106.309 euro, nel 2018 di circa 62mila. Tra i provvedimenti che ha proposto da prima firmataria spicca uno sulle modifiche alla struttura organizzativa di Inps e Inail e un altro per modificare il decreto del 2019 sull'esclusione dei condannati per gravi delitti dal beneficio del reddito di cittadinanza.

Estratto dall'articolo di Marco Cremonesi per il "Corriere della Sera" il 13 agosto 2020. Dara avrebbe spiegato al partito che la richiesta di bonus sarebbe stata fatta dalla madre, che con lui gestisce l’azienda di cui è titolare al 60%: “Comprendo la scelta del partito, mi assumo la responsabilità di quanto accaduto, anche se non sono stato direttamente io”. Insomma: “Non cerco giustificazioni”. Secondo quanto si racconta, la madre del deputato sarebbe distrutta dalla propria leggerezza: la richiesta di bonus, Dara l’avrebbe scoperta quando il partito, per invogliare i deputati all’autodenuncia, aveva consigliato di controllare semmai che la richiesta fosse stata presentata dai commercialisti.

Bonusopoli, a chiederlo molti leghisti: Dara si scusa “L’ha chiesto mamma”, sospeso con Murelli. Redazione su Il Riformista il 13 Agosto 2020. Il clima continua a essere teso sulla vicenda dei bonus da 600 euro chiesti dai politici. Il Garante della privacy ha aperto un’Istruttoria sull’Inps e domani Tridico sarà alla Camera per rivelare i nomi di chi ha chiesto e ottenuto il bonus. In realtà dei tre deputati incriminati manca solo un nome, quello del del grillino. Gli altri due sono i deputati leghisti  Elena Murelli e Andrea Dara che, come promesso da Salvini, sono stati sospesi dal partito.

ANDREA DORA – Andrea Dara ha provato a difendersi attribuendo la colpa alla mamma. Sarebbe stata lei a fare materialmente la richiesta di bonus a sua insaputa. Con lui infatti gestisce l’azienda di cui è titolare al 60%: “Comprendo la scelta del partito, mi assumo la responsabilità di quanto accaduto, anche se non sono stato direttamente io”. Insomma: “Non cerco giustificazioni”, ha detto al Corriere della Sera. Dara avrebbe scoperto di aver ottenuto il bonus solo quando il partito, per invogliare i deputati all’autodenuncia, aveva consigliato di controllare semmai che la richiesta fosse stata presentata dai commercialisti.

ELENA MURELLI – Anche Elena Murelli si è scusata con il partito. Ma la piazza non l’ha affatto perdonata: sui social gira un video di un suo intervento alla camera proprio sui bonus. “Abbiamo accettato l’elemosina dei 600 euro”, aveva detto in aula alla Camera lo scorso 23 luglio, in occasione della votazione sull’istituzione della giornata della memoria delle vittime del Covid. “Siccome stiamo uscendo da questa situazione di emergenza allora importate il Covid”, aveva anche detto nel corso del suo intervento in aula riferendosi all’arrivo di migranti sulle coste italiane.

I CONSIGLIERI – Poi ci sono i 2mila consiglieri che hanno chiesto il bonus e che uno alla volta si stanno dichiarando e annunciando la penitenza. Tra loro una vastissima parte è composta da persone che fanno politica quasi per volontariato, ricevendo poco più che un rimborso. Ma ci sono anche ad esempio i consiglieri regionali che possono arrivare anche a 12mila euro al mese di stipendio. Tra questi ci sarebbe una prevalenza di leghisti, come dichiarato da Repubblica. Dei nove finora individuati, infatti, sette sono della Lega distribuiti in quattro Regioni. Uno è del Pd e uno di Forza Italia. Matteo Salvini è stato chiaro: “Chiunque ha preso il bonus sia sospeso e in caso di elezioni imminenti non ricandidato”.

I LEGHISTI – I leghisti sono così ripartiti: tre in Veneto, due in Piemonte, uno in Emilia Romagna e uno in Liguria. Resta in dubbio il consigliere regionale lombardo della Val Brembana Alex Galizzi, che al Corriere di Bergamo dice di non ricordarsi né di aver chiesto il bonus né di averlo preso (mentre gli altri colleghi lombardi del Carroccio negano). In Veneto ad aver preso il bonus sono Riccardo Barbisan, Alessandro Montagnoli e il vicepresidente della Regione Gianluca Forcolin. Tutti e tre fedelissimi del governatore Luca Zaia, in corsa per le regionali di settembre e lanciatissimo nei sondaggi. Lorenzo Fontana, commissario della Lega in Veneto, ha confermato l’orientamento del partito, cioè di non mettere in lista chi ha chiesto il bonus. Forcolin, intervistato oggi da Repubblica, si difende: “Io cacciato dalle liste e Fontana ancora al posto suo in Lombardia?”.

Da corriere.it il 13 agosto 2020. Elena Murelli è una dei tre deputati ad aver richiesto e ottenuto proprio il bonus da 600 euro per le partite Iva e autonomi. Eletta alla Camera alle politiche del 2018, Elena Murelli, una dei due deputati (l’altro è Andrea Dara), della Lega sospesa dal partito per aver percepito il bonus Inps di 600 euro previsto per i titolari di partita Iva. Emiliana di Piacenza, 45 anni, aderisce al partito nel 2001. Sette anni più tardi viene eletta al consiglio comunale di Podenzano. Poco più di due anni fa l’ingresso a Montecitorio. Laureata in Economia e commercio, consegue un Master of management in the Network Economy, ed è - si legge sul suo profilo sul sito della Camera - consulente in finanziamenti Europei per la ricerca e l’innovazione. È componente della commissione Lavoro, che venerdì prossimo, a mezzogiorno, svolgerà l’audizione del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, proprio sulle modalità di richiesta e liquidazione del bonus in favore dei lavoratori autonomi, sulle categorie di destinatari di tale bonus nonché sulle relative attività di monitoraggio, vigilanza e controllo.

Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2020. Nella Lega c'è chi la chiama la «strada di mezzo»: i parlamentari che hanno preso il bonus Covid sono stati sospesi, i consiglieri regionali non saranno ricandidati. Matteo Salvini, ieri mattina, lo aveva anticipato ad Agorà Estate e in serata è arrivato l'annuncio del capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari: i deputati Elena Murelli e Andrea Dara sono sospesi dal partito. Luca Zaia si era riservato di ascoltare i suoi tre consiglieri regionali che hanno chiesto il bonus. In serata, il messaggio è trapelato nitido dallo staff del governatore: Montagnoli e Barbisan sono fuori. Un solo, lieve dubbio riguarda il vice di Zaia, Gianluca Forcolin, che pare abbia cercato di fermare l'iter della domanda. Ma è molto dura anche per lui. Difficile escludere che nella decisione della Lega non abbia pesato la notizia che il presidente dell'Inps Pasquale Tridico, domani a mezzogiorno, sarà ascoltato dalla commissione Lavoro (giusto quella di cui Elena Murelli è capogruppo per la Lega): se i nomi fossero usciti in quella sede sarebbe stato, come minimo, poco simpatico. Andrea Dara, anche il suo nome circolava da giorni, per il partito è stata una sorpresa. Nessuno che non lo descriva come «bravissima persona», nessuno che non se ne sia uscito con un «ma dai...» quando i nomi hanno cominciato a circolare. 41 anni, imprenditore tessile di Castel Goffredo nel mantovano, ha una fabbrica che produce calze a Castiglione delle Stiviere, la Manifattura Mara, e un percorso tipico nella Lega: consigliere comunale a Castiglione, provinciale a Mantova, poi vicesindaco. Fino all'elezione alla Camera nel 2018. L'anno scorso ha denunciato redditi per 109.324 euro. Al partito, avrebbe spiegato che la richiesta di bonus sarebbe stata fatta dalla madre, che con lui gestisce l'azienda di cui è titolare al 60%: «Comprendo la scelta del partito, mi assumo la responsabilità di quanto accaduto, anche se non sono stato direttamente io». Insomma: «Non cerco giustificazioni». Secondo quanto si racconta, la madre del deputato sarebbe distrutta dalla propria leggerezza: la richiesta di bonus, Dara l'avrebbe scoperta quando il partito, per invogliare i deputati all'autodenuncia, aveva consigliato di controllare semmai che la richiesta fosse stata presentata dai commercialisti. Mentre la 45enne Elena Murelli da Podenzano, nel piacentino, è stata docente a contratto all'università Cattolica ed è leghista dal 2001. Nel 2009 esordisce nel consiglio comunale del suo paese, di cui è tuttora consigliera, prima di approdare a Montecitorio nel 2018. Sul sito della Camera si definisce «consulente in finanziamenti europei per la ricerca e l'innovazione». Reddito dichiarato: 106.309 euro. Era assurta alle cronache per un intervento in Aula «non sereno» (definizione sua): «Siccome stiamo uscendo dalla situazione di emergenza e non sapete come mantenere la poltrona, allora importate il Covid» con l'immigrazione. Anche Murelli si sarebbe scusata per il danno arrecato al partito. È la strada di mezzo: di espulsi non ce ne sono stati. Però, in Veneto si mastica amaro: «I deputati se la sono cavata con un buffetto. La sospensione, cosa è? Nemmeno esiste... Ai consiglieri regionali, invece, è stata stroncata la carriera politica». Certo che la campagna elettorale dei tre consiglieri sarebbe stata impervia.

Inps, Lega: Sospesi Murelli e Dara, inopportuno aver preso bonus. (LaPresse il 12 agosto 2020) - "Dopo aver ascoltato e verificato le rispettive posizioni, si conferma il provvedimento della sospensione per i deputati Elena Murelli e Andrea Dara". Lo rende noto il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. Entrambi i deputati hanno percepito il bonus Inps di 600 euro previsto per i titolari di partita Iva. “Pur non avendo violato alcuna legge - dice Molinari - è inopportuno che parlamentari abbiano aderito a tale misura e per questa ragione abbiamo deciso e condiviso con i diretti interessati il provvedimento della sospensione. E’ comunque incredibile che i vertici dell’Inps non abbiamo versato ai lavoratori che aspettano da marzo quanto dovuto e che abbiano invece versato a chi non era in difficoltà. In qualsiasi altro paese i parlamentari sarebbero stati sospesi ma il presidente dell’INPS sarebbe stato licenziato”.

(ANSA il 20 agosto 2020) - "Dopo aver ascoltato e verificato la posizione, come per i precedenti casi, è stato preso il provvedimento della sospensione per la senatrice Marzia Casolati". Lo rende noto il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo. La senatrice ha percepito il contributo di 1500 euro dalla Regione Piemonte come previsto per le attività imprenditoriale costrette alla chiusura per il lockdown. "Anche se non è stato commesso alcun illecito - precisa Romeo - e il contributo è stato già da tempo completamente restituito, non è opportuno che parlamentari accedano a questo tipo di sussidio. Il provvedimento è stato già accettato e condiviso dalla diretta interessata".

Lega sospende due deputati: "Murelli e Dara con i 600 euro". I parlamentari sospesi sono Elena Murelli e Andrea Dara. Il 14 agosto in commissione Lavoro della Camera avverrà l'audizione del presidente dell'Inps, Pasquale Tridico. Gabriele Laganà, Mercoledì 12/08/2020 su Il Giornale. Le voci circolate nelle scorse ore sono state confermate. Sono due i deputati della Lega che hanno incassato il bonus da 600 euro messo a disposizione per i titolari di partite Iva nell’ambito delle misure per contrastare la crisi economica provocata dal coronavirus. Si tratta di Elena Murelli e Andrea Dara. La Lega, una volta resa pubblica la notizia, ha deciso di sospendere i parlamentari. "Dopo aver ascoltato e verificato le rispettive posizioni, si conferma il provvedimento della sospensione per i deputati Elena Murelli e Andrea Dara". Lo rende noto il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari. "Pur non avendo violato alcuna legge – ha affermato ancora Molinari - è inopportuno che parlamentari abbiano aderito a tale misura e per questa ragione abbiamo deciso e condiviso con i diretti interessati il provvedimento della sospensione". Il capogruppo leghista alla Camera allo steso tempo ha lanciato un affondo contro l’istituto previdenziale: "È comunque incredibile che i vertici dell'Inps non abbiamo versato ai lavoratori che aspettano da marzo quanto dovuto e che abbiano invece versato a chi non era in difficoltà. In qualsiasi altro Paese i parlamentari sarebbero stati sospesi ma il presidente dell'Inps sarebbe stato licenziato". Nel frattempo continua il dibattito parlamentare: la sede in cui verrà affrontato il caso del bonus richiesto dai deputati sarà il Parlamento quando il prossimo 14 agosto, in commissione Lavoro della Camera, avverrà l'audizione in videoconferenza del presidente dell'Inps, Pasquale Tridico. In quella sede i deputati potranno interpellare Tridico ponendogli domande sull'erogazione dei bonus. A meno di clamorose novità, potrebbe essere possibile conoscere anche i nomi degli altri parlamentari beneficiari dei 600 euro. A confermarlo è il presidente della Camera, Roberto Fico, che ha spiegato che i deputati potranno porre "tutte le domande necessarie per fare definitivamente chiarezza su quanto accaduto". "L'ho ripetuto in questi giorni: i parlamentari che avrebbero chiesto e ottenuto il contributo destinato a professionisti e lavoratori in difficoltà – ha ribadito Fico- dovrebbero scusarsi e restituire quanto percepito. È una questione di opportunità, dignità e rispetto, nonché di consapevolezza del ruolo che si ricopre". Mentre la Lega ha subito agito per "punire" i deputati che hanno richiesto il bonus, come ha appreso l'Adnkronos da fonti parlamentari sarebbero una quarantina gli esponenti del M5s che non hanno ancora firmato l'autorizzazione per consentire l'accesso ai dati Inps, una operazione di trasparenza proposta proprio dai vertici pentastellati.

Inps: Zaia, Forcolin mi ha annunciato le dimissioni. (ANSA il 13 agosto 2020) "Il vicepresidente della giunta regionale del Veneto Gianluca Forcolin mi ha annunciato le sue dimissioni e non si ricandiderà nella Lega". Lo annuncia il governatore del Veneto Luca Zaia in relazione ai tre casi veneti di richiesta del bonus autonomi. (ANSA).

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per “la Repubblica” il 13 agosto 2020. «Mettiamo in chiaro una cosa, io non sono furbetto. E poi, scusate: il governatore della Lombardia è ancora al suo posto e io vengo cacciato dalle liste per una pratica inevasa?». Gianluca Forcolin, 51 anni, di San Donà di Piave (Venezia), diploma di Ragioneria, 27 anni nella Lega Nord, è assessore al Bilancio e vicepresidente della Regione Veneto. (…)

Questa domanda per il bonus l' ha fatta o no?

«I soci dello studio in cui lavoro fecero la domanda ma non avevamo i requisiti, quindi la pratica è rimasta inevasa. Io non sono neanche presente negli elenchi dell' Inps». (…)

E qual è il punto allora?

«Tutti i politici che hanno comprato il monopattino con gli incentivi, o che richiedono il bonus auto, o il bonus facciata, tutti questi si devono dimettere. Se me ne vado io se ne devono andare anche tutti loro». (…)

Luca Zaia l' ha sentito?

«Certo, ci siamo sentiti e ho spiegato tutto. Vediamo come evolve la situazione. Certo, essere buttato via in questo modo per una simile banalità mi sembra davvero assurdo». (…)

Alberto Mattioli per “la Stampa” il 13 agosto 2020. E il furbetto dove lo metto? Almeno in Veneto, la Lega non sembra proprio monolitica nei confronti dei tre consiglieri regionali rei confessi del bonus da 600 euro. La loro sorte sembrava segnata: sospensione in attesa di peggio e, soprattutto, niente ricandidatura alle regionali prossime venture. Ma Luca Zaia ha spiazzato tutti. Massimo rigore, certo, «siamo stati chiari, sono stato l'unico a livello nazionale a fare una verifica fra i miei consiglieri». Anzi, Zaia era stato il primo, in casa Lega, precedendo anche Salvini, a lanciare un "#metoo al contrario" contro i furbetti. Però ieri a Conegliano, colpo di scena, Zaia ha spiegato che invece la decisione non è scontata, almeno per uno dei tre: «Mi riservo di incontrarli personalmente, poi deciderò.  E voglio anche ricordare che le situazioni sono diverse: da un lato abbiamo il caso di due consiglieri che hanno fatto richiesta del bonus e poi lo hanno elargito in beneficenza, dall'altro il caso del terzo consigliere che dice che la domanda è stata fatta direttamente dallo studio professionale di cui è socio di minoranza, ma quando l'Inps ha chiesto ulteriore documentazione nessuno l'ha mai presentata. Quindi la domanda non esiste. Bisogna ricordare che non stiamo parlando di qualcosa di illegale, bensì di una questione di opportunità». Insomma, per Riccardo Barbisan e Alessandro Montagnoli, quelli del primo caso, non ci sarà clemenza («quei due non hanno speranza, carriera finita», chiosa un leghista veneto); per Gianluca Forcolin, assessore al Bilancio e vicepresidente della Regione, il verdetto è ancora sospeso. Zaia, dicono, vorrebbe salvarlo: è stato il suo braccio destro per cinque anni (mentre Salvini, raccontano, non l'avrebbe molto in simpatia) e a pochi giorni dalla presentazione delle liste e dell'inizio della campagna elettorale bisogna essere cauti. Ma dall'altra parte c'è una pubblica opinione scatenata, i social ribollono di invettive, e lo stesso governatore deve mostrarsi coerente con le sue prese di posizione. «Alla fine lo sacrificherà», prevede un leghista di lungo corso e ben informato, ma dopo aver fatto il bel gesto di ascoltarne l'autodifesa. Dal canto suo, Forcolin ci spera e spiega la sua posizione: «Non ho mai incassato il bonus e anzi ho bloccato la richiesta prima che partisse», e poi fa autocritica alla veneta: «Che mona che sono stato». Però questa incertezza non è in sintonia con la posizione ufficiale del partito. Il segretario del Veneto e vice di Salvini, Lorenzo Fontana, resta fedele alla linea: «La posizione della Lega è che non verranno messi in lista», quindi nessuna apertura. E infatti proprio ieri sono stati sospesi i due deputati furbetti e anche un consigliere in Trentino. Di certo, una decisione va presa e anche in fretta, perché le liste per le regionali devono essere presentate entro il 21. Ma anche nella Lega, e non solo in quella veneta, la ricandidatura di un furbetto, anche se il meno colpevole, non sarebbe presa molto bene. Il partito si sente sotto assedio anche più di quanto non sia ed è un fatto che quest' ultimo scandalo lo stia colpendo più di altri. Proprio sulle liste è in corso un'altra discussione tutta interna al partito. Il problema è che nella scontatissima riconferma di Zaia, che i sondaggi danno al 70%, la lista del governatore prenderà molti più voti di quella della Lega. Successe già cinque anni fa, con la lista Zaia al 23 e quella della Lega al 17, ma il 20 settembre prossimo il risultato potrebbe essere ancora più pesante. Per questo Salvini ha imposto che chi ha fatto l'assessore o il capogruppo debba ricandidarsi nella lista leghista e non in quella del governatore (che del resto è fatta tutta di leghisti, per qualche esponente della società civile c'è posto in una terza lista, detta "degli amministratori"). Paradossalmente, Zaia è d'accordo. Il popolarissimo governatore non ha il problema di vincere, ma di non stravincere, almeno questo derby interno: rinfocolerebbe un dualismo con Salvini che esiste nei fatti, ma che Zaia non ha alcuna voglia di cavalcare. Per la stessa ragione, raccontano dalle segrete stanze della Lega veneta, tutta la campagna elettorale del presidente verrà fatta sotto il simbolo della Lega. E anzi Zaia starebbe dicendo a tutti i suoi fedelissimi di votare e far votare il Carroccio.

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per “la Repubblica” il 12 agosto 2020. (…) E così sulla campagna elettorale per le elezioni regionali in Veneto piomba il diktat del segretario Matteo Salvini. Un ordine che colpisce dritto al cuore il governatore Luca Zaia, fortemente in vetta nei sondaggi, sospinto dalla popolarità acquisita con l' emergenza Covid. Ebbene, il Capitano vuole che tutti gli assessori regionali e il capogruppo siano candidati nella sua lista "Liga veneta Salvini Premier". Una squadra di big al suo servizio, con la speranza di ridurre il distacco da quelli che saranno i consensi in seno al governatore del Veneto. Come se non bastasse incombe anche lo scandalo dei bonus Inps che travolge tre fedelissimi del presidente, per cui ora si profila l' espulsione dalle liste. (…) Come anticipato da Repubblica , un recente rilevamento attribuirebbe alla lista personale di Zaia una forbice tra il 36 e il 38 per cento, mentre la stessa Lega non andrebbe oltre il 18-20 per cento. In alcune province venete rischia addirittura di prendere meno voti di Fratelli d' Italia. È questo l' incubo di Salvini, che arraffa quindi i pezzi migliori. A partire da Nicola Finco, capogruppo in Regione, ex coordinatore nazionale dei giovani padani, sceso in campo nel 2015 nella lista Zaia. E poi gli otto assessori Gianpaolo Bottacin, Manuela Lanzarin, Giuseppe Pan, Gianluca Forcolin (il vicepresidente dello scandalo-bonus), Davide Corazzari, Elisa De Berti, Federico Caner e Roberto Marcato. (…)

Estratto dell'articolo di Alberto Mattioli per “la Stampa” il 12 agosto 2020. Quanti leghisti. Nella carica dei 600 euro, fra i furbetti finora smascherati o confessi, la percentuale di leghisti è da maggioranza quasi assoluta. Così la linea dura annunciata da Matteo Salvini e ribadita dal vicesegretario Lorenzo Fontana e dal capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, viene da sé: in attesa di altre sanzioni, i responsabili sono «sospesi» e non saranno ricandidati. Sono tanti, però. «Sarà perché fra i nostri ci sono più imprenditori e liberi professionisti che negli altri partiti. Su 120 partite Iva in Parlamento, 40 sono leghiste», sorride un papavero anche abbastanza alto. E' un riso amaro. Il partito è in imbarazzo. Dei tre onorevoli furbetti, due sono del Carroccio. I nomi circolano da giorni e i sospetti sono diventati prima indizi e poi quasi prove quando i due sono spariti dai radar e da 48 ore non rispondono a telefonate, mail, messaggi, nulla. Sono Andrea Dara, deputato di Mantova, ed Elena Murelli di Piacenza, nota soprattutto per aver accusato in Aula il Governo di «importare il Covid per mantenere le poltrone». Ci sarebbe anche un deputato che il bonus l'ha chiesto senza ottenerlo. (...) Deputati a parte, per la Lega c'è però la grana dei consiglieri regionali beccati con le mani nel bonus. Anche perché un conto è il consigliere comunale che prende quattro soldi, un altro quello regionale che porta a casa sui 9 mila euro netti. Il bollettino ne segnala due in Piemonte, uno in Liguria e tre in Veneto, mentre in Emilia «al momento non abbiamo alcun riscontro», idem in Lombardia dove le bocche sono particolarmente cucite. Tutti hanno ricevuto l'ordine di scuderia di non parlare, anche se l'irritazione è fortissima contro il presidente dell'Inps, Pasquale Tridico, accusato di fare rivelazioni a orologeria e di essere «il braccio armato del governo». Il più dolente dei punti resta il Veneto, dove lo scandalo rischia di compromettere la marcia trionfale di Luca Zaia verso la rielezione con percentuali da Corea del Nord. Qui i «colpevoli» (virgolette d'obbligo perché chi ha preso i 600 euro non ha violato alcuna legge, a parte quelle morali o del buon gusto)sono tre, Riccardo Barbisan, Alessandro Montagnoli e Gianluca Forcolin, che è anche il vicepresidente della Regione, insomma il numero 2 di Zaia. «Per fortuna non abbiamo ancora presentato le liste», sospira Fontana, che è anche segretario della Lega veneta. E annuncia: «Chi ha ricevuto il bonus non ci sarà», in attesa di un processo interno che però richiede tempi più lunghi. «Irritati lo siamo tutti», ammette Fontana. Anche Zaia ma, raccontano, con l'aggiunta di molto dispiacere personale: si tratta di tre uomini che hanno lavorato con lui per anni, del suo vice, insomma di personaggi che conosce bene. «E la loro carriera politica - dice un leghista veneto - in pratica finisce qui». La linea dura è però inevitabile. (...)

Estratto dell'articolo di Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2020. «Siamo in guerra». I leghisti sono equamente divisi in due: gli arrabbiati, che sono la maggioranza, e i demoralizzati. La vicenda dei parlamentari (e dei consiglieri regionali) che hanno chiesto e ottenuto i 600 euro del bonus Covid da tutti è letta come l'ennesimo segnale del sistematico accerchiamento di cui sarebbe oggetto il partito. Ma ufficialmente, tutti zitti: la Lega ha imposto la consegna del silenzio e il partito, almeno formalmente, si attiene. A Matteo Salvini, che fin qui non ha proferito parola, forse toccherà fare la faccia cattiva: ha convocato per domani a mezzogiorno una conferenza stampa a Forte dei Marmi dove è in vacanza in Versilia con la figlia Mirta e la fidanzata Francesca Verdini. In teoria, l'appuntamento è su questioni locali toscane. Ma molti leghisti pensano (sperano) che il segretario decida quel che fino a ieri non avrebbe pensato: espellere i parlamentari che hanno chiesto il bonus. «Non possiamo dare il benché minimo segno di indulgenza su una cosa del genere» è il leitmotiv di molti. (...) Nella Lega c'è chi segue con apprensione il tag #bonus600euro, che ieri sera alle 19 aveva superato di slancio i 12mila tweet. Mentre è stato letto con indignazione non tanto il post dei 5 Stelle («Il partito di Salvini è sempre più coinvolto nello scandalo. Altro che furbetti, sono senza vergogna») quanto quello del presidente di Italia Viva Ettore Rosato, fin qui considerato dai leghisti «persona poco incline alla demagogia». Che cosa ha scritto il deputato renziano? «Agosto lo passiamo a Montecitorio, come tanti italiani impegnati a lavorare. Poi c'è qualche cialtrone, quelli che si sono presi il bonus Covid pur facendo i parlamentari». Il tutto, a dieci giorni dalla presentazione delle liste per le Regionali e a quaranta dalle elezioni e dal referendum sul taglio dei parlamentari, cavallo di battaglia dei 5 Stelle. La grande paura è che non sarà facile prendere le distanze dalla vicenda, anche se il sentimento del partito è che «non ci si possa far inchiodare a questa storia per l'avidità di due persone». Il grande nemico è il presidente dell'Inps Pasquale Tridico: «I dati, comunque, sono usciti dall'Inps» è l'accusa di gran lunga più soft tra quelle che circolano. Ma il peggio, per i leghisti, è il sentirsi in qualche modo nelle sue mani.(...)

Bonus Covid, la Lega chiede a tutti i parlamentari di non parlare con i giornalisti. Il Corriere del Giorno l'11 Agosto 2020. I deputati sono delle figure pubbliche e quelli in questione hanno chiesto di beneficiare di un contributo pubblico. La richiesta del bonus Covid, da parte di un parlamentare, non svela alcun dato sensibile. Quindi la loro condotta non è protetta dalle norme sulla privacy I due leghisti fortemente sospettati sono Dara e Murelli alla Camera per la prima volta nel 2018. «Se hanno preso soldi vanno sospesi». Ed ancora una volta Zaia è lontano da Salvini… Tramontate le speranze di «confessione spontanea», cioè di autodenuncia da parte degli interessati, nella Lega si mastica amaro: due dei tre parlamentari che hanno chiesto e ottenuto il bonus Covid sono leghisti Andrea Dara ed Elena Murello , il terzo è un deputato del M5S . Il contributo è stato richiesto anche un altro leghista e un renziano, ma non l’hanno ottenuto. L’on. Andrea Dara, 45 anni, mantovano, è un imprenditore che produce calze a Castiglione delle Stiviere, mentre l’ On. Elena Murello, 45 anni, di Piacenza è una consulente in finanziamenti europei per la ricerca e l’innovazione. “Lasciate che chiamino… non rispondete al telefono”. è l’invito rivolto a tutti i parlamentari leghisti, cioè di abbassare le saracinesche e non parlare con i giornalisti. Riccardo Molinari, il capogruppo alla Camera, ribadisce che “se qualcuno ha preso un bonus verrà sospeso, anche se quei soldi sono stati dati in beneficenza“. Il riferimento e molto chiaro alla posizione personale di Ubaldo Bocci, consigliere comunale leghista di Firenze che ha appunto dichiarato di aver ricevuto il bonus Covid , ma di aver devoluto la somma in opere buone. Il caso dei consiglieri comunali è assolutamente diverso e molto lontano da quello dei parlamentari anche per la differenza sostanziale tra le retribuzioni. Ma è sempre Molinari il capogruppo leghista alla Camera a non darsi pace per quel sospetto emerso non appena il caso era deflagrato. Infatti nella Lega i nomi dei percettori di bonus con stipendio da oltre 12 mila euro al mese, circolano eccome. Esiste il forte sospetto che la vicenda dei 600 euro per i parlamentari che ogni mese ne guadagnano 20 volte tanto in realtà altro non sia una strategia di distrazione di massa: “non vorrei che fosse un modo per insabbiare e far dimenticare le responsabilità di Conte per la mancata chiusura di Nembro e Alzano lombardo nonostante il parere del Comitato tecnico scientifico“. I parlamentari della Lega, nel frattempo, si preparano a una serrata campagna per dimostrare che il presidente del Consiglio, “abbia mentito” sulla gestione governativa dell’emergenza Covid.

Il Governatore uscente del Veneto Luca Zaia, con molto rigore chiede invece ai candidati al consiglio regionale di firmare, prima che le liste siano depositate la settimana prossima, una dichiarazione sul “non aver ricevuto contributi pubblici”. Anche perché realmente non esiste una questione di privacy. I deputati che hanno chiesto il bonus Covid non possono farsi scudo delle norme a protezione della riservatezza. In altre parole, non possono invocare la privacy per chiedere che il loro nome resti segreto.

L’ Autorità Garante della Privacy i cui nuovi componenti si sono insediati il 28 luglio 2020 – a soli tre giorni di distanza dalla diffusione della notizia dei parlamentari “furbetti” ha finalmente adottato una posizione ufficiale sulla questione. “La privacy non è d’ostacolo alla pubblicità dei dati relativi ai beneficiari del contributo laddove, come in questo caso, da ciò non possa evincersi, in particolare, una condizione di disagio economico-sociale dell’interessato”, dice il Garante della privacy. “Ciò vale, a maggior ragione rispetto a coloro per i quali, a causa della funzione pubblica svolta, le aspettative di riservatezza si affievoliscono, anche per effetto dei più incisivi obblighi di pubblicità della condizione patrimoniale cui sono soggetti” prosegue il Garante in una nota. Il Garante contestualmente ha reso noto che “sarà aperta una istruttoria in ordine alla metodologia seguita dall’Inps rispetto al trattamento dei dati dei beneficiari e alle notizie al riguardo diffuse”. I deputati sono delle figure pubbliche e quelli in questione hanno chiesto di beneficiare di un contributo pubblico. La richiesta del bonus Covid, da parte di un parlamentare, non svela alcun dato sensibile. Quindi la loro condotta non è protetta dalle norme sulla privacy. Prevale, in questo caso, il diritto dell’opinione pubblica e dei giornali a conoscere che cosa è successo. Prevale la trasparenza sulla riservatezza. La stessa valutazione può essere applicata anche per gli amministratori locali, che pure sono figure pubbliche. Solo che ci si potrebbe trovare dinnanzi ad una sostanziale differenza. Un amministratore locale non riceve il robusto stipendio dei deputati, e quindi potrebbe versare in condizioni di difficoltà economica. Chiedere il bonus Covid, il tal caso caso, può essere non solo comprensibile, ma persino giustificato. Sarebbe improprio pubblicare il nome di un consigliere comunale equiparando la sua posizione a quella del parlamentare. Ma il silenzio dell’Inps, in questa situazione non è solo equivoco…ma persino imbarazzante, L’Istituto per la previdenza non ha il diritto di negare i nomi dei deputati beneficiari del bonus . Il Codice della Trasparenza – cioè la legge 33 del 2013 – indica e stabilisce all’articolo 26 che “le pubbliche amministrazioni pubblicano gli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati”.

Quindi prevale su tutto l’obbligo di trasparenza sui vantaggi che personalità pubbliche come sono appunti i deputati ricevono dalla Pubblica Amministrazione (cioè l’Inps) . C’è anche un consigliere regionale piemontese,  Diego Sarno, esponente del Partito Democratico nello scandalo del contributo da 600 euro ai politici. Ex assessore di Nichelino, è alla sua prima consigliatura a Palazzo Lascaris, ed è social media manager della propria agenzia di comunicazione. Anche nel suo caso guarda caso….a suo dire si sarebbe trattato di un errore di superficialità: «Li ho dati tutti in beneficenza Covid appena me ne sono accorto» ma non fornisce alcuna prova di quello che dice. Ed aggiunge: «Sapendo adesso che posso restituirli all’Inps, farò anche lì il bonifico di 1200 euro». Ma non li aveva dati in beneficenza? Sarno quando capisce che sta rischiando grosso, e confessa: «Ciao a tutti sono qui per raccontarvi della questione 600 euro Inps e di come sono andati i fatti per quanto mi riguarda. Ho deciso di scrivere perché come sanno le persone che mi conoscono, quando sbaglio sono il primo ad ammetterlo, come anche in questo caso. Un errore però di sottovalutazione e non una volontà da “furbetto” a cui ho cercato di rimediare subito, più avanti capirete il perché». scrive in un lungo post su Facebook.

Poi, arriva la sua spiegazione poco credibile: “La mia compagna fa questo di lavoro e da sempre gestisce la contabilità riguardante la mia attività professionale. Durante il lockdown, per provare diverse procedure ha usato la sua partita Iva e anche la mia (avendone due tipologie diverse) così da essere pronta per assolvere senza errori e con una maggiore velocità le molte procedure gestite per i clienti dello studio nel quale lavora. Quando è uscito il bonus per gli autonomi, come sempre, ha usato la mia partita iva per provare la procedura e nella contemporaneità di altre dei clienti ha concluso anche la mia per errore“.

Sara Monaci per ilsole24ore.com il 24 settembre 2020. L’inchiesta della procura di Pavia sul caso Diasorin-Policlinico San Matteo - in cui il reato più grave ipotizzato è il peculato - prosegue. I militari della Gdf di Pavia si sono recati a casa del Governatore della Lombardia Attilio Fontana per effettuare copia forense dei contenuti e, in particolare della messaggistica, del suo cellulare. Stessa operazione da parte delle Fiamme Gialle è stata effettuata sul telefono di Giulia Martinelli, la responsabile della segreteria del presidente lombardo, nonché ex compagna del leader della Lega Matteo Salvini. Nessuno dei due risulta indagato nell’indagine avviata dal Procuratore aggiunto Mario Venditti. La Gdf di Pavia ha effettuato copia forense anche del telefono dell'assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera. Risultano invece indagati i vertici sia dell’istituto di ricerca pavese San Matteo, che ha sviluppato un test sierologico tra marzo e aprile scorso in modo esclusivo con la Diasorin, sia della multinazionale di ricerca in campo farmacologico, con sede a Saluggia (Vercelli). A fine luglio, la Gdf nelle indagini coordinate dal procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti e dal pm Paolo Mazza, ha effettuato perquisizioni in uffici e abitazioni nei confronti di otto persone, accusate di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e peculato.

La vicenda. Riassumendo la vicenda, la Diasorin era stata scelta a marzo, in piena emergenza Coronavirus, dal Policinico San Matteo come azienda più innovativa ed efficiente per realizzare il nuovo test sierologico per la Regione Lombardia, che inizialmente si era dichiarata dubbiosa nei confronti di questo metodo di ricerca del virus nella popolazione ma che poi, ad aprile, ha dato invece un incarico diretto, ovvero senza gara, proprio alla Diasorin. Il contratto dell’11 aprile tra Diasorin e Regione prevedeva una fornitura da 500mila pezzi, per 2 milioni. In aprile, solo dopo il contratto con la Regione, l’azienda riesce ad avere la certificazione Ce per il suo prodotto (il 17 aprile). L’azienda Technogenetics intanto, il 16 aprile, fa ricorso al Tar. Il Tribunale amministrativo della Lombardia dà ragione all’ipotesi di concorrenza sleale e impone una sospensiva (e poi invia il materiale alla Corte dei Conti). Sospensiva poi revocata dal Consiglio di Stato, che ancora deve pronunciarsi in via definitiva e che intanto ha chiesto un supplemento di informazioni al ministero della Salute. Nel frattempo la Regione, con l’avvio del ricorso, avvia una gara per trovare il test sierologico. Sembra ripensarci, ma intanto prosegue il contratto con Diasorin. La gara viene vinta da Roche. In questa confusione la fornitura di Diasorin si interrompe, con soli 200mila pezzi. Da capire se siano stati pagati tutti o solo parzialmente, se la decisione è stata della Regione, o se, come risulta dalle prime ricostruzioni degli inquirenti, sia stata la stessa Diasorin a preferire mercati internazionali lasciando inevasa la commessa. Questi dettagli andranno approfonditi.

Il possibile conflitto di interessi. «La scelta operata dal policlinico San Matteo di procedere a un accordo diretto con Diasorin, tra i tanti operanti sul mercato, è apparsa subito viziata - avevano scritto i pm nel decreto di perquisizione - da un evidente conflitto d’interessi in capo al professor Baldanti (Fausto ndr.), che ricopriva contemporaneamente il ruolo di responsabile scientifico del progetto di collaborazione Fondazione San Matteo e Diasorin e la carica di membro del Gruppo di lavoro del Consiglio superiore di sanità presso il Ministero della salute competente per la valutazione del test».

L’ipotesi di peculato. Per i pm sarebbero stati «utilizzati beni mobili, materiali (personale, laboratori e strumenti) e immateriali (conoscenze scientifiche tecnologiche e professionalità), sottratti alla destinazione pubblica per il soddisfacimento di interessi privatistici che restavano nell'esclusiva titolarità di privati, anziché dell’Ente che aveva finanziato la ricerca». Gli stessi pm negli atti hanno parlato della necessità di far luce sui «legami politici» che possono aver influito sulla scelta della Diasorin come partner del San Matteo. «Occorre riferire - hanno scritto - che la Diasorin spa, oltre alla sede di Saluggia (Vercelli) ha uffici nell’Insubria Biopark a Gerenzano (Varese)». Proprio nel polo scientifico Insubria Biopark, «si trova la sede legale della Fondazione Istituto insubrico il cui direttore generale è Andrea Gambini, già commissario della Lega varesina e presidente della Fondazione Irccs Carlo Besta». Intanto anche la procura di Milano ha aperto un fascicolo, al momento a carico di ignoti e senza reati.

La reazione. «Il presidente Fontana non è indagato, ha subito una perquisizione presso terzi. Non gli è stato sequestrato nulla, è stata effettuata copia del contenuto del cellulare». È quanto ha dichiarato l’avvocato Iacopo Pensa, legale del governatore lombardo.

C’è anche il cellulare della moglie di Attilio Fontana fra gli altri undici sequestrati per il caso camici. Luigi Ferrarella il 25/9/2020 su Il Corriere della Sera. Blitz della Procura di Milano che indaga sulle forniture. Sotto la lente pure le carte della «voluntary disclosure». A non sapere che le Procure di Pavia e Milano non si erano coordinate, e anzi forse nemmeno parlate, nessuno crederebbe a un caso. E invece, 24 ore dopo che i pm pavesi Venditti e Mazza (nell’inchiesta sull’accordo tra Fondazione Policlinico San Matteo e la multinazionale Diasorin per i test diagnostici Covid) avevano portato via l’intero contenuto del telefono del non indagato presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, nonché dell’assessore alla sanità Giulio Gallera e di altre 7 persone, giovedì la Procura di Milano (nell’inchiesta sulla fornitura/donazione di camici alla Regione da parte della società Dama spa del cognato del governatore) manda la GdF a bussare di nuovo a casa Fontana: stavolta non per il telefono del governatore, pur indagato a Milano per l’ipotesi di concorso con il cognato nella «frode in pubbliche forniture», ma per il telefono della non indagata moglie Roberta Dini, e — contemporaneamente — di 10 persone, tra cui 2 assessori regionali (Raffaele Cattaneo all’Ambiente e Davide Caparini al Bilancio) e 5 dirigenti tutti non indagati. Per Pavia i sequestri erano motivati dal recuperare, sui telefoni di interlocutori del presidente dell’ospedale Angelo Venturi, le chat che avrebbe cancellato poco prima di essere indagato; per Milano servono a colmare i segmenti mancanti nella storia dei camici quale ricostruita sui messaggi sequestrati in estate sul telefonino dell’indagato cognato di Fontana, Andrea Dini. Diverso l’approccio dell’acquisizione milanese: parimenti aggressiva (perché non sono uno scherzo 11 telefoni di persone per lo più non indagate), ma più garantita perché selettiva: in una ottica di pertinenza e proporzionalità, infatti, i pm Furno-Scalas-Filippini hanno fissato una ricerca con 50 parole-chiave nei telefoni solo sulla vicenda-camici, e per di più in contraddittorio con i legali e i periti degli indagati. Ai professionisti che curarono la voluntary disclosure e le dichiarazioni dei redditi di Fontana è stato invece chiesto di esibire i documenti (in parte già noti all’Agenzia delle Entrate) sul suo scudo fiscale nel 2015 di 5,3 milioni illecitamente detenuti nel 2009-2013 in una banca svizzera da due trust delle Bahamas, nei quali la madre dentista (morta a 92 anni) figurava «intestataria», mentre il figlio era «soggetto delegato». Accertamenti analoghi sono stati svolti per avere certezza che, dietro un trust di controllo, la società del cognato (90%) e della moglie (10%) di Fontana sia appunto solo di fratello e sorella.

Coronavirus, esami “pungidito” e caso Diasorin: acquisita copia del traffico telefonico di Fontana. Le Iene News il 24 settembre 2020. Gaetano Pecoraro indaga in questo servizio del 12 maggio sulle scelte della Regione Lombardia, che al tempo ai più veloci ed economici test "pungidito" aveva preferito quelli a prelievo. Il 22 luglio è stata aperta un’inchiesta a Pavia su questo caso, ora la Finanza acquisisce copia del traffico telefonico del governatore Fontana e dell’assessore Gallera. Novità con un blitz della Finanza sul fronte del caso Diasorin e test sierologici in Lombardia di cui vi abbiamo parlato in onda il 12 maggio con Gaetano Pecoraro nel servizio che vedete qui sopra. Il 22 luglio si era saputo da una nota della procura di Pavia dell’esistenza di un’inchiesta nei confronti dei vertici della fondazione Irccs San Matteo e della società Diasorin per le ipotesi di peculato e turbata libertà di scelta del contraente. L’ipotesi della procura è che l’azienda farmaceutica Diasorin possa essere stata favorita nella scelta del policlinico di Pavia dei test sierologici a prelievo e non “pungidito” a discapito di altri potenziali concorrenti. Il 23 settembre i militari della Guardia di Finanza sono andati a casa del governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, della responsabile della sua segreteria Giulia Martinelli, ex compagna del leader leghista Matteo Salvini, e dell’assessore al Welfare Giulio Gallera per acquisire una copia forense del traffico e dei messaggi dei loro cellulari. Nessuno dei tre risulta indagato. "È grave il fatto che la perquisizione sia avvenuta con modalità non pertinenti alle finalità dell'operazione con un decreto non circostanziato ma applicabile a chiunque”, ha dichiarato l’avvocato di Fontana, Jacopo Pensa, “con evidenti criticità di carattere costituzionale vista la ovvia presenza di conversazioni di carattere istituzionale nel cellulare del presidente Fontana. Sarebbe stato sufficiente un invito a fornire i dati telefonici per raggiungere il medesimo risultato investigativo. Valuteremo se impugnare il provvedimento per una verifica giurisdizionale sulla correttezza formale e sostanziale dell'atto disposto”.

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 25 settembre 2020. Non solo l'indagine sui 513mila euro incassati dal cognato di Fontana, Andrea Dini, per la fornitura di 75mila camici durante l'emergenza Covid. Ieri la Finanza si è recata dal commercialista di Varese che ha curato per il governatore lombardo la "voluntary disclosure" dei 5,3 milioni di euro che Fontana custodiva in due trust alle Bahamas e che ha regolarizzato nel 2015, depositandoli in Svizzera. I pm Carlo Scalas, Paolo Filippini e Luigi Furno, coordinati dall'aggiunto Maurizio Romanelli, intendono chiarire la provenienza di quel denaro. Se - come ha sempre sostenuto Fontana sia interamente proveniente dall'eredità della madre, o se invece vi siano redditi non dichiarati relativi alla sua attività di avvocato. Per questo il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Milano ha acquisito le dichiarazioni dei redditi 2015 e 2016 e tutti gli allegati relativi alla pratica sul rientro dei capitali. Di quel denaro si viene a sapere quando emerge il conflitto di interessi tra Dama (srl di Andrea Dini) e l'ente regionale Aria (la centrale unica degli acquisti della Regione) che ha pubblicato l'appalto dei camici. (…)

Inchiesta camici in Lombardia: pm, "Diffuso coinvolgimento Fontana". Gdf acquisisce contenuto dei cellulari della moglie e di alcuni indagati. Pubblicato giovedì, 24 settembre 2020 da Sandro De Riccardis su La Repubblica.it. Il cognato a moglie governatore, "Ordine arrivato, non scrivo a lui". I militari hanno fatto una acquisizione selettiva con parole chiave sui cellulari anche degli assessori Caparini e Cattaneo e di Giulia Martinelli, dell'ex dg della centrale acquisti della Regione e di altri funzionari, ma non su quello del governatore Fontana. C'è "il diffuso coinvolgimento di Fontana in ordine alla vicenda relativa alle mascherine e ai camici accompagnato dalla parimenti evidente volontà di evitare di lasciare traccia del suo coinvolgimento mediante messaggi scritti". Lo si legge nella richiesta di consegna dei cellulari ai principali protagonisti del 'caso camici', firmata dalla Procura di Milano, e nella quale viene riportato anche un testo del 16 febbraio in cui Andrea Dini, cognato del governatore, informa la sorella Roberta Dini, moglie del presidente lombardo, in questo modo: "Ordine camici arrivato. Ho preferito non scriverlo da Atti". Lei risponde: "Giusto bene così". Le indagini. Il Nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf di Milano sta effettuando acquisizioni di contenuti, mirate e sulla base di parole 'chiave', dei telefoni di indagati e persone coinvolte nella vicenda con al centro la fornitura a Dama spa, società di Andrea Dini, cognato del governatore Attilio Fontana, di 75 mila camici e altri dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Tra i cellulari in questione ci sono quelli di Roberta Dini, moglie di Fontana e titolare del 10% della Dama spa, degli assessori lombardi Davide Caparini, Raffaele Cattaneo e di Giulia Martinelli, capo della segreteria del presidente della Lombardia nonché ex compagna del leader della Lega Matteo Salvini. L'acquisizione è presso terzi, il che vuol dire che i quattro non sono indagati. L'operazione non riguarda il telefono del presidente della Lombardia, ma dell'ex dg di Aria Filippo Bongiovanni e della dirigente della centrale di acquisti regionale (entrambi sono indagati) e si sarebbe resa necessaria alla luce delle testimonianze messe a verbale da testi sentiti nei mesi scorsi. E poi dalle prove documentali raccolte dalle Fiamme Gialle, tra cui i messaggi e le chat scaricati dal telefono di Andrea Dini, il cognato di Fontana (anche loro due sono indagati) e titolare della Dama spa, l'azienda al centro dell'indagine per un affidamento senza gara del 16 aprile di una fornitura di 75 mila camici e altri Dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Fornitura trasformata in donazione quando è venuto a galla il conflitto di interessi e quindi mai completata. La Gdf ha acquisito il contenuto anche dei telefonini di alcuni tra il personale dello staff di Fontana e di altri personaggi secondari. Oggi pomeriggio verrà dato l'incarico a un consulente della Procura  per selezionare il contenuto in base a parole chiave, conferimento a cui possono partecipare gli indagati, i difensori ed eventuali loro esperti nominati per le operazioni.  Il materiale contenuto nei telefoni verrà, poi, selezionato con le garanzie dovute. Le acquisizioni mirate e per parole chiave dei contenuti dei telefoni di alcuni 'protagonisti' e indagati del cosiddetto 'caso camici' stanno riguardando in particolare funzionari e dirigenti della Regione e di Aria spa, la centrale acquisti regionale. Nei mesi scorsi gli investigatori, coordinati nell'inchiesta dall'aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas, avevano sequestrato il telefono di Andrea Dini, patron della Dama, società di cui la sorella di quest'ultimo e moglie di Fontana, Roberta Dini, detiene il 10%. Nell'inchiesta figurano quattro indagati. Per frode in pubbliche forniture Fontana, oltre a Dini, Filippo Bongiovanni, ex dg di Aria (entrambi accusati anche di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente) e a una funzionaria di Aria. L'inchiesta verte sul caso dell'affidamento senza gara del 16 aprile di una fornitura di 75 mila camici e altri Dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Fornitura basata su un contratto tra Aria, la centrale acquisti regionale, e Dama. Un affidamento poi trasformato in donazione quando venne a galla il conflitto di interessi della società dei familiari del governatore e quando 'Report' iniziò ad interessarsi alla vicenda.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2020. A non sapere che le Procure di Pavia e Milano non si erano coordinate, e anzi forse nemmeno parlate, nessuno crederebbe a un caso. E invece, 24 ore dopo che i pm pavesi Venditti e Mazza (nell'inchiesta sull'accordo tra Fondazione Policlinico San Matteo e la multinazionale Diasorin per i test diagnostici Covid) avevano portato via l'intero contenuto del telefono del non indagato presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, nonché dell'assessore alla sanità Giulio Gallera e di altre 7 persone, ieri la Procura di Milano (nell'inchiesta sulla fornitura/donazione di camici alla Regione da parte della società Dama spa del cognato del governatore) manda la GdF a bussare di nuovo a casa Fontana: stavolta non per il telefono del governatore, pur indagato a Milano per l'ipotesi di concorso con il cognato nella «frode in pubbliche forniture», ma per il telefono della non indagata moglie Roberta Dini, e - contemporaneamente - di 10 persone, tra cui 2 assessori regionali (Raffaele Cattaneo all'Ambiente e Davide Caparini al Bilancio) e 5 dirigenti tutti non indagati. Per Pavia i sequestri erano motivati dal recuperare, sui telefoni di interlocutori del presidente dell'ospedale Angelo Venturi, le chat che avrebbe cancellato poco prima di essere indagato; per Milano servono a colmare i segmenti mancanti nella storia dei camici quale ricostruita sui messaggi sequestrati in estate sul telefonino dell'indagato cognato di Fontana, Andrea Dini. Diverso l'approccio dell'acquisizione milanese: parimenti aggressiva (perché non sono uno scherzo 11 telefoni di persone per lo più non indagate), ma più garantita perché selettiva: in una ottica di pertinenza e proporzionalità, infatti, i pm Furno-Scalas-Filippini hanno fissato oggi una ricerca con 50 parole-chiave nei telefoni solo sulla vicenda-camici, e per di più in contraddittorio con i legali e i periti degli indagati. Ai professionisti che curarono la voluntary disclosure e le dichiarazioni dei redditi di Fontana è stato invece chiesto di esibire i documenti (in parte già noti all'Agenzia delle Entrate) sul suo scudo fiscale nel 2015 di 5,3 milioni illecitamente detenuti nel 2009-2013 in una banca svizzera da due trust delle Bahamas, nei quali la madre dentista (morta a 92 anni) figurava «intestataria», mentre il figlio era «soggetto delegato». Accertamenti analoghi sono stati svolti per avere certezza che, dietro un trust di controllo, la società del cognato (90%) e della moglie (10%) di Fontana sia appunto solo di fratello e sorella.

Il cognato già il 6 aprile al fornitore di tessuti: «È stato il governatore a dirmi di contattarti». Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2020. Non è vero - come sinora ha sempre detto - che il presidente Attilio Fontana abbia scoperto soltanto l'11 maggio (dal proprio staff per caso) e poi in giugno (dalle interviste di Report) che la centrale acquisti della sua Regione Lombardia, Aria spa, aveva affidato il 16 aprile senza gara alla società Dama spa di suo cognato Andrea Dini (al 90%) e di sua moglie Roberta Dini (al 10%) una fornitura di 75.000 camici e 7.000 set da 513.000 euro. Il telefonino di Dini, infatti, mostra che già quel 16 aprile alle 15.22 l'imprenditore informa subito via sms la sorella Roberta (moglie di Fontana) che «ordine camici arrivato», ma «ho preferito non scriverlo ad Atti», e la moglie di Fontana concorda: «Giusto, bene così». Se ne ricava appunto che il presidente della Regione, salvo ora intenda dire che la moglie quella sera a casa non gli parlò di quanto il cognato aveva fatto attenzione a non scrivergli, seppe subito del conflitto di interessi innescatosi. E per i pm è anche indice della «volontà di evitare di lasciare traccia del suo diffuso coinvolgimento mediante messaggi scritti». Ma un altro sms di Dini sembra retrodatare la consapevolezza di Fontana addirittura a prima del contratto (non 16 ma 6 aprile), e persino rivelarne un aiuto diretto a favore del cognato. I pm, infatti, nello spiegare che l'assessore Raffaele Cattaneo (responsabile della task force regionale) ebbe «un ruolo decisivo per consentire a Dama spa di riconvertirsi e poter formulare una offerta», additano gli sms da cui traspare la sua «intermediazione nel trovare nell'interesse di Dini i tessuti da utilizzare per confezionare i camici» da proporre poi alla Regione, «anche intervenendo sui fornitori». Uno di essi, Paolo Maria Rossin di Indutex spa, il 6 aprile alle 9.50 si scusa con Dini perché ha già venduto ad altri tutti i tessuti che Dini cercava. «Non capisco - reagisce male Dini -. È stato Cattaneo e mio cognato il governatore Fontana a dirmi di contattarLa. Dirò che si sono sbagliati». Dini avvisa Cattaneo. Cattaneo chiama Rossin. Che alle 13.32, «facendo seguito al colloquio odierno con l'assessore Cattaneo», comunica a Dini che si sono liberati 50mila mq di tessuto. Fontana avrebbe dunque finto meraviglia ancora l'11 o 12 maggio (secondo le versioni contrastanti tra il direttore di Aria spa, Filippo Bongiovanni, e il capo segreteria di presidenza Giulia Martinelli): cioè il giorno in cui, stando alla versione ufficiale riportata da Martinelli alle indagini difensive del legale di Fontana, il presidente apprese dal proprio staff l'incresciosa scoperta. «Fontana mi chiese: "Ma non è una donazione?". Io risposi: "No". Fontana ebbe una reazione attonita. Rimase in silenzio per un paio di minuti, poi mi disse: "Mia moglie ha il 10% di questa società". Prese le sue cose e se ne andò». Moglie e cognato appaiono talmente consapevoli del conflitto di interessi che Dini il 21 aprile (5 giorni dopo il contratto regionale) giunge a prospettare a Paolo Zanetta, procuratore della sua Dama spa, di precostituirsi una sorta di alibi (donazioni di mascherine anti Covid a vari ospedali) da opporre a chi in futuro avesse arricciato il naso sulla fornitura di camici: «Dobbiamo donare molte più mascherine ed averne però prova certa. Se ci rompono per le forniture di camici causa cognato, noi rispondiamo così». La molla dei Dini fratello e sorella è per i pm la «grave tensione patrimoniale» della società di abbigliamento (con in pancia il marchio Paul & Shark) causata dalla cancellazione per il Covid di tutti gli ordini, tanto che il 29 febbraio lui profetizza cosa rischierà: «Che per la prima volta in tre generazioni parlerò con i sindacati per ridurre il personale, minimo 50 ma anche 100. Poi si chiudono se possibile (i negozi di, ndr ) New York e Montenapoleone». Dopo due giorni è la moglie di Fontana a suggerire il salvagente: «Bisogna cercare di riconvertirsi in mascherine». Ed è sempre lei a dare a Dini il 25 maggio (5 giorni dopo la rinuncia del fratello al pagamento dei primi 49.000 camici consegnati alla Regione) la notizia che Fontana, per ristorare il cognato della perdita, ha bonificato alla Dama spa 250.000 euro, poi respinti dalla fiduciaria come operazione sospetta: «Mi chiama Attilio (già ti dice il cervello) per chiedermi numero fattura perché ti ha fatto bonifico ma manca il numero della fattura». Notizia che, per la sua improponibilità, getta nello sconforto il pur teorico beneficiario cognato: «Non va bene un bonifico tra privati. Digli di non farlo. Fa più danni». «Spero non l'abbia già fatto», risponde la moglie, «aspetto stasera cerco di capire», e Dini concorda: «Importante è che almeno a casa abbia degli amici», altrimenti «così è anche peggio, mica posso fatturarglieli. Mette l'azienda nei casini». Come è accaduto.

Caso camici, il cognato di Fontana: «La donazione? Devo, motivi familiari». Luigi Ferrarella il 26/9/2020 su Il Corriere della Sera. Il racconto dell’assessore regionale Raffaele Cattaneo, responsabile della task force lombarda contro il Covid-19, al pubblico ministero: «Così mi spiego la scelta». Conclusa l’estrazione dei dati dal telefono sequestrato alla moglie del presidente. Altro che beneficenza. Tutt’altra — e sono proprio i messaggi sequestrati nel suo telefonino a dirlo — è la molla che il 20 maggio spinge il cognato del governatore lombardo Attilio Fontana, l’imprenditore della «Dama spa» Andrea Dini, a comunicare alla centrale acquisti regionale «Aria spa» la trasformazione in donazione (con annessa rinuncia ai pagamenti regionali già fatturati) della fornitura da 513.000 euro che «Dama spa» il 16 aprile aveva ottenuto in affidamento diretto per 75.000 camici e 7.000 set sanitari. Infatti la sera del 16 maggio, presa la decisione, l’imprenditore anche del marchio «Paul & Shark» recrimina in chat con Paolo Zanetta, procuratore della sua società: «Ovviamente tutti, dico tutti, sono nella lista dei fornitori di camici. Armani, Hermo, Moncler. Gli unici co... siamo noi». «Ma lo mandi a c... e fatturiamo lo stesso», lo arringa Zanetta, solo che Dini tronca il discorso: «Non posso». E la vera ragione di questo non potere più farsi pagare il dovuto dalla Regione —- e cioè la donazione come toppa al conflitto di interessi nel triangolo tra Dini (90% di Dama spa), la sorella Roberta (10% di Dama spa, moglie di Fontana) e il presidente leghista della Regione — viene esplicitata proprio da Dini tre giorni dopo, alle 11.28 del 19 maggio, quando chiede «due minuti per spiegare di persona alcune cose» all’assessore regionale Raffaele Cattaneo, responsabile della task force regionale, che già l’aveva aiutato sin da marzo a recuperare i tessuti che Dini non aveva e senza i quali Dini si era comunque proposto alla Regione come fornitore di camici. Due minuti per dirgli cosa? Cattaneo, interrogato l’8 luglio, spiega ai pm: «Dini mi comunicò di aver deciso di trasformare la commessa in donazione per ragioni di carattere familiare». Obtorto collo, insomma. Al punto che con la sorella accarezza l’idea di recuperare un po’ dei mancati incassi riprendendosi l’ultima parte dei 49.000 camici già consegnati in Regione: «Stamattina consegnati 6.000 camici. Almeno quelli possono essere resi». Proposito condiviso con energia dalla moglie di Fontana, che sprona il fratello: «Attilio ora a Milano. Ti devi imporre. Lunedì si recupera tutto quello che si può». Non accadrà. Ma dei restanti 25.000 camici (sui quali la Regione contava) non verrà completata dalla società la consegna né come fornitura né come donazione: da qui l’ipotesi di reato contestata dai pm a Dini in concorso anche con Fontana, e cioè «frode in pubbliche forniture». Sempre dalle chat di Dini si intuisce la catena di interessamenti politici attivata all’inizio dalla moglie di Fontana. Ai pm, infatti, l’assessore Cattaneo dice di «non ricordare il nome della persona da cui ricevetti una telefonata con la quale mi veniva manifestato l’interesse di Dini a rendersi disponibile. L’ho contattato in marzo e mi sono reso conto che non era immediatamente in grado di fornire i camici del tipo che interessavano a noi, anche per la difficoltà a reperire il materiale idoneo; ma, avendo una impresa valida, gli ho indicato le imprese fornitrici». Qualcosa di più si capisce però dagli sms che la moglie di Fontana inoltra al fratello il 27 marzo: «Prova a chiamare assessore (Cattaneo di Varese amico di Orrigoni)», cioè del patron dei supermercati Tigros, nel 2016 candidato leghista battuto al ballottaggio nelle elezioni per succedere a Fontana sindaco a Varese, nel 2019 arrestato e ora in attesa di giudizio nell’inchiesta «Mensa dei poveri». «Sembra che siano molto interessati ai camici. Questo mi dice assessore al bilancio Caparini», aggiunge la moglie di Fontana, «ho avvisato la moglie di Cattaneo (che conosco un po’) che vuol dare una mano. Dice che lui sa il tessuto». La moglie di Fontana e i due assessori regionali sono fra le persone non indagate sui cui telefonini (sequestrati giovedì) ieri il perito dei pm ha estratto, nel contraddittorio con i legali degli indagati, solo le informazioni pertinenti all’indagine, selezionate con 50 parole-chiave come camici, moglie, fratello, cognato, donazione, tessuti, certificazioni, restituzione, consegna, bonifico, Svizzera. Quest’ultimo riferimento si sposa con le carte, che i pm si sono fatti esibire dai professionisti che nel 2015 curarono per Fontana lo scudo fiscale, sulla coerenza tra le dichiarazioni dei redditi e l’eredità materna di 5,3 milioni illecitamente detenuti appunto in Svizzera nel 2009-2013.

Attilio Fontana, altro agguato dei pm: "Torna nel tritacarne, gli pubblicheranno le telefonate del cellulare clonato". Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. Anzitutto una domandina. Che fine faranno le conversazioni via chat, i messaggi, le telefonate fatte e ricevute, contenute nel telefonino di Attilio Fontana, governatore della Lombardia che l'altro ieri si è visto estrarre dal suo cellulare tutti i dati ivi contenuti, con provvedimento coattivo dei pm di Pavia? Un'idea ce l'avremmo. C'è una famosa gag di Fiorello, dei tempi in cui non era ancora vietato fumare negli alberghi. Il comico raccontò che i portaceneri si incamminavano da soli deponendosi nella valigia del cliente appena arrivato in camera: avevano interiorizzato l'abitudine a diventare bottino dell'ospite. Lo stesso capita alle intercettazioni segrete e segretissime. Esse si spostano per questioni genetiche direttamente dagli uffici della Procura alle scrivanie di giornalisti predestinati. E non ci si può far nulla da decenni. Andrà così, anche stavolta? Lasciate ogni speranza o voi che siete intercettati, come scrisse Dante in altro contesto. Com' è andata la faccenda fontanesca? Drinn... Toc toc... Chi è? Aprite, è la guardia di finanza. Si sono i presentati all'uscio della casa di Varese alle 7 del mattino in cinque tra ufficiali e agenti. Una invasione da operazione antimafia. Una retata di camorristi? Ma no, tranquilli. Dovevano ricopiare il telefonino, come fanno nei negozietti cinesi per riportarli su un altro apparecchio. Bastava - ammesso e non concesso sia stato congruo - un agente solo, alle nove, in ufficio, senza mimare l'orda di Genghis Khan.

ATTO INTIMIDATORIO. Insomma. Quello subito dal governatore Attilio Fontana all'alba di mercoledì 23 settembre è un atto intimidatorio, una maniera con cui il potere giudiziario mette il suo calcagno sul collo dell'autorità politica democraticamente eletta, senza nessun rispetto e tutela sia della persona sia della istituzione che rappresenta? Si vuole marcare facendo sentire i rumori degli zoccoli della propria cavalleria pesante, la gerarchia dei poteri in Italia? Qui si mette per puro scrupolo il punto di domanda. Ma quando si apprendono certe modalità di esecuzione di questo provvedimento giudiziario il segno ortografico interrogativo casca giù sotto i tacchi insieme ad un paio di ghiandole che non riescono ad abituarsi al fatto che siamo nell'Italia del (non) processo a Palamara. Il fatto, al di là del particolare (?) inedito, era noto nei suoi elementi essenziali. Già quelli riferiti nelle cronache - e minimizzati come fisime da garantisti - urtano contro lo Stato di diritto, in perfetta consonanza con la ratio - forse - un tantino persecutoria e un pelino anticostituzionale dell'irruzione mattutina. Come si giustifica? Si giustifica molto poco. Il governatore non è indagato e non esistono indizi che portino a lui o al suo telefono come luogo del crimine, perché in quel caso ci sarebbe stato un avviso di garanzia.

DIRITTI VIOLATI. Chiaro che scoprire la verità su un ipotetico reato impone di indagare senza riguardi per nessuno, ma si tratta di non abusare degli strumenti di cui i pm dispongono sulla base della legge, la quale impone che si resti nel suo alveo. Chi non è neppure indagato e dunque non può neppure difendersi può essere privato di diritti fondamentali quali «la libertà e la segretezza» della corrispondenza (art. 15 della Costituzione) sulla base di una supposizione? E chi è in rapporto con lui per ragioni di qualunque tipo, privatissime o istituzionali, non ha il diritto a sua volta che quel che dice e scrive non sia posto alla mercé di chi non era destinato a leggere e udire. Certo, il medesimo articolo della Costituzione prevede che la segretezza sia sospesa sulla base di disposizioni dell'autorità giudiziaria. Questa lacerazione del diritto alla propria sfera di inviolabilità ha una base di pasta frolla: siccome Fontana è presidente della Regione Lombardia in tempo di Covid, e l'indagine in corso riguarda rapporti ipoteticamente criminali tra la dirigenza ospedaliera dell'ospedale San Matteo di Pavia e una ditta farmaceutica a proposito di Covid, forse qualcuno di costoro gli ha telefonato o mandato un messaggio. Magari lo hanno mandato anche al ministro Speranza, visto che si occupa di Covid e contende alle Regioni il loro territorio di decisioni, oppure al commissario straordinario Arcuri, o - perché no - a Conte. Perché non spedire a costoro a i Ros all'alba per ricopiare i telefonini? Ci sarebbe anche l'art. 68 della Costituzione che tutela in modo assoluto le comunicazioni di parlamentari. E' ovvio che ce ne siano un mucchio dentro il telefonino della Regione più grande d'Italia. Esiste o no un limite all'onnipotenza dei magistrati?

Inchiesta sui camici, il messaggio della moglie di Fontana al fratello. Notizie.it il 25/09/2020. Nell'inchiesta sui camici acquistati dalla Regione Lombardia per mezzo milione di euro spuntano nuovi messaggi della moglie e del cognati di Fontana. Emergono nuovi dettagli dall’inchiesta sulla fornitura di camici e dpi costata mezzo milione di euro alla Regione Lombardia e assegnata lo scorso 16 aprile ala società Dama Spa, di proprietà del cognato del presidente Attilio Fontana e nella quale la moglie dello stesso Fontana detiene il 10% delle quote. Nelle ultime ore sono infatti spuntati nuovi messaggi sia della consorte che del cognato del presidente che potrebbero confermare l’impianto accusatorio secondo cui vi fosse “piena consapevolezza” da parte degli indagati sulla situazione di conflitto d’interesse. In sei messaggi inviati alla fine del mese di marzo, la moglie di Fontana Roberta Dini sembrerebbe illustrare al fratello Andrea la possibilità di poter aggiudicarsi l’ordine per la partita di camici richiesta da Aria, l’azienda regionale per gli acquisti della Regione Lombardia. Nei messaggi la signora Dini riporta infatti il probabile interessamento ai camici dell’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo: “Sembra sia [Cattaneo ndr] molto attivo nell’approvvigionamento (…) ho avvisato la moglie di Cattaneo (che conosco un po’) che vuoi dare una mano. Lei dice che lui sa il tessuto. Le ho dato il tuo numero”. In un ulteriore messaggio del successivo 6 aprile è inoltre lo stesso Andrea Dini a menzionare direttamente l’assessore Cattaneo e il presidente Fontana, mentre esprime il suo disappunto nei confronti di un’azienda che si è mostrata impossibilitata a rifornirlo dei materiali di cui avevano precedentemente concordato: “Buongiorno non capisco. È stato Cattaneo e mio cognato il governatore Fontana a dirmi di contattarLa. Dirò che si sono sbagliati”. Secondo quanto espresso dai pubblici ministeri dunque, da tali messaggi e dalla testimonianza di un rappresentante dell’azienda tessile di cui sopra emergerebbe come l’assessore Cattaneo sia intervenuto in prima persona per facilitare il recupero del materiale, necessario al cognato del presidente Fontana per la produzione dei camici. I pm arrivano inoltre ad affermare come appaia: “Indiscutibile che anche Cattaneo fosse a conoscenza dell’evolversi della vicenda, quanto meno nella fase genetica”.

 La nuova moda. Clonazione del cellulare: altro che trojan, ecco cosa prevede la nuova moda dell’inquisizione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Dal trojan alla clonazione. Da Perugia contro Palamara a Pavia contro Fontana, tempi duri per i telefonini. Su quello di Attilio Fontana si sono buttati con il lanciafiamme alle sette di mattina nella sua abitazione i pubblici ministeri che indagano sulla multinazionale Diasorin e il Policlinico San Matteo di Pavia per l’assegnazione di test sierologici. Avrebbero potuto mandare gli uomini della Guardia di finanza a Palazzo Lombardia a chiedere la consultazione del cellulare del Presidente. Insieme a quello della sua capo segreteria Giulia Martinelli e dell’assessore Giulio Gallera e di qualche Presidente ospedaliero sparso per la città. Pare che addirittura il presidente del Policlinico di Pavia ogni tanto conversasse con il Presidente del Policlinico di Milano, Marco Giachetti, per esempio. Molto sospetto. Avrebbero potuto limitarsi a controllare usando parole-chiave relative all’inchiesta, come stanno facendo nelle stesse ore nei confronti di altri (compresa la moglie di Fontana, Roberta Dini) nell’indagine sulla donazione di camici, gli uomini della procura della repubblica di Milano. Cioè selezionare notizie e nominativi che possano servire alle indagini, non buttarsi a capofitto sulla vita intera di persone che non sono neppure indagate. Sulla vita loro e su quella di tutte le persone di loro conoscenza, parenti, amici, rapporti politici e istituzionali. Dalla mamma al Presidente della Repubblica, insomma. Evidentemente a Pavia si usa diversamente da Milano, si preferisce la procedura che si chiama “copia forense”, il che significa duplicazione di tutte le zone del disco, con recupero anche di eventuali file cancellati. Cioè la resurrezione di tutto e tutti, compresi magari i numeri di rompiscatole che cercavi di toglierti di torno. Ed è questo che i pm di Pavia stanno cercando, con mentalità e procedura da inquisizione: non quello che appare, non quello che è, ma quello che non si vede, il famoso “lato oscuro” delle persone. Mettendo insieme telefonate e messaggi che riguardano relazioni istituzionali di un Presidente di Regione, con rapporti politici e anche quelli più personali. Presente e passato. Il tutto dato in pasto agli uomini della guardia di finanza e magari (siamo maliziosi o solo realisti?) direttamente in edicola. Cioè nel luogo che ha ormai scalzato le cancellerie, visto che è lì dove vengono depositati gli atti delle inchieste più delicate e appetibili per il popolo dei voyeurs. Lo si intuisce dalle loro azioni e dalle loro parole. Si sono accorti che il Presidente del Policlinico San Matteo di Pavia, Alessandro Venturi, indagato per peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente per aver affidato senza gara alla Diasorin l’incarico di sviluppare i test sierologici per Covid-19, ai primi di luglio aveva dato una bella ripulita al proprio cellulare. In particolare, scrivono nei decreti di perquisizione, “ha proceduto alla cancellazione massiva dal telefono cellulare di tutte le chat whatsapp”. E questo -fatto considerato particolarmente sospetto-, prima di essere indagato. Sono stati quindi ricostruiti i nomi delle persone che facevano parte dei gruppi, ma non il contenuto delle conversazioni. Per recuperare le quali è necessario il ricorso al napalm, a quanto pare. Poca professionalità o incazzatura feroce? Difficile entrare nella mentalità (e negli stati d’animo, fatto non secondario) dei pubblici ministeri. I quali garantiscono che l’esame dei contenuti sarà limitata “all’alveo dei fatti oggetto di contestazione penale”. Mah. Leggeremo su giornali e social nel prossimi giorni.

L’avvocato Jacopo Pensa, difensore di Attilio Fontana, più che arrabbiato pare sbalordito. Alle sette del mattino di solito si va ad arrestare la gente, ragiona. Il mio assistito non è indagato e si è visto entrare in casa cinque o sei persone mandate a copiargli il telefonino, dice con una certa ironia. Ma osserva con serietà che potrebbe ricorrere al tribunale del riesame, a causa delle modalità procedurali e anche dei profili di incostituzionalità per l’ovvia presenza di conversazioni istituzionali nel telefonino del Governatore. Certo che il Presidente della Regione Lombardia è proprio preso di mira. Difficile attribuirgli esplicitamente la commissione di reati. Però. I pubblici ministeri di Pavia non si accontentano evidentemente di quel che hanno già portato a casa, cioè le indagini sui due contraenti della vicenda dei test sierologici, l’ospedale San Matteo di Pavia e la multinazionale Diasorin, in seguito alla denuncia di un concorrente, la Technogentics. Vogliono arrivare più in alto, al boccone prelibato dell’assessore Gallera e a quello grosso del Presidente della Regione. Le indagini sono ferme, e tra l’altro il Consiglio di Stato, dopo un primo verdetto contrario del Tar, ha dato piena ragione a Diasorin. Così il contratto è anche pienamente in atto. Qualcosa di simile sta accadendo alla procura di Milano. Qui la situazione è ancora più delicata, perché lo stesso Fontana si è infilato in un pasticcio economico-familiare che non dovrebbe proprio stare nelle mani della magistratura. E’ la famosa storia dei camici e altri presidi sanitari che la società del cognato e in piccola parte della moglie avrebbe dovuto prima vendere e poi donare alla Regione Lombardia. Vicenda complicata dallo stesso Fontana, che ha cercato in modo goffo di “risarcire” il cognato facendo tornare dalla Svizzera soldi “scudati”, cosa che non è passata inosservata. Ma anche qui, e proprio ieri, abbiamo assistito al balletto dei telefonini. Che cosa cercano i pm in quello della moglie, forse le chiamate sospette del marito? Siamo sempre lì: trojan, clonazioni, copiature. E sempre il buco della serratura. Ci toccherà tornare agli apparecchi a gettone. Ma sappiamo per certo (esperienza di vicinato) che un tempo intercettavano anche quelli.

La parabola di Fontana, il leghista borghese inciampato nel virus. Brunella Giovara su La Repubblica il 25 settembre 2020. Il governatore della Lombardia è stato tra i primi ad avvicinarsi a Bossi ma in doppiopetto e senza riti padani. Con la pandemia iniziano i guai. E si accendono i riflettori sugli affari di famiglia. Si stava così bene in provincia, tra casa e studio, la Porsche in garage, e molti varesini ancora si domandano: ma chi glielo ha fatto fare, ad Atti, di mettersi in politica, poteva restare con noi, la “nostra gent”, invece di andare a Milano a fare il governatore. Che sante parole, a ripensarci oggi, con quei magistrati che scrutano nei telefoni, la famiglia sottosopra, i conti correnti scoperchiati, che fatica, Atti, che fatica. La gloria, probabilmente. Govern...

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 2020. Altro che beneficenza. Tutt' altra - e sono proprio i messaggi sequestrati nel suo telefonino a dirlo - è la molla che il 20 maggio spinge il cognato del governatore lombardo Attilio Fontana, l'imprenditore della «Dama spa» Andrea Dini, a comunicare alla centrale acquisti regionale «Aria spa» la trasformazione in donazione (con annessa rinuncia ai pagamenti regionali già fatturati) della fornitura da 513.000 euro che «Dama spa» il 16 aprile aveva ottenuto in affidamento diretto per 75.000 camici e 7.000 set sanitari. Infatti la sera del 16 maggio, presa la decisione, l'imprenditore anche del marchio «Paul & Shark» recrimina in chat con Paolo Zanetta, procuratore della sua società: «Ovviamente tutti, dico tutti, sono nella lista dei fornitori di camici. Armani, Hermo, Moncler. Gli unici co... siamo noi». «Ma lo mandi a c... e fatturiamo lo stesso», lo arringa Zanetta, solo che Dini tronca il discorso: «Non posso». E la vera ragione di questo non potere più farsi pagare il dovuto dalla Regione -- e cioè la donazione come toppa al conflitto di interessi nel triangolo tra Dini (90% di Dama spa), la sorella Roberta (10% di Dama spa, moglie di Fontana) e il presidente leghista della Regione - viene esplicitata proprio da Dini tre giorni dopo, alle 11.28 del 19 maggio, quando chiede «due minuti per spiegare di persona alcune cose» all'assessore regionale Raffaele Cattaneo, responsabile della task force regionale, che già l'aveva aiutato sin da marzo a recuperare i tessuti che Dini non aveva e senza i quali Dini si era comunque proposto alla Regione come fornitore di camici. Due minuti per dirgli cosa? Cattaneo, interrogato l'8 luglio, spiega ai pm: «Dini mi comunicò di aver deciso di trasformare la commessa in donazione per ragioni di carattere familiare». Obtorto collo, insomma. Al punto che con la sorella accarezza l'idea di recuperare un po' dei mancati incassi riprendendosi l'ultima parte dei 49.000 camici già consegnati in Regione: «Stamattina consegnati 6.000 camici. Almeno quelli possono essere resi». Proposito condiviso con energia dalla moglie di Fontana, che sprona il fratello: «Attilio ora a Milano. Ti devi imporre. Lunedì si recupera tutto quello che si può». Non accadrà. Ma dei restanti 25.000 camici (sui quali la Regione contava) non verrà completata dalla società la consegna né come fornitura né come donazione: da qui l'ipotesi di reato contestata dai pm a Dini in concorso anche con Fontana, e cioè «frode in pubbliche forniture». Sempre dalle chat di Dini si intuisce la catena di interessamenti politici attivata all'inizio dalla moglie di Fontana. Ai pm, infatti, l'assessore Cattaneo dice di «non ricordare il nome della persona da cui ricevetti una telefonata con la quale mi veniva manifestato l'interesse di Dini a rendersi disponibile. L'ho contattato in marzo e mi sono reso conto che non era immediatamente in grado di fornire i camici del tipo che interessavano a noi, anche per la difficoltà a reperire il materiale idoneo; ma, avendo una impresa valida, gli ho indicato le imprese fornitrici». Qualcosa di più si capisce però dagli sms che la moglie di Fontana inoltra al fratello il 27 marzo: «Prova a chiamare assessore (Cattaneo di Varese amico di Orrigoni)», cioè del patron dei supermercati Tigros, nel 2016 candidato leghista battuto al ballottaggio nelle elezioni per succedere a Fontana sindaco a Varese, nel 2019 arrestato e ora in attesa di giudizio nell'inchiesta «Mensa dei poveri». «Sembra che siano molto interessati ai camici. Questo mi dice assessore al bilancio Caparini», aggiunge la moglie di Fontana, «ho avvisato la moglie di Cattaneo (che conosco un po') che vuol dare una mano. Dice che lui sa il tessuto». La moglie di Fontana e i due assessori regionali sono fra le persone non indagate sui cui telefonini (sequestrati giovedì) ieri il perito dei pm ha estratto, nel contraddittorio con i legali degli indagati, solo le informazioni pertinenti all'indagine, selezionate con 50 parole-chiave come camici, moglie, fratello, cognato, donazione, tessuti, certificazioni, restituzione, consegna, bonifico, Svizzera. Quest' ultimo riferimento si sposa con le carte, che i pm si sono fatti esibire dai professionisti che nel 2015 curarono per Fontana lo scudo fiscale, sulla coerenza tra le dichiarazioni dei redditi e l'eredità materna di 5,3 milioni illecitamente detenuti appunto in Svizzera nel 2009-2013.

Nelle mani degli investigatori i segreti dei telefonini di Fontana. Il governatore sempre più in difficoltà. Le indagini sulla vicenda dei camici stanno facendo emergere altri casi e c’è chi giura che non riuscirà a finire il mandato. Michele Bonessa il 27 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il caso camici continua a scuotere la Lombardia e la sua giunta. Tanto che secondo gli addetti ai lavori il governatore leghista Attilio Fontana potrebbe non arrivare al 2023. Quando è esploso il caso di un ordine da 75mila camici da Regione Lombardia alla ditta del cognato e della moglie di Fontana la giunta si è stretta intorno al presidente, la stessa Lega ha iniziato a parlare di assalto alla Lombardia. Ma ormai la barricata inizia a scricchiolare perché la Guardia di Finanza sta approfondendo le indagini analizzando i telefonini personali del governatore e di altre persone a lui vicine indagate e non tra cui la moglie, gli assessori Davide Caparini e Raffaele Cattaneo, il capo della segreteria della presidenza della Regione, Giulia Martinelli, e altri membri dello staff regionale.

I CAMICI. La ricerca di informazioni è ampia, ma precisa come sottolineato dai pm: la ricerca è basata su più di 50 parole chiave, tra cui camici, moglie, fratello, cognato, donazione, tessuti, certificazioni, Trivulzio, mascherine, restituzione, consegna, ordine, Aria, bonifico, Svizzera. Mentre i tecnici sono al lavoro e i telefonini stanno per essere riconsegnati ai proprietari emergono nuovi dettagli. Negli atti i pm indicano anche un audio inviato a Dini da Paolo Zanetta, direttore di produzione di Dama (azienda del cognato e della moglie di Fontana), il 6 maggio. Nel messaggio Zanetta, riassume la Procura, spiega che “un soggetto di Centrocot (Centro tessile cotoniero, ndr) ha avuto notizia da Raffaele Cattaneo che le aziende riconvertite hanno diritto a 10 milioni di euro da dividersi”. Ci sono anche alcuni messaggi del 16 maggio tra Dini e Zanetta sulla trasformazione della “fornitura in donazione”, che avviene proprio quel giorno. Dini scrive: “Ovviamente tutti dico tutti sono nella lista di fornitori di camici. Armani, Herno, Moncler. Gli unici coglioni siamo noi”. E Zanetta: “Ma lo mandi a cagare e fatturiamo lo stesso”. Dini replica: “Non posso”.

IL CONTO IN SVIZZERA. Proprio la trasformazione da ordine a donazione è al centro delle indagini, per altro arricchitesi del capitolo Svizzera: per risarcire il cognato Fontana ha tentato di pagargli 250mila euro dal proprio conto in Svizzera. Tentativo che ha allertato il reparto antiriciclaggio della Banca d’Italia. La scelta del governatore attuata “per evitare speculazioni politiche”, “non sembrò una buona idea” a Filippo Bongiovanni, l’ormai ex dg di Aria (la centrale acquisti di Regione Lombardia) che il 16 aprile scorso aveva formalizzato l’ordine di fornitura per 513mila euro nei confronti dell’azienda Dama. Come emerge dagli atti, Bongiovanni, indagato, riferisce che Giulia Martinelli, capo della segreteria di Fontana, gli aveva confermato il legame societario con la famiglia del presidente. “A questo punto mi confidai anche con il segretario generale Turturiello”, spiega riferendo che il 18 maggio “si presentò presso il mio ufficio (…) una dipendente di Regione Lombardia (…) che apparteneva verosimilmente allo staff del Presidente e mi chiese l’Iban di Dama”. “Io le chiesi il motivo ma mi rispose ‘non glielo posso dire’ – prosegue Bongiovanni davanti ai pm –. Non trovando l’Iban nelle mail pervenute da Dama, ci recammo in Regione da Superti (vice dg di Regione Lombardia, ndr) e gli chiesi spiegazioni. Superti mi chiarì che il Presidente intendeva pagare la fornitura di camici, per evitare speculazioni politiche. A me non sembrò una grande idea, ma mi limitai ad eseguire la richiesta e a procurare l’Iban per il tramite del Direttore Amministrativo Roberto Gussago”, che “mi scrisse una mailindicandomi il solo Iban”. Tra l’altro saranno analizzati dalla GdF anche i cellulari di Roberto Gussago, dipendente di Aria, di Pier Attilio Superti, vice dg di Regione Lombardia, e di Antonello Turturiello, segretario generale della Regione. Nessuno di loro è indagato.

GLI ALTRI CASI

Ma il caso camici non è l’unico che sta stringendo il cerchio intorno a Fontana: in questi giorni la Guardia di Finanza di Pavia sta portando avanti anche le indagini sul caso Diasorin-San Matteo e proprio per questo filone è stata chiesta la copia dei contenuti del telefono del governatore lombardo. Una scelta contestata dallo stesso Fontana: “Credo abbia usato il termine giusto, perché oltretutto non è neanche circoscritto alla fattispecie contestata ma è quella che si definisce ‘pesca a strascico’” ha risposto a chi gli ha chiesto se ritiene un atto “invasivo” l’acquisizione dei contenuti del suo telefono da parte della Gdf di Pavia nell’ambito del caso Diasorin, come lo ha definito il suo legale. Quanto agli eventuali profili di incostituzionalità della copia forense dei messaggi, profilati dal suo avvocato Jacopo Pensa, Fontana ha spiegato: “Il mio avvocato faceva riferimento al fatto che io evidentemente ho sì delle chat con parlamentari, ministri, uomini politici che evidentemente mi rivelano della cose che magari è meglio che rimangano tra di noi”. Dunque valutate di fare ricorso? “Per una questione formale penso proprio di sì, perché penso che certi principi fondamentali vadano rispettati a prescindere”, ha aggiunto il governatore. Ma nonostante la tranquillità che cerca di ostentare, Fontana è sempre più accerchiato e politicamente debole. Mentre pubblicava una foto di una sua visita a Mattia, il paziente 1 di Lodi, le opposizioni si preparano al dopo: “Fontana non arriva alle elezioni del 2023. Lo dico da settimane – ha scritto l’europarlamentare del Pd ed ex assessore del comune di Milano, Pierfancesco Majorino, sulla sua pagina Facebook – Tra inchieste, intrecci torbidi, affari di famiglia e calo di consensi (come nessun altro Presidente di Regione) non resta lì, bisogna preparare una proposta forte”.

Paolo Colonnello per ''La Stampa" l'8 agosto 2020. Cinque inchieste potrebbero da settembre decidere il destino della giunta Fontana. Per il governatore infatti non c' è solo l' indagine sulla fornitura dei camici prodotti dal cognato, che gli è costata un' iscrizione sul registro degli indagati per frode in forniture pubbliche. Altre indagini, aperte da procure diverse, potrebbero mettere in crisi, fino a sconfessarle, le scelte della sua giunta in campo sanitario, organizzativo e di approvvigionamento durante la fase più acuta della pandemia. Quella forse più insidiosa è relativa alla fornitura dei test sierologici dell' azienda piemontese Diasorin al San Matteo di Pavia. Il fronte qui è duplice: da una parte le indagini della procura di Pavia che procedono per peculato e turbativa d' asta con otto persone già indagate tra cui alcuni medici del San Matteo e il presidente del nosocomio in quota Lega, Alessandro Venturi. Si vuole capire se c' erano interessi «privati» che portarono alla scelta dell' azienda come unica fornitrice di test che tra l' altro, come nella vicenda dei camici, non furono consegnati completamente; dall' altra quella della Procura di Milano che invece procede per un' ipotesi di corruzione visto che la scelta dei test Diasorin venne fatta senza gara in una fase in cui esistevano sul mercato già altri test certificati e decisamente più economici. Meno pericolosa per Fontana e per il suo assessore al Welfare Giulio Gallera, è invece l' inchiesta aperta dalla procura di Bergamo sulla mancata chiusura della Val Seriana come zona rossa di cui ieri sono state rese note le raccomandazioni al governo del Comitato tecnico scientifico del ministero della Salute. Come si ricorderà, come testimoni vennero sentiti anche il premier Conte e i ministri Speranza e Lamorgese. Il magistrato, che procede per epidemia colposa, dovrà stabilire innanzitutto se vi fu un reato, per altro molto difficile da dimostrare e soprattutto da attribuire, e poi di chi fu la principale responsabilità visto che la legge attribuisce sia al governo che alle regioni la capacità di decisione per il lockdown. Infine ci sono i morti nelle Rsa: 27 inchieste sparse per tutta la Lombardia ma fondamentale quella milanese sul Pio Albergo Trivulzio. Nel mirino ci sono 3 delibere regionali, emanate tra l' 8 e il 30 marzo. La più famosa è quella dell' 8 marzo in cui si chiedeva alle Rsa di trovare posti per i malati meno gravi o convalescenti (ma ancora infetti) nelle strutture dedicate agli anziani. Scelta scellerata per alcuni, obbligata per altri (non c' erano più posti letto in tutta la Regione), sicuramente remunerativa per molti (150-200 euro a posto letto al giorno). Infine, ultima ma non meno importante, è l' inchiesta avviata a giugno sui finanziamenti per l' ospedale-fantasma del Portello, costruito a tempo record con importanti contributi privati. Almeno 22 milioni di euro la spesa sostenuta per un ospedale di sola terapia intensiva con 220 posti che ha visto al suo massimo non più di 8 pazienti. Tutta regolare la spesa? La partita ovviamente non è solo regionale ma nazionale: se dovesse cadere per mano giudiziaria la giunta Fontana, sarebbe un terremoto.

Mario Ajello Michela Allegri per “il Messaggero” il 26 luglio 2020. Il messaggio sembra chiaro ed è finito agli atti dell'inchiesta della Procura di Pavia sull'accordo tra il policlinico San Matteo e Diasorin per realizzare i test sierologici poi acquistati dalla Regione Lombardia e, soprattutto, sulle pressioni politiche che potrebbero avere favorito l'azienda piemontese. «Sentito anche Salvini: il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio che ho sentito con le mie orecchie aver attaccato la Regione nel momento più difficile è fuori dal Movimento». Sono le parole che il deputato leghista Paolo Grimoldi avrebbe scritto in un sms all'ex consigliere regionale lombardo Lorenzo Demartini e che sono state rivelate dal Fatto Quotidiano. Il riferimento è al sindaco di Robbio, Roberto Francese, che aveva deciso di utilizzare nel suo Comune un test alternativo a quello dell'ospedale di Pavia e della società piemontese. Questo scambio è stato ora acquisito dalla Procura, che ha indagato 8 persone - i vertici del policlinico e di Diasorin - per turbata libertà del procedimento e peculato.

LE PRESSIONI. Ma c'è un altro filone dell'inchiesta: quello sulle presunte pressioni fatte dalla Regione e dalla Lega sugli amministratori locali per spingerli a non utilizzare test diversi rispetto a quelli brevettati dall'azienda piemontese. Ed è proprio ciò di cui è stato accusato il sindaco di Robbio, che in aprile, quando la crisi sanitaria era drammatica, aveva deciso di utilizzare i sierologici disponibili sul mercato, senza aspettare quelli targati Diasorin, che non erano ancora pronti. Un atteggiamento che non sarebbe piaciuto alla Lega, tanto che chi avesse deciso di spalleggiare Francese avrebbe rischiato l'espulsione dal partito, sembra emergere dal messaggio. Ed è un dettaglio che sembra supportare una delle tesi della Procura e della Guardia di finanza: sulla base delle dichiarazioni di alcuni sindaci, a partire da Francese, che hanno denunciato di avere subito «atteggiamenti a dir poco ostruzionistici nei loro confronti da parte di esponenti politici regionali della Lega Nord», gli inquirenti sospettano che alcuni «legami politici» potrebbero «aver influito sulla scelta del contraente», cioè della Diasorin, per gestire la partita milionaria dei test sierologici in Lombardia. Per questo motivo gli investigatori stanno cercando anche di fare luce sui rapporti commerciali tra Diasorin e la Fondazione Insubrico, che controlla la Servire srl, dove nel cda appare il leghista Andrea Gambini.

LA REAZIONE. «Ho sempre detto che la giustizia va cambiata, e appena saremo al governo sarà la prima cosa che faremo», dice intanto Salvini, che si sente accerchiato, che vive la difficoltà del momento politico e giudiziario in un'estate che per lui doveva essere quella della campagna elettorale permanente e della spallata al governo Conte in vista delle regionali. E invece, «ci hanno messi nel mirino, ma noi non ci faremo eliminare dalla magistratura che si muove ad orologeria. Ci temono e ci attaccano». Questo il mood del leader del Carroccio di fronte all'inchiesta di Pavia, al caso Fontana, alla vicenda della Film commission del Pirellone che vede la Lega al centro di una tenaglia che rischia di schiacciarla. Senza che gli alleati sostengano veramente il Carroccio in questo momento di grave ambasce. Basti sentire le parole del fedelissimo berlusconiano, Ottavio Napoli, a proposito dell'affaire Fontana: «È mai possibile che così tanti politici, una volta raggiunte posizioni di potere, si trovino ad avere parenti, cugini, zii, fratelli, sorelle mogli titolari di società che hanno rapporti con l'amministrazione pubblica?». Incalza ancora Salvini: «Mi sembra una giustizia alla Palamara. Sono tutte indagini che puzzano di vecchio. Non è quello di cui hanno bisogno l'Italia e la Lombardia». E ancora: «A me della chat non me ne frega un accidente. C'è un'inchiesta su persone serie dell'ospedale di Pavia? Secondo me è una vergogna. C'è un'inchiesta sul governatore della Lombardia perché un'azienda ha regalato dei camici? Secondo me è una vergogna. Quando torniamo al governo, la riforma della giustizia è la prima cosa che abbiamo il dovere di fare, altrimenti le aziende scappano da questo Paese». Messo all'angolo, Salvini attacca un po' tutti. Ma la sua spina nel fianco, quella che forse gli fa più male, è il balzo di Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni al 18 per cento nei sondaggi. Una salita vertiginosa degli alleati-rivali a cui non sa bene come porre rimedio, per ora.

Da ansa.it il 25 luglio 2020. Il governatore lombardo Attilio Fontana risulta indagato dalla Procura di Milano nell'inchiesta sulla fornitura da mezzo milione di euro di camici e altri dispositivi di protezione da parte della società Dama spa gestita dal cognato Andrea Dini e di cui la moglie del presidente della Lombardia, Roberta Dini, detiene una quota del 10%. La nuova iscrizione nel registro degli indagati, da quanto si è appreso, è arrivata nella giornata in cui è stato interrogato Filippo Bongiovanni, il dg dimissionario di Aria spa, la centrale acquisti regionale, indagato per turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente, assieme allo stesso Andrea Dini. Nelle tre ore di faccia a faccia coi pm, Bongiovanni avrebbe fornito la sua versione dei fatti chiarendo che la Regione Lombardia e la sua centrale acquisti nelle fasi più difficili dell'emergenza Covid hanno operato in uno stato "quotidiano" di necessità, in un'emergenza fronteggiata dalle strutture regionali con sforzi ed impegno. L'ormai ex dg, difeso dal legale Domenico Aiello, ha anche messo a verbale dettagli concreti sugli sforzi fatti, a suo dire, dalle strutture regionali nell'emergenza. Secondo le indagini dell'aggiunto Maurizio Romanelli e dei pm Filippini, Furno e Scalas, quell'affidamento diretto senza gara della fornitura, che risale al 16 aprile, sarebbe avvenuto in conflitto di interessi e l'ordine sarebbe poi stato trasformato in donazione solo il 20 maggio, dopo che la trasmissione Report iniziò ad indagare sulla vicenda. E Dama, comunque, avrebbe voluto guadagnare provando a vendere 25mila camici (dei 75mila totali di cui 50mila donati) anche a fine maggio con un prezzo di 9 euro a camice, invece che 6 euro che era il prezzo proposto ad Aria.

Da corriere.it il 25 luglio 2020. Il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, è indagato dalla Procura di Milano per «frode in pubbliche forniture». La vicenda è quella della vendita alla Regione, da parte dell’azienda Dama Spa (di proprietà del cognato di Fontana, Andrea Dini, e al 10 per cento della moglie dello stesso Fontana, Roberta), 75.000 camici e 7.000 set sanitari, per 513 mila euro, nelle settimane più dure dell’emergenza-coronavirus. Fontana, il 7 giugno scorso, aveva sostenuto di non sapere nulla della procedura di acquisto da parte della Regione e di non essere mai intervenuto in alcun modo. Ma — come scritto qui — questa sua affermazione stride con due evidenze che vanno in senso opposto. La prima: ad avvertire Fontana, da subito, fu il suo assessore, Raffaele Cattaneo, capo dell’unità di emergenza che stava cercando - in quelle settimane - camici ovunque fosse possibile recuperarli (In una intervista al Corriere del 9 giugno, Fontana disse: «In quei giorni la Regione ha chiesto camici e mascherine da chiunque li avesse»). La seconda: il 20 maggio, la Dama Spa — con una mail alla centrale acquisti della Regione Lombardia — comunicava che la vendita si sarebbe tramutata in una donazione. Ma il giorno precedente, il 19 maggio, Attilio Fontana aveva deciso di versare 250 mila euro alla Dama Spa, proprio per rifondere alla società gran parte del mancato guadagno: mancato guadagno di cui nessuno, pubblicamente, sapeva ancora alcunché. Il bonifico partì da un conto di Fontana in Svizzera, presso la banca Ubs Ag, del tutto lecito. Su quel conto, Fontana aveva fatto nel settembre 2015 uno «scudo fiscale» per 5,3 milioni detenuti fino ad allora da due «trust» (strumenti giuridici di stampo anglosassone per proteggere il patrimonio da possibili pretese). Il fondo era della madre di Fontana, Maria Giovanna Brunella, dentista, che era morta a 92 anni a giugno del 2015. I trust erano stati creati alle Bahamas nel 2005 (dopo inizio nel 1997) quando Fontana presiedeva il Consiglio regionale. La madre di Fontana era «intestataria» dei due trust; Fontana risultava in uno il «soggetto delegato» e nell’altro il «beneficiario economico». Fontana provò a fare il bonifico andando all’Unione Fiduciaria, che amministra per lui il «mandato fiduciario misto» da 4,4 milioni di euro. Ma il bonifico venne bloccato in base alla normativa antiriciclaggio, perché non c’erano una causale o una prestazione coerenti con il bonifico, e il versamento era disposto da soggetto «sensibile» per l’incarico politico. Il bonifico venne annullato l’11 giugno, da Fontana, dopo che il 9 giugno la Guardia di Finanza, attivata dalla Banca d’Italia (che aveva ricevuto la segnalazione dalla fiduciaria), aveva ascolto come teste il «responsabile della Funzione antiriciclaggio» della fiduciaria stessa. Fino a oggi, Fontana non ha modificato la sua posizione pubblica, relativa alla vicenda: di non averne saputo nulla, e di non essere intervenuto in alcun modo.

Il dg scagiona Fontana. Ma i pm lo indagano per la donazione camici. Avviso di garanzia al governatore lombardo per la fornitura della società del cognato. Luca Fazzo, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Milano. E Fontana? E Fontana? All'indagato, i pm chiedono ripetutamente conto del ruolo del presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana. La risposta che ottengono è tranquillizzante (o deludente, a seconda dei punti di vista). «L'avrò visto - risponde l'indagato - due volte in vita mia. E di questa fornitura non mi ha mai chiesto niente né tantomeno mi ha fatto o fatto avere pressioni». Ma in serata, arriva la conferma, diffusa dall'agenzia Ansa: Fontana è iscritto nel registro degli indagati nell'inchiesta sulla fornitura da mezzo milione di euro di camici e altri dispositivi di protezione da parte della società Dama spa gestita dal cognato Andrea Dini e di cui la moglie del governatore della Lombardia, Roberta Dini, detiene una quota del 10 per cento. La notizia arriva nella giornata in cui viene interrogato per tre ore da ben tre sostituti procuratori della Repubblica Filippo Bongiovanni, fino a pochi giorni fa direttore generale di Aria: ovvero la società per gli acquisti della Regione Lombardia, quella che nelle settimane drammatiche del Coronavirus ha dovuto dare la caccia in tutto il mondo a dispositivi di protezione per gli ospedale investiti dall'epidemia. Intorno a Bongiovanni ruota l'indagine che - sull'onda dell'inchiesta giornalistica di Report - punta a capire come vennero forniti ad Aria camici per mezzo milione dalla Dama. Alla fine, come è noto, la Regione non scucì un euro, perché la fornitura venne trasformata in donazione. Ma se a monte era stato compiuto qualche reato, la retromarcia successiva non lo cancella. Bongiovanni, assistito dall'avvocato Domenico Aiello, nel suo interrogatorio ha descritto con toni cupi la situazione fuori controllo vissuta dalla Lombardia nella fase montante dell'epidemia, quando la caccia disperata alle mascherine e ai camici rendeva quasi impossibile fare i controlli. La conseguenza fu che si fecero avanti fornitori anche improbabili, e tra questi anche alcuni truffatori che riuscirono a farsi pagare in anticipo e sparirono senza consegnare la merce. In questo caos, al proposta di fornitura da parte della Dama venne subito accolta. «Sapeva che la ditta era collegata al presidente Fontana?, chiedono i pm. «No - risponde Bongiovanni - l'ho saputo solo dopo che avevamo accettato la fornitura». La fornitura, spiega, inizialmente doveva essere pagata. Non è vero dunque che, come ha sostenuto inizialmente la Dama, fin dal subito si era convenuto di fare una donazione, e solo per un errore il lotto venne fatturato alla Regione. «No - dice Bongiovanni - la rinuncia al pagamento ci venne comunicata solo successivamente dall'azienda, dopo che avevamo autorizzato il pagamento, motivandola con la gravità della situazione». Accadde in seguito all'inchiesta di Report? «La mail è del 20 maggio», risponde. La trasmissione andò in onda dopo, ma Report sostiene di avere interpellato la Dama in data precedente, mettendola di fatto sull'avviso. Su un altro versante delle inchieste giudiziarie sugli appalti per il Covid-19 c'è da registrare la dura reazione di Diasorin, la grossa azienda di biotecnologie raggiunta dall'inchiesta della Procura di Pavia sui test sierologici. Al centro dell'inchiesta c' l'accordo tra Diasorin e l'ospedale San Matteo per realizzare i test destinati alla mappatura sierologica della popolazione lombarda. Diasorin con un comunicato ha reso noto la «decisione di sospendere tutte le nuove attività di sperimentazione clinica con enti pubblici italiani sino a quando non saranno ristabilite le necessarie condizioni di certezza giuridica in materia».

Fontana, la scoperta dei pm: la donazione di camici mai accettata dalla Regione. Luigi Ferrarella il 27 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. Il caso Lombardia: secondo i magistrati alla centrale acquisti regionale Aria spa non si trova, perché non è mai esistita, alcuna delibera con la quale la Regione abbia accettato la trasformazione in donazione della fornitura pattuita ad aprile come affidamento diretto di 75 mila camici. L’ultima paradossale scoperta, nella serie di pasticci che costellano la fornitura dei camici sanitari alla centrale acquisti regionale «Aria spa» diretta da Filippo Bongiovanni, é che qui non si trova, perché non è proprio mai esistita, alcuna delibera con la quale la Regione abbia accettato la trasformazione in «donazione» (comunicata in un mail del 20 maggio dalla Dama Spa di Andrea Dini, cognato del presidente Attilio Fontana) della «fornitura» invece pattuita il 16 aprile come affidamento diretto di 75 mila camici e 7 mila set sanitari, dei quali 49 mila camici e 7 mila set consegnati sino a quel giorno. A Dini giunse solo da Bongiovanni un riscontro di ricezione della mail e un grazie di cortesia, certo non valevole come assenso a una formalizzata modifica del rapporto commerciale. Il risultato é dunque che a tutt’oggi a rigore continua a valere quella fornitura, che a maggior ragione vincolerebbe Dini a fornire alla Regione anche i pattuiti 25.000 camici restanti, base dell’ipotesi di reato di «frode in pubbliche forniture» contestata ai tre. Non a caso Dini sta ora valutando l’opzione di metterli a disposizione.

La fornitura. Così si ritorna al punto di partenza del contratto del 16 aprile della «Dama spa», quando Dini non dice, e nessuno in Regione rileva, che l’imprenditore é fratello della moglie di Fontana, la quale detiene anche un 10% della società, una delle circa 60 che all’unità di crisi dell’assessore Raffaele Cattaneo si rendono disponibili a riconvertirsi: il contratto viene così stipulato nonostante la società non abbia mai sottoscritto l’indispensabile «patto di integrità» anti-conflitti di interesse nei contratti regionali, circostanza alla base l’8 luglio dell’indagine dei pm su Bongiovanni e Dini per l’ipotesi di «turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente».

«Report» e la donazione. Ma intorno al 10-12 maggio in Regione cominciano le fibrillazioni sul potenziale rischio reputazionale insito nel legame tra parentela e commessa, e qualche spiffero arriva anche alla trasmissione tv «Report», il cui giornalista Giorgio Mottola, oltre a interpellare Fontana in generale sui contratti in tempo di Covid, citofona a Dini e gli domanda della fornitura. Dini tentenna, attorcigliandosi in un «effettivamente i miei, quando io non ero in azienda durante il Covid, hanno male interpretato la cosa, ma dopo ho immediatamente rettificato tutto». È il 15 maggio. Il 20 maggio Dini rinuncia via mail ai pagamenti delle fatture dovutegli dalla Regione, e cambia in donazione la fornitura, anche se non regala i restanti 25.000 camici ma cerca di rivenderli a una clinica varesina a 3 euro in più l’uno. Ma in mezzo accade ben altro tra Fontana e il cognato, solo che in quei giorni non lo si sa. Anzi, il 7 giugno, all’anticipazione della trasmissione, Fontana scandisce (tra una minaccia di querela e una diffida ad andare in onda) la sua posizione: «Non sapevo nulla della procedura e non sono mai intervenuto in alcun modo».

Nessuna delle due affermazioni é vera. Proprio il suo assessore Cattaneo, consapevole della parentela e del fatto che potesse apparire inopportuna, sin dall’inizio gli ha rappresentato la presenza del cognato tra i fornitori emergenziali, senza raccogliere alcuna contrarietà da Fontana. Che poi però, quando un mese dopo intuisce che la notizia potrebbe uscire e nuocergli, il 17 maggio chiede al cognato di rinunciare all’affare. Che sia per il lucro mancante e per i costi di riconversione già sopportati dal cognato, sta di fatto che Fontana si sente in dovere di risarcirlo in un modo singolare: il 19 maggio (il giorno prima della rinuncia poi del cognato ai pagamenti della Regione) ordina alla «Unione Fiduciaria», che gli gestisce appunto un mandato fiduciario indicato a pagina 3 della dichiarazione patrimoniale sul sito online regionale, di bonificare 250.000 euro alla società del cognato, di cui (asseritamente a sua insaputa) si é fatto dare l’Iban dalla dirigenza di «Aria spa».

Lo scudo fiscale. Prende i soldi da un proprio conto in Svizzera all’«Ubs», del tutto lecito da quando nel settembre 2015, come erede della madre morta a 92 anni, ha utilizzato (senza mai dirlo pubblicamente nella sua attività politica) la legge sulla «voluntary disclosure» per regolarizzare 5,3 milioni detenuti su quel conto svizzero da «trust» alle Bahamas costituiti nel 2005 e 1997.

Lo stop della fiduciaria. Ma parti correlate, ruolo politico, entità della somma, provvista da scudo fiscale, e causale incoerente con l’assenza di fatture inducono l’antiriciclaggio della fiduciaria a bloccare il pagamento, e a inviare all’Uif di Banca d’Italia una «Sos-segnalazione di operazione sospetta»: il 9 giugno la Gdf acquisisce gli atti e ascolta come teste una funzionaria, l’11 giugno Fontana comunica alla fiduciaria di non eseguire più il bonifico. Quello che il 17 maggio era così urgente.

Estratto dell’articolo di Luca De Vito per “la Repubblica” il 26 luglio 2020. Soldi detenuti illegalmente all'estero fino al 2015. Ma da chi? L'imbarazzo di Attilio Fontana ruota intorno alla storia del cognato, ma anche a quella dei conti esotici. Denaro spuntato quasi per caso nella vicenda della fornitura dei camici alla Regione Lombardia. E su cui la procura di Milano ha cominciato a indagare. All'attenzione degli investigatori ci sono i soldi gestiti fino a cinque anni fa tramite "trust" che sarebbero stati aperti nel 2005 alle Bahamas dalla madre allora 82enne e con il figlio beneficiario (quell'anno era presidente del consiglio regionale della Lombardia). Dichiarati allo Stato italiano dieci anni dopo, alla morte della signora, quando sono diventati ufficialmente eredità del figlio (all'epoca sindaco di Varese). Un totale di 5,3 milioni di euro scudati tramite "voluntary disclosure" su cui ora i pm vogliono vederci chiaro e per cui hanno ordinato una serie di accertamenti tecnici alla Guardia di Finanza. A partire dal mandato fiduciario, ovvero l'insolito strumento con cui il governatore gestisce tramite una società 4,4 milioni di euro su conti svizzeri. Con un obiettivo principale: osservare eventuali incongruenze nei movimenti e provare a capire se quei soldi fossero davvero della madre di Fontana, come dichiarato nella voluntary, oppure no. Punto su cui la normativa non ammette errori. […]

Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 26 luglio 2020. «Scandalizzato» ma «determinato». Gli assessori e i collaboratori che lo hanno incontrato o sentito, riassumevano così - ieri - lo stato d'animo di Attilio Fontana. Il presidente della Lombardia aveva saputo nella notte tra venerdì e sabato di essere tra gli indagati per la vicenda della fornitura-donazione di camici dall'azienda di suo cognato. A «scandalizzarlo» è il fatto di aver ricevuto la notizia dai giornalisti. E come prima risposta nel merito, via Facebook, afferma: «Nelle dichiarazioni richieste dalle norme sulla trasparenza sono riportati nel dettaglio i miei patrimoni, non vi è nulla di nascosto e non vi è nulla su cui basare falsi scoop». Ieri, dopo aver trascorso la mattinata a Varese per alcuni incontri già previsti, il governatore è tornato a Milano per incontrare collaboratori e avvocati e ragionare sulle prossime mosse. L'intenzione è di affrontare pubblicamente la questione soltanto nell'aula del Pirellone, davanti al Consiglio regionale che da domani si riunirà per tre giorni consecutivi per affrontare la partita del bilancio. Un intervento che, fanno sapere dal suo staff, era già previsto e in preparazione da giorni. Compreso un accenno alla vicenda dei camici della ditta Dama, che con ogni probabilità assumerà un peso specifico maggiore nel discorso del presidente. Al momento il giorno più plausibile è mercoledì. Nella sua ricostruzione Fontana ricorderà di aver saputo, sì, che l'azienda di suo cognato si era fatta avanti per offrire camici alla Regione, ma di non essersi mai interessato alla procedura. «Quando è venuto a sapere della fornitura, per evitare equivoci gli ha detto di trasformarla in donazione e lo scrupolo di aver danneggiato suo cognato lo ha indotto in coscienza a fare un gesto risarcitorio - ha spiegato ieri l'avvocato Jacopo Pensa -. Non sono in grado di capire dove sia il reato, ma i pm sanno quello che devono fare ed evidentemente sono state fatte indagini che hanno implicato l'iscrizione a garanzia dell'indagato». Assessori e collaboratori insistono anche nel ricordare che «eravamo in piena emergenza sanitaria», e che con procedura d'urgenza erano state acquisite le forniture di altre quattro aziende, a una delle quali per un controvalore superiore ai 6 milioni di euro, nonostante un prezzo superiore a quello della Dama. «È più che mai determinato ad andare avanti a testa alta», dicono i suoi. E allontanano così i timori di chi nel centrodestra lombardo invita a fare quadrato attorno al presidente per scongiurare un eventuale passo indietro. E in serata è lo stesso Attilio Fontana a mandare un messaggio rassicurante. Ringrazia per le «centinaia» di messaggi di «solidarietà e stima» e annuncia: «Domani si riprende come sempre il lavoro».

Val.Err. per “il Messaggero” il 26 luglio 2020. Uno scudo fiscale da 5,3 milioni di euro. Un mega conto in Svizzera e un bonifico, da 250 mila euro, per risarcire il cognato (e la moglie) per la mancata vendita di camici alla Regione Lombardia per oltre mezzo milione di euro. Perché quel contratto, che per i pm ha molti profili sospetti, il giorno successivo sarebbe stato trasformato dalla Dana, la società scelta dall'amministrazione per l'acquisto del materiale sanitario, in una magnanima donazione in tempi di pandemia. In modo unilaterale e bloccando la fornitura. Oltrepassa le Alpi il pasticcio del governatore Attilio Fontana che, non soltanto, ha usufruito dello scudo fiscale (circostanza finore inedita) dichiarando cifre a sei zeri sottratte al fisco (ma i trust alle Bahamas erano intestati alla mamma) ma, dopo essersi definito ignaro del contratto stipulato tra la Regione che amministra e la società del cognato, aveva pensato di dovere contribuire personalmente ai mancati guadagni dei suoi familiari. La polemica politica, ovviamente, infuria e non è servita a smorzarla il post diffuso dal presidente in tarda serata nel quale sottolinea di non avere nulla da nascondere: «Nelle dichiarazioni richieste dalle norme sulla trasparenza - spiega Fontana - sono riportati nel dettaglio i miei patrimoni, non vi è nulla di nascosto e non vi è nulla su cui basare falsi scoop mediatici». Patrimonio scudato a parte resta da riferire delle date relative alla vicenda dei camici dell'azienda del cognato di Fontana. Il 19 maggio scorso la lettera di Andrea Dini che decide di trasformare l'appalto in donazione sarà inviata alla centrale di acquisto dell'amministrazione lombarda. Il 20, Fontana, attraverso una fiduciaria, fa un bonifico di 250mila euro dal suo conto svizzero. Beneficiario è la Dama. La società del cognato che non incasserà più i soldi della Regione. Parte immediatamente la segnalazione all'Antiriciclaggio di Bankitalia, che in tempi rapidissimi trasmette alla finanza la pratica. Il 9 giugno i militari del nucleo valutario della Finanza sentono come persona informata sui fatti il responsabile dell'Antiriciclaggio. L'11 giugno Fontana blocca il bonifico. Lo scudo fiscale per 5,3 milioni di euro risale al settembre 2015. Fontana era sindaco di Varese e, alla morte della mamma novantaduenne, come erede, decide di mettere a posto le cose, approfittando della legge per il rientro di capitali illecitamente detenuti all'estero. I soldi sono affidati a due trust alle Bahamas, intestati alla mamma e 300mila euro depositati in una filiale della banca Ubs in Svizzera. I trust erano stati creati nel 2005, quando l'attuale governatore presiedeva il consiglio regionale. Erano intestati alla mamma dentista ma il governato della Lombardia era soggetto delegato e beneficiario economico. «Non vi è stato da parte mia alcun intervento», era stata la prima reazione del presidente lombardo Attilio Fontana l'8 giugno, giorno in cui la trasmissione Report (con servizi registrati) era andata in onda con un servizio sui camici comprati e poi donati dall'azienda di suo cognato Andrea Dini alla Regione Lombardia. All'epoca il governatore commentava: proprio il fatto che sia diventata una donazione «mi sembra che fughi qualunque tipo di problema», aveva aggiunto. Adesso, tramite il suo legale, Jacopo Pensa, ha ammesso che quel bonifico era stato «un gesto risarcitorio». «Quando è venuto a sapere della fornitura, per evitare equivoci gli ha detto di trasformarla in donazione e lo scrupolo di aver danneggiato suo cognato lo ha indotto in coscienza a fare un gesto risarcitorio», spiega il legale. Questo risarcimento, continua Pensa, «è rimasto lettera morta». Pd e M5S chiedono compatti le dimissioni del governatore dal Pirellone. E al coro si unisce Leu. A fare quadrato attorno al presidente della Regione Lombardia (della Lega) è invece il centrodestra. Matteo Salvini in testa, che accusa i magistrati, e parla di Giustizia a orologeria.

Paolo Colonnello e Monica Serra per “la Stampa” il 23 luglio 2020. L'ultima sorpresa per la procura di Milano nell'inchiesta sui camici venduti e poi donati dal cognato del presidente Attilio Fontana, è stata la scoperta di una "determina", cioè un atto d'indirizzo del governatore non sottoposto al voto della giunta, con la quale l'8 aprile scorso, in piena emergenza Covid, veniva assegnato a Filippo Bongiovanni, direttore generale di Aria, la società regionale adibita agli acquisti, un potere quasi assoluto di spesa. Bongiovanni, ora dimesso, avrebbe fatto acquisti per quasi 600 milioni di euro, molti necessari, alcuni superflui o addirittura farlocchi. Come racconta per esempio l'inchiesta di Lecco su un imprenditore con mille euro di capitale che si è visto assegnare (e pagare sull'unghia) una commessa da 14 milioni di euro per mascherine nemmeno tutte consegnate. Da Lecco a Milano, da Pavia a Bergamo, per il Carroccio ultimamente è un assedio. Almeno una volta insieme alle inchieste aumentava anche il consenso. Adesso invece a moltiplicarsi sembrano essere solo le indagini, proprio nei territori considerati feudi leghisti, ovvero Bergamasca e Varesotto. Non è un caso dunque che nei decreti che ieri hanno accompagnato l'emersione della nuova inchiesta sul San Matteo di Pavia e i rapporti con Diasorin, i pm si propongano di «far luce sui legami politici» indicando tra i possibili «trait d'union» il direttore generale dell'Istituto Insubrico di Gerenzano, Andrea Gambini, già commissario della Lega varesina. Poi ci sono le inchieste sulla mancata zona rossa di Nembro e Alzano, sui morti nelle Rsa, sui camici forniti agli ospedali lombardi, sulla vendita di capannoni, su finanziamenti irregolari. Indagini che non di rado lambiscono lo stesso Fontana, sentito finora come testimone, archiviato per un presunto favore reso all'ex socio di studio, e ora sotto esame per la storia della fornitura dei camici fatta dal cognato Andrea Dini alla Regione. Ma non è tanto Fontana, innocente fino a prova contraria, il problema principale dell'assedio giudiziario. Ad essere in crisi sembra essere, dopo 8 anni di dominio incontrastato sul Pirellone, l'intero "sistema Lega", ovvero quel coacervo di interessi e potere, che da anni costituisce l'intreccio indispensabile per poter occupare le poltrone che contano nell'ufficio più alto di Milano. Dove si muovono, oltre ai "front man" della politica, uomini e donne molto lontani dai riflettori cui vengono attribuiti però grandi poteri. Come nel caso della nuova "zarina" del grattacielo di Palazzo Lombardia, Giulia Martinelli, capo della segreteria del governatore nonché ex consorte di Matteo Salvini e quindi, in virtù di questo legame, considerata influentissima nelle scelte che contano. Così come ad essere finiti nel mirino della magistratura sono esponenti poco noti al grande pubblico ma di primissimo piano nel Carroccio, per esempio i due commercialisti bergamaschi Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, rispettivamente revisore legale del gruppo Lega al Senato e direttore amministrativo di quello alla Camera, collaboratori del tesoriere del partito Giulio Centemero, per il quale nel dicembre scorso la Procura di Milano aveva chiesto un processo per finanziamento illecito, relativo a un finanziamento di 40mil euro da parte di Esselunga. I nomi dei suoi due collaboratori commercialisti emergono anche nell'inchiesta genovese sulla scomparsa dei famosi 49 milioni di rimborsi e sono ora indagati per la vicenda della compravendita gonfiata di un immobile acquistato da una società della Regione, la Lombardia Film Commission, per 800 mila euro.

Fondi Lega, nell'inchiesta sui contabili  il giallo dei fondi «per le elezioni 2018» Salvini su Giorgetti: Lega non è una caserma. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2020. Dovevano portare denaro al Carroccio con qualsiasi mezzo oppure i tre commercialisti arrestati per la vicenda della Lombardia film commission sfruttavano la Lega come un treno su cui salire per fare affari(anche illeciti) in proprio? Gli investigatori che lavorano all’inchiesta milanese cercano una risposta alla domanda anche dopo che Luca Sostegni, il primo degli arrestati, ha dichiarato che uno dei professionisti finiti ai domiciliari gli disse che i soldi dell’affare servivano a finanziare la campagna del partito di Matteo Salvini nelle elezioni politiche del marzo 2018. Gli accertamenti bancari della Gdf non hanno trovato alcuna traccia di passaggi di soldi tra gli indagati e la Lega, ma le indagini sono in pieno corso. In uno dei due interrogatori a San Vittore dopo l’arresto del 16 luglio, Sostegni ha messo a verbale che Michele Scillieri gli confidò «sorridendo» che il denaro dell’affare sarebbe stato impiegato per le elezioni. Nessuna conferma è arrivata da tutte le verifiche fatte in Italia e in Svizzera, dove è finita parte dei soldi. Scillieri è il commercialista nel cui studio nel 2017 era domiciliata la «Lega per Salvini premier», Sostegni è il suo «uomo di fiducia», come lo definiscono i pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi, che lui usa come prestanome in molte operazioni societarie. Come ha fatto in quella Flc che, scrive il gip Giulio Fanales ordinando gli arresti per peculato, turbata libertà nella scelta del contraente e sottrazione fraudolenta di pagamento delle imposte, ha «natura sostanzialmente appropriativa, concretizzando di fatto l’impossessamento» da parte degli indagati degli 800 mila euro finanziati dalla Regione Lombardia a guida leghista per permettere a Lfc di acquistare la nuova sede a Cormano. Operazione «priva di una reale giustificazione economica» che serviva da «schermo giuridico» per «occultare» la distrazione dei fondi a favore dell’allora presidente Alberto Di Rubba, e dei colleghi Andrea Manzoni e Michele Scillieri. Le indagini della Guardia di finanza hanno fatto emergere che due terzi degli 800 mila euro sono finiti ai tre commercialisti molto vicini alla Lega. Di Rubba e Manzoni sono revisori del partito, l’uno al Senato, l’altro alla Camera. Ad ammettere che si tratta di un affare costruito tra loro tre sono Di Rubba e Scillieri mentre commentano il fatto che Manzoni e Sostegni non sarebbero rimasti soddisfatti di quello che hanno ricevuto. Grazie a un trojan inoculato nel cellulare, la Gdf ha registrato Scillieri che dice: «Quando all’inizio abbiamo fatto tutti i conti, nessuno ci perdeva. Quindi la proprietaria (la Paloschi srl, ndr.) prendeva la sua parte; quello lì (Sostegni) prendeva la sua parte io prendevo la mia parte e voi (Di Rubba e Manzoni) prendevate... È andata storta ad un certo punto». Scillieri, però, rassicura Sostegni: «Ne faremo altre mille... la prossima volta andrà bene, invece di 50 ne prendi 70». Chiosa il gip: «Il gruppo beneficia degli incarichi di rilievo tuttora ricoperti» in «numerose società ed enti». Manzoni si è presentato spontaneamente ai Pm per dire di non aver avuto nulla. Una fetta di denaro pubblico (260 mila euro) è stata usata per pagare la ristrutturazione del capannone eseguita dalla Baracchetti service di Francesco Barachetti, anche lui vicino al mondo leghista, che è indagato per peculato. L’organizzazione dell’operazione per la sede Flc è stata lunga e molto complessa. Ai pm Fusco e Civardi, Sostegni ha dichiarato che i commercialisti si incontravano per discuterla anche nella sede storica della Lega in via Bellerio a Milano. Lui non partecipava e veniva poi aggiornato da Scillieri. Ad un solo incontro avrebbe dovuto esserci nella seconda metà del 2016, ma arrivato in via Bellerio vide «uscire dall’edificio lo Scillieri in compagnia di Manzoni e Di Rubba». Scillieri gli disse che Di Rubba e Manzoni preferivano «un luogo meno rischioso perché più apparato». Per evitare occhi indiscreti, quindi, i tre si trasferiscono in «una tavola calda nelle vicinanze». Le Fiamme Gialle stanno anche lavorando su un altro particolare riferito da Sostegni, e cioè che a Manzoni e Di Rubba fosse riferibile una società che noleggia auto alla Lega realizzando un importante fatturato. Il prestanome è stato arrestato per estorsione perché, per stare zitto e sugli affari dei tre commercialisti voleva da loro i 30 mila euro che gli dovevano. Intercettato, riflette che non si spiega perché i tre «preferissero, per risparmiare pochi soldi, fare scoperchiare il pentolone. E può fargli danni assurdi». Come è avvenuto.

Estratto dell’articolo di Carlo Bonini per “la Repubblica” l'11 settembre 2020. (…) Scillieri, Di Rubba e Manzoni non sono dei Savoini qualunque. (…) Tanto per dire, nel 2019, lo scorso anno, è con Salvini che Di Rubba viene nominato amministratore della Pontida-fin, l'immobiliare finanziaria del partito della Lega Nord, oltre a diventare presidente del consiglio d'amministrazione di una società pubblica che gestisce il sistema informatico di Agea, lo strumento con cui il ministero dell'Agricoltura eroga i fondi pubblici. (…) Tanto per dire, nello studio di via XX settembre a Bergamo, dove Manzoni e Di Rubba hanno i loro uffici e ha sede la loro società di professionisti (la "Mdr stp"), figurano come soci anche Giulio Centemero, tesoriere della Lega, e il senatore Stefano Borghesi. (…) È indubbiamente presto per prevedere se Cormano stia a Matteo Salvini come il Pio Albergo Trivulzio stette a Bettino Craxi. Ma certo il filo afferrato dalla Procura di Milano è potenzialmente capace di far crollare il "Sistema Lega". Quello alla cui ombra sono scomparsi - conviene non dimenticarlo - 49 milioni di euro di denaro pubblico sottratto illegittimamente alle tasche degli italiani e che Matteo Salvini giura di non riuscire neppure a immaginare dove sia finito.

Fondi Lega Lombardia, il gip: «Gli arrestati possono colpire ancora». Le intercettazioni: altre mille operazioni. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera l'11 settembre 2020. «Ne faremo altre mille la prossima volta andrà bene, invece di 50 ne prendi 70». È quanto dichiara il commercialista Michele Scillieri, in un’intercettazione del 19 maggio 2020 finita agli atti dell’inchiesta sul caso Lombardia Film Commission (per cui ieri sono state arrestate 4 persone, tra cui lo stesso Scillieri, Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Fabio Barbarossa). Nell’ordinanza del gip si legge che «Di Rubba e Scillieri a proposito della conclusione infelice dell’affare relativo alla fondazione e ai terreni (da intendersi il complesso immobiliare) concordano circa la necessità di superare il malcontento serpeggiante fra i sodali in conseguenza dei guadagni rivelatisi minori del previsto». L’intera operazione dell’acquisto della sede di Lombardia Film commissione avrebbe avuto fin dall’inizio una «natura sostanzialmente appropriativa, concretizzando di fatto l’impossessamento degli 800 mila euro stanziati dalla Regione Lombardia, da parte dell’allora presidente Di Rubba (carica che ha rivestito fino al 2018 ed alla quale era stata designato dalla Regione Lombardia su indicazione della Lega, ndr.) e dai suoi sodali», È questo uno dei passaggi principali dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Milano Giulio Fanales. L’operazione immobiliare risulterebbe priva di una reale giustificazione economica perché sarebbe stato solo «lo schermo giuridico dietro il quale occultare l’unico intendimento perseguito, ossia la distrazione del fondo erogato dall’Ente pubblico a favore dell’allora presidente Di Rubba e dei suoi complici», aggiunge il gip nelle 60 pagine dell’ordinanza.

Lega, chi sono i tre commercialisti arrestati nell’inchiesta Lombardia film commission. Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera l'11 settembre 2020. I tre commercialisti Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Michele Scillieri arrestati ieri per ordine dei magistrati di Milano nella vicenda della compravendita del capannone di Cormano (Milano) per la sede della sede della Lombardia film commission, hanno in comune la vicinanza con la Lega (con fiducia confermata da Matteo Salvini), le attività in studi professionali a Bergamo e Milano, in parte il mondo dell’associazionismo politico. Di Rubba e Manzoni, entrambi di 41 anni, sono i professionisti di Bergamo ai quali Giulio Centemero, tesoriere e parlamentare della Lega, anch’egli quarantunenne, ha affidato i conti del partito. Manzoni risulta essere commercialista a Bergamo con sedi anche a Brescia e Clusone. Di Rubba è revisore contabile del gruppo al Senato, Manzoni revisore contabile del gruppo alla Camera. Quest’ultimo risulta essere commercialista a Bergamo con sedi dello studio anche a Brescia e Clusone. Dopo aver ottenuto un dottorato in marketing, per un periodo ha lavorato nello studio milanese del commercialista Michele Scillieri, 57 anni, con una sede anche nella via privata delle Stelline 1, dove tempo fa si è scoperta la domiciliazione della sede fantasma della Lega per Salvini premier, il nuovo partito nazionale creato dall’ex ministro dell’Interno per mandare in pensione quello vecchio. Manzoni e di Rubba hanno partecipato all’associazione «Più voci», creata da Centemero, che nel tempo ha raccolto finanziamenti per attività politiche. Anche di Di Rubba risulta lavorare in uno studio con sedi a Bergamo e Clusone. In passato, il commercialista ha operato nelle aziende Severn Trent Italia (depurazione acque reflue), Banca popolare di Bergamo, La biodepuratice, oltre a essere stato ad di Presservice (attività tipografiche), consigliere delegato di Iseco (ambiente) e nel cda di Baltea impianti (depurazione acqua). Incarichi più recenti sono quelli di amministratore unico della Edizioni Erbia e di Pontida fin, la cassaforte immobiliare del Carroccio, e nel 2018 del Nucleo valutazione delle prestazioni del personale degli enti pubblici. Già nel cda di Radio Padania, dall’agosto 2014 al maggio 2018 è stato presidente della Lombardia film commission. Nel gennaio 2019 Di Rubba è stato inoltre scelto come presidente della Sin spa, acronimo di Sistema informativo nazionale per lo sviluppo dell’agricoltura (51% di Agea, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che eroga fondi europei), quando ministro dell’Agricoltura era il leghista Gian Marco Centinaio.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'11 settembre 2020. L'appuntamento in Procura era per le 9.30 di stamattina. Era, perché Alberto Di Rubba, commercialista revisore contabile del gruppo della Lega in Senato, ieri sera è stato arrestato con il collega Andrea Manzoni, che svolge lo stesso ruolo alla Camera, con Michele Scillieri, altro commercialista (nel suo studio milanese nel 2017 era domiciliata la «Lega per Salvini premier») e con Fabio Barbarossa, cognato di Scillieri. Sono tutti ai domiciliari per l'inchiesta sull'acquisto della sede di Lombardia Film Commission, vicenda per la quale da luglio è a San Vittore Luca Sostegni, prestanome di Scillieri nell'affare da 800 mila euro, gran parte dei quali finiti ai tre professionisti contigui al partito di Matteo Salvini. I quattro nuovi arrestati erano già stati indagati dai pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi i quali, come ora si capisce, avevano chiesto l'arresto di tutti, Sostegni compreso, già il 15 luglio al gip Giulio Fanales. Il giorno dopo, però, dovettero ordinare il fermo urgente di Sostegni quando alla Guardia di Finanza di Milano fu chiaro che l'uomo stava per fuggire in Brasile dopo aver ricattato e tentato di estorcere 30 mila euro ai tre commercialisti minacciandoli di rivelare ciò che sapeva. Sostegni è stato interrogato già due volte. Manzoni una. Prevedendo che la sua posizione si sarebbe complicata si è presentato spontaneamente in Procura venerdì scorso con l'avvocato Piermaria Corso per un interrogatorio in cui ha minimizzato ed escluso irregolarità. Oggi sarebbe stata la volta di Di Rubba, anche nel suo caso presentazione spontanea assistito dall'avvocato Corso, se ieri non fosse piombata sul tavolo dei pm l'ordinanza firmata da Fanales. L'accusa è di turbata libertà nella scelta del contraente, peculato e, per il solo Sostegni, anche di estorsione. L'inchiesta mette a fuoco l'appalto che ha portato alla compravendita di un capannone a Cormano, hinterland milanese, che sarebbe stato spinto da Di Rubba quando, fino al 2018, ha presieduto Lombardia Film Commission su indicazione del Carroccio. Un appalto che Di Rubba, con la partecipazione di Manzoni e Scillieri, avrebbe cucito come un vestito intorno all'immobile della Andromeda srl, società amministrata da Fabio Barbarossa, cognato di Scillieri, che l'aveva acquistato poco meno di un anno prima da Paloschi srl, società in gravi difficoltà finanziarie di cui era amministratore Luca Sostegni. Essendo l'unico bene che aveva in pancia, quando il Fisco si presentò alla Paloschi per recuperare 573 mila euro di debiti, non trovò nulla. Gli 800 mila euro vennero spartiti in diversi rivoli con l'obiettivo finale di farli confluire nelle tasche dei tre commercialisti (gli inquirenti ipotizzano anche il reato di riciclaggio) attraverso un'operazione, scrisse Fanales confermando il fermo di Sostegni, che doveva essere «lo schermo giuridico» per celare «l'impossessamento» di fondi pubblici. Dopo soli tre mesi dal bando, Lfc avviò la ricerca di immobili per la nuova sede fissando parametri che, dice l'accusa, erano quelli del capannone della Andromeda. Che, infatti, venne selezionato, scelto e acquistato, sostengono gli inquirenti, ancora prima della stipula dell'atto di vendita, che avverrà solo nel settembre 2018. In questo modo i venditori, ipotizzano gli inquirenti, l'hanno potuto consegnare ristrutturato con i soldi della Regione. Per l'accusa, il capannone fu acquistato ad un prezzo doppio di quello di mercato consentendo ad Andromeda di realizzare «un beneficio irragionevole e sproporzionato», evidenzia Fanales. La Finanza ha accertato che Di Rubba e Manzoni hanno incassato circa 420 mila euro, altri 134 mila sono andati a Scillieri attraverso Andromeda, 202 mila alla Barachetti Service, una impresa attiva nell'ambiente leghista che ha fatto la ristrutturazione, il resto si esaurisce in spese varie.

Fondi Lega in Lombardia, chi sono i tre arrestati? Notizie.it l'11/09/2020. Chi sono gli arrestati per il fondo Lega? Di Rubba, Manzoni, Scillieri, tutti molto legati al Carroccio di Salvini. L’inchiesta milanese relativa alla vicenda Lombardia Film Commission e la compravendita di un immobile a Cormano ha portato all’arresto di tre commercialisti vicini alle Lega. Nello specifico si tratta di Alberto Di Rubba, commercialista revisore contabile del gruppo della Lega in Senato, di Andrea Manzoni, che svolge lo stesso ruolo alla Camera e di Michele Scillieri, altro commercialista (nel suo studio milanese nel 2017 era domiciliata la “Lega per Salvini premier”). Sono tutti e tre ai domiciliari e vario titolo vengono loro contestati i reati di peculato, turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Oltre ai tre anche un quarto è stato arrestato, si tratta di un professionista, Fabio Giuseppe Barbarossa, cognato di Scillieri e considerato un prestanome. Ricordiamo inoltre che da luglio per la vicenda legata alla Lombardia Film Commission è detenuto a San Vittore anche Luca Sostegni, prestanome di Scillieri nell’affare da 800 mila euro, gran parte dei quali finiti ai tre professionisti contigui al partito di Matteo Salvini. I quattro arrestati erano già stati indagati a luglio insieme allo stesso Sostegni, per il quale però era stato necessario il fermo urgente in quanto quest’ultimo stava per fuggire in Brasile dopo aver ricattato e tentato di estorcere 30 mila euro ai tre commercialisti minacciandoli di rivelare ciò che sapeva. I nomi dei due commercialisti erano entrati pesantemente anche nell’inchiesta sulla scomparsa dei 49 milioni di fondi pubblici che la Lega avrebbe dovuto restituire allo Stato.

Fondi Lega, Salvini sui commercialisti arrestati: “Persone oneste e corrette”. Notizie.it l'11/09/2020. Matteo Salvini si è detto tranquillo in merito alla vicenda dei tre commercialisti vicini alla Lega arrestati: per lui sono persone oneste e corrette. Matteo Salvini è intervenuto sul caso dei tre commercialisti considerati vicino al suo partito e arrestati nell’ambito dell’inchiesta sulla Lombardia Film Commission. Il leader della Lega si è detto tranquillo e convinto che tutto si risolverà in nulla. “Conosco due delle tre persone. Sono oneste e corrette: dubito che abbiano chiesto o fatto qualcosa di sbagliato“. Il senatore leghista ha commentato così la notizia, dubitando delle accuse rivolte ai commercialisti ma allo stesso tempo avendo piena fiducia nella magistratura. Nella convinzione che comunque, come successo per le ricerche dei “soldi che non ci sono in Russia, in Svizzera, a San Marino, in Lussemburgo, Liechtenstein“, tutto si concluderà con un nulla di fatto. L’inchiesta su cui si sta indagando riguarda l’acquisto di un capannone a Cormano con lo scopo di trasformarlo nella sede di Lombardia Film Commission. Una compravendita avvenuta con fondi pubblici che sarebbe stata spinta da Alberto Di Rubba, contabile del gruppo leghista in Senato e allora capo della società, su indicazione della Lega. Secondo le accuse parte dei denari investiti nell’acquisto sarebbero finiti nelle mani sue, del collega Andrea Manzoni che svolge il suo stesso ruolo alla Camera e di Michele Scilleri. Quest’ultimo è un altro commercialista vicino alla Lega il cui cognato è amministratore della Andromeda Srl, la società proprietaria dell’immobile acquistato. Che aveva acquistato l’immobile, poi comprato con fondi regionali per 800 mila euro, alla metà del prezzo: un surplus troppo alto che sarebbe appunto finito nelle mani dei tre arrestati.

Lombardia Film commission: La scena delle manette ai leghisti. L’inchiesta riguarda la vendita di un palazzo a un prezzo che la procura ritiene gonfiato. Michelangelo Bonessa il 12 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud.  Ancora manette e indagati nella vicenda dei commercialisti bergamaschi della Lega. Dopo Luca Sostegni, fermato con un piede su un aereo per il Brasile settimane fa, ora sono scattate le manette per altre quattro persone tra cui Michele Scillieri, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. L’indagine che ha causato gli arresti è sempre quella della presunta vendita a un prezzo gonfiato di un immobile destinato a diventare la sede della Lombardia Film Commission. Un edificio comprato da Di Rubba per 800mila euro grazie a un finanziamento regionale ottenuto quando a governare la Lombardia era Roberto Maroni. Forse non per caso con l’esplodere della vicenda proprio l’ex presidente ha annunciato il suo ritorno in campo con l’esplosione mediatica di questa inchiesta. Questa volta però l’imbarazzo non è solo per Matteo Salvini: Manzoni risulta anche essere presidente del collegio sindacale di Arexpo, la società a controllo pubblico che ha il compito di trovare un futuro per i terreni su cui si è celebrato Expo 2015. Dentro ci sono tutti: dal Ministero dell’Economia, che ha la maggioranza relativa, in giù. E la nomina del commercialista è firmata dal sindaco Giuseppe Sala. La Lega ostenta sicurezza, però difficilmente potrà ancora fingere di non saperne nulla perché il giro dei commercialisti bergamaschi era essenziale per i salviniani: un esempio è la registrazione del marchio della nuova Lega proprio in un ufficio del gruppo. Un altro, la tranquillità con cui usavano la sede milanese di via Bellerio per fissare le proprie riunioni come hanno ricostruito i magistrati: Tra il 2016 e il 2017 una “riunione” tra tutti i “sodali” sull’affare della presunta compravendita gonfiata di un immobile per la Lombardia Film Commission avrebbe dovuto tenersi nella sede milanese della Lega, ma i tre commercialisti di fiducia del partito Michele Scillieri, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, scelsero “un luogo meno rischioso perché più appartato” e da via Bellerio si trasferirono “all’interno di una tavola calda nelle vicinanze”. La cricca secondo il gip di Milano Giulio Fanales andava fermata con gli arresti perché i suoi componenti potrebbero ancora commettere “delitti della stessa specie”. Il gruppo, spiega il gip, ha “dimostrato una spiccata capacità organizzativa” con “perfetto riparto dei compiti” e “potenzialità operative” e si basa su “legami interpersonali (a base amicale, lavorativa e parentele in senso lato) particolarmente stretti e risalenti nel tempo” con un “vincolo di solidarietà reciproca”. E, come detto, i suoi componenti son piazzati nei posti giusti: “Il gruppo beneficia, inoltre, degli incarichi di rilievo tuttora ricoperti da alcuni suoi componenti negli organigrammi di numerose società ed enti – scrive il gip di Milano Giulio Fanales nell’ordinanza, eseguita dal Nucleo polizia economico finanziaria della Gdf – fra i quali anche soggetti di diritto privato a partecipazione pubblica”. Un giro di persone spregiudicate a giudicare dalle ricostruzioni delle toghe: Scillieri e il cognato Fabio Barbarossa avevano anche pensato di bruciare gli assegni mai incassati in questo giro di compravendite. I due infatti avrebbero dichiarato di aver comprato un immobile tramite una loro società per 400mila euro per poi rivenderlo un anno dopo per 800mila alla Lombardia Film Commission. Dello spostamento dei 400mila però non c’è traccia e gli assegni da bruciare erano proprio relativi a quella somma. Manzoni, sentito lo scorso 3 settembre dai pm di Milano, intanto tenta di negare ogni addebito: il commercialista si è difeso sostenendo di “non avere percepito alcuna somma, in relazione all’operazione immobiliare” per la Lombardia Film Commission. La sua versione però “non viene ritenuta attendibile, per plurime ragioni”. Anche su un versamento da 178mila euro che farebbe parte di una serie di denari transitati sui conti del gruppo, ma al momento non rintracciabili, il professionista respinge ogni sospetto parlando di “un’operazione immobiliare di un terreno in alta Val Seriana, intestato ai Testa, rientrante in un’operazione di ristrutturazione, di qualche anno prima, sul supermarket di questi Testa”. Un racconto giudicato dai magistrati tanto “confuso da risultare radicalmente incomprensibile”. Intanto c’è un altro indagato nell’inchiesta della Procura di Milano sul caso della Lombardia Film Commission. Si tratta dell’imprenditore Francesco Barachetti, accusato di peculato e che i pm, in uno degli atti dell’indagine, definiscono “personaggio legato a Di Rubba e Manzoni” e “più in generale al mondo della Lega”. Ieri, da quanto si è saputo, l’azienda dell’imprenditore, la Barachetti service, è stata perquisita dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano nell’indagine dell’aggiunto Fusco e del pm Civardi. La Barachetti avrebbe incassato circa 260mila euro nell’affare sull’immobile per attività di ristrutturazione, ma si sta cercando di capire se l’imprenditore abbia ricevuto anche altre somme. La vicenda dei commercialisti bergamaschi della Lega è tutto meno che finita.

Sandro De Riccardis per repubblica.it il 12 settembre 2020. I tre commercialisti di fiducia della Lega, arrestati ieri, temevano il "ridimensionamento della somma finale fra loro spartibile" nell'affare della presunta compravendita di un immobile a prezzo gonfiato per la Lombardia Film Commission. Lo ha messo a verbale in uno degli interrogatori davanti ai pm il presunto prestanome Luca Sostegni, come emerge dall'ordinanza del gip. Sostegni ha riferito di un incontro tra lui, Michele Scillieri, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, nel quale avrebbero affrontato questi temi: "il rischio dell'iscrizione d'ipoteca in pregiudizio del complesso immobiliare da parte di Equitalia, in ragione della pendenza di cartelle esattoriali per somme ingenti; l'opportunità di evitare un trasferimento diretto del bene dalla società Paloschi alla fondazione, dovendosi optare, invece, per un passaggio intermedio; i costi rilevanti da sostenere per la ristrutturazione, con il pericolo di un notevole ridimensionamento della somma finale fra loro spartibile. Infine, i tempi da rispettare, con riguardo alla spesa dell'importo di Euro 1.000.000, tenuto conto della presumibile scadenza del mandato, quale presidente, in favore del Di Rubba". Con le sue dichiarazioni Sostegni, che sta collaborando, ha fornito ai pm ancora una "prova dell'accordo collusivo". Andrea Manzoni, il revisore contabile della Lega alla Camera, sentito lo scorso 3 settembre dai pm di Milano, si è difeso sostenendo di "non avere percepito alcuna somma, in relazione all'operazione immobiliare" per la Lombardia Film Commission. Lo si legge nell'ordinanza del gip Fanales nella quale viene riportata la versione del professionista che, spiega il giudice, "non viene ritenuto attendibile, per plurime ragioni". Manzoni ha sostenuto, tra l'altro, che i circa 178mila euro versati dalla società Andromeda, riferibile a Michele Scillieri, in favore della Sdc, riferibile a Manzoni, riguardano "un'operazione immobiliare di un terreno in alta Val Seriana, intestato ai Testa, rientrante in un'operazione di ristrutturazione, di qualche anno prima, sul supermarket di questi Testa". Ha detto, in pratica, che non erano parte degli 800mila euro incassati dalla vendita gonfiata dell'immobile. Un racconto, scrive il gip, talmente "confuso da risultare radicalmente incomprensibile". Ha spiegato anche di aver partecipato "per mero caso" con Alberto Di Rubba e Scillieri "ad un sopralluogo presso il capannone della Paloschi" che era proprietaria dell'immobile di Cormano. E ha negato di essere a conoscenza di tutta un'altra serie di dettagli sull'operazione. Nell'affare della presunta compravendita gonfiata di un immobile a Cormano, nel Milanese, si pensò anche all'ipotesi di distruggere tracce di assegni che non erano stati incassati. E' quanto emerge da una conversazione, intercettata a giugno, tra il commercialista Michele Scillieri e il cognato Fabio Barbarossa, entrambi arrestati ieri.Barbarossa, che amministrava l'immobiliare Andromeda, parlando con Scillieri, amministratore di fatto sia di Andromeda che di Paloschi srl, "in merito al mancato incasso degli assegni emessi" da Andromeda in favore della Paloschi "valutava - riassume il gip - l'opportunità della distruzione dei titoli di credito, rimasti nelle sue mani, onde evitare la loro scoperta da parte delle autorità inquirenti". Paloschi, infatti, non incassò mai i 400mila euro  in assegni pagati da Andromeda per il capannone e quei soldi presero altre direzioni. Sempre secondo le indagini, poi, Andromeda vendette, poi, alla Lombardia Film Commission il capannone per il doppio, 800mila euro. Un'operazione, scrive il gip, in cui i commercialisti hanno dimostrato "rara abilità". L'hanno condotta "in modo occulto, ossia mantenendo la maggior parte dei membri del sodalizio in posizione 'riparata' ed esponendosi all'esterno attraverso uno solo fra loro (Barbarossa Fabio)". Di Rubba, ex presidente di LFC, "dopo avere personalmente governato, in qualità di presidente della fondazione, la fase 'preliminare'" si è spogliato "della carica, sì da risultare, al tempo del trasferimento immobiliare, privo di ruoli all'interno della fondazione". Manzoni, "braccio destro del Di Rubba, destinato a divenire, al termine dell'operazione, beneficiario immediato di una parte della somma" è sempre "rimasto privo di qualunque ruolo che potesse ricondurlo alla vicenda". "Quando all'inizio abbiamo fatto tutti i conti, nessuno ci perdeva. Quindi la proprietaria (da intendersi Dubini Marianna) prendeva la sua parte; quello lì (da intendersi Sostegni) prendeva la sua parte; io (da intendersi Scillieri, tramite Barbarossa) prendevo la mia parte e voi (da intendersi Di Rubba e Manzoni) prendevate... E' andata storta ad un certo punto". Così si esprimeva Michele Scillieri, ai domiciliari nell'ambito dell'inchiesta su Lombardia Film Commission, in un'intercettazione inserita nell'ordinanza del gip, Giulio Fanales, che ha portato agli arresti domiciliari quattro persone: oltre a Scillieri, Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Fabio Barbarossa, indagati a vario titolo per peculato, turbata libertà nella scelta del contraente e sottrazione fraudolenta di pagamento delle imposte. Di Rubba e Scillieri, ai legge in un passaggio dell'ordinanza, "dopo avere preso atto della conclusione infelice dell'affare relativo alla fondazione e ai terreni (da intendersi il complesso immobiliare), concordavano circa l'inutilità del rancore e del nervosismo ancora mostrati da Manzoni, intendendo entrambi incontrarlo per superare le difficoltà del momento nei loro rapporti interpersonali; concordavano, altresì, in merito all'infondatezza ed alla pretestuosità delle rivendicazioni economiche attualmente avanzate da Sostegni, incapace di comprendere, per un suo limite caratteriale,  come un parziale sacrificio riferito alla vicenda in questione sarebbe stato ampiamente ripagato dai guadagni che sarebbero in seguito provenuti da altri affari simili". Quello intorno all'immobile di Cormano è un "accordo collusivo, siglato fin dall'origine dai tre indagati Alberto Di Rubba, Michele Scillieri e Andrea Manzoni, volto a minare dalla fondamenta il procedimento diretto a stabilire il contenuto del bando". È uno dei passaggi dell'ordinanza di custodia cautelare di 60 pagine, firmata dal gip Giulio Fanales, che ieri sera ha mandato ai domiciliari i tre commercialisti leghisti, accusati di peculato, turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Un accordo collusivo, per il gip, che si intende "provato". Finalizzato a usare la scelta della nuova sede della LFC come pretesto per drenare risorse pubbliche.

La difesa di Manzoni. Citata nell'atto anche la ricostruzione di Andrea Manzoni, che la settimana scorsa ha cercato di difendersi di fronte al procuratore Eugenio Fusco e al pm Stefano Civardi. Per il gip Fanales, "Il resoconto proveniente da Manzoni non viene ritenuto attendibile per plurime ragioni". L'indagato "pur dilungandosi lungamente in merito a circostanze marginali, ha omesso ogni riferimento ai trasferimenti di denaro dai conti della S.D.C. al suo conto personale e a quello dello studio C.L.D., da lui amministrata, nonché al bonifico disposto dallo Studio CLD srl a vantaggio della Studio Dea Consulting srl, partecipata da lui e amministrata da Di Rubba". Per il magistrato quindi il tentativo difensivo di Manzoni non ha minato la ricostruzione emersa dalle indagini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano sul "drenaggio di risorse pubbliche" per 800 mila euro a enti e società riconducibili ai tre commercialisti leghisti. 

Gli incontri in via Bellerio. Nel suo interrogatorio il revisore contabile della Lega alla Camera, Andrea Manzoni, aveva spiegato "di aver appreso da Di Rubba, in occasione di alcune visite presso la sede della Lega in Milano di via Bellerio del finanziamento erogato dalla Regione in favore" della Lombardia Film Commission "finalizzato all'acquisto di un immobile". Anche il prestanome dei commercialisti, Luca Sostegni, ricorda come tra il 2016 e il 2017, era prevista una "riunione tra tutti i sodali" sull'affare dell'operazione di acquisto dell'immobile. Un incontro che saltò perché i tre professionisti leghisti decisero di incontrarsi in "un luogo meno rischioso perché più appartato",  spostandosi così da via Bellerio trasferirono in "una tavola calda nelle vicinanze". Nel corso dei suoi interrogatori, Sostegni ha ricordato di essere andato "di fronte alla sede della Lega di via Bellerio, luogo inizialmente fissato per l'incontro" e vide "uscire dall'edificio lo Scillieri, in compagnia di Manzoni e Di Rubba". Scillieri lo informò "della preferenza, espressa da Di Rubba e Manzoni, per un luogo meno rischioso perché più appartato". 

Le intercettazioni. "Ne faremo altre mille... la prossima volta andrà bene, invece di 50 ne prendi 70...". È il passaggio di un'intercettazione dello scorso 19 maggio, contenuta nel documento. Scillieri parla con Di Rubba e i due, annota il gip, "concordano circa la necessità di superare il malcontento serpeggiante fra i sodali in conseguenza dei guadagni rilevatisi minori del previsto".

L'evasione fiscale. "La Paloschi è una società chiusa e non volevano dei soldi alla Paloschi per la paura che Equitalia prendesse i soldi". A parlare è Luca Sostegni, il prestanome del commercialista Michele Scillieri, fermato a luglio prima che fuggisse in Brasile. L'uomo spiega in una intercettazione come i tre commercialisti non abbiano versato alla società che ha venduto l'immobile di Cormano (Paloschi srl) i 400 mila euro pattuiti, per evitare di versare tasse al fisco. Parte del denaro, 301 mila euro, è poi stato girato con diciannove assegni da Sostegni alla fiduciaria Fidirev, e poi scomparsi in Svizzera.

Mario Ajello per ''Il Messaggero'' l'11 settembre 2020. Marcia di avvicinamento al mistero dei 49 milioni della Lega. L' arresto dei tre commercialisti è infatti un colpo al cuore del sistema finanziario del Carroccio e del legame profondo tra la leadership del patito e la Regione Lombardia che è la fortezza, sempre più sbracciata, del salvinismo. Alberto di Rubba e Andrea Manzoni sono nomi pesanti nell' architettura finanziaria dei lumbard a livello nazionale. Di Rubba - e i social naturalmente ironizzano sul cognome e sul nomen omen anche se c' è una b di più - è infatti amministratore al Senato del gruppo del Carroccio. Il secondo invece - il Manzoni - è revisore del partito alla Camera. Milano degli scandali arriva nella Capitale ed è per questo che ieri sera, appena si è saputa la notizia degli arresti, nel centrodestra ma soprattutto nel centrosinistra si è parlato di un «terremoto». Con epicentro Padania ma con scosse telluriche a vastissimo raggio. Tutti con gli occhi puntati sui nomi dei due commercialisti perché entrambi erano entrati pesantemente anche nell' inchiesta sulla scomparsa dei 49 milioni di fondi pubblici che la Lega avrebbe dovuto restituire allo Stato. E che ancora non si trovano. Ma l' arresto dei due commercialisti a Milano - e in più c' è Arturo Maria Scillieri, loro collega nel cui studio è stato fondato e domiciliato il movimento Lega per Salvini premier che è proprio quello creato apposta per smarcarsi dalle passate gestioni finanziarie dei tempi di Bossi - puó diventare una carta giocabilissima dagli inquirenti di Genova. Quelli che si occupano del tesoretto evaporato dei 49 milioni. Alla Procura del capoluogo ligure ci si può leccare i baffi. Nel senso che il loro sforzo da Follow the money - così sarebbe da intitolare un giallo e questo proprio un giallo è - può avvalersi di qualche aiuto in più. Parleranno i commercialisti finiti ai domiciliari? Diventeranno il fattore umano di una indagine - su cui fa il tifo tutto il fronte avverso a Salvini, mescolando come al solito politica e giustizia - che si è affidata finora alle macchine per fare passi avanti. La Procura di Genova ha messo infatti in campo un super computer per trovare i leggendari 49 milioni di euro che la Lega è accusata di essersi intascata con i rimborsi elettorali. Si tratta di un software costato mezzo milione di euro che incrocia dati e conti e non è la prima volta che viene utilizzato. È stato parecchio utile nel processare i 60terabyte di dati che il Primo Gruppo della Guardia di Finanza aveva raccolto nell' ambito dell' inchiesta sul crollo del Ponte Morandi. Ma adesso, arrivano Di Rubba e gli altri e la luce sui soldi della Lega può provenire da due fonti: sia la macchina che le persone. Per la Lega è uno choc. E la storia sembra avere un nuovo inizio.

 Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera il 13 settembre 2020. Legato a doppio filo a Di Rubba e Manzoni, Francesco Barachetti solo apparentemente riveste un ruolo di secondo piano nell' inchiesta sulla compravendita della sede della Fondazione Lombardia film commission che ha portato agli arresti domiciliari i due professionisti molto vicini alla Lega. Barachetti è accusato di concorso in peculato, come gli altri due e come Michele Scillieri, il terzo commercialista arrestato. Da giovedì la Finanza sta perquisendo la sede della Barachetti service a Casnigo (Bergamo) mentre spunta in Svizzera una fiduciaria panamense che ha gestito parte degli 800 mila euro sborsati da Lfc per acquistare il capannone di Cormano. La ristrutturazione dell' immobile, costata intorno ai 250 mila euro all' ente pubblico, è solo uno degli affari che la Barachetti service con sede nel Bergamasco ha realizzato grazie all' appoggio di Di Rubba, direttore amministrativo del Carroccio in Senato, e di Manzoni, revisore dei conti del partito alla Camera. «Negli ultimi anni l' impresa si è annoverata tra gli abituali fornitori» della «Lega nonché delle persone fisiche e giuridiche ad essa collegate», scrivono i finanzieri in un' informativa agli atti dell' inchiesta dei pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi. Lo confermano le intercettazioni che registrano un' assidua presenza dell' imprenditore bergamasco nella sede di via Bellerio a Milano. Ha anche avuto un rapporto commerciale diretto con Roberto Calderoli, vice presidente del Senato. «Ti chiederà un frigo, due o tre accessori, elettrodomestici (...), attiviamoci», ordina Barachetti a fine 2019 alla sua segretaria. Fornitura per la quale sono state emesse tre regolari fatture «pari a 83 mila euro», annota la Gdf. Il legame tra Barachetti e Carroccio e la «fidelizzazione» con Manzoni si rafforzano durante la pandemia quando il professionista invita l' imprenditore ad investire nel «bel business» delle sanificazioni, piuttosto diverso dai lavori edili che è solito fare. Manzoni si prodiga per fargli ottenere dal partito la sanificazione di via Bellerio dicendogli di essersi rivolto a Giulio Centemero, il tesoriere della Lega al quale è strettamente legato: «Gli faccio, Giulio guarda che Barachetti ha tutti i protocolli lì per la sanificazione (...) anche l' Ats di Milano suggerisce un' impresa di pulizie (...) Giulio caro, noi qua in Lega viene una vecchia a pulire che non è capace quasi neanche di svuotare i cestini». Per le Fiamme Gialle, emergono le «peculiari ingerenze» di Di Rubba e Manzoni negli affari dell' impresa che è, chiosano i militari, è «formalmente riconducibile» a Francesco Barachetti. L'affare da 800 mila euro, andati in gran parte nelle tasche dei tre commercialisti, secondo i pm, sarebbe stato organizzato principalmente da Di Rubba nella veste di presidente (fino al 2018) di Lombardia film commission. Quando la bufera è già scoppiata da tempo, grazie alla trasmissione Report e al settimanale L' Espresso, il 13 febbraio scorso una funzionaria telefona a Di Rubba dopo che alcuni consiglieri del Comune di Milano, socio della Fondazione, hanno chiesto gli atti della vicenda. La donna rivela che nel cda era stata «ventilata l' ipotesi di informare i pm su alcuni fatti ritenuti poco chiari», come che Scillieri, il quale in quel momento è consulente finanziario dell' ente, era anche amministratore di fatto della Andromeda srl, la società che aveva venduto l' immobile. Un enorme conflitto di interessi che lo ha portato ai domiciliari. Le indagini puntano anche oltre confine, alla fiduciaria panamense alla quale è arrivata una fetta dei 250 mila euro che, per i pm, sarebbero transitata a Milano attraverso un' altra fiduciaria, la Fidirev. Emerge anche una cena a Roma tra più persone che avrebbe visto la partecipazione a fine maggio di Di Rubba e, secondo quanto riferito per telefono alla moglie da uno degli intercettati, anche di Matteo Salvini. I pm Fusco e Civardi non hanno ulteriori conferme, neppure sulla presenza di Calderoli (che smentisce) e di altri personaggi. In un' informativa, si parla di Manzoni e altri preoccupati per alcuni articoli e del licenziamento del direttore della filiale Ubi di Seriate (Bergamo) dove Di Rubba e Manzoni avevano aperto conti ed avevano fatto operazioni che il funzionario non aveva segnalato come sospette. Allo stesso direttore, interrogato come teste per il filone milanese sui 49 milioni della lega spariti, i due avevano chiesto di aprire anche una serie di conti intestati alle «associazioni regionali» del Carroccio.

Armando Di Landro per il Corriere della Sera il 13 settembre 2020. Già prima che la Procura di Milano svelasse l' inchiesta sulla compravendita del capannone di Cormano, i due bergamaschi Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, avevano addosso gli occhi della Guardia di finanza. Era l' estate del 2018 e gli investigatori di Genova avevano iniziato a scavare su una serie di società con capitale schermato da una fiduciaria, create a partire dal 2014 nello studio di via Maj 24, una decina di minuti a piedi dal centro di Bergamo. Entrambi studenti di Economia all' Università di Bergamo, come Giulio Centemero, Manzoni e Di Rubba avevano ricevuto proprio da lui, tesoriere della Lega dopo il congresso vinto da Salvini a dicembre del 2013, l' incarico di gestire i conti del partito. C' era già un faro puntato su di loro, quindi: un' attenzione che rende forse ancora più inspiegabile ciò che è accaduto nei mesi successivi. Nell' ottobre del 2018 viene fondata la «Manzoni e Di Rubba società tra professionisti», la Mdr Stp. C' è un salto di qualità immobiliare: i due soci lasciano lo studio nel condominio di via Maj e entrano al piano terra di un palazzo signorile in via XX Settembre 70, nel cuore di Bergamo. La sigla, Mdr, appare su ogni finestra. Manzoni è socio della nuova creatura al 48%, stessa percentuale di Di Rubba. Ma tra gli azionisti entrano anche il tesoriere della Lega, Centemero, al 2%, e un altro parlamentare, Stefano Borghesi, senatore bresciano di 43 anni, pure lui al 2%. E soprattutto: la società è titolare di un conto corrente Ubi Banca nella filiale di Seriate, dove a partire da giugno 2019, arrivano una serie di bonifici, segnalati a Bankitalia dal servizio antiriciclaggio di Ubi. Con 14 diverse operazioni 316 mila euro dalla Lega per Salvini Premier, dal 6 giugno 2019 al 7 maggio 2020. Altri 13 bonifici vengono invece disposti da un conto ancora intestato a Lega Nord, per 123 mila e 327 euro, 12 da Radio Padania per 67.198 euro. In tutto 506 mila euro in 39 operazioni. Con soldi che poi partono dallo stesso conto per finire invece alla Partecipazioni srl, altra creatura di Manzoni e Di Rubba. Ubi Banca segnala l' anomalia della «ricezione ed effettuazione di bonifici che hanno come controparti soggetti appartenenti al mondo politico», i due colleghi, interpellati, spiegano che l' attività della Mdr riguarda la gestione contabile e fiscale della Lega, che prima era affidata a un' altra loro società, la Studio Dea Consulting. Sta di fatto che le segnalazioni di operazioni sospette da parte di Ubi, finiscono in una nota di Bankitalia indirizzata alla Guardia di finanza. E i due commercialisti risultano indagati anche per riciclaggio. Il giro di denaro è strano, la Lega e Radio Padania versano di fatto a una società partecipata dal loro tesoriere. E i fronti aperti sono anche altri, con la Procura di Genova ancora al lavoro su quelle società con capitale schermato. La netta impressione è che il caso di Cormano sia solo una parte del mistero che passa dal centro di Bergamo.

Cesare Zapperi per il Corriere della Sera il 13 settembre 2020. «L' ultima volta che mi sono seduto a tavola con Matteo Salvini risale ad almeno due anni fa. La cena di cui hanno parlato alcuni giornali non è mai esistita». Roberto Calderoli ricorre ad una terminologia ormai di moda («è una fake news») per smentire la ricostruzione che lo avrebbe visto partecipare, in una serata tra il 24 e il 27 maggio scorso a Roma, ad una cena con il segretario della Lega Matteo Salvini, il collega senatore bresciano Stefano Borghesi e con il commercialista Andrea Manzoni, revisore dei conti del gruppo leghista della Camera e professionista di fiducia del leader del Carroccio.

Senatore Calderoli, ma lei che ci faceva a quella cena romana?

«Sono sicuro che non è mai esistita».

Perché? Come fa ad esserne certo?

«L' ultima volta che ho pranzato o cenato con Salvini risale a non meno di due anni fa».

 Sicuro? E con gli altri soggetti indicati nell' indagine della procura di Milano?

«Con gli altri due non ho mai mangiato nemmeno una pizza».

Uno è un collega senatore, l' altro un consulente della Lega. Perché escludere che li abbia potuti incontrare?

«Purtroppo, c' è una disavventura personale a ricordarmelo. A maggio, infatti, mi sono rotto il perone e il legamento. Mi muovevo con grande fatica aiutandomi con le stampelle. Figuriamoci se potevo uscire a cena in quelle condizioni. A parte il fatto che non ho proprio l' abitudine di pranzare fuori casa. Non mi piace proprio».

Ma è andato a dare un' occhiata alla sua agenda? Magari non se lo ricorda.

«Mi creda, non ero proprio nelle condizioni fisiche per uscire. L' agenda è nella mia testa e nel mio corpo che ne ha già viste tante in questi anni».

E allora come si spiega che esca una ricostruzione così dettagliata?

«Come faccio a saperlo se io non c' ero?».

Si dice che un «trojan» ha registrato tutto.

«Eh no, la procura di Milano ha sentito il dovere, e non mi pare lo faccia tanto spesso, di intervenire con una nota ufficiale che ha precisato che non è stato utilizzato un trojan».

Però, il comunicato dei magistrati milanesi dice che «nel corso di quell' incontro, non era attivo alcun captatore informatico». Non pare smentire l' esistenza di quell' incontro.

«Di mio ribadisco che non poteva essere registrata la voce di chi non c' era perché se ne stava tranquillo a casa sua a curarsi i suoi malanni».

Senta Calderoli, lei è bergamasco come i due commercialisti vicini alla Lega finiti agli arresti domiciliari. Li conosce di sicuro.

«Certo e l' opinione che mi sono fatto è che sono ottimi professionisti e grandi lavoratori. Mi sentirei di dire che sono persone perbene».

Sicuro?

«Se gli abbiamo affidato incarichi così delicati è perché hanno dato prova di essere capaci e affidabili».

Ma di questa inchiesta, del giro di denaro di cui si parla e che getta una luce sinistra su figure molto vicine al leader Salvini che idea si è fatto?

«In questi casi, anche se come sempre si leva un gran polverone, specie se ci sono in vista le elezioni, per me la regola principe è lasciare lavorare la magistratura. Ci vuole pazienza, l' esperienza lo insegna. Ma alla fine la verità viene a galla».

Questa verità in cosa consiste? Non c' è proprio nulla di illegale o magari qualcosa è sfuggito di mano?

«Per quello che ne so e per quello che ho letto finora mi pare non ci sia proprio nulla.

Mi passi la battuta: se gli elementi in mano agli inquirenti sono consistenti come la cena a cui non ho mai partecipato e che per me semplicemente non è mai esistita, possiamo dormire tranquilli».

I fondi della Lega, parla l'ex assessora: "Di Rubba uomo di fiducia di Salvini". Pubblicato lunedì, 14 settembre 2020 su La Repubblica.it da Sandro DeRiccardis. "Il nome di Di Rubba circolava come quello che doveva mettere a posto i conti della Lega, e non solo di Film Commission. Se ne parlava come uomo della svolta, per competenza e serietà. Era uomo di stretta fiducia di Salvini, faceva parte del suo entourage e gli incarichi che poi ha ricevuto all'interno del partito costituivano dimostrazione di queste voci". Lo ha messo a verbale, davanti ai pm di Milano, l'ex assessora lombarda alla Cultura Cristina Cappellini, parlando di Alberto Di Rubba, uno dei tre commercialisti di fiducia del Carroccio arrestati giovedì scorso. "L'indicazione della candidatura di Di Rubba - ha aggiunto - come persona giusta al posto giusto (alla presidenza di Lombardia Film Commission, ndr) è derivata da Centemero", tesoriere e deputato della Lega. "Di Rubba veniva dall'entourage di Salvini", ha aggiunto l'ex assessora che è stata sentita a fine luglio scorso dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco nell'inchiesta milanese di cui è titolare anche il pm Stefano Civardi. Il verbale è stato depositato assieme a migliaia di atti da cui risultano, tra l'altro, una serie di movimentazioni sospette sui conti di società riconducibili a Di Rubba, direttore amministrativo della Lega al Senato, e ad Andrea Manzoni, revisore contabile per il Carroccio alla Camera. I due saranno interrogati domani dal gip Giulio Fanales, così come gli altri due arrestati, il commercialista Michele Scillieri e suo cognato Fabio Barbarossa. Intanto oggi proseguono le attività del Nucleo di polizia economico finanziaria della guardia di finanza nella sede della Barachetti service, di proprietà dell'imprenditore Francesco Barachetti indagato per peculato. Società che, stando agli atti, avrebbe ricevuto negli anni circa 2 milioni di euro dalla Lega. Le perquisizioni nell'azienda al centro di un nuovo filone di indagini, anche su presunti 'fondi nerì riferibili al partito, sono scattate giovedì scorso e oggi la finanza prosegue con le attività già iniziate. Allo stesso modo, vanno avanti le attività dei finanzieri anche nello studio di Scillieri, il quale, secondo il prestanome Luca Sostegni che sta collaborando coi pm, era la "mente" di diverse operazioni.

Gianluca Paolucci e Monica Serra per la Stampa il 14 settembre 2020. Flussi di denaro in entrata da persone fisiche e società «ideologicamente legate al partito» ma «per importi non adeguati al profilo economico delle stesse». Ai quali corrispondono poi in uscita «pagamenti, spesso a vista, di fatture a cifra tonda a società fornitrici della Lega», come le società legate ai commercialisti bergamaschi Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba e quelle che fanno riferimento a un altro dei protagonisti dell' inchiesta milanese: Francesco Barachetti "l' elettricista di fiducia" della Lega, amico e vicino di casa di Di Rubba e anche lui indagato, che ha lavorato anche per alcuni leghisti di primo piano. Il tutto con i volumi dei soldi che girano nel conto della Lega per Salvini Premier, aperto alla fine del 2017 e gestito dal tesoriere Giulio Centemero, che raddoppiano in meno di un anno. L' analisi svolta dagli uomini dell' Uif di Bankitalia sulla base delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos) arrivate dall' istituto bancario segnala una serie di anomalie. Le somme di denaro, intanto: nel conto della Lega per Salvini (sede nell' ufficio di Scillieri, il terzo commercialista finito ai domiciliari, poi spostata nel novembre 2018 in via Bellerio) entrano nel 2018, con 223 operazioni, 2,444 milioni di euro ed escono 1,163 milioni. Nel 2019, tra l' 1 gennaio e l' 8 settembre, con 3082 operazioni arrivano 5,88 milioni e ne escono quasi altrettanti: 5,11. Tra quelli in entrata, sottolinea un' informativa del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Milano allegata agli atti dell' inchiesta sulla compravendita del capannone per la Lombardia film commission, ci sono ad esempio i contributi dei parlamentari. Come quelli di Gianni Tonelli, deputato leghista e fino al 2018 segretario generale del Sap, il Sindacato autonomo di Polizia. Noto alle cronache per gli insulti alle famiglie di Cucchi e Aldrovandi, proprio Salvini lo sceglie come capolista a Bologna. In sette mesi invia alle casse del partito 21 mila euro, poi ancora con unico bonifico altri 20 mila. Importo significativo, sottolinea l' annotazione, «se rapportato al suo reddito complessivo del 2017 (l' ultimo prima di entrare in parlamento, ndr) di 36.920 euro». O ancora i 100 mila euro, il limite massimo delle "erogazioni liberali" ai partiti, arrivati nel 2019 dalla Coseco srl, che pure nel 2018 aveva registrato un fatturato di appena 20 mila euro. La Coseco fa capo a Luigi Persegato, cognato dell' ex governatore del Veneto Giancarlo Galan e con lui coinvolto nell' indagine sui veleni nascosti sotto l' asfalto della Valdastico. In uscita, i soldi prendono essenzialmente due strade: la prima è quella delle società della galassia leghista, come la Pontida Fin e Radio Padania. La seconda è quella dei commercialisti e fornitori vicini al partito. Così, alla Mdr Stp di Manzoni e di Rubba (che ha tra i soci Centemero) arrivano tra gennaio e settembre 2019 oltre 216 mila euro. Alla Non Solo Auto srl, amministrata da Luca Di Rubba, cugino di Alberto, e partecipata dalla Studio Dea Consulting di Manzoni e Di Rubba, ne arrivano quasi 198 mila tra ottobre 2018 e settembre 2019. Oltre 1,12 milioni vanno invece alla Cpz spa di Marzio Carrara, che stampa parte del materiale anche elettorale del partito. E che a sua volta è anche cliente della Studio Dea di Manzoni e Di Rubba, ai quali fa avere 34.200 euro nel febbraio 2019. Altri 555 mila euro vanno dal conto del partito alla Barachetti Service srl di Francesco Barachetti. Ma non basta, perché alla stessa società arrivano anche 677 mila euro da Pontida Fin e 113 mila da Radio Padania. Ancora dalla Pontida Fin, 185 mila euro vanno alla Bmg srl, dove sono soci Barachetti e la moglie.

Commercialisti della Lega arrestati. Crosetto (FdI): “Ho letto le carte, da inorridire”. Il Corriere del Giorno il 12 Settembre 2020. Crosetto mostra di non avere molti dubbi sul tempismo sospetto delle toghe: “La magistratura ha iniziato la campagna elettorale contro la Lega, arrestando tre commercialisti – premette -. Chiunque ami il diritto, leggendo le carte, non può che inorridire. Ma a nessuno interessa leggere le carte. Tanto più se riguardano un partito che non voto. Ed è un errore”. La leader di Fratelli d’Italia avverte la giornalista: “Incito alla violenza contro gli extracomunitari? Adesso la trascino in tribunale”. Giustizia ad orologeria? Sì, parola di Guido Crosetto, il gigante buono fondatore di , Fratelli d’Italia, stimato e rispettato da tutta la politica italiana, che accusa: “La magistratura apre la campagna elettorale ! “. Anche Il leader della Lega Matteo Salvini è intervenuto, venerdì mattina, commentando l’arresto di tre commercialisti vicini al suo partito per il caso della Film Commission in Lombardia. “Conosco due di quelle persone e mi fido, sono persone corrette. Io credo che si risolverà in nulla”, ha detto, aggiungendo a Radio Anch’io su Rai Radio1. “Siamo tranquillissimi, da anni cercano soldi in Svizzera, Lussemburgo, Liechtenstein e non trovano mai nulla“. Mentre la stampa “sinistrorsa” titola a caratteri cubitali sull’arresto di tre commercialisti vicini alla Lega di Matteo Salvini, finiti in manette guarda caso… proprio a pochi giorni dal voto alle regionali, su questo caso che si spende, su Twitter, Crosetto che mostra di non avere molti dubbi sul tempismo sospetto delle toghe: “La magistratura ha iniziato la campagna elettorale contro la Lega, arrestando tre commercialisti – premette -. Chiunque ami il diritto, leggendo le carte, non può che inorridire. Ma a nessuno interessa leggere le carte. Tanto più se riguardano un partito che non voto. Ed è un errore“, conclude Crosetto. Lezioni di garantismo e pesantissimi dubbi sulla nostra magistratura. Come non credergli ? Palamara, Lotti, Ferri, Hotel Champagne … questi nomi non vi dicono niente? Nel frattempo Giorgia Meloni annuncia: “Ecco perché porto la Jebreal in tribunale“. Rula Jebreal in un tweet choc aveva commentato duramente l’omicidio di Colleferro puntando il dito contro i leader del centrodestra che, a suo giudizio, continuano a fomentare la violenza razzista: “‘In fondo hanno solo ucciso un extracomunitario’. Ecco cosa accade quando i due leader di destra seminano odio e incitano alla violenza contro gli emigrati”. La giornalista con le sue parole sembra riferirsi proprio a Giorgia Meloni e a Matteo Salvini (i quali non sono mai stati nominati, ma sottintensi a detta di molti): entrambi avrebbero la responsabilità morale di quanto accaduto? La replica della Meloni non si è fatta attendere: nel corso dell’intervista rilasciata al programma Dritto e Rovescio su Rete 4, la leader di Fratelli d’Italia ha annunciato l’intenzione di querelare la Jebreal, la giornalista palestinese con cittadinanza israeliana e italiana per le sue gravissime frasi scritte sui social. Appare evidente come molti esponenti della sinistra politica e non, stiano usando la morte del 20enne per fare campagna elettorale, con tanto di cinismo e freddezza: “Credo che l’odio che si sta sputando contro di noi cominci a essere pericoloso, come quello che abbiamo visto accadere ieri a Salvini, potrebbe accadere a ciascuno di noi”. Le tesi della Jebreal secondo cui la Meloni e Salvini siano i mandanti morali della vicenda di Colleferro e incitino alla violenza nei confronti degli immigrati sono di una gravità inaudita. “Adesso pretendo che Rula Jebreal, se è giornalista, tiri fuori una dichiarazione nella quale io incito alla violenza nei confronti degli extracomunitari, la trascino in tribunale a darmi questa risposta”, ha tuonato la leader di Fratelli d’ Italia.

L'inchiesta sui fondi della Lega? Nata senza rispettare le regole. L'anomalia dei pm: accertamenti avviati senza reati né indagati. Ma le circolari del ministero li vietano. Luca Fazzo, Giovedì 17/09/2020 su Il Giornale.  Prima hanno deciso di indagare sulla Lega, e poi sono andati a cercare se saltava fuori qualche reato: esattamente il contrario di quello che prevede il codice di procedura penale. E la singolare anomalia dell'inchiesta della Procura di Milano sulla Lombardia Film Commission va a sbattere anche contro le regole precise che il ministero della Giustizia aveva diramato a due riprese - da ultimo, nel 2006 - per richiamare all'ordine i pm italiani: se in un fascicolo non ci sono reati né indagati, allora non si possono fare indagini. Esattamente il contrario di quanto accaduto per l'inchiesta che ha poi portato all'arresto di Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Michele Scillieri, i tre commercialisti vicini alla Lega finiti agli arresti domiciliari la settimana scorsa con le accuse di peculato e turbativa d'asta. Il documento chiave, per valutare l'anomalia del comportamento dei pm nell'inchiesta sulla Lega, è la circolare diramata nel 2011 dall'allora capo degli affari penali del ministero, Luigi Frunzio. Affronta il delicato tema dei tre registri in cui vengono divisi i fascicoli dei pm: il modello 44, quando c'è un reato ma non ci sono indagati; il modello 21, quando ci sono anche dei sospetti. E infine il modello 45, «atti non costituenti reato», cui sono destinati - dice la circolare - «atti e informative del tutto privi di rilevanza penale (esposti in materia civile o amministrativa, privi di senso, ovvero di contenuto abnorme o assurdo; atti riguardanti eventi accidentali; eccetera)». In quel registro, ribadisce la circolare, devono approdare solo «le notizie prive di qualsiasi rilevanza penale e non meritevoli di alcun approfondimento investigativo». Chiaro, no? Ed è quanto accade il 12 febbraio 2018, quando al procuratore Francesco Greco arriva l'esposto di un cittadino milanese che lamenta che nel suo palazzo abbia messo la sua sede la Lega per Salvini, e - anche a nome degli altri condomini - esprime preoccupazione per la sicurezza e la tranquillità dello stabile. Visto che non c'è traccia di reato, Greco fa registrare la lettera a modello 45. Ma curiosamente assegna il fascicolo non a un pm qualunque ma a Eugenio Fusco, che tre mesi prima è stato nominato dal Csm procuratore aggiunto. Fusco, dice la circolare del ministero, non può indagare, non può fare nulla. Se trova indizi di reato e ritiene che servano indagini, «prima che queste vengano disposte dovrà essere fatta una nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato». Invece il 9 maggio, senza fare nessuna nuova iscrizione, Fusco incarica la Guardia di finanza di scavare sulla sede leghista di via delle Stelline. È il passaggio cruciale, perché lì le «fiamme gialle» troveranno gli uffici di Michele Scillieri e dalla analisi degli affari di Scillieri arriveranno alla Lombardia Film Commission. Ma tutte queste scoperte, costate mesi di lavoro, vengono realizzate facendo indagini che secondo la circolare ministeriale non potevano neanche iniziare. Il 26 luglio, quando finalmente viene iscritto Scillieri come indagato e il fascicolo passa a modello 21, il reato che viene ipotizzato è un reato per cui serve la querela di parte, che non è mai stata presentata. E infatti viene poi archiviato. Ma ormai la breccia nel muro della Lega è aperta.

Lombardia Film Commission, in procura nuove segnalazioni di operazioni sospette con la Lega. Di Rubba interrogato per due ore. Ha respinto tutte le accuse sul drenaggio di denaro pubblico. Michelangelo Bonessa il 16 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Alberto Di Rubba respinge ogni accusa mentre si moltiplicano le segnalazioni in Procura di operazioni sospette legate alla Lega. Ieri era il giorno degli interrogatori: il contabile al centro dell’inchiesta sulla presunta vendita a prezzo gonfiato di un immobile destinato a diventare la sede della Lombardia Film Commission nega gli addebiti. L’accusa sostiene che dietro questo acquisto sia nascosto un sistema per drenare soldi pubblici, 800mila euro. Tecnicamente si parla di peculato e turbativa d’asta. Però nel giorno degli interrogatori il professionista “ha chiarito la sua posizione nei termini di estraneità agli illeciti che gli sono stati contestati” come ha spiegato il suo avvocato Piermaria Corso. Sottolineando durante il colloquio con il giudice per le indagini preliminari Giulio Fanales come i soldi da lui incassati siano stati sempre leciti: per esempio i 178 mila euro versati dalla società Andromeda, riconducibile a Michele Scillieri, in favore della Sdc, riferibile a lui stesso e anche ad Andrea Manzoni, sarebbero la commissione per una vendita di un immobile di proprietà di una famiglia bergamasca.

TUTTE LE ANOMALIE. L’interrogatorio per Di Rubba è durato circa due ore e mezza, ma nel frattempo sono emersi altri particolari anche sulle risposte fornite da Marco Ghilardi, ex direttore della filiale Ubi di Seriate da dove sarebbero transitati fondi legati agli arrestati e alla Lega, ai pm milanesi. L’ex dirigente, sentito come testimone, ha raccontato le “anomalie” delle movimentazioni su quei conti: “Sono operazioni prive di valide ragioni economiche che, aldilà degli importi, non mi è capitato di vedere in tutta la mia carriera. E ho lavorato in banca quasi trent’anni”. Il teste nel verbale del 22 luglio ha parlato anche dei “giri di soldi tramite ‘Più voci'”, l’associazione di cui era legale rappresentante il tesoriere della Lega Giulio Centemero, e del fatto che “Di Rubba mi aveva chiesto di aprire il conto di Radio Padania e delle associazioni regionali della Lega”. 

GHILARDI. E su Ghilardi sono state rese pubbliche anche alcune intercettazioni: “La banca non ha perso un centesimo, io non ho preso un soldo, l’ho fatto solo per amicizia e in buona fede” diceva il 21 maggio scorso mentre parla con il contabile della Lega Alberto Di Rubba. L’ex dirigente prova a esporre le sue giustificazioni per le mancate segnalazioni di una serie di operazioni sospette sui conti di società di Di Rubba e dell’altro revisore del Carroccio Andrea Manzoni. Mancate segnalazioni per le quali in quel periodo il bancario doveva difendersi da contestazioni disciplinari che porteranno poi al suo licenziamento.

BANKITALIA. Dalle banche potrebbero arrivare altri dispiaceri per i leghisti perché stanno arrivando in questi giorni in Procura diverse segnalazioni dal mondo bancario di operazioni sospette da parte di imprenditori con controparte o la Lega o società riconducibili ai contabili finiti ai domiciliari giovedì scorso. Alcune sarebbero arrivate ai militari attraverso l’Uif di Bankitalia ad agosto, altre dal mondo bancario direttamente ai pm. Ghilardi a verbale aveva parlato, tra l’altro, dei “movimenti registrati sui conti” di due società dei contabili del Carroccio, la Sdc e lo Studio Cld, e di “numerosi accrediti da Lega Nord sempre con la medesima causale ‘saldo fattura'”. Anche “il conto personale” di Manzoni “beneficiava” di questi accrediti con la stessa causale. I due gli dicevano che erano per “attività di consulenza” ma “mi sembrava strano poiché nello stesso periodo capitava che fatturassero al partito con più ragioni sociali”. Dopo che Ghilardi è stato licenziato dall’istituto lo scorso maggio, i due contabili hanno chiuso i conti e li hanno spostati. Al centro delle indagini per aver ricevuto soldi dalla Lega c’è l’imprenditore Francesco Barachetti e gli inquirenti stanno cercando di capire se ci siano altre ‘figure’ dello stesso tipo nell’ipotesi di una raccolta di ‘fondi neri’ e di passaggi di denaro da società a società. 

SALVINI MINIMIZZA. Nel frattempo dai ranghi leghisti si tende a minimizzare la questione delle indagini. Matteo Salvini ha tagliato corto: “È da anni che cercano i soldi in Russia, Svizzera, Lussemburgo, leggevo anche a Panama e Cipro, li aspetto in Bolivia e Nuova Zelanda e poi è Risiko. Rispetto il lavoro dei giudici ma sono tranquillo, non mi preoccupano le inchieste”. Anche il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana chiude rapidamente la questione: “Leggere di indagini fondate sul nulla, sulle gole profonde, mi lascia abbastanza indifferente. Quando avrò letto gli atti farò valutazioni, ma non sulle chiacchiere”. “È molto curioso che una persona debba fare valutazioni inchieste senza leggere atti giudiziari. Atti che dovrebbe ero essere coperti da segreto istruttorio” ha risposto Fontana a margine di una conferenza stampa in Regione. “Sta lavorando la magistratura, valutiamo quali sono le risultanze che emergerannoe poi prenderemo decisioni per adesso è talmente fumoso tutto e non mi sono ancora fatto un’idea” ha poi aggiunto il governatore, alla domanda se la Lombardia intende revocare gli incarichi nelle società partecipate della Regione ai commercialisti coinvolti.

CHIESTA LA REVOCA. Nel frattempo gli stessi professionisti arrestati hanno fatto sapere che chiederanno la revoca dei domiciliari. Lo ha spiegato l’avvocato Piermaria Corso, legale dei due, nel pomeriggio al termine dell’interrogatorio di garanzia di Manzoni, precisando che scriverà l’istanza nei prossimi giorni. Ma confidano che i magistrati riconosceranno in tempi brevi la loro estraneità ai fatti contestati.

La caccia ai soldi leghisti però non sembra che all’inizio. Le inchieste di Milano, sull’immobile comprato a Cormano, e Genova, quella sui famosi 49 milioni, si sono incrociate e difficilmente i magistrati molleranno la presa. Il giro dei commercialisti che è sotto assedio mediatico e giudiziario ha in mano le chiavi della nuova Lega salviniana, un punto essenziale per l’organizzazione del partito di maggioranza del centrodestra.

Gianluca Paolucci e Monica Serra per ''La Stampa'' il 17 settembre 2020. C'è un legame tra l'inchiesta sulla Lombardia Film Commission e quella, sempre della procura di Milano, sulla vicenda di Savoini e dei presunti fondi dalla Russia. È contenuto in un appunto della Guardia di Finanza, redatto sulla base di una serie di segnalazioni antiriclaggio (sos, segnalazione di operazioni sospette) arrivate dall'Uif di Bankitalia agli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria. Il legame passa da Francesco Barachetti, elettricista e idraulico di fiducia dei commercialisti bergamaschi, i revisori del Carroccio alla Camera e al Senato, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, ora ai domiciliari. Nell'appunto si fa riferimento ai fondi che, per il tramite dello stesso Barachetti, sarebbero arrivati a società a lui riferibili e da queste utilizzati «per regolare fatture da società "collegate" all'entità politica stessa». Nella premessa, si spiega che l'appunto riguarda quattro segnalazioni «inerenti le movimentazioni della Barachetti Service srl per movimentare fondi provenienti dalla Lega Nord ed entità collegate di soggetti legati allo stesso partito politico». Ovvero che quei fondi tornino, almeno in qualche misura, nella disponibilità di strutture della Lega stessa. L'inchiesta che segue il filone russo ha preso spunto da una serie di articoli de l'Espresso che riferivano di un incontro all'hotel Metropol di Mosca nel quale Gianluca Savoini, leghista della prima ora, presidente dell'Associazione Lombardia-Russia e uomo di riferimento di Matteo Salvini per i rapporti con Mosca, trattava una grossa fornitura di petrolio che avrebbe dovuto garantire, attraverso un sconto del 4 per cento, 65 milioni di dollari alle casse della Lega. Dopo le rivelazioni del settimanale, la procura di Milano ha aperto un fascicolo indagando Savoini e altri. Nell'appunto della Gdf visionato da La Stampa, si fa riferimento ai fondi trasferiti in Russia da Barachetti, sul conto di una società denominata Ooo Sozidanier Oblast, e serviti per acquistare un appartamento a San Pietroburgo. La provvista sarebbe arrivata dal pagamento di una serie di fatture da parte della Pontidafin. Il pagamento viene effettuato su un conto della Sberbank di Mosca, spiega la nota, «già oggetto della sos» inviata alla procura di Milano e da questa allegata al fascicolo su Savoini. È Barachetti, intercettato al telefono, a spiegare che, «attraverso il conto corrente già in essere presso Ubi banca intestato alla società Barachetti Service ha prima aperto un conto corrente dedicato Ubi multivaluta, dal quale è stato successivamente disposto un bonifico in uscita direttamente in favore del beneficiario», cioè il venditore dell'appartamento. «Un conto dedicato - spiega l'elettricista intercettato - che poi non so come si chiama Quindi ho girato da lì, dagli euro sono diventati rubli, e poi dall'Italia ha fatto direttamente il bonifico a questa azienda qua». Il conto multivaluta è stato aperto l'8 febbraio 2018. Il 29 marzo seguente «la provvista così accumulata è stata trasferita in favore della società russa Sozidanie Ooo tramite bonifico del controvalore di 44.057 euro - si legge in un'annotazione della Finanza - recante causale "purpose of payment buying property", accreditato presso Banca Sberbank di Mosca». La Barachetti Service mostra un bilancio che dal 2011 al 2018 passa da un fatturato di 282 mila euro a 4,12 milioni, con una crescita che diventa esponenziale nel 2015. Tra i suoi clienti, oltre alla Lombardia Film Commission, figurano una serie di società della galassia leghista: dal partito alla Pontidafin fino a Radio Padania che, tra 2015 e l'inizio del 2019 - si legge negli atti - hanno garantito alla Barachetti oltre 2 milioni di euro di fatturato. Il lavoro dell'«elettricista di fiducia della Lega» non si è fermato neppure durante la pandemia. A marzo, su consiglio dei commercialisti ora ai domiciliari, si è adattato alle nuove esigenze del mercato, lanciandosi nel business delle sanificazioni e potendo su un cliente d'eccellenza: il partito. Che ha affidato proprio a Barachetti anche la sanificazione della sede di via Bellerio.  Le attenzioni del procuratore aggiunto Eugenio Fusco e del pm Stefano Civardi si concentrano pure su sua moglie, la russa Tatiana Andreeva. Che è socia di maggioranza della Barachetti e, ufficialmente, anche della Bmg srl, altra azienda di famiglia. Ma dalle indagini emergono suoi interessi anche in altre società su cui è stato acceso un faro. È Infatti la Andreeva che, intercettata, spiega a un consulente finanziario che ha necessità di aprire un conto per l'altra società partecipata dai due, la Bmg. Il consulente ricorda che la Bcc locale «aveva detto assolutamente niente Lega, ti ricordi?». «Ma infatti non li vedono - replica la Andreeva - però li vedono uscire. Che vanno sulla Banco Bpm, perché loro hanno un conto Bcc della Lega!». Gli investigatori vogliono accertare chi ci sia dietro Barachetti, indagato per peculato a Milano e coinvoltonell'inchiesta della procura di Bergamo sui conti della Lega. I due contabili del Carroccio appaiono molto interessati agli affari di Barachetti. «I discorsi e gli eventi tracciati sembrano sintomatici di una sorta di immedesimazione organica di Andrea Manzoni nelle dinamiche societarie di Barachetti», si legge negli atti dell'inchiesta. E ancora: «I consigli dati da Manzoni trovano puntuale osservanza. O meglio: Manzoni decide e Barachetti esegue».

Si vota, rispunta la "pista russa" della Lega. L'inchiesta sugli immobili s'intreccia col caso Savoini. A urne quasi aperte. Luca Fazzo, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. Milano. Dovunque si guardi intorno, Matteo Salvini oggi vede un pm che gli dà la caccia. A una manciata di giorni dalle elezioni regionali, ogni volta che si parla dei guai giudiziari della Lega, l'ex ministro degli Interni ostenta tranquillità e sdrammatizza a colpi di battute. Ma in realtà il leader leghista sa che la situazione è delicata. E se dai processi siciliani per sequestro di persona, per il blocco delle navi dei migranti, Salvini è convinto di uscire a testa alta, più grave è la situazione al nord, dove tre Procura - Genova, Milano e Bergamo - stanno stringendo il cerchio sulle strutture finanziarie del Carroccio. E dove sta emergendo l'esistenza di un sottobosco di faccendieri e mediatori che in nome della Lega realizzano manovre ed affari. L'ultimo grattacapo per Salvini viene dall'incrocio, rivelato ieri dal Corriere della sera, di due inchieste condotte dalla Procura di Milano. La più recente e dinamica, quella sul capannone rifilato da tre commercialisti leghisti alla Lombardia Film Commission, ha un punto di contatto con un'altra indagine di cui invece, dopo il grande clamore iniziale si erano apparentemente perse le tracce: gli affari in terra di Russia di Gianluca Savoini, uomo di fiducia a Mosca di Salvini, con il tentativo (fallito) di lucrare su una megafornitura di prodotti petroliferi all'Italia: e una parte della cresta sarebbe stata destinata alla Lega. Il punto di contatto tra le due inchieste si chiama Francesco Barachetti, bergamasco, piccolo imprenditore con alle spalle qualche vicissitudine. Barachetti nell'indagine sulla Film Commission entra come esecutore dei lavori di ristrutturazione del capannone di Cormano, e incassa 285mila euro. A fargli avere il lavoro, sono due dei commercialisti leghisti. D'altronde Barachetti è l'artigiano di fiducia del partito, lavora anche per la sede di via Bellerio, fattura alla grande grazie al rapporto di fiducia con lo stato maggiore del partito. Un sospetto degli inquirenti, è che una parte dei soldi versati a Barachetti rientrino sottobanco nella disponibilità dei dirigenti leghisti. Anche a questo si riferisce il meno «ortodosso» tra i commercialisti arrestati, Michele Scillieri, quando in una intercettazione si sfoga, «quelli dalla Lega hanno ciucciato montagne di soldi». É lo stesso dubbio che sembra nutrire il senatore Roberto Calderoli, quando nei giorni scorsi ipotizza che qualcuno abbia «fatto la cresta» sul capannone di Cormano. Ebbene, il nome di Barachetti spunta anche sul fronte orientale. L'artigiano bergamasco ha sposato una ragazza russa, Tatiana Andreeva, che col paese d'origine ha mantenuto solidi rapporti. La Andreeva in patria ha conti correnti e società, e su questi conti approdano una parte dei soldi che il marito riceve dal partito. Con questi fondi, secondo il Corriere, viene acquistato un appartamento a San Pietroburgo. Ma anche qui gli inquirenti si fanno la stessa domanda del caso Film Commission: dietro Barachetti ci sono gli interessi della Lega? Di spunti su cui indagare, come si vede, ce ne sono parecchi, visto che - comunque la si guardi - i flussi di danaro sono tutto tranne che lineari. Ma a preoccupare Salvini sono anche i tempi delle inchieste. Anche se il leader evita accuratamente di parlare di «giustizia a orologeria» è un dato di fatto che la richiesta di arresto dei tre commercialisti, ferma da oltre due mesi, è scattata a ridosso delle elezioni. E ancora più ravvicinata al voto è la rivelazione dei rapporti tra l'elettricista Barachetti e il mondo dell'ex Urss. Non sono rivelazioni in grado di spostare voti nelle urne di domenica. Che però il clima giudiziario per la Lega si stia facendo pesante, a Matteo Salvini non sfugge.

Lega, le manovre per una poltrona in Rai del commercialista arrestato. Alberto Di Rubba, sotto inchiesta per il caso Lombardia Film commission, puntava al consiglio di amministrazione della tv pubblica. E nel curriculum inviato alla Camera compare la referenza di Marco Ghilardi, il funzionario di banca che non ha segnalato le operazioni sospette con i soldi del partito di Matteo Salvini. Vittorio Malagutti il 16 settembre 2020 su L'Espresso. Dal paesino di Casnigo, 3.200 anime in Val Seriana, 30 chilometri da Bergamo, al consiglio di amministrazione della Rai. Puntava in alto Alberto Di Rubba, il commercialista con targa della Lega, arrestato una settimana fa per peculato e turbativa d'asta nella vicenda dell'acquisto della nuova sede della fondazione Lombardia Film Commission. Nel 2018 Di Rubba si era candidato a una poltrona di vertice della tv pubblica e per questa aveva inviato alla Camera il suo curriculum professionale. Il documento è ancora depositato negli archivi di Montecitorio. Marco GhilardiIn quei giorni la Lega si preparava a prendere possesso dei posti chiave in Rai in tandem con i Cinque Stelle, nuovo alleato di governo. E Di Rubba, commercialista di fiducia del Carroccio, era pronto a cavalcare l'onda conquistando una poltrona a Roma. Non se ne fece niente. Nel nuovo cda della televisione di Stato entrò in quota Lega il manager milanese Igor De Blasio insieme al presidente designato Marcello Foa, un giornalista che Matteo Salvini conosceva bene, a tal punto da assumerne il figlio nel proprio staff  per la propaganda in Rete. Milioni di euro in una piccola filiale bancaria finiti sui conti di società controllate dai due commercialisti del Carroccio. La stessa agenzia da cui è partito anche il bonifico per acquistare la nuova sede di Lombardia Film Commission. Un affare su cui adesso indaga la procura di Milano. Agli atti resta il documento con cui Di Rubba si presenta al Parlamento, elencando incarichi ed esperienze professionali. Tra le referenze, come un'inchiesta dell'Espresso ha rivelato un mese fa, c'è anche quella di Marco Ghilardi, il direttore della filiale di Seriate dove sono transitati milioni di euro in operazioni giudicate sospette dall'antiriciclaggio della Banca d'Italia. Ghilardi, amico di lunga data di Di Rubba, è stato licenziato da Ubi banca con l'accusa di non aver segnalato le operazioni anomale ordinate dal commercialista leghista.

Gianluca Paolucci  per la Stampa il 15 settembre 2020. Una società a Panama, gestita da una società delle Bahamas, che fa capo a una fiduciaria svizzera, che riceve soldi da una fiduciaria milanese. E 400 mila euro utilizzati per estinguere un debito su un conto (svizzero) dove pure erano già depositati 1,8 milioni. I 400 mila euro sono parte della «provvista» realizzata, secondo la procura di Milano, con la vendita del capannone di Cormano alla Lombardia Film Commission alla base dell' inchiesta che sta facendo tremare i vertici della Lega. A chi e perché sono finiti quei soldi è ancora tutto da chiarire ed è uno dei nodi dell' inchiesta milanese. «Nonostante la Signoria Vostra mi ricordi che sono un professionista esperto nelle gestioni patrimoniali, non riesco a dare una compiuta spiegazione di questa operatività», dice ai pm Roberto Tradati, amministratore delegato della Fidirev, sentito dai pm lo scorso 16 luglio. Luca Sostegni, la «testa di legno» dell' operazione Andromeda, invia i soldi tramite la Fidirev in conto presso la svizzera Credinvest. Il conto è intestato a una società di Panama. Si chiama Gleason International Corp., è attiva dal 2009 e ha un capitale di 10 mila dollari americani. Tra gli amministratori figura una società delle Bahamas, Ilfer Business Ltd, come «tesorero». Lo statuto della società di Panama assegna proprio al «tesorero» i poteri di gestione della Gleason. Ed è qui che compaiono una serie di professionisti svizzeri, tutti dipendenti della Dreieck di Lugano. Dreieck - che in tedesco significa «triangolo» e per una fiduciaria che opera nella domiciliazione offshore è già programmatico - ha una storia particolare. Nasce infatti in seno alla Banca del Gottardo, un nome che figura in una lunga serie di storie di riciclaggio a partire dal crac del Banco Ambrosiano. A fine Anni 90 viene colpita dallo scandalo dei fondi del «clan Eltsin», ovvero i soldi che l' ex presidente russo e il suo entourage avrebbero riciclato proprio in Svizzera. Poi nel 2008 la Banca del Gottardo viene acquisita dalla Banca della Svizzera italiana (Bsi) e la Dreieck diventa indipendente. Controllata dal gruppo Generali, la Bsi viene prima ceduta alla brasiliana Btg Pactual e poi alla svizzera Efg. La Finma, autorità di controllo elvetica, autorizza l' acquisizione a patto che la Bsi venga «completamente integrata» e liquidata entro un anno. Un provvedimento durissimo. Motivato dal ruolo della Bsi in un altro grande scandalo di riciclaggio internazionale: quello del fondo malese 1Mdb, miliardi di euro del governo di Kuala Lumpur finiti a finanziare attività che nulla avevano a che fare con la crescita del paese asiatico, tra le altre cose anche il film The Wolf of Wall Street. Nella Ilfer Business delle Bahamas figurano come amministratori una serie di manager della Dreieck. Tra questi anche Mario Spaventi, che negli anni 2000 era amministratore - sempre alle Bahamas - della Bdg Amministrazioni, braccio offshore dell' istituto elvetico. E che ha mantenuto lo stesso ruolo nel 2008, quando dopo la fusione la società è diventata Bsi Amministrazioni. Il conto della Gleason, fino al 2016, era alla Bsi di Lugano. E dunque, per chi sono i soldi inviati alla Gleason? I pm hanno avviato una rogatoria in Svizzera. Tradati spiega ai pm che la Gleason è di Scillieri. Ma nel 2017 lo stesso Scillieri chiede di intestare tutto a Sostegni. Che quindi si sarebbe trovato senza un quattrino, (si fa prestare 100 euro per andare da Milano alla Toscana), ma compra per un euro una società di Panama con un debito di 400 mila euro e oltre un milione sul conto svizzero. Quindi ripaga con i soldi di Andromeda che sarebbero dovuti andare alla Paloschi srl, vecchio proprietario dell' immobile di Cormano. L' unico che se ne avvantaggia è Scilleri, che libera così altri beni (suoi) gravati da un pegno. Un' operazione della quale nessuno, neppure il fiduciario Tradati, «professionista esperto», sa spiegare il perché.

Caccia ai soldi della Lega Un testimone: «Di Rubba? Uomo di fiducia di Salvini». Il leader del Carroccio: «Sono sereno, possono cercare dove vogliono, non ho nulla da nascondere e temere». Michelangelo Bonessa il 15 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. La caccia ai soldi della Lega continua. E il nome di Matteo Salvini viene ripetuto sempre più spesso: ieri la giornata si è aperta con le notizie sull’interrogatorio di Cristina Cappellini, ex assessore regionale lombardo alla Cultura, a proposito del caso Lombardia Film Commission: “Il nome di Di Rubba circolava come quello che doveva mettere a posto i conti della Lega, e non solo di Film Commission. Se ne parlava come uomo della svolta, per competenza e serietà. Era uomo di stretta fiducia di Salvini, faceva parte del suo entourage e gli incarichi che poi ha ricevuto all’interno del partito costituivano dimostrazione di queste voci”.

IL CONTABILE. Alberto Di Rubba è il contabile intorno al quale gira una galassia di persone e società a cui è stata ricondotta la presunta vendita a prezzo gonfiato di un immobile a Cormano, nell’hinterland milanese: lui e i suoi soci avrebbero utilizzato 800mila euro di fondi pubblici per comprare l’edificio destinato a diventare la sede della Lombardia Film Commission, ente controllato da Regione Lombardia. Ma pochi mesi prima il gruppo avrebbe acquistato lo stesso immobile per la metà del prezzo da una società controllata da uno dei suoi componenti. Da questo passaggio di soldi pubblici è scaturita l’inchiesta che ha portato a nove indagati per peculato nell’inchiesta sul caso Lombardia Film Commission. Oltre ai cinque ai quali è stata applicata la misura cautelare, tra cui i tre commercialisti di fiducia della Lega e il prestanome Luca Sostegni, figurano anche Pierino Maffeis, Elio Foiadelli e Vanessa Servalli, amministratori di società riconducibili ai professionisti finiti ai domiciliari. Ed è indagato, come si sapeva, anche l’imprenditore Francesco Barachetti. Matteo Salvini continua a ostentare sicurezza: ha affermato infatti che secondo lui sarà pari a “zero” l’effetto degli ultimi sviluppi delle inchieste giudiziarie sui fondi della Lega sul voto. “Sono anni che cercano soldi dove non ci sono soldi – ha detto a margine di un comizio ad Ascoli Piceno – , in Svizzera, Panama, Lussemburgo. I soldi alla Lega li danno i cittadini con il 2 per mille, gli imprenditori che ci aiutano, gli eletti. Sono tranquillo”.

GLI INTERROGATORI. Però il suo nome torna sempre: “Quando Scillieri parlava di retrocessione da impiegarsi per la campagna elettorale della Lega lo diceva ridendo, però sull’argomento è tornato con me più di una volta, e anch’io ho fatto qualche battuta, anche se ho sempre pensato che le retrocessioni fossero per Di Rubba e Manzoni (…) Tuttavia mi suona strano che su vicende di questo genere chi era sopra di loro non ne sapesse nulla – ha spiegato in uno degli interrogatori Luca Sostegni, il presunto prestanome nel caso Lombardia Film Commission che sta collaborando – Fu Manzoni – ha aggiunto – a chiedere a Scillieri di domiciliare presso il suo studio la sede del partito di Salvini”. Manzoni, uno dei tre commercialisti arrestati, “mi ha confidato che era diventato una persona importante nella Lega, assieme a Di Rubba e che erano amici di Centemero e Salvini”. Manzoni e Salvini sono sempre più vicini secondo il racconto, così come Di Rubba. Sembra dunque strano che la caccia ai soldi della Lega non riguardi solo gli 800mila euro dell’immobile di Cormano, ma che quella sia la chiave per trovare il famoso tesoro dei 49 milioni leghisti. O quel che ne resta. La conferma arriva proprio dai primi interrogatori: “Personalmente reputo che non vi siano mai stati 49 milioni quali disponibilità liquide sui conti della Lega nel periodo di mia competenza, in quanto occorre distinguere fra i conti di disponibilità dell’associazione federale e i conti in disponibilità delle articolazioni locali che (…) anche prima del 2015 di fatto avevano conti correnti sui quali aveva firma solo il delegato locale” ha dichiarato ai pm di Milano il revisore contabile alla Camera per la Lega, Andrea Manzoni, ai domiciliari nell’inchiesta Lombardia Film Commission. Manzoni inoltre ha spiegatoche, dopo che a fine 2013 fu nominato segretario Matteo Salvini e Giulio Centemero tesoriere nel settembre 2014, quest’ultimo “mi chiamò quale contabile e quindi mi occupai personalmente della contabilità”.

I COMMERCIALISTI. Ma la sua vicinanza del gruppo di commercialisti con il capo in pectore del centrodestra interessa molto gli investigatori, tanto quanto la pista dei soldi che stanno seguendo e che offre continui spunti di colore: uno degli ultimi è un altro conto leghista in Svizzera su cui sarebbero transitati 400mila euro parte degli 800mila ottenuti con la compravendita dell’immobile di Cormano. Il conto a quanto ricostruito dalle indagini apparterebbe a una società “con sede panamense” che lo scherma.

CONTO IN SVIZZERA. E non è la prima volta che la Lega si trova in imbarazzo per un contro in Svizzera con connessione a un paradiso fiscale: fino a pochi giorni fa la stampa parlava dei 5 milioni di euro di Attilio Fontana depositati in Svizzera. Un conto che ha avuto un passaggio alle Bahamas e che la Guardia di Finanza ha scoperto indagando sulla commessa da 513mila euro ottenuta dal cognato di Fontana per Aria, la centrale acquisti di Regione Lombardia. Il governatore lombardo ha provato a pagare parte dell’ordine, 250mila euro, tramite il suo deposito svizzero perché nel frattempo il parente aveva trasformato l’ordine in donazione. Proprio il tentativo di Fontana di spostare l’ingente somma però ha fatto scattare i controlli delle autorità anti riciclaggio. Da lì l’inchiesta che ha messo sotto scacco il governatore e tutta la Lega che ormai si trova nella scomoda posizione del partito dei conti in Svizzera. Intanto proseguono gli interrogatori. E qualcuno ha deciso di non parlare Michele Scillieri, uno dei tre commercialisti, non si presenterà per l’interrogatorio di oggi davanti al gip di Milano Giulio Fanales e, dunque, ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. “Scelta mia, ovviamente condivisa con lui – ha spiegato il legale Massimo Di Noia – perché c’è troppa pressione mediatica, sarebbe come sottoporlo a delle forche caudine, esporlo come un Enzo Tortora qualunque, non me la sono sentita”. Anche ilcognato di Scillieri, Fabio Barbarossa, pure lui arrestato ha fatto la stessa scelta di avvalersi senza presentarsi.

Fondi Lega, così si giustifica il bancario delle operazioni sospette: "L'ho fatto per amicizia". Pubblicato martedì, 15 settembre 2020 da La Repubblica.it. "La banca non ha perso un centesimo, io non ho preso un soldo, l'ho fatto solo per amicizia e in buona fede". Così, intercettato il 21 maggio scorso mentre parla con il contabile della Lega Alberto Di Rubba, ai domiciliari per il caso Lombardia Film Commission, Marco Ghilardi, all'epoca direttore della filiale Ubi di Seriate (Bergamo), prova a esporre le sue giustificazioni per le mancate segnalazioni di una serie di operazioni sospette sui conti di società di Di Rubba e dell'altro revisore del Carroccio Andrea Manzoni. Mancate segnalazioni per le quali in quel periodo il bancario doveva difendersi da contestazioni disciplinari che porteranno poi al suo licenziamento. Ghilardi è molto preoccupato per il suo futuro, mentre legge a Di Rubba tutte le contestazioni che l'istituto gli ha fatto: "perché a 50 anni dove caz.. vado? (...) chi caz.. mi assume (...) allora lì dovrò contare ancora su di te o su qualcuno". E Manzoni il giorno successivo, parlando con un avvocato che assiste Ghilardi, gli dice: "hanno fatto adesso una contestazione disciplinare di (...) non so quante pagine (...) tutto legato a noi per il discorso Lega". Ghilardi, che è stato sentito dai pm di Milano come teste, ha poi raccontato le "anomalie" delle movimentazioni su quei conti: "Sono operazioni prive di valide ragioni economiche che, al di là degli importi, non mi è capitato di vedere in tutta la mia carriera. E ho lavorato in banca quasi trent'anni". Il teste nel verbale del 22 luglio ha parlato anche dei "giri di soldi tramite 'Più voci'", l'associazione di cui era legale rappresentante il tesoriere della Lega Giulio Centemero, e del fatto che "Di Rubba mi aveva chiesto di aprire il conto di Radio Padania e delle associazioni regionali della Lega".

Paolo Colonnello e Monica Serra per la Stampa il 15 settembre 2020. «Io per il mondo Di Rubba ho sempre selezionato la casella 1, in pratica, ho sempre insabbiato tutto». Per capire come da questa inchiesta sui commercialisti della Lega si può arrivare «ai piani altissimi» del partito, bisogna fare un salto fino a Seriate, cittadina della bergamasca, duramente colpita dal Covid 19 e roccaforte leghista. Qui, nella filiale della banca Ubi, l' ex direttore Marco Ghilardi, poi licenziato, per sua stessa ammissione per anni ha coperto un tesoretto occulto del Carroccio. Le cui tracce sono contenute nella dettagliatissima contestazione - ora agli atti dell' inchiesta milanese - che la stessa Ubi banca muove al suo ex direttore partendo dalla vendita di «un Rolex usato» per 6000 euro, ricevuti da Alessandro Di Rubba. Un' inezia, ma è la classica pietra d' inciampo che svela e rivela agli ispettori dell' audit di Ubi e poi ai pm milanesi, il sistema finanziario occulto della Lega, fatto di elettricisti, pensionati, donazioni e liberalità che in Ubi considerano ad «altissimo rischio». Gestito dal suo segretario amministrativo Centemero (che dal conto riceve anche due bonifici da 62 mila euro e da 6 mila euro) che come è noto risponde al segretario Matteo Salvini. Perché, come dice sempre Ghilardi in un verbale del 24 luglio, «le entrate provengono da Radio Padania e Baracchetti service, mentre le uscite sono destinate a Di Rubba, Manzoni, Centemero e studio Dea Consulting». Ovvero il vecchio studio dei due commercialisti della Lega ora agli arresti, con sede a Bergamo. Scrivono gli ispettori Ubi: «La movimentazione (verso Dea Consulting, ndr) evidenzia chiari indici di anomalia che dovevano determinare la segnalazione di attività sospetta». Si parte con un accredito di 357 mila euro a favore della "Taaac srl", sede nell' ufficio di Michele Scillieri, società controllata dal «mondo Di Rubba», un mondo, come si vedrà che gira tutto intorno al Carroccio. «Risulta evidente - scrivono gli ispettori - che l' ammontare degli importi e delle causali utilizzate non trovano alcuna giustificazione E il suo comportamento è ancora più grave se si considera che in occasione della compilazione della scheda cliente nel portale Antiriciclaggio, lei ha annotato che la movimentazione del conto corrente era "regolare"...» Per esempio gli assegni circolari emessi nel marzo 2018 sempre dalla "Taaac" per 330 mila euro a favore di tale Giancarlo Signoretto, pensionato settantatreenne, ex socio unico e amministratore della società "Elite srl" (immobiliare fallita nel 2017), oppure 60 mila euro girati alla "Cafin spa", società attiva nel mondo editoriale per uno strano recesso di compravendita di cui però non esiste traccia. D' altronde, notano gli ispettori di Ubi, la movimentazione del conto Dea Consulting è di circa un milione di euro all' anno tra il 2016 e il 2017, ben superiore «al fatturato della società nel medesimo biennio». In particolare, «in merito alla movimentazione sopra riportata, si rileva che nel periodo di analisi (2015-2018) il conto corrente dello Studio Dea ha ricevuto accrediti provenienti dal partito politico Lega Nord, Lega per Salvini Premier e da soggetti collegati al partito, per circa 700 mila euro, con causali che fanno riferimento al pagamento di fatture». Seguono ben 85 bonifici, tutti dal partito. «Nel solo anno 2018 sono stati accreditati importi per 239. 940 euro»; circa 80 mila in due bonifici da Lega per Salvini Premier e 57 mila. 366 euro da Pontida Fin srl (detenuta da Lega Nord per l' indipendenza della Padania e per lo 0, 1 per cento da Umberto Bossi). Non male per una società formata da due commercialisti che curano l' amministrazione della Lega al Senato e alla Camera e a cui nel novembre del 2017 «è stato attribuito un rischio di riciclaggio alto». Inoltre, aggiungono gli ispettori, sul rapporto sono stati accreditati altri bonifici per ulteriori 700 mila euro «rivenienti da società dello stesso gruppo collegate e/o con una società terza con movimentazione incrociata». La Areapergolesi srl, società amministrata da Andrea Manzoni, ora ai domiciliari, nella stessa sede di via Maj a Bergamo dove risulta domiciliato anche il famigerato «elettricista» della Barachetti Service. Le operazioni si susseguono vorticosamente, finanziano Radio Padania e altre strutture del Carroccio, fino al conto aperto per appoggiare gli 800 mila euro della Film Commission, e nessuna di queste, secondo gli ispettori Ubi è da considerarsi regolare. Gli stessi notano come sia Di Rubba che Manzoni siano stati perquisiti per la storia dei 49 milioni della Lega scomparsi. Vicenda per la quale, in settimana, i magistrati di Genova verranno a Milano. Di fatto, in pochissimi anni la Lega di Salvini ha ricoperto d' oro i due commercialisti e il loro collega Scillieri, che ha architettato l' operazione su Lombardia Film, ha portato i suoi soldi nei paradisi fiscali all' estero, secondo uno schema tanto antico quanto collaudato. Le prove in mano alla procura vengono considerate talmente solide, per i reati di peculato e turbata libertà nella scelta del contraente, che stanno valutando di chiedere per i tre commercialisti un giudizio immediato. Ma davvero "ai piani altissimi" nessuno sapeva niente?

(ANSA il 18 settembre 2020) - E' in corso da questa mattina l'interrogatorio di Michele Scillieri, ai domiciliari da giovedì della scorsa settimana come altri due commercialisti vicini alla Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, e suo cognato Fabio Barbarossa nell'ambito dell'inchiesta della compravendita di un capannone a prezzo gonfiato da parte di Lombardia Film Commission e su presunti 'fondi neri' raccolti dai contabili per il partito. Sull'interrogatorio, che ieri pomeriggio pareva fosse a rischio e quindi slittasse a data da definire, c'è il più stretto riserbo. Scillieri, a differenza di Di Rubba e Manzoni, martedì scorso non si e' presentato per essere interrogato dal gip Giulio Fanales e ha scelto di rendere dichiarazioni al procuratore aggiunto Eugenio Fusco e al pm Stefano Civardi, titolari dell'indagine.

Claudia Guasco per ''Il Messaggero'' il 18 settembre 2020. Riciclaggio. Sale di livello l' inchiesta della Procura di Milano sull' operazione immobiliare da 800 mila euro di Film commission che, secondo i magistrati, sarebbe un regalo della Regione Lombardia ai commercialisti della Lega. Se fino a questo momento l' ipotesi di reato contestata ai nove indagati era turbativa d' asta e peculato, ora lo scenario si allarga. A essere accusato di riciclaggio è Roberto Tradati, presidente e amministratore delegato di Fidirev, attraverso la quale sarebbero transitata parte dei soldi incassati dalla vendita del capannone.  Dalle carte emerge come Tradati abbia operato su decine di conti aperti in diversi istituti di credito e gli investigatori si sono concentrati in particolare su alcune transazioni: 250 mila euro di bonifici ricevuti dal presunto prestanome Luca Sostegni, 140 mila euro dall' immobiliare Andromeda gestita da Michele Scillieri, 1,6 milioni versati sul conto della Futuro partecipazioni amministrata da Scillieri a fronte dei quali «sono state riscontrate speculari ed equivalenti operazioni di accredito di somme provenienti da un conto acceso presso la Banca Credinvest Sa di Lugano». Altri conti, registrano gli investigatori, sono stati aperti da Fidirev in Lussemburgo e a San Marino. Tradati, interrogato lo scorso 16 luglio, ha parlato della società panamense Gleason. «Scillieri è venuto da me per comunicarmi che aveva intenzione di riportare anche fisicamente i soldi in Italia e di chiudere il mandato fiduciario». Tradati gli spiegò che era «necessario risolvere in Svizzera la situazione della Gleason», amministrata da «Dreieck, una fiduciaria svizzera che gestisce anche società panamensi». Perfezionarono così un' operazione grazie alla quale alla fine «Dreieck gestiva Gleason per conto di Sostegni e non più per conto di Scillieri». Su Gleason gravava un debito di 400 mila euro. In questo modo i pm riassumono l' operazione: «Sostegni compra per un euro una società di sede panamense che scherma un conto svizzero, gestito da una fiduciaria svizzera, gravato da un debito e ripiana questo debito con la provvista proveniente da Andromeda». Tra l' altro, si legge nell' informativa della gdf del 14 maggio, «nel periodo di interesse investigativo (2017-2018) Fidirev Società Fiduciaria è risultata indirettamente partecipata dalla Fidinam group holding Sa (Svizzera), il cui fondatore e presidente onorario è il finanziere miliardario svizzero Tito Tettamanti, in buoni rapporti con Steve Bannon, l' ex stratega della campagna elettorale di Donald Trump che ha ospitato nella sua villa. Gli investigatori intanto hanno completato la perquisizione nell' ufficio di Francesco Barachetti, imprenditore ed ex consigliere comunale leghista indagato per peculato: con la moglie russa Tatiana Andreeva, non indagata, sarebbe il collegamento tra l' inchiesta Film commission e quella sui fondi russi del Carroccio. Tatiana Andreeva è titolare della società OOO Sozidaner Oblast di San Pietroburgo e avrebbe utilizzato una parte dei soldi provenienti dal partito per l' acquisto di un appartamento. Da un' informativa della finanza si evince che parte degli 800 mila euro della presunta vendita gonfiata del capannone a Cormano, ossia 390 mila euro, sono passati per la Barachetti service srl, società che poi ha impiegato 45 mila euro di quella somma per acquistare «rubli russi», serviti per un' operazione immobiliare a San Pietroburgo. La provvista è stata trasferita alla Sozidanie OOO, con la causale «pagamento per acquisto proprietà». In una intercettazione del 18 novembre 2019 Tatiana Andreeva, parlando con un agente finanziario, si legge nelle carte, fa «intendere l' esistenza di operazioni con la Lega con altri intermediari bancari». E l' interlocutore, «parlando della Banca BCC presso cui la Bmg srl ha già in essere un conto corrente dal maggio 2019», le ricorda «la raccomandazione» ricevuta dalla banca di «evitare di far transitare sul conto movimentazioni finanziarie in entrata provenienti dalla Lega». E insiste: «Ti ricordi? Lui aveva detto assolutamente niente dalla Lega. Ti ricordi?».

Lega, spuntano operazioni sospette tra società e partito: "Fondi anche allo staff di Salvini". Pubblicato venerdì, 18 settembre 2020 da La Repubblica.it. "Operatività non coerente rilevata tra diverse società, coinvolte nei più disparati settori economici e spesso con lo stesso indirizzo, e il partito politico Lega Nord" molte delle quali "riconducibili a (...) dottori commercialisti" di Bergamo e Milano". E poi "operazioni di accredito, spesso connotate da importo tondo e da periodicità non in linea con gli usi di mercato, (...) seguite da operazioni in segno contrario in favore di professionisti e società sempre riconducibili al (...) partito politico". È il quadro descritto in una segnalazione di operazioni sospette, un 'sos', dell'Uif di Bankitalia del 2019 riportato in una informativa trasmessa lo scorso aprile dalla Guardia di finanza ai magistrati di Milano che indagano sui fondi della Lega: inchiesta che una settimana fa è sfociata negli arresti domiciliari di Michele Scillieri, Alberto Di Rubba e Andrea Mazoni, tre professionisti vicini al movimento. Nel rapporto degli ispettori di via Nazionale - già l'anno scorso - si traccia la cornice dentro la quale stanno indagando il procuratore aggiunto di Milano Eugenio Fusco e il pm Stefano Civardi in una vicenda che ha delle connessioni anche con quella dei 49 milioni spariti e su cui è attiva la Procura di Genova. In un passaggio si sottolinea che "a fronte di fondi ordinati" dal partito e "dal gruppo Lega.Salvini premier" a favore di entità collegate sono stati disposti pagamenti a favore" di Luca Sostegni, presunto prestanome del commercialista Michele Scillieri. Inoltre, a proposito  si parla anche del caso, già emerso, della società Valdolive "impegnata nel settore pubblicitario, precedentemente di proprietà" di Vanessa Servalli  barista e cognata di Di Rubba, che "ha ricevuto bonifici dalla Lega Nord, dalla Partecipazioni Srl e dallo Studio Dea Consulting Srl", nomi ricorrenti nell'indagine milanese. "Tali fondi - si legge -  sono stati utilizzati per effettuare pagamenti in favore di alcuni membri dello staff" dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini, "Luca Morisi, Leonardo Foa, Matteo Pandini". Intanto, lontano dalle stanze della procura di Milano, Michele Scillieri, il commercialista vicino alla Lega finito agli arresti domiciliari giovedì con i colleghi Alberto Di Rubba e Andrea Mazoni, ha risposto alle domande dei pm titolari dell'inchiesta su Lombardia Film Commission. Un interrogatorio iniziato in mattinata e proseguito nel pomeriggio. Sul contenuto c'è il massimo riserbo, ma appare scontato che le prime domande si siano concentrate sull'affare del capannone di Cormano il cui prezzo di vendita, secondo la procura di Milano, sarebbe stato gonfiato. Proprio sui rapporti con il Carroccio e sui conti correnti potrebbe aver risposto il commercialista. Scillieri è considerato l'uomo dietro la società panamense Gleason Sa: 400 mila euro usciti dalle casse della Lombardia Film Commission sarebbero finiti, secondo i pm, sul conto svizzero della società panamense.

La procura cerca i soldi della Lega in Russia: Si spostano all’estero. Le tracce del Carroccio si perdono nella steppa: le indagini dopo l’arresto dei tre commercialisti per la Film Commission. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud il 18 settembre 2020. Le indagini sui fondi della Lega tornano sulla pista Russa. Non è infatti la prima volta che si ipotizzano collegamenti economici tra il Carroccio e la patria di Vladimir Putin. Questa volta però non si parla di soldi legati a forniture di gas o petrolio, ma sempre dell’inchiesta sulla presunta vendita gonfiata del capannone di Cormano che ha fatto uscire dalla Lombardia Film Commission 800mila euro di soldi pubblici. Mentre tre commercialisti con importanti incarichi all’interno della galassia leghista sono finiti ai domiciliari una settimana fa, i magistrati ampliano il raggio del faro acceso sugli affari gestiti da questo giro di professionisti. E oltre ad ottenere molte altre segnalazioni di operazioni sospette direttamente dalle banche, i pm stanno seguendo la nuova pista russa apertasi con l’emergere del nome di Francesco Barachetti. L’imprenditore, indagato per peculato nella vicenda LFC, ha una moglie russa (non risulta indagata) Tatiana Andreeva su cui si stanno concentrando le attenzioni dei magistrati milanesi. La donna è anche socia sia della stessa Barachetti service srl che della Bmg srl, altra società difamiglia. In un’intercettazione del 18 novembre 2019 Andreeva, parlando con un agente finanziario, come sintetizza la Gdf, fa “intendere l’esistenza di operazioni con la Lega con altri intermediaribancari”. E l’interlocutore, “parlando della Banca BCC presso cui la Bmg srl ha già in essere un conto corrente dal maggio 2019”, le ricorda “la raccomandazione” ricevuta dalla banca di “evitare di far transitare sul conto movimentazioni finanziarie in entrata provenienti "dalla Lega"”. E le dice: “Ti ricordi lui aveva detto ‘assolutamente niente dalla Lega’ ti ricordi?”. Da un’altra informativa si evince, tra l’altro, che parte degli ormai noti 800mila euro della presunta vendita gonfiata del capannone a Cormano per la LFC, ossia 390mila euro, sono passati per la Barachetti service srl. Barachetti che, poi, ha impiegato 45mila euro euro di quella somma per acquistare “rubli russi”, serviti per un’operazione immobiliare a San Pietroburgo. La “provvista”, infatti, è stata trasferita in favore di una società russa, la Sozidanie OOO, con la causale ‘pagamento per acquisto proprietà’, pagamento accreditato su una banca di Mosca. Il binomio Russia e Lega è molto interessante per gli investigatori e apre scenari sempre nuovi per la stampa. Intanto Matteo Salvini sembra più attento alle campagne elettorali in corso e al suo processo per un presunto sequestro di persona quando era ministro dell’Interno. Intanto però spuntano sempre nuovi nomi: oltre a quello della Adreeva c’è anche il finanziere miliardario svizzero Tito Tettamanti, il fondatore e “presidente onorario” del gruppo Fidinam, specializzato nella consulenza fiscale internazionale con la creazione, tra l’altro, di strutture offshore. Tettamanti, tra l’altro, è stato accostato da alcuni alla rete sovranista ticinese ed è in buoni rapporti con Steve Bannon, l’ex stratega della campagna elettorale di Donald Trump che ha ospitato nella sua villa. Il nome del finanziere – che ha costituito nel 1959 lo studio legale Tettamanti-Spiess-Dotta ed è stato per anni azionista della Banca Svizzera Italiana – viene a galla a proposito della fiduciaria Fidirev, attraverso la quale sarebbero transitati parte degli 800mila euro incassati illecitamente dalla vendita dell’immobile e finiti in Svizzera. Oltre che dai magistrati, Salvini e i suoi devono difendersi anche per le conseguenze politiche di questa inchiesta: “Matteo Salvini è garantista con i suoi e giustizialista con gli avversari: noi no, non siamo come loro. Non utilizziamo le armi giudiziarie in politica, detto questo di fronte a milioni di carte che stanno uscendo, certo è che qualche dirigente leghista qualcosa dovrebbe dire”. Così il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, nel suo incontro con gli elettori nel centro di Pisa. L’assedio alla Lega dunque è sempre più ampio e si allarga, come il raggio delle indagini.

Gianluca Paolucci e Monica Serra per "La Stampa" il 19 settembre 2020. Nel giorno in cui il commercialista Michele Scillieri inizia a parlare davanti ai pm, spuntano nuove «operazioni sospette» della Lega. Lo staff dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, avrebbe ricevuto fondi da società che fanno capo ad Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, i due revisori delle casse del partito al Senato e alla Camera, finiti ai domiciliari per la vicenda della Lombardia Film Commission. La ricostruzione dei movimenti di denaro verso lo staff di Salvini è contenuta in una Sos (Segnalazione di operazione sospetta) dell'Uif di Bankitalia allegata agli atti dell'inchiesta milanese. Nella segnalazione, si rileva come la Vadolive srl, società che si occupa di pubblicità e che è stata in passato di «Vanessa Servalli, cognata di Di Rubba, di professione barista», abbia ricevuto bonifici sia dalla Lega Nord che da due società riferibili a Manzoni e Di Rubba: la Partecipazioni e la Studio Dea Consulting. «Tali fondi - prosegue la notadell'Uif - sono stati utilizzati per effettuare pagamenti in favore di alcuni membri dello staff del ministro Salvini: Luca Morisi, Leonardo Foa e Matteo Pandini». Morisi è l'uomo della comunicazione «social», a capo di una squadra denominata «la Bestia» che realizza i post di Salvini sui vari social network. Nello stesso staff c'è Leonardo Foa, figlio del presidente della Rai Marcello Foa. In precedenza era emerso come a Morisi fossero arrivati fondi dal gruppo della Lega al Senato per una consulenza. La Servalli, oltre al ruolo nella Vadolive, risulta anche essere stata amministratrice della Non solo Auto, un'altra della società riferibili a Di Rubba. Inoltre la stessa Servalli aveva la delega a operare sul conto della Taaac, altra società che aveva come titolari effettivi i due commercialisti e che compare spesso nelle carte dell'inchiesta milanese. Nel frattempo, proprio nella giornata di ieri, si è tenuto il primo faccia a faccia tra il commercialista Michele Scillieri e i pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi. Un incontro andato avanti per quasi otto ore, fino alle 17, in gran segreto negli uffici della Guardia di finanza. Il verbale è secretato ma «si è aperto uno spiraglio di collaborazione» che potrebbe far tremare il Carroccio. All'anagrafe Michele Gaetano Arturo Maria Scillieri, 57 anni, fedina penale immacolata, ma per i magistrati «aduso a elaborare modelli finalizzati a sottrarre, fraudolentemente, al pagamento di imposte, società in stato di decozione, chiedendone illegittimamente la cancellazione dal registro delle imprese» è il commercialista che ha offerto il suo studio di via delle Stelline per registrare e domiciliare la Lega per Salvini Premier. Dopo gli arresti, il leader del partito lo ha "scaricato", facendo intendere di non conoscerlo. A differenza di Manzoni e Di Rubba, lui non è un organico. Ma è vicino ai suoi contabili, soprattutto a Manzoni che ha lavorato nel suo studio fino al 2010 e, con lui, ha frequentato via Bellerio. Tanto che, ha spiegato il prestanome Luca Sostegni ai pm, «Scillieri si vantava delle amicizie che aveva con Di Rubba e altri esponenti locali della Lega, e aveva ricevuto un incarico per cercare di vendere la sede della Lega di via Bellerio». Ha detto ancora la "testa di legno" a San Vittore da luglio: «Ricordo che c'era fretta di concludere l'operazione perché, trattandosi di un immobile di proprietà della Lega Nord, si correva il rischio del sequestro dalla procura di Genova, in relazione alle indagini per la truffa sui rimborsi elettorali». L'operazione è poi sfumata. Gli "affari" del commercialista col Carroccio vanno avanti da tempo. Si legge negli atti dell'inchiesta che, tra il 2016 e il 2018, ha ricevuto in totale compensi per «84 mila euro dal partito politico» e, nel 2017, 17 mila euro da Pontida Fin. Ieri Scillieri, assistito dall'avvocato Massimo Dinoia, ha lasciato intendere di avere molto da raccontare. Ha aperto solo per poco quel suo «cassetto dei ricordi». Resta da capire se si tratta dell'ennesimo bluff del commercialista. O se davvero lì dentro sono nascosti segreti che possono far tremare i vertici della Lega.

Paolo Colonnello per "La Stampa" il 20 settembre 2020. «La segnalazione in oggetto evidenzia una rete complessa che coinvolge oltre 100 soggetti, con numerosi rapporti bancari, cui sono associate numerose transazioni finanziarie in un ampio temporale molto ampio, dal 2011 al 2019». Il "sistema" evidentemente funzionava bene e ha funzionato per anni. Per esempio: come ha fatto la Pontida Fin, la società che gestisce il patrimonio immobiliare della Lega, a passare «dalla gestione di 9 milioni di euro nel 2010 ai 31,6 milioni del 2017»? Se lo chiedono in una delle informative sulle operazioni sospette che puntellano l'inchiesta milanese. E non si tratta di una domanda capziosa, visto che non solo il patrimonio immobiliare del Carroccio non sembrava messo così bene (emerge dall'inchiesta che si voleva vendere la sede di via Bellerio senza riuscirci), ma che analizzando il reticolo di conti che fa capo ai due commercialisti della Lega arrestati, Di Rubba e Manzoni, si finisce per scoprire che in un solo anno Pontida Fin incassa 926 mila euro, senza apparente motivo. D'altronde dal 2018 al 2019, dall'esame dei conti riferibili al Carroccio la movimentazione bancaria registra operazioni sospette per 14 milioni di euro, come segnala la stessa banca milanese presso cui è aperto il conto della Lega. Ha voglia Matteo Salvini a dire che «soldi non ne hanno trovati». Perché leggendo le carte dell'inchiesta, di soldi ce ne sono in abbondanza. Solo che non stanno mai fermi e finiscono per essere movimentati da personaggi da commedia popolare: l'elettricista, la barista, il pizzaiolo, l'autista Sono loro che distribuiscono, come nel caso dei pagamenti arrivati dalla barista Vanessa Servalli allo stratega delle comunicazione social di Salvini, Luca Morisi, il denaro della Lega che viene smistato, attraverso un sistema di società fittizie. È questa la chiave del "sistema" di finanziamento del partito scoperto dai magistrati: una serie quasi infinita di società farlocche e di personaggi ambigui che fungono da collettori cui inviare o far ricevere soldi, che in parte servono a pagare strutture e personale del partito (Radio Padania, Pontida Fin, "la Bestia") e in parte vengono fatti sparire. Per tutti basti il caso del prestanome dell'affaire Lombardia Film Commission, Luca Sostegni, professione pizzaiolo in Brasile, segnalato anche alla procura nazionale antimafia, risultato titolare di ben 30 società dai cui conti partono bonifici in favore della immobiliare Andromeda e della fiduciaria Fiderev, riferibili al terzo commercialista arrestato, Michele Scillieri, nel cui studio era stato domiciliato e registrato il movimento "Lega per Salvini Premier". Il fulcro del sistema sono loro, i commercialisti arrestati. Un po' di denaro finisce nelle loro tasche, ma il resto? Potrebbe spiegarlo il loro capo e socio, Giulio Centemero, il segretario amministrativo della Lega, che a questo punto probabilmente verrà chiamato in procura per dare qualche spiegazione. I tre infatti, come nota una delle segnalazioni della Gdf allegate agli atti, «hanno dato vita all'associazione Più Voci (oggetto di un altro procedimento che vede l'on. Centemero indagato per finanziamento illecito) che ha sede nello studio del Di Rubba, dove hanno sede altre 7 imprese che fanno capo a una fiduciaria controllata da una holding Lussemburghese». Continua l'informativa: «Alla luce di quanto precede si sottopone la presente segnalazione all'Organo di Vigilanza rilevando i seguenti indicatori di anomalia: imprese i cui soci o amministratori risultano di dubbio profilo reputazionale per precedenti penali, anche a carico di soggetti notoriamente contigui ai medesimi, ovvero sono gravati da procedure pregresse pregiudizievoli (protesti, fallimenti, ecc) o risultano nullatenenti o irreperibili». Una bella compagnia di giro, non c'è che dire. È attraverso i loro conti che scorre come un fiume carsico il denaro del Carroccio, quello lecito e quello illecito, quello di cui si trova traccia e quello svanito forse nei conti lussemburghesi su cui stanno ancora indagando i magistrati di Genova e, a questo punto, anche quelli di Milano.

La caparra da 100 mila euro regalata ai commercialisti vicini alla Lega. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2020. Appena 16 giorni dopo che la Fondazione Lombardia film commission a guida leghista ha versato 800 mila euro per la nuova sede di Cormano, apparentemente senza una ragione l’impresa che ristrutturerà l’immobile «regala» centomila euro a Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, poi arrestati per peculato e altri reati per le trame dell’operazione. È una delle sospette forme di «restituzione» ai due commercialisti legati al Carroccio su cui punta l’attenzione la Procura di Milano. L’idea degli investigatori è che in questa vicenda ci sia un sistema di vasi comunicanti, di fondi, pubblici in questo caso, che entrano da una parte per uscire da un’altra, a volte con un filo diretto, altre no. Protagonista in questo via vai di denaro è anche la Barachetti Service che «negli ultimi anni — si legge negli atti — si è annoverata tra gli abituali fornitori» della Lega. Frequentatore abituale di via Bellerio a Milano, tra i 2015 e il 2019 Francesco Barachetti ha fatturato più di 2,2 milioni di euro per lavori commissionati dal Carroccio. Le indagini della Guardia di Finanza di Milano hanno accertato che ha ristrutturato anche immobili di esponenti del calibro del tesoriere Giulio Centemero e del vice presidente del Senato Roberto Calderoli, i quali hanno pagato le relative fatture. Il 5 dicembre 2017 Lombardia film commission salda l’acquisto del capannone ad Andromeda srl (di cui è amministratore di fatto Michele Scillieri, terzo commercialista arrestato) la quale tra il 13 e il 18 dicembre gira 390 mila euro all’impresa di Casnigo (Bergamo) per la ristrutturazione.

Le indagini. Secondo i pm Stefano Civardi ed Eugenio Fusco, alla fine Di Rubba e Manzoni incasseranno dall’affare Lfc 307 mila euro «tramite fatture per operazioni inesistenti». L’attenzione della Procura guidata da Francesco Greco si concentra su una in particolare: il 20 dicembre 2017 sul conto della Barachetti viene addebitato un assegno da 100 mila euro a favore della Taaac srl, altra società che fa capo a Di Rubba e Manzoni, con sede in via Stelline 1 a Milano, proprio dove ha lo studio Scillieri e dove nel 2017 era domiciliata la «Lega per Salvini premier». Il giorno dopo, Taaac acquista per 310 mila euro a Desenzano sul Garda (Brescia) due villette destinate «alla villeggiatura di Manzoni e Di Rubba». Sulla prima, però, era in vigore fino al giorno prima un preliminare di vendita tra la stessa Taaac srl e la Barachetti Service srl nel quale l’impresa aveva versato una «cospicua caparra confirmatoria» di centomila euro che, quindi, perde irrimediabilmente rinunciando non si sa perché all’acquisto. Un’operazione che «apparentemente giustificava l’incameramento» della somma da parte di Taaac, alla quale arrivano anche altri 53 mila euro da Dea consulting, società sempre dei due commercialisti, questi giustificati con un contratto di affitto «simulato», scrivono i pm. L’affare immobiliare proprio non va giù a Scillieri. Intercettato, dice che nella vicenda Lfc lui non ha guadagnato niente. È furioso con i suoi due colleghi.«Dentro l’operazione c’erano due belle ville sul lago e io ho detto “invece di comprare il terreno, fatemi comprare quelle ville lì!”, “ah no, quelle lì no”, se le sono comprate loro» dal cliente che «aveva il terreno e le ville, a me han dato il terreno e loro si sono ciucciati le ville!», afferma. Ma «il terreno, che io ho pagato 300 mila euro veri, sull’unghia (…) l’ho dovuto regalare per finire i lavori di Cormano (…) a Barachetti». Per poi domandare a se stesso: «Come fai a fidarti di persone del genere che ti fottono alla luce del sole?».

 Alberto Mattioli per La Stampa il 20 settembre 2020. E così si torna a parlare della "Bestia", la macchina da guerra della propaganda salviniana, oggi un po' meno gioiosa perché finita nel mirino dei giudici, almeno per quel che riguarda le modalità del suo finanziamento. Però gran parte dell'ascesa di Matteo Salvini è merito appunto di questo formidabile apparato di comunicazione e di chi l'ha realizzato, insomma di chi della Bestia è il creatore e il domatore insieme. Insomma di Luca Morisi, mantovano, classe '73, un autentico "nerd" (definizione sua), anzi un «filosofo del web» (idem, però la laurea in Filosofia l'ha davvero, 110 e lode a Verona), tutto algoritmi acchiappalike. La Bestia si chiama in realtà Sistema Intranet, società fondata nel 2009 da Morisi insieme con Andrea Paganella, l'altro Dottor Stranamore della Lega salviniana, società che peraltro ha lavorato anche per la Regione Lombardia, gestione Maroni, e per diverse Asl del territorio. Sono stati Morisi & Paganella, che non sono solo dei professionisti efficienti ma pure dei leghisti credenti e praticanti, a capire che oggi la battaglia politica si combatte sui social, e a farla vincere al Capitano (per inciso, soprannome coniato proprio da Morisi), che con 4 miloni e 379.504 persone che lo seguono su Facebook è il politico più social d'Italia e forse d'Europa. Per tacere del milione e 327.408 follower su Twitter, che però Morisi pospone a Facebook, considerato più popolare. Per avere un'idea, nel 2014, all'inizio della cura Morisi, su FB gli amici di Matteo erano appena mezzo milione. E' la Bestia che seleziona i temi caldi, lancia e rilancia gli slogan, inventa gli hashtag di successo, segue Salvini 24 ore su 24 e sette giorni su sette, riporta tutti i comizi frase per frase ma anche lui che mangia la Nutella, lui che va in tivù a litigare, lui che porta a spasso i figli. Il tutto grazie a una squadra di ragazzi nati davanti al computer e con l'indice caldo, fra i quali Leonardo Foa, bocconiano ventiseienne e figlio di Marcello, giornalista sovranista fortissimamente voluto da Salvini alla presidenza Rai. Morisi è il contrario del suo Capitano: pallido pallido, forse timido, di certo riservatissimo e silenziosissimo, le sue interviste si contano sulle dita di una mano chiusa. I servigi della società costavano alla Lega, pare (tutte le sue attività sono avvolte nel mistero, e in via Bellerio nessuno ne parla) sui 170 mila euro all'anno. Di certo, quando Salvini traslocò al Viminale i suoi spin doctor lo seguirono, costando al contribuente dai 65 mila (Morisi) agli 85 mila euro all'anno (Paganella). Furono assunti anche quattro ragazzi, fra i quali Foa, per 41.600 euro. Con la fine del Conte I e il passaggio della Lega all'opposizione del Conte II, alcuni sono stati sistemati al gruppo della Lega al Senato, dove infatti le spese per il personale sono quasi raddoppiate. Anche fare pubblicità su Facebook costa: nell'ultimo anno, più di 250 mila euro. Quando gira al massimo, la Bestia fa numeri impressionanti. Si è calcolato che nei cinque mesi di campagna prima delle ultime Europee, gran trionfo salviniano, sia stata prodotta una media di 17 post al giorno, con più di 60 milioni di interazioni, 40 milioni di like e cinque milioni di ore di video visualizzate. Poi però i numeri sono un po' calati, in coincidenza con quella grave battuta d'arresto nella marcia del Capitano che sono state le elezioni in Emilia-Romagna. E anche il Covid ha fatto danni. Il punto è che Morisi & co. hanno messo a punto un sistema di comunicazione basato su tre pilastri, il TRT, acronimo di Televisione, Rete e Territorio, cioè i comizi di Salvini, dove ognuno dei tre elementi serve a rilanciare gli altri due e ne è a sua volta rilanciato. Ma con il lockdown Salvini ha dovuto smettere di battere il territorio, è mancata una T e la Bestia ha iniziato a fare numeri meno impressionanti. Adesso è ripartita. Il voto alle Regionali, e in particolare in Toscana, sarà anche un indizio per capire se morde ancora.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 21 settembre 2020. I soldi raccolti dal sistema di società riconducibili ad Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, i due commercialisti bergamaschi ai domiciliari per l'inchiesta sulla Lega, sono serviti per pagare anche quello che appare come un vero e proprio stipendio a funzionari del partito. La nuova svolta è contenuta in un lungo rapporto del'Uif di Bankitalia, agli atti dell'indagine milanese, che analizza in dettaglio i rapporti bancari dei vari soggetti coinvolti nella vicenda. Dal rapporto emerge come Manzoni abbia pagato per tre anni (dal 2016 al 2018) tramite un suo conto personale una sorta di stipendio mensile a Giovanni Malanchini, bergamasco anche lui, responsabile dal 2015 degli enti locali della Lega Nord-Lega Lombarda. Il conto personale di Manzoni era alimentato a sua volta, nella stesso periodo di tempo, da bonifici provenienti da Studio Dea, Studio Cld e Sdc srl. Studio Dea è la vecchia denominazione dello studio di Manzoni e Di Rubba. Le altre due società, secondo le ricostruzioni degli inquirenti milanesi, sono servite essenzialmente a veicolare fondi, in alcuni casi senza una effettiva operatività. Da queste tre società sono arrivati sul conto di Manzoni, con 20 diversi bonifici, oltre 289 mila euro tra marzo del 2016 e aprile 2018. La maggior parte, 211 mila euro, è arrivata dalla Sdc srl. Sullo stesso conto sono registrati anche bonifici in entrata per 157 mila euro dalla Lega Nord e, nel solo 2018, due bonifici per 20 euro totali dal gruppo parlamentare Lega Nord-Salvini Premier, per il quale Manzoni svolge l'incarico di consulente amministrativo. Interpellato, Malanchini spiega che «si tratta di prestazioni professionali effettuate per conto di Manzoni tra il 2015 e il 2018, a fronte di un preciso incarico. È tutto verificabile». Malanchini è una figura centrale negli organigrammi della Lega salviniana. Descritto come un fedelissimo dell'ex ministro, è stato in passato sindaco di Spirano (Bergamo). Nel 2018 è stato eletto al Pirellone e subito dopo nominato segretario del consiglio regionale. Viene descritto come uno degli "angeli custodi" salvininani del governatore lombardo, Attilio Fontana e lavora fianco a fianco con l'ex compagna di Salvini, Giulia Martinelli. Nei giorni scorsi Malanchini ha accompagnato Salvini, con altri eletti della Lega, nel suo tour elettorale nei comuni della bergamasca che sono chiamati al voto in questa tornata amministrativa. Secondo la ricostruzione degli uomini di Bankitalia, da Manzoni sono arrivati a Malanchini 21.960 euro nel 2016 con 11 bonifici, 2440 euro al mese nel 2017 per un totale di 29.280 euro nel 2017 e altri 21.960 euro nel 2018, a fronte di fatture emesse mensilmente per 2440 euro dalla ditta individuale di Malanchini, la Mgf Servizi. I soldi provenienti da Manzoni hanno rappresentato nel 2017 l'unico introito della ditta individuale di Malanchini e la quasi totalità nel 2016. Bankitalia segnala anche che ai corrispettivi pagati da Manzoni nel 2016 e 2017 non è stata applicata la ritenuta alla fonte. La spiegazione, annota la stessa relazione, dovrebbe risiedere nel fatto che l'attività rientri nel regime forfettario di tassazione che per l'attività di Malanchini prevedeva una soglia di 30 mila euro. Ovvero, appena sopra gli emolumenti ricevuti dalla Lega. A riprova che si tratti di un conto personale di Manzoni a effettuare i pagamenti, il rapporto sottolinea come sia stato utilizzato anche per investimenti in titoli e trasferimenti alla moglie dello stesso Manzoni. Nello stesso rapporto, si sottolinea come le società legate ai due commercialisti, in particolare la Studio Cld e la Sdc srl, «si pongano come mero tramite, rendendo conseguentemente dubbia l'effettività, oggettiva e soggettiva, delle prestazioni rese e delle giustificazioni causali sottese ai pagamenti stessi». In particolare, la Sdc ha veicolato non solo «fondi provenienti da Radio Padania» ma anche «una parte dei fondi pubblici trasferiti dalla Lombardia Film Commission a Immobiliare Andromeda». Ovvero, l'affare immobiliare del capannone di Cormano al centro dell'inchiesta milanese sui conti della Lega.

(ANSA il 29 settembre 2020) - Ci sarebbe un elemento forte a sostegno dell'ipotesi accusatoria sulla presunta vendita gonfiata del capannone di Cormano (Milano) per la Lombardia Film Commission nel verbale reso dal commercialista Michele Scillieri davanti ai pm lo scorso 18 settembre e depositato per le udienze al Riesame di oggi per Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, i due contabili della Lega anche loro finiti ai domiciliari. Da quanto si è saputo, infatti, Scillieri avrebbe spiegato agli inquirenti che un contratto di consulenza e un'annessa fattura sarebbero stati redatti apposta (e quindi erano fittizi) per giustificare un passaggio di denaro da oltre 170mila euro da Andromeda, società riconducibile allo stesso Scillieri, ad Sdc società riferibile a Manzoni e Di Rubba. Un flusso di denaro, quei circa 170mila euro, che per i pm rappresenta una tranche degli 800mila euro drenati dai professionisti attraverso la compravendita gonfiata del capannone. E dall'interrogatorio di Scillieri sarebbe arrivata una conferma di questa ipotesi. Manzoni si era difeso con dichiarazioni davanti ai pm e poi nell'interrogatorio davanti al gip sostenendo di "non avere percepito alcuna somma, in relazione all'operazione immobiliare". Aveva detto che i circa 178mila euro versati dalla società Andromeda in favore della Sdc riguardavano "un'operazione immobiliare di un terreno in alta Val Seriana, intestato ai Testa, rientrante in un'operazione di ristrutturazione, di qualche anno prima, sul supermarket di questi Testa". E che quindi non c'entravano con i soldi della vendita del capannone. Gli inquirenti hanno, però, fatto notare a Scillieri nel suo interrogatorio che quel terreno era stato venduto per 250mila euro e che quella vendita non poteva aver generato una consulenza da ben 170mila euro, ossia per un importo così alto e simile al prezzo di vendita. E che la consulenza era stata pagata addirittura dopo il preliminare di vendita del terreno. A quel punto Scillieri, messo di fronte alle contestazioni, ha in sostanza ammesso che quel contratto di consulenza e l'annessa fattura erano fittizi. E che, dunque, sarebbero serviti solo per giustificare un passaggio di soldi da Andromeda a Sdc.

ANSA il 29 settembre 2020. Ribadendo le esigenze cautelari, tra cui il pericolo di reiterazione dei reati, come già riportate nella richiesta d'arresto e che giustificano i domiciliari per i contabili della Lega Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, la Procura di Milano nell'udienza davanti al Riesame ha fatto notare che le stesse esigenze avrebbero potuto anche essere meglio salvaguardate dalla custodia in carcere. I Pm chiesero questa misura per i tre commercialisti arrestati e il Gip decise per i domiciliari. Nell'udienza, la difesa dei contabili ha parlato di congruità del prezzo del capannone, mentre i Pm hanno messo in luce gli elementi del quadro probatorio, tra cui il fatto che nella vendita, in pratica, venditori e acquirenti erano gli stessi soggetti. Sono iniziate, infatti, davanti ai giudici del Tribunale del Riesame di Milano le udienze per Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, i due revisori contabili per la Lega in Parlamento finiti ai domiciliari lo scorso 10 settembre, assieme all'altro commercialista di fiducia del Carroccio Michele Scillieri, nell'inchiesta sul caso Lombardia Film Commission e su presunti 'fondi neri' raccolti dai tre professionisti per il partito. Difesi dal legale Piermaria Corso, Manzoni e Di Rubba hanno chiesto ai giudici la revoca della misura cautelare dopo essersi difesi anche nell'interrogatorio davanti al gip, sostenendo di non aver mai incassato soldi illeciti dalla presunta vendita gonfiata del capannone di Cormano (Milano) per la Lfc, che era presieduta proprio da Di Rubba. Alle udienze non sono presenti i due professionisti, accusati di peculato e turbativa, mentre per la Procura c'è il pm Stefano Civardi per sostenere le esigenze cautelari che giustificano la misura dei domiciliari. Intanto, le indagini, coordinate dall'aggiunto Eugenio Fusco e condotte dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, scavano su una lunga serie di movimentazioni finanziarie sospette per milioni di euro tra la Lega, imprese come la Barachetti service (l'imprenditore Francesco Barachetti è indagato), entità collegate al Carroccio e società riconducibili ai tre commercialisti. Indagini che si intrecciano con quelle genovesi sul presunto riciclaggio dei famosi 49 milioni della Lega spariti. Alle udienze al Riesame si è presentato anche il procuratore aggiunto Eugenio Fusco per la discussione. Nei prossimi giorni potrebbe esserci un incontro a Genova tra i Pm milanesi e i loro colleghi per fare il punto sulle indagini che presentano punti di contatto, tra cui proprio la presenza in molte operazioni sospette di società riconducibili ai contabili del Carroccio.

Al setaccio le tasche del carroccio. Inchiesta sui 49 milioni della Lega, a Presa diretta i conti non tornano…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Settembre 2020. La “caccia al tesoro” della Lega sta assumendo veste giornalistica più ancora che giudiziaria. Tanto da finire in una sorta di morbosità da buco della serratura in cui, per seguire il flusso dei soldi, si inciampa nelle minutaglie degli spiccioli. E anche nello sputtanamento delle persone per bene. Come nel caso del deputato della Lega Gianni Tonelli, entrato in Parlamento il 4 marzo del 2018 dopo aver lasciato in sospeso la propria carriera di agente di polizia e la carica da sindacalista come segretario generale del Sap. Il deputato Tonelli è la dimostrazione personificata del fatto che i “virtuosi” non sono quelli che dovevano aprire il Parlamento come una scatola di tonno ma poi hanno apprezzato più gli agi che il pesce sott’olio. Tonelli concorda con il partito che l’ha portato in Parlamento di trattenere per sé solo quella parte dell’indennità che corrisponde alla retribuzione precedente alla sua elezione. Nobile gesto che viene ricambiato dal consueto circo mediatico, con il supporto degli occhiuti ispettori della Banca d’Italia e degli uomini della Guardia di finanza di Milano, con l’intrusione e il sospetto che infangano, prima ancora che un deputato reo solo di eccesso di virtuosismo, anche un appartenente alle forze dell’ordine, con tutto il suo orgoglio per la divisa indossata fino a poco tempo fa. Così, se versi 20.000 euro al tuo partito (equivalente a poco più dell’indennità mensile di deputato), la cifra è sospetta relativamente al tuo reddito del 2017, quando non era parlamentare. C’è da domandarsi se questi ispettori e indagatori siano in malafede o semplicemente cretini. Lasciamo perdere il nostro giudizio sui colleghi tagliagole, provvederà l’onorevole Tonelli a tutelarsi come ritiene. Certo è che intorno alla vicenda dei 49 milioni di euro di rimborsi per le spese elettorali che la Lega avrebbe riscosso in modo illegittimo nel triennio 2010-2012 si sta creando una morbosità eccessiva, soprattutto da quando Matteo Salvini appare in difficoltà politica e alla vigilia di un processo, quello sulla vicenda della nave Gregoretti, dall’esito rischioso. Che lui non può sottovalutare, anche se all’apparenza fischietta con aria svagata. Negli ultimi mesi le indagini, da Genova a Milano a Roma, paiono aver avuto un’accelerazione che non può essere casuale. È vero che la sentenza della Cassazione del 2019 ha sancito che, per recuperare i 49 di milioni di euro del debito che la Lega ha con lo Stato (e in particolare con Camera e Senato) gli inquirenti delle varie procure potranno scandagliare conti correnti bancari, libretti e depositi, e che il denaro potrà essere sequestrato per equivalente “ovunque e presso chiunque custodito” . Tutto ciò è persino lapalissiano. Ma è altrettanto vero che da qualche tempo si sta frugando nelle tasche di chiunque transiti dalle parti del Carroccio alla ricerca anche degli ultimi spiccioli. Si gira intorno alle stesse storie, ma la ciccia, il malloppo non c’è. Magari banalmente perché i soldi sono stati spesi nel corso degli anni, come dice Matteo Salvini. Oppure, come invece sostiene l’accusa, perché i finanziamenti alla Lega arrivano per via indiretta, sotto forma di contributi ad alcune piccole società messe in piedi da esponenti del partito a titolo individuale. Ma si tratta di iniziative in genere di candidati che non fanno niente di diverso dagli altri, cioè dai politici di tutti i partiti, con attività di tipo culturale o sociale, in appoggio alle proprie campagne elettorali e al proprio movimento. E comunque non si sta parlando di grosse cifre. Milioni non ce ne sono, per capirci. Ci si è messo d’impegno Riccardo Iacona con la sua Presa in diretta di due giorni fa. Trasmissione d’inchiesta, che ha dato linfa a una serie di quotidiani che hanno avuto le anticipazioni. Il fatto più rilevante sembra essere sempre il capannone di Cormano, quello acquistato per quattrocentomila euro dai tre commercialisti che sono stati anche arrestati (con una strana sfasatura di due mesi tra la richiesta “urgente” del pm e la decisione del gip), e rivenduto per il doppio. Non a un privato cittadino, ma a una società legata alla Regione Lombardia, la Film Commission. Il sospetto è che sia stata fatta una sorta di partita di giro per prendere soldi dalla Regione e passarli al partito. Ma nel frattempo spunta anche una villa in Sardegna e una serie oggettiva di conflitti di interesse e rapporti non chiari tra i protagonisti che giustificano attenzione da parte della magistratura. Ma probabilmente se reati sono stati commessi, sono di altro tipo, non di finanziamento illecito alla Lega. Senza dimenticare mai il principio costituzionale per cui la responsabilità penale è personale. Tutto il resto è veramente piccola cosa. Una è anche un po’ fastidiosa. Parliamo delle conseguenze del terremoto in Emilia del 2012. La Lega, passando attraverso la propria sede locale dell’Emilia-Romagna, effettua un bonifico di novecentomila euro per aiutare il paese di Bondeno, distrutto dal sisma. In particolare dispone che la cifra venga così suddivisa: ottocentomila per ricostruire la scuola antisismica di Scortichino (frazione di Bondeno), settantamila per l’acquisto di mezzi dei vigili del fuoco, centotrentamila alla protezione civile. Ora, ha senso che oggi si controllino quei conti perché si sospetta che qualche subappaltatore abbia fatto la cresta per dare una mancia a Salvini? Qui i casi sono due: o la scuola è stata ricostruita o siamo davanti alla truffa del secolo, un po’ come la vendita della fontana di Trevi o del Duomo di Milano. Così come pare poco sensato andare a frugare nelle piccole cifre che qualche imprenditore ha elargito alla scuola politica di Armando Siri: diciottomila euro dalla multinazionale delle carni Cremonini e quindicimila dall’azienda di costruzioni Psc. Non erano contributi di privati per il funzionamento della scuola ma finanziamenti illeciti a un partito? Può anche darsi (ma sembra difficile), ma quante centinaia ce ne vorrebbero per arrivare a 49 milioni? E se ognuno di questi episodi vale un titolo di giornale, è perché c’è il sospetto di un reato o non invece per dare stilettate continue a Matteo Salvini alla vigilia del suo processo?

DiMartedì, Concita De Gregorio e l'accusa a Matteo Salvini: "Distrae con temi come "il bambino disabile" e nel frattempo sposta i soldi a Panama". Libero Quotidiano il 23 settembre 2020. Concita De Gregorio, nella puntata di martedì 22 settembre, ha dato il peggio di sè. La firma di Repubblica, ospite di Giovanni Floris su La7, non solo se l'è presa con Alessandro Sallusti, reo di averla chiamata per nome e non per cognome. La De Gregorio ha infatti inveito anche contro Matteo Salvini. Sul leader della Lega la giornalista ha lanciato pesantissime e infondate accuse. Una a caso? Quella che vedrebbe l'ex ministro dell'Interno "spostare soldi a Panama". "Il fatto che lui butti sempre la palla fuori dal campo distraendo con temi come "il bambino disabile" e nel frattempo magari sposti i soldi a Panama allora non è vero che difendi i deboli", ha detto senza alcun pudore e senza pensare alle conseguenze.

Jacopo Iacoboni e Gianluca Paolucci per ''La Stampa'' il 24 settembre 2020. Fa capo a Davide Caparini e alla sorella Maria Elena la società di Dubai sotto indagine in Usa per aver cercato di violare le sanzioni Usa contro la Russia. L’inchiesta dell’Fbi era emersa lo scorso anno: la Gva International di Dubai aveva cercato di vendere a Gazpromneft (controllata del colosso russo del petrolio Gazprom) una turbina utilizzata negli impianti di estrazione dell’Artico e prodotta da società americana (valore dell’operazione, 17,3 milioni di dollari). La turbina però è uno dei beni sottoposti a restrizioni per le sanzioni Usa alla Russia, così come è sottoposta alla sanzioni Usa la stessa Gazprom. Nell’atto d’accusa, oltre alla Gva International e al manager italiano Gabriele Villone, veniva citato Bruno Caparini, indicato come «responsabile commerciale» di una non meglio precisata «società italiana». Caparini è un nome pesante nella storia e nel presente della Lega. Bruno, 81 anni, bresciano di Edolo, imprenditore, è considerato uno dei fondatori della Lega Nord, nonché storico amico di Umberto Bossi. Il figlio Davide, anche lui leghista della prima ora, è stato deputato ininterrottamente dal 1996 al 2018. Quando è stato eletto in Regione Lombardia e nominato assessore al Bilancio della giunta Fontana, carica che riveste tuttora. Nei mesi scorsi l’indagine americana ha fatto progressi: Villone ha optato per un accordo con la procura che ha condotto l’indagine (Southern district of Georgia, di Savannah) e ha collaborato con le autorità Usa. Si è riconosciuto colpevole di un capo d’imputazione (conspiracy, uno sorta di associazione per delinquere, finalizzata ad aggirare le sanzioni) e la procura ha ritirato gli altri tre inizialmente contestati, tra i quali figura anche il riciclaggio. Sta scontando una condanna a due anni e quattro mesi al termine della quale verrà espulso dagli Usa. Restano ancora in piedi le accuse contro gli altri soggetti coinvolti: un manager americano, due cittadini russi, Bruno Caparini e la Gva International di Dubai, per la quale lavorava Villone. Adesso, grazie a una serie di documenti in possesso de La Stampa, è possibile dire di chi è la Gva International. Dei Caparini, appunto. La società di Dubai è controllata da una società italiana, la Piccola Rinascente srl di Milano. Le quote della Piccola Rinascente (P.R.) sono di due trust: Futur Trust e Felise Trust. Che gestiscono appunto i beni dei due fratelli Caparini. Ossia, oltre alla Piccola Rinascente, le quote della Mesit - la società di famiglia - case e appartamenti a Brescia, Ponte di Legno (il buen retiro di Bossi) e in Costa Smeralda. Amministratrice della Piccola Rinascente così come della Mesit era, fino a qualche mese fa, la moglie di Bruno (e madre di Davide): Teresina Gasparotti, detta Terry, mancata il mese scorso. «Perché dovrei fare un commento su una situazione che non mi riguarda?», ha detto Davide Caparini interpellato ieri da La Stampa. Perché controlla Gva tramite una società di Milano, che si chiama Piccola Rinascente, della quale lei ha il 50% schermato da un trust. «... Io non controllo alcunché. Deve parlare col mio trustee (fiduciario). Non deve parlare con me. Se dite che c’è un trust, non dovete parlare con me». Quindi dell’attività sottostante il trust, non ne sa nulla? «Evidentemente no», è la replica. Registriamo questa presa di distanza, così come registriamo che la Piccola Rinascente era gestita dalla madre di Davide, e che tutti i beni che fanno capo al Felise Trust sono stati conferiti da Davide Caparini e gestiti nell’interesse della moglie e degli eredi, come risulta nel regolamento del Trust stesso. Nel gennaio scorso, come è riferito in una riga del bilancio della P.R, «la controllata Gva International ha perso la licenza per operare», senza alcun riferimento all’indagine americana e alla violazione delle sanzioni. A luglio la Piccola Rinascente, della quale Caparini dice di non sapere nulla, è stata messa in liquidazione.

Fondi Lega, la Finanza in un comune del ferrarese. Cronaca Inchiesta sui camici, perquisizioni della Guardia di Finanza nella sede della Dama spa. Cronaca Inchiesta sui camici, la Finanza ha trovato i 25 mila capi non consegnati nella sede della Dama spa. Pubblicato giovedì, 24 settembre 2020 da La Repubblica.it. La caccia ai 49 milioni della Lega, i soldi frutto della truffa sui rimborsi elettorali, è sbarcata in Emilia. I militari della Guardia di Finanza di Genova, coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto e dal pubblico ministero Paola Calleri, hanno perquisito oggi la sede del comune di Bondeno, nel ferrarese. Secondo gli inquirenti il municipio avrebbe ricevuto, da parte di una lega regionale costituita dal Carroccio, fondi provenienti dal conto nella banca Aletti nella disponibilità dell’ex segretario leghista Francesco Belsito, condannato proprio per la truffa sui 49 milioni insieme all’ex leader Umberto Bossi (per i due è poi scattata la prescrizione in Cassazione). I militari hanno preso materiale documentale e informatico negli uffici del Comune da tempo amministrato da esponenti della Lega.

Marco Grasso per ''La Stampa'' il 25 settembre 2020. La caccia ai 49 milioni di euro leghisti incrocia il terremoto che nel 2012 mise in ginocchio l'Emilia. Ieri la Guardia di Finanza di Genova si è presentata negli uffici del Comune di Bondeno, provincia di Ferrara, per acquisire i documenti su un contributo da 900mila euro transitato dai conti della Lega Emilia-Romagna a quelli dell'amministrazione locale. Soldi che a seguito della donazione, fra il 2012 e il 2013, sarebbero stati spesi per l'emergenza. A interessare gli inquirenti è la provenienza di quel denaro: il direttorio regionale del partito, a sua volta, aveva beneficiato di trasferimenti di denaro dal conto centrale presso Banca Aletti, gestito fino al 2012 dall'ex tesoriere Francesco Belsito. Sarebbe cioè potenzialmente provento di riciclaggio, perché, come ormai accertato, Belsito ha consentito alla Lega di incamerare 49 milioni di euro non dovuti, una gigantesca truffa ai danni dello Stato. Negli anni successivi, ipotizzano i pm Francesco Pinto e Paola Calleri, le casse del partito sarebbero state svuotate per evitare i sequestri della magistratura. Bondeno non è un Comune qualunque, ma una roccaforte leghista. Per anni il paese è stato amministrato da Alan Fabbri, fedelissimo di Matteo Salvini, attuale sindaco di Ferrara. Dopo l'elezione in consiglio regionale, nel 2019 Fabbri è stato protagonista della cavalcata che lo ha portato a espugnare la città emiliana, governata dal centrosinistra del 1945: «Dopo il terremoto la Lega ha donato quei fondi per costruire una scuola antisismica e acquistare dei mezzi per la protezione civile e i vigili del fuoco. Il partito stanziò quasi un milione di euro. Lascio che siano i cittadini a giudicare se sia sbagliato o meno donare dei soldi per una scuola o dei mezzi di soccorso. La Finanza sta facendo accertamenti, ma basta vedere cosa abbiamo fatto con quei soldi». Il nodo centrale non è solo la destinazione finale di quello stanziamento. L'operazione sotto esame è tra quelle sospette in mano alla Procura di Genova. E rientra nell'analisi di un piano più complessivo: la spartizione di un tesoro che all'origine era amministrato in modo centralizzato e che dopo l'epoca Belsito lasciò spazio al progetto delle leghe regionali e a un'autonomia finanziaria dei suoi distaccamenti. Secondo gli investigatori, quel passaggio è stato uno dei passi fatti per rendere più difficile il tracciamento del denaro. L'inchiesta genovese si concentra anche su altre due operazioni: un trasferimento da 450mila euro all'associazione Maroni presidente e l'esportazione di 10 milioni di euro in Lussemburgo transitati attraverso la Banca Sparkasse di Bolzano. Mentre a Milano un'inchiesta parallela ha portato agli arresti dei commercialisti leghisti Alberto Manzoni e Alberto Di Rubba nell'ambito della compravendita di un immobile di Cormano, acquistato a un prezzo fuori mercato dalla Lombardia Film Commission, amministrata dallo stesso Di Rubba.

Esclusivo - Caccia ai soldi della Lega: due ville in Sardegna per l'imprenditore indagato. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 24 settembre 2020. Francesco Barachetti, l'idraulico che ha ricevuto milioni dal partito di Salvini, ha comprato due immobili vicino a Porto Rotondo. Messi in vendita dai due commercialisti arrestati e da un loro amico industriale, anche lui in affari con il Carroccio. Nella storia brutta dei soldi della Lega c’è una pista che porta al mare azzurro della Sardegna. L’Espresso ha scoperto che due ville dalle parti di Porto Rotondo sono intestate a una società di Francesco Barachetti, l’idraulico della Bergamasca diventato milionario a suon di bonifici del partito di Matteo Salvini. Le carte chiamano in causa altri nomi coinvolti nell’indagine della procura di Milano sull’acquisto della nuova sede di Lombardia Film commission, una fondazione regionale a capitale pubblico. Insieme a Barachetti, sotto inchiesta per peculato, troviamo anche Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, i commercialisti di fiducia del Carroccio arrestati il 10 settembre scorso. E poi l’imprenditore Marzio Carrara, legato ai primi tre da molteplici rapporti d’affari e personali. Carrara non è indagato, ma le informative della Guarda di Finanza e i rapporti dell’antiriciclaggio della Banca d’Italia segnalano numerose operazioni definite anomale o sospette che transitano sui conti correnti delle sue aziende. Denaro che finisce ai due professionisti e si incrocia con il fiume di soldi alimentato dai bonifici provenienti dalla Lega o da altri enti vicini al partito, come la finanziaria Pontida Fin o Radio Padania.

Matteo Salvin contro i pm: "Alla mia ex moglie hanno portato via il telefono con le foto di nostra figlia, ma lei non è indagata". Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. Un gesto indegno. A raccontarlo è il diretto interessato, Matteo Salvini, che ancora una volta punta il dito contro la magistratura. ''Siccome vedo poco mia figlia - racconta a Formello per un incontro elettorale - ogni mattina alle 8.05, caschi il mondo, io chiamo la mia ex moglie per sveglia e saluto. Ieri ho provato a chiamare e la mamma non risponde al telefono. Poi l'ho chiamata alle 9, alle 10 e ancora e nulla. Allora ho iniziato un po' ad arrabbiarmi e un po' a preoccuparmi. Poi, dopo pranzo, mi ha telefonato una collega della mia ex moglie per dirmi che Giulia (Martinelli ndr) non aveva il telefono... E io, ma come? Siccome lei lavora alla Regione Lombardia, non è indagata, è arrivata la Finanza a casa e in ufficio e le ha portato via il telefono". Un gesto che manda su tutte le furie il leader della Lega che, intervistato dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, prosegue: "A una cittadina italiana di 41 anni viene portato un telefono con gli affari suoi e miei, perché con la mia ex moglie posso parlare di quello che voglio". Ma c'è di più perché l'ex ministro rivela che, all'interno di quel cellulare, ci sono cose strettamente personali come "le foto di mia figlia, e le chat con i nonni". E ancora: "Non è degno di un paese civile, comportarsi così, neanche a un mafioso viene riservato un trattamento così. Mi vergogno di vivere in un Paese così. Darò un colpo di telefono, sperando che non mi portino via anche il mio telefono, al presidente Sergio Mattarella che sarebbe teoricamente capo della magistratura per capire se è normale che l'Italia funzioni così''.

Salvini si arrabbia per il telefono dell’ex moglie ma non spiega (o capisce ?) tutto…Il Corriere del Giorno il 27 Settembre 2020. Matteo Salvini intervistato dal direttore del TG2 (in quota Lega) si è arrabbiato sostenendo che la GdF ha sequestrato il telefono della ex moglie Giulia Martinelli, responsabile della segreteria del governatore lombardo, contenente anche le foto della figlia e le chat con i nonni. Ma il leader della Lega non spiega molto bene cosa la Guardia di Finanza cercasse realmente ….Matteo Salvini, intervistato ieri sera a Formello per un appuntamento elettorale, dove è stato intervistato da Gennaro Sangiuliano, direttore del TG2, era molto arrabbiato perché la GdF ha sequestrato il telefono della ex moglie Giulia Martinelli, con le foto della figlia e le chat con i nonni. Salvini non l’ha presa molto bene: “La mia ex moglie trattata peggio di un mafioso, una cosa indegna di un Paese civile, mi vergogno di vivere in un Paese così, darò un colpo di telefono, se non me lo tolgono anche a me, al Presidente Mattarella che teoricamente sarebbe il capo della magistratura, per chiedergli se è normale che in Italia funzioni così, per me non lo è”. Salvini ha continuato:  ”Siccome vedo poco mia figlia ogni mattina alle 8.05, caschi il mondo, io chiamo la mia ex moglie per la sveglia e un saluto. Ieri ho provato a chiamare e la mamma non risponde al telefono. Ho pensato, capita, alle donne che lavorano. Poi l’ho chiamata alle 9, alle 10 e ancora e nulla. Allora ho iniziato un po’ ad arrabbiarmi e un po’ a preoccuparmi. Manco un messaggio. Poi, dopo pranzo, mi ha telefonato una collega della mia ex moglie per dirmi che Giulia non aveva il telefono… E io, ma come? Siccome lei lavora alla Regione Lombardia, non è indagata, è arrivata la Finanza a casa e in ufficio e le ha portato via il telefono. A una cittadina italiana di 41 anni  che non ha mai toccato un euro fuori posto viene portato via il telefono con gli affari suoi e miei, perchè con la mia ex moglie posso parlare di quello che voglio, con le foto di mia figlia, chat con i nonni. Prendetevela con me, io ho le spalle larghe, ma se entrate in casa di mia figlia mi incazzo come un bufalo”. Giulia Martinelli al momento non è in alcun modo indagata. La realtà è che la Guardia di Finanza di Pavia, ha semplicemente svolto soltanto il proprio dovere. Peraltro non è vero che ha sequestrato il telefono dell’ex moglie del leader della Lega per vedere le foto della piccola Mirta Salvini o curiosare nelle chat con i nonni, ma ha solo adempiuto alle disposizioni ricevute dal procuratore Mario Venditti hanno soltanto effettuato una copia forense del telefono. Sarà un consulente incaricato dalla Procura a “far parlare” i telefoni sequestrati utilizzando 51 parole chiave, tra le quali, come svelato dal CORRIERE DELLA SERA,  “camici, moglie, fratello, cognato, donazione, tessuti, certificazioni, Trivulzio, mascherine, restituzione, consegna, ordine, Aria, bonifico, Svizzera, Regione, Fontana, Dini, iban e molte altre“. Analoga misura investigativa è stata attuata anche per il presidente della Regione Attilio Fontana, per gli assessori Giulio Gallera e Davide Caparini, e per Giulia Martinelli l’ex moglie di Matteo Salvini, che è la responsabile della segreteria del governatore lombardo. Inoltre anche altri funzionari della regione Lombardia sono stati coinvolti nella stessa procedura. Le chat dei telefoni sequestrati dalle Fiamme Gialle smentiscono  il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, che si era mostrato letteralmente caduto dalle nuvole quando la trasmissione Report, a metà maggio, aveva scoperto che la Regione aveva richiesto una fornitura di camici alla Dama Spa, società di proprietà del cognato Andrea Dini e della moglie del governatore Roberta Dini nel pieno dell’emergenza, e sapeva molto bene di quella fornitura. Ma a contraddire quanto sempre sostenuto dal governatore leghista, da giugno, non è più solo una inchiesta giornalistica, ma quella della Procura della Repubblica di Milano, che indaga per il reato di frode in pubbliche forniture,  e che ipotizza “il diffuso coinvolgimento di Fontana in ordine alla vicenda relativa alle mascherine e ai camici accompagnato dalla parimenti evidente volontà di evitare di lasciare traccia del suo coinvolgimento mediante messaggi scritti“. L’acquisizione informatica è presso terzi, che significa che allo stato attuale i quattro non sono indagati. L’acquisizione del contenuto delle memorie dei telefoni è stata effettuata, per parole chiave, mirata e quindi non invasiva, che riguarda anche quelli di Filippo Bongiovanni l’ex dg di Aria  e della dirigente della centrale di acquisti regionale (entrambi sono indagati), che si è resa necessaria alla luce delle testimonianze messe a verbale da testi sentiti nei mesi scorsi. Dalle prove documentali raccolte dalle Fiamme Gialle, tra cui i messaggi e le chat scaricati dal telefono di Andrea Dini. Ma cosa sta cercando la Guardia di Finanza nei telefoni ispezionati? L’inchiesta dei magistrati della Procura di Pavia nasce dall’affidamento diretto per 500mila test sierologici (per un valore di 2 milioni di euro) alla società Diasorin, accordato dalla Regione Lombardia e preceduto da una sperimentazione nei laboratori del Policlinico di Pavia San Matteo. Il sospetto dei pm di Pavia che indagano sulla vicenda insieme ai colleghi della procura di Milano è che dei “legami politici” possano aver influito sulla scelta di Diasorin come partner del San Matteo, cioè che la giunta lombarda possa aver imposto i test della società piemontese senza prendere in considerazione altri. Nasce da questa ipotesi investigativa l’ accusa di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e peculato: “la Diasorin spa ha uffici anche nell’Insubria Biopark a Gerenzano (Varese)” riportava il primo decreto di perquisizione. Guarda caso proprio nello stesso polo scientifico si trova la sede legale della Fondazione Istituto Insubrico che ha come direttore generale Andrea Gambini, ex-commissario della Lega a Varese ed è presidente della Fondazione Irccs Carlo Besta. Al centro dell’inchiesta anche una serie di pagamenti in epoca pre Covid, ad una società di Gambini da parte della Diasorin. Sono otto gli indagati dalla Procura di Pavia fra i quali Fausto Baldanti direttore del laboratorio di virologia molecolare del “San Matteo” ed Alessandro Venturi il presidente della Fondazione Policlinico San Matteo. Nel decreto di perquisizione esibito ieri dagli operanti della Guardia di Finanza, si fa espresso riferimento a delle chat che risulterebbero cancellate dal cellulare di Venturi. Le acquisizioni informatiche disposte ieri sui vari telefoni, sono necessarie per ricostruire il contenuto e verificare eventuali riferimenti ai contenuti dell’inchiesta. Nella memoria dei telefoni di Attilio Fontana, presidente leghista della Regione Lombardia e di quello di sua moglie Roberta Dini, anch’esso acquisito ed ispezionato, sono state reperite anche delle conversazioni relative alla vicenda della donazione dei camici alla Regione Lombardia da parte della società del cognato di Fontana.

Marco Grasso per “la Stampa” il 4 ottobre 2020. Tra i vari colpi di scena della caccia ai 49 milioni di euro della Lega c'è anche questo: un server che gli investigatori cercavano in Lussemburgo, contenente i dati delle operazioni della fiduciaria Pharus Management Lux Sa, viene ritrovato a migliaia di chilometri di distanza, a Bergamo, in un ufficio di via Maj, sede per anni dello studio di commercialisti della Lega Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. La Procura di Genova sperava di trovare in quei server le risposte ai dubbi sull'investimento lussemburghese da 10 milioni di euro partito dalla Banca Sparkasse di Bolzano, soldi che secondo gli investigatori potrebbero far parte dei capitali sottratti dai conti del Carroccio. Invece la Guardia di Finanza si è trovata di fronte a un computer bonificato. Qualcuno prima dell'arrivo degli inquirenti aveva cancellato tutti file sensibili. Il tema è emerso nei giorni scorsi durante una riunione congiunta tra le procure di Milano e Genova, che stanno indagando su aspetti diversi dell'inchiesta. A Milano è radicato il filone sulla compravendita di un immobile di Cormano con soldi pubblici dalla Lombardia Film Commission. Per quella vicenda sono stati arrestati Manzoni e Di Rubba (ex presidente dell'ente a guida regionale) insieme a un altro commercialista, Michele Scillieri. Genova invece segue i flussi finanziari usciti dai conti del partito dopo le dimissioni dell'ex tesoriere Francesco Belsito, condannato per una maxi-truffa ai danni dello Stato. L'originario tesoro si perde in una ragnatela di operazioni e società, che avrebbero consentito al Carroccio di occultare quei capitali dai sequestri della magistratura. Va in questa direzione l'indagine che porta in Lussemburgo. In epoca successiva alla gestione Belsito 10 milioni della Lega finiscono su un deposito della banca trentina Sparkasse. Il conto si svuota e viene chiuso. E poco tempo dopo una cifra molto simile riappare in un "conto transito", strumento che le banche utilizzano solitamente per investire fondi propri. Da qui 10 milioni vanno in Lussemburgo e, poco più tardi, a gennaio del 2018, 3 milioni rientrano in Italia. L'Italia sta per andare alle urne e il sospetto è che quei soldi siano un finanziamento della campagna elettorale. L'operazione viene segnalata a Bankitalia. La versione di Sparkasse è che i fondi appartengano all'istituto di credito. Una delle figure centrali di questa vicenda è Angelo Lazzari, finanziere bergamasco molto attivo con società lussemburghesi. C'è lui dietro alla Pharus, secondo la Finanza, e si avvale della collaborazione del manager Vito Luciano Mancini. Nell'inchiesta genovese non ci sono al momento indagati. Lazzari però è indagato in un altro fascicolo aperto a Milano dal pm Bruna Albertini, che sta conducendo accertamenti per truffa e autoriciclaggio su una girandola di società lussemburghesi. E ha radici nel Granducato anche un'altra società di Lazzari, che controlla sette società italiane con sede, ancora una volta, a quell'indirizzo di via Maj. Ecco perché gli investigatori stanno cercando di mettere ordine a questo groviglio e di chiarire quali siano i rapporti tra i commercialisti leghisti e Lazzari, il finanziere con la passione dell'offshore.

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 6 ottobre 2020. Un centinaio di nuove operazioni sospette che partono dal 2010 e arrivano al 2020. Dieci anni di movimentazioni finanziarie anomale, acquisizioni e vendite considerate prive di reale giustificazione economica, denaro che esce dalle casse della Lega e poi torna al partito. Oltre alle numerose "Segnalazioni di operazioni sospette" (Sos) dell'Antiriciclaggio di Banca d'Italia già agli atti dell'indagine sulla compravendita dell'immobile di Cormano, la Guardia di Finanza di Milano ha iniziato a lavorare su nuovi documenti. Un centinaio di nuove Sos tutte relative a soggetti già emersi nell'inchiesta sulla Lombardia Film Commission (Lfc), ma che - è il sospetto dei pm - potrebbero avere avuto già da anni un ruolo nella movimentazione dei fondi leghisti. Non solo i commercialisti Andrea Manzoni e Michele Scillieri e il revisore contabile della Lega al Senato Alberto Di Rubba, architetti della compravendita da 800 mila euro a Cormano. Le nuove Sos studiate dalla Gdf riguardano anche imprenditori legati al partito come Francesco Barachetti, l'ex idraulico diventato in pochi anni un colosso dell'impiantistica elettrica, o come Marzio Carrara, il "re delle stampe" di Bergamo, non indagato, che ha incassato centinaia di migliaia di euro dal Carroccio e che con Di Rubba ha portato a termine affari milionari. Nelle nuove segnalazioni, anche il ruolo dei parlamentari Giulio Centemero, tesoriere della Lega a processo a Milano per un finanziamento illecito da 40 mila euro, e Stefano Borghesi, altro commercialista bergamasco, non indagato. Entrambi soci, con Manzoni e Di Rubba, dello studio "Manzoni & Di Rubba Stp", terminale di 500mila euro arrivati solo nell'ultimo anno da Lega Nord, Lega per Salvini premier e Radio Padania . E ancora. Sotto il faro della Gdf altre due figure che sono il trait d'union tra l'inchiesta milanese del procuratore aggiunto Eugenio Fusco e del pm Stefano Civardi con quella genovese dei magistrati Francesco Pinto e Paola Calleri. Il primo nome è quello di Angelo Lazzari, negli atti della Lfc per il suo ruolo di socio di Di Rubba in Taaac, perquisito nell'inchiesta sui 49 milioni nell'indagine di Genova, dov' è segnalato come legale rappresentante della lussemburghese Iris Fund Sicav-Fis. L'altro nome è quello di Fabio Massimo Boniardi, deputato salviniano che con le sue società ha incassato dall'associazione "Maroni presidente" 450 mila euro per la stampa di volantini mai realizzati. Ora però con le nuove cento Sos l'inchiesta milanese allarga il suo raggio d'azione, cercando di ricostruire i rapporti col Carroccio di protagonisti e comparse dell'operazione Lfc fin dagli anni in cui il partito era guidato prima da Bossi e poi da Maroni. Nuovi atti che potrebbero trasformare l'indagine di Milano nel grimaldello che rompe il muro di mistero sulle strutture finanziarie utilizzate dalla Lega per mettere i propri fondi al riparo dalle pretese risarcitorie dei magistrati. Nello scambio di informazioni tra procure, Milano intende valorizzare anche il materiale sequestrato nel 2018 da Genova a Manzoni, Di Rubba e Lazzari. I pm milanesi lavorano anche su una pen drive sequestrata a Scillieri durante l'arresto. Il commercialista, nel cui studio è stata creata la lista "Per Salvini premier", aveva trasferito sulla chiavetta la memoria del suo pc. Materiale con cui la procura spera di dare ulteriore slancio all'indagine.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 6 ottobre 2020. Non ci sono solo i 30.000 euro «promessi e/o ricevuti» in cambio di un emendamento favorevole ai propri affari da Paolo Arata, imprenditore e consulente della Lega per le questioni energetiche, a far rischiare il processo per corruzione al senatore del Carroccio Armando Siri, sottosegretario del governo Conte I costretto alle dimissioni dopo l'indagine della Procura di Roma. C'è almeno un altro episodio svelato nella stessa inchiesta in cui «dal contenuto di numerose conversazioni tra gli indagati, confortate da servizi di osservazione, emerge come esponenti di Leonardo Spa (l'ex Finmeccanica, ndr ) abbiano utilizzato le relazioni privilegiate di Paolo Arata per sollecitare l'agire del senatore Siri a proprio vantaggio». Il pubblico ministero Mario Palazzi, titolare dell'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, ha raccolto elementi per sostenere che «tale pressante attività di lobbing abbia travalicato i confini del lecito, utilizzando intermediari disposti a veicolare indebite e rilevanti somme di denaro anche con proprio profitto». Fino a sfociare nella nuova contestazione: la «promessa di ingenti somme di denaro, e comunque la dazione di 8.000 euro», in cambio dei quali l'allora sottosegretario «si attivava per ottenere un provvedimento normativo ad hoc che finanziasse il progetto di completamento dell'aeroporto di Viterbo, di interesse della Leonardo Spa per future commesse». L'azienda controllata dallo Stato risulta al momento estranea alla presunta corruzione contestata invece a due suoi dipendenti, ora sospesi dal servizio: Paolo Iaboni e Simone Rosati. Scrivono gli inquirenti in un decreto di perquisizione ai due indagati, eseguito alcuni mesi fa dagli investigatori della Dia: «In più di una conversazione con distinti interlocutori (la prima il 13 novembre 2018, nella quale fa anche riferimento ad altro politico «a busta paga», la seconda il 5 dicembre 2018) Rosati fa esplicito riferimento alla corresponsione di 8.000 euro al senatore Siri, lamentandosi poi del suo scarso impiego per ottenere i risultati agognati». Nel capo d'accusa notificato ieri insieme all'avviso di conclusione delle indagini che anticipa la richiesta di rinvio a giudizio, c'è pure un ulteriore comportamento del parlamentare leghista considerato illecito: le pressioni - «esercitate direttamente e per interposta persona, tramite l'avvocato Lamberto Cardia, persona di sua fiducia», scrivono i pm - sull'ammiraglio Giovanni Pettorino, comandante generale della Guardia costiera, «al fine di determinarlo a rimuovere» un contrammiraglio responsabile di un appalto per la fornitura di sistemi radar Vts, «essendo questi invito alla Leonardo spa, in quanto critico su alcuni aspetti della fornitura». Secondo gli inquirenti, dietro questa manovra c'era sempre il giovane (appena ventinovenne) e intraprendente Simone Rosati, personaggio molto attivo nel Viterbese che attraverso un'altra persona ha agganciato Arata per arrivare a Siri. Al quale, racconta nelle conversazioni intercettate, avrebbe dato o promesso almeno 8.000 euro; senza peraltro ottenere che il senatore facesse qualcosa di utile a fargli avere ciò che voleva. Ma questo, per l'accusa, cambia poco; per la contestazione del reato basta la promessa. Arata, ex deputato di Forza Italia entrato in orbita leghista, è a sua volta coinvolto nei procedimenti penali siciliani che riguardano Vito Nicastri, l'imprenditore «re dell'eolico» condannato nell'ottobre 2019 a nove anni di carcere per «concorso esterno in associazione mafiosa», in virtù dei suoi rapporti con uomini legati al latitante Matteo Messina Denaro. Per i magistrati romani è significativa la «sovrapposizione temporale» fra i nuovi fatti contestati e «lo stabile accordo tra il corruttore Paolo Arata e il sottosegretario (ormai ex, ndr ) e senatore Armando Siri (di cui Arata è stato anche sponsor per la nomina in ragione delle relazioni intrattenute), costantemente impegnato nel promuovere provvedimenti regolamentari o legislativi che contengano norme ad hoc tese a favorire gli interessi economici dell'Arata, ampliando a suo favore gli incentivi per l'energia elettrica da fonte rinnovabile a cui non ha diritto».

La magistratura a caccia dei rimborsi. “Niente persecuzioni, i 49 milioni spesi in attività politica prima di Salvini”, parla il tesoriere Giulio Centemero. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'8 Ottobre 2020. «Siamo sotto il fuoco incrociato di chi ci vuole morti», dice Giulio Centemero, il tesoriere della Lega che alla Camera dei Deputati siede in commissione Finanze. Chi starebbe provando a eliminare il partito di Salvini dalla scena politica non risiede nello stesso palazzo. «C’è una caccia alle streghe verso di noi, un intento persecutorio che non si limita alla magistratura ma riguarda un incrocio di poteri forti».

Chi vi vorrebbe morti?

«Pensiamo a quel che ha detto Palamara nella famosa intercettazione, che rivela tanto: Salvini ha ragione ma dobbiamo dargli contro. In quel “dobbiamo” si tradisce il mandato, secondo noi ricevuto da più mandanti».

E il movente?

«Stiamo crescendo molto. Abbiamo dimostrato di saper governare a livello comunale, regionale e nazionale. Siamo diventati l’unico forte progetto di rinnovamento profondo del sistema».

Veramente le ultime amministrative non sono andate benissimo, soprattutto al Sud.

«La Lega è una pianta che al Nord è stata piantata tanti anni fa, ed è cresciuta. Ha messo radici, si è sviluppata. Al Sud è una piantina messa a dimora di recente. Il lavoro lì è agli inizi».

Anche i bossi sono piante ornamentali, da giardino.

«Non mi tocchi negli affetti. Bossi è stato il grande ispiratore della mia vita. Ho iniziato a fare politica a 17 anni, colpito da lui e da Miglio. Ho studiato a fondo il federalismo e ho sempre creduto in una Lega federalista e liberale».

Oggi invece è nazionale e sovranista.

«Siamo un partito vero, pluralista, partecipato. Siamo per l’Italia quello che è il Partito Repubblicano negli Stati Uniti. Da noi trova il conservatore di destra, il cattolico moderato, il laico libertario e tanti liberali veri, tra i quali il sottoscritto».

Giorgetti da che parte sta?

«Giorgetti è un leghista doc, con tanta passione per la politica e una sana cultura di governo».

Con tanti distinguo e un richiamo: stop agli errori come l’astensione in Europa sulla Bielorussia.

«E in quel caso ha pienamente ragione, ma credo sia stato un errore tecnico, una svista superficiale e non una posizione ragionata.

Se tornassimo indietro, quindi…

«Non voteremmo più come abbiamo fatto. Abbiamo tenuto subito a ribadire la nostra posizione di netta distanza dal regime di Lukashenko e la nostra appartenenza, perfino scontata, alle democrazie liberali occidentali. Siamo all’opposto esatto di quella dittatura».

Lei ha studiato anche all’estero, in una università americana.

«Laurea in economia alla Statale di Bergamo, poi revisore dei conti in Price Waterhouse Cooper, quindi ho lavorato per Ibm in Uk, master alla Boston University di Bruxelles, un Mpa in Bocconi».

Un Master in Public Administration, praticamente l’Ena italiano. Sarete pochissimi ad averlo, qui in Parlamento. Con questo curriculum, ha deciso di dedicarsi alla Lega?

«Quella per la politica è una passione che mi ha sempre accompagnato. E quando ho conosciuto Salvini mi ha coinvolto del tutto, dandomi la possibilità di vivere da protagonista la stagione della moralizzazione».

Che era iniziata con Maroni, con le famose scope sul palco…

«Io Maroni non l’ho mai conosciuto di persona. Seguivo la politica, sapevo chi fosse. Ma non avevo rapporti di alcun tipo. Salvini diventa segretario nel dicembre 2013, per un po’ prosegue la gestione Stefano Stefani, io divento tesoriere nel settembre 2014».

Che rapporto aveva con Belsito?

«Non l’ho mai conosciuto di persona».

Ma era un suo predecessore.

«Il mio predecessore è Stefani. Io e Belsito non ci siamo mai visti, io sono arrivato quando Matteo Salvini è diventato segretario e da lì in poi ha inizio la mia gestione. Di Belsito posso dire che idea mi sono fatto: uno che ha fatto politica arruffianandosi i leader, senza alcuno skill economico-finanziario. Fu un errore metterlo lì, anche se Bossi ha agito, ne sono certo, in buona fede».

Dei 49 milioni cosa può dirmi?

«Intanto, che le tranches di finanziamento pubblico cui è riferita quell’inchiesta erano erogate sulla base del totale complessivo dei voti ricevuti, con un complesso meccanismo di saldi progressivi (stabilito, ovviamente, dalla legge). Quei fondi erano stati spesi tutti prima che arrivasse Salvini: i rendiconti fanno riferimento agli esercizi 2008, 2009, 2010. Soldi spesi per l’attività politica. Nello stesso periodo, per fare un esempio, il Pd ha speso molto di più».

Che però è un vostro grande accusatore.

«Le posso confessare una cosa, off the records? Più di un deputato del Pd parlando tra noi mi ha detto “lo sappiamo che non sono spariti quei soldi, che sono stati spesi”. Un partito come il nostro, o come il Pd, costa 1 milione e mezzo al mese. Peccato che è diventato uno stigma. Appena parliamo di un argomento, sul territorio, alla Camera, sui social, ecco subito qualcuno che grida ai 49 milioni».

Possibile che una parte di quel denaro abbia alimentato la Bestia di Luca Morisi?

«No, lo escludo anche per ragioni di calendario: Morisi seguiva la Lega con molta minore intensità, prima di Salvini. È dal 2014 in poi che si è strutturato, ha assunto persone e sviluppato la Bestia come è oggi. Gli anni di esercizio cui si fa riferimento non possono riguardare le sue attività».

Parliamo di una inchiesta che la riguarda, Più Voci.

«Sono in corso le indagini, io mi sono messo a disposizione della Procura con un atteggiamento più che collaborativo. Viene contestato il finanziamento illecito ai partiti ma in realtà di quanto raccolto con il fundraising nulla è andato al partito o è stato destinato ad attività politica. Peraltro le erogazioni ai partiti godono di un vantaggio fiscale maggiore rispetto alle erogazioni a un’ associazione di quel tipo. Quindi davvero la cosa non avrebbe senso».

Lei è ancora presidente dell’associazione?

«No, abbiamo sciolto Più Voci. Anche perché era nata da poco, i primi soci hanno visto l’inchiesta e si sono messi paura».

Più le persone si allontanano dalla Lega e più si rafforza Fdi. Siete vasi comunicanti.

«Mi fa piacere pensare che stiamo crescendo entrambi, anche recuperando al voto tanti che non votavano più. Noi però veniamo da un’altra storia, e anche essere nati nella culla del ceto produttivo del Nord incide sull’essere liberali, cosa che dimostriamo nel lavoro parlamentare di tutti i giorni».

Eppure nel governo Conte I la Lega ha avallato lo statalismo duro e puro dei Cinque Stelle.

«In politica, se non hai la maggioranza da solo, devi fare compromessi. Abbiamo dovuto accettare il reddito di cittadinanza».

In cambio di Quota 100. Altro provvedimento controverso.

«Si può ritenere che sia stato un successo o un insuccesso. Continuo a pensare che andava fatto, è un tema di giustizia sociale: ai tempi del governo Monti troppe persone rimasero per strada, senza reddito né pensione. Ho visto i numeri, e so che è stata utilizzata da aziende che non cito, anche grandi, per favorire l’ingresso di giovani nel mondo del lavoro».

Cosa teme del processo di Catania?

«I veleni che sparge. Perché è un processo farsa, questo ce lo confermano tutti i penalisti che sentiamo. Basato su decisioni politiche prese da un ministro in accordo con il Governo. Ma tenere Salvini sul banco degli imputati serve al tentativo di decostruirne l’immagine pubblica. E questo in una democrazia liberale occidentale, visto che di questo abbiamo parlato prima, non può e non deve esistere».

"Lega, pronta la super perizia che smonta le fughe di soldi". Il tesoriere del Carroccio respinge le accuse: "Nessun fondo nero né contabilità occultate in Lussemburgo". Stefano Zurlo, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. È il custode dei presunti segreti di via Bellerio. Solo che lui rimanda le accuse al mittente: «Non esiste una contabilità occulta della Lega, non esistono fondi neri, non ci sono conti all'estero». Giulio Centemero è un serafico commercialista di 41 anni dall'aria trasognata. Ma guai a sottovalutare questo tecnico prestato alla politica e diventato deputato: ha le chiavi del forziere più indagato d'Italia, all'incrocio di inchieste puntute e di innumerevoli reportage, ma (a differenza di molti altri nella sua posizione) argomenta sempre e non scappa mai davanti alle domande.

«Le dico l'ultima - accenna senza perdere una dose omeopatica di ironia - sui giornali questa settimana abbiamo letto di cento segnalazioni all'autorità giudiziaria di operazioni sospette compiute dalla Lega. Bene, fra le cento operazioni su cui l'Antiriciclaggio della Banca d'Italia ipotizza chissà quali crimini c'è persino il bonifico bimestrale da 100mila euro che parte da Banca Intesa e va a finire sul Fondo unico della giustizia».

La rata dei 49 milioni da restituire alla magistratura genovese?

«Esatto. Mi sembra una situazione paradossale, a meno di non voler immaginare che noi smistiamo direttamente nelle casse della Procura di Genova i nostri fantomatici fondi neri».

Quello dei 49 milioni è sempre un capitolo aperto.

«Perché?»

Gli investigatori sospettano che almeno dieci milioni siano arrivati in Lussemburgo.

«No, io in Lussemburgo ci sono passato un paio di volte in macchina».

I soldi sarebbero usciti da una filiale della Sparkasse di Bolzano e sarebbero stati investiti nel fondo lussemburghese Pharus Management dopo un valzer di passaggi e spostamenti fra fiduciarie e conti di transito. Nega anche questa ricostruzione?

«Falso. I 49 milioni sono stati spesi, come ha sempre detto Matteo Salvini, per mantenere la Lega. Nessuna cospirazione. Nessun intrigo. Nessun giro strano all'estero».

Non le pare una giustificazione un po' vaga? Molto vaga.

«E allora le do una notizia: è in arrivo una superperizia che abbiamo affidato ad una delle big four per ricostruire tutta la contabilità della Lega fra il 2010 e il 2017, quando ci sono stati i primi sequestri: sarà pronta fra poche settimane e sarà, nei limiti del possibile, esauriente. Tenga presente che Salvini è arrivato a dicembre 2013, io sono tesoriere dal settembre 2014. A quell'epoca era già arrivata anche l'ultima tranche dei rimborsi elettorali del triennio 2008-2010, insomma i famosi 49 milioni. E in cassa era rimasto poco o niente».

Che fa scarica su Belsito che, peraltro, secondo i giudici, era l'artefice della grande truffa?

«Non posso escludere che Belsito abbia permesso di utilizzare per scopi personali della famiglia Bossi una parte dei fondi della Lega».

La laurea in Albania del figlio Renzo, le multe del Trota, i costi del dentista e tutto il resto.

«Non posso escluderlo, ma la perizia smonta analiticamente la leggenda del tesoro portato in Lussemburgo o chissà dove. Faccio anche notare un modesto dettaglio».

Quale?

«Quando Lusi ha portato via il tesoro della Margherita il partito è stato accreditato come vittima, nel caso di Belsito la Lega è stata dipinta come complice».

Ma la situazione era diversa: Belsito non era in combutta con Bossi?

«Erano sempre risorse tolte alla Lega. Certo, nel 2013 il partito aveva una gestione molto onerosa e le spese arrivavano a quota 27 milioni l'anno. Un'enormità».

Col suo arrivo?

«Le ho ridotte a 4 milioni, anche toccando la carne viva dei dipendenti del partito. Una scelta drammatica, ma non avevo alternative. Oggi siamo risaliti, ma la Lega è molto più grande ed è presente anche al Sud: in questo momento le spese ammontano a circa 9 milioni l'anno».

Il modello cui si è ispirato?

«Il leader di mercato: quello che oggi è il Pd e che nel 2008 aveva ricevuto la bellezza di 182 milioni di finanziamento pubblico. Da loro ho copiato l'articolazione territoriale con le sedi regionali. Pensi che prima la Lega aveva un unico codice fiscale per tutta Italia. Una follia: una banalissima bolletta della luce dimenticata dalla sede di Venezia poteva essere richiesta ai militanti di Torino o Fidenza».

Ora la accusano di essere socio in alcune società con i due commercialisti, Manzoni e Di Rubba, arrestati per le oblique vicende della Lombardia Film Commission. Un'altra tegola?

«Con loro, peraltro professionisti stimati, ho un rapporto di amicizia. Sono stato, nel passato, amministratore di una società che avrebbe dovuto occuparsi di marketing e invece è rimasta sempre inattiva. Viva solo sulla carta».

Poi?

«Sono socio al 2 per cento del loro studio professionale».

Come mai?

«A differenza di Manzoni, Di Rubba è laureato in economia ma non è commercialista».

E questo che c'entra?

«L'Ordine di Bergamo non voleva una società fra professionisti in cui uno solo dei due fosse commercialista».

Lei è corso ad aiutarli?

«Erano vicini alla Lega e il sottoscritto, laureato in economia e commercialista, ha dato loro una mano. Ma non ho mai incassato dividendi né emesso fatture».

Michele Scillieri, il terzo professionista finito in manette?

«Lo conosco. Niente di più».

Francesco Barachetti?

«Lo dipingono come un'altra pedina di un sistema obliquo di relazioni, ma la verità è molto più terra terra. È un idraulico a capo di un'impresa seria e affidabile che sa fare un po' di tutto. Barachetti e i suoi operai stanno ristrutturando pezzo a pezzo via Bellerio. Insomma, lui è un fornitore e io lo pago. Se poi con quei soldi si compra la villa in Sardegna, come ho visto in un servizio televisivo, sono fatti suoi».

In realtà si sospetta che Barachetti abbia retrocesso, come dicono gli inquirenti parte dei soldi incassati proprio alla Lega.

«Ripeto: lavora per noi e noi lo paghiamo. Non ci sono fatture gonfiate o, peggio, inesistenti».

Niente prestanomi?

«Le assicuro: nessun prestanome, testa di legno o altro».

Eppure è tutto un grandinare di contestazioni sulla Lega.

«Si, è vero ma è anche vero che ci muovono contestazioni bizzarre: per esempio i 450 mila euro all'associazione Maroni Presidente. Ho sentito adombrare addirittura il riciclaggio perché quei denari sarebbero andati chissà dove. Ma quello era solo un prestito infruttifero e i 450mila euro sono tornati indietro, giusto in tempo per essere sequestrati. Anche se non ho ancora capito le ragioni di quell'intervento così duro e invasivo».

Inchiesta 49 milioni, arriva la superperizia che scagiona la Lega.  Salvini sotto attacco giudiziario? Perché l'arma dei pm è sempre perdente. Il Tempo il 09 ottobre 2020. Una superperizia che scagiona la Lega piomba sull'inchiesta che indaga sui presunti fondi occulti e sui famosi 49 milioni del partito di via Bellerio. «Non esiste una contabilità occulta della Lega, non esistono fondi neri, non ci sono conti all’estero». Lo afferma Giulio Centemero, tesoriere della Lega, in un’intervista al quotidiano Il Giornale evidenziando inoltre che «sui giornali questa settimana abbiamo letto di cento segnalazioni all’autorità giudiziaria di operazioni sospette compiute dalla Lega. Bene, fra le cento operazioni su cui l’Antiriciclaggio della Banca d’Italia ipotizza chissà quali crimini c’è persino il bonifico bimestrale da 100mila euro che parte da Banca Intesa e va a finire sul Fondo unico della giustizia». La rata dei 49 milioni da restituire: «Esatto. Mi sembra una situazione paradossale, a meno di non voler immaginare che noi smistiamo direttamente nelle casse della Procura di Genova i nostri fantomatici fondi neri». «I 49 milioni sono stati spesi, come ha sempre detto Matteo Salvini, per mantenere la Lega. Nessuna cospirazione. Nessun intrigo. Nessun giro strano all’estero. - continua Centemero - è in arrivo una superperizia che abbiamo affidato ad una delle big four per ricostruire tutta la contabilità della Lega fra il 2010 e il 2017, quando ci sono stati i primi sequestri: sarà pronta fra poche settimane e sarà, nei limiti del possibile, esauriente. Tenga presente che Salvini è arrivato a dicembre 2013, io sono tesoriere dal settembre 2014. A quell’epoca era già arrivata anche l’ultima tranche dei rimborsi elettorali del triennio 2008-2010, insomma i famosi 49 milioni. E in cassa era rimasto poco o niente».

Salvini sotto attacco giudiziario? Perché l'arma dei pm è sempre perdente.

«La perizia smonta analiticamente la leggenda del tesoro portato in Lussemburgo o chissà dove. Faccio anche notare un modesto dettaglio. Quando Lusi ha portato via il tesoro della Margherita il partito è stato accreditato come vittima, nel caso di Belsito la Lega è stata dipinta come complice».

Socio in alcune società con i due commercialisti, Manzoni e Di Rubba, arrestati per le oblique vicende della Lombardia Film Commission? «Con loro, peraltro professionisti stimati, ho un rapporto di amicizia. Sono stato, nel passato, amministratore di una società che avrebbe dovuto occuparsi di marketing e invece è rimasta sempre inattiva. Viva solo sulla carta. - spiega Centemero - Sono socio al 2 per cento del loro studio professionale. A differenza di Manzoni, Di Rubba è laureato in economia ma non è commercialista. L’Ordine di Bergamo non voleva una società fra professionisti in cui uno solo dei due fosse commercialista. Erano vicini alla Lega e il sottoscritto, laureato in economia e commercialista, ha dato loro una mano. Ma non ho mai incassato dividendi né emesso fatture». Francesco Barachetti? «Lo dipingono come un’altra pedina di un sistema obliquo di relazioni, ma la verità è molto più terra terra. È un idraulico a capo di un’impresa seria e affidabile che sa fare un po' di tutto. Barachetti e i suoi operai stanno ristrutturando pezzo a pezzo via Bellerio. Insomma, lui è un fornitore e io lo pago. - conclude Centemero - Se poi con quei soldi si compra la villa in Sardegna, come ho visto in un servizio televisivo, sono fatti suoi. Ripeto: lavora per noi e noi lo paghiamo. Non ci sono fatture gonfiate o, peggio, inesistenti».

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 12/10/2020. Tre trust. Un indirizzo, via Amadei 4, a Milano. Una complessa ingegneria bancaria tra la Svizzera e Milano. E tre inchieste, apparentemente scollegate, e che invece da qualche settimana hanno preso a incrociarsi sui tavoli dei finanzieri del Nucleo di Polizia valutaria, tra Roma e Milano: l'indagine sulla fornitura dei camici alla regione Lombardia da parte della Dama, la società del cognato (e della moglie) del Governatore, Attilio Fontana. Quella sui cinque milioni di euro del presidente della Regione, ereditati dalla mamma su un conto svizzero e scudati per il rientro in Italia. E quella sui commercialisti della Lombardia Film commission. […]

Rai, la Lega contro Report: "Becera propaganda politica, le inchieste dimenticano Pd e M5s". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020. La Lega torna a puntare il dito contro la Rai. "Ormai - si sfogano i parlamentari del Carroccio in commissione di Vigilanza - fa quasi tenerezza l’accanimento mediatico dell’informazione della tv pubblica contro il partito di Matteo Salvini". La riprova? "Basta un rapido sguardo all’elenco delle prossime inchieste di Report per rendersene conto". Massimiliano Capitanio, Giorgio Maria Bergesio, Dimitri Coin, Umberto Fusco, Igor Iezzi, Simona Pergreffi e Paolo Tiramani sfogliano le nuove puntate del programma di Rai 3 condotto da Sigfrido Ranucci: "Queste - proseguono - hanno sempre gli stessi obiettivi: Lega e il governatore della Lombardia, Attilio Fontana. Non un solo minuto, invece, su Pd e M5S e sugli scandali che hanno travolto il Lazio, la Campania e gli stessi partiti". Sui giallorossi vige infatti "il silenzio assoluto", in barba alla par condicio. "Questa - è il duro attacco - non è libertà di stampa, ma becera propaganda politica pagata con i soldi dei contribuenti".

 Da Maroni a Fontana c’è sempre quel notaio nelle indagini sulla Lega. La Repubblica il 13 ottobre 2020. Angelo Busani, esperto di trust societari, ha gestito affari per 38 milioni. Spunta nelle inchieste sui fondi spariti, sui camici e sui tre contabili. Nelle inchieste che in questi anni hanno travolto, coinvolto e sfiorato la Lega - dall'ex tesoriere Belsito ai 49 milioni di rimborsi elettorali da restituire, passando per il presidente della Lombardia Attilio Fontana, fino ad arrivare all'indagine sulla Lombardia Film Commission - c'è una costante che si ripete. Un nome e un cognome: il notaio Angelo Busani. Originario di Parma, studio in via Santa Maria Fulcorina, cuore della city finanziaria milanese, Busani è ...

Fondi Lega, un commercialista indagato confessa la «messinscena». Lombardia Film commission, Scillieri si sfila e ammette. I giudici del Riesame: si tratta di «uomini di partito». L’inchiesta è nata dall’acquisto di un capannone di Cormano con versamenti per 800 mila euro. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2020.  Si rompe il fronte difensivo tra i tre commercialisti vicini alla Lega arrestati a causa della vicenda Lombardia film Commission per peculato e altri reati. Michele Scillieri, nel cui studio di Milano era domiciliata nel 2017 la Lega per Salvini premier, ammette ai pm che Alberto Di Rubba ed Andrea Manzoni, soci di studio a Bergamo e revisori del Carroccio alla Camera e al Senato, hanno incassato illegalmente 178 mila euro versati da Andromeda srl, la società dietro la quale si celava lo stesso Scillieri che aveva venduto per 800 mila euro il capannone ad Flc. Sono «uomini di partito», scrive confermando i domiciliari il Tribunale del riesame al quale la Procura dichiara che, oltre a questa operazione, «rimangono sicuramente da esplorare altri ancor più delicati settori in cui il “pool” di commercialisti ha impiegato la propria professionalità». Quei 178 mila euro, afferma il Tribunale presieduto da Maria Cristina Mannocci, sono stati incassati Di Rubba che, come presidente di Flc, aveva ideato l’operazione usando «la propria professionalità per mascherare con contratti, fatture e pareri, i passaggi di denaro unicamente finalizzati all’arricchimento proprio e del proprio socio Manzoni». Ai pm Stefano Civardi ed Eugenio Fusco i due commercialisti bergamaschi hanno dichiarato che si trattava di una «provvigione per la mediazione» nell’acquisto per 250 mila euro di un terreno in Alta Val Seriana da parte di Andromeda producendo una scrittura privata sulla quale, però, c’è una data successiva, contesta l’accusa. «È una fattura per un’operazione inesistente», «una pezza» con un «errore da dilettanti», ha sostenuto Scillieri che ha ammesso «accordi» tra loro «per spartirsi i soldi». Secondo la Guardia di Finanza di Milano, infatti, gran parte degli 800 mila euro sarebbe finita nella loro tasche. La vicenda delle sede Flc è una «messinscena», scrivono i giudici, allestita dai commercialisti per appropriarsi dei fondi versati dalla Regione Lombardia. Anche perché non c’erano «particolari ragioni né di urgenza, né di natura economica, né di comodità» per acquistarla «al doppio del valore» (mercoledì l’attuale presidente Alberto Dell’Acqua ha però detto che il prezzo era «congruo») un anno prima del rogito e poi farla ristrutturare dall’impresa di Francesco Barachetti. Un «personaggio molto legato a Di Rubba e Manzoni e, più in generale, al mondo della Lega il cui ruolo non è stato ancora ben chiarito», dice la Procura. Di Rubba e Manzoni possono inquinare le prove, dicono i giudici. Come dimostra un incontro a Roma con esponenti della Lega ai «piani altissimi della politica» per risolvere la questione del licenziamento di un direttore di banca che, «verosimilmente prezzolato», aveva «coperto» i loro affari.

Fondi Lega, arrestato l'idraulico Barachetti diventato milionario coi soldi del partito. Nell'indagine sulla Lombardia Film Commission finisce ai domiciliari anche l'imprenditore che ha fatto da sponda ai vorticosi movimenti di denaro proveniente dai conti del partito di Matteo Salvini. Nei mesi scorsi erano stati arrestati anche Di Rubba e Manzoni, i due commercialisti bergamaschi legati al Carroccio. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 13 novembre 2020. Francesco Barachetti, l’idraulico della Val Seriana che ha accumulato una fortuna milionaria grazie agli appalti della Lega di Matteo Salvini, è stato arrestato su richiesta del procuratore aggiunto Eugenio Fusco e del pm Stefano Civardi, titolari dell’inchiesta della procura di Milano sul caso Lombardia film Commission. Prima di lui nei mesi scorsi erano finiti ai domiciliari anche Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, i due contabili del Carroccio considerati i registi dell’operazione immobiliare che, secondo l’accusa, ha fruttato oltre 800 mila euro di profitti agli indagati ai danni della fondazione pubblica regionale. Barachetti, come dimostrano gli atti d’indagini, era un personaggio centrale nel vorticoso giro di denaro che aveva come sponde anche il partito di Salvini e società a questo collegati. Col tempo, in parallelo ai movimenti di denaro, era cresciuto a gran velocità anche l’impresa dell’idraulico grande amico di Di Rubba, come lui originario Casnigo, paesino della Val Seriana in provincia di Bergamo. Barachetti, 43 anni, che dal padre Giuseppe aveva ereditato un’impresa artigianale specializzata in lavori idraulici, nell’arco di un paio di anni si è tuffato a corpo morto in altri settori d’attività: elettricità, ristrutturazioni edilizie, pulizie fino alla sanificazione, che in tempi di pandemia è diventato un business ricchissimo. Nelle settimane del lockdown è proprio l’azienda dell’amico di Di Rubba a intervenire per mettere in sicurezza i locali della sede milanese della Lega, in via Bellerio. Già che c’era, Barachetti negli anni scorsi ha investito alla grande in immobili. Oltre alle ville in Sardegna, ha comprato un’intera palazzina nel centro storico di Casnigo, messa in vendita dal Comune e ora la sta ristrutturando. Nella vicina Gazzaniga, invece, si è messo in affari con la parrocchia e con la locale casa di riposo che gli hanno venduto un paio di appartamenti. Il monumento al successo dell’idraulico leghista e dei suoi sodali si trova sulla statale che da Bergamo porta a Clusone, a poche centinaia di metri dal bivio con i tornanti che salgono verso Casnigo. Impossibile non notare quell’enorme capannone coperto da un telo bianco e azzurro con una scritta a caratteri cubitali: “Barachetti service”. Poco più in basso, sulla stessa strada, uno scatolone nero in vetro e cemento ospita l’autonoleggio della coppia Di Rubba-Manzoni. Nsa servizi, recita l’insegna a bordo strada, una società che negli ultimi quattro anni ha fatto soldi a palate grazie alla Lega, di gran lunga il cliente più importante. Il fatturato è aumentato dai 175 mila euro del 2016 ai 717 mila registrati nel 2019. La svolta risale al 2015 quando Giulio Centemero, legatissimo a Salvini, da poco nominato tesoriere della Lega, chiama Manzoni, suo ex compagno di università, per occuparsi dei conti del partito. Il bergamasco Manzoni è socio di studio di Di Rubba, il quale conosce da una vita Barachetti. Entrambi sono cresciuti a Casnigo e vengono da famiglie di imprenditori con attività in settori affini, visto che i Di Rubba erano titolari di un’azienda di trattamento acque, la Biodepuratrice. Affare fatto, quindi. I due commercialisti entrano nel cerchio magico di Salvini e l’amico idraulico vede moltiplicarsi il giro d’affari grazie alle commesse della Lega. Tra il 2013 e il 2018 il fatturato della Barachetti service è passato da 616 mila a 4,1 milioni di euro. E nelle informative della Guardia di Finanza agli atti dell’inchiesta di Milano si legge che nell’arco di un triennio, dal 2016 alla fine del 2018, dalla galassia leghista sono usciti quasi 2 milioni di bonifici verso i conti bancari della società di Barachetti. Una parte di quei soldi, secondo quanto hanno ricostruito gli investigatori, prende subito il volo e torna nella disponibilità di Di Rubba e Manzoni, a loro volta destinatari di ricche prebende dal partito di Salvini. Oltre al denaro versato alla Nsa, di cui si è detto, ci sono oltre 500 mila euro destinati tra il 2015 e il 2018 alla già citata Dea, società controllata dai due professionisti. Questa girandola di operazioni alimenta dubbi e sospetti. A proposito di Barachetti, in un rapporto dell’Ufficio informazioni finanziarie (Uif) della Banca d’Italia si legge che «le operazioni di accredito (verso i conti di Barachetti, ndr) connotate da importo tondo e da periodicità non in linea con gli usi di mercato, erano seguite da operazioni di segno contrario in favore di professionisti o società riconducibili al partito». Un meccanismo tipico del riciclaggio, con l’obiettivo di rendere il più difficile possibile identificare la destinazione ultima dei soldi.

Da ansa.it il 13 novembre 2020. L'imprenditore Francesco Barachetti è stato arrestato e posto ai domiciliari nell'inchiesta sul caso Lombardia Film Commission. La misura cautelare è stata eseguita dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf nell'indagine dell'aggiunto Eugenio Fusco e del pm Stefano Civardi. E' accusato di concorso in peculato ed emissione di false fatture nella vicenda della vendita del capannone di Cormano a prezzo gonfiato. L'imprenditore dagli atti dell'indagine risulta vicino alla Lega. Già arrestati, tra gli altri, nei mesi scorsi Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, revisori contabili per il Carroccio in Parlamento. L'imprenditore Francesco Barachetti, elettricista e titolare della Barachetti service srl, impresa edile, era già indagato per peculato nel caso LFC e i pm, in uno degli atti dell'indagine, lo hanno definito "personaggio legato a Di Rubba e Manzoni", due dei commercialisti arrestati, e "più in generale al mondo della Lega". Oggi è stato arrestato su disposizione del gip Giulio Fanales e come esigenza cautelare è stato indicato il pericolo di reiterazione del reato. Da un'annotazione della Gdf, è emerso che parte degli 800mila euro della presunta vendita gonfiata del capannone per la LFC, ossia 390mila euro, sono passati proprio per la Barachetti service (arrivati da Andromeda srl e attraverso Eco srl). Barachetti formalmente si occupò della ristrutturazione del capannone, ma i magistrati gli hanno contestato ora anche l'emissione di false fatture per operazioni inesistenti. Barachetti avrebbe impiegato, tra l'altro, 45mila euro per acquistare "rubli russi", che sarebbero serviti per un'operazione immobiliare a San Pietroburgo. Da segnalazioni di Bankitalia risulta che Barachetti (negli atti si parla anche della moglie russa, socia e non indagata, Tatiana Andreeva) avrebbe ottenuto dalla Lega o da entità collegate, come la Pontida Fin, oltre 2 milioni di euro negli ultimi anni. E in una recente informativa della Gdf emergono elementi che dimostrerebbero che i contabili della Lega lavoravano all'operazione, assieme all'imprenditore Barachetti, da quasi 13 mesi prima della vendita effettiva, che risale al dicembre 2017. Intanto, il presunto prestanome Luca Sostegni (fermato a luglio) e l'altro commercialista arrestato Michele Scillieri stanno collaborando coi pm, il primo ormai da settimane e con sei interrogatori. Il Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, che ha eseguito l'arresto dell'imprenditore Francesco Barachetti nell'inchiesta sul caso Lombardia Film Commission, sta effettuando perquisizioni a carico di altri due indagati. Uno è Pierino Maffeis, amministratore della Eco srl, società che trasferì il denaro incassato da Andromeda srl per la vendita gonfiata del capannone di Cormano a Barachetti service, "simulando il pagamento di fatture per operazioni inesistenti". L'altro è Elio Foiadelli, amministratore della Sdc "che dietro emissione e annotazione di fatture per operazioni inesistenti riceveva il denaro da Immobiliare Andromeda e lo trasferiva a Di Rubba e Manzoni", i due contabili della Lega. L'imprenditore Francesco Barachetti "è in grado di rapportarsi alla pari" con "esponenti del mondo delle professioni che vantano entrature politiche di prim'ordine, tanto da avanzare nei loro confronti, mediante minaccia, pretese sempre crescenti in merito alla spartizione del profitto illecito". Lo scrive il gip di Milano Giulio Fanalese nell'ordinanza d'arresto per il caso Lombardia Film Commission. "Non può non sottolinearsi - scrive il gip - l'acclarata disponibilità, in capo al Barachetti, di un sicuro canale internazionale, utile a convogliare, in tutto o in parte, verso un paese extra Unione Europea, la Russia, le somme di derivazione pubblicistica oggetto d'impossessamento".

Follow the money. Report Rai PUNTATA DEL 26/10/2020 di Luca Chianca, collaborazione di Alessia Marzi. A settembre scorso vengono arrestati i due contabili della Lega di Matteo Salvini, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, con l'accusa di peculato e turbativa d'asta. Al centro dell'inchiesta che li vede coinvolti, c'è l'acquisto per 800 mila euro della nuova sede della Lombardia film Commission, un capannone a nord di Milano. L'operazione immobiliare sembrava impeccabile, quando lo scorso anno Report ci mette il naso, però, emergono un bel po' di anomalie. Dopo l'inchiesta "I commercialisti" del 10 giugno 2019 arriva in redazione la telefonata dal Brasile di  un uomo che sostiene di aver partecipato anche lui all'operazione immobiliare e di sapere parecchie cose che riguardano i fondi per la campagna elettorale del Capitano. L'uomo al telefono si chiama Luca Sostegni, fa il prestanome e, dopo mesi di ricerca, lo incontriamo a Montecatini. In un'intervista esclusiva ai microfoni di Report, spiega come avrebbe girato buona parte dei soldi della vendita del capannone su una società panamense con i conti in svizzera. Luca Chianca si mette così sulle tracce di questa società, arrivando fino a Prado, in Brasile.

“FOLLOW THE MONEY” di Luca Chianca collaborazione Alessia Marzi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tutto comincia da questo capannone che è nella provincia di Milano. Ad un certo punto diventa, nel 2018, la sede della Fondazione Lombardia Film Commission, una fondazione partecipata dalla Regione, che dovrebbe promuovere il cinema possibilmente quello di qualità. Ecco il Presidente della Fondazione nominato dall’ex governatore della Lombardia Maroni, è Alberto di Rubba, che è anche il direttore amministrativo del gruppo alla Camera della Lega Nord. Di Rubba si consiglia per l'acquisto di questo capannone, che pagherà poi la Film Commission 800mila euro, con un commercialista Michele Scillieri, che non è un commercialista qualsiasi. Nel suo ufficio è stata posta per la prima volta la prima sede del partito di Salvini, la Lega per Salvini Premier. Ora Scillieri che cosa fa? Consiglia per l'acquisto un capannone che è di proprietà di una società che fa riferimento a suo cognato. Questa società l'aveva comprato a sua volta per 400 mila euro da un signore, che a sua volta l’aveva comprato da una vedova per mille euro. Ecco, che fine hanno fatto questi quattrocento mila euro e chi è questo signore? Un bel giorno, anzi una sera al nostro Luca Chianca arriva una telefonata. Chi è?

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI Salve, sono Luca Sostegni.

LUCA CHIANCA Come sta?

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI Insomma, ci sarebbe tanto da raccontare, però…

LUCA CHIANCA Sono qui apposta per ascoltarla guardi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Luca Sostegni ci telefona dal Brasile, dove si era rifugiato. È il prestanome legato ai commercialisti della Lega arrestati a settembre con l'accusa di aver sottratto fondi pubblici per l'acquisto della nuova sede della Lombardia Film Commission, una fondazione partecipata dalla Regione. Della storia ci eravamo occupati un anno fa, quando eravamo riusciti a intervistare il commercialista Michele Scillieri, una delle menti dell'operazione, insieme ai due contabili della Lega Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Un’operazione costata 800mila euro.

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI Io gli chiedevo: “Ma dio bono questi soldi dove vanno a finire?” "Eh sai nella campagna elettorale del Capitano, no?” Questo è quello che dicevano.

LUCA CHIANCA Ma a lei risulta questa cosa, cioè che i soldi andassero a Matteo Salvini, al partito, oppure no?

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI Eh…risulta, io i bonifici l'ho fatti. A una fiduciaria panamense con sede in Svizzera.

LUCA CHIANCA E quanto gli ha bonificato lei?

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI 325 mila euro. In un futuro casino, cioè loro diciamo, loro ne uscivano puliti.

LUCA CHIANCA La fiduciaria panamense è riconducibile a chi quindi?

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI Praticamente è Michele che gestiva la fiduciaria. Nel senso io partecipavo ma l'operatività era di Michele.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In questo palazzo di Milano, c’è lo studio del commercialista Michele Scillieri. È qui che hanno messo la prima sede del nuovo partito di Matteo Salvini.

LUCA CHIANCA Però uno si aspetta che almeno la sede di partito sia una sede vera. Con…

MICHELE SCILLIERI –COMMERCIALISTA No, e uno si aspetta questo, bravo.

LUCA CHIANCA Con persone e militanti veri, no? Poi uno suona e risponde lei, che fa il commercialista.

MICHELE SCILLIERI –COMMERCIALISTA Sì, rispondo io ma tante cose…

LUCA CHIANCA Lei fa anche il fiduciario no?

MICHELE SCILLIERI –COMMERCIALISTA In che senso fiduciario?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sì il fiduciario e il suo prestanome, il prestanome di Michele Scillieri sarebbe stato Luca Sostegni. Per questo Scillieri viene arrestato dai magistrati della Procura di Milano che indagano su questa vicenda. L’accusa è peculato e turbativa d’asta. Poi scrivono i magistrati “importanti elementi di riscontro sono stati raccolti grazie all'inchiesta di Report”. Di quali elementi parlano? Ecco il nostro Luca Chianca aveva fatto un'inchiesta su questa vicenda proprio un anno fa e aveva scoperto questo conflitto di interessi che coinvolgeva Scillieri: consulente della Film Commission che compra il capannone e consulente della società, che poi era amministrata da suo cognato, che vendeva il capannone. Arrestati con la stessa ipotesi di accusa anche i due contabili della Lega Di Rubba e Manzoni, che è anche il revisore dei conti del gruppo della Lega Nord al Senato. Entrambi sono amici di università del tesoriere della Lega Giulio Centemero. Ecco qui in questa foto che Report vi propone in esclusiva festeggiano tutti insieme in un noto locale milanese con Matteo Salvini. Insomma Luca Sostegni, abbiamo visto, ad un certo punto telefona a Luca che cosa dice? “Io ho fatto da prestanome ho comprato per 1000 euro questo capannone da una vedova, l’ho rivenduto alla società che faceva riferimento a Michele Scillieri, lui mi chiede di bonificare i 400mila euro, parte di questi 400mila euro su dei conti in Svizzera che fanno riferimento a una società panamense e ci telefona un po' arrabbiato perché qualcuno gli aveva promesso che per questa operazione avrebbe incassato, intascato 50mila euro gliene hanno dati solo 20. E' arrabbiato allora dice: “adesso racconto tutto a Report, ci metto la faccia, vi do dei documenti però mi date voi i soldi che mi dovevano dare loro. Com'è andata a finire?

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI Io sono praticamente scappato perché ho avuto sentore che qualcosa stava succedendo. Mi era stato detto che mi davano 50 mila euro, io ne ho presi 20 e poi praticamente non mi è stato dato più niente. Sono spariti tutti come sempre.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Rimasto a bocca asciutta, Sostegni prova a incassare da noi. Ci chiede 30mila euro in cambio dei bonifici fatti in Svizzera e di un'intervista esclusiva.

AL TELEFONO LUCA SOSTEGNI I documenti io praticamente li ho lasciati a una persona a Milano di fiducia, mio. Lui si chiama Marco Affri.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È a Marco Affri che Sostegni ha lasciato il suo memoriale e la copia dei bonifici. Per trovarlo bisogna andare a Chiaravalle, un borgo a sud di Milano, in piena campagna. È Affri che ci chiede i soldi per conto di Sostegni.

LUCA CHIANCA Quando mi ha chiesto i soldi io chiaramente, i soldi, la Rai non può pagare le informazioni, no? Infatti per quello ero rimasto un po' perplesso anche quando lei me l'ha proposto, mi ha detto è lui che ci guadagna?

MARCO AFFRI Guardi che lui cioè vuole qualcosa, cioè non è che lo fa gratis perché sennò rischiavate veramente di crearvi problemi. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I problemi sorgono dopo che lo stesso Sostegni confessa di aver parlato con noi di Report. Il timore che Sostegni ci consegnasse le prove dei bonifici e ci svelasse i dettagli di un’operazione che doveva rimanere segreta, agita il sonno di Michele Scillieri. Come emerge dalle intercettazioni di sua moglie e di suo cognato, Fabio Barbarossa, proprio l’amministratore di Andromeda che aveva acquistato il capannone da Sostegni e l’aveva rivenduto alla Film Commission.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA DEL 12.11.19 FRANCESCHINA BARBAROSSA Luca dice di sapere delle cose sul discorso della Lega. Lui ha già contattato Report che sono disposti ad andare in Brasile.

FABIO BARBAROSSA Minchia…

FRANCESCHINA BARBAROSSA Per fare un articolo in più sulla Lega o su Salvini immagino…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Prado, Stato di Bahia, 200 km a sud di Porto Seguro. È qui che ci portano le ultime tracce di Luca Sostegni, dove con l'ex moglie aveva aperto una pizzeria.

DONNA Luca non è più qui.

LUCA CHIANCA Lui mi aveva telefonato e mi aveva detto che stava qui.

DONNA Però… stava qui ma è andato in Italia.

LUCA CHIANCA È tornato in Italia.

DONNA E come ci hai trovato con il satellite?

LUCA CHIANCA Su Facebook, pubblicate tutto!

DONNA Eh è così! Per quella situazione di Michele, vero?

LUCA CHIANCA Brava, Scillieri.

DONNA Il nostro matrimonio praticamente è finito per quello là, lui faceva tutto quello che voleva Michele, tutto, tutto, tutto, lui era praticamente schiavo di lui, sai? E lui prendeva soldi. Lui stava sempre insieme con una persona della politica che era…

LUCA CHIANCA Della Lega?

DONNA Della Lega, Andrea.

LUCA CHIANCA Andrea Manzoni.

DONNA Perché Luca firmava per loro. Praticamente è venuto qui per scappare da questa situazione quindi Luca non ha preso un cazzo di questi soldi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È per questo che non lo troviamo. Luca Sostegni era da poco rientrato in Italia per farsi dare i soldi promessi. E dopo essersi messo subito in contatto con Scillieri, lo informa che noi di Report eravamo stati in Brasile.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA DEL 18.3.20 LUCA SOSTEGNI Questi pazzi scatenati sono andati in Brasile, cioè quelli di Report.

MICHELE SCILLIERI Sì.

LUCA SOSTEGNI Luca, quello che conosci te.

MICHELE SCILLIERI Ma non ci posso credere, no, non ci posso credere…

LUCA SOSTEGNI Dicendo che tornano in Italia a cercarmi

MICHELE SCILLIERI Sono pazzeschi, ma sono pazzeschi, cioè sono da prendere e schiacciare con un dito al muro, ma son pazzi!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci vorrebbero schiacciare al muro. Perché cosa temono possa trovare Report? Ora Luca Sostegni, il prestanome, dopo che ha detto buca con noi, insomma non abbiamo mai pagato mai una fonte in 25 anni di storia, torna dai commercialisti gli dice guardate che ho Report alle calcagna, insomma fa intender che devono dargli quello che gli avevano promesso e qui il commercialista Scillieri va fuori di testa. Comincia una discussione nell'ambito del gruppo. Chi deve pagare Sostegni? Insomma una soluzione va trovata poi comincia anche una trattativa privata e scende in campo un pezzo da 90, addirittura il legale della Lega, Zingari.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Marco Tradati è il presidente della Fidirev, è indagato per riciclaggio. Perché sui conti della sua fiduciaria, Luca Sostegni, seguendo le indicazioni di Scillieri, ha versato i 324 mila euro provenienti dalla vendita del capannone. Soldi poi trasferiti a Lugano sul conto di una società panamense di nome Gleason, e da lì si perdono le tracce.

LUCA CHIANCA Mi dia solo un secondo, questa Gleason Sa…

MARCO TRADATI – FIDIREV Mi spiace, non posso proprio, proprio, proprio…

LUCA CHIANCA Società a Panama, me la spieghi un secondo…

MARCO TRADATI – FIDIREV Sono in riunione con della gente.

LUCA CHIANCA Me la spieghi un secondo, Scillieri e il ruolo di Scillieri.

MARCO TRADATI – FIDIREV Scusi un attimo.

LUCA CHIANCA Se mi può dire semplicemente questa società, se la conosce.

MARCO TRADATI – FIDIREV Mi dispiace.

LUCA CHIANCA Mi risulta avere il conto in Svizzera e la sede a Panama.

MARCO TRADATI – FIDIREV Senza offesa, non posso, sono in riunione.

LUCA CHIANCA Mi dica solo a chi andavano i soldi.

MARCO TRADATI – FIDIREV Scusi sono in riunione.

LUCA CHIANCA Me lo dice a chi andavano i soldi?

MARCO TRADATI – FIDIREV Sono in riunione, scusi, senza offesa, non posso veramente…

LUCA CHIANCA Me lo dice dopo.

MARCO TRADATI – FIDIREV Grazie, grazie.

LUCA CHIANCA Passo dopo, me lo dice dopo o no? Adesso è in riunione, dopo posso avere...

MARCO TRADATI – FIDIREV Sono concentrato su una cosa, mi dispiace.

LUCA CHIANCA Io ripasso dopo.

MARCO TRADATI – FIDIREV Grazie, grazie.

LUCA CHIANCA Grazie a lei.

MARCO TRADATI – FIDIREV Chiudo la porta.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tutti mantengono il riserbo su questa vicenda. Ma per conservare il suo silenzio e non svelare i particolari dei bonifici a Report. Sostegni vuole i soldi promessi. E secondo il commercialista Scillieri a pagarli devono essere i due contabili della lega Di Rubba e Manzoni.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA DEL 14/05/20 MICHELE SCILLIERI- COMMERCIALISTA Non rompessero i coglioni va bene? Tirano fuori 25mila euro domani perché ce li hanno e se non ce li hanno li rubano come hanno sempre rubato sennò Luca fa la denuncia e li fa fallire fine. Hanno ciucciato una montagna di soldi dalla Lega, una montagna! Non ti dico 49 milioni ma non ci siamo lontani sai? Ma non mi devono scassare le balle perché io di cose ne so, e vorrei tenermele per me e portarmele nella tomba.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma prima di pagare Sostegni, secondo il suo avvocato Lapo Becattini, intercettato, è necessario fornire forti garanzie.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA DEL 23/4/2020 LAPO BECATTINI – AVVOCATO LUCA SOSTEGNI Il problema è capire come convincerli sul presupposto che Luca Sostegni nel momento in cui riceve questi soldi sparisce, ma sparisce significa che non risponde ai giornalisti perché questo è il nodo, è il nodo principale.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Proprio per avere la garanzia che non parli più con noi, secondo i magistrati, viene avviata una lunga trattativa tra l'avvocato di Sostegni e l’avvocato Roberto Zingari che, oltre a tutelare gli interessi dei commercialisti Andrea Manzoni e Alberto di Rubba, è uno dei legali della Lega di Matteo Salvini. Lo stesso che segue la vicenda dei 49 milioni di euro.

LUCA CHIANCA Avete paura che Sostegni venga da noi a raccontare tutta la storia, questo era il tema no?

LAPO BECATTINI – AVVOCATO LUCA SOSTEGNI Mi perdoni, nessuno ha paura di niente.

LUCA CHIANCA Me la spiega la trattativa che avete fatto con l'avvocato Zingari.

LAPO BECATTINI – AVVOCATO LUCA SOSTEGNI Le ho già detto quello che dovevo dirle.

LUCA CHIANCA L'avvocato Zingari è molto preoccupato con lei.

LAPO BECATTINI – AVVOCATO LUCA SOSTEGNI Non c'è preoccupazione.

LUCA CHIANCA Lo dice lei al suo cliente.

LAPO BECATTINI – AVVOCATO LUCA SOSTEGNI Mi perdoni, abbiamo già parlato telefonicamente, le ho già ripetuto che ho un dovere deontologico, non posso riferire su trattative per cui io ero in prima persona investito in un ruolo.

LUCA CHIANCA Insieme all'avvocato Zingari, avvocato della Lega.

LAPO BECATTINI – AVVOCATO LUCA SOSTEGNI Io. Non so chi sia l'avvocato della Lega, io stavo facendo una trattativa e non posso rispondere in merito a quella trattativa, punto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alla fine della trattativa trovano una soluzione: i soldi a Sostegni, li deve tirare fuori Francesco Barachetti, amico e vicino di casa di Alberto Di Rubba e gran fornitore della Lega. Proprio Barachetti aveva infatti incassato 390mila euro per la ristrutturazione del capannone acquistato dalla Film Commission. Soldi di fatto pagati dal pubblico. Barachetti per comprare il silenzio di Sostegni avrebbe dovuto acquistare, pagandoli più del loro valore, una decina di box in questo palazzo di Desio di proprietà proprio di Sostegni. Queste foto riprendono l’imprenditore vicino alla Lega e Sostegni mentre fanno il sopralluogo per l'acquisto delle cantine, ma alla fine l'affare salta.

LUCA CHIANCA Avvocato buongiorno, Chianca di Report, a chi è venuto in mente la storia di far comprare a Barachetti i box di Sostegni?

ROBERTO ZINGARI – AVVOCATO LEGA SALVINI PREMIER No, no assolutamente.

LUCA CHIANCA Lei è avvocato Lega conosce tutta la vicenda, tutto quello che è successo.

ROBERTO ZINGARI – AVVOCATO LEGA SALVINI PREMIER Sono un avvocato.

LUCA CHIANCA ed è, penso, anche molto amico sia di Di Rubba che di Manzoni.

ROBERTO ZINGARI – AVVOCATO LEGA SALVINI PREMIER Sono tenuto al segreto professionale.

LUCA CHIANCA A chi è venuto in mente questa cosa di pagare il silenzio di Sostegni attraverso i box auto, avvocato?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’unico che aveva manifestato la volontà di parlarci è Sostegni, lo troviamo a Montecatini, pochi giorni prima il suo arresto, dove si era nascosto dal fratello.

LUCA CHIANCA Luca, buongiorno, Chianca di Report.

LUCA SOSTEGNI Ah!

LUCA CHIANCA Ci siamo sentiti qualche tempo fa, che mi dici? Te li hanno dati poi i soldi?

LUCA SOSTEGNI No.

LUCA CHIANCA Niente?

LUCA SOSTEGNI No, dai lasciamo perdere non voglio entrare in questo merito qui perché sto rischiando di andar in galera per niente, lasciamo perdere.

LUCA CHIANCA Quell'operazione è servita per fare, cioè questo me lo dicevi tu, per pagare la campagna elettorale a Salvini. Questo ti dicevano loro.

LUCA SOSTEGNI Non so che dirti, scusami ma io non voglio saper più niente di queste cose perché sto rischiando veramente troppo, io già sono con un piede nella fossa sentiamoci tra 15 giorni poi vediamo quello che…

LUCA CHIANCA Perché tra 15 giorni?

LUCA SOSTEGNI Lo so io, lo so io perché.

LUCA CHIANCA Aspetti che ti diano il resto?

LUCA SOSTEGNI Lo so io.

LUCA CHIANCA Però l’idea della Film Commission a chi è venuta in mente? Chi è che ha pensato che lì potevano scapparci dei soldi un po' per tutti.

LUCA SOSTEGNI Loro erano in cerca di una sede per… da acquistare perché avevano questi fondi da investire e hanno fatto questa operazione. Ma niente di…

LUCA CHIANCA Luca adesso mi presenti questa come un'operazione normale. Sei scappato in Brasile per quell'operazione lì, di che stiamo parlando? Ci hai chiesto soldi, sei venuto da noi per raccontarci informazioni inedite e adesso è come se questa storia fosse una semplice storia di acquisto.

LUCA SOSTEGNI Non è una questione, io te l’ho spiegato chiaramente. Non voglio infilarmi ulteriormente nei casini senza avere nulla in cambio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Pochi giorni dopo Sostegni verrà arrestato per tentata estorsione. Ma perché aveva cambiato idea rispetto a quella telefonata generosa fatta dal Brasile dove aveva manifestato l'intenzione di raccontare tutto? Perché aveva ottenuto in cambio la promessa dei soldi quelli che mancavano per compensarlo della sua prestazione da prestanome. Ecco infatti che cosa fa Sostegni subito dopo? Chiama Scillieri al telefono e in segno di rinnovata fedeltà gli dice guarda “mi hanno intercettato quelli di Report, ma io li ho mandati a quel paese, ti ho difeso a spada tratta”. Non sapeva di essere intercettato dagli investigatori che l'avrebbero appunto arrestato poco prima che scappasse in Brasile. Ma cosa aveva di così prezioso il silenzio di Sostegni al punto da essere oggetto di una trattativa e di essere pagato? Temevano che Report trovasse questo il suo memoriale scritto di suo pugno dove ha appuntato ogni passaggio della compravendita del capannone diventato sede della Film Commission. Scrive Sostegni: “ho fatto una falsa ricerca immobiliare per influenzare l'esito della gara e l'ho data personalmente a Di Rubba, di aver fatto sopralluoghi al capannone insieme ai due contabili della Lega Manzoni e Di Rubba, indica le date esatte dei bonifici fatti per un totale di 324mila euro sulla società panamense che, secondo quanto aveva riferito Scillieri, sarebbero serviti per le spese della campagna elettorale di Salvini. Ma il capitano di tutto questo che cosa sa?

VOCE FUORI CAMPO COMIZIO SALVINI Il nostro capitano accogliamolo come merita. Facciamo sentire la voce di Loano.

LUCA CHIANCA Sostegni è stato arrestato a luglio, parla che i soldi che sono andati in Svizzera documentati, ci sono tutti i bonifici, andavano per la campagna elettorale del capitano.

MATTEO SALVINI Ho piena fiducia nella magistratura.

LUCA CHIANCA Beh risponda almeno…

MATTEO SALVINI Non commento le indagini della magistratura ho troppo rispetto per la magistratura, le lascio commentare a voi.

LUCA CHIANCA Lei e Centemero avete un ruolo nelle nomine, comunque nell’indicazione dei presidenti, prima Di Rubba, poi Farinotti, lei lo ha indicato. Dell’Acqua è stato messo lì appena arriva dice l’operazione è tutta regolare, poi escono fuori tutte queste notizie.

MATTEO SALVINI Ho piena fiducia nella magistratura, se vuole andiamo avanti tre quarti d'ora annoiamo i telespettatori, ho troppo rispetto per i giudici per commentare elementi che non ho a disposizione.

LUCA CHIANCA Basterebbe che lei rispondesse a qualche domanda

MATTEO SALVINI Ho piena fiducia nella magistratura, non ho gli elementi di cui lei sta parlando quindi ho totale fiducia nella magistratura.

LUCA CHIANCA Avrà parlato con Manzoni, Centemero, sono tutti...

MATTEO SALVINI Non parlavo di capannoni.

LUCA CHIANCA Non parlava di capannoni?

MATTEO SALVINI No, non parliamo di capannoni.

LUCA CHIANCA Sono tutti suoi uomini, le persone più fidate, più vicine a lei, gestiscono un'operazione da 800mila euro.

MATTEO SALVINI Ma secondo lei io mi occupo di capannoni?

LUCA CHIANCA No, ma non può non sapere queste cose, Senatore…

MATTEO SALVINI Eh non può non sapere, ho piena fiducia in lei, le voglio bene la stima e nella magistratura.

LUCA CHIANCA Anche io si figuri, la stimo e le voglio bene anche io…

MATTEO SALVINI Ma se fa lavorare anche i suoi colleghi, perfetto. Domande di vita reale?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel frattempo nella vita reale alla Film Commission qualcosa è cambiato. Al posto di Pino Farinotti, succeduto a Di Rubba, la Regione guidata da Fontana ha nominato Alberto Dell'Acqua, professore alla Bocconi. Molto vicino al tesoriere della Lega Centemero, con cui condivide cui anche il progetto Hub39. Dell’Acqua è stato nominato presidente di Italgas in quota al partito di Salvini. E da poco indicato, sempre dalla Lega, consulente nella commissione di inchiesta sulle banche dove siede anche il tesoriere delle Lega Centemero. Tra i primi atti da presidente della Lombardia Film Commission c’è una relazione che nega conflitti d'interessi in capo a Scillieri.

LUCA CHIANCA Presidente buongiorno, Chianca di Report, come sta?

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Bene, grazie.

LUCA CHIANCA Lombardia Film Commission.

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Sì.

LUCA CHIANCA Quota Lega, chiaramente. Quanto incide il suo rapporto con Centemero? In queste nomine?

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Nessuno.

LUCA CHIANCA Nessuno? Fate parte anche di questa community Hub39, organizzate eventi insieme.

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Ma è una cosa vecchia che non fa più niente.

LUCA CHIANCA Vabbè, però diciamo che avete un ottimo rapporto, possiamo dire che siete amici.

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Comunque vi ringrazio ma io non ho nulla da dire.

LUCA CHIANCA E io invece qualche domandina a lei gliela vorrei fare. Senta invece veniamo alla Lombardia Film Commission. Lei scrive una relazione in cui sostanzialmente dopo neanche un mese dal suo insediamento avalla tutta la linea dell'operazione.

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION No io mi sono appoggiato sugli atti e documenti che erano presenti in fondazione quanto aveva redatto l'organismo di vigilanza.

LUCA CHIANCA Presidente quei documenti sono quasi imbarazzanti letti oggi.

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Questo lo dite voi.

LUCA CHIANCA Be' lei scrive “Scillieri non ha conflitti d'interesse“.

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Giuridicamente non era in una posizione decisionale.

LUCA CHIANCA Ma lei si rende conto che è il cognato che ha venduto l'immobile alla Film Commission e lei dice non ci sono conflitti di interesse.

ALBERTO DELL'ACQUA – PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Giuridicamente no, studiatevi il diritto, arrivederci.

LUCA CHIANCA Giuridicamente no, questa è la sua risposta, visto che giuridicamente non è un problema, ma lei si rende conto?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Chi l’aveva preceduto alla guida della Film Commission si era molto arrabbiato. È Giuseppe Farinotti. Era toccato a lui firmare l’atto di acquisto del capannone. E si era molto irritato perché aveva scoperto di essere stato messo di fronte all’atto compiuto. E che l’intera cifra di 800 mila euro era stata già pagata da Di Rubba dopo un semplice preliminare.

GIUSEPPE FARINOTTI – EX PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION È vero che io mi sono molto arrabbiato, è verissimo.

LUCA CHIANCA Perché ti hanno fatto un po' un bidone questo lo possiamo dire?

GIUSEPPE FARINOTTI – EX PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Embè sì certo eh. È stata una delle prime cose come Presidente che ho firmato, mi mettono davanti un documento che deriva dalla Regione, dal governatore Fontana, dall'assessore Galli e io lo firmo, non devo pensare che ci siano dietro delle cose strane, capito?

LUCA CHIANCA Cioè ti hanno detto firmalo.

GIUSEPPE FARINOTTI – EX PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Certo mi hanno detto “sei il presidente dobbiamo acquisirla devi essere tu che firmi il rogito” tutto qua.

LUCA CHIANCA Invece sulla tua nomina voluta da Salvini?

GIUSEPPE FARINOTTI – EX PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION L'ho incontrato e dopo qualche mese mi ha chiamato Fontana e mi hanno dato la nomina e basta, io non avevo nessuna ragione di sospettare che ci fossero dietro delle cose strane.

LUCA CHIANCA Dico Salvini ti ha incontrato e che ti ha detto?

GIUSEPPE FARINOTTI – EX PRESIDENTE LOMBARDIA FILM COMMISSION Basta chiuso, chiudiamo la telefonata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora cos’è che ha fatto irritare l’ex presidente della Film Commission. Gli avrebbero tirato un bidone. Qual è? Il fatto di averlo messo di fronte ad un atto compiuto ha firmato un contratto di acquisto che era stato già saldato di fatto 9 mesi prima al momento del contratto preliminare e secondo i magistrati di Milano che hanno confermato gli arresti domiciliari per gli indagati quella dell'acquisto di questo capannone sarebbe una gigantesca messa in scena che sarebbe servita esclusivamente per drenare denaro pubblico. In effetti se uno segue la traccia dei soldi il sospetto viene. Che cosa è avvenuto? Che un prestanome ha comprato per mille euro un capannone da una vedova, e poi l'avrebbe rivenduto per 400 mila euro a una società di riferimento di Michele Scillieri che è anche amministrata da suo cognato. Ora Scillieri, praticamente, che cosa dice praticamente al prestanome: “mi versi parte di questi 400mila euro sui conti di una società svizzera che fa riferimento a una società panamense, servirebbero a pagare la campagna elettorale di Salvini”. Ora se questo è vero lo stabiliranno i magistrati, sono tutti innocenti fino a prova contraria. Quello che è certo però è che Scillieri è nella triplice veste di cognato della società che ha comprato questo capannone, consulente e anche consulente della Film Commission dell’amico Di Rubba a cui viene rivenduto questo capannone alla cifra di 800 mila euro comprese le spese di ristrutturazione. E A chi vanno questi soldi? E qui spuntano altre anomalie. 480 mila finiscono in una “una società veicolo” che non sarebbe neanche in grado di compiere un lavoro” che è di proprietà di un geometra che a sua volta gira 390mila euro a un idraulico che è anche un grande fornitore della Lega, ma è soprattutto un vicino del contabile della lega Di Rubba. L’idraulico poi gira circa 100 mila euro a una società riconducibile sempre ai contabili della Lega Manzoni e Di Rubba. A cui arrivano altri 178mila euro dalla società che aveva venduto il capannone. Alla fine 278mila euro finiscono anche ad un'altra società che acquista due splendide villette nel villaggio green residence a Sirmione a Desenzano del Garda, destinate alla villeggiatura dei due contabili della Lega Di Rubba e Manzoni. E pensare che i soldi destinati alla Film Commission avevano una mission particolare quella di incrementare il patrimonio culturale del nostro paese.

Esclusivo - Seriate, Bergamo: ecco il crocevia segreto dei soldi della Lega di Matteo Salvini. Vittorio Malagutti il 13 agosto 2020 su L'Espresso. Esclusivo - Seriate, Bergamo: ecco il crocevia segreto dei soldi della Lega di Matteo Salvini. Milioni di euro in una piccola filiale bancaria finiti sui conti di società controllate dai due commercialisti del Carroccio. La stessa agenzia da cui è partito anche il bonifico per acquistare la nuova sede di Lombardia Film Commission. Un affare su cui adesso indaga la procura di Milano. Un’anonima filiale bancaria della Bergamasca. Un’agenzia come tante, al piano terra di una palazzina moderna, con le vetrine affacciate su uno stradone trafficatissimo. Passa da qui, tra affari sospetti e finanziamenti pubblici spariti, la pista dei soldi della Lega. Secondo quanto L’Espresso ha potuto ricostruire, almeno 2 milioni di euro provenienti dal partito di Matteo Salvini sono approdati all’Ubi di Seriate, già Popolare di Bergamo. Un fiume di denaro con un’unica destinazione, sempre la stessa, quella banca nel cuore della provincia lombarda. Approdo finale dei bonifici, decine e decine di operazioni nell’arco degli ultimi sei anni, erano i conti correnti intestati a società riconducibili ad Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, i commercialisti di fiducia del partito di Matteo Salvini. Non è un caso che proprio la filiale di Ubi a Seriate sia diventata una sorta di porta girevole per i soldi della Lega. Da quelle parti il bergamasco Di Rubba, 41 anni, poteva contare su un amico di vecchia data come Marco Ghilardi, il direttore dell’agenzia su cui adesso si sono concentrate le attenzioni degli investigatori. Un rapporto, quello tra il professionista targato Lega e il funzionario di Ubi, che risale molto indietro nel tempo, almeno una decina di anni. E strada facendo, come vedremo, i due hanno anche concluso un affare insieme, scambiandosi la quota di controllo di una società. Ghilardi, classe 1970, una carriera tutta interna ai ranghi della banca bergamasca, nei giorni scorsi è stato a lungo interrogato come testimone dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi. I due magistrati della procura di Milano sono i titolari dell’inchiesta per peculato e turbativa d’asta sull’acquisto nel 2017 della nuova sede della Lombardia film commission, presieduta da agosto 2014 fino a giugno del 2018 da Di Rubba, ora indagato insieme al collega Manzoni. Dalle carte ufficiali si scopre che a gennaio del 2016 la fondazione a controllo regionale ha aperto un conto, il 6224, proprio all’Ubi di Seriate. Una scelta che a prima vista appare inspiegabile. Perché mai l’ente guidato dal commercialista della Lega decise di rivolgersi proprio a quell’agenzia distante una sessantina di chilometri dalla propria sede di Milano, la capitale finanziaria del Paese? Tutto appare più chiaro alla luce dei documenti bancari, decine di pagine che raccontano degli stretti rapporti tra Di Rubba e Ghilardi, il direttore della filiale in provincia di Bergamo. Un immobile pagato il doppio del suo valore a una società collegata al giro dei commercialisti del partito. Denaro pubblico finito poi a società riconducibili sempre agli stessi professionisti. E sullo sfondo l'ombra di un prestanome dei clan fuggito in Brasile. Un giallo, che secondo i detective di Bankitalia è nel mirino anche della procura di Milano. Il conto all’Ubi di Seriate nelle settimane scorse è finito al centro dell’indagine dei magistrati del capoluogo lombardo. A dicembre del 2017, infatti, dal deposito intestato a Lombardia film commission è partito un bonifico di 790 mila euro per il pagamento di un immobile di Cormano, nell’hinterland milanese, destinato a ospitare i nuovi uffici dell’ente. Quel fabbricato, un vecchio capannone malmesso, era stato acquistato solo 11 mesi prima per 400 mila euro,  come ha rivelato un’inchiesta dell’Espresso pubblicata nell’aprile dell’anno scorso . Una rivalutazione a dir poco sorprendente: il 100 per cento nell’arco di un anno, e per di più a spese di un ente pubblico. Insomma, l’operazione gestita da Di Rubba si rivelò un affarone per il venditore, cioè l’Immobiliare Andromeda, che aveva come unico azionista la società Futuro Partecipazioni. Quest’ultima era amministrata da Michele Scillieri, commercialista con studio a Milano, ora anche lui indagato. È invece finito in carcere Luca Sostegni, presunto prestanome nella prima fase del complesso affare. Circa 780 mila euro in 13 mesi, fino ad almeno novembre 2019. Fondi che arrivano dal contributo spettante al gruppo parlamentare della Lega e che possono essere utilizzato solo per attività dello stesso (e non del partito). Per l’antiriciclaggio si tratta di bonifici sospetti. E ci sono altri 500mila euro "anomali". Una volta incassati da Immobiliare Andromeda, i proventi di quella fortunata vendita si sono dispersi in mille rivoli. E in molti casi, come hanno scoperto gli investigatori, i beneficiari dei pagamenti erano società molto vicine ai due professionisti bergamaschi. Ancora una volta il crocevia decisivo si trova alla filiale Ubi di Seriate. Il 10 dicembre 2017, cinque giorni dopo aver incassato il prezzo della vendita del palazzo di Cormano, l’Immobiliare Andromeda versa 178.500 euro sul conto corrente 6460 dell’Ubi di Seriate intestato alla Sdc srl, una società costituita nel 2016 con capitali provenienti dallo studio Dea Consulting di Di Rubba e Manzoni. I quali, come rivela l’esame della documentazione bancaria, tra il 2016 e il 2018 hanno ricevuto in totale quasi 370 mila euro (198 mila per Di Rubba, 171 mila per Manzoni) provenienti da quello stesso conto alimentato anche da  versamenti di Radio Padania , che fa capo al partito di Salvini. Altri 62 mila euro sono invece andati dalla Sdc al tesoriere della Lega, il deputato Giulio Centemero, da sempre in ottimi rapporti, anche d’affari, con i due commercialisti. Studio Dea Consulting, Cld srl, Nsa srl, Sdc srl: ecco i nomi delle società, tutte con il conto all’Ubi di Seriate, che hanno ricevuto i pagamenti con il marchio del Carroccio. Queste sigle nei mesi scorsi sono finite nei rapporti dell’Uif, l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. Gli analisti hanno ricostruito la girandola di bonifici bancari che collegano le casse della Lega con i più svariati destinatari. Una serie di operazioni, conclude il documento dell’Uif, che sembrano «finalizzate alla ricezione di consistenti fondi dalla Lega Nord e da soggetti collegati a tale partito sotto forma di pagamenti di prestazioni professionali», di cui però, si legge nelle carte dell’indagine, appare «dubbia l’effettività». In altre parole, c’è il fondato sospetto che quei bonifici siano in realtà serviti ad arricchire pochi fortunati attingendo alle case del partito. Questo gran traffico di bonifici, in gran parte qualificati dai tecnici di Bankitalia come operazioni sospette, non poteva passare inosservato a Ghilardi, il direttore della filiale che, come detto, vantava una frequentazione di lunga data con Di Rubba. La carriera dei due amici si era incrociata una prima volta già molto tempo prima. Anche il commercialista della Lega, infatti, ha un passato da impiegato di banca: nel 2001, appena diplomato ragioniere aveva trovato un posto all’allora Popolare di Bergamo, lo stesso istituto, destinato a trasformarsi in Ubi, dove già da una decina d’anni lavorava il futuro direttore della filiale di Seriate. La conferma nero su bianco degli ottimi rapporti tra Ghilardi e Di Rubba arriva da un documento rintracciabile negli archivi della Camera. Il nome del commercialista lombardo compare infatti nel lungo elenco degli aspiranti consiglieri d’amministrazione della Rai depositato a Montecitorio un paio di anni fa. Una notizia inedita: non si era mai saputo che il professionista sponsorizzato dalla Lega aspirasse addirittura a un posto in prima fila nella tv di Stato. Ogni candidatura doveva essere accompagnata da un curriculum vitae e in quello di Di Rubba alla voce “referenze” viene testualmente indicato “Marco Ghilardi, Popolare di Bergamo - Ubi”. Un immobile di una società della galassia salviniana. Vale 400 mila euro. Ma viene venduto al doppio. A una fondazione partecipata della Lombardia. E i soldi finiscono anche a una srl. La stessa che paga i commercialisti e il tesoriere del Carroccio. Porta invece la data dell’11 dicembre 2009 una compravendita che vede protagonisti il direttore di banca di Seriate e il futuro presidente di Lombardia film commission. Quel giorno l’intero capitale della società Partecipazioni srl viene ceduto da Ghilardi. A rilevare le quote al valore nominale di 10 mila euro è un’altra società a responsabilità limitata, la Dea, rappresentata da Alberto Di Rubba e dal fratello Enrico. Gli atti consultati da L’Espresso non aiutano a comprendere per quale motivo la Partecipazioni srl, costituita solo due mesi prima, sia stata ceduta. Certo è che la società fondata da Ghilardi arriva in fretta a fine corsa: viene incorporata dalla controllante Dea, di proprietà dei Di Rubba. La sigla Dea può infatti essere letta come l’acronimo delle iniziali di Domenico e dei due figli Enrico e Alberto. Correva l’anno 2013 e la Lega, chiusa la parentesi di Bobo Maroni, si affidava al nuovo segretario Matteo Salvini. Parte da lì la gran volata di Di Rubba: incarichi pubblici e affari privati. Con milioni di euro che dalle casse del partito finiscono a minuscole società. Un tesoretto depositato nei conti dell’Ubi di Seriate, nell’agenzia diretta dall’amico Ghilardi.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 26 luglio 2020. «Ce l'hanno tutti con me e non capisco perché». È dall'inizio dell'emergenza virus, e dagli errori a catena della Regione Lombardia, che il presidente Attilio Fontana ripete questo spartito. Mentre piovevano su di lui e sul sistema che rappresenta - non erano i migliori? Non fungevano da «locomotiva d'Italia»? Ma suvvia quante fake news! - indagini per il Pio Albergo Trivulzio e per il resto degli ospizi diventati luoghi di strage con l'arrivo incontrollato di malati di Covid mischiati agli altri pazienti; polemiche per l'inadeguatezza colpevole di assessori e dirigenti sanitari; accuse per non aver chiuso in tempo il territorio ed avere così infettato il resto d'Italia. Disastro Pirellone. E adesso ci mancava soltanto il «cognato» a rendere ancora più pesante l'insostenibile leggerezza dell'essere che unisce il governatore leghista con la sua regione. La tegola caduta sulla testa di Fontana, per la vicenda del cognato imprenditore, per il caso della moglie, dei camici, delle mascherine, al di là degli sviluppi giudiziari che potrà avere o non avere s' inserisce in una gestione dell'emergenza Coronavirus che certo Nord non ha saputo maneggiare. Facendo pagare ai cittadini del resto d'Italia un'imperizia mista a bassi interessi economico-territoriali su cui un Paese che ha disperato bisogno di riprendersi non può tacere. Perché solo sulla base della verità si può costruire il futuro. E non si tratta, ora meno che mai visto che è la magistratura ad occuparsi del caso personale, di accanirsi contro i singoli. Ma di cercare di capire un modello e tutti i danni che quel modello ha arrecato alla Penisola, imprigionandola in una gestione scellerata di una pandemia insidiosissima che tra Milano e Bergamo andava fermata subito e invece non si è deliberatamente voluto guardare, intervenire e decidere per il bene pubblico sia sopra che sotto la linea gotica. Durante l'emergenza più dura, la Lombardia ha danneggiato il Pil dell'intero Paese, spingendo per un lockdown totale e intanto dal vertice del Pirellone - secondo l'accusa - si pilotavano appalti per lucrare sulle disgrazie degli italiani. L'egoismo settentrionalista è quello che, per favorire gli interessi degli imprenditori, ha ritardato la chiusura della regione lombarda, non bloccando in tempo la fuoriuscita dell'infezione. Questa impostazione anti-nazionale di cui Fontana è stato interprete e questa manovra di auto-tutela economica a dispetto di tutto, a cominciare dalla salute dei cittadini, sono riassumibili in un'immagine di facile comprensione: è come se le fabbriche di marmellata del Nord temessero che le fabbriche di marmellata del Sud le sostituissero sui banchi dei supermercati e hanno fatto chiudere il Sud. Senza curarsi, anzi a spregio, di una constatazione tutt' ora validissima e inoppugnabile che è questa, firmata Giuseppe Mazzini: «L'Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Il sistema Fontana non solo prescinde da questo dato storico, che parla di futuro, ma ha agito in tutti i modi per ribaltarlo e proprio mentre il Paese cercava nella propria identità di destino la sua via per superare la bufera, i dolori e le morti in una tempesta non ancora del tutto superata e sempre in agguato. Quanto a Fontana e alla pioggia di indagini da questa sui camici a quelle sulle Rsa, sui test Covid al San Matteo e sull'ospedale in fiera di Milano, il presidente ripete che «tutti sanno che non mi metto in tasca un centesimo». Ma a un avvocato civilista di lungo corso come lui, ex presidente dell'Ordine di Varese, non sfuggirà che se i soldi non finiscono nelle proprie tasche, ma in quelle di un congiunto, non è che cambi molto né per la moralità pubblica né per il buon funzionamento della macchina amministrativa in aree che hanno sempre sbandierato a torto una presunta superiorità morale sul resto della nazione e che si autodefiniscono fattore trainante del Paese diventandone invece la zavorra. Come s' è visto in questi mesi tremendi tra la mancata zona rossa nel bergamasco, i casi Alzano e Nembro, le rianimazioni in tilt, le giravolte sui tamponi, l'assenza di indicazioni e di supporto ai medici di base, e i pasticci d'ogni ordine e grado nel governo della crisi. Il sistema Lombardia ha franato da tutte le parti, insomma. E la slavina appena abbattutasi sul presidente leghista vale come triste corollario di una storia cominciata male e che si trascina di peggio in peggio. Ma ciò che più deve allarmare è che certo Nord continui a chiedere più autogoverno e, in particolare, una riduzione dei trasferimenti territoriali verso la Capitale e verso il resto del Paese. Una dimostrazione insieme di irresponsabilità e di intollerabile arroganza.

Fontana indagato, il discorso in Consiglio regionale: "Non tollero dubbi sulla mia integrità: contro di me polemiche strumentali". Pubblicato lunedì, 27 luglio 2020 da Andrea Montanari su La Repubblica.it. Le parole del governatore sull'inchiesta della procura di Milano sulla fornitura di camici alla Regione da parte di Dama Spa: "Ho chiesto a mio cognato di rinunciare al pagamento". Salvini minimizza: "Il povero Fontana è accusato di aver ricevuto l'eredità dalla madre". "Ho riflettuto molto sull'opportunità di intervenire oggi soprattutto per la preoccupazione di dare un'ulteriore cassa di risonanza per polemiche che ritengo sterili e strumentali. Ho deciso di venire qui per riaffermare la verità dei fatti e andare oltre per affrontare le sfide e le opportunità che abbiamo davanti. Abbiamo vissuto e stiamo vivendo una circostanza storica che non dobbiamo dimenticare. L'emergenza Covid è stata uno tsunami per la Lombardia. Sono convinto che alla fine la verità verrà a galla". Con queste parole si è difeso il governatore della Lombardia Attilio Fontana davanti al Consiglio regionale riunito per approvare il bilancio lombardo, dopo l'iscrizione nel registro degli indagati nell'inchiesta della Procura di Milano sulla fornitura di camici monouso alla Regione, prima fatturata e poi donata dal titolare della società Dama spa, Andrea Dini, congnato del governatore leghista. Sul caso dei camici dice: "La magistratura sta laorando, ma con Dama come con altre aziende il negoziato è stato corretto". La tesi di Fontana è che il caso dei camici sarebbe stata solo una campagna di "informazione faziosa". Il governatore attacca: "Le cose stanno cosi e rimarranno immutabili nel tempo a dispetto di chi le vuole leggere diversamente. Sapevo dal 12 maggio che Dama si era resa disponibile a fornire un contributo per l'emergenza Covid. Lo aveva fatto in precedenza. La trasmissione Report è arrivata solo il 1 giugno. Sono tuttora convinto che si sia trovato un negoziato corretto. Ma poichè il male è negli occhi di chi guarda, ho chiesto a mio cognato di rinuciare al pagamento e di considerare quel mancato introito come un ulteriore gesto di generosità".

Più di un'ora di discorso, quasi un'arringa sottolineata più volte dagli applausi della maggioranza di centrodestra. Nel quale Fontana ha ripercorso le fasi più importanti dei mesi dell'emergenza per l'epidemia di Covid 19 in Lombardia. Dalla mancata istituzione della zona rossa nella bergamasca, alla necessità di reperire le mascherine e il materiale per i medici e le Rsa. Fino alla costruzione dell'ospedale negli ex padiglioni della Fiera al Portello. Solo un accenno, invece, alla vicenda dei camici monouso per i medici: "Sono il presidente che non si è arreso al Covid e non lo farà nemmeno adesso". Fontana ha anche difeso l'operato dell'ex dirigente di Aria, Filippo Bongiovanni. "Ha sempre agito con competenza". Salvo subito dopo aggiungere "Devo solo ringraziare chi si è assunto responsabilità importanti. Ma non tollero dubbi sulla mia integrità e su quella dei miei familiari". Sottolineando che "durante l'emergenza la Regione ha rendicontato ogni euro speso".  Ma "gli attacchi contro di noi sono stati un grave contraccolpo per la Lombardia". Parole pronunciate tra gli applausi della maggioranza di centrodestra e il silenzio del centrosinistra. Le stesse opposizioni, che prima dell'inizio della saduta avevano chiesto al governatore di "dire la verità e di rispondere ad alcune domande. Per esempio, 'se ritiene ancora di avere la fiducia dei lombardi e di poter continuare a governare'" - come ha riassunto il capogruppo del Pd al Pirellone, Fabio Pizzul. Mentre solo quello del Movimento Cinque stelle, Massimo De Rosa, al momento, ha confermato la mozione di sfiducia contro Fontana e la richiesta di dimissioni del governatore. E il radicale Michele Usuelli si è detto pronto a sostenere una mozione di sfiducia dei grillini "non sul caso dei camici, ma sulla gestione complessiva dell'emergenza Covid. Assente, invece, per un impegno personale, la renziana Patrizia Baffi che precisa "la magistratura chiarirà se Fontana è responsabile di violazioni". Una sorta di controcanto, ma con alcuni distinguo alle tesi illustrate dal governatore. Alla fine si è sfiorata pure la bagarre. Quando al termine del discorso di Fontana i leghisti si sono alzati in piedi sventolando bandiere verdi con il simbolo della Lombardia, la Rosa camuna, e inneggiavano al governatore urlando dai loro banchi "Lombardi, Lombardia" e "Fontana, Fontana".

Inchiesta camici, Fontana contro lo show di Report: “Disinformazione, indagato per fornitura gratuita”. Redazione su Il Riformista il 27 Luglio 2020. “Sono convinto che giorno dopo giorno la verità verrà a galla”. E’ quanto dichiara il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, intervenendo in Consiglio regionale, dopo l’inchiesta della procura di Milano sulla fornitura di camici alla Regione da parte di Dama Spa in cui è indagato per frode in pubbliche forniture. “Ho riflettuto molto sull’opportunità di intervenire oggi soprattutto per la preoccupazione di dare un’ulteriore cassa di risonanza per polemiche che ritengo sterili e strumentali. Ho deciso di venire qui per voltare pagina e con la volontà di andare oltre per affrontare le sfide e opportunità che ci aspettano” ha aggiunto Fontana che precisa: “Le critiche alle mie azioni di governo sono legittime, anzi doverose purché tengano conto della realtà. Non posso tollerare che si dubiti della mia integrità e di quella dei miei familiari”. “Il mio coinvolgimento, se di coinvolgimento si può parlare, non è nulla di più, nulla di meno se non che Regione Lombardia non ha speso un euro per i 50mila camici” dichiara prima di precisare che “dei rapporti negoziali a titolo oneroso tra Dama e Aria non ho saputo fino al 12 maggio scorso”. Poi l’attacco alla trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci: “L’inchiesta di Report è stata annunciata con toni scandalistici. La vicenda è stata divulgata dalla più diffusa disinformazione. Ora se ne sta interessando la magistratura, che mi attribuisce un ruolo sulla fornitura” di camici “da onerosa a gratuita. Sapevo che Dama si era dichiarata disponibile a rendersi utile per fornire un contributo. Anche la fornitura di camici rientrava in questa disponibilità. Sono tuttora convinto che si sia trattato di un negozio corretto. Ma poiché il male è negli occhi di chi guarda, ho chiesto a mio cognato di rinunciare” al pagamento. “Su questo aspetto sono stato facile profeta. La magistratura sta lavorando su questo punto ipotizzando una diversa ricostruzione dei fatti, ha aggiunto. “Quando sono andato in video con la mascherina – spiega il governatore della Lombardia – gli inquisitori che allora criticavano come eccessive queste prese di posizione sono stati feroci critici per denunciare lentezze con l’aggravarsi della situazione. Quello che è successo nei giorni successivi rimarrà scolpito nella memoria”. L’indagine riguarda in primis il cognato di Fontana, Andrea Dini, titolare della società Dama (il 10% è in possesso della moglie di Fontana, Roberta Dini), che firmò con la Regione un contratto per la fornitura di camici pari a 513mila euro. Un appalto svincolato dalle normali procedure di gara proprio a causa dell’emergenza Covid. L’appalto viene scoperto da Report e Fontana, secondo l’accusa, avrebbe indotto il cognato a trasformarlo in donazione alla Regione. I magistrati milanesi scoprono quindi il tentato bonifico (bloccato, ndr) di 250mila euro da un conto scudato all’estero, in Svizzera, da parte di Fontana all’Iban del cognato, a sua insaputa. Denaro proveniente da due trust aperti dieci anni prima alle Bahamas dalla madre di Fontana ed ereditati alla sua morte. Le autorità dell’antiriciclaggio giudicano sospetta la cifra e segnalano il caso alla Banca d’Italia, che gira il tutto alla Procura.

"Ora vado a raccontare ai pm la verità che scagiona Fontana". Il legale: "Verso il cognato atto di generosità. Il conto da 5 milioni? Dietro c'è una famiglia della buona borghesia". Luca Fazzo, Lunedì 27/07/2020 su Il Giornale.

Preoccupato, avvocato Pensa?

«No. Sono sereno perché so quello che Attilio Fontana ha fatto e soprattutto quello che non ha fatto. Non ha avuto alcun ruolo nell'accordo di fornitura dei camici, non c'è alcuna traccia in questo senso e anzi ci sono elementi precisi che escludono un suo ruolo. E quello che ha fatto dopo è solo un sovrappiù di scrupolo e di onestà».

Jacopo Pensa, vecchio leone dell'avvocatura milanese, oggi o domani andrà in Procura, per parlare con i pm che hanno incriminato per turbativa Attilio Fontana, presidente della Lombardia. «Ci vado - dice - con animo tranquillo, perché so di avere davanti magistrati seri».

Processualmente parlando, come è messo Fontana?

«Questa inchiesta mi sembra la favola del lupo e dell'agnello, dove le accuse vengono cambiate in continuazione. Sono partiti da un'ipotesi di interferenza nella vendita dei camici, sta a vedere che c'è stato un favoritismo, hanno fatto lavorare il cognato del presidente. Poi hanno dovuto acquietarsi all'idea che Fontana dell'accordo non ne ha saputo niente. Adesso salta fuori questa storia del bonifico».

Converrà che non è bellissima.

«Non convengo affatto. Sa cosa succede? Che Fontana viene a sapere della fornitura della Dama, lui pensava che fosse a titolo gratuito come altre che Dini aveva fatto a ospedali e altri enti. Quando scopre che invece è a titolo oneroso prega il cognato di rinunciare, non c'è niente di male ma non sia mai che vengano a farci le pulci».

Perché allora il bonifico?

«A un certo punto Fontana, che è una persona di coscienza, si è rammaricato del salasso che aveva imposto al cognato: è sacrosanto non procurare vantaggi ai parenti, ma non era neanche giusto fargli perdere mezzo milione. Così decide di dividere con lui il sacrificio e di mandargli 250mila euro. In pratica Fontana decide di partecipare per il 50 per centro al costo della donazione dei camici alla Regione. È un atto di generosità del tutto inconsueto, anzi credo senza precedenti da parte di un amministratore pubblico. Vogliamo trasformarlo in un reato?»

Però la banca svizzera blocca tutto e segnala l'operazione alla Banca d'Italia. Perché Fontana non rese noto pubblicamente il suo ruolo?

«Bisogna conoscerlo, Fontana... Era talmente pulita l'operazione, talmente finalizzata a scopi nobili, che non gli è venuto neanche in mente. Il fatto che non ci abbia pensato è la prova della buona fede. D'altronde se uno vuole fare una operazione sporca non la fa su un conto intestato a lui, tracciato e tracciabile, firmando personalmente il bonifico».

Crede che i pm si convinceranno?

«Per rispondere devo prima parlare con loro, perché da sabato so solo quello che leggo sui giornali. Adesso pare che intendano contestare una sfumatura, e cioè che la fornitura dei camici non sia stata fatta per intero, perché anche se era una donazione andava ultimata. Non capisco bene che reato potrebbe essere, ma di sicuro non è una decisione che si può attribuire a Fontana».

Intanto l'attenzione si è concentrata sul conto svizzero scudato.

«Se i magistrati vogliono andare a vedere cosa c'è dietro quel conto noi siamo felici, perché non troveranno altro che una normale, lecita operazione di scudo come ne hanno fatte tantissimi italiani».

Cinque milioni lasciati dalla mamma. Non sono tanti per una dentista?

«Non deve chiederlo a me, non so quanti denti abbia aggiustato la mamma di Fontana. Dietro c'è una famiglia della buona borghesia, che al termine di una vita di lavoro si arrivi a una cifra simile non è strano. Ci sono dentisti ricchissimi».

Lavinia Greci per il Giornale il 27 luglio 2020. "Da ieri la sorte riserva ad Attilio Fontana l'esperienza peggiore che possa toccare a un uomo pubblico: affondare nel ridicolo". Le parole, rivolte al governatore della regione Lombardia, sono quelle di Gad Lerner che, a ridosso dell'inchiesta che ha coinvolto il presidente della Lega, attacca: "Farti beccare dalla Banca d'Italia mentre bonifici 250mila euro a tuo cognato da un conto in Svizzera di 5,3 milioni, che a loro volta avevi 'scudati' per riportarli dalle Bahamas, rende Fontana impresentabile prima di tutto agli occhi del popolo leghista".

"Il presidente leghista riccone". Come riportato da Libero, Lerner, che definisce Fontana "riccone", ha proseguito così: "L'inedita figura del presidente leghista riccone, in grado di risarcire di tasca sua il cognato per il mancato guadagno sui camici forniti dalla regione, completa il quadro già emerso dai comprimari leghisti minori: arraffoni collezionisti di incarichi, prebende e guadagnai personali". E infine: "Quando la politica scivola nella pochade, hai un bel tirare in ballo la malagiustizia".

La vicenda. Ieri, dopo la notizia dell'iscrizione di Fontana nel registro degli indagati per frode in pubblica fornitura, il presidente si era detto tranquillo e fiducioso per l'operato della magistratura e in serata, con un lungo post su Facebook, aveva chiarito di vivere l'inchiesta in tranquillità. "Sono emotivamente coinvolto dall'abbraccio di solidarietà e di stima che mi avete manifestato per tutto il giorno", ha scritto il presidente all'inizio del lungo messaggio sul celebre social network.

L'inchiesta. La vicenda ha al centro la fornitura dei camici e di altro materiale sanitario da parte dell'azienda Dama, di suo cognato e sua moglie, che si è successivamente trasformata in una donazione. Il direttore generale di Aria (centrale di acquisti regionale), anch'egli indagati, avrebbe scagionato Fontana. Tuttavia, la magistratura ha proseguito con le indagini. Intanto, in queste ore, è arrivato l'incoraggiamento di Mariastella Gelmini che ha esposto la posizione di Forza Italia: "Vada avanti: ha il sostegno di Forza Italia e quello dei cittadini lombardi, Chi, da Movimento 5 Stelle e dal Partito democratico, chiede immediate dimissioni dimostra la sua cultura giustizialista e il suo doppiopesismo (per un avviso di garanzia Raggi a Roma o Appendino a Torino si sarebbero dovute dimettere più e più volte). Noi siamo garantisti, crediamo nella Costituzione e, dunque, ci comportiamo di conseguenza".

Attilio Fontana, la sinistra senza vergogna per l'inchiesta sui camici: "Rinfacciano a Fontana anche sua madre". Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 27 luglio 2020. Dopo aver appreso che in Italia chi cerca di regalare soldi alle istituzioni rischia di finire a San Vittore (fa quindi bene Zingaretti a buttare denaro pubblico in affari immobiliari sballati e mascherine fantasma) ora la saga di Attilio Fontana si arricchisce di nuovi pittoreschi capitoli. Sulle accuse rivolte al governatore dalla Procura si è scritto di tutto, ma la tesi dei pm regge poco. Così ora i principali organi di stampa si concentrano su cosa abbia combinato la madre del leghista per aver lasciato tanto denaro al figlio e se abbia o meno versato tutte le tasse 50 anni fa. I magistrati stanno setacciando i conti del politico. La storia l'ha raccontata anche Libero ieri: il presidente lombardo ha ereditato una somma che era custodita da un fondo alle Bahamas. Una montagna di euro: più di 5 milioni. Quando ne è entrato in possesso, Fontana ha fatto una cosa perfettamente lecita: ha pagato una multa per sanare ogni possibile contenzioso con l'erario e ha così fatto "riemergere" il denaro, approfittando del cosiddetto scudo fiscale. La notizia, trapelata dalla Procura, ha indignato M5S e Pd. Le agenzie crepitano: «Fontana deve dimettersi», tuonano i leader giallorossi. E questa è un'altra scoperta: a quanto pare la maggioranza è popolata da santi. Siamo sicuri che tutti i grillini e i dem al posto di Fontana avrebbero regalato quell'eredità ai boy scout. In realtà alcuni casi del passato dimostrano che il rigore dei nostri politici si manifesta a corrente alternata. Qualcuno ricorda del padre di Di Maio beccato a costruire un capanno abusivo? La famiglia del pover' uomo ammise di aver commesso un illecito solo perché pizzicata dalla stampa. E il commento dei grillini fu banale e unanime: «Le colpe dei padri non ricadano sui figli». Quando conviene, s' intende. D'altra parte la lista di guai legali dei famigliari degli esponenti dell'attuale maggioranza è abbastanza lunga. Detto ciò, resta una certezza: ciò che Fontana ha fatto è del tutto legale, oltre che comprensibile. Il leghista aveva dichiarato l'esistenza di quei fondi nelle sue schede personali, come richiede Regione Lombardia. Bastava andare su internet per verificare. «Vadano a vedere quello che vogliono, è tutto tracciato», ha spiegato Jacopo Pensa, avvocato del governatore. Certo, però ci vorrà del tempo. Intanto lo sputtanamento continua.

Vittorio Feltri, Attilio Fontana indagato: "Alcuni magistrati si dimostrano dei cessi a disposizione dei progressisti". Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. La vicenda di Attilio Fontana, messo in croce per un numero imprecisato di camici gratuiti forniti alla regione, mi appassiona perché dimostra la stupidità colossale delle cosiddette istituzioni. Contro il governatore si è scatenato un putiferio di accuse tanto sceme quanto vuote. È del tutto evidente che siamo di fronte a un pretesto per rubare la Lombardia al centrodestra e consegnarla nelle mani avide della sinistra e dei grillini sgrillettati, come se per guidare un ente bastasse screditare chi già lo guida e non conquistarlo tramite il voto democratico. Ma qui siamo in Italia e la logica viene piegata spesso agli interessi politici. La condanna di Silvio Berlusconi per una frode fiscale inesistente ne è stata una prova clamorosa, così come il processo a Salvini - Palamara docet - è in corso non in quanto egli sia colpevole, bensì per ordini superiori provenienti dalle toghe. I pm non sono o non dovrebbero essere dei servizi tipo le toilette, da usarsi in caso di necessità corporali, eppure a volte, non sempre, si dimostrano dei cessi a disposizione dei progressisti, che somigliano vagamente a un water. L'accanimento giudiziario contro Fontana è destinato a risolversi in nulla, poiché nel nostro ordinamento non è previsto si possano giudicare le intenzioni ma solo i fatti, che nella presente circostanza non ci sono. Un retropensiero alberga in vari cervelli, specialmente popolari. Si è appreso che la madre e il padre di Fontana costituissero una famiglia solida dedita ad attività professionali di livello (lei dentista e lui avvocato), non persone strapelate, bensì benestanti, le quali nella loro vita di intenso lavoro avevano accumulato un bel gruzzolo, circa 5 milioni di euro. Ecco il punto. Il denaro per la maggioranza dei bacchettoni è rimasto sterco del diavolo. La ricchezza non rende simpatici, autorizza chi non ce l'ha a odiare chi invece ne dispone. Di qui l'avversione nei confronti di Fontana. Se costui avesse le pezze sul sedere sarebbe rispettato quanto uno Zingaretti qualunque. Dato che viceversa è stato un rampollo di genitori borghesi e quindi abbienti va preso a pedate, indagato, vilipeso, sospettato e via andare. Siamo alle solite. I soldi creano divisioni e attriti perfino violenti. Chi ne ha deve giustificarsi, farsi perdonare di non essere alla canna del gas. Scatta nei poveri un sentimento di rivalsa, essi godono nel divulgare la notizia infondata che il signore sia tale giacché ha violato la legge, almeno quella fiscale. Pertanto va punito, scacciato, messo alla berlina. Fontana non potrà essere condannato per aver procurato gratis alla Regione dei grembiuli destinati ai dottori, questa sarebbe una cosa ingiusta oltre che comica, tuttavia sarà incolpato per via del suo sostanzioso patrimonio. Troveranno il modo per dire che non è stato accantonato regolarmente. D'altronde basta esaminare la storia di Roberto Formigoni, al quale non hanno beccato un euro, nonostante ciò, sono riusciti a sbatterlo in galera. Sapete il motivo? Hanno pescato una sua foto scattata su una barca dalla quale si è tuffato goffamente, non come Agnelli che si scaraventava in mare con eleganza. Inoltre gli hanno contestato una giacca arancione invero buffa. Altro su di lui non hanno rilevato. È stato sufficiente un pizzico di sciatteria per farlo finire dietro le sbarre. Qualcuno dovrebbe almeno vergognarsi. E magari spararsi nei marroni.

Attilio Fontana, Pietro Senaldi: sotto accusa perché è ricco, nessun reato ma molte pietre contro il governatore. Libero Quotidiano il 29 luglio 2020. Ci vuole un'operazione da spietati professionisti di maquillage, anzi da rodati maestri della disinformazione, per far passare Attilio Fontana per un malfattore. L'uomo ha tre colpe: governa la Regione Lombardia, la più ricca, popolosa e concupita, è ricco di famiglia ed è leghista. Per questo si è scatenata contro di lui un'offensiva mediatico-giudiziaria violenta. L'inchiesta, è cosa nota, riguarda la fornitura di camici per medici e infermieri per un valore di 500mila euro alla Regione Lombardia, abbandonata, anzi ostacolata e vilipesa, dallo Stato in piena emergenza Covid-19. Cinque aziende hanno fornito indumenti ai sanitari lombardi durante i mesi più difficili. Tra queste, quelle del cognato e della seconda moglie del governatore, che aveva l'offerta economicamente più vantaggiosa.  Su questo la sinistra grida al conflitto di interessi anche se il governatore, appena saputo dell'appalto ai suoi famigliari, ha trasformato il contratto in una donazione e si è offerto di pagare al fratello della consorte metà delle spese, non riuscendovi solo per l'intervento della magistratura. L'effetto dell'azione di Fontana è che la Lombardia ha avuto una cospicua fornitura gratuita di materiale che le altre Regioni hanno dovuto pagarsi. Su questa vicenda gli organi d'informazione filo-governativi hanno scatenato una campagna stampa che va oltre il fatto in sé e ha a oggetto la moralità del governatore. Fontana viene criminalizzato per aver fatto rientrare dal paradiso fiscale delle Bahamas, attraverso lo scudo fiscale creato dall'allora premier Renzi, cinque milioni di euro avuti in eredità dalla madre, dentista di fama e consorte di un avvocato di successo. Un movimento avvenuto nel 2015, denunciato dall'interessato e perfettamente legale che è sintomatico dell'onestà del presidente della Regione piuttosto che della sua disonestà. L'unica cosa che la storia prova è che l'uomo, beato lui, è più che benestante, oltre che rispettoso delle leggi. Questo può dar fastidio agli invidiosi, ma non è una colpa. Certo, san Francesco forse avrebbe donato ai poveri l'intero gruzzolo, ma la santità non è richiesta in politica, e comunque don Attilio era pronto a smenarci 250mila euro di suo pur di assicurare i camici agli ospedali lombardi. 

PARENTI SCOMODI. Quando un'accusa è fondata, non ha bisogno di ammennicoli per apparire forte. Se la vicenda dei camici costituisse reato, basterebbe di suo a far dimettere Fontana. Invece l'opposizione chiede le dimissioni del governatore perché, forse, sua madre defunta non ha pagato le tasse. Allora dovrebbero anche dimettersi Conte per i guai fiscali del suocero, Di Maio per gli abusi edilizi del padre e Zingaretti per aver pagato mascherine mai arrivate. E si sarebbe dovuto dimettere anche Fini quando scoppiò lo scandalo della casa di Montecarlo comprata a due lire dal cognato dell'allora presidente della Camera alla fondazione di An, alla quale la vedova Colleoni l'aveva donata; invece la magistratura usò con lui i guanti di velluto, fino a quando Berlusconi non venne estromesso dal Parlamento e l'allora leader della destra non divenne inutile per le manovre della sinistra. In questa vicenda, la giustizia e la politica, inventandosi il reato di donazione di camici stanno coprendosi di ridicolo. La spiegazione del giallo di Fontana è molto più banale di quanto non si pensi. Da prima che iniziasse la pandemia il governatore è stato oggetto di attacchi. Fu il primo a mettersi la mascherina e la sinistra lo accusò perché non l'aveva indossata con la stessa grazia di un modello di Armani. Ci fu perfino chi gli rimproverò di aver fatto un enorme danno d'immagine all'Italia. Il rimbrotto non arrivò da quattro leoni da tastiera con poco cervello ma dal meglio della sinistra, Orfini, Martina, perfino Calenda, per non parlare dei grillini, che definirono «irresponsabile» il gesto del presidente lombardo. Salvo poi chiudere il Paese per due mesi e mezzo. Poi l'Attilio venne accusato perfino di aver costruito un ospedale in tre settimane in piena pandemia e di non aver fatto la zona rossa a Bergamo, obbedendo alle indicazioni del governo. Qualsiasi cosa faccia, Fontana è nel mirino. Anche adesso, che la sua Lombardia è arrivata a registrare zero decessi mentre altrove in Italia si muore ancora per Covid-19. È evidente allora che al centro dell'attacco non è l'uomo ma la poltrona che occupa. La sinistra vuol mettere le mani sulla Lombardia, punta sul fatto che la regione è la più martoriata dal coronavirus per fare della malattia una colpa e scalzare il centrodestra. Per raggiungere lo scopo, tutto fa brodo. E si dimentica quello che ha detto il governatore ieri in Consiglio: se avessimo potuto gestire i nostri soldi, la sanità lombarda non sarebbe mai entrata in crisi per la pandemia; purtroppo però, anche per assumere un infermiere dobbiamo chiedere il permesso al governo, che, malgrado i nostri conti siano in regola, ci impone di tagliare letti e personale per allinearci alla mediocrità altrui e poi ci rimprovera di non avere strutture all'altezza. 

RISOLVERE E FARE GUAI. L'Italia è nella palta. Gli immigrati con il Covid hanno sostituito i turisti, il governo non riesce a gestire l'accoglienza, tant' è che ogni giorno fuggono centinaia di profughi, aumentiamo il debito festeggiando le elemosine dell'Europa senza neppure sapere come spendere quei soldi, che anziché a risollevarci servono solo a posticipare di tre o quattro anni il fallimento del Paese, le cronache ci informano che Salvini è stato indagato benché i giudici lo considerassero innocente e che la condanna di Berlusconi fu decisa fuori dalle aule dei tribunali. Eppure, tutti si preoccupano del perché la famiglia Fontana ha regalato dei camici alla Regione che Fontana amministra. Chi a Milano risolve i problemi a proprie spese, è indagato, chi a Roma fa guai che pagheremo tutti cari, viene osannato. Ci vorrebbero altri camici, ma di forza, per i trombettieri anti-Attilio e pro-Giuseppe. riproduzione riservata.

Da huffingtonpost.it il 2 agosto 2020. “Quello alle Bahamas non era un trust, ma una società commerciale fantasma. Creata col solo scopo di evitare di pagare, sul conto svizzero, l’ “euro-ritenuta”, l’imposta al 15 per cento sui capitali degli italiani detenuti nelle banche elvetiche”. Repubblica ha intervistato il tributarista Sebastiano Stufano, uno dei maggiori esperti del settore, il quale ha spiegato per filo e per segno perché il governatore abbia aperto un secondo conto ai Caraibi, oltre a quello della mamma. E soprattutto perché sarebbe stato impossibile non saperlo.

Racconta a Fabio Tonacci di quello che i Fontana fecero nel 2005: “Aprono un secondo conto, dove riversano i soldi che erano nel primo, e lo intestano alla Montmellon Valley, una società fantasma di Nassau. Tecnicamente si tratta di una international business company. Le banche svizzere ne hanno costituite a iosa nel 2005, per proteggere i capitali dei loro clienti dall’euro-ritenuta. Non è un caso che la Montmellon abbia sede legale presso la società di servizi della Ubs alle Bahamas”. Insomma, un movimento per eludere il fisco. E del quale Fontana non poteva non sapere: “Chi ha la procura di un conto, deve andare personalmente a depositare la firma in banca”.

Valentina Errante per il Messaggero il 27 luglio 2020. Come l'anziana mamma del governatore Attilio Fontana abbia accumulato 5 milioni e 300mila euro, creando, a oltre ottant' anni, due trust alle Bahamas, resterà probabilmente un mistero anche per la procura di Milano, che però ha deciso di non fermarsi e andare a ritroso nel tempo. Oggi sui due conti svizzeri del governatore della Lombardia, amministrati dall' Unione fiduciaria italiana, ci sono 4 milioni e 400mila euro. Un patrimonio sul quale non ci sarebbero ombre, secondo il presidente della Regione e il suo avvocato, ma già al centro degli accertamenti della Guardia di Finanza che, su delega della procura milanese, come primo passo, acquisirà all' Agenzia delle Entrate il fascicolo datato 2015. È in quell' anno che il governatore eredita il patrimonio e decide di far rientrare (solo metaforicamente perché di fatto i soldi sono rimasti in una filiale dell' Ubs in Svizzera) quella fortuna, evitando di incorrere in sanzioni penali. Ma già dal 2005 poteva usufruire di una parte di quei soldi. I dubbi riguardano la provenienza dei soldi. Mentre lo scudo fiscale utilizzato dal politico della Lega è ora il fronte di un nuovo scontro politico, insieme a quel bonifico che il presidente della Regione voleva fare alla società del cognato e della moglie, prima che la fornitura di camici per la Regione Lombardia si trasformasse in una donazione. I dubbi riguardano la provenienza dei soldi. Dei quali certo Fontana non ha scoperto l' esistenza alla morte della mamma, visto che in uno dei due conti risultava soggetto delegato. Sembra difficile che la signora Maria Giovanna Brunella, dentista, e il marito, medico condotto, abbiano accumulato una simile fortuna. Sta di fato che nel 2005, quando ha già superato gli ottanta anni, la signora costituisce due trust che detengono i conti svizzeri con un deposito di oltre 5 milioni di euro. Fontana, all' epoca presidente del consiglio regionale, in uno compare come «beneficiario», nell' altro come «soggetto delegato». Nel settembre 2015, alla morte della mamma oramai novantaduenne, il sindaco di Varese decide di approfittare della legge sullo scudo fiscale, facendo la cosiddetta voluntary disclosure e dichiarando all' Agenzia delle entrate il patrimonio. Oltre a verificare come siano stati scudati i soldi e in che quantità rispetto al deposito effettivo, la Finanza acquisirà anche il mandato fiduciario firmato dal governatore alla società che li amministra. Se quel denaro risultasse di dubbia provenienza (difficile averne conto dalle Bahamas) i reati sarebbero prescritti. Resta però l' opportunità politica. «Acconto fornitura camici a favore di Aria spa». E il dettaglio: «Si tratta di fornitura di presidi medici prodotti da Dama spa a favore di Aria Regione Lombardia». Così il 19 maggio Fontana bonifica 250mila euro alla Dama, la società, gestita dal cognato Andrea Dini, che, con trattativa diretta, ha ottenuto un ordine di 513mila euro. Il giorno dopo, Dini scriverà ad Aria, società che gestisce gli acquisti della Regione, per comunicare che recede dal contratto, trasformandolo in donazione. La fornitura viene così bloccata. Cinquantamila camici sono già stati consegnati, gli altri 25 mila rimangono nel deposito dell' azienda tessile che sta tentando di riconvertirsi. Il governatore avalla così, insieme all' allora dg di Aria, Filippo Bongiovanni e al suo numero due, Carmen Schweigl, l' interruzione dell' appalto. Una circostanza che spinge i pm a ipotizzare, oltre alla turbata libertà degli incanti, la frode in pubbliche forniture e a indagarlo. «Che vadano a vedere tutto quello che vogliono. Noi siamo tranquilli - commenta l' avvocato del governatore Jacopo Pensa - è un' eredità, scudata, regolarizzata, tracciabile e assolutamente ufficiale». Ma Fontana non si presenterà in procura.

Luigi Ferrarella per il ''Corriere della Sera'' il 28 luglio 2020. Sullo scudo fiscale Attilio Fontana, come ieri in Regione, ha sempre taciuto: tanto da essere sanzionato nel 2017 dall' Anac per aver omesso nel 2016, da ex sindaco di Varese, l' obbligatorio stato patrimoniale nel quale sarebbero comparsi i 5 milioni di scudo fiscale in Svizzera nel 2015. Questo genere di sanzioni amministrative dell'«Autorità nazionale anticorruzione», però, non sono pubbliche nel contenuto delle motivazioni, ma soltanto nel dispositivo, che viene pubblicato nella sezione «amministrazione trasparente» del sito online in questo caso del Comune di Varese di cui Fontana era sindaco (sezione peraltro curiosamente modificata proprio ieri rispetto al precedente ultimo ritocco) con questa espressione: «In applicazione dell' art. 47, c. 1, d.lgs. n. 33/2013, in esito al procedimento avviato con nota Uvot/2017-001403/rg, l' Anac ha applicato al sig. Attilio Fontana la sanzione nella misura ridotta di 1.000,00, in conformità a quanto previsto dall' art.16 della legge 689/1981 (provvedimento Uvot/2017-001408/rg)». Tradotto dall' ostrogoto burocratico, per capire di che si tratti bisogna intanto guardare l' articolo 47 del decreto legislativo n.33 del 2013, che prevede l' irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10.000 euro (in misura ridotta a 1.000 euro se pagata entro 60 giorni, un po' come avviene per le contravvenzioni stradali), oltre alla pubblicazione appunto solo della notizia del provvedimento sul sito internet dell' amministrazione, a carico dei componenti degli organi di indirizzo politico che siano responsabili della «mancata o della incompleta comunicazione delle informazioni e dei dati di cui all' articolo 14 del medesimo decreto». Quali sono e di chi? Sono i dati sulla situazione patrimoniale complessiva, al momento dell' assunzione in carica, dei «titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo». Fontana dal 2006 sino al 21 giugno 2016 era stato sindaco di Varese, dunque tenuto a depositare anche per il 2016 la dichiarazione sul proprio stato patrimoniale relativa al 2015. Ma a fine 2016 il responsabile anticorruzione del Comune è costretto a comunicare all' Anac che Fontana, a dispetto anche di molti inviti a livello amichevole, non l' ha presentata. L' Anac chiede lumi, e a alla fine di gennaio 2017 di nuovo il responsabile anticorruzione del Comune conferma che Fontana ha continuato a non trasmettere la dichiarazione di legge benché gli sia stata sollecitata molte volte. Così la dirigente dell'«Uvot-Ufficio vigilanza sugli obblighi di trasparenza», all' interno di Anac, sanziona l' ex sindaco leghista con 1.000 euro. La prospettiva di questo costo, peraltro alleviato dall' assenza di pubblicità sul motivo della sanzione, nel 2016 deve evidentemente essere apparsa a Fontana di gran lunga preferibile al possibile costo reputazionale (per un politico sottoposto a standard di trasparenza ben più pregnanti che per un cittadino comune) del dover indicare - come altrimenti avrebbe dovuto fare se avesse ottemperato a presentare la dichiarazione 2016 sull' annualità 2015 - la disponibilità improvvisa di un nuovo cespite: i soldi in Svizzera della «voluntary disclosure» operata nel 2015 per sanare il «mancato assolvimento degli obblighi di monitoraggio fiscale dal 2009 al 2013». Cioè il fatto di aver utilizzato la legge per il rientro dei capitali illecitamente detenuti all' estero, legge che Fontana, a titolo di erede dopo la morte in giugno della 92enne madre Maria Giovanna Brunella, nel settembre 2015 usò per «scudare» 5 milioni e 300.000 euro detenuti in Svizzera da due «trust» (strumento giuridico di origine anglosassone per proteggere il patrimonio), creati alle Bahamas nel 2005 (dopo un inizio nel 1997) quando Fontana presiedeva il Consiglio regionale, e nei quali la madre dentista figurava «intestataria», mentre Fontana risultava in uno il «soggetto delegato» e nell' altro il «beneficiario economico». Nel 2018, invece, sul sito della Regione compare normalmente lo stato patrimoniale dichiarato (ai fini dei medesimi obblighi di trasparenza) dal presidente della Regione relativo al 2017: stato patrimoniale che a quel punto può indicare senza più controindicazioni, cioè senza rischio di divulgare anche il sottostante utilizzo della «voluntary disclosure» nel 2015, il tesoretto di un «mandato fiduciario misto» da 4 milioni e 456.000 euro che appunto l'«Unione Fiduciaria» gli gestisce a Milano: semplicemente il segno di un avvocato benestante, ricchezza sulla quale difatti nessuno trova niente da ridire. Nel silenzio sulla «voluntary» del 2015 serbato anche ieri da Fontana in un' ora di discorso in Regione, la vicenda della sanzione Anac sembra poco conciliarsi con quanto il presidente appena l' altro ieri aveva proclamato: «Nelle dichiarazioni richieste dalle norme sulla trasparenza sono riportati nel dettaglio i miei patrimoni e non vi è nulla di nascosto».

 

Valentina Errante per il Messaggero il 28 luglio 2020. Attilio Fontana lo ripete da più di un mese come un mantra: «Non sapevo nulla di quella fornitura». Smentito in più occasioni, anche da circostanze macroscopiche, (aveva poi sostenuto di non essere mai intervenuto nella procedura) il governatore è tornato a ribadirlo, ieri, nell' aula del consiglio regionale: ho saputo solo 12 maggio che sarebbe l' azienda di mio cognato (della quale sua moglie detiene il 10 per cento) a fornire i camici. Ma agli atti dell' inchiesta dei pm milanesi c'è un' altra verità. Secondo il suo stesso staff era stato avvertito in una data precedente. Fontana chiede di voltare pagina, ma è emerso con chiarezza che proprio il governatore abbia ideato il pasticcio della donazione, che ha interrotto la consegna di materiale indispensabile durante l' emergenza. Cercando di risolvere una questione che ogni giorno diventa più imbarazzante. In una catena di bugie, per rimediare a quell' errore iniziale e al rischio di uno scandalo mediatico, Fontana ha provato anche a risarcire il cognato, con 250mila euro, dopo averlo convinto a trasformare unilateralmente in donazione, spacciata per un bon geste, la prima tranche di camici consegnati. Con la rinuncia all' incasso pattuito. Così è emerso anche che il presidente aveva una fortuna all' estero, 5,3 milioni di euro scudati nel 2015. Soldi gestiti alle Bahamas e poi trasferiti in Svizzera dei quali nessuno sapeva alcunché. È da quel bonifico che partono le verifiche della Finanza e l' inchiesta della procura. Per questo Fontana lo blocca l' 11 giugno. Intanto i camici, che Andrea Dini, cognato di Fontana, avrebbe dovuto consegnare non sono arrivati tutti, ma l' amministrazione non ha ritenuto di rivalersi sull' azienda per il mancato rispetto del contratto. In mezzo il governatore ha rilasciato altre dichiarazioni, anche queste smentite: «Non sono mai intervenuto su quella procedura». A margine le bugie di Dini.

LE TESTIMONIANZE. A dichiarare a verbale di avere informato il presidente Fontana della fornitura è stato l' assessore, Raffaele Cattaneo, a capo della task force per il reperimento di materiale sanitario durante l' emergenza, sentito in procura come teste. Mentre è stato Filippo Bongiovanni, ex direttore generale di Aria (centrale di acquisti della pubblica amministrazione) indagato per turbata libertà degli incanti, a dichiarare di aver comunicato il 10 maggio a Giulia Martinelli, capo della segreteria del presidente, della fornitura affidata alla Dama per 513mila euro.

LA DONAZIONE. Il 14 maggio Report, intervista Fontana sulle fornitura. Cinque giorni dopo il governatore tenta di evitare lo scandalo e decide che quell' appalto, senza gara, deve essere cancellato. Convince il cognato, che intanto ha consegnato 49mila camici e 7mila set sanitari a trasformare quella trattativa privata in donazione, rinunciando ai soldi. Decide di fare il bonifico alla Dama, con una causale che lascia pochi margini ai dubbi: «Acconto fornitura camici a favore di Aria spa». Con la specifica: «Si tratta di fornitura di presidi medici prodotti da Dama spa a favore di Aria Regione Lombardia». Il giorno dopo, il 20 maggio, Dini manda un fax ad Aria e tra il 22 e il 28, le note di credito vengono stornate per 359mila 472 euro. Manca il resto della fornitura. Il contratto è ancora valido. Ma i 25mila camici ulteriori previsti dal contratto non vengono consegnati. L' amministrazione non prende provvedimenti Dini, invece, prova a venderli a una Rsa di Varese. Il 7 giugno alla vigilia della messa in onda della trasmissione, commenta: «Non sapevo nulla della procedura di Aria e non sono mai intervenuto in nessun modo». Nella prima narrazione di questa storia, neppure Andrea Dini sapeva che la sua azienda avesse ottenuto una fornitura di 513mila euro alla Regione Lombardia con trattativa dirette. «Durante il Covid ero fuori - ha sostenuto - quando sono tornato in azienda ho trasformato il contratto in una donazione». Falso. Nell' offerta inviata prima di Pasqua, si fa esplicito riferimento alle indicazioni ricevute da Cattaneo e il documento ha in calce la sua firma.

M.A. per il Messaggero il 28 luglio 2020.  Si è inguaiato con il suo discorso in consiglio regionale. E le opposizioni a Fontana si sono rafforzate nel chiedere le dimissioni del presidente lombardo. M5S in prima fila, il Pd a sua volta determinato a volerlo mandare via, e solo i renziani di Italia Viva in nome del garantismo si smarca dai rosso-gialli per dare altro tempo all' Attilio - o meglio ai magistrati che indagano su di lui - prima di trarre conclusioni politiche. Una giornata di battaglia in assemblea lombarda. Ma anche da Roma il vertice grillino entra nella contesa addirittura con il suo capo politico, Crimi il quale, con l' avallo di Di Maio, di Grillo, di Casaleggio, ha deciso con più forza del Pd di cavalcare il caso Pirellone come una questione nazionale. Mentre Fontana non fa che ripetere che «la mia onorabilità non si tocca», «sono vittima dell' informazione più faziosa», «non posso tollerare che si dubiti della mia integrità e di quella dei miei familiari», e se prima diceva «non sapevo niente» orta si contraddice dichiarando «volevo fare una donazione», Crimi va all' attacco: «Il fatto che il nostro governatore abbia un conto corrente con capitali scudati provenienti da un paradiso fiscale, e con questi tenti di risarcire il cognato per una presunta donazione a Regione Lombardia (che quindi non era una donazione), descrive una realtà imbarazzante e inaccettabile». Dunque: «In un qualunque Paese civile comportamenti del genere causerebbero dimissioni immediate e scomparsa dai radar della politica». Da Fontana a Salvini, i grillini vogliono fare il colpo grosso: buttare giù il governatore per mettere all' angolo il segretario del suo partito. Da Roma la linea M5S dettata a Milano è questa: «Salvini è il mandante politico delle malefatte di Fontana. E non contento grida anche al complotto, perdendo l' ennesima occasione per fare la cosa giusta. Oggi qualcuno arriva perfino a fingere di identificare Fontana con il modello sanitario della Lombardia, accusando di far male all' Italia chiunque osi criticare il governatore. Siamo al delirio». Zingaretti anche spera in una crisi di governo al Pirellone. «Ha mentito, vada via»: i giallorossi si muovono all' unisono. Il progetto è: usare tutti i mezzi per porre fine all' amministrazione Fontana. Il quale parla di «attacchi strumentali», mentre i suoi avversario stanno lavorando alla mozione di sfiducia della quale M5S si è fatto promotore, per mettere Fontana davanti alle proprie responsabilità. Il sottosegretario Buffagni, milanese, ex consigliere regionale, è in prima fila in questo affondo. C' è una nota congiunta di M5S e Pd, Più Europa, Azione e vi si legge: «La mozione cui stiamo lavorando metterà insieme tutte le varie sensibilità. La posizione condivisa è quella di scrivere la parola fine su questa disastrosa esperienza di cattiva amministrazione». La firma è quella di Massimo de Rosa (M5S), Fabio Pizzul (Pd) e degli altri capigruppo di opposizione. Mancano i renziani. Non vogliono accodarsi a un' iniziativa con dentro i grillini. Annuncia Patruizia Baffi, consigliera di Iv: «Ho deciso di non sottoscrivere la mozione di sfiducia, perché ritengo che sia il frutto di una elencazione di fatti ancora sommari e la cui analisi non può essere completa ed esaustiva. Un'analisi seria e le conseguenti valutazioni politiche su un' emergenza che è tutt' ora in corso, potremo farla solo quando avremo tutti gli elementi utili. Non condivido un modus operandi fatto di processi sommari». Questa divisione a sinistra indebolisce un po' la battaglia anti-Fontana. Anche perché il centrodestra si è compattato su di lui. E i numeri per salvarlo ce li ha. Berlusconi: «Metto la mano sul fuoco sull' onorabilità di Attilio». Salvini continua a parlare di «giustizia ad orologeria». E da Toti a Zaia i governatori del centrodestra assicurano: «Fontana è una persona onesta e chiarirà tutto». Ancora Salvini: «Il povero Fontana è accusato di aver ricevuto l' eredità della madre e la sua colpa è che era in Svizzera». Lo scontro è cominciato e, a seconda di quali saranno gli sviluppi giudiziari, l' esito potrebbe diventare negativo per Fontana.

M.A. per il Messaggero il 27 luglio 2020. Nella Lega si teme che Fontana possa non reggere e mollare. C' è chi dice che il presidente lombardo sarebbe tentato alla resa. Ma questo alle orecchie di Salvini, se è arrivato, sarebbe un dramma. Perché il Carroccio è deciso a difendere fino alla fine Fontana e a non arrendersi a quella che chiamano «la persecuzione giudiziaria». Ne usciremo a testa alta e si vedrà che anche questa, come sempre, è una montatura sciacallesca e giudiziaria: questa la linea di Via Bellerio. E insomma non si allenta la tensione attorno al governatore della Lombardia sulla fornitura dei camici alla Regione da parte del cognato e al bonifico mancato da 250mila euro. Indagato per «frode in pubbliche forniture», oggi, Fontana interverrà al Consiglio regionale della Lombardia. Con le opposizioni pronte, nel caso, a presentare una mozione di sfiducia, che verrebbe votata anche dal Pd. Intanto l' avvocato difensore del presidente, Jacopo Pensa, ha anticipato che andrà in settimana dai magistrati per cercare di capire la posizione esatta del suo assistito. Ma a dimettersi il governatore non ci pensa proprio, almeno così dice ufficialmente. E continua a difendersi così: «Nelle dichiarazioni richieste dalle norme sulla trasparenza sono riportati nel dettaglio i miei patrimoni, non vi è nulla di nascosto e non vi è nulla su cui basare falsi scoop mediatici». E ancora: «L' idea del bonifico è nata quando è saltata fuori questa storia e ho visto che mio cognato faceva questa donazione. Ho voluto partecipare anch' io. Fare anch' io una donazione. Mi sembrava il dovere di ogni lombardo». Eppure dem e grillini sono sul piede di guerra. Secondo il viceministro dello Sviluppo economico, Stefano Buffagni, politico che in consiglio regionale lombardo è sempre stato in prima linea contro la Lega, prima che venisse eletto in Parlamento per poi andare al governo: «La giunta di Fontana non può andare avanti. C' è un chiaro problema di opportunità, e la gestione ex post del proprio caso da parte del governatore mi colpisce molto. Come ho detto, questa giunta non può andare avanti. Non è stata in grado di gestire l' emergenza causata dalla pandemia e poteva certamente evitare le strumentalizzazioni contro il governo, che ha operato con serietà senza mai entrare in contrapposizione con gli enti locali». Ed è per questo che, incalza Massimo De Rosa, capogruppo M5S Lombardia, «serve un atto politico coraggioso per la storia che stiamo andando a costruire, siamo pronti a chiedere la sfiducia del presidente Fontana e chiediamo alle altre forze d' opposizione di sostenere la nostra richiesta». Anche il Pd è per la cacciata di Fontana. E Riccardo De Corato, assessore lombardo alla Sicurezza, attacca: «I dem usano due pesi e due misure. L' elenco degli amministratori di sinistra indagati è lungo e comprende il presidente toscano Rossi, l' ex governatore della Calabria Mario Oliverio e l' ex governatore siciliano Crocetta che non mi risulta si siano dimessi. Senza dimenticare il sindaco Sala che ha una condanna a sei mesi ed è alla guida di Milano». Intanto Berlusconi ha chiamato Fontana per dirgli: «Sto dalla tua parte». E oltre alla Lega anche Forza Italia è schieratissima con Fontana. «Vada avanti», dice Maria Stella Gelmini. E Berlusconi, ai suoi, ha raccomandato: «La giunta Fontana non deve cadere, ora massima solidarietà alla Lega in questa vicenda».

Attilio Fontana indagato? Renato Farina: ecco perché il cognato di Gianfranco Fini gode. Libero Quotidiano il 28 luglio 2020. La vicenda assurda di Attilio Fontana, finito nel tritacarne giudiziario e in quello giornalistico per troppa onestà, ci richiama quella capovolta che ha riguardato a suo tempo Gianfranco Fini. Il paragone è sconfortante. E dimostra che la logica del doppio peso e della doppia misura è oggi praticata come dieci anni fa. Semmai è pure peggio. L'azione della magistratura e, in un gioco di amorosi sensi, quella del giornalismo dominante - esaminando le due sequenze di fatti - dimostrano di attenersi a una costante irresistibile. Non crediamo alla mala fede, ma a una misteriosa componente del Dna, per cui procuratori e cronisti annusano ciò che giova alla sinistra con infallibile sincronismo e vi si adeguano in maniera così scoperta che se invece di persone gli italiani fossero formiche gli entomologi ne ricaverebbero una legge di natura. Nel nostro caso specifico, come dire?, c'è cognateria e cognateria. La valenza penale della parentela dipende dall'a-chi-giova, e non dalla verosimiglianza delle accuse e dalla pregnanza degli elementi di reato che coinvolgano congiunti o affini di personalità politiche. Bensì dall'uso che la sinistra ne può fare per manipolare il consenso.

A CHI GIOVA. Il 28 luglio di dieci anni fa, anniversario!, con un articolo di Gian Marco Chiocci sul Giornale, fu disvelato lo strano caso dell'appartamento di Montecarlo che, sottratto dal patrimonio di Alleanza nazionale per quattro soldi, beneficò il cognato di Gianfranco Fini, Giancarlo Tulliani. Questo articolo non vuole celebrare il decennale, ma vituperarlo. Constatiamo che la verità sulla proprietà e i maneggi vergognosi per omaggiare dell'alloggio milionario il fratello della moglie, erano palesi sin dai primi giorni dell'inchiesta giornalistica. Che successe invece? Nulla. Magistratura ferma per anni. Al punto che il processo penale è lontano dall'essere concluso (personalmente auguro a Fini, finito nella polvere politica, di cavarsela in Tribunale, se non altro per solidarietà maschile verso gli sventurati rovinati dalla passione). Il processo giornalistico intentato dall'inquisizione dei sacri pennivendoli cominciò subito. Non però contro i comportamenti delittuosi percepibili a occhio nudo da parte della combriccola finiana, ma contro chi aveva spiattellato il malaffare ai cittadini. Una verità che solo pochissimi giornali e rare voci televisive osarono raccontare e diffondere: condanna inevitabile da parte di questo sinedrio di scannacomputer, che li diffamò come sicofanti al servizio di Berlusconi. Il perché è fin troppo ovvio. Fini in quel 2010, presidente della Camera, era sì uomo di destra, ma di quel genere di destra girevole, tale da essere pronto a trasferirsi a sinistra pur di buttar giù il capo del governo, cioè il Cavaliere, che pure l'aveva associato come capolista del Pdl alle elezioni del 2008. Dunque era indispensabile a fungere da testa d'ariete per sfondare il portone di Arcore. I giornali di sinistra e i talk show, il Partito democratico e l'Italia dei valori, la magistratura con la sua inazione, compresero che non potevano permettere che fosse delegittimato da un'inchiesta giudiziaria il loro eroe del momento. Fini era la spina nel fianco di Berlusconi, la loro quinta colonna in casa del nemico. Andava usato come idrovora per portar via deputati e senatori dalla maggioranza e farlo cadere. Del resto anche il presidente Giorgio Napolitano - come ha testimoniato in un efficace libro Amedeo Laboccetta - contava proprio su Gianfranco per metter su un governo arlecchinesco che sbattesse fuori da Palazzo Chigi Berlusconi. Fini fallì e fu messo da parte. Fu presto sostituito nei disegni del Colle e dell'Europa da Mario Monti. Amen.

PARCE SEPULTO. Con il tempo il nudo squallore del malaffare è venuto a galla. Del resto ormai Fini non più utile alla causa era già stato abbandonato con indifferenza quale relitto in mezzo al mare. Né abbiamo intenzione noi qui di eccitare gli animi contro di lui. Parce sepulto, dicevano i latini. Piuttosto il caso attuale è quello di Attilio Fontana e del cognato Andrea Dini. Qui non c'è di mezzo il furto o l'appropriazione di denaro pubblico. Neppure un centesimo è finito per sbaglio nelle tasche di nessun cognato. Fontana rendendosi conto di aver danneggiato la ditta del suo affine (si dice giuridicamente affine, non parente) per il fatto stesso di essere governatore di centrodestra, e dunque nel mirino a prescindere, ha provato a risarcirlo con denaro pulito e dichiarato. Niente da fare. L'odore di cristianuccio leghista ha attratto con potenza gravitazionale e magnetica insieme il bravo giornalista di sinistra e i pm nella caccia al beccaccione sgradito al lupo comunista. Si leggano i quotidiani dal Corriere in giù (o in su?), si ascoltino i tg e i talk show: si esibiscono tutti con il sorcio in bocca di accuse fatte gocciolare con ritmo quotidiano dalla Procura o chi per essa, così da mettere in mano il coltello ai giornalisti della medesima squadra per lo sfregio quotidiano di Fontana. Tutti al servizio della sinistra che vuole prendersi il potere in Lombardia con la forza del Covid e delle calunnie.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 27 luglio 2020. L' affidamento al cognato di una fornitura di camici iscrive Fontana nella cognateide italiana. Il campione è Tulliani che, inguaiando Fini, fermò la trasformazione del postfascismo in destra moderna. Indimenticabili i cognati di Bertolaso, Di Pietro, Craxi, De Mita sino al fratello di Claretta, fucilato a Dongo. Più del "lei non sa chi sono io" c' è il "lei non sa chi è mio cognato" nella densa storia dell' Italia gradassa.

Dagospia il 20 luglio 2015. L’ad dei rossoneri ha tre o quattro matrimoni alle spalle ed è facile quindi che ci scappi un cognato. Ma mai avrebbe immaginato che l’ex acquisito asportasse merce dai locali di Milanello. Lo hanno inchiodato le telecamere della Digos, su ordine di Barbara, che gode per la gaffe del rivale...

Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 20 luglio 2015. A pensarci bene, nelle storie italiane c’è sempre di mezzo un cognato. Ricordate? Prima di finire in prigione, l’imprenditore Diego Anemone, intercettato dai carabinieri del Ros, chiedeva ad Angelo Balducci: «Oddio, quanti ce ne sono di cognati?». Per non parlare del cognato di Gianfranco Fini, quello della casa di Montecarlo, o del cognato di Guido Bertolaso. Anche nel Milan c’è un cognato, o meglio c’era. Si tratta di Mustapha Madhoun, 53 anni, marocchino, che lavorava come magazziniere nel club rossonero da 13 anni e che è anche l’ex cognato del presidente Adriano Galliani (è sposato con la sorella della modella Malika El Hazzazi). L’ad dei rossoneri ha tre o quattro matrimoni alle spalle ed è facile quindi che ci scappi un cognato. Ma mai avrebbe immaginato che l’ex acquisito asportasse merce dai locali di Milanello: due paia di calzoncini, una tuta e scarpini del calciatore Emanuelson. Lo hanno inchiodato le telecamere della Digos (ma la Digos non si occupa di indagini politiche?). Nell’abitazione dell’uomo i poliziotti hanno poi trovato un campionario sportivo della prima squadra: centinaia di magliette, scarpe, tute e articoli di merchandising . Le maglie più gettonate pare fossero quelle di Mario Balotelli. Si dirà: attaccamento alla maglia del Milan, attaccamento ai colori sociali, attaccamento alla famiglia. A volte gli affetti (famigliari), sfumati i legami, si tramutano in effetti (di vestiario).

Caso Fontana: giustizia “a orologeria” o visione patrimonialistica della cosa pubblica? Luciano M. Fasano il 29 luglio 2020 su Il Giornale. Lunedì il Presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, è intervenuto nell’Aula del Consiglio regionale con una lunga comunicazione volta a informare sulle vicende riguardanti le indagini in corso su di lui. In realtà, Fontana non ha affrontato solo questo argomento, ma ha fornito una ricostruzione puntuale di quanto accaduto nei mesi scorsi, nel pieno dell’emergenza da Covid-19 che ha colpito la regione da lui governata più di ogni altra realtà del nostro paese. La Lombardia è nell’occhio del ciclone per la gestione della pandemia e l’inchiesta sui camici e il materiale sanitario prodotto per la Regione dalla ditta di proprietà del cognato e della moglie del Governatore rappresenta soltanto l’ultima di una serie di indagini che stanno interessando la Giunta lombarda. Ma veniamo ai fatti. In piena emergenza la Regione Lombardia, alla disperata ricerca di dispositivi di sicurezza individuale (camici, mascherine ecc.) si rivolge alle imprese della regione. All’appello risponde, fra le altre, l’azienda del cognato e della moglie di Fontana, il quale non si capisce bene se e quando venga informato di questa cosa (si dice che il 10 maggio ne sia informata la sua segreteria, anche se trattandosi di una domenica è piuttosto improbabile, quindi il Governatore ne sarà stato informato lunedì 11 o martedì 12; è inoltre alquanto singolare che debba venire a conoscenza del fatto dall’Assessore Cattaneo e non dalla moglie con cui vive … ma ciò non ci riguarda!). Si tratta di una fornitura di qualche decina di migliaia di camici per poco più di mezzo milione di euro. Un’inchiesta giornalistica di Report mette sotto la lente di ingrandimento su quel contratto, negli stessi giorni in cui Fontana decide di parlarne con il cognato. Gli articoli della stampa riportano che l’iniziativa di Fontana segue e non precede l’avvio dell’inchiesta di Report; anche in questo caso ballano due o tre giorni (fra il 12 e il 15 maggio), ma non è che con i pressanti impegni che in quei giorni il Governatore si trovava ad affrontare per fronteggiare la pandemia dovesse proprio correre ad incontrare il cognato … quindi possiamo in buona fede immaginare che, al di là dell’inchiesta giornalistica, lo avrebbe comunque fatto. Ad ogni modo sentito il cognato, lo convince su due piedi a trasformare la commessa in donazione. Probabilmente il cognato non avrà reagito molto bene, quel che però conta è che chiama e scrive un’email in Regione per comunicare lo storno della fattura (peraltro, già emessa … che straordinaria rapidità!), e lo fa talmente di corsa che la Regione ha finora soltanto accusato ricevuta di quella e-mail, senza aver ancora proceduto alla formalizzazione della donazione secondo le consuete procedure (tra l’altro, non si capisce nemmeno se abbia formalmente risposto alla proposta di donazione, perché – e dobbiamo saperlo – in Italia anche una donazione, se riguarda la Pubblica amministrazione, non è una cosa che si può fare su due piedi!). Infine, a parziale risarcimento della perdita procurata, Fontana decide motu proprio di bonificare alla società del cognato 250 mila euro (circa la metà del compenso perso) da un conto di cui è intestatario in Svizzera. Un conto sul quale sono depositati più di cinque milioni di euro, risparmi di una vita della madre e del padre arrivati dalle Bahamas, dove erano originariamente collocati in due trust (un meccanismo di origini anglosassone, non proprio trasparente, per la gestione di fondi in rapporto strutturato con diversi beneficiari), successivamente sanati con voluntary disclosure per il fisco italiano. Valore e causale del bonifico (“camici”) sono così singolari da allertare Banca d’Italia rispetto alle ordinarie procedure di inchiesta per riciclaggio. Dell’attività di Banca d’Italia vengono informati i magistrati che già stavano indagando sul caso dei camici per altre ragioni. E Fontana finisce nell’occhio del ciclone con un’indagine che si fa sempre più articolata e complessa. La vicenda, di per sé, sembrerebbe degna di un feuilleton, o di una telenovelas di quelle che ancora oggi vanno per la maggiore nelle serate del fine settimana delle reti Mediaset. Ed è in parte anche alimentata da dichiarazioni alquanto stravaganti del diretto interessato, che non ricorda esattamente quando fosse venuto a conoscenza della fornitura onerosa di camici da parte del cognato, si dice sorpreso del passaggio dei soldi dalle Bahamas (avendo sempre pensato fossero depositati a Lugano), afferma di non avere operato almeno dagli inizi degli anni ottanta sul conto svizzero dove si trovavano quei soldi (anche se poi si scopre che di movimenti, e pure per cifre consistenti, su quel conto in anni recenti ci sono stati), e non ricorda neppure di aver pagato all’Anac una multa di mille euro, per aver omesso di dichiararli nel suo stato patrimoniale del 2015, l’anno in cui i cinque milioni di euro depositati a Lugano vennero sanati. Insomma, visto il modo maldestro in cui risponde ai rilievi che gli vengono mossi, c’è proprio da ritenere che Fontana si sia sempre comportato in perfetta buona fede. Anche perchè è poco plausibile pensare che un amministratore pubblico di esperienza e un professionista navigato come quale il Governatore della Lombardia è, con un passato ricco di importanti incarichi societari (Missoni, Fiera di Milano, Macchi, SIAE SpA ecc.) e di governo (Sindaco di Induno Olona e Varese, Presidente del consiglio regionale lombardo e infine Presidente di Regione Lombardia), possa essere vittima di svarioni così eclatanti. Non dobbiamo però dimenticare che – piccolo particolare non del tutto indifferente – stiamo parlando del Governatore della Lombardia, mica del Sindaco di Capracotta (con tutto il rispetto per il Primo cittadino e i circa 800 abitanti di quell’ameno comune del Molise). L’indagine giudiziaria farà il suo corso e potrebbe anche non sorprendere (come già accaduto in altre occasioni) che alla fine Attilio Fontana risulterà non aver commesso nessun reato. Ma il problema politico resta ed è grande come una casa. Non si tratta tanto dell’opportunità o meno, per un Presidente di regione, di lasciare via libera a propri congiunti in una cospicua commessa dell’amministrazione di cui si è a capo. In circostanze di emergenza, come quelle in cui si trovava la Lombardia qualche mese fa, potrebbe essere del tutto trascurabile se a rispondere all’appello per risolvere un problema di scarsità di camici fosse anche un’azienda che ha legami familiari con il capo dell’esecutivo. Ciò che è grave sta nel fatto che un amministratore pubblico di lungo corso, nonché un avvocato professionista con tanto di studio affermato, come appunto è Fontana, non abbia deciso di rispettare alcune regole minime di condotta che riguardano chi riveste una carica pubblica. Tenere un comportamento ispirato a principi di trasparenza, evitare improvvisazioni del tutto incompatibili con la gestione della cosa pubblica, non accertarsi – come avrebbe dovuto fare, una volta a conoscenza del fatto – della correttezza delle procedure amministrative seguite dai propri congiunti. Sono aspetti fondamentali che devono ispirare e contraddistinguere l’azione di chi esercita una funzione pubblica di governo come Fontana. E quel che sorprende, nella sua comunicazione di ieri al consiglio regionale lombardo, così come nella difesa della sua condotta esercitata dai suoi colleghi di partito, Matteo Salvini in testa, è che non si intraveda il benché minimo straccio di cultura delle istituzioni e della loro terzietà. Fontana, così come la Lega e Salvini, trattano la cosa pubblica adducendo ragioni di natura privata. Come nel più retrogrado e tradizionale patrimonialismo, nel senso weberiano del termine, il rispetto di principi di trasparenza, correttezza procedurale e separatezza della pubblica funzione dal propria sfera privata, come stile distintivo dell’amministratore pubblico, viene derubricato e messo in un cantone, in virtù di un pratico richiamo alla sostanza delle cose. Una persona non può essere indagata per una donazione. Sì, ma questa donazione non è un semplice affare di famiglia (ciò che, peraltro, per la legge italiana, richiederebbe comunque un atto di certificazione da parte di un notaio). È qualcosa che riguarda un’ente pubblico come Regione Lombardia, così come riguarda Attilio Fontana in quanto Presidente della Giunta di quella regione. Se Fontana e la sua Giunta, la Lega e il centro-destra lombardo, Matteo Salvini non se ne rendono conto è un problema. Pretendere di parlare in nome del “popolo” (italiano o lombardo che sia, poco conta!) non può significare trattare come casa propria le istituzioni della Repubblica. E su questo non del tutto trascurabile aspetto, la magistratura politicizzata, la giustizia ad orologeria e il garantismo non c’entrano assolutamente nulla!!!

Luca Fazzo per il Giornale il 29 luglio 2020. Il clima giudiziario intorno a Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, somiglia sempre più a un accerchiamento. Ieri sera la Guardia di Finanza ha perquisito la sede della Dama spa, la società del cognato Andrea Dini. Le forze messe in campo dalla Procura, la determinazione con cui nel pieno dell' estate si scava negli affari pubblici e privati del governatore lombardo, dicono chiaramente che la vicenda dei camici forniti dal cognato di Fontana alla Regione è solo il varco attraverso il quale i pm si muovono ora per una ricostruzione a 360 gradi degli affari dell' esponente leghista. Ieri si apre un nuovo capitolo nella analisi dei fondi esteri di Fontana: un articolo di Domani, il nuovo giornale di Carlo De Benedetti (per ora disponibile solo come newsletter) accende i riflettori su una fondazione in Liechtenstein, la Obbligo Familienstiftung di Vaduz. La Obbligo è il trustee, ovvero il gestore, del conto a Nassau, nelle Bahamas, dove la mamma di Fontana sposta numerosi milioni di euro. Beneficiario della Obbligo, scrive Domani, è sempre la signora Fontana e alla sua morte il figlio Attilio. Sono i soldi che Fontana dopo la scomparsa della madre regolarizza con lo scudo fiscale e che cerca poi (senza riuscirci) di utilizzare per pagare una parte dei camici forniti dal cognato Andrea Dini alla Regione. Per capire quanto sta accadendo, va tenuto presente che sui soldi che si spostano tra Bahamas, Liechtenstein e Svizzera non si muove solo l' inchiesta di Domani. Le domande sollevate dalla newsletter, si dice in Procura, «sono le stesse che ci stiamo facendo anche noi». Cosa ha a che fare tutto ciò, ovvero la genesi e la evoluzione dei beni personali di Fontana, con la vicenda dei camici? Un legame diretto, evidentemente, non c' è. Ma i tre pm (Scalas, Furno e Filippini) coordinati da un superesperto come il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli puntano a ricostruire l' intero contesto in cui la vicenda si è sviluppata. L' unico reato contestato per ora al presidente lombardo è la frode in forniture pubbliche, in pratica gli viene contestata la mancata consegna alla Regione dell' intero blocco di 75mila camici promessi dalla Dama, la società di Dini. Non c' è, per il momento, un reato tributario. Ma si può stare certi che se dovessero inciampare in un dettaglio illecito, i pm (ammesso che non si tratti di fatti ormai prescritti, visto il tempo trascorso) non esiterebbero a fare scattare nuove accuse. Fontana, da parte sua, continua a mostrarsi sicuro di poter dimostrare la regolarità dei suoi comportamenti sia sul fronte dei camici sia nella gestione del patrimonio. Nell' incontro dell' altroieri con gli inquirenti, il legale del governatore, Jacopo Pensa, è tornato a manifestare la disponibilità a chiarire tutto il versante estero. A questo punto la Procura sta rallentando i tempi della rogatoria prevista verso la Svizzera, perché se fosse lo stesso Fontana a mettere a disposizione i documenti si risparmierebbe tempo e fatica. Ma è comprensibile che prima di consegnare tutte le carte il presidente voglia capire esattamente qual è l' obiettivo reale della indagine. È una domanda che Fontana si sta ponendo con insistenza, tanto più quanto si considera estraneo al tema ufficiale dell' indagine. Non capiva come lo si potesse accusare, come era stato ipotizzato, di avere spinto per il contratto tra Regione e Dama, essendo ormai pacifico che ne seppe solo a cose fatte. Ma ancora meno capisce come gli si possa rinfacciare la decisione del cognato di non ultimare la consegna. E allora, si chiede, dove vogliono arrivare? Intanto il M5s insiste: sulla donazione ha mentito, se ne vada.

Chiara Baldi per la Stampa il 29 luglio 2020. A fine maggio, ancora in emergenza coronavirus, in una delle partecipate più importanti di Regione Lombardia veniva nominato come consulente, a 22 mila euro l' anno, l' ex socio del presidente Attilio Fontana, Luca Marsico. Quello stesso Marsico per il quale Fontana aveva rischiato un anno fa di mettersi nei guai, finendo indagato per abuso d' ufficio nell' ambito dell' inchiesta «Mensa dei poveri»: l' ipotesi era che Fontana avesse caldeggiato la figura di Marsico come membro esterno del nucleo di valutazione degli investimenti pubblici della Regione Lombardia. Ma a marzo la Procura di Milano aveva chiesto l' archiviazione per il governatore. Poi, il 28 maggio scorso ecco l' ex socio dello studio legale di Fontana rispuntare in Aler Milano: con una deliberazione a firma del presidente Mario Angelo Sala, di area maroniana, nello stesso ente pubblico, che si occupa delle case popolari in Lombardia e che è controllato dalla Regione, Luca Marsico viene nominato «membro esterno» del nuovo Organismo di Vigilanza. La nomina parte dal primo giugno 2020 e ha durata triennale, fino al 31 maggio 2023. Per questo incarico di consulente esterno l' avvocato Marsico, che nel 2018 non è stato rieletto al Consiglio Regionale perché il ras di Forza Italia, Gioacchino Caianiello gli ha preferito un altro (Angelo Palumbo), percepirà 22 mila euro l' anno più Iva. Tra i ruoli dell' Organismo di Vigilanza, spiegano da Aler, c' è quello di «vigilare sulla corretta applicazione del Modello di Organizzazione e Gestione (Mog); analizzare i flussi informativi da parte dei soggetti destinatari dei protocolli di prevenzione previsti dal Mog; verificare la diffusione del modello tra i suoi destinatari; curare l' aggiornamento e l' implementazione dello stesso; comunicare eventuali falle o distorsioni nell' applicazione dei modelli organizzativi da parte dei destinatari». In più, dice la delibera, l' Organismo di Vigilanza potrà «effettuare spese per lo svolgimento delle attività fino all' importo massimo annuo di 35 mila euro, secondo le modalità da concordarsi con il Direttore Generale». A capo dell' Organismo di Vigilanza, un tassello sopra Marsico, viene confermata un' altra vecchia conoscenza della Lega: Carmine Pallino, ex commissario della Fondazione Molina di Varese, una delle tre più importanti case di riposo della Lombardia, fondazione privata il cui Presidente e Consiglio di Amministrazione vengono nominati dal sindaco di Varese. Che fino al 2016 è stato Attilio Fontana. Pallino, in verità, in Fondazione Molina tra la fine del 2016 e ottobre 2018 subentra ai vertici nominati proprio da Fontana, che incappano in una brutta storia - attualmente ancora in corso, dal punto di vista giudiziario - riguardo l' uso di alcuni fondi della Fondazione che sarebbero stati usati per finanziare un' emittente privata per attività che esulavano quelle della stessa emittente. In Aler Milano Pallino viene riconfermato «membro esterno con funzioni di presidente» dell' Organismo di Vigilanza a 25 mila euro l' anno più iva «e oneri accessori di legge, onnicomprensivo di eventuali rimborsi spese» (che spettano anche a Marsico). Le nomine di Marsico e Pallino cadono in un momento delicato non solo per l' emergenza Covid, ma anche perché pochi giorni dopo «Report» tirerà fuori la storia dei camici, vicenda in cui Fontana ora è indagato. «Questo è il modo in cui la Lega opera in Lombardia», commenta il consigliere regionale del Partito Democratico Pietro Bussolati. «Un vero e proprio "Sistema Lega" inaccettabile, in cui vengono nominati sempre gli stessi. Aler dovrebbe impegnarsi a rendere vivibili le case popolari, invece si impegna solo a compiacere Fontana con le nomine del suo ex socio e di altre figure già contestate sul territorio. Mi chiedo quale libertà di giudizio avranno Marsico e Pallino su Aler».

Da corriere.it il 29 luglio 2020. Venticinquemila camici per operatori sanitari sono stati trovati dagli agenti della Guardia di finanza nella sede della Dama Srl, l’azienda guidata da Andrea Dini, cognato del governatore lombardo Attilio Fontana. La perquisizione, avvenuta nella giornata di martedì (e di cui avevamo dato conto qui), ha portato dunque al rinvenimento e al sequestro probatorio della componente mancante dell’ordine di 75mila camici — giunto a Dama il 16 aprile scorso con una assegnazione diretta — che sarebbero dovuti essere consegnati alla Regione Lombardia per far fronte all’emergenza-Covid. Dai primi riscontri il lotto di camici sequestrati dalla Finanza — tecnicamente, il «corpo del reato ipotizzato», la frode in pubbliche forniture — è completo. Dama aveva consegnato finora 49mila pezzi. La ditta varesina aveva interrotto le consegne dopo la trasformazione (mai ufficialmente registrata, anche per le perplessità dell’ufficio legale interno sulla semplicistica modalità mail e sulla non consegna del resto dei camici) del contratto con la Lombardia da vendita (il prezzo concordato era di 513.00 euro) a donazione a causa del conflitto di interessi tra Dini e Fontana, circostanza che ha portato la procura di Milano ad aprire sul caso un’inchiesta che vede ora indagati Dini, Fontana e il direttore generale dimissionario di Aria, Filippo Bongiovanni. Le accuse sono, per Dini e Bongiovanni, di «turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente»; per i due, in concorso con Fontana, anche di frode in pubbliche forniture: in sostanza, secondo i magistrati, Regione Lombardia avrebbe acquistato un bene (i 75mila camici) e non avrebbe dovuto consentire che Dini si sottraesse all’impegno contrattuale di fornire comunque (in dono o in vendita) i 25.000 camici residui dopo i due terzi già consegnati. Secondo quanto indicato qui, Dini sta ora valutando l’opzione di metterli a disposizione. La perquisizione del cognato di Fontana — come scritto qui — puntava anche ad acquisire chat, messaggi, mail e comunicazioni risalenti allo scorso maggio tra Dini e Fontana. Come riassunto qui, oltre alle contestazioni penali, la vicenda che coinvolge il presidente della Regione presenta profili penalmente irrilevanti ma politicamente sensibili, sui quali si è scatenata la polemica: il fatto che Fontana avesse deciso di versare, all’insaputa del cognato, 250 mila euro alla Dama per rifondere l’azienda del mancato guadagno, e che avesse per questo ordinato un bonifico (poi annullato dopo una segnalazione arrivata alla Banca d’Italia) da un conto in Svizzera sul quale, nel 2015, aveva fatto uno scudo fiscale; il fatto che Fontana avesse affermato di non essere mai intervenuto sulla vicenda; il fatto che Fontana non avesse mai rivelato la voluntary disclosure con la quale aveva regolarizzato i fondi in Svizzera, che erano detenuti da due «trust» creati alle Bahamas e di cui la madre di Fontana era titolare.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 29 luglio 2020. Le chat, i messaggi, le mail, insomma le comunicazioni che posso essere intercorse in maggio tra Andrea Dini, titolare della Dama spa e fratello della moglie di Attilio Fontana, e il presidente di Regione Lombardia: è questo ciò che gli inquirenti milanesi hanno voluto acquisire ieri sera mandando il nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza a perquisire Dini e la sua azienda. Iniziativa volta anche ad approfondire (sia nel magazzino sia nella certificazione commerciale e fiscale) il presupposto dell’ipotesi di reato di «frode in pubbliche forniture»: e cioè la mancata consegna ad Aria spa — la centrale acquisti della Regione — dei 25.000 restanti camici dopo che l’iniziale fornitura pattuita il 16 aprile (75.000 camici e 7.000 set sanitari al prezzo di fabbricazione di 513.00 euro) era stata tramutata con un mail del 20 maggio da Dini in «donazione». Una donazione poi mai però accettata da «Aria spa», anche per le perplessità dell’ufficio legale interno sulla semplicistica modalità mail e sulla non consegna del resto dei camici. Il cambio da «fornitura» in «donazione» — come ormai è emerso nei giorni scorsi — fu chiesto esplicitamente il 17 maggio da Fontana al cognato per disinnescare il potenziale rischio reputazione dopo che prima in seno alla Regione (tra il 10 e il 12 maggio), e poi alla redazione tv di Report (intorno all’11-15 maggio), era cominciata a circolare la notizia della commessa. Per quel cambio Fontana afferma di aver voluto «risarcire» il cognato con il tentativo il 19 maggio di bonifico (poi bloccato dalla fiduciaria come «segnalazione di operazione sospetta») di 250.000 euro presi dal proprio conto svizzero all’Ubs: il conto sul quale nel settembre 2015, dopo la morte in giugno della 92enne madre Maria Giovanna Brunella, a titolo di erede l’allora sindaco di Varese «scudò» 5 milioni e 300.000 euro, detenuti in Svizzera da due trust (strumenti giuridici di origine anglosassone per proteggere il patrimonio), creati alle Bahamas nel 2005 (dopo un inizio nel 1997) quando Fontana presiedeva il Consiglio regionale, e nei quali la madre dentista figurava «intestataria», mentre Fontana risultava in uno il «soggetto delegato» e nell’altro il «beneficiario economico». Il presidente leghista della Regione, oltre ad assicurare che «mio papà era dipendente della mutua, mia madre era una super-fifona, figurarsi evadere… I miei hanno sempre pagato tutte le tasse» (frase che poco si concilia con l’adesione nel 2015 alla voluntary disclosure per sanare il «mancato assolvimento degli obblighi di monitoraggio fiscale nel 2009-2013»), ha aggiunto a Repubblica che il «conto non era operativo da decine di anni, penso almeno dalla metà degli anni ‘80». Ma la relazione allegata da Fontana all’Agenzia delle Entrate alla richiesta di voluntary disclosure nel 2015, riassunta ieri dalla newsletter online Domani, mostra un’operatività invece caratterizzata da alti e bassi rispetto ai 4.565.000 euro giacenti nel 2009: 129mila euro in più nel 2010, mezzo milione in meno nel 2011, 440mila in più nel 2012, 100mila in più nel 2013 a quota 4.734.000.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 30 luglio 2020. Sono un messaggio whatsapp delle 9 del mattino del 20 maggio, e un anticipo di 2 ore, a fondare la convinzione dei pm di «un preordinato inadempimento» contrattuale «per effetto di un accordo retrostante» tra la Regione Lombardia e l’imprenditore varesino Andrea Dini (fratello della moglie del presidente della giunta regionale Attilio Fontana), che il 16 aprile era stato affidatario diretto con la propria «Dama spa» di una commessa da 513.000 euro per la fornitura di 75.000 camici e 7.000 set sanitari alla centrale acquisti regionale «Aria spa» diretta da Filippo Bongiovanni.

La «fornitura» cambia il 20 maggio. La convinzione è che il suo improvviso tramutare il 20 maggio la «fornitura» in «donazione» — limitata però ai 49.000 camici e 7.000 set sanitari sino allora già forniti, e senza più ulteriore consegna alla Regione dei restanti 25.000 camici pur pattuiti all’inizio dal contratto — sia stata non una sua scelta generosa (per quanto magari affannata dopo la richiesta di Fontana il 17 maggio di soprassedere ai pagamenti per non alimentare polemiche su conflitto di interessi), ma un trucco pianificato sulla scorta di «una rassicurazione ottenuta per il tramite di un accordo stabilito altrove». Sinora, infatti, si credeva che l’ipotesi di reato di «frode in pubbliche forniture» (contestata ai tre) valorizzasse il fatto che, dopo la donazione, Dini avesse cercato di rivendere i 25.000 camici per rientrare in parte del mancato profitto al quale aveva rinunciato con la mail delle ore 11.07 del 20 maggio ad «Aria spa»: «Come anticipato per le vie brevi, la presente per comunicare che abbiamo deciso di trasformare il contratto di fornitura in donazione. Certi che apprezzerete la nostra decisione, vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura». Ma ora in mano ai pm c’è un whatsapp di Dini («Ciao, abbiamo ricevuto una bella partita di tessuto per camici. Li vendiamo a 9 euro, e poi ogni 1000 venduti ne posso donare 100») nel quale alle ore 8.58 di quel 20 maggio, due ore prima di formulare per la prima volta l’offerta alla Regione di trasformare la fornitura in parziale donazione e contestuale riduzione della restante fornitura, Dini già «offriva in vendita» alla interlocutrice commerciale E.R. «i camici non consegnati ad Aria spa, a riprova di una rassicurazione ottenuta per il tramite di un accordo divisatosi aliunde».

Il sequestro dei 25mila camici. Il giuridichese è orribile, ma vuol dire che, se Dini cercava di vendere i 25.000 camici già due ore prima di proporre alla Regione la donazione, e dunque a maggior ragione senza nemmeno sapere se la Regione l’avrebbe poi accettata (cosa che formalmente non accadrà mai), era perché Dini era già sicuro, per sottostanti accordi con qualcuno in Regione, di poter contare sul fatto che la Regione non pretendesse più i 25.000 camici restanti. Ovvio che il whatsapp avrebbe questo valore solo se offerti fossero davvero stati quei camici della fornitura regionale, e non altri: ascoltata come teste, il 18 giugno la donna ha rafforzato questa interpretazione dei pm, aggiungendo che invece in aprile Dini le aveva detto «di dover vendere alla Regione» in forza di «un contratto in via esclusiva». Il sequestro probatorio in «Dama spa» dei 25.000 camici «corpo del reato» (proprio quelli del lotto regionale) non impensierisce il legale di Dini, Giuseppe Iannaccone, anzi «contento che i pm abbiano fatto queste verifiche» perché «dimostrano che i camici sono sempre stati in magazzino e mai c’è stata alcuna rivendita. Confido che questi accertamenti possano accelerare le indagini e chiarire ciò che io so molto bene, e cioé che Dini è una persona specchiata».

Il bonifico mancato. Sul tentativo di Fontana di «risarcire» il cognato il 19 maggio con un bonifico di 250.000 euro, la newsletter Domani inquadra la tecnica dell’operazione «segnalata sospetta» da Unione Fiduciaria e bloccata: dal conto svizzero Ubs «a nome della fiduciaria italiana» a «un conto omnibus intestato alla fiduciaria presso la Banca Popolare di Sondrio», e da qui alla società di Dini. Senza mai che Fontana comparisse in «un trasferimento formalmente disposto da una società fiduciaria (ma di fatto da Fontana) tramite un’operazione domestica (ma di fatto proveniente da un conto estero)».

GIUSEPPE SCARPA per il Messaggero il 30 luglio 2020. Contraddizioni. Mezze verità. Inesattezze. Insomma bugie. Se la somma delle incongruenze raccontate dal governatore della Lombardia Attilio Fontana avrà come risultato definitivo l'incriminazione da parte della procura di Milano, lo si vedrà nelle prossime settimane. Ad oggi, infatti, il numero uno del Pirellone sconta un'indagine per frode in pubbliche forniture. Tuttavia ciò che adesso rileva è il qui ed ora. Se le menzogne non sono sempre sanzionate dal codice penale hanno invece un peso politico. C'è in ballo la credibilità dell'uomo al vertice della più produttiva e ricca regione d'Italia. Le affermazioni di Fontana vacillano paurosamente, smentite dai fatti o dallo stesso governatore nel giro di poche ore o di qualche giorno al massimo. Ecco, perciò, un riassunto delle principali contraddizioni in cui è incappato l'esponente delle Lega sul caso dei camici anti-covid ceduti da Dama, la società del cognato, Andrea Dini, alla Lombardia.

LE CONTRADDIZIONI. L'8 giugno Fontana afferma: «Nel caso dell'azienda di mio cognato i camici sono stati donati». È una mezza verità. Il governatore, infatti, messo alle strette dopo l'indagine giornalistica di Report impone il dietrofront al parente che inizialmente quei camici li stava vendendo alla Regione. Tre episodi smentiscono la versione di Fontana, il primo: Dini aveva inviato una mail ad Aria, la centrale d'acquisti della Lombardia, con le tariffe proposte, 6 euro a camice. La seconda, lo stesso governatore il 19 maggio bonifica 250 mila euro al cognato, forse per i sensi di colpa dovuti alla mancata vendita trasformata in donazione forzata. Inoltre ad indebolire il concetto che si tratti di un autentico regalo c'è un altro aspetto: i camici da consegnare erano 75 mila, ma Dama ne conferisce 50mila alla Regione, gli altri 25mila cerca di venderli a 9 euro a pezzo ad una Rsa. Sempre i primi di giugno, il 7, Fontana mette in fila una serie di affermazioni che poi vengono sconfessate: «Non sapevo nulla della procedura attivata da Aria spa e non sono mai intervenuto in alcun modo». Invece non è così e il governatore il 27 luglio afferma: «Dei rapporti negoziali a titolo oneroso tra Dama (società del cognato, ndr) e Aria non ho saputo fino al 12 maggio scorso». Insomma confuta sé stesso. Ma c'è di più, perché anche quest' ultima versione ha degli elementi, per così dire, di debolezza. A contestare la data del 12 maggio, giorno in cui Fontana ritiene di essere stato informato dell'affaire che riguardava l'azienda di Dini, è lo stesso ex numero uno di Aria, Filippo Bongiovanni: il dg ha spiegato ai pm di aver comunicato dell'intera faccenda la segreteria del governatore il 10 maggio. Perciò due giorni prima rispetto a quanto sostenuto dal numero uno del Pirellone.

CONTO IN SVIZZERA. I guai però per Fontana non finiscono qui. Il bonifico da 250 mila euro al cognato (mai perfezionato per un allert dell'antiriciclaggio) ha scoperchiato la storia del tesoretto del governatore in Svizzera nella banca Ubs. Denari scudati nel 2015 che oggi ammontano a 4,4 milioni di euro. Cinque anni fa il conto superava i 5 milioni di euro. Ebbene il governatore sostiene si tratti dell'eredità lasciata dai genitori. Per Fontana non ci sono dubbi, non sono riserve frutto di evasione fiscale da parte del padre o della madre. Ma allora per quale motivo questi soldi sono stati schermati per anni con un trust alle Bahamas? Una domanda a cui il governatore ha risposto sostenendo che si tratta di «un conto che avevano i miei genitori, una cosa purtroppo (portare i soldi all'estero, ndr) di moda a quei tempi». E sempre su quel deposito milionario Fontana compie un altro scivolone: «Era un conto non operativo da decine di anni, penso almeno dalla metà degli anni Ottanta». Ebbene nella newsletter del quotidiano Domani si legge che tra il 2009 e il 2013 ci sono stati diversi grossi movimenti di denaro sul conto. Insomma si tratterebbe di un'altra contraddizione. Disattenzioni sul tesoretto svizzero che in passato sono già costate a Fontana un multa da mille euro da parte dell'Anac: sanzione per omessa dichiarazione dello stato patrimoniale nel 2017. In pratica il presidente di Regione Lombardia venne multato per non aver fornito al Comune di Varese - di cui era sindaco fino al giugno 2016 - lo stato patrimoniale relativo al 2015, da cui sarebbe risultata la nuova disponibilità, 5 milioni di euro, che era stata sanata in rientro dalla Svizzera utilizzando lo scudo fiscale. Un'eredità che adesso può costare a Fontana il posto di governatore.

LUIGI FERRARELLA per il Corriere della Sera il 31 luglio 2020. Una mail del 5 giugno mostra che l'ufficio legale della società d'acquisti regionale «Aria spa» inoltrò al direttore Filippo Bongiovanni «le obiezioni a recepire la proposta» dell'imprenditore Andrea Dini (cognato del presidente della Regione Attilio Fontana) «di parziale conversione in donazione» dei 50.000 camici sino allora consegnati, «e di interruzione dell'ulteriore fornitura prevista contrattualmente» di 25.000 camici. La cui tentata vendita altrove, in un whatsapp di Dini il 20 maggio già 2 ore prima di proporre il cambio di schema alla Regione, per i pm prova il «preordinato inadempimento per effetto di un accordo retrostante». Il messaggio era stato commentato ai pm il 18 giugno dalla sua destinataria, la teste Emanuela Crivellaro, della onlus Il Ponte del Sorriso: «Quando poi vidi "Report", capii che stavano cercando di camuffare la vicenda come donazione», anche perché già il 9 aprile «Dini mi aveva detto che doveva vendere i camici alla Regione in esclusiva». Ma ieri Crivellaro, molto amica della famiglia Dini, ha tenuto a rimarcare che «è una famiglia generosa e molto riservata nelle donazioni», dicendosi ora convinta che il whatsapp sui camici (diversi dai 25.000 dell'ex lotto della Regione, prospetta il legale di Dini, Giuseppe Iannaccone) fosse solo «una comunicazione generica» da parte di Dini, e «non un invito a comprarli».

VALENTINA ERRANTE  per il Messaggero il 31 luglio 2020. «Ho un contratto di fornitura con la Regione Lombardia». Lo diceva dai primi di aprile Andrea Dini, il cognato del governatore Attilio Fontana che, nell'ultima settimana di marzo aveva cominciato a cercare i tessuti per i camici. Eppure è solo il 16 aprile, quando Aria, centrale di acquisti della pubblica amministrazione, sceglie, con la procedura d'urgenza dovuta all'emergenza sanitaria, l'offerta dell'imprenditore. Solo allora Dini firma un contratto da 513mila euro per 75mila camici (sei euro l'uno) e 7mila set sanitari. Nasce da queste circostanze il sospetto dei pm di Milano che ci fosse un accordo preesistente e che quando Dini decide di convertire la sua azienda, la Dama spa, che detiene il marchio Paul&Shark, sa di avere il contratto in tasca. Agli atti dell'inchiesta, che ipotizza il conflitto di interessi come presupposto dell'affidamento della fornitura, c'è il verbale della presidente di una onlus, la stessa alla quale il cognato di Fontana si rivolgerà per piazzare i 25mila capi che ha deciso di non consegnare alla Regione, dopo essere stato convinto dal presidente a trasformare il suo contratto in donazione. Circostanze che rischiano di aggravare la posizione del governatore, indagato solo per frode in pubbliche forniture, aggravata dall'avere bloccato la consegna di merce destinata a ovviare a un pericolo comune. Per i pm, Dini è stato indotto a interrompere la fornitura dal governatore «con l'espediente di trasformarla in parziale donazione», per superare il conflitto di interesse ma riducendo la quantità della merce «in modo da potere destinare la parte di camici non ancora consegnata al mercato». Il resto Fontana pensava di pagarlo di tasca propria col bonifico dalla Svizzera.

IL VERBALE. È il 18 giugno quando Manuela Crivellaro, presidente della onlus Il ponte del Sorriso viene sentita dai pm: «Sapevo che Dini stava cercando tessuto per produrre i camici, perché sua moglie, Raffaella Soffiantini, che avevo contattato per chiederle una donazione di denaro, mi aveva riferito che suo marito stava cercando il tessuto e se conoscevo qualcuno che lo producesse. Questa telefonata - dice Crivellaro - è del 25 marzo». La donna precisa: il 7 aprile: «Ho chiesto a Dini la certificazione perché l'ospedale poteva accettare solo camici certificati. Lui mi ha mandato tramite whastapp la certificazione del solo tessuto e mi ha detto che stava completando tutte le pratiche di certificazione dei camici e che il suo riferimento in Regione era Raffaele Cattaneo». (capo della task force sull'emergenza). Infine la signora aggiunge: «Il 9 aprile ho scritto a Dini che l'ospedale non aveva più camici e lui mi ha risposto domani penso 500', ma il giorno dopo ce ne fece avere solo 300 e già in quell'occasione mi disse che era in trattativa con la Regione Lombardia». «Sa quando Paul&Shark ha convertito la produzione?», chiedono i pm. «Lui stava cercando il tessuto dall'ultima settimana di marzo. Il 6 aprile - aggiunge la donna - mi ha dato insieme al primo campione di camice anche la certificazione del tessuto. Ai primi di aprile, poi, mi ha dato il primo campione e quindi ai primi di aprile ha convertito la produzione».

LA DONAZIONE. «Come anticipato per vie brevi..». Così scrive Dini il 20 maggio nel file con il quale comunica all'allora dg di Aria la sua decisione di trasformare il contratto in donazione «certi che apprezzerete la nostra decisione, vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura»: 25mila camici non arriveranno più. Ma i pm, nel decreto di perquisizione alla Dama sottolineano che tra Dini e e il dg di Aria, Bongiovanni «non ci sono state conversazioni precedenti, non risulta dai tabulati e lo stesso indagato lo ha escluso a verbale». Due ore prima, invece, Dini ha tentato di vendere i 25mila camici a 9 euro ciascuno. Il 20 maggio Dini ringrazia. Alle 22,46 dello stesso giorno, orario insolito per la corrispondenza di lavoro, gli risponde anche un'altra dipendente che suggerisce a Dini di ritirare le fatture già emesse per i 50mila camici. Ma la questione non è semplice. Una corrispondenza fittissima tra i dipendenti che si chiedono come sistemare la questione e sulla trasmissione Report, che ha trasmesso alcune domande alla centrale di acquisto della pubblica amministrazione in vista della puntata del 7 giugno sono al centro delle email dei dipendenti. Il 5 giugno arriva però Carmen Schweigl, responsabile della procedura, (indagata) e Bongiovanni ricevono dall'ufficio legale «le obiezioni in ordine alla bozza di determina a firma» del dg «con la quale si era proceduto a recepire la proposta parziale di conversione in donazione e di interruzione della ulteriore fornitura contrattualmente prevista». E così i camici rimangono alla Dama. Ora sono atti sequestrati dai militari del nucleo di polizia valutaria della Finanza. 

EMILIO PUCCI per il Messaggero il 30 luglio 2020. Si sono sentiti anche ieri. Nei giorni scorsi Fontana per un attimo ha pensato di lasciare, amareggiato per gli attacchi personali. Ma Salvini gli ha ripetuto nuovamente di andare avanti, di non farsi intimorire da quella che considera una vera e propria macchina del fango in movimento. Il segretario difende il governatore lombardo a spada tratta ma riferisce un big della Lega ha voluto un chiarimento, un quadro ben definito per non trovarsi sui giornali nuovi particolari dell'inchiesta e conoscere tutti i risvolti giudiziari. Insomma da un lato il leader del partito di via Bellerio lo invita a resistere, dall'altro vuole spiegazioni per capire in maniera completa ogni aspetto su cui la magistratura sta indagando. Con il convincimento che il caso camici non porterà a nulla. Tra i lumbard però il malessere aumenta. «Avrebbe dovuto evitare», dice un alto dirigente, «sarà anche un avvocato e non un politicante ma il suo comportamento è stato sconveniente», ammette un altro. Il timore è uno solo: «Nei sondaggi caliamo perché osserva un deputato di primo piano perdiamo consensi in Lombardia. Tuttavia in questo momento non possiamo fare nulla, né un rimpasto né tantomeno pensare ad un commissariamento». Il danno d'immagine ecco la consapevolezza comune nel partito c'è ma la necessità è di respingere «la tempesta perfetta». Con Salvini che oggi dovrebbe finire sotto processo per la vicenda Open arms e le altre vicende ancora aperte, l'assedio rischia di completarsi. In tanti nel Carroccio ricordano che la scelta di Fontana per la candidatura della regione è stata consigliata a Salvini da Giorgetti. «Io mi sono fatto l'idea che Fontana non sapeva nulla e quando è venuto a conoscenza della storia ha detto pago tutto io», confida parlando del caso camici il numero due della Lega che asseconda la tesi dell'operazione «politico-mediatica». «In questo momento aggiunge - tutti attaccano la Lega e intanto Conte si è preso i pieni poteri di cui parlava Salvini... (…)

Emilio Pucci per il Messaggero il 29 luglio 2020. «Alla fine il castello di carta crollerà, ma si parlerà sempre di quel conto...». Ecco il timore dei leghisti. Sulla vicenda giudiziaria che ha coinvolto il governatore Fontana c' è il convincimento che tutto verrà chiarito, che non ci saranno conseguenze. Ma il danno è d' immagine, «è quel conto alle Bahamas che rimarrà impresso», ripete un big del partito di via Bellerio. E' una preoccupazione comune tra i lumbard. Ancora più forte di come andrà a finire il caso camici. Pure tra gli alleati di Salvini comincia a serpeggiare qualche malumore sotto traccia. Dalle parti di Arcore è risaputo quanto Berlusconi stimi il presidente della Lombardia. Non ne apprezza molto l' arte comunicativa e come si presenta davanti alle telecamere ma lo considera un signore prestato alla politica. «Però osserva un big azzurro riportando il pensiero del Cavaliere questa vicenda ha sorpreso un po' tutti. Pensavamo che il suo comportamento fosse irreprensibile». Anche in Fratelli d' Italia la strategia della difesa verrà portata avanti. «E' tutta una strumentalizzazione», osserva per esempio La Russa. Ma poi il braccio destro della Meloni si concede una battuta: «Diciamo che è stato un po' ingenuo. Bisogna stare attenti dai cognati». Il riferimento è legato a quanto accadde a Fini che fu rinviato a giudizio per riciclaggio per la vendita della casa di Montecarlo, acquistata, secondo l' accusa, da Tulliani, cognato dell' allora presidente della Camera, attraverso società offshore. «Ci cascò pure Craxi», osserva ancora l' esponente di Fdi. Per i leghisti, però, Fontana rimarrà alla guida della regione. Del resto non ci sono alternative e poco importa che non sia un leghista di provenienza salviniana. «E' un avvocato, non è certo un politicante. Magari avrebbe dovuto spiegare meglio e di più ma non ha colpe», taglia corto un altro big lumbard.

I TIMORI. Il timore è che il caso Fontana possa portare conseguenze dal punto di vista dei sondaggi, non più lusinghieri come un anno fa. Tuttavia Salvini non farà neanche un passo indietro: «E' in corso un accerchiamento giudiziario. E' la solita sinistra che non riuscendo a vincere con i voti si serve dei magistrati». L' argomento Fontana non è stato certo affrontato da Salvini nella telefonata avuta con il presidente della Repubblica Mattarella ma ai leader alleati il segretario lumbard ha sostenuto la tesi dell' attacco delle toghe. L' obiettivo è non dividersi, schierare un centrodestra compatto sia a Roma che nelle regioni. «Vedrete che finirà tutto in una bolla di sapone», il ragionamento di Salvini che non teme contraccolpi alle prossime elezioni. Il dubbio però che «quel danno d' immagine» di cui parlano diversi deputati e senatori possa tramutarsi in un calo di consenso c'è nella Lega. «Perché confida un altro dirigente del Carroccio è chiaro che Salvini è in questo momento l'unico avversario contro il sistema che tiene in piedi Conte». Colpire Fontana per abbattere il segretario, insomma. E allora anche qui malumori che serpeggiano nel partito di via Bellerio sono destinati a essere messi in secondo piano. La partita della Lombardia è troppo importante, «le crepe non sono ammesse», sibila un deputato. Ma la paura è che arrivino altre novità a livello giudiziario. «Andranno avanti per tentare di abbatterci ma non ci riusciranno», ha spiegato Salvini ai fedelissimi.

Giovanni Tizian per “Oggiedomani” - la newsletter di “Domani” il 29 luglio 2020. “I miei hanno sempre pagato le tasse, mio padre era dipendente della mutua, mia madre una super fifona, figurarsi evadere. Non so davvero dirle perché portassero fuori i loro risparmi. Comunque era un conto non operativo da decine di anni. Penso almeno dalla metà degli anni Ottanta”. Il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, ha risposto così a Repubblica in una lunga intervista pubblicata oggi. La versione del governatore lombardo, tuttavia, è contraddetta dai documenti bancari allegati al fascicolo della voluntary disclosure, lo scudo fiscale per il rientro dei capitali all’estero. I documenti rivelano che nel 1997 la madre del governatore, Maria Giovanna Brunella, ha aperto il primo conto estero numero 247-683404 e ha affidato al figlio la procura, cioè la delega a operare su quel deposito. La data è importante: nel 1997 il leghista era da due anni sindaco di Induno Olona, la madre una dentista di 74 anni. Perché, quindi, Fontana ha detto a Repubblica che il conto nei paradisi fiscali dei suoi genitori non era operativo almeno dalla metà degli anni Ottanta se nei documenti ufficiali risulta l’apertura del conto alle soglie del terzo millennio? Soltanto il presidente Fontana potrebbe spiegare questa contraddizione. Ma alle nostre domande inviate tramite l’ufficio stampa non ha risposto. C’è di più. Nel 2005 il patrimonio presente sul conto aperto otto anni prima, è stato  trasferito in un secondo deposito collegato al trust Montmellon valley, con sede a Nassau, la capitale delle Bahamas. Di questo nuovo conto intestato sempre alla madre, Fontana era indicato come erede beneficiario. L’analisi dei flussi finanziari trasferiti da un conto estero all'altro dimostra il contrario di quello che ha dichiarato Fontana a Repubblica: “Non era operativo da almeno gli anni Ottanta”. Tra il 2009 e il 2013, infatti, c’è vita sul conto che erediterà Fontana. Nel 2009 la cifra depositata è di 4.565.839 milioni, l’anno successivo cresce di 129mila euro. Nel 2011, invece, il deposito è di 4.162.911 milioni: decresce, quindi, di oltre mezzo milione di euro. L’anno successivo viene rimpolpato con 442mila euro. Alla fine del 2013 sul conto giacciono 4.734.478 milioni, quasi 200mila euro in più rispetto al 2009. Cifre comunque inferiori ai 5,3 milioni ereditati da Fontana e regolarizzati nel 2015 con la voluntary disclosure. Rispetto al 2013 mancano 600mila euro rispetto a quelli indicati nella relazione sull’adesione volontaria allo scudo fiscale. Un altro mistero che solo il governatore può chiarire. Durante questa altalena di movimentazioni bancarie all’estero, Fontana era sindaco di Varese e sua madre, l’intestataria del trust, una ex dentista di novant’anni. Più che un conto morto, “non operativo”, come ha sostenuto Fontana nella sua difesa con Repubblica, sembra al contrario molto vitale. Possibile che l’allora primo cittadino di Varese fosse all’oscuro delle mosse finanziarie della madre novantenne. Oppure ne era a conoscenza? Anche su questa questione Fontana ha preferito non rispondere alle nostre domande. I documenti bancari restituiscono anche altri dettagli coperti finora dalla riservatezza che avvolge le procedure di adesione volontaria allo scudo fiscale. Procedura che ripulisce i tesoretti dell’evasione fiscale accumulati nei trust, che funzionano da cassaforte finanziaria, sparsi nelle isole dei Caraibi. Per quanto Fontana sostenga che non si tratta di profitti da evasione, l’Agenzia delle entrate nel fascicolo della procedura di voluntary avviata nel 2015, dopo la morte della madre, ha scritto: “Le violazioni oggetto di emersione sono state commesse nel 2009, 2010, 2011, 2012, 2013”. E aggiunge il motivo della violazione: “Mancato assolvimento degli obblighi di monitoraggio fiscale”. Le carte ufficiali non mentono. Fontana, avvocato esperto, dovrebbe saperlo.

Valentina Errante per il Messaggero il 29 luglio 2020. Alla ricerca dei camici non consegnati. Adesso i militari del nucleo di polizia valutaria vogliono capire che fine abbia fatto la merce che la Dama spa non ha mai consegnato alla Regione Lombardia. Quei 25mila capi che dovrebbero ancora trovarsi nei magazzini della società. Lunedì i finanzieri erano tornati in Regione, ieri si sono presentati nei depositi dell' azienda per fare chiarezza sul pasticcio della commessa affidata dalla Regione Lombardia, con trattativa privata in via d' urgenza, alla società del cognato (e per il 10 per cento della moglie) del governatore Attilio Fontana. Obiettivo, stabilire se i 25mila camici mai arrivati, nonostante la necessità e l' urgenza di reperire il materiale sanitario avesse fatto saltare le ordinarie procedure di gara, siano ancora nella disponibilità della società o siano stati rivenduti. Ma c' è un altro fronte aperto nelle indagini dei pm milanesi ed è quello che riguarda il consistente patrimonio del governatore. Con 5,3 milioni di euro custoditi in Svizzera e gestiti da due trust alle Bahamas fino al 2015. Il sospetto è che quel denaro non fosse solo il frutto dei risparmi dei suoi genitori, (mamma dentista e papà medico condotto) visto che il presidente della Regione Lombardia, dal 1980, prima di dedicarsi alla politica e alla Lega, esercitava la professione di avvocato e dagli anni Novanta ha avuto diversi incarichi pubblici. La pietra tombale dello scudo fiscale, quello utilizzato da Fontana nel 2015 per legalizzare gli oltre 5milioni detenuti in Svizzera, e gestiti dai due trust, cancella automaticamente solo i reati fiscali. La volontary disclosure omessa dal politico del Carroccio, all' epoca sindaco di Varese, gli è costata una multa di mille euro dell' Anticorruzione.

IL PATRIMONIO. La procura di Milano, però, è decisa a chiarire quale sia l' origine del patrimonio del governatore e se, oltre ai reati fiscali, a monte, non ce ne fossero altri. Nel 2017 tra appartamenti, case, garage e magazzini, il presidente della Regione Lombardia possedeva 33 immobili (dichiarazione 2018). Oltre ai 5milioni e 300mila euro all' estero. Undici delle proprietà immobiliari sono state acquistate, o anche queste ereditate, nei tre anni precedenti. Perché nella dichiarazione dei redditi del 2015 (periodo d' imposta 2014) il governatore era proprietario solo di 22 immobili. L' anomalia rispetto ai soldi all' estero riguarda anche le date. L'ultimo di quei conti è stato acceso nel 2005, ossia quando la mamma di Fontana, la titolare, aveva già 82 anni. L'altro risale al 1997. Il governatore non era solo beneficiario, di uno dei due è sempre stato soggetto delegato. I pm, attraverso la documentazione acquisita, stanno passando al setaccio le movimentazioni di quel conto collegato al trust «Montmellon Valley Inc.» sul quale nel 2013 c' erano 4.565.839 milioni, mentre due anni dopo quasi 200 mila euro. Dai dati della relazione allegata alla voluntary disclosure, e riportati dalla news letter di Domani, quotidiano in edicola a settembre, acquisita agli atti del fascicolo, nel 2009 la cifra depositata era di 4.565.839 milioni, l' anno dopo era cresciuta di 129 mila euro, mentre nel 2011 il saldo era di 4.162.911 milioni, con un calo di oltre mezzo milione di euro. Nel 2013 l' estratto raggiunge i 4.734.478 milioni, ma all' epoca la mamma di Fontana era già molto anziana. In Svizzera, dove in un deposito Ubs, sono custoditi i 4,4 milioni rimasti dell' eredità, porta anche la Dama, la società del cognato del governatore finita al centro dell' inchiesta. L' azienda è controllata al dieci per cento, attraverso la Divadue srl, da Roberta Dini, moglie di Fontana, mentre il 90 per cento fa riferimento al cognato Andrea, ma attraverso una fiduciaria del Credit Suisse che la amministra: il Trust Diva.

LA DONAZIONE. L' interruzione della consegna è costata a Fontana, che ha anche tentato di risarcire il cognato con 250mila euro, l' accusa di frode in pubbliche forniture. La fornitura trasformata in donazione, infatti, non è mai stata recepita dall' amministrazione. È stato l'ufficio legale di Aria, centrale acquisti della Regione, a bloccare la donazione di camici da parte della Dama. L'entità della fornitura era di «non modico valore», ma ha avuto un ruolo anche l' ostacolo del conflitto di interessi.

Alessandro D’Amato per nextquotidiano.it il 30 luglio 2020. Ci sono 600mila euro in più nel conto svizzero di Attilio Fontana: sono entrati tra 2013 e 2015 e potrebbero servire a ritenere “curiosa” (eufemismo) l’affermazione del presidente di Regione Lombardia riguardo il conto a Lugano «non operativo dagli anni Ottanta», come ha detto lui.

La storia dei 600mila euro in più sul conto in Svizzera di Attilio Fontana. Repubblica spiega oggi la vicenda partendo dal casus belli, ovvero il tentativo di inviare tramite bonifico 250mila euro alla ditta di Andrea Dini, nata, secondo quanto detto dal governatore, dalla necessità di fare beneficenza (al cognato) e per il suo avvocato Jacopo Pensa come “un atto di solidarietà al cognato che in forza di quella parentela aveva solo avuto danni”. Fontana sembra aver cercato di occultare la provenienza di quei soldi visto che, come ha scritto oggi anche il Corriere della Sera, i soldi si sarebbero mossi dal conto svizzero Ubs «a nome della fiduciaria italiana» a «un conto omnibus intestato alla fiduciaria presso la Banca Popolare di Sondrio», e da qui alla società di Dini. Senza mai che Fontana comparisse in «un trasferimento formalmente disposto da una società fiduciaria (ma di fatto da Fontana) tramite un’operazione domestica (ma di fatto proveniente da un conto estero)».

La dichiarazione di Fontana sul sito di Regione Lombardia. Come abbiamo già raccontato, a giugno del 2015, alla morte della madre 92enne che di professione faceva la dentista e secondo Fontana non ha mai evaso il fisco, il governatore eredita 5,3 milioni di euro, depositati nel conto svizzero protetto da due trust, basati alle Bahamas e creati dalla madre, di professione dentista, nel 1997 e nel 2005. Il che è tipico di chi non evade mai il fisco, converrete. Ereditato il denaro (insieme a immobili tra Varese e Como) Fontana approfitta dello scudo fiscale. Nel 2015 denuncia i soldi svizzeri alle Agenzie delle Entrate aderendo alla voluntary disclosure. E indicando come provenienza unica «eredità familiare». In un’intervista al Foglio racconta di aver scoperto dell’esistenza del trust soltanto alla morte dei genitori: «Escludo che mia madre sia mai stata alla Bahamas. Da quanto ne so io, i soldi sono sempre rimasti a Lugano dove ogni tanto si recavano per curarne la gestione». Eppure di quel trust lui era beneficiario, dopo essere stato, dal 1997 al 2005, anche delegato a operare sul patrimonio.

L’ipotesi dimissioni di Attilio Fontana e Salvini che frena ma vuole spiegazioni. «Comunque quel conto (aperto presso la Ubs Switzerland di Lugano, ndr) non era operativo da decine di anni, penso almeno dalla metà degli anni Ottanta», sostiene Fontana nell’intervista a Repubblica. L’analisi dei flussi finanziari contenuta negli allegati della volontary disclosure però racconta altro. Nel 2010 il saldo del conto si ingrossa di 129.000 euro, nel 2011 diminuisce di mezzo milione, nel 2012 cresce di 442.000 euro, e di altri 200.000 euro nel 2013. Il documento dell’Agenzia delle Entrate si ferma a quell’anno, non va oltre. Già così ce n’è abbastanza per incuriosire i finanzieri del Nucleo di polizia valutaria, delegati alle indagini dalla procura milanese. Intanto: da dove provengono i soldi (circa 800 mila euro) in entrata? E dove è andato a finire il mezzo milione uscito nel 2011? «Il presidente ribadisce di non aver mai operato su questo conto. Se variazioni ci sono state nel corso degli anni, sono dovute a performance positive o negative degli investimenti», dice Jacopo Pensa, avvocato difensore di Fontana. Che, a proposito, del bonifico da 250mila euro svelato dalla newsletter di Domani, aggiunge: «Lui non sa nulla di queste tecniche bancarie». Infine, spiega il quotidiano, il conto di Lugano si ingrossa di altri 600 mila euro circa: Nel 2013 ammonta a 4,7 milioni, due anni dopo Fontana ne dichiara 5,3 nella voluntary disclosure. Da dove arriva quella somma in più? Se fossero guadagni dello stesso governatore, si configurerebbe per lui il reato di “falso in voluntary”. Al momento è solo un sospetto, non ci sono prove. Il Messaggero intanto scrive oggi in un articolo a firma di Emilio Pucci che nei giorni scorsi Fontana per un attimo ha pensato di lasciare, amareggiato per gli attacchi personali. Ma Salvini gli ha ripetuto nuovamente di andare avanti, di non farsi intimorire da quella che considera una vera e propria macchina del fango in movimento. Il segretario difende il governatore lombardo a spada tratta ma – riferisce un big della Lega – ha voluto un chiarimento, un quadro ben definito per non trovarsi sui giornali nuovi particolari dell’inchiesta e conoscere tutti i risvolti giudiziari. Insomma da un lato il leader del partito di via Bellerio lo invita a resistere, dall’altro vuole spiegazioni per capire in maniera completa ogni aspetto su cui la magistratura sta indagando. Con il convincimento che il “caso camici” non porterà a nulla.

Esclusivo: i cinque milioni di Attilio Fontana offshore, ecco i documenti dalle Bahamas. Vittorio Malagutti il 30/7/2020 su L'Espresso. Nel giugno 2005 è stato creato un trust per schermare i reali beneficiari del conto a Lugano. Proprio pochi giorni prima che entrassero in vigore le nuove norme sulla tassazione dei depositi in Svizzera intestati a cittadini Ue. Tra gli amministratori della società caraibica anche una fiduciaria coinvolta in indagini sull'evasione fiscale internazionale. La grande banca internazionale, lo studio legale del Liechtenstein, la società di servizi alle Bahamas, i contabili delle British Virgin islands: tutti al servizio del tesoretto di famiglia di Attilio Fontana. I documenti che l'Espresso ha potuto consultare, e pubblicati qui, dimostrano che il conto svizzero da 5 milioni di euro intestato alla madre del presidente della Lombardia ha ricevuto per anni un trattamento di prim'ordine, da hotel di lusso della finanza offshore. Le carte che arrivano dai Caraibi mal si conciliano con il racconto del politico leghista, che nei giorni scorsi ha descritto quei soldi come una sorta di salvadanaio dimenticato in soffitta, un conto «non operativo da decine di anni, almeno da metà degli anni Ottanta». In realtà il deposito all'Ubs di Lugano, su cui Fontana ha avuto fin da subito una delega a disporre operazioni, risale al 1997. La svolta arriva nel 2005, quando entra in scena il trust Montemellon valley delle Bahamas, che di fatto serve da schermo per coprire il reale proprietario di quel patrimonio, cioè Maria Giovanna Brunella, la mamma, una dentista in pensione, dell'allora presidente del consiglio regionale lombardo. Quest'ultimo viene designato come erede beneficiario del trust. Di fatto quei soldi non si spostano dalla Svizzera, restano in deposito all'Ubs, ma dal giugno 2005 battono bandiera delle Bahamas, paradiso fiscale tra i più impenetrabili al mondo. Come si spiega questa manovra? Per quale motivo Fontana e sua madre, che all'epoca aveva 82 anni, salgono a bordo del trust con base ai Caraibi? Su questo punto, come su molti altri, il presidente della Lombardia ha fin qui preferito glissare. Per capire quello che è successo possiamo allora partire da una data, il primo luglio del 2005. Quel giorno entra in vigore un accordo per certi aspetti storico tra la Svizzera e la Ue. Per la prima volta i conti dei cittadini dell'Unione aperti nelle banche elvetiche vengono sottoposti a una qualche forma di tassazione alla fonte. In pratica sono gli stessi istituti di credito a prelevare un'imposta del 15 per cento, la cosiddetta euroritenuta, sui rendimenti delle obbligazioni intestate a persone fisiche. Salutata come una grande vittoria contro l'evasione fiscale, la nuova legge si rivela ben presto un flop. Migliaia di conti aperti nelle banche svizzere emigrano verso altri centri offshore e l'identità degli intestatari dei depositi viene schermata con trust o società di comodo schivando così la tagliola delle tasse. È andata così anche per il tesoretto della famiglia Fontana? In mancanza di conferme ufficiali non si può che notare la coincidenza di tempi. I documenti ufficiali confermano infatti che il Montmellon Valey trust è stato costituito il primo giugno 2005, esattamente un mese prima dell'entrata in vigore delle nuove norme sull'euroritenuta. La filiale delle Bahamas di Ubs trustee si è occupata della registrazione della nuova entità giuridica. La gestione invece era affidata a un consiglio di tre membri: una società che fa capo a Ubs, la Corpboard ltd delle Isole Vergini britanniche, un'altra società di servizi del Liechtenstein, la Domar board services, e Herber Oberhuber, un avvocato in forze allo studio legale Marxer & partner, anche questo con sede nel principato del Liechtenstein. Il nome Corpboard è più volte comparso negli anni scorsi in indagini che riguardano l'evasione fiscale internazionale. In particolare, già nel 2012, un'inchiesta della magistratura tedesca aperta dopo l'acquisto di un cd rom con i dati di migliaia di clienti Ubs ai Caraibi, aveva per la prima volta illuminato il ruolo di Corpboard nella gestione di trust ai Caraibi. Anche lo studio Marxer and partner vanta una lunga consuetudine di rapporti con Ubs. In particolare, nel caso del deposito della famiglia Fontana all'Ubs, era stata costituita una fondazione nel Liechtenstien, la Obbligo Familienstiftung, con il ruolo di trustee, cioè di gestore del trust Montmellon Valley. Nel 2010, come rivelano i documenti ufficiali, escono di scena Corpboard e Oberhuber e nel board del trust entra Peter Marxer, titolare dell'omonimo studio di Vaduz. Lugano, Liechtenstein, Bahmas: è questo il triangolo magico che per una decina di anni ha nascosto al fisco italiano il tesoretto intestato alla madre del presidente lombardo. Fino a quando, in seguito alla morte della mamma, nel giugno del 2015 Fontana eredita il patrimonio di famiglia e tre mesi dopo decide di regolarizzare la sua posizione grazie alla voluntary disclosure varata dal governo di Matteo Renzi. Il trust diventa una scatola vuota e a gennaio del 2016 viene liquidato. Il conto svizzero, nel frattempo intestato all'Unione fiduciaria, diventa visibile all'Agenzia delle Entrate. Tutta la storia sarebbe rimasta un segreto ben custodito negli archivi dell'Ubs, se a maggio Fontana non avesse deciso di prelevare 250 mila euro proprio da quel conto di Lugano per rimborsare il cognato Andrea Dini dei mancati introiti della vendita dei camici alla regione Lombardia. Un'imprudenza grave che rischia di chiudere per sempre la carriera politica del governatore leghista.

Uno «squalo» sulla lettera: così la Regione Lombardia si accorse che a fornire i camici era il cognato di Fontana. Di Luigi Ferrarella l'1/8/2020 su Il Corriere della Sera. La Regione si sarebbe accorta che dietro l’offerta di fornitura per i camici c’era la Dama Spa di Andrea Dini osservando la carta su cui era stampata. Galeotto, o benedetto secondo i punti di vista, fu lo squalo. Non che sia esattamente la procedura di controllo raccomandata dai manuali aziendali per scongiurare conflitti di interessi, ma in maggio è pur sempre stato l’unico campanello d’allarme a funzionare, dentro la Regione Lombardia, per far accorgere (chi già avrebbe dovuto accorgersene) che era del cognato del presidente Attilio Fontana la società Dama spa, impegnatasi il 16 aprile a fornire 75.000 camici e 7.000 set sanitari al prezzo di costo di 513.000 euro. Allo stato delle dichiarazioni ufficiali dei vari protagonisti — e benché l’assessore regionale Raffaele Cattaneo avesse subito accennato a Fontana che tra le aziende disponibili a riconvertire la produzione c’era pure quella di Andrea Dini, non ricevendo segnali né di approvazione né di disdetta —, un po’ tutti in Regione affermano di non aver mai ricollegato la fornitura al fratello della moglie di Fontana fin quasi al buffo «ohibò» del 10/12 maggio. Una collaboratrice del direttore generale della centrale acquisti regionale Aria spa, Filippo Bongiovanni, il 10 maggio gli si sarebbe infatti presentata con in mano la lettera del contratto proposto da Dama spa, facendo notare come stampato nell’intestazione ci fosse anche il logo — lo squalo — di «Paul & Shark», il noto marchio di abbigliamento in pancia alla Dama spa di Dini. Bongiovanni avrebbe a questo punto chiesto lumi all’avvocato Giulia Martinelli, già compagna di Matteo Salvini e più nota come capo dello staff di segreteria del presidente Fontana. E il 12 maggio Martinelli, dando un’occhiata sul web, avrebbe visto che non si trattava di una omonimia, facendo risalire l’informazione sino a Fontana. Che poi il 17 maggio (con Report che già iniziava in giro a fare domande) avrebbe chiesto al cognato di soprassedere ai pagamenti per disinnescare «polemiche sterili».

Fontana, un testimone smonta l'accusa. Memoria difensiva in Procura: "Sbigottito quando scoprì il contratto oneroso sui camici". Cristina Bassi, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Poche pagine di memoria difensiva depositate in Procura, «primo atto» di una più ampia indagine cui stanno lavorando gli avvocati di Attilio Fontana. Ieri i legali del governatore lombardo ha consegnato nella stanza del procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli una sintesi della posizione del presidente della Lombardia in relazione al caso camici. Questa prima mossa prelude ad altri depositi da parte dell'avvocato Jacopo Pensa e del suo studio e a una richiesta, per ora solo ipotetica, ai pm di ascoltare Fontana dopo il periodo delle ferie estive. Il governatore è indagato per frode in pubbliche forniture in concorso per una commessa da 75mila camici anti Covid negoziata tra la Regione e Dama spa, azienda guidata dal cognato del presidente, Andrea Dini. I primi 50mila articoli furono effettivamente consegnati e in divenire la fornitura diventò una donazione. Gli altri 25mila sono rimasti nei magazzini della ditta di Varese. Il codice prevede che la difesa di un indagato possa portare avanti indagini proprie, parallele a quelle della Procura. In quest'ambito l'avvocato Pensa ha recuperato documenti e raccolto testimonianze. Tra queste, la ricostruzione messa a verbale da Giulia Martinelli, capo segreteria del governatore (ed ex compagna di Matteo Salvini). Fontana, secondo Martinelli, è rimasto «sbigottito» quando ha saputo del contratto «a titolo oneroso» stretto da Aria spa, centrale d'acquisto del Pirellone, e l'azienda della famiglia di sua moglie. Un punto che per la difesa conferma quanto dichiarato dallo stesso Fontana in Consiglio regionale, cioè che non sapesse dell'affidamento diretto del valore di 513mila euro fino all'11-12 maggio. Da quanto si è appreso, Martinelli avrebbe inoltre spiegato che lo stupore del presidente era dovuto al fatto che fino a quel momento avesse una convinzione. Dava praticamente per scontato che la Dama, come altre imprese lombarde e di Varese in particolare, si fosse offerta di donare il materiale sanitario di cui tanto c'era bisogno. Secondo le indagini dei pm Luigi Furno, Paolo Filippini e Carlo Scalas, è stato l'ormai ex dg di Aria Filippo Bongiovanni (indagato anche lui insieme allo stesso Dini) a informare la capo segreteria del presidente della scivolosa commessa. Tutti passaggi che la difesa porta a dimostrazione della «buona fede» di Fontana nella vicenda. Le stesse buone intenzioni, semmai accese dalla volontà di evitare una brutta figura, sarebbero alla base del tentato bonifico da 250mila euro del presidente lombardo alla Dama. Un «fatto privato» che voleva risarcire Dini del mancato guadagno dopo che si era convinto a regalare il materiale. Il bonifico, con denaro proveniente da un conto svizzero «scudato», fu bloccato da una segnalazione anti riciclaggio. Oggi invece è atteso in Procura il legale di Dini, l'avvocato Giuseppe Iannaccone. All'ordine del giorno, oltre a un'eventuale intesa su un futuro interrogatorio, ci sarebbe il destino dei 25mila camici mai consegnati alla Regione e ora sotto sequestro della Guardia di finanza. L'imprenditore sarebbe disposto a rinunciare alla proprietà degli indumenti, che potrebbero così finire nei reparti ospedalieri. Ieri intanto il leader della Lega Matteo Salvini ha ribadito a Sky Tg24: «Se Attilio lo vorrà, andremo avanti con lui» con una ricandidatura nel 2023.

Chiara Baldi per “la Stampa” l'1 agosto 2020. I magistrati concentrano le indagini sul telefono di Andrea Dini, l' amministratore delegato della Dama Spa e cognato del Presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana. Sono infatti attese per i prossimi giorni le operazioni che riguardano la copia forense del contenuto del cellulare sequestrato martedì sera al fratello della moglie di Fontana. Proprio da quel telefono, secondo gli inquirenti, sarebbe partito il messaggio alla direttrice della Onlus «Il ponte del Sorriso» di Varese, Emanuela Crivellaro, con cui Dini, la mattina del 20 Maggio alle 8.50, comunicava di avere a disposizione una quantità di camici da vendere e prometteva di donarne cento alla Onlus ogni mille venduti (a un prezzo di 9 euro l' uno). L' ipotesi degli inquirenti è che il proprietario della Dama Spa si riferisse ai 25 mila camici - ora sequestrati - lasciati fuori dalla fornitura a Regione Lombardia nel momento in cui questa è stata trasformata in donazione. A insospettire i pm Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas è la tempistica: il messaggio su Whatsapp indirizzato a Crivellaro sarebbe partito con un paio di ore di anticipo rispetto alla comunicazione ufficiale di Dini ad Aria Spa di voler trasformare la fornitura. Non più vendita di 75 mila camici per 513 mila euro ma donazione a titolo gratuito di 49 mila dispositivi. Fontana, Dini, l' ex direttore generale di Aria Spa - ora dimissionario - Filippo Bongiovanni e la sua "Numero Due" nella centrale acquisti lombarda, Carmen Schweigl, sono indagati nell' inchiesta della Procura di Milano che ha al centro proprio la fornitura, trasformata in donazione parziale di camici e altro materiale anti Covid ad Aria Spa: il reato ipotizzato è quello di frode in pubbliche forniture. Il caso camici è stato sollevato a fine maggio dall' inchiesta di "Report" che a metà maggio aveva fatto una intervista al presidente Fontana. Quattro giorni dopo - secondo gli inquirenti - Fontana cercò d fare un bonifico per risarcire il cognato che nella trasformazione della fornitura in donazione avrebbe perso dei soldi. E così il presidente lombardo tentò di bonificare al cognato 250 mila euro, cioè gran parte del costo della fornitura di camici. Ma i soldi provenivano da un conto in Svizzera - di 5,3 milioni di euro - intestato allo stesso Fontana e sul quale, nel 2015, aveva fatto uno scudo fiscale: soldi ereditati da Fontana alla morte della madre e che fino a quel momento erano stati depositati su due trust alle Bahamas. E proprio perché i soldi appartenevano a un conto scudato, il bonifico è stato fermato dalla milanese Unione Fiduciaria che l' ha segnalato come «operazione sospetta» alla Banca d' Italia e a quel punto è intervenuta la Guardia di Finanza. Per questo, insistono gli investigatori, Dini potrebbe aver deciso di tenere per sé gli ultimi 25 mila camici con l' obiettivo di rivenderli a un prezzo maggiorato (da sei a nove euro al pezzo). Nei prossimi giorni sul cellulare di Dini sarà effettuato un accertamento tecnico irripetibile e il suo legale, l' avvocato Giuseppe Iannaccone, nominerà un consulente. L' operazione verrà fatta nel minor tempo possibile così da restituire quanto prima al proprietario il telefono. Intanto il presidente Fontana ha annullato i propri impegni del week end - tra cui l' appuntamento a Cervia con Matteo Salvini - per un problema di salute. «Il mio fisico mi ha avvertito: "Attilio prenditi qualche giorno di riposo"», ha scritto su Facebook.

Valentina Errante per “il Messaggero” l'1 agosto 2020. Una perizia per stabilire la congruità dei prezzi del contratto stipulato da Aria (centrale di acquisto della pubblica amministrazione lombarda) con la Dama, la società del cognato del governatore Attilio Fontana. Perché nelle offerte selezionate dalla Regione Lombardia, nel periodo dell' emergenza, le cifre, pagate per l' acquisto di materiale sanitario, oscillano tra i 27 centesimi a camice ai sei euro a pezzo dell' offerta Dama. Intanto, i militari del nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza stanno esaminando le carte sequestrate nella sede della società e puntano a verificare se davvero Dini, già alla fine di marzo, quando ha deciso convertire l'azienda Paul&Shark in una fabbrica di materiale sanitario, sapesse che avrebbe avuto un contratto di fornitura con la Regione Lombardia. Nei giorni drammatici di marzo e aprile, quando il contagio dilagava, mascherine, calzari, camici e cuffie erano un bene primario e difficile da reperire. Per questo la centrale di acquisti della pubblica amministrazione della Regione Lombardia, in quei mesi, compra camici su Amazon, da aziende cinesi e da ditte italiane che si sono riconvertite.

GLI ACQUISTI. I prezzi per i camici sono i più vari, 41 centesimi, 1,99, 2,4 euro. E tra i tanti contratti c' è anche quello di fornitura dei 75mila capi della Dama. La selezione dell' offerta è già finita sotto accusa, perché è avvenuta in conflitto di interesse, ma adesso i pm vogliono stabilire se il prodotto, offerto da Dini e indicato genericamente come camice, al contrario di altri acquistati dall' amministrazione, che riportano la specifica del tipo di capo, camici chirurgici, camici rinforzati davanti e sulle maniche o camici impermeabilizzati, avesse un prezzo congruo. La Dama ha venduto a sei euro ciascun pezzo, con un contratto da 513mila euro per 75mila (oltre a 7mila tra calzari e cuffie e altri camici pagati a 9 euro). Ma nel lungo elenco compaiono poche altre aziende che hanno stabilito prezzi più alti, molte che hanno proposto offerte più vantaggiose. Il tipo di tessuto, il costo per l' azienda e il margine ottenuto da Dini saranno ora oggetto di una perizia. Sulla questione aveva già sollevato dubbi il consigliere regionale grillino Marco Fumagalli, adesso saranno i pm a verificarla.

LE OSCILLAZIONI. Si va dai Camici impermeabili acquistati tra marzo e aprile per 1,99 su Amazon (44.081) a quelli comprati all' inizio di aprile dalla Raelcon srl per 15 euro (120mila euro per ottomila camici). La Medical device compare in più ordini, con offerte selezionate da 2,4 euro per ogni camice chirurgico. Elevato, rispetto alla media, anche il costo pagato alla Cieffe, un' altra azienda riconvertita, è di 11,2 euro a pezzo (per 600mila camici chirurgici la Regione ha pagato sei milioni e 720mila euro). Sono stati spesi invece tra i tre e i 4 euro ciascuno per i camici arrivati da Shangai. Mentre su Amazon i camici chirurgici hanno avuto un costo di 1,99 euro. La Farmac Zabba ha uno dei prezzi più bassi: camici chirurgici per 0,32 euro a pezzo. Ci sono poi i camici visitatori per i quali si registrano costi più bassi (27 centesimi circa). Di che tipo fossero i camici foniti dalla Dama non è chiaro. Tutti contratti, comunque, sono stati stipulati in deroga alle procedure sugli appalti, proprio a causa dell' emergenza.

SOLDI ALL' ESTERO. La prossima settimana, i militari del nucleo valuatario potranno esaminare il cellulare di Andrea Dini, nel quale cercano le tracce di un accordo che assicurava all' imprenditore una fornitura all' amministrazione. Una certezza che lo avrebbe spinto a convertire la produzione aziendale. Intanto vanno avanti anche le indagini sul fronte estero e sul patrimonio dichiarato da Fontana solo nel 2015. Il nodo riguarda soprattutto l' origine di quei conti svizzeri, creati, nel 1997 e nel 2005 dalla mamma del governatore, dentista della mutua già in pensione. Il sospetto della procura è che quei 5,3 milioni di euro non siano il frutto di evasione fiscale, come dichiarato dal governatore (reati cancellati al momento della dichiarazione) ma che la provvista possa essere il risultato di altri illeciti.

Paolo Colonnello per “la Stampa”  il 7 agosto 2020. In questa storia pasticciata di camici venduti in parte e poi in parte donati alla Lombardia dal cognato del governatore Attilio Fontana, ci sono un paio di dettagli che i magistrati milanesi vorrebbero capire meglio per proseguire l'inchiesta nell'ipotesi, al momento, di frode in pubbliche forniture. Il primo, sicuramente il più interessante e dirimente, riguarda l'eventuale incrocio tra i conti del presidente della Lombardia e suo cognato Andrea Dini, titolare della società Dama Spa, di cui è proprietaria anche al dieci per cento la sorella Roberta, moglie del governatore. Come è ormai noto, Fontana, pur avendo dichiarato pubblicamente il 7 giugno di «non sapere nulla di questa procedura», il 19 maggio cercò di "risarcire" il cognato bonificando 250 mila euro, quasi l'intero valore della merce consegnata da Dini alla Regione, attraverso l'Unione Fiduciaria. La società che gestisce il mandato ad operare sul conto svizzero del governatore acceso presso Ubs. La stessa fiduciaria, trovando singolare la causale («Acconto fornitura camici a favore di Aria spa») e imponente la cifra versata da una personalità politica, bloccò l'operazione e fece partire una segnalazione a Bankitalia e quindi alla Procura. I magistrati però sono rimasti colpiti dal fatto che nei database dell'Unione Fiduciaria esiste anche una Diva Trust con un codice identificativo creato nel 2018 e che ha come indirizzo e sede legale proprio la stessa Unione Fiduciaria. Il punto è che Dama Spa di Andrea Dini è controllata dalla Diva Spa, il cui 90 per cento è amministrato da Credit Suisse Servizi Fiduciari Srl in qualità di trustee del Diva trust. Un conferimento avvenuto nel 2016, mentre fino al 2015 il 90 per cento delle azioni dell'azienda era controllato direttamente dall'imprenditore Andrea Dini. Succede così che i conti del governatore e Diva Trust («una mera coincidenza» puntualizza la difesa Dini) hanno lo stesso indirizzo: via Amadei 4, Milano, sede della Unione Fiduciaria. Effettivamente, una singolare coincidenza su cui la Procura sta svolgendo accertamenti, almeno per escludere che non vi siano interessi incrociati tra i due conti, ovvero che il governatore non abbia interessi occulti nella società del cognato, visto i movimenti al momento inspiegabili sul suo conto svizzero, aperto nel 2015 dopo aver scudato 5 milioni e 300 mila euro ricevuti in eredità dalla madre e da due trust creati alle Bahamas nel 2005. Conto che, a suo dire, sarebbe dovuto rimanere inerte negli anni e che invece tra il 2010 e il 2015 mostra fluttuazioni importanti, tra entrate e uscite, che variano dai 400 agli 800 mila euro. Che soldi sono? «Si tratta degli investimenti sul capitale fatti dalla banca, a volte guadagnavano a volte perdevano», spiega il difensore Jacopo Pensa che sta attendendo dalla Svizzera la documentazione bancaria che lo comprovi. Ma intanto la procura sta svolgendo i suoi controlli. Se la documentazione bancaria dovesse confermare la versione della difesa, è chiaro che la posizione di Fontana si alleggerirebbe parecchio. La seconda questione è relativa invece al mistero di come Dini, pur sapendo di essere in conflitto d'interessi, accettò tranquillamente di partecipare alla fornitura della Regione e non per un solo appalto come finora si è sempre scritto, ma per due. Dalle indagini è emerso infatti che su «indicazione» dell'assessore regionale Raffaele Cattaneo - figura chiave di tutta questa storia e in quel periodo a capo dell'unità di emergenza che doveva reperire camici ovunque - la "Dama Spa, aveva offerto altri 200 mila camici ad Aria, la centrale acquisti della regione Lombardia a integrazione del primo ordine da 75 mila camici. Lo dimostrerebbe una mail, ora acquisita dalla Procura, datata 22 aprile, ovvero 6 giorni dopo il primo ordine, formalizzato il 16 dello stesso mese. Come mai Cattaneo, che sapeva perfettamente che Dini era il cognato del presidente, lo invita a diventare fornitore della Lombardia senza chiedergli alcun documento che certifichi il conflitto d'interessi? La richiesta di integrare la prima fornitura venne inviata direttamente a Filippo Bongiovanni, all'epoca direttore generale di Aria e non si capisce perché, quando la trasmissione Report chiese di poter prendere visione delle aziende fornitrici della regione, proprio il nome di Dama, sparì dall'elenco. Piccoli gialli, dettagli da chiarire, che costellano un'inchiesta definita dagli stessi magistrati "fluida" ma che pende come una pericolosa spada di Damocle sul futuro del governo della Regione ormai da anni saldamente in mano leghista e quindi sul futuro dello stesso segretario del Carroccio Matteo Salvini, che del governatore Fontana è il primo garante, avendo messo la sua ex compagna, Giulia Martinelli, a capo della stessa segreteria del presidente. Anzi, sarebbe stata proprio lei, il 10 maggio scorso, dopo essere stata informata dall'ex direttore generale di Aria Bongiovanni, ad avvisare Fontana che anche suo cognato figurava tra i fornitori della regione, lasciandolo "sbigottito", come ha dichiarato in un verbale difensivo raccolto dal legale del governatore a testimonianza della buona fede di Fontana. Il problema però rimane ed è tutto in quella fornitura parziale dei camici: 75 mila nell'ordine concordato con la società di Dini, 50 mila quelli consegnati e improvvisamente trasformati in donazione dopo una telefonata di Fontana del 18 maggio. Il resto la Gdf lo ha sequestrato nei giorni scorsi, perché la procura, grazie a una conversazione whatsapp, è convinta che Dini stesse per rivendere i 25 mila camici mancanti a una onlus varesina. La difesa dell'avvocato Giuseppe Iannaccone è chiara: «In quel messaggio non si parla di camici da vendere ma di tessuti e c'è una bella differenza. I camici erano ancora a disposizione della Regione». Rimane però singolare il fatto che la Regione pur avendo estremo bisogno in quel periodo dei camici, non pretese la consegna della merce rimanente dopo l'annuncio della donazione di Dini. E mentre i magistrati attendono di sbobinare il resto delle conversazioni dai telefonini sequestrati del cognato, la prossima tappa sarà sugli interrogatori dei due principali protagonisti: Dini e Fontana.

Fontana si difende ma con la donazione nasce il pasticcio e qualche bugia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Luglio 2020. Il reato di frode in pubbliche forniture non c’è, pare proprio pretestuoso. Tanto che un avvocato di lunga esperienza come Jacopo Pensa lo definisce “fumoso”. E se non aleggiasse lo spettro dei pubblici ministeri che in Lombardia stanno indagando ormai su qualunque episodio anche minimo che riguardi la Regione e la Lega in particolare, i sessantacinque minuti, interrotti da sei scrosci di applausi, del governatore Attilio Fontana sarebbero stati ieri un suo successo personale e politico. Perché nel suo discorso, iniziato col parlare delle polemiche «sterili inutili strumentali e lesive», e terminato con la rivendicazione dell’autonomia e della forza delle Regioni («che cosa sarebbe successo se non ci fossero state le Regioni ad affrontare l’emergenza sanitaria» in questi mesi?), il governatore ha lanciato in aria il Grande Orgoglio: «La Lombardia è libera e come tale va lasciata». Il che gli ha fatto guadagnare il settimo applauso, prolungato e appassionato, con grande sventolio di bandiere con la rosa camuna che rappresenta la regione. Un applauso solo della sua maggioranza però, benché l’orgoglio dei cittadini della “locomotiva d’Italia” e la sensibilità sull’autonomia, a partire da quella fiscale, riguardi e appassioni tutti, di ogni parte politica. Neppure il Movimento cinque stelle, che pure voleva proporre la mozione di sfiducia nei confronti del Presidente e della giunta, da queste parti ha l’abitudine di attentare alla giugulare degli avversari politici (al contrario del segretario provvisorio Vito Crimi, che interviene con l’accetta). E il capogruppo del Pd in Regione Fabio Pizzul, è un gentiluomo che fa il paio con Attilio Fontana. Fair play lombardo. Ma oggi è un altro giorno. E lo si è visto ieri, nei sessantacinque minuti di un Fontana appassionato, questo sì, ma anche colpito dall’aver appreso a mezzo stampa di esser iscritto sul registro degli indagati. Come avvocato non dovrebbe manifestare nessuno stupore, chi non conosce certe abitudini del circo mediatico-giudiziario? Ma lui è conosciuto a apprezzato da tutti come una sorta di cavaliere senza macchia, rampollo di buona famiglia varesotta, genitori medici, buoni studi e quella gentilezza innata che non lo fa somigliare in nessun modo al prototipo del leghista ruspante e un po’ ruvido di modi. «Non posso tollerare che si dubiti della mia integrità e di quella della mia famiglia». Lo dice quasi con un singhiozzo, mentre scoppia l’applauso e lui alza finalmente gli occhi dal foglietto che stringe con risolutezza tra le mani, che non lascia mai, mentre parla in piedi. Già, la dignità. E la famiglia, croce e delizia di ogni politico, un pesante zaino che ti porti sulle spalle e che ti può azzoppare in un soffio, per un innocente orologio che hanno regalato a tuo figlio, per un fidanzato chiacchierone o per rampolli sconsiderati che spendono e spandono. O anche per un cognato. A volte essere parenti può portare svantaggi. Perché le famose «ragioni di opportunità», che in genere vengono usate dai finti garantisti per nascondere i propri istinti forcaioli, dovrebbero indurre uno spontaneo ritrarsi, magari mangiandosi le mani dalla rabbia, un rinunciare a qualunque rapporto di tipo commerciale o anche professionale con il parente che occupa un posto di responsabilità. Così, quando si era nell’emergenza disperata perché non si trovavano mascherine né altri presidi sanitari mentre il virus impazzava in Lombardia, e l’assessore lombardo Raffaele Cattaneo aveva trovato cinque aziende tessili pronte a riconvertire la propria produzione, sarebbe stato preferibile che una delle cinque non fosse stata di proprietà del cognato del Governatore. E sarebbe stato meglio, quando lui l’ha saputo (il 12 maggio, come lui dice ora, contraddicendo quel che aveva detto ai primi di giugno, ma non è così importante), se gli avesse suggerito di ritirarsi. E non di fare il pasticcio della donazione, con tutto quel che ne è conseguito. Una cosa pare chiara, e Fontana lo ha ricordato ieri in Consiglio regionale: non c’è mai stato un problema di gare, lo stesso governo aveva autorizzato procedure semplificate, come si fa, persino per ricostruire un ponte, quando c’è una grave situazione di emergenza. Inoltre, ripetiamo, le aziende che hanno venduto i loro prodotti alla Regione Lombardia oltre alla Dama del cognato erano quattro. Nessun rapporto privilegiato tra parenti, dunque. Le cose si sono ingarbugliate perché l’imbarazzo, dopo che la Dama aveva trasformato il contratto di compravendita in donazione, ha prodotti pasticci e qualche bugia. In cui si è inserita la trasmissione “Report”, che quanto a travaglismo non è seconda a nessuno. Ognuno con le sue date e le sue competizioni, che sembrano quelle dei bambini maschi quando si sfidano a chi ce l’ha più lungo. E c’è un altro particolare, cui a quanto pare potrebbero essersi attaccati i pubblici ministeri, guidati dal quel Romanelli di Magistratura Democratica cui non è ancora andato giù lo smacco subito dal Consiglio di Stato che gli ha preferito una collega all’Antimafia, benché il Csm avesse scelto lui, che era appoggiato da Palamara. Questo particolare, ipotizza l’avvocato Jacopo Pensa che assiste Attilio Fontana pur non avendo in mano nessun documento che attesti la sua iscrizione sul registro degli indagati, è nei numeri dei capi consegnati da Dama alla Regione. Perché nel contratto si parlava di 75.000 camici, mentre ne furono donati solo 50.000. Gratis, ma non tutti. Una sorta di inadempienza che comporterebbe il reato di frode. Ma frode su una donazione? E che cosa c’entra Fontana? Potrebbe non entrarci il governatore Fontana, tranne il fatto che, proprio perché è una brava persona, finisce con l’ingarbugliarsi ancora di più. E pensa di risarcire il cognato per il mancato guadagno versandogli la metà, duecentocinquantamila euro, di quanto avrebbe incassato vendendo i 50.000 camici. In questo modo il Presidente avrebbe finito con il donare una bella cifra alla Regione da lui guidata. Cosa che non è accaduta (ma accadrà nel prossimo futuro, ne siamo certi) perché Fontana, invece di staccare un assegno di un proprio conto di qualche banca varesina o milanese, ha usato un conto svizzero con fondi “scudati” ed ereditati dalla madre. Il che ha fatto scattare le norme antiriciclaggio, vista la cifra e visto da chi proveniva, cioè un personaggio pubblico. E subito dopo i pm hanno rizzato le antenne. Ossignur, si direbbe a Milano, ma ci può essere qualcosa di “normale” in questa storia? E’ facile previsione che non finirà qui. Fontana ieri sul piano politico, e anche amministrativo, si è difeso bene. Ha documentato il fatto che la Regione non ha rimesso denaro e che tutto è rendicontato, dei 365 milioni spesi per i presidi sanitari e quanto serviva agli ospedali per fronteggiare il virus. Ha difeso la costruzione dell’ospedale in Fiera, nato con fondi privati nel momento in cui le terapie intensive degli istituti pubblici e privati lombardi erano al collasso. Ha ricordato l’alta reputazione della Regione Lombardia e della sua sanità. Ma ora dovrà pensare a se stesso. Perché la responsabilità penale è personale. E perché, anche se per il famoso “circo” il boccone grosso sarebbe Salvini, agitare un paio di manette sul naso del governatore della “locomotiva d’Italia” è un colpo da non sottovalutare. Anche se il reato non c’è.

Dall'articolo di Giuliano Ferrara per ''Il Foglio'' il 31 luglio 2020. Il problema dell' avvocato Fontana, per un non moralista dunque un moralista vero, è che le bugie, sommo esercizio di arte della politica, bisogna saperle dire. (…) Quando l' avvocato Fontana mente sulle date, sui conti e sulla loro movimentazione, su quel che sapeva degli affari del cognato, sulla trasformazione peraltro parziale di un mezzo business in una mezza donazione, l' impressione è di meschineria, una cosa da ragiunat, una robina che non vale gran che. La vera imputazione da elevare contro l' avvocato Fontana è che proprio non sa indossare la maschera: del politico, dell' amministratore, del galantuomo, del cognato, del riccastro estero su estero scudato e rifatto. Ci vuole cipria, ci vuole mascara, ci vuole swing e sfacciataggine, quando si mente in pubblico (…) E' allergico, l' avvocato, alle mascherine, è purtroppo tutto d' un pezzo, e si vede. Il povero senatore Salvini, erede delle sfortune di Bossi come un Trota qualsiasi, durerà fatica a fare la faccia truce contro la giustizia a orologeria. Di fronte a un amministratore così duro di capoccia, tanto poco flessibile, incapace di invenzione e stile nel necessario momento della menzogna, sarà costretto a delle capriole che nemmeno nei giorni del Papeete. non resta che augurarsi il ritorno della faccia truce di Salvini, un soprassalto di testosterone, una capacità di rimettere al passo l' orologio della Lombardia, che merita francamente di meglio, visto che è la locomotiva del paese. (…)

Fenomenologia del leghista dal volto di pietra pomice. Francesco Specchia il 29 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Quando, anni fa, la Lega si stava sbriciolando sotto il peso dei diamanti di Belsito, dei nepotismi della Bossi family e dello scandalo dei finanziamenti pubblici evaporati nella nebbia padana, Attilio Fontana era considerato “il leghista dal volto umano”. Me lo ricordo bene, perché c’ero. Varesino purosangue, classe ’52, borghese, figlio di uno stimato medico condotto e di una madre facoltosa (quella che gli ha lascito 5,3 milioni di euro di fondi alle Bahamas, scudati, ma su cui i magistrati si stanno ora logicamente buttando a pesce), Fontana, moderato con quel suo volto di pietra pomice, era uno dei pochi ad usare il lanciafiamme contro il caos etico e morale che regnava nel suo stesso partito. Da autorevolissimo sindaco del ridente paesello di Induno Olona e poi da primo cittadino Varese e infine da Presidente del Consiglio Regionale lombardo, l’avvocato penalista Fontana non allestiva mai processi pubblici, dato che i riflettori gli facevano venire le palpitazioni. Ma, quando noi cronisti affamati di notizie lo cercavamo, era l’unico -mettendoci la faccia- a smerciare gustosi dettagli sul verminaio che avvolgeva il Carroccio. Fu uno gli artefici delle “ramazze” la grande rivoluzione – e trasformazione- che infiammò il dibattito politico dell’ultimo lustro nella Lega padana che divenne Lega nazionalde. Poi, ad un tratto, quando pensava di ritirarsi gradualmente dalla scena, Fontana fu richiamato nel baillamme della politica politicata e si ritrovò governatore della sua Lombardia, il 4 marzo del 2018 con il 49,75% dei voti. Fontana, nonostante l’aspetto distaccato ai limiti del torpido, sa sempre come entrare in empatia col proprio elettorato. Sia con le espressioni molto pop (“preferisco essere considerato un rozzo leghista, piuttosto che uno spocchioso intellettuale”) sia con quelle assai poco politically correct è comunque riuscito ad imporsi con piccoli colpi mediatici al cerchio e alla botte. Per esempio, quando in radio dichiarò  «Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate» prima si scusò per l’espressione ma poi contò la crescita esponenziale dei fan sui social e alle urne. Fontana, a differenza di molti del suo partito non è un tattico, è uno stratega; possiede il senso della visione che nasconde sotto l’aria di chi sembra sempre passato di lì per caso. Fontana, come suo solito, è stato un ottimo amministratore della Regione. Almeno fino alla gestione del Coronavirus in Lombardia dove- tra disorganizzazione, medici allo sbaraglio, mancanza di collegamento col territorio e terribile gestione delle case di riposo- ha inanellato una serie di cappelle a cui gli avversari politici e i giornalisti hanno attinto a piene mani. Ovviamente. Da lì, dalla furia del Covid, ogni sua azione, anche se giusta e legittima – dal mettersi la mascherina in diretta tv, all’inaugurare l’ospedale di Baggio ora cattedrale nel deserto- è stata considerata come modello di rara inadeguatezza politica. Adesso ci mancava solo questo casino del cognato e delle partite di camici su cui indaga la magistratura. Voci a lui vicine mi dicono che sia la moglie Roberta Dini – la cui famiglia inventò il noto marchio tessile Paul&Shark- sia i tre figli Maria Cristina, Giovanni e Marzia siano abbastanza stremati di questa situazione da assedio di Fort Apache in cui il buon Attilio si ritrova oggi incastrato; e lo vorrebbero fuori dalla politica, a riprendere il suo antico lavoro in studio e le sue partite a golf con gli amici del circolo. Il timore non sta nell’avviso di garanzia (ne ha già avuto uno per abuso d’ufficio e l’accusa si è sciolta subito), sta nello stress da mazzata a cui l’Attilio è quotidianamente sottoposto. Dalle partite dei camici alle partite a golf la strada per lui sarebbe la più semplice. Ma, conoscendolo, proprio per questo non credo che la percorrerà…

Stefano Landi per corriere.it il 26 luglio 2020. Attilio Fontana non ha lasciato la sua Varese nemmeno dopo essere diventato governatore lombardo. Troppo mondana la città da bere per i suoi gusti. Bobo Maroni, suo concittadino, per fare l’esempio di chi l’ha preceduto al Pirellone, era più uomo di mondo. Fontana nasce e cresce nella tipica famiglia della borghesia varesina. Mamma è tra le poche dentiste in città, papà invece era medico condotto a Induno Olona, il paesino dove Fontana iniziò la sua carriera politica. In quel mondo aveva conosciuto la sua prima moglie, Laura Castelli, nota commercialista. Poi il secondo matrimonio con Roberta Dini, altro giro altra famiglia di borghesia doc locale. La villa fuori dal centro, sempre per stare fedeli a una certa sobrietà. Ma un passo ancora più indietro è sempre rimasta lei. Non proprio la classica first lady lumbard, un raro esempio di amore a prova di Google, dato che non esistono foto dei due insieme. Nipote dell’architetto Claudio Dini, Roberta è figlia del fondatore di Paul & Shark, azienda (ovviamente sempre varesotta) molto nota nel mondo. La storia di Dama ha origini molto più antiche della vicenda dei camici delle cronache di queste settimane. Risale agli anni Venti quando la società di famiglia Dini produceva dal filato alle scatole per confezionare capi di Christian Dior e Balenciaga.

La carriera politica. Nel 2006 Fontana diventa anche sindaco di Varese. In maniera quasi scontata. E non solo per l’onda di centrodestra che tira da quelle parti in quegli anni. Chi lo conosce bene giura che il segreto del suo successo non fosse dovuto alla casacca verde della Lega, ma al suo essere la perfetta espressione della borghesia varesina più conservatrice. Perché a Varese, i duri e puri del Carroccio non hanno mai fatto troppa breccia. Eppure nonostante le percentuali piuttosto bulgare delle sue elezioni e i dieci anni tondi di mandato, in tanti ora giurano di non ricordare grandi tracce lasciate dalla sua politica locale, anche rispetto a sindaci della stessa bandiera. Ha sempre preferito stare conservativo, prudente, attento. Si faceva vedere invece al golf di Luvinate, dove andava in buca con la maglietta (tendenzialmente verde) insieme al resto della Varese bene. È la sua grande passione sportiva il golf, oltre al Milan (unica concessione fuori confine), come anche il basket, che però a Varese è una tassa. Appassionato o ci nasci o ci diventi. Il suo appuntamento pubblico sulle tribune del palazzetto di Masnago e i quintetti della mitica Ignis anni Settanta che ripete spesso come fossero filastrocche. Varese è anche la città del suo studio legale, quello fondato nel 1980 dopo gli anni passati sui banchi di Giurisprudenza alla Statale di Milano e tuttora uno dei più importanti della città. Da qui Fontana ha fatto un passo indietro, per incompatibilità istituzionale. Il suo posto l’ha preso Maria Cristina, la più grande dei suoi tre figli. È lei che abitualmente lo accompagna anche alla Prima della Scala. Perché, anche lì, lady Roberta nessuno l’ha mai vista.

La sinistra spara su Fontana. Ma tace sui propri governatori. Appalti e forniture fasulle, i guai "dimenticati" in Toscana, Lazio e Campania. Mascherine, scontro Zingaretti-Salvini. Fabrizio De Feo, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. Le mascherine fantasma, i ventilatori mai consegnati, le strutture ospedaliere mai attivate. Non ci sono solo i camici della Regione Lombardia a far discutere. In varie Regioni governate dal centrosinistra, e in particolare nel Lazio, in Toscana e in Campania, ci sono vicende legate alle forniture anti-Covid su cui la magistratura sta facendo le sue verifiche. Nei giorni scorsi è stato lo stesso Matteo Salvini a mettere l'accento su quelli che, a suo dire, appaiono due pesi e due misure, sottolineando il caso dell'appalto fantasma delle mascherine del Lazio e tirando in ballo direttamente Nicola Zingaretti. Ieri una nuova puntata. «Ci sono scellerati che per farsi pubblicità tolgono mascherina», accusa il leader dem, riferendosi a Salvini. Che replica: «Pensi alle mascherine fantasma». La vicenda venne portata alla luce il 7 aprile scorso dal Fatto Quotidiano. A metà marzo la Regione Lazio aveva commissionato l'acquisto di 10 milioni di mascherine professionali alla Eco.Tech, una «piccola società italo-cinese che solitamente si occupa di forniture elettriche. Una partita da 35,8 milioni mai andata a buon fine», scriveva il quotidiano. «Tutto ciò, nonostante una somma totale di circa 11 milioni anticipata dalla Regione e che ora andrà in qualche modo recuperata». Il rischio, però, è che la Regione non riesca a tornare in possesso delle risorse impegnate, dal momento che una polizza assicurativa sottoscritta da Eco.Tech si è rivelata non valida in Italia. Dal Lazio alla Toscana. Qui nel mirino della magistratura ci sono appalti pubblici per almeno 100 milioni di mascherine e un valore di 45 milioni di euro, che - secondo l'inchiesta coordinata dalla Procura di Prato - sono state realizzate con materiali scadenti, che non rispettano i requisiti e l'efficacia filtrante dichiarati. Questo filone dell'inchiesta ipotizza i reati di frode nelle pubbliche forniture, truffa ai danni dello Stato, violazione del Codice degli appalti. L'accusa rivolta dalle opposizioni al governatore Enrico Rossi è quella di mancato controllo. «Rossi ha utilizzato, fin dall'inizio dell'emergenza, la distribuzione delle mascherine gratuite da parte della Regione solo come mezzo propagandistico» spiegava nelle scorse settimane il consigliere regionale della Lega Jacopo Alberti. La procura di Firenze ha anche aperto un'inchiesta sull'acquisto da parte di Estar, la centrale unica di acquisto per le aziende sanitarie toscane, di 200 ventilatori polmonari che l'ente regionale avrebbe pagato 7 milioni, con procedura d'urgenza, ma che non sarebbero mai stati consegnati. In Campania, invece, Marcello Taglialatela, storico esponente della destra napoletana, ha presentato il quinto esposto presso la Procura della Repubblica di Napoli sulla vicenda ospedali Covid e sugli appalti nella sanità su cui si è concentrata anche una inchiesta di Fanpage. Su questo il questore della Camera Edmondo Cirielli di Fratelli d'Italia ha annunciato la presentazione di un'interrogazione al ministro della Sanità, Roberto Speranza. «La Sanità campana va subito commissariata per spreco di denaro pubblico e mancanza di trasparenza. In Campania ci troviamo di fronte all'ennesimo scandalo che qualcuno vuole nascondere in vista delle elezioni regionali. Ma i cittadini meritano di sapere la verità. Prima di tutto bisogna fare luce sugli ospedali Covid di Caserta e Salerno, costati oltre 6 milioni di euro ai campani, che non sarebbero mai stati attivati in quanto privi di collaudo. A ciò, si aggiungono le ombre sulle forniture sanitarie».

Matteo Salvini e Attilio Fontana, sovranisti prigionieri del loro passato. Il leader leghista non ha mai superato la vicenda Open arms, il governatore lombardo resta avvinghiato negli affari di famiglia. Ma se la destra rimane ancorata a ieri, la maggioranza ha i numeri ma non l'identità. Marco Damilano il 31 luglio 2020 su L'Espresso. L'Open Arms attraccò al porto di Lampedusa alle undici e mezzo di sera del 20 agosto di un’estate fa, mentre volontari e profughi a bordo intonavano Bella Ciao, come in una puntata della Casa di Carta. Cinque minuti dopo, dalla barca partì il tweet che mostrava lo sbarco degli 83 migranti ancora a bordo, alla fine di una giornata drammatica, dopo quasi venti giorni di stallo davanti all’isola, con cinque naufraghi che si erano buttati in mare provando a raggiungere la terraferma a nuoto. Alle 20.43. meno di tre ore prima, l’Ansa aveva battuto la notizia più importante del giorno: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte arrivato al Quirinale per dimettersi.

Dai 49mln a oggi: così la cassa si è svuotata nell’era del Capitano. Ste. Ver. il 17 luglio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Tutto è iniziato dai 49 milioni di euro, dalla truffa firmata Bossi-Belsito e dalla condanna a restituire allo Stato i soldi dei rimborsi elettorali ottenuti falsificando i bilanci. Dopo il via libera ottenuto dalla procura di Genova per ripagare il debito in quasi 80 anni (rate da 600 mila euro all’anno), oggi la Lega può dormire sonni relativamente tranquilli. Prima del settembre del 2018, data dell’ok alla rateizzazione, i conti del Carroccio erano però a rischio. Sequestrare i soldi “ovunque siano”, aveva infatti stabilito la Cassazione nel luglio dello stesso anno. In pratica, qualsiasi euro riconducibile al partito doveva essere confiscato. Un rischio che in via Bellerio tutti sapevano di correre già da parecchio tempo, visto che la sentenza di primo grado era del luglio 2017 e l’inizio dell’inchiesta è del 2012. E infatti già da tempo le casse padane si erano svuotate. Quando è iniziata l’indagine per truffa, nel 2012, la Lega aveva 31 milioni di euro tra liquidità e titoli finanziari. Alla fine del 2017, con Salvini al comando e Centemero tesoriere, erano rimasti solo 41 mila euro. Un’emorragia finanziaria sospetta fin da subito per i magistrati di Genova, che hanno aperto un’inchiesta per riciclaggio ipotizzando il trasferimento in Lussemburgo di una parte del tesoro padano. Ma come ha fatto la Lega di Salvini in tutti questi anni a finanziarsi? Come ha fatto a pagare le martellanti campagne sui social, i continui comizi del suo leader in giro per l’Italia, se sui conti c’erano pochissimi soldi? Davanti a questa domanda l’ex ministro degli Interni ha sempre detto che il suo partito è andato avanti grazie ai fondi dei piccoli sostenitori, dei militanti, oltre che a quelli dei parlamentari che devolvono ogni mese parte del loro stipendio. Inchieste giornalistiche e giudiziarie in questi anni hanno però messo in dubbio questa versione. Le procure di Milano e Roma hanno messo sotto indagine il tesoriere del partito, Giulio Centemero, per finanziamento illecito. Secondo gli investigatori, Centemero avrebbe creato un’associazione ufficialmente slegata dal partito, la Più Voci, per incassare donazioni private: 250 mila euro da un’azienda del costruttore romano Luca Parnasi, e altri 40 mila euro dalla catena di supermercati Esselunga. Un modo per finanziare occultamente la Lega, sostengono le due procure. Ci sono però altre operazioni sospette che riguardano il partito dell’ex ministro dell’Interno. Innanzitutto la creazione di Lega Salvini Premier, dotato di codice fiscale autonomo, che dal 2017 ha iniziato a incassare buona parte delle donazioni dei parlamentari leghisti e del 2 x 1000, i soldi che ogni contribuente può regalare a un partito. Oltre a questo ci sono poi decine di bonifici e assegni che da quando Salvini è segretario hanno svuotato le casse del partito con la motivazione “saldo fatture”. Soldi che dai conti della Lega Nord, di Radio Padania e di Pontida Fin (la cassaforte immobiliare del Carroccio) sono stati trasferiti su quelli di fornitori e società collegate ai commercialisti Di Rubba e Manzoni. Qualche nome? Studio Dea Consulting, Cld, Studio Sdc, Barachetti Service. Esattamente le stesse società che hanno beneficiato del denaro pubblico speso dalla Lombardia Film Commission per comprare l’immobile di Cormano.

GABRIELE GUCCIONE per il Corriere della Sera il 16 luglio 2020. Galeotta, questa volta, è stata la sua antica passione per la storia, il collezionismo, i documenti antichi. Come quelli che è accusato di aver trafugato dall'Archivio di Stato di Torino: «Volevo solo fotocopiarli - si difende -, poi li avrei restituiti». In altri tempi, a mettere nei guai Mario Borghezio, 72 anni, rimasto senza scranno da quando Matteo Salvini ha deciso di non ricandidarlo a Strasburgo, sarebbero state le sue sparate (per essere clementi) politicamente scorrette. Come quella su «Hitler che fece anche cose buone», poi auto-derubricata a «una caz...ta come tante». O quella su Cécile Kyenge desiderosa, a suo dire, di «imporre le tradizioni tribali in Italia»: «L'ho dovuta risarcire con 58.500 euro». Nulla di tutto questo, la politica urlata stavolta non c'entra. L'affaire che ha portato l'ex onorevole a dover rispondere ai magistrati dell'accusa di aver tentato di trafugare documenti storici risalenti alla Seconda guerra mondiale si è consumato in un luogo dove regnano silenzio e solitudine: le sale dell'Archivio di Stato: «Qui - ricorda - stetti chiuso un anno della mia vita, quasi mezzo secolo fa, per preparare la tesi di laurea in Storia del diritto, trattava dei rapporti tra i Savoia e il Sacro Romano Impero». E qui, lo scorso novembre, l'uomo del leghismo di un tempo - quello delle «camicie verdi», degli elmi vichinghi cornuti e delle invettive contro rom e immigrati - si è riscoperto topo d'archivio. Ormai in pensione, Borghezio ha rispolverato la sua vecchia passione, mentre altri al posto suo sarebbero rimasti a guardare i cantieri. «Per passare il tempo - ammette -, mi è venuto il ghiribizzo di studiare la documentazione sul periodo bellico a Torino. Una mia amica mi ha segnalato che a Milano scarcerarono i detenuti non pericolosi per usarli nell'assistenza dopo i bombardamenti. Così sono andato a cercarmi le carte». Carte che, secondo la Procura e i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale, valgono circa 100 mila euro. E che una solerte archivista ha beccato tra le mani dell'ex eurodeputato, insieme agli atti di alcuni processi per collaborazionismo. «Avevo messo una graffetta sui fogli - si giustifica Borghezio - per tenerli da parte e poi fotocopiarli». Per farlo però il leghista avrebbe dovuto portarli fuori. «All'Archivio non c'è un servizio fotocopiatura. Poi li avrei restituiti», assicura l'ex eurodeputato, che davanti al sostituto procuratore Francesco Saverio Pelosi ha ammesso di aver preso i documenti, ma che cerca di ridimensionare la vicenda: «È un equivoco». Sta di fatto che in casa sua i militari hanno scovato 700 pagine di fotocopie di atti storici, alcuni dei quali all'Archivio non si trovano più. Borghezio ha il pallino del collezionismo da sempre. «Da eurodeputato - racconta - quando ero a Bruxelles, nelle ore libere andavo a Parigi alla ricerca di libri e carte sulle bancarelle. Ma la mia vera passione sono le pergamene: negli anni ne ho accumulate parecchie e ora che ho raggiunto l'anzianità avrò tutto il tempo di studiarle con calma». E fotocopiarle.

Da corriere.it il 30 settembre 2020. L’ex governatore lombardo Roberto Maroni dovrà affrontare un altro processo a Milano, dopo la condanna ad un anno in appello nel procedimento per presunte pressioni per favorire, quando guidava il Pirellone, una sua ex collaboratrice, Mara Carluccio, che lavorava con lui quando era ministro dell’Interno. Oggi, infatti, su richiesta del pm Giovanni Polizzi, il gup Sara Cipolla lo ha rinviato a giudizio assieme ad un altro imputato (prima udienza il 2 dicembre alla quarta penale) per il caso di un contratto di cui ha beneficiato l’architetto Giulia Capel Badino in Ilspa (Infrastrutture lombarde spa). Maroni è stato mandato a processo con le accuse di induzione indebita e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente per una vicenda molto simile a quella con al centro il lavoro che la sua ex collaboratrice Carluccio aveva ottenuto in Eupolis, ente regionale. Secondo l’imputazione Maroni, «abusando della sua qualità di vertice dell’ente regionale nonché dei suoi poteri», avrebbe fatto pressioni sull’allora dg di Ilspa Guido Bonomelli, «affinché conferisse un incarico pubblico all’architetto». Per la Procura «Maroni, legato a Capel Badino da una relazione affettiva, induceva Bonomelli a conferire l’incarico a Capel Badino, individuando l’esigenza di un supporto tecnico specialistico» nel progetto della Città della Salute. «Andare a processo per un fatto in cui non c’entro nulla mi fa sentire vittima di una vera ingiustizia, come purtroppo accade troppo spesso. Ma ho le spalle larghe, ne ho passate tante e supererò anche questa ennesima ingiustizia. E non intendo rassegnarmi: bisogna tornare a lottare per una giustizia giusta». L’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni commenta così il rinvio a giudizio. «Sono stato rinviato a giudizio perché da Governatore avrei favorito l’assegnazione di una consulenza professionale da parte di ILSPA. È falso: l’incarico fu assegnato dalla società regionale in data 27 aprile 2018, quando io da oltre due mesi non ero più il Governatore» afferma Maroni in un post su Facebook. «La società - sostiene l’ex governatore - agì dunque in piena autonomia, conferendo un affidamento diretto "sotto soglia" in modo assolutamente regolare: per quel tipo di incarico la legge non prevede alcuna procedura di gara». La Corte d’appello milanese, nel novembre 2019, aveva solamente riqualificato il reato di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente in turbata libertà degli incanti, in relazione all’accusa che riguardava l’incarico affidato in Eupolis a Mara Carluccio, costata la condanna ad un anno. Aveva confermato per l’ex governatore anche l’assoluzione, emessa in primo grado, per l’accusa di induzione indebita relativa al tentativo di far inserire, secondo l’accusa, a spese di Expo, Maria Grazia Paturzo nella delegazione per un viaggio a Tokyo nel 2014. Oggi è stato rinviato a giudizio anche Bonomelli, che risponde delle due accuse contestate a Maroni e anche di falso. La posizione di Capel Badino (che era indagata per false dichiarazioni al pm) era stata, invece, già stralciata dai pm.

Roberto Maroni ancora a processo: "Pressioni per un contratto a una collaboratrice". Pubblicato martedì, 29 settembre 2020 su La Repubblica.it. L'ex governatore lombardo Roberto Maroni dovrà affrontare un altro processo a Milano, dopo la condanna ad un anno in appello nel procedimento per presunte pressioni per favorire, quando guidava il Pirellone, una sua ex collaboratrice, Mara Carluccio, che lavorava con lui quando era ministro dell'Interno. Oggi, infatti, su richiesta del pm Giovanni Polizzi, il gup Sara Cipolla lo ha rinviato a giudizio assieme a un altro imputato (prima udienza il 2 dicembre alla quarta penale) per il caso di un contratto di cui ha beneficiato l'architetto Giulia Capel Badino in Ilspa (Infrastrutture lombarde spa). Maroni è stato mandato a processo con le accuse di induzione indebita e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente per una vicenda simile a quella con al centro il lavoro che la sua ex collaboratrice Carluccio aveva ottenuto in Eupolis, ente regionale. Secondo l'imputazione Maroni, "abusando della sua qualità di vertice dell'ente regionale nonché dei suoi poteri", avrebbe fatto pressioni sull'allora dg di Ilspa Guido Bonomelli, "affinché conferisse un incarico pubblico all'architetto". Per la Procura "Maroni, legato a Capel Badino da una relazione affettiva, induceva Bonomelli a conferire l'incarico a Capel Badino, individuando l'esigenza di un supporto tecnico specialistico" nel progetto della Città della Salute. La Corte d'appello milanese, nel novembre 2019, aveva solamente riqualificato il reato di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente in turbata libertà degli incanti, in relazione all'accusa che riguardava l'incarico affidato in Eupolis a Mara Carluccio, costata la condanna a un anno. Aveva confermato per l'ex governatore anche l'assoluzione, emessa in primo grado, per l'accusa di induzione indebita relativa al tentativo di far inserire, secondo l'accusa, a spese di Expo, Maria Grazia Paturzo nella delegazione per un viaggio a Tokyo nel 2014. Oggi è stato rinviato a giudizio anche Bonomelli, che risponde delle due accuse contestate a Maroni e anche di falso. La posizione di Capel Badino (che era indagata per false dichiarazioni al pm) era stata, invece, già stralciata dai pm.

Monica Serra per lastampa.it il 6 novembre 2020. Non è configurabile alcuna «turbata libertà degli incanti». Per questo la Corte di Cassazione ha ribaltato la sentenza d’Appello e assolto l’ex governatore della Lombardia, Roberto Maroni. Con lui sono stati assolti anche gli altri imputati coinvolti nel processo sulle presunte pressioni che l’ex ministro dell’Interno avrebbe esercitato per il conferimento da parte di Eupolis Lombardia, ente di ricerca della Regione, di una consulenza da quasi 30 mila euro annui alla sua ex collaboratrice Mara Carluccio. Nel processo erano coinvolti anche Giacomo Ciriello, ex capo della segreteria del presidente (che la Corte d’Appello aveva condannato a un anno) e Andrea Gibelli, ex segretario generale del Pirellone e presidente di Ferrovie Nord Milano spa (che era stato condannato a 10 mesi e 20 giorni). Tutti e quattro sono stati oggi assolti dalla Corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio il verdetto di secondo grado, a quanto si è appreso, «ritenendo non configurabile il reato contestato in relazione allo svolgimento non di una procedura di gara, intesa, come meccanismo selettivo di competizione e concorrenza tra i candidati, ma di una mera comparazione di profili professionali di soggetti rimasti ignari del procedimento interno di selezione». «Sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto nella mia lunga attività istituzionale e politica», aveva scritto Maroni sul suo profilo Twitter dopo la sentenza di condanna, annunciando il ricorso in Cassazione.

Luca Fazzo per ''il Giornale'' il 7 novembre 2020. Condannato a Milano in primo grado e in appello, assolto con formula piena giovedì sera dalla Cassazione.

Roberto Maroni, ex governatore della Lombardia, che voto dà al sistema Giustizia al termine di questo lungo viaggio al suo interno?

«Insufficienza piena. Non si può consentire che una persona venga tenuta in ballo sei anni per poi finire così, senza conseguenze per chi ha sbagliato. Se un politico sbaglia non viene rieletto, un manager viene licenziato, un giornalista finisce a fare le brevi". Se sbaglia un magistrato non solo non gli succede niente ma spesso fa carriera, soprattutto se attacca i politici. Gli sbagli sono sempre ammessi, ma se hai in mano la vita della gente non può esserti consentito di continuare a sbagliare».

Un errore in buona fede lo facciamo tutti.

«Milano ha tante qualità da tutti i punti di vista. Poi però c'è la giustizia, il rito ambrosiano applicato dalla magistratura: sono i cecchini della politica, gli alfieri di un sistema che non punta all'accertamento della verità ma a un processo sommario e violento che porta alla inevitabile distruzione della dignità e della reputazione della persona coinvolta. Roma almeno in questo è meglio di Milano, a Roma questa ossessione contro la politica non c'è, e infatti sono stato assolto. Errori in buona fede? In Cassazione anche il procuratore generale ha detto che nei processi contro di me era stata violata la legge».

In questi sei anni si è sentito nel mirino?

«Certo. Fin dall'inizio, quando nelle indagini sulla Agusta arrestarono Giuseppe Orsi due settimane prima del voto per la Regione, e lo indicarono come mio amico. Potevano farlo un po' prima o un po' dopo il voto, invece guarda caso scelsero proprio quel momento. Io venni lo stesso eletto ma Giuseppe Orsi ha avuto la vita rovinata. Poi hanno assolto anche lui, ma intanto è stato distrutto. Guarda caso il procuratore che arrestò Orsi è lo stesso che poi ha fatto inchiesta e processo contro di me... Io ho le spalle larghe, sono felice di come è finita, non ho desidero di rivalsa verso nessuno, credo nella giustizia. Ma mi metto nei panni di chi ha la vita rovinata, degli amministratori pubblici devastati dal rito ambrosiano della giustizia e dai suoi epigoni. Per cui faremo una cosa che si chiama Presunto Innocente, un Soccorso Verde come una volta esisteva Soccorso Rosso che aiuti gli amministratori pubblici e tutti i cittadini che finiscono in queste maglie. Verde come il colore della speranza. Ma servirebbe soprattutto che la politica riprendesse il controllo della situazione, facesse quelle poche riforme che sono indispensabili, dalla separazione delle carriere e l'abolizione della obbligatorietà dell'azione penale fino alla responsabilità civile dei magistrati, non solo in caso di dolo ma anche di colpa grave e inescusabile. Come è possibile che io sia dovuto arrivare fino in Cassazione per vedere riconosciuto che nei miei processi era stata violata la legge?».

Ce la farà, la politica?

«No, perché è una politica debole, asservita all'antipolitica».

Se non l'avessero incriminata sarebbe ancora presidente della Regione?

«Lì, nella mia decisione di non ricandidarmi, hanno influito tante cose: la mancata assegnazione a Milano dell'Agenzia del farmaco, certe vicende interne alla coalizione, alcune dinamiche interne alla Lega. Ma è chiaro che anche l'inchiesta contro di me è stata importante. Forse non la causa più importante in assoluto, ma una delle più importanti. Sa perchè? Perchè mi sono ritrovato sotto processo per avere rispettato la legge. Se ti accusano di averla violata, puoi difenderti. Ma io sapevo di averla rispettata, e lo riconosce la sentenza della Cassazione di giovedì sera (la vicenda è quella di una ex collaboratrice di Maroni che ottiene una consulenza da una società della Regione, ndr). A quel punto difenderti diventa impossibile, al cospetto di una magistratura ostile che ti ha messo nel mirino non c'è difesa anche se sei la persona più onesta del mondo. Io, lo dico senza supponenza, mi considero una delle persone più oneste del mondo. E la sentenza della Cassazione lo ha riconosciuto».

Maroni: "Torno in campo, contro di me attacchi senza fondamento". L'ex ministro ha annunciato il suo ritorno in politica. E sul caso della LFC ha parlato di "attacchi senza fondamento" e promesso una "azione legale". Giorgia Baroncini, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. "Ho fiducia nella Giustizia, ma questi attacchi alla Regione Lombardia, alla Lega e al sottoscritto sono frutto di un'evidente avversione politica che alberga da tempo in certi palazzi. Sopporto cristianamente la flagellazione di processi ingiusti, mediatici e non, ma quando sarà il momento torno in campo. Per riportare finalmente la politica e la magistratura nei ruoli e nei confini che la Costituzione ha loro assegnato". Si è sfogato così sul suo profilo Facebook l'ex governatore della Lombardia, Roberto Maroni. Coinvolto nell'inchiesta della procura di Milano sulla presunta vendita gonfiata di un capannone industriale per la Fondazione Lombardia Film Commission (LFC), partecipata regionale, l'ex ministro è tornato a difendersi dalle accuse. Nel 2015, nel bel mezzo della sua presidenza alla Regione, Maroni firmò la delibera per assegnare alla LFC un milione di euro per l'immobile, pagato 800mila euro. Un acquisto che, secondo i pm, sarebbe servito a far arrivare parte dei fondi pubblici a tre commercialisti della Lega ora indagati. In particolare, si sospetta che il contributo sia stato un "regalo" alla LFC guidata dal 2014 da Alberto Di Rubba, ex revisore contabile del Carroccio. Indiscrezioni uscite sulla stampa che hanno fatto infuriare Maroni. "Contrariamente a quanto insinuato da alcuni giornali, non c'è stato alcun 'regalo' alla Lombardia Film Commission da parte della Regione Lombardia. Nella seduta del novembre 2015 la giunta regionale deliberò (in modo assolutamente trasparente e regolare, come sempre) l'assegnazione di contributi straordinari agli enti di spettacolo partecipati dalla Regione, tra cui la Scala, il Piccolo Teatro, la Fondazione Pomeriggi Musicali e la LFC", aveva commentato ieri l'ex governatore su Facebook. Oggi un nuovo post per difendersi dalle accuse e ribadire la fiducia nella giustizia. In un'intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, Maroni ha parlato di "attacchi senza fondamento" e annunciato una "azione legale contro chi ha infamato la Regione Lombardia e la mia giunta". "Le anticipazioni uscite sui giornali che sono frutto di indagini coperte dal segreto. Chi ha fatto uscire le fake news lo sapeva bene che era tale e lo ha fatto lo stesso", ha spiegato al quotidiano. Sulla delibera del 2015, l'ex ministro ha evidenziato che fu proposta dall'assessore di competenza (Cristina Cappellini, ndr): "Dentro ci sono ben cinque trasferimenti, risorse date a più enti di promozione culturale, come alla Scala e alla Fabbrica del Duomo. Fu un provvedimento emanato un mese dopo Expo, per distribuire fondi aggiuntivi, vagliato e approvato da tutta la Giunta, dal nostro ufficio legale e dalla Corte dei Conti". Infine ha aggiunto: "In questi anni ho subito processi assurdi, ma c'è un limite a tutto, non sono disponibile a subire altre offese. Quindi sono disposto a tornare in battaglia, anche dal punto di vista politico". E così Maroni ha annunciato il suo ritorno, dopo due anni di lontananza, con "chi ci sta ad impegnarsi a ristabilire i ruoli che la Costituzione assegna alla politica e alla magistratura". L'ex presidente aspetta settembre per confermare la sua discesa in campo. Intanto però, "oggi vado alla mia sezione di Varese e prendo la tessera della nuova Lega di Salvini come militante. Tengo a specificare che l'ho fatto perché mi è stato garantito il doppio tesseramento con la vecchia Lega Nord e relativa anzianità di servizio".

Roberto Maroni, Pietro Senaldi: ecco le ragioni per le quali è tornato in campo. Pietro Senaldi Libero Quotidiano il 25 luglio 2020. L'uomo è bravo, ma come ogni politico di razza non del tutto affidabile, perciò le sue parole vanno prese con le pinze. Lo sa bene Matteo Salvini, che dopo il referendum per l'autonomia della Lombardia, nell'ottobre 2017, contava sulla sua ricandidatura alla guida della Regione, ma venne spiazzato, il segretario leghista direbbe, dal gran rifiuto dell'ultimo minuto. Stiamo parlando di Roberto, detto Bobo, Maroni da Varese, il governatore che non volle ripresentarsi, fece tremare il Pirellone e poi spianò la strada al suo concittadino, Attilio Fontana. Da allora i rapporti tra il capo della Lega e l'ex braccio destro di Bossi, di cui Salvini nasce come creatura politica a detta dello stesso senatur, si sono raffreddati, o interrotti, perché ormai buoni non erano da tempo. Ebbene Maroni, che al governo, fosse quello italiano o della Regione, si è sempre comportato bene, ieri ha approfittato dell'uscita di indiscrezioni su una delle inchieste che lo vedono indagato per annunciare il proprio ritorno in politica. È la prova che sugli esponenti della categoria, anche quando si tratta di ex, non ci si può mai mettere la mano sul fuoco. L'ex governatore aveva giurato di averne le tasche piene delle trame e delle responsabilità di palazzo e che il suo nuovo lavoro, l'avvocato o meglio il procacciatore d'affari, ma sarebbe più corretto dire il facilitatore o il lobbista, gli stava dando maggiori soddisfazioni personali ed economiche. Poi d'improvviso, il cambio d'idea. L'iscrizione alla sezione varesina della Lega e il meditato rientro per settembre, «sentendo prima la mia famiglia» specifica il grande ex di ritorno. In realtà Maroni si allontanò per due ragioni. La prima è che la Lombardia gli stava stretta, ed era diventata per di più una poltrona molto pericolosa per lui, con il maturare di inchieste giudiziarie a suo carico; ancorché, è doveroso specificarlo, molto discutibili.

COME IBRA AL SASSUOLO.  Il secondo motivo è che l'autonomista Bobo non ci si trovava più nella Lega sovranista di Salvini, che ha rottamato buona parte della classe dirigente del Carroccio della generazione maroniana e si apprestava ad arginare l'interessato, confinandolo definitivamente in Regione. Ma da ieri è iniziato un altro film. L'annunciato ritorno ha mosso le acque nella Lega. Cosa vorrà fare Bobo? Il sindaco di Varese, giurano i ben informati, che ricordano l'incontro del disgelo di tre settimane fa, quando Maroni fece capolino alla presentazione del libro della giornalista Annalisa Chirico Stelle cadenti sulla precarietà della gloria dei politici e si rivide con Salvini. «Ci manca un sindaco a Varese, lo fai tu?» chiese il Capitano, come a tendere una mano. «Se proprio ti serve, obbedisco» fu la risposta. Maroni sindaco di Varese però è come Ibrahimovic al Sassuolo. C'è sempre tempo. Più probabilmente sotto traccia il riavvicinamento c'è e nasconde qualcosa di più. Salvini ha puntato sul sovranismo spinto e ha relegato in seconda fila in questo momento perfino uomini di valore come il plenipotenziario Giorgetti. Ma, se fallirà la spallata d'autunno delle Regionali, la traversata nel deserto per il leader leghista sarà lunga e pericolosa e alla Lega potrebbe essere utile avere tante figure di riferimento autorevoli e rispettate.

IL TEMA GIUSTIZIA.  Per una volta forse per capire bisogna prestar fede alle parole del politico (ex), il quale dice di non essere in cerca di poltrone, tantomeno istituzionali o di amministrazione, che chiamano rogne, ma di essere disponibile a farsi alfiere di battaglie delle quali il Paese ha assoluto bisogno. Prima, quella della giustizia, meccanismo del quale l'ex governatore si ritiene vittima, esattamente come Salvini, la cui incriminazione farsa per sequestro di immigrati, sputtanata dalle intercettazioni dei magistrati, viene citata esplicitamente da Bobo, che con Matteo condivide l'esperienza al Viminale e la lotta ai clandestini. Maroni è convinto che due anni in giro per l'Italia a mediare tra imprese e politica, a dare consigli e studiare piani aziendali, gli abbiano consentito di mettere perfettamente a fuoco quello di cui il Paese ha davvero bisogno per salvarsi e come fare per ottenerlo. Se così davvero fosse, sarebbe probabilmente il solo a custodire il segreto. Tutto sta a beccarlo sul telefonino, che l'uomo esperto, dopo la recente uscita, conserva staccato per lunghe ore al giorno.

La scalata al vertice del partito dei "ragionieri" della Lega.  Sandro De Riccardis e Conchita Sannino il 19 luglio 2020 su La Repubblica. Scilleri, Di Rubba e Manzoni, sotto inchiesta per appropriazione indebita, passarono da consulenti a tesorieri in Parlamento in pochi anni. Una carriera iniziata con Maroni e che decolla quando Salvini controlla Carroccio e Centemero gestisce i suoi fondi. Sono i tre eccellenti ragionieri della Captain's League. Michele Scillieri, 57 anni, l '"architetto" numero uno delle operazioni immobiliari di quasi un milione di euro finito nelle viscere della Procura di Milano, è il professionista nel cui studio è stata registrata la "Premier Salvini League". Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni sono i due bergamaschi fedeli a Matteo, ex tesorieri della Lega in Parlamento. Tutto sotto inchiesta per appropriazione indebita e disturbo dell'asta. I loro studi si intersecano nelle tappe che segnano la nuova vita della Lega, le loro esibizioni punteggiano anche le compagnie e le operazioni che gli investigatori - negli ultimi anni - attraverseranno nel tentativo di rispondere a troppe domande sulla "scomparsa" dei 49 milioni addebitato al vecchio partito. Sono gli specialisti in transazioni e affari che avrebbero molto da chiarire, secondo le ipotesi accusatorie: anche nell'ultima vendita che è finita nelle visioni della Guardia di Finanza, e le indagini dei magistrati Eugenio Fusco e Stefano Civardi. La proprietà di Cormano fu venduta per la prima volta alla società Andromeda per 400 mila euro da Paloschi il cui liquidatore è Luca Sostegni - cioè, l'uomo si fermò mercoledì sera dalle pm, mentre si preparava a fuggire in Brasile, dopo aver minacciato Scillieri e gli altri di dire tutto - e rivenduto poi per 800 mila euro dalla Andromeda srl, di cui Scillieri è sempre regista (il professionista che ha battezzato la nascita della nuova Lega), alla Film Commission Lombardia: o all'ente regionale, quando a capo del consiglio di amministrazione di quell'ente c'è è solo Di Rubba. La rete di professionisti bergamaschi è iniziata quando la stella di Bossi era offuscata e "era difficile trovare qualcuno su cui concentrarsi su quella festa, era anche difficile trovare ragionieri che lavoravano per la Lega", dice qualcuno adesso, ma poi lo hanno ridimensionato quando è Salvini per guidare il Carroccio. Di Rubba e Manzoni, entrano in parlamento come sindaci. Sono "affidabili, molto onesti", hanno replicato alla Lega, quando l'Espresso ha iniziato a raccontare conti segreti e strani trasferimenti di denaro alla Dea Consulting. La fiducia è stata confermata anche dal deputato Giulio Centemero, un commercialista come loro, della stessa origine (non indagato qui, ma inviato a processo a Milano per un altro affare, il finanziamento di Esselunga, 40 mila euro). Una rete in cui i punti tra business e persone si incontrano sempre. È Scillieri che riceve l'incarico da una vedova per risolvere i suoi problemi con le autorità fiscali, 570 mila che vengono riscossi alla sua compagnia dal marito defunto, il cui unico bene è la proprietà in via Bergamo a Cormano. Fu Scillieri a nominare Luca Sostegni, ora in carcere, liquidatore dell'azienda. È Scillieri che nomina il cognato direttore di Andromeda e assume la proprietà per 400 mila euro, pagati con assegni che non verranno mai riscossi. E sempre come direttore de facto dell'azienda, "muovendosi come pedine Sostegni e suo cognato Barbarossa", scrive la Guardia di Finanza di Milano, vende due volte la proprietà alla Film Commission Lombardia. Operazione che non sarebbe stata possibile senza la collaborazione di Di Rubba e Manzoni. Il primo è nominato dall'allora governatore della Lombardia Roberto Maroni in cima alla fondazione. Il secondo era il suo praticante. Insieme erano in Dea Consulting, la società a cui Centemero affidava la gestione dei conti del partito. Ma è il 2018 quando quel deputato si oppone alla sua fiducia, "queste sono solo inferenze, basta iniziare le cause". i due sono contemporanei del tesoriere della Lega, scalano le gerarchie del partito, fino a diventare i revisori di Carroccio in Camera e al Senato. Ruoli nel cuore della politica e tutela del territorio lombardo. Manzoni, 41 anni, ad esempio, è nel collegio sindacale di Arexpo, la società che gestisce il sito di Expo 2015 (18 mila euro all'anno), ma anche in quello di Sea (40 mila euro l'anno) nella quota della Lega. Di Rubba, anch'egli 41 anni, in qualità di presidente della Film Commission, ha pubblicato l'avviso di ricerca immobiliare che porta alla scelta del capannone di Cormano, ora nelle mani di Scillieri. Un acquisto - scrive Finance - "insensato quanto i ritorni significativi di chi l'ha deciso e implementato".

Monica Serra per lastampa.it il 16 luglio 2020. È stato fermato mentre stava provando a scappare in Brasile Luca Sostegni, intervenuto in una presunta compravendita “gonfiata” di un immobile a Cormano, nel Milanese. È stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla procura di Milano, e anticipata dall’Espresso e Repubblica, che ha anche fatto una rogatoria in Svizzera, alla ricerca dei 49 milioni di fondi della Lega. L’immobile in questione è un capannone industriale che venne venduto alla fondazione Lombardia Film Commission. Sostegni, liquidatore di una società, è accusato di peculato su fondi della Regione Lombardia ed estorsione nell'indagine, condotta dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, che vede indagati anche tre commercialisti.

I pm riaprono la caccia. Nei guai il fiscalista della "Lega per Salvini". Indagati altri due commercialisti legati al partito. Nel mirino la vendita di un capannone. Luca Fazzo, Venerdì 17/07/2020 su Il Giornale. Tuona Matteo Salvini: «Querelo chiunque accosti il mio nome a gente mai vista né conosciuta!». Ma nell'indagine che riaccende il filone sui finanziamenti al Carroccio fa irruzione un dato ingombrante e difficilmente smentibile: a finire indagato è Michele Scilieri, il commercialista nel cui studio milanese ha sede fiscale la «Lega per Salvini»; stessa sorte per Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, anche loro commercialisti, revisori contabili del partito alla Camera. Tutti e tre, secondo l'indagine condotta dal pm milanese Stefano Civardi, sono coinvolti nell'operazione che ha succhiato - e dirottato verso destinazione ignota - 400mila euro dalle casse della Lombardia Film Commission, l'ente regional-comunale di promozione cinematografica di cui proprio Di Rubba è l'ex presidente. A fare esplodere il caso, già oggetto di alcuni articoli di stampa, è il deragliamento di uno dei personaggi coivolti, apparentemente il pesce più piccolo: Luca Sostegni, liquidatore della piccola società al centro dell'inchiesta. Sotto l'avanzare delle indagini, dapprima Sostegni pensa bene di ricattare i commercialisti chiedendo trentamila euro per non cantare con la Guardia di finanza, poi - evidentemente convinto di essere in procinto di venire arrestato - si organizza per scappare in Brasile, fa il pieno di cotanti, prende i biglietti aerei e dei pullman. Tutto questo viene seguito in diretta dalle «fiamme gialle», che ieri mattina lo fermano d'urgenza. E la Procura si trova così in mano un indagato verosimilmente pronto a trasformarsi in superteste. Lo schema dell'affare è semplice, quasi rozzo: Sostegni vende per 400mila euro un capannone a Cormano, nell'hinterland milanese, ad una immobiliare che subito dopo lo rivende esattamente per il doppio alla Film commission, che ci mette la propria sede. Plusvalenza secca di 400mila euro che si disperdono, secondo gli inquirenti, in ambienti vicini alla Lega. Fin dall'inizio, gli inquirenti si chiedono cosa se ne facesse la Film commission (una fondazione no profit controllata paritariamente da Regione Lombardia e Comune di Milano) che ha come scopo «promuovere sul territorio lombardo la realizzazione di film, fiction TV, spot pubblicitari, documentari» sfruttando le bellezze storiche e documentali, di una sede in un capannone nella meno romantica delle periferie urbane. Ma ora si chiedono soprattutto di quali segreti fosse custode Sostegni: segreti che da un lato lo mettevano in grado di ricattare Di Rubba e gli altri, dall'altro lo spingevano alla fuga. Ora l'accusa per tutti è di peculato, Sostegni grazie alla pensata di ricattare il resto del gruppo, si è guadagnato anche l'accusa di estorsione. L'affare di Cormano, oltretutto, non è l'unico su cui la Procura sta mettendo gli occhi. Almeno altre due operazioni condotte dai professionisti vicini alla Lega sono considerate sospette. E questo inevitabilmente chiama in causa i vertici del partito, visto che uno degli inquisiti, Di Rubba, è uno degli uomini di fiducia di Giulio Centemero, il tesoriere piazzato da Salvini per rimediare ai pasticci dell'epoca Belsito. Ed è proprio Di Rubba ieri sera a dare la sua versione: la Lega non c'entra, il prezzo del capannone raddoppiò perché nel frattempo era stato totalmente ristrutturato. «Ho fatto - dice- il mio dovere nell'esclusivo interesse della società».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 26 agosto 2020. Si è concentrato sui rapporti professionali e personali con gli altri indagati l'interrogatorio, durato diverse ore nel carcere milanese di San Vittore, tra Luca Sostegni, presunto prestanome nell'affare della vendita gonfiata per 800 mila euro alla partecipata regionale Lombardia Film Commission di un capannone nel milanese, e i pm su ordine dei quali è stato fermato lo scorso luglio. Davanti al procuratore aggiunto Eugenio Fusco e al pm Stefano Civardi, Sostegni ha affrontato nel dettaglio la fase iniziale dell'operazione, assistito dall'avvocato Giuseppe Alessando Pennisi. Nell'inchiesta sono indagati anche l'allora presidente di Lfc Alberto Di Rubba, in passato pure ex revisore contabile della Lega, e altri due commercialisti vicini alla Lega: Michele Scillieri e Andrea Manzoni. Già durante l'interrogatorio di convalida del fermo del 18 luglio davanti al gip Giulio Fanales, Sostegni aveva fatto le prime ammissioni e a quello di ieri seguiranno altri appuntamenti con i pm che hanno già sentito altre volte Sostegni, il quale aveva raccontato di essere stato usato come «pedina» nell'ambito dell'operazione. I magistrati hanno approfondito in particolare i suoi rapporti con Scillieri, al quale in un'intercettazione chiedeva soldi per restare in silenzio. «Spiegava telefonicamente come non comprendesse la ragione per la quale Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni preferissero, per risparmiare pochi soldi, fare scoperchiare il pentolone, che può fargli danni assurdi», scrive il gip. Questo uno dei motivi per cui si configurerebbe il reato di estorsione. Sostegni, fermato il 16 luglio mentre stava per partire, è stato trovato in possesso di materiale utile agli inquirenti. «All'interno dei bagagli custoditi in un hotel a Milano, i finanzieri hanno trovato oltre ai biglietti per un bus e un aereo con destinazione in Brasile, un appunto manoscritto». Su quel foglio, i conti del denaro ottenuto in cambio del silenzio su presunte pratiche poco chiare relative a fondi leghisti. «25.000 (5.000) mercoledì 15 Euro 7.000 rimanenza 18.000 a partire dal 20 settembre ogni 20 gg circa», si legge nell'ordinanda di Fanales.

Milano – L’affare “Lombardia film commission”. Caccia grossa al tesoro: indagati 3 commercialisti vicini alla Lega di Salvini. Valeria Pacelli il 17 luglio 2020 su Il Fatto Quotidiano. - “Da oggi querelo chiunque accosti il mio nome a gente mai vista né conosciuta. Coi diffamatori di professione ci vedremo in Tribunale”. Matteo Salvini avverte. Ma se il leader della Lega è estraneo all’indagine della Procura di Milano sulla compravendita dell’edificio di Cormano dove ha la sede la Lombardia Film Commission, in questa stessa inchiesta tra gli indagati si contano persone non sconosciute nel mondo della Carroccio. Si tratta di Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, ex revisori contabili della Lega il primo al Senato, il secondo alla Camera. Sono accusati di peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Stessi reati per i quali è stato iscritto anche un terzo soggetto, anche questi non proprio un estraneo per il Carroccio: Michele Scillieri, commercialista nel cui studio nel 2017 è stato domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”. L’indagine dei pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi su questa complessa compravendita sta dunque accelerando. Al punto che ieri è stato anche fermato un altro dei protagonisti di quell’operazione immobiliare: Luca Sostegni, il quale stava fuggendo in Brasile. L’uomo, che non risulta aver avuto contatti con la Lega, sarebbe dovuto partire oggi per la Germania e da lì, domani, per il Sudamerica. Un piano rovinato dagli uomini della Finanza.

L’operazione “gonfiata” e i soldi pubblici. Ma procediamo con ordine. Tutto parte dunque dalla compravendita di un capannone a Cormano, alle porte di Milano. Inizialmente proprietaria dell’immobile era la società Paloschi Srl, di cui dal luglio del 2016 era liquidatore e legale rappresentate Sostegni. L’immobile viene venduto una prima volta alla Immobiliare Andromeda Srl, società di cui i pm, nel decreto di perquisizione, definisco amministratore di fatto Michele Scillieri. In un primo passaggio quell’immobile viene quindi venduto a 400 mila euro. Prezzo che raddoppia quando l’edificio viene venduto da Andromeda Srl alla Lombardia Film Commission, una fondazione non-profit tra i cui soci principali figurano Regione Lombardia e Comune di Milano, e che quindi acquista con soldi pubblici. E chi era presidente della Fondazione quando avviene l’acquisto dell’edificio? Alberto Di Rubba, l’ex revisore dei conti della Lega al Senato. Per i pm quindi a concepire l’operazione immobiliare erano proprio gli uomini in passato vicini al Carroccio, Di Rubba, Manzoni e Scillieri, i quali, secondo le accuse, con altri “si appropriavano di 800 mila euro, bonificati da Lombardia Film Commission sul conto corrente di Immobiliare Andromeda srl per l’acquisto dell’immobile (…) ancora da ristrutturare all’atto dell’integrale pagamento del prezzo, poi retrocesso, per oltre la metà del suo importo a Di Rubba, Manzoni, Scillieri (…) Sostegni, che agivano con diversi veicoli societari”.

L’avviso scritto su misura. I tre sono accusati dunque di peculato, ma anche di aver turbato “il procedimento amministrativo diretto a selezionare un immobile idoneo alle attività della Fondazione”. In sostanza, secondo i pm, nell’“avviso di ricerca immobiliare” sarebbero stati inseriti requisiti per l’immobile da comprare, “ritagliati” sull’edificio di Cormano. Ad esempio il fatto che la struttura dovesse trovarsi nella zona Nord della città. Sono accuse che i commercialisti Di Rubba e Manzoni respingono. “I fondi della Fondazione – sottolineano – non hanno nulla a che vedere con la Lega”. Sull’immobile Di Rubba precisa: “Era in pessime condizioni ed era totalmente da ristrutturare, da qui la differenza di prezzo. Alla Lombardia Film Commission è stata poi consegnata la struttura totalmente rifinita come definita nel progetto”.

L’estorsione: i soldi in cambio del silenzio. In questa storia c’è poi il ruolo di Luca Sostegni, l’uomo fermato ieri. Oltre il peculato, è accusato anche di estorsione. Per i pm, “senza riuscire nell’intento”, avrebbe tentato di costringere, “mediante micaccia”, Scillieri, Manzoni e Di Rubba a consegnargli 30 mila euro “avendo ricevuto solo 20 dei 50 mila euro che gli erano stati promessi per il contributo fornito” rispetto all’operazione immobiliare. Altrimenti, scrivono i pm, avrebbe rivelato ai giornalisti “i retroscena dell’acquisizione del capannone”.

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per repubblica.it il 17 luglio 2020. E' un crescendo di tensione e insoddisfazione quella che porta Luca Sostegni, il prestanome di uno dei commercialisti più vicini alla Lega, Michele Scillieri, a provocare le prime crepe nel muro di silenzio eretto intorno al sistema di finanziamenti leghisti. "Io innesco una serie di situazioni che poi non so dove si va a finire", attacca Sostegni. Che allude poi ad altre pratiche oscure di cui sarebbe a conoscenza. "Perché poi da questo si va alle cantine, dalle cantine si va al capannone, si va alla fondazione, si va alla Fidirev, si va ai versamenti, si va a tutto. Io per 30mila euro non so se ne vale la pena". Per mesi Sostegni - che domani mattina sarà interrogato nell'udienza di convalida del fermo - ha atteso che il suo ruolo di titolare della Paloschi srl, la società da cui è partita l'operazione di compravendita dell'immobile di Cormano che avrebbe ospitato la Lombardia Film Commission, venisse ricompensato adeguatamente. Nella richiesta di fermo del procuratore aggiunto Eugenio Fusco e del pm Stefano Civardi, la Guardia di Finanza di Milano annota come Sostegni si sentisse "in qualche modo defraudato di quanto gli sarebbe spettato per la gestione della "vicenda Paloschi" avendo ricevuto a suo dire appena ventimila euro a fronte dei profitti enormi per gli altri, ma soprattutto ne reclamava perlomeno altri trentamila". Dopo il fermo, quando ha incassato altri 5mila euro, Bisogni ha fatto le sue prime ammissioni. Ha affermato di avere un accordo con Scillieri per avere mille euro ogni venti giorni, fino alla somma di trentamila euro, oltre i ventimila già incassati. "Un'escalation", la descrivono gli investigatori della Finanza. Sostegni minaccia di "raccontare il giro di denaro proveniente dalla provvista di 800mila euro" che dopo la compravendita si dirige a imprenditori e enti vicini al Carroccio. Oltre la maxi plusvalenza, ci sono per esempio anche ulteriori 72mila euro pagati dalla Fondazione Lombardia Film Commission, per il "completamento della ristrutturazione" del capannone.

Fondi Lega: Maroni, nessun regalo a Film Commission. (ANSA il 22 luglio 2020) - "Non c'è stato alcun "regalo" alla Lombardia Film Commission da parte della Regione Lombardia". Lo scrive su Facebook l'ex governatore lombardo Roberto Maroni a proposito dell'inchiesta su Fondazione Lombardia Film Commission. "Nella seduta del novembre 2015 - ricorda - la giunta regionale deliberò (in modo assolutamente trasparente e regolare, come sempre) l'assegnazione di contributi straordinari agli enti di spettacolo partecipati dalla Regione" e questo "in modo assolutamente trasparente e regolare". Contributi straordinari andarono alla "Scala, il Piccolo Teatro, la Fondazione Pomeriggi Musicali e la Lfc". L'inchiesta della procura di Milano sulla presunta vendita 'gonfiata' di un immobile per la Lombardia Film Commission, punta a capire perché la Regione, allora guidata da Maroni, ha finanziato con 1 milione di euro l'acquisto di quell'immobile, pagato 800mila euro.

Un milione dal Pirellone a Film Commission I soldi ai leghisti che imbarazzano Maroni. Monica Serra per “la Stampa” il 22 luglio 2020. Un "regalo" del Pirellone ai commercialisti della Lega, chiesto e ottenuto nel giro di un mese. Questo è stato, secondo la procura, il milione di euro che nel dicembre 2015 la Regione, all'epoca governata da Roberto Maroni, ha stanziato per la Lombardia Film Commission. Gran parte di quei soldi, 800 mila euro, sono stati poi utilizzati dai commercialisti per acquistare a un prezzo "gonfiato" il capannone di Cormano, nel Milanese. Un immobile che, per gli investigatori, non aveva alcuna utilità (la fondazione aveva già una sua sede in corso San Gottardo, a Milano) se non quella di "regalare" i soldi ai tre commercialisti ora indagati per peculato e turbata libertà nella scelta del contraente, e tutti vicini al Carroccio. A chiedere «il contributo straordinario di un milione di euro per potenziare la struttura» della fondazione è stato, con una mail del 16 novembre 2015, Alberto Di Rubba. Il commercialista, ex revisore dei conti della Lega alla Camera, era stato voluto proprio dalla giunta Maroni alla presidenza della fondazione. La mail, destinata alla Direzione generale autonomia e cultura della Regione, è stata acquisita ieri dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf nel corso di un blitz al Pirellone nell'ambito dell'indagine che, la settimana scorsa, ha portato all'arresto del "prestanome" 62enne Luca Sostegni. Una "testa di legno", secondo l'accusa, più volte utilizzata negli ultimi dieci anni dai contabili della Lega per gestire i loro affari. A manovrarlo come una "pedina" sarebbe stato soprattutto Michele Scillieri, molto vicino al partito perché, proprio nel suo studio milanese di via delle Stelline è stato registrato e domiciliato il movimento «Lega per Salvini premier». Sostegni, però, dal carcere di San Vittore, ha deciso di collaborare con i pm che domani mattina torneranno a fargli visita. Il terzo commercialista coinvolto nelle indagini è Andrea Manzoni, anche lui ex revisore del Carroccio. Negli uffici regionali i finanzieri hanno anche acquisito gli atti della delibera con cui nel dicembre 2015, un mese dopo la mail di Di Rubba, la giunta Maroni ha erogato il contributo straordinario di un milione di euro. Un finanziamento dato, si legge nella delibera, «ad integrazione al patrimonio per favorire il potenziamento della struttura patrimoniale dell'ente». E con quei soldi, alla fine del 2017, è stato comprato il capannone di Cormano a 800 mila euro. Denaro finito in gran parte nelle tasche dei due ex revisori(Di Rubba e Manzoni hanno acquistato due villette, una a testa, sul lago D'Iseo). Mentre una quota, 250 mila euro, è finita attraverso la fiduciaria Fidirev su conti elvetici, di cui a oggi non si conoscono gli intestatari. Per scoprirlo i magistrati attendono gli esiti di una rogatoria in Svizzera.

 “I soldi, altrimenti racconto tutto” Il ricatto al contabile filo-leghista ...Il caso Lombardia Film commission. Valeria Pacelli il 18 luglio 2020 su Il Fatto Quotidiano. “Io non dico nulla, (…) hanno cercato di contattarmi in mille e io non ho mai detto nulla però se voi vi comportate così eh, io non posso fare altro, che devo fare?”. Luca Sostegni – uno degli indagati dell’inchiesta della Procura di Milano sulla compravendita dell’edificio di Cormano, sede della Lombardia Film Commission – era tornato dal Brasile a caccia di soldi. Rientrato in Italia e fermato tre giorni fa, secondo gli investigatori, chiedeva denaro in cambio del silenzio sulla vicenda dell’immobile alle porte di Milano. Era “sempre più pressante” con Michele Scillieri, commercialista nel cui studio nel 2017 è stato domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”. Scillieri è un altro indagato, accusato di peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Per gli stessi reati sono stati iscritti anche Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, ex revisori contabili della Lega il primo al Senato, il secondo alla Camera. I tre, Di Rubba, Scillieri e Manzoni, secondo le accuse sono coloro che concepiscono l’operazione immobiliare della Lombardia Film Commission. L’immobile di Cormano viene venduto per 800 mila euro alla Fondazione dalla Immobiliare Andromeda, società di cui lo stesso Scillieri viene ritenuto amministratore di fatto. Quello stesso immobile però, poco prima, l’Andromeda lo aveva acquistato a metà del prezzo (400 mila euro) da un’altra società, la Paloschi Srl, di cui era liquidatore Sostegni che era dunque a conoscenza dell’operazione. Adesso Sostegni è indagato per peculato ed estorsione. Per le accuse, ha minacciato di parlarne ai giornalisti. Scrivono i pm nel decreto di fermo: Sostegni “si sentiva (…) defraudato di quanto gli sarebbe spettato per la gestione della ‘vicenda Paloschi’, avendo ricevuto – a suo dire – ‘appena’ 20 mila euro (…); reclamava perlomeno altri 30 mila euro, posto che gliene sarebbero stati promessi 50 mila”. Ed è al telefono con Scillieri che Sostegni dice: “Io innesco una serie di situazioni che io non lo so dove si va a finire perché poi da questa si va alle cantine, le cantine si va al capannone, dal capannone si va alla Fondazione, dalla Fondazione si va alla Fidirev, si va ai versamenti, si va a tutto, io per 30 mila euro non so (…) se vale la pena far tutto sto casino”. Sostegni, trovato con 5 mila euro in contanti al momento del fermo, sarà interrogato oggi dal gip. Intanto ieri gli investigatori hanno acquisito documenti sia alla Lombardia Film Commission che alla fiduciaria Fidirev. Sull’acquisto dell’immobile da parte della Fondazione, i pm scrivono: “Le indagini di polizia giudiziaria hanno dimostrato che tanto insensato è l’acquisto, quanto cospicui sono stati i ritorni per chi l’ha deciso e attuato; il che prova la reale natura dell’operazione, la sua effettiva finalità: il ‘drenaggio’ di risorse che la Regione Lombardia aveva già destinato alla Fondazione e di cui Di Rubba era presidente; ed infatti Di Rubba e il suo "socio" Manzoni beneficeranno della quota maggiore”. Non ci sono, al momento, prove del passaggio dei fondi alla Lega. Secondo la Procura, però, l’operazione genera qualche imbarazzo. Scrivono i magistrati: “Anche Giuseppe Farinotti (estraneo alle indagini, ndr) che subentra a Di Rubba nella carica di Presidente della Fondazione mostra imbarazzo rispetto all'acquisto dell’immobile di Cormano, di cui siglerà il definitivo”. “…Una roba brutta (…) – dice Farinotti al telefono – la prima azione che ho fatto… è stata quella di comprare l’immobile per 800 mila euro quando dietro c’era un pregresso antipatico”. Per i magistrati “evidentemente Farinotti non si sente rassicurato neppure dalla perizia dell’architetto Federico Arnaboldi”. “Ed ha le sue buone ragioni – concludono i pm – posto che il tecnico nominato per valutare l’immobile esercita nei medesimi locali di Scillieri”. Sull'operazione solleva dei dubbi anche il Comune di Milano. “Cerca di fugarli – è scritto nelle carte – Alessio Gennari, componente dell’organismo di vigilanza della Fondazione, il quale nel rispondere a un consigliere comunale si arrampica sugli specchi per giustificare il pagamento dell’intero importo del prezzo dell’immobile in sede di preliminare”. Dalle indagini della Finanza, concludono i magistrati, emerge che “l’avvocato Gennari è legato da rapporti patrimoniali con società di cui Manzoni e Di Rubba sono amministratori/liquidatori/soci”. “Io non dico nulla, (…) hanno cercato di contattarmi in mille e io non ho mai detto nulla però se voi vi comportate così eh, io non posso fare altro, che devo fare?”. Luca Sostegni – uno degli indagati dell’inchiesta della Procura di Milano sulla compravendita dell’edificio di Cormano,...

Chi è Luca Sostegni, fermato per il caso Lombardia Film Commission. Notizie.it il 16/07/2020. Chi è Luca Sostegni, accusato di peculato ed estorsione sul caso Lombardia Film Commission e fermato mentre stava fuggendo in Brasile .Le forze dell’ordine hanno fermato Luca Sostegni, commercialista con diverse accuse nell’ambito del caso Lombardia Film Commission, mentre stava fuggendo in Brasile: chi è quali sono i reati che gli vengono imputati.

Chi è Luca Sostegni. Classe 1971, Luca Sostegni è il liquidatore della società Paloschi Srl presuntamente intervenuto nella compravendita, ritenuta gonfiata, di un capannone situato a Cormano (fuori Milano) all’Immobiliare Andromeda per 400 mila euro, poi acquistato dalla fondazione di proprietà della Regione per una cifra doppia. Ad operare il suo fermo sono stati i militari del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Milano su coordinamento della procura della Repubblica. Le accuse mosse a Sostegni sono quelle di peculato sui fondi della Lombardia ed estorsione per aver pagato alcune persone in cambio del loro silenzio sulla vicenda.

Il caso Lombardia Film Commission. Per comprendere il suo ruolo è necessario ricostruire l’inchiesta partendo dall’acquisto, da parte della fondazione che promuove le produzioni cinematografiche in regione, dell’immobile di via Bergamo 7 a Cormano. Nell’affare, condotto il 4 dicembre 2017 quando la LFC era presieduta da Alberto Rubba, ha svolto il ruolo di consulente il commercialista Michele Scilleri. Un’operazione che avrebbe condotto in conflitto di interessi perché in quel momento era anche l’amministratore della “Futuro partecipazioni”, proprietaria di Andromeda Srl. Proprio l’Immobiliare che poco prima aveva acquistato il capannone per la metà dei soldi dalla Paloschi Srl in liquidazione (il liquidatore era il fermato Sostegni). Non solo, dopo la compravendita anche Andromeda finì in liquidazione e il ruolo di liquidatore fu svolto dallo stesso Scilleri. Gli 800 mila euro incassati per la vendita avrebbero però preso strade diverse secondo alcune inchieste condotte da L’Espresso e Report. Convergenti, secondo le accuse, su conti di imprenditori e soggetti considerati vicine al Carroccio.

La reazione di Salvini. Duro il commento del leader della Lega, che ha annunciato di querelare “chiunque accosti il mio nome a gente mai vista né conosciuta“. Poi l’annuncio, non privo di un riferimento alle inchieste nel mondo della magistratura: “Coi diffamatori di professione ci vedremo in Tribunale, sperando di non trovare un Palamara qualunque”.

·        Moscopoli.

Luca Fazzo per ''il Giornale'' il 15 febbraio 2020. Adesso ha un nome l'autore della registrazione che ha dato il via all' inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega. E il disvelamento della identità finora sconosciuta finisce con l' aprire nuovi e più rilevanti interrogativi. Perché salta fuori che a intercettare tutto di nascosto dagli altri commensali dell' Hotel Metropol sarebbe stato il più misterioso dei tre italiani presenti all' incontro: Gianluca Meranda, avvocato d' affari, già massone, poi espulso dalla Serenissima Gran Loggia d' Italia, che a suo dire a Mosca rappresentava gli interessi di una non meglio identificata «banca d' affari anglo-tedesca». E quindi diventa inevitabile chiedersi non solo cosa ci facesse l' ex massone a Mosca con Gianluca Savoini, l' ambasciatore di Matteo Salvini in terra di Russia, ma anche perché abbia registrato l' incontro, e soprattutto come e perché dalle sue mani il file sia approdato prima nelle mani di almeno un paio di giornalisti. Interrogativi davanti ai quali ogni dietrologia è possibile. Il nome di Meranda salta fuori ieri, e non per caso. Sulla squadretta di pm milanesi che indaga per corruzione internazionale in relazione all' incontro del Metropol e alla megafornitura di prodotti petroliferi discussa in quell'occasione si era abbattuta poco prima una rogna consistente. La Cassazione, chiamata a esaminare il ricorso di Savoini contro il sequestro dei suoi telefoni e del computer, aveva respinto il ricorso, confermando l' esistenza del fumus della corruzione ma mettendo in chiaro un principio: per poter essere utilizzata in un processo, la registrazione dell' incontro deve avere una paternità, non può essere una intercettazione illecita. E gli unici a poter registrare lecitamente l' incontro erano (anche all' insaputa l' uno dell' altro) i sei presenti: da parte italiana Savoini, Meranda, l' ex bancario Francesco Vannucci; da parte russa Ilya Yakunin, Andrey Kharchenko e un terzo signore non identificato. Dare un nome all' autore per la Procura era dunque indispensabile per impedire che l' inchiesta - che ha come vero obiettivo l' ipotesi di finanziamenti in nero alla Lega - perdesse un pezzo importante. Ed ecco che il nome salta fuori, rivelato ieri anche se con qualche cautela dall' agenzia Ansa. A registrare tutto sarebbe stato Meranda. L'inchiesta è salva, ma Meranda si ritrova indicato bruscamente come gola profonda dell' indagine. Perché (a meno che il file non gli sia stato rubato) è stato lui a farlo avere al giornalista dell' Espresso Stefano Vergini, che - come ricostruisce la sentenza della Cassazione - ne ascolta alcuni passaggi per confezionare l' articolo e poi lo consegna ai pm; e copia del file arriva anche al sito americano Buzzfeed che per primo lo mette in rete. Di fatto, è Meranda ad innescare tutto il meccanismo che oggi porta la Procura milanese a dare la caccia ai fondi occulti della Lega. E sarebbe interessante capire se abbia fatto tutto di testa sua.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per ''la Verità'' il 14 febbraio 2020. Alla fine il fantomatico audio della presunta trattativa per l' acquisto di milioni di barili di petrolio che si svolse il 18 ottobre 2018 nella hall dell' hotel Metropol non potrà essere utilizzato come prova in un processo. Può al massimo essere usato dalla Procura «per verificare la portata e la sussistenza della notizia criminis». Lo ha stabilito la Cassazione che ieri ha reso pubbliche le motivazioni con cui ha respinto il ricorso presentato dalla difesa di Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, contro i sequestri di due cellulari e altra documentazione effettuati a danno del proprio cliente, presente al summit moscovita e accusato di corruzione internazionale proprio sulla base di quel file. In esso si odono Savoini, tre russi (vicini al leader nazionalista Alexsandr Dugin), l' avvocato Gianluca Meranda e il consulente bancario Francesco Vannucci mentre parlano di dollari e petrolio e dopo essere stato usato su tv e siti Internet per «processare» e «condannare» il capo della Lega Salvini, adesso non potrà più essere ascoltato da nessun giudice. L' avvocato Lara Pellegrini aveva contestato l' utilizzabilità del file audio su cui la Procura aveva impostato l' indagine e giustificato i provvedimenti. Il tribunale del Riesame le aveva dato torto, ritenendo utilizzabile la registrazione. Il legale aveva impugnato l' ordinanza. Ora dalla Suprema corte arriva una valutazione che soddisfa la difesa. Come spiega la Pellegrini: «Sono molto contenta di questa motivazione. La Cassazione pur confermando i sequestri ha ribaltato il significato della pronuncia del Riesame giudicando il file, alle attuali condizioni, inservibile in un giudizio. Per i supremi giudici usarlo così com' è è una violazione dei diritti costituzionali. Per poterlo ascoltare in un' aula qualcuno dovrà dirci chi l' abbia fatto, con quali modalità e, magari, a quale scopo». Meglio ancora se gli inquirenti o i partecipanti alla riunione sveleranno se ci sia stato un mandante e un pagatore. Ma leggiamo le motivazioni della Cassazione: «La registrazione in parola, nell' attuale incertezza sulle sue modalità di acquisizione, in quanto potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali dell' individuo costituzionalmente tutelati, non può essere utilizzata nel processo e in sede cautelare». Il collegio del Palazzaccio ritiene, però, «che il contenuto del file audio in atti costituisca notizia di reato secondo la conclusione alla quale, seppure erroneamente qualificandolo come documento [] è pervenuto il Tribunale del riesame». La Cassazione ricorda che già a partire da una sentenza del 2004 «univoco è l' indirizzo di questa Corte secondo cui l' operatività della garanzia di inutilizzabilità dei mezzi probatori illegittimi è riservata al momento giurisdizionale, da intendersi non solo come fase dibattimentale, ma come ogni fase o sede nella quale il giudice assume le proprie decisioni, pertanto le informazioni assunte attraverso mezzi di prova illegittimi, inutilizzabili per il giudice, possono essere utilizzate legittimamente dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria per il prosieguo delle indagini». Le toghe, in compenso, non mettono in dubbio «l' attendibilità della registrazione stessa» ed escludono «manipolazioni e interventi esterni sul supporto che contiene la traccia audio». Quindi, «a prescindere dall' utilizzabilità in sede processuale», per i giudici «la registrazione riproduce un avvenimento storico», cioè reale. Ricordiamo che una piccola parte del file era stata trascritta in un capitolo del Libro nero della Lega pubblicato nel febbraio del 2019 dai giornalisti dell' Espresso Giovanni Tizian e Stefano Vergine. Nel volume si denunciava un' ipotetica tangente da 3 milioni destinata al partito di Salvini e, successivamente all' uscita, la storia della trattativa del Metropol era stata sviluppata, valorizzata (nel libro passava quasi inosservata) e cavalcata dall' Espresso. A giugno Vergine consegnò ai magistrati il file che non era mai stato divulgato dal sito del settimanale. A luglio il sito americano Buzzfeed lo pubblicò integralmente ipotizzando una mazzetta da 65 milioni di dollari. Panorama a novembre ha pubblicato il pizzino trascritto da Meranda alla fine dell' incontro e un foglio excel da cui emergeva che il dividendo per consulenti (compreso Savoini) e per la banca d' affari che avrebbe dovuto gestire l' operazione non superava i 20 milioni di dollari. Per il documento la parte destinata a Savoini, Meranda e Vannucci non poteva superare gli 8 milioni. Ma l' affare non si concluse. Anzi naufragò. In compenso uno dei personaggi al tavolo registrò l' incontro e qualche settimana dopo il file venne dato ai giornalisti. Non è chiaro se la talpa si sia mossa per motivi politici, risentimento o tornaconto personale.

L'Espresso contro la Lega: "Prima noi?", "No, prima io". Ancora una volta, L'Espresso dedica la copertina al Carroccio. E se la prende con Salvini: "Se comanda la Lega..." Francesca Bernasconi, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. L'Espresso si scaglia contro la Lega. L'ultima copertina del settimanale, la prima del nuovo anno, ritrae una bambina col vestito rosso, che chiede a un uomo: "Prima noi?". L'uomo, vestito in giacca e cravatta nera e camicia bianca, le risponde: "Prima io". Ancora una volta, la prima pagina dell'Espresso è dedicata al Carroccio e la figura rappresentata nella vignetta in copertina richiama il suo leader, Matteo Salvini. La bambina, infatti, riprende uno degli slogan più famosi del politico, che spesso ripete: "Prima gli italiani". Ma, a detta del settimanale, non sarebbe questo il futuro dei cittadini della Penisola, se la Lega salisse al governo. "Dicevano Prima gli italiani i salviniani, ma intendevano un più essenziale 'Prima noi'", si legge nell'articolo di presentazione del primo numero di gennaio 2020 del settimanale. Sotto la vignetta, si legge il titolo "Se comanda la Lega" e, poco più in basso viene fatto un elenco di ciò che, a detta dei giornalisti dell'Espresso, potrebbe succedere all'Italia, se il Carroccio iniziasse a governare: "Diritti negati, libri censurati, gay discriminati, libertà di culto ostacolata e piazze vietati a chi dissente". È questa l'accusa a Salvini, che avrebbe ridotto così le città e le regioni italiane in cui la destra salviniana è al potere. "Mi fate ridere, tanto", è stato il commento di Salvini, che ha ripostato su Facebook la foto della copertina del primo numero di gennaio, accompagnata da una faccina che ride così tanto da farsi scendere le lacrime. Numerosi i commenti a sostegno del leader leghista, tra chi sostiene che tra pochi giorni avverrà la "liberazione dell'Emilia Romagna" e chi annuncia che "la Lega governerà presto".

Ma non è la prima volta che il settimanale prende di mira il leader del Carroccio. Lo aveva già fatto nel giugno del 2018, quando la copertina titolava "Uomini e no", mentre la foto mostrava Salvini e un ragazzo di colore. Sotto, la didascalia recitava: "Il cinismo, l'indifferenza, la caccia al consenso fondata sulla paura. Oppure la ribellione morale, l'empatia, l'appello all'unità dei più deboli. Voi da che parte state?". Nel dicembre del 2018, invece, veniva rappresentato un Matteo Salvini mago, intento a fare trucchi di magia, mentre la scritta recitava: "Legacadabra e i soldi son spariti".

Moscopoli, sotto la lente dei pm le telefonate di Meranda e Savoini registrate con un'app-spia. Gli investigatori milanesi alla ricerca delle conversazioni sulla trattativa dell'hotel Metropol in cui i due e Vannucci parlavano con tre russi per concludere una compravendita di petrolio che sarebbe servita in parte a finanziare la campagna della Lega alle Europee. Sandro Dr Riccardis e Luca De Vito il 10 gennaio 2020 su La Repubblica. Nuovi file audio delle telefonate registrate nel cellulare di Gianluca Meranda al vaglio dei magistrati. L'inchiesta milanese sull'ex braccio destro di Matteo Salvini, Gianluca Savoini, prosegue con nuovi spunti per gli investigatori che in questi giorni stanno ascoltando le telefonate registrate dall'avvocato Meranda al cellulare tramite un'applicazione telefonica: tra queste i militari della Guardia di Finanza stanno cercando quelle che in qualche modo possono riguardare la famosa trattativa del Metropol in cui Meranda, Savoini e Francesco Vannucci parlavano con tre russi per concludere una compravendita di petrolio con l'obiettivo di utilizzare una parte dei soldi per finanziare la campagna elettorale della Lega per le Europee. In procura c'è il massimo riserbo su quali siano gli interlocutori con cui Meranda avrebbe parlato in quei mesi al telefono e delle cui voci è rimasta traccia sullo smartphone dell'avvocato. Sono giorni di fermento per l'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e portata avanti dai pm Sergio Spadaro, Donata Costa e Gaetano Ruta. Giovedì pomeriggio i pm che indagano con l'ipotesi di corruzione internazionale hanno sentito per ore una nuova testimone: si tratta di una donna di origini russe, alta, dai capelli lunghi e scuri, molto elegante. La donna è stata ascoltata alla presenza di due dei sostituti procuratori e con i militari della Guardia di Finanza: il verbale della donna è stato secretato dai pm e anche in questo caso c'è il massimo riserbo su quale sia la sua indentità e il suo ruolo in una vicenda che anche dal punto di vista giudiziario non si è mai fermata. E' di metà dicembre il pronunciamento della Cassazione che ha ribadito quanto già stabilito dal Tribunale del Riesame, ovvero che i sequestri di cellulari e altro materiale fatti a Savoini erano legittimi e che la conversazione registrata al Metropol è autentica. L'inchiesta, emersa a luglio, ha al centro la presunta trattativa che avrebbe avuto lo scopo di rimpinguare con 65 milioni di dollari le casse della Lega: tutto si basa sull'audio registrato da uno dei partecipanti a quell'incontro del 18 ottobre 2018, file di cui erano venuti in possesso due giornalisti dell'Espresso che avevano dato la notizia in esclusiva a febbraio. A quell'incontro all'hotel Metropol di Mosca erano presenti Savoini (anche ex portavoce di Matteo Salvini), l'avvocato Gianluca Meranda e l'ex bancario Francesco Vannucci (anche loro indagati per corruzione internazionale) oltre a tre russi, tra cui Ilya Andreevich Yakunin e Andrey Yuryevich Kharchenko. Uomini vicini all'ideologo di estrema destra Aleksandr Dugin e a Vladimir Pligin, un politico vicino al presidente Vladimir Putin.

Fondi russi alla Lega,  gli audio delle telefonate nella mani della Procura. Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. Una ventina di file audio, alcuni sono registrazioni di conversazioni tra persone, altri riporterebbero solo una voce, ma solo quattro o cinque hanno un interesse investigativo per i pm milanesi che indagano sull’affare della compravendita di prodotti petroliferi tra l’Italia e la Russia dalla quale sarebbe dovuto scaturire un presunto finanziamento da 65 milioni di euro per le ultime elezioni europee della Lega di Matteo Salvini. Quei file sono stati scovati dalla Guardia di finanza nel cellulare dell’avvocato Gianluca Meranda, uno dei partecipanti all’incontro del Metropol di Mosca insieme a Gianluca Savoini e a Francesco Vannucci e a tre personaggi russi che sembrano essere legati ad enti pubblici locali. I tre italiani sono indagati per corruzione internazionale nell’ipotesi che abbiano garantito una provvigione ai tre mediatori russi. Denaro che, secondo i pm milanesi, non era altro che il prezzo della corruzione. Nel cellulare dell’avvocato romano, i tecnici non avrebbero trovato la registrazione del colloquio che si svolse nel salone del Metropol. E’ da questa registrazione che è partita l’indagini dopo che la sua trascrizione è stata pubblicata sul sito americano Buszzfeed. Da mesi i pm Donata Costa, Gaetano Ruta e Sergio Spadaro, coordinati dall’aggiunto FabioDe Pasquale, indagano su questa misteriosa vicenda. Durante le prime fasi, furono perquisite abitazioni ed uffici degli indagati ai quali furono anche sequestrati i cellulari. Nei giorni scorsi, la Cassazione ha confermato il sequestro di quello di Savoini, in precedenza era stato convalidato anche dal Tribunale del riesame diMIlano. Giovedì pomeriggio, è stata ascolta in Procura, con l’ausilio di un interprete, una donna di nazionalità russa. Le domande avrebbero riguardato la presenza a Mosca degli indagati. Il erbale della testimone è stato secretato.

Fondi russi alla Lega, c'è una nuova teste: interrogata per ore dai magistrati di Milano. Di origini russe, è stata ascoltata dai pm che indagano su Gianluca Savoini, braccio destro di Matteo Salvini, per corruzione internazionale. Luca De Vito su La Repubblica il 9 gennaio 2020. Una donna entra nell'inchiesta sui fondi russi per la Lega e l'ormai famoso incontro al Metropol. Di origini russe, alta e con i capelli neri lisci, è stata ascoltata per ore dai pm della procura di Milano che indagano su Gianluca Savoini, braccio destro di Matteo Salvini, e gli altri due italiani indagati nel fascicolo aperto per corruzione internazionale, ovvero Gianluca Meranda e Francesco Vannucci anche loro presenti all'incontro presso l'albergo moscovita del 18 ottobre 2018. Sull'identità di questa donna c'è il massimo riserbo e anche il verbale della donna - ascoltata sommarie informazioni - è stato secretato. Nel pomeriggio, in procura i pm Sergio Spadaro e Donata Costa assieme ai militari della guardia di finanza e a un'interprete, hanno raccolto quindi una nuova testimonianza sulla vicenda che fa tremare i vertici della Lega: l'ipotesi alla base dell'inchiesta è che l'incontro al Metropol servisse per organizzare un acquisto di petrolio dai russi e usare parte del passaggio di denaro per finanziare la campagna elettorale del partito di Salvini. La Cassazione a metà dicembre aveva confermato la legittimità dei sequestri della procura di Milano nei confronti di Gianluca Savoini. Tornando a ribadire la validità dell’elemento di prova su cui si incardina l’accusa di corruzione internazionale, ovvero l’audio dell’incontro al Metropol di Mosca. Un’ulteriore conferma degli atti di indagine firmati dai sostituti procuratori che, con il coordinamento del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, stanno lavorando all'inchiesta: nelle mani degli investigatori ci sono tre cellulari di Savoini, una chiavetta usb e una serie di documenti trovati dalla guardia di finanza a casa del fedelissimo di Salvini. L’inchiesta giudiziaria era partita dopo che a febbraio 2019 l’Espresso aveva pubblicato il primo articolo con cui svelava la trattativa del Metropol per ottenere finanziamenti alla Lega. A luglio il sito Buzzfeed aveva pubblica la trascrizione della registrazione e alcuni audio dell’incontro con i russi.

Trattativa Lega Russia, la testimone Irina e i segreti dell'incontro di Matteo Salvini a Mosca. Ha fatto da traduttrice nell'incontro riservato tra l'ex ministro leghista e il vicepremier russo Kozak. E ha aiutato Savoini con Gazprom. Ecco perché è una teste chiave la donna sentita dalla procura di Milano nell'inchiesta sulla trattativa del 18 ottobre 2018 per finanziare la Lega con soldi russi. Giovanni Tizia, l'11 gennaio 2020 su L'Espresso. Se fosse un romanzo, il titolo sarebbe scontato: Irina e la trattativa. Ma è tutt'altro che una storia di fantasia quella che vede Irina Alexandrova testimone dell'inchiesta giudiziaria della procura di Milano sulla trattativa per finanziare la Lega con soldi russi. Irina, dunque, la donna dei misteri sovranisti a Mosca. La teste chiave, forse, per chiarire i contorni politici dell'affaire Metropol, l'hotel del centro della capitale della Federazione, a pochi passi dal Cremlino, dove il 18 ottobre 2018 l'emissario della Lega, Gianluca Savoini, ha trattato con pezzi grossi dell'entourage del presidente della federazione Vladimir Putin una partita di gasolio con l'obiettivo di sostenere la campagna elettorale delle ultime elezioni europee. Irina non era presente al Metropol. C'era, però, all'incontro politico della sera prima, quello del 17 ottobre, avvenuto a sole 12 ore dall'inizio della trattativa del Metropol nello studio dell'avvocato Pligin, professionista e polirico della cerchia di Putin. Il meeting riservato cioè in cui Matteo Salvini ha stretto la mano al vicepremier russo, con delega agli affari energetici: Dimtry Kozak. È questo il summit, mai smentito da Salvini, che lega Irina Alexandrova al Russiagate italiano. Avrà parlato di questo ai pm di Milano? Avrà confermato la sua presenza oppure ha smentito categoricamente? Il verbale è secretato, dunque impossibile saperlo. Alexandrova, contattata a una mail in possesso de L'Espresso non ha risposto. La sera del 17 Irina vestiva i panni della traduttrice. Non sarà l'unica volta. Qualche mese dopo ha convertito dal cirillico all' italiano una nota di Gazprom Neft per Gianluca Savoini, alla costante ricerca di venditori di gasolio per chiudere l'affare. Alexandrova è diventata perciò la custode di circostanze riservate, utili a ricostruire il ruolo di Savoini nella trattativa e quello dell'ex ministro dell'Interno durante la trasferta moscovita dell'ottobre 2018.

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 14 gennaio 2020. «Ho raggiunto Savoini e sono stata a cena con lui e Salvini ». Interrogata la scorsa settimana in procura, Irina Afonichkina Aleksandrova, la giornalista dell' agenzia di stampa russa Tass amica dell' ex portavoce di Salvini Gianluca Savoini, ha raccontato ai pm i suoi spostamenti a Mosca nelle 48 ore che hanno preceduto l' ormai famoso incontro al Metropol. Movimenti che la collocano vicino a Salvini nell' arco temporale a ridosso della presunta trattativa sulla compravendita di petrolio che avrebbe dovuto portare 65 milioni nelle casse della Lega. Affare gestito da Savoini, insieme all' avvocato Gianluca Meranda e al consulente bancario Francesco Vannucci, ovvero gli uomini che il 18 ottobre del 2018 hanno trattato (registrati da un telefono) nella hall dell' albergo moscovita con i russi Andrey Yuryevich Kharchenko e Ilya Andreevich Yakunin, entrambi vicini all' entourage putiniano. Sono almeno due gli appuntamenti, confermati a verbale dalla giornalista, che individuano lei e l' allora ministro dell' Interno insieme nello stesso posto, alla stessa ora. Il primo è stato la mattina del 17 ottobre. Irina Afonichkina, che parla perfettamente italiano, ha partecipato al convegno di Confindustria Russia al Lotte Hotel dove ha tenuto un discorso anche il leader della Lega Salvini. Il secondo è un appuntamento serale. Irina era di nuovo insieme a Savoini e Salvini la sera prima del Metropol: sono stati al ristorante Rusky, all' 85esimo piano del grattacielo Eye, nel cuore di Mosca. Con loro si sono sedute a tavola altre cinque persone. Nel verbale d' interrogatorio, che è stato secretato dai magistrati, Irina ha infatti spiegato di aver «raggiunto Savoini alla cena». Irina Afonichkina con i pm non si è soffermata invece su quanto è avvenuto nel pomeriggio, tra il convegno di Confindustria del mattino e la cena in serata. Proprio nelle ore cruciali in cui Matteo Salvini avrebbe visto in gran segreto Dimtry Kozak, il vicepremier russo con delega sull' energia. Un vertice mai smentito dal leader della Lega. Secondo l' Espresso la donna, che ha seguito Savoini come traduttrice in tutti i suoi spostamenti in terra russa, sarebbe stata presente anche a quell' incontro. E avrebbe avuto un ruolo fondamentale pure nella traduzione dei documenti del carteggio con Gazprom, ultimo venditore individuato da Savoini, Meranda e Vannucci nella trattativa dopo l' uscita di scena di Rosneft, altro colosso energetico russo. I magistrati milanesi Donata Costa, Gaetano Ruta e Sergio Spadaro, titolari dell' inchiesta insieme al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, stanno cercando adesso di capire se anche l' ex portavoce di Salvini fosse presente a quell' appuntamento con il vicepremier Kozak. Argomento su cui Irina Afonichkina non ha detto nulla durante l' interrogatorio a cui ha partecipato anche la Guardia di Finanza di Milano. La procura potrebbe risentirla, anche se la donna è tornata in questi giorni in Russia. Venerdì scorso invece, gli investigatori l' avevano convocata, approfittando della sua presenza in Italia e l' avevano ascoltata per diverse ore.

Davide Milosa per "il Fatto quotidiano” il 10 gennaio 2020. Cellulari che registrano le telefonate e una importante testimone russa sentita ieri sera in Procura. L' inchiesta sull'incontro all'hotel Metropol di Mosca del 18 ottobre 2018 e sui "rubli" che dovevano finire nelle casse della Lega accelera e non poco. Sei mesi dopo lo scandalo, ecco la svolta che potrebbe inguaiare l' ex vicepremier Matteo Salvini. I magistrati di Milano, che indagano per corruzione internazionale, stanno studiando i contenuti dei cellulari sequestrati nel luglio scorso. Si tratta degli smartphone in uso ai tre indagati dell' indagine: Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, nonché uomo della Lega per i rapporti con la Russia, Gianluca Meranda, avvocato d' affari, ex massone e Francesco Vannucci, toscano, consulente bancario, ex politico locale del Pd. Ma è soprattutto su Meranda che si concentra l' attenzione dei magistrati. Il professionista, già consulente della banca d' affari londinese Euro-Ib e per questo, emerge dall' inchiesta, in contatto con Eni, aveva l' abitudine, secondo i pm, di registrare le telefonate. Il dato non è di poco conto. I file scaricati e poi trascritti sono molti. I magistrati li stanno ascoltando. Quale sia il contenuto, al momento, resta un omissis. Quale interlocutore ha registrato Meranda? Anche Salvini? Al momento il capo della Lega non è indagato. Di certo, però, il 17 ottobre 2018, il giorno prima del Metropol, Salvini era a Mosca per un convegno organizzato da Confindustria Russia. Lo stesso giorno vedrà il suo omologo russo, Dimitry Kozak, con deleghe per l' energia. L'incontro dell' ex capo del Viminale, non annotato nell' agenda ufficiale, si tiene nello studio dell' avvocato Vladimir Pligin, professionista vicino a Putin. In questi sei mesi l' inchiesta ha accumulato decine di atti: dalle carte acquisite in Eni ai dati estrapolati dai cellulari. Riassumiamo: nel luglio scorso il sito americano Buzzfeed rende pubblico un audio registrato ai tavolini dell' hotel Metropol di Mosca. È il 18 ottobre del 2018. Sei persone sono sedute: tre italiani (gli indagati attuali) e tre russi. Di questi due sono stati identificati e risultano molto vicini all' entourage del presidente Vladimir Putin. Il terzo, pur già identificato, è un omissis. Quella mattina ci sono anche due cronisti de l'Espresso che da lontano vedono e scrivono. L' articolo uscirà nel febbraio scorso. L' indagine, ufficialmente, si apre a fine maggio con l' iscrizione nel registro degli indagati di Gianluca Savoini. Sul tavolo del Metropol si discute di una partita di gasolio che Eni dovrebbe acquistare. A vendere è una società di Stato russa, Gazprom o Ronseft. A illustrare il piano è proprio Meranda che tra le tante cose spiega come i political guys della Lega abbiano calcolato in un 4% il discount da far uscire. Tradotto: se la partita vale 1,5 miliardi di dollari, lo "sconto" da far arrivare nelle casse della Lega in vista delle Europee dello scorso maggio è di "65 milioni di dollari". Allo stato non si ha prova che l' affare sia andato in porto. Di certo si sa che sarà trattato ben oltre il 18 ottobre e fino al primo febbraio. In tutto questo Eni resta un punto di domanda. La società non è indagata, ma vi è prova di un rapporto, se pur datato al 2017, con la Euro-Ib della quale Meranda era consulente. A scrivere una lettera di referenze è la Eni & Trading shipping. Che l' avvocato d' affari registrasse le telefonate è un dato in mano ai pm, che sia stato lui a registrare la conversazione del Metropol resta solo una ipotesi. Di certo nel suo cellulare i magistrati hanno trovato la fotografia di un foglio sul quale è scritto l' accordo per far arrivare i soldi alla Lega. Il dato viene rilevato dal tribunale del Riesame che il 30 settembre ha confermato la bontà dell' azione della Procura nel richiedere il sequestro dei cellulari. Posizione poi ribadita lo scorso dicembre dalla Cassazione. E se da un lato si studiano con attenzione le telefonate registrate da Meranda, dall' altro, negli uffici della Procura ieri sera è stata sentita come testimone una donna di origine russa. L' interrogatorio, durato un paio d' ore con l' aiuto di un interprete, è stato subito secretato. L' inchiesta, dunque, prosegue e tra pochi giorni la Procura dovrà mandare al giudice per le indagini preliminari la richiesta di proroga per indagare altri sei mesi. In quel documento, di certo, ci saranno i nomi di Savoini, Meranda e Vannucci.

·        I 49 milioni.

Marco Grasso per “la Stampa” il 27 agosto 2020. La nuova puntata della caccia ai 49 milioni di euro della Lega è la conclusione di una perquisizione cominciata e interrotta otto mesi fa: lo scorso dicembre il deputato leghista Fabio Massimo Boniardi (non indagato) fermò la Guardia di Finanza sulla porta grazie all'immunità parlamentare, sostenendo di avere il domicilio nella tipografia al centro dell'operazione. I militari ieri sono ritornati presso la sede della Boniardi Grafiche srl (posseduta al 25% del politico) con l'autorizzazione del Parlamento e questa volta hanno prelevato pc, materiale informatico e documenti. L'ipotesi della Procura di Genova è che la società fosse un veicolo usato per operazioni occulte dal Carroccio, nell'ambito di una più ampia strategia di svuotamento dei conti mirata a scansare le confische della magistratura. Al centro della vicenda c'è in particolare un pagamento di 450mila euro. I soldi, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, sarebbero parte dell'ormai noto gruzzolo accumulato in modo illecito dall'ex tesoriere Francesco Belsito. Da un conto ufficiale del partito presso la Banca Aletti, nei primi mesi del 2013 il denaro transita nelle casse dell'«Associazione Maroni presidente», impegnata nella campagna elettorale per le elezioni in Lombardia. L'associazione, a sua volta, effettua alcuni pagamenti dello stesso ammontare per propaganda elettorale. I flussi confluirebbero sulla carta in due società satellite della Lega, la Nembo srl (nel frattempo cessata) e la Boniardi grafiche srl. L'ipotesi dei finanzieri, coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto e dal pm Paola Calleri, è che le fatture mascherino in realtà operazioni inesistenti. A mettere i magistrati su questa strada è un ex candidato della stessa lista civica, Marco Tizzoni. È lui a confidare le sue perplessità sulla gestione finanziaria dell'associazione, che nel tempo cambia vari nomi, tra i quali «Lombardia in testa», «Lombardia speciale» e «Autonomia per Fontana presidente». Messa ormai in liquidazione, in tutti questi passaggi ha sempre avuto lo stesso presidente: Stefano Bruno Galli, assessore regionale lombardo all'Autonomia e alla Cultura della giunta di Attilio Fontana, indagato per riciclaggio. Ma chi gestiva le entrate e uscite dell'associazione? Secondo l'ex tesoriere Luca Lepore, sentito dai pm genovesi, erano alcuni big leghisti, in particolare «i senatori Roberto Calderoli e Stefano Candiani» (non indagati), insieme al «presidente Stefano Bruno Galli»: «Io prendevo ordini - ha raccontato ai magistrati - loro dettavano la linea». La versione di Boniardi è la stessa di otto mesi fa: allora aveva spiegato di aver messo a disposizione tutta la documentazione richiesta e di essersi opposto al sequestro del computer perché sul pc teneva anche materiale legato alla sua attività di deputato. Il decreto di perquisizione, come accade sempre in casi simili, conferisce alla Finanza la delega di ricerca di tutto il materiale sui server e anche di eventuali tracce di cancellazione. L'obiettivo dell'inchiesta è il recupero dei 49 milioni di euro, ottenuti indebitamente durante la gestione Bossi-Belsito. Quando i pm si presentarono per sequestrarli, nel settembre 2018, ne trovarono poco più di 3, mentre la Lega nel mentre ha stretto un accordo con la Procura per la restituzione del resto a rate, della durata di ottant' anni. Nel frattempo i magistrati hanno continuato a indagare sulla spoliazione delle casse del partito. Una parte dei fondi sarebbe stata esportata in Lussemburgo attraverso la banca Sparkasse di Bolzano e rientrata in Italia attraverso una rete di scatole cinesi. L'altra tranche è quella che riguarda le operazioni dell'Associazione Maroni, su cui Roberto Maroni ha sempre spiegato di non aver mai avuto ruoli operativi.

Marco Grasso per “la Stampa” il 28 agosto 2020. Nel computer sequestrato l'altro ieri al deputato leghista Fabio Massimo Boniardi ci sarebbero tracce di cancellazioni. È presto per dire se si tratti di indizi di un uso ordinario dell'apparecchio oppure se dal server siano spariti elementi rilevanti anche per le indagini. Di certo c'è che i magistrati hanno dato alla Finanza un compito specifico: capire se negli ultimi mesi qualcuno ha provato ad alterare potenziali prove che riguardino la caccia ai 49 milioni di euro della Lega. Una ricerca ormai entrata nel vivo: sono una trentina le operazioni nel mirino della Finanza, selezionate fra trasferimenti superiori ai 50mila euro usciti dai conti del partito. Fra questi movimenti figura anche una sovvenzione a Radio Padania. L'ultimo capitolo dell'inchiesta è di due giorni fa. I finanzieri si presentano alla Boniardi Grafiche srl, stamperia di via Gian Battista Vico, a Milano. È posseduta al 25% dal parlamentare e storicamente ruota intorno al mondo del Carroccio. Una prima perquisizione, a dicembre, era stata interrotta perché Boniardi aveva opposto l'immunità parlamentare: nella stamperia ha il domicilio, dice ai militari, costretti a quel punto a ripresentarsi con un'autorizzazione del Parlamento, concessa un mese fa. La tipografia entra nell'inchiesta della Procura di Genova per via di una fattura da 450mila euro emessa nei confronti della "Associazione Maroni presidente". Il pagamento riguarderebbe manifesti e santini elettorali in favore della lista civica che nel 2013 sostiene il futuro governatore della Lombardia. Ma uno dei candidati, Marco Tizzoni, non ci vede chiaro: si presenta dai pm e racconta di non aver visto traccia del materiale di propaganda. Dove sono finiti, allora, quei 450mila euro? Per la Guardia di Finanza, coordinata dal procuratore aggiunto Francesco Pinto e dal pm Paola Calleri, si tratta di un'operazione inesistente. Una delle varie manovre attraverso cui la Lega ha giustificato lo svuotamento dei conti dopo lo scandalo Belsito. Al suo avvicendamento, nel 2012, l'ex tesoriere sostiene di aver lasciato 40 milioni sui conti del partito. Quando la Procura prova a confiscarli, nel 2018, ne trova poco più di 3. E nel frattempo la nuova Lega a trazione salviniana si mette d'accordo per pagare la parte restante in rate che si estingueranno in 80 anni. Alla Boniardi Grafiche gli inquirenti arrivano con il proverbiale follow the money. Analizzano le uscite del conto gestito da Belsito, presso la Banca Aletti, e tracciano i soldi verso vari istituti di credito, tra Milano e il Veneto. Un primo filone porta a 10 milioni di euro depositati alla Banca Sparkasse di Bolzano. Anche questo un recipiente che si svuota in fretta. Mentre da alcuni conti anonimi dell'istituto trentino partono investimenti per lo stesso valore in Lussemburgo. Il terzo passaggio è il rientro di 3 milioni in Italia da una fiduciaria del Granducato: un'operazione sospetta, secondo la stessa fiduciaria, che la segnala all'antiriciclaggio italiano. Dove sono finiti quei soldi? Ma, soprattutto, sono ricollegabili alla Lega attuale, gestita da Matteo Salvini e dal tesoriere Guido Centemero? Dallo stesso conto della Banca Aletti sono partiti anche finanziamenti all'Associazione Maroni presidente, per un valore simile a quello pagato alla tipografia di Boniardi. Il sospetto, insomma, è che i soldi siano andati altrove. Per questo è indagato per riciclaggio il presidente dell'associazione, Stefano Bruno Galli, presidente dell'associazione e assessore della giunta di Attilio Fontana. Ma gli accertamenti potrebbero non fermarsi qui. Secondo il tesoriere dell'associazione, Luca Lepore, a decidere entrate e uscite dell'Associazione Maroni presidente erano alcuni big del Carroccio.

Lega, i 39 bonifici «sospetti» ai commercialisti e la pista dei fondi spariti.  Fiorenza Sarzanini il 3/8/2020 su Il Corriere della Sera. I tesorieri del partito e i movimenti segnalati da Banca d’Italia: verifiche in corso per capire se le movimentazioni, effettuate tra giugno 2019 e maggio 2020, servissero per schermare parte dei 49 milioni che la Lega dovrebbe restituire allo Stato. In poco più di un anno hanno ricevuto 39 bonifici per un totale di circa mezzo milione di euro. Soldi trasferiti dalla Lega per Salvini, Lega Nord e Radio Padania alla loro società Mdr stp srl. Per questo nei confronti di Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, i due commercialisti che amministrano i soldi del Caroccio e sono stati recentemente indagati per un’operazione immobiliare dalla procura di Milano, è arrivata una segnalazione dall’Unità antiriciclaggio di Bankitalia. E nuovi accertamenti sono stati disposti per verificare se queste movimentazioni siano in realtà servite a mettere al sicuro parte dei soldi che la Lega dovrebbe altrimenti restituire allo Stato almeno fino a che non saranno stati trovati i 49 milioni di fondi pubblici che risultano spariti. E per i quali i vertici del partito si sono impegnati con i magistrati di Genova a effettuare la restituzione.

La cassaforte. Manzoni è revisore del gruppo alla Camera, Di Rubba ha l’incarico di amministratore del gruppo al Senato. I due commercialisti emergono in decine di operazioni che portano alla Lega, l’ultima scoperta appena qualche settimana fa per l’acquisto di un immobile per 800 mila euro da parte di Lombardia Film commission (ente partecipato dalla Regione). Della Mdr stp srl, oltre a Manzoni, revisore del gruppo alla Camera, e Di Rubba, amministratore del gruppo al Senato, fanno parte anche il senatore e tesoriere del partito Giulio Centemero e il senatore Stefano Borghesi. Ancor più interessante viene ritenuto il collegamento con la Dea consulting finita al centro dell’inchiesta genovese sui fondi spariti. Ecco perché l’attenzione della Guardia di Finanza si concentra adesso su queste nuove operazioni effettuate tra giugno 2019 e maggio scorso.

Bonifici frazionati. Il conto corrente segnalato è il 2523 della banca Popolare di Bergamo. Secondo l’antiriclaggio «nel periodo 6 giugno 2019 al 7 maggio 2020 arrivano 14 bonifici per complessivi 316.726 euro disposti da “Lega per Salvini premier” con causale “pagamento fattura” tramite un rapporto in essere presso Credito valtellinese, filiale Milano». Su quello stesso deposito «tra il 10 giugno 2019 e il 6 maggio 2020, vengono accreditati 13 bonifici per complessivi 123.327 euro disposti da “Lega Nord” con causale “pagamento fattura” tramite un rapporto in essere presso Banco Bpm filiale di Bergamo». Non è finita: «Nel periodo 12 giugno 2019 al 14 maggio 2020 12 bonifici in arrivo per complessivi 67.198 euro disposti da Radio Padania con causale “pagamento fattura” tramite un rapporto in essere presso Bcc Milano». Il 21 giugno 2019 c’è un «bonifico in partenza per 10.980 euro disposto online a favore della “Partecipazioni Srl” con causale “saldo fatture”» e poi tra il 23 luglio 2019 e il 15 aprile 2020 nove bonifici in partenza per 102.681 euro con la stessa società beneficiaria».

Soggetti politici. Sono gli stessi funzionari dell’Antiriciclaggio a evidenziare l’anomalia di una «ricezione ed effettuazione di bonifici aventi come controparti soggetti appartenenti al mondo politico e già citati nelle diverse segnalazioni sospette collegate». La stessa banca che ha diramato l’alert aveva chiesto spiegazioni a Manzoni e il commercialista «ha precisato che la “Mdr stp srl” è stata costituita attraverso la spedizione del portafoglio clienti dello studio “Dea consulting”, soggetto per il quale è stata in passato inoltrata apposita segnalazione di operazione sospetta. E con la finalità di svolgere attività di consulenza amministrativa contabile e fiscale per la Lega Nord presentando a supporto di quanto dichiarato alcune fatture». Una giustificazione che evidentemente non ha convinto né il direttore della filiale, né l’Antiriciclaggio che hanno deciso di far partire i controlli. Le verifiche sono affidate alla Guardia di Finanza proprio perché gli stessi funzionari di Bankitalia nella relazione sottolineano come «in presenza di numerose segnalazioni collegate non è possibile escludere illeciti». Il sospetto è sempre lo stesso: un sistema costruito su società che in realtà servono soltanto a schermare il passaggio del denaro. Fino ad occultarlo.

Facebook. Marco Degli Angeli 4 luglio 2020. Scusi, sono qui i 49 milioni? La Lega e i 49 milioni. In 80 anni di comode rate, senza interessi. Esattamente 2 anni, la sentenza definitiva che prevedeva di estendere il blocco dei fondi della Lega Nord anche al denaro che arriverà in futuro al partito. La Lega, accettando la rateizzazione è costretta ad ammettere le truffe che per mesi ha negato, cercando di minimizzare e allontanandole dall’attuale Segreteria. Oggi la Lega scende in piazza per il tesseramento travestendosi da nuova e immacolata, ed il centro destra suo alleato inizia la raccolta firme per Berlusconi senatore a vita. Niente, fa già ridere così. In questo articolo di 2 anni dei il post.it un chiaro e breve riassunto della vicenda. La principale notizia sulle prime pagine dei giornali di oggi è la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla procura di Genova che chiede di estendere il blocco dei fondi della Lega anche al denaro che arriverà in futuro al partito. Nelle sue motivazioni, la Cassazione ha stabilito quindi che ogni somma di denaro riferibile alla Lega, il partito guidato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, può essere sequestrata “ovunque venga rinvenuta” d’ora in poi: su conti bancari, libretti o depositi. È una storia che comincia da lontano, e che riguarda il più grave scandalo che abbia coinvolto la Lega. Nel luglio del 2017 infatti il tribunale di Genova aveva condannato per truffa ai danni dello Stato il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, e l’ex tesoriere del partito, Francesco Belsito, oltre a tre dipendenti del partito e due imprenditori. Il procedimento riguardava i rimborsi elettorali ricevuti dalla Lega – che allora si chiamava Lega Nord – tra il 2008 e il 2010, che erano stati utilizzati invece per spese personali. Lo scandalo era nato nei primi mesi del 2012, quando Belsito venne indagato per la sua gestione dei rimborsi elettorali ricevuti dal partito, trasferiti in alcuni casi all’estero dove erano stati investiti in varie attività, tra cui l’acquisto di diamanti. La vicenda aveva portato alle dimissioni di Bossi dalla carica di segretario e alla sua condanna a 2 anni e 6 mesi. L’allora tesoriere del partito, Francesco Belsito, era stato condannato a 4 anni e 10 mesi. Sempre nel 2017 e nell’ambito del processo per truffa, il tribunale di Genova aveva deciso di procedere alla confisca al partito di circa 49 milioni di euro (48 milioni e 969 mila e 617 euro, per la precisione), a titolo di risarcimento per i rimborsi ingiustamente utilizzati: quale «somma corrispondente al profitto, da tale ente percepito, dai reati per i quali vi era stata condanna». Il 4 settembre del 2017 la procura di Genova aveva chiesto e ottenuto con un decreto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca della somma, ma nei conti correnti della Lega erano stati trovati solo circa 2 milioni di euro. Non era chiaro se il decreto dovesse riguardare solo i fondi che già si trovavano sui conti al momento del provvedimento di sequestro (come sostengono gli avvocati della Lega) o anche le somme depositate successivamente. La procura aveva richiesto di estendere l’esecuzione del sequestro anche alle somme che sarebbero arrivate da lì in poi alla Lega fino al raggiungimento della somma stabilita, cioè circa 49 milioni, ma il tribunale del Riesame aveva respinto la richiesta. I pubblici ministeri di Genova avevano allora presentato un ricorso in Cassazione che, lo scorso 12 aprile, si era pronunciata: solo ieri, però, sono state depositate le motivazioni. La Cassazione ha accolto il ricorso e ha annullato con rinvio al Riesame l’ordinanza con la quale, in base al decreto già emesso in settembre, era stato fermato il sequestro delle somme future. Il Riesame dovrà ora emettere un nuovo provvedimento tenendo però in considerazione le indicazioni e le motivazioni della Cassazione, che sono vincolanti. Nelle motivazioni della sentenza di Cassazione si legge che «la fungibilità del denaro e la sua stessa funzione di mezzo di pagamento non impongono che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite», ma «la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque venga rinvenuta, una volta accertato, come nel caso in esame, il rapporto pertinenziale quale relazione diretta, attuale e strumentale, fra il danaro oggetto del provvedimento di sequestro ed il reato del quale costituisce il profitto illecito». Il senso della sentenza della Cassazione è dunque che quella somma deve essere recuperata dallo Stato, poiché ingiustamente utilizzata dalla Lega: se al momento del decreto del 4 settembre i soldi sui conti della Lega non c’erano, quella cifra sarà messa insieme con i nuovi soldi che entreranno. Nel frattempo, sempre a Genova è stata aperta un’indagine per riciclaggio a carico d’ignoti sui soldi spariti, o almeno su una parte: l’ipotesi della procura è che la Lega – non è chiaro quando ma durante le gestioni successive a Bossi, quindi quelle di Roberto Maroni e Matteo Salvini – abbia cercato di nascondere parte dei propri soldi per evitare che venissero sequestrati, trasferendoli in Lussemburgo per poi farli rientrare in Italia. A segnalare alle autorità antiriciclaggio italiane queste manovre finanziarie è stato lo stesso Lussemburgo, che ha considerato sospetto il rientro in Italia della somma. Secondo la procura, la banca dalla quale i soldi sono stati trasferiti e poi rimpatriati sarebbe la Sparkasse, la Cassa di Risparmio di Bolzano. Poche ore dopo il deposito delle motivazioni della Cassazione, ospite a In Onda, programma su La7, Matteo Salvini ha detto che quei 49 milioni di euro «non ci sono: posso fare una colletta, ma è un processo politico che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto». E ancora: «Se ci sono fatti di dieci anni fa, si pensi a quelli che c’erano dieci anni fa; i milioni di italiani che col 2 per mille danno un contributo al nostro partito non c’entrano. Siamo sereni». Alcune inchieste giornalistiche avrebbero però scoperto che sia Salvini che Maroni avrebbero utilizzato una parte dei 49 milioni di euro frutto della truffa tra il 2011 e il 2014. Le parole di Salvini sulla «colletta», sostiene oggi Repubblica, «non sono distanti dai ragionamenti in corso in via Bellerio. Siccome tutti gli eletti, dai parlamentari ai consiglieri regionali, da sempre versano una quota della propria indennità al partito, un’idea è far finanziare le iniziative della Lega direttamente dagli eletti. (…) Senza dimenticare il nuovo soggetto politico, la “ Lega per Salvini premier”, il cui statuto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Formalmente un partito diverso dalla Lega. Sul quale, sperano i vertici del Carroccio, la procura genovese potrebbe non avventarsi».

«Trasferimenti illeciti di fondi pubblici»: l'affare che fa tremare la Lega di Matteo Salvini. Un immobile pagato il doppio del suo valore a una società collegata al giro dei commercialisti del partito. Denaro pubblico finito poi a società riconducibili sempre agli stessi professionisti. E sullo sfondo l'ombra di un prestanome dei clan fuggito in Brasile. Un giallo, che secondo i detective di Bankitalia è nel mirino anche della procura di Milano. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 28 maggio 2020 su L'Espresso. Dal Russiagate sovranista al Lombardiagate padano. Cambiano i personaggi e le date, ma non il partito in questa storia di soldi trasferiti dalle casse pubbliche della Lombardia Film Commission a società private vicine alla Lega di Matteo Salvini. Soldi della Regione Lombardia passati di mano quando a capo del Pirellone c’erano proprio uomini del Carroccio: prima l’ex segretario federale Roberto Maroni, poi l’attuale governatore Attilio Fontana, fedelissimo di Salvini. E a capo della film commission c’era Alberto Di Rubba, uno dei commercialisti bergamaschi scelti da Matteo per gestire le finanze del nuovo partito dopo gli scandali giudiziari dell’era Bossi-Belsito.

La Regione paga e la Lega incassa: l'affare che ha arricchito gli amici di Matteo Salvini. Un immobile di una società della galassia salviniana. Vale 400 mila euro. Ma viene venduto al doppio. A una fondazione partecipata della Lombardia. E i soldi finiscono anche a una srl. La stessa che paga i commercialisti e il tesoriere del Carroccio. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 26 aprile 2019 su L'Espresso. Denari dei cittadini, tutti: quasi 1 milione di euro. Che dopo un lungo girovagare finiscono a società riconducibili sempre alla Lega. Tutto ha inizio con una normalissima compravendita immobiliare. Ed è da qui che inizia la nostra storia. Al confine tra Cormano e Cusano Milanino c’è un fabbricato basso e grigio di quasi mille metri quadrati. Sul portoncino di ferro c’è una targhetta argentata: “Lombardia Film Commission”, si legge. Il fabbricato si trova a pochi metri dall’autostrada Milano-Venezia, in via Bergamo 7. È qui, nell’ex cuore industriale della provincia milanese, che appunto ha sede operativa la Lombardia Film Commission, la fondazione a partecipazione pubblica che si occupa della promozione e dello sviluppo di progetti cinematografici sul territorio regionale. Un ente pubblico importante. La gran parte dei soldi con cui si finanzia arrivano dalla Regione, il resto lo mettono gli altri soci: Comune di Milano, fondazione Cariplo e Unioncamere regionale. Già, perché dietro la compravendita dell’immobile di via Bergamo 7 ci sono personaggi legati alla Lega. Infatti, gli 800 mila euro pagati dalla fondazione pubblica all’immobiliare che ha ceduto la struttura finiscono bonifico dopo bonifico ad aziende e nomi strettamente connessi tra loro e con il Carroccio. Un’operazione immobiliare che viene avviata e conclusa quando il presidente del Cda della fondazione era Alberto Di Rubba, piazzato lì dalla giunta Maroni nel 2014. Quarantenne, bergamasco, Di Rubba è il professionista di fiducia della nuova Lega di Salvini, tanto da essere stato nominato revisore dei conti del gruppo parlamentare alla Camera e amministratore unico della Pontida Fin, la storica cassaforte immobiliare del Carroccio. Di Rubba è insomma il commercialista scelto per far quadrare i conti insieme all’amico di vecchia data, il tesoriere Giulio Centemero, con il quale ha fondato l’associazione Più Voci. È la stessa Più Voci che - come abbiamo raccontato un anno fa sull’Espresso - ha ricevuto donazioni sostanziose dal costruttore Luca Parnasi, una vicenda che vede oggi indagato Centemero per finanziamento illecito, fascicolo aperto dopo le nostre rivelazione e che si avvia alla conclusione: la procura di Roma potrebbe a breve chiudere le indagine e chiedere il rinvio a giudizio. Lo studio di Di Rubba è a Bergamo bassa, in via Angelo Maj 24, dove hanno sede una sfilza di società che fanno capo a una holding lussemburghese schermata da una fiduciaria italiana. E proprio in via Maj, a dicembre scorso, hanno bussato i detective dalla Guardia di finanza di Genova per cercare ulteriori indizi sul presunto riciclaggio di parte dei 49 milioni dei rimborsi elettorali ottenuti con la truffa di Bossi e Belsito, che per questo sono stati condannati in Appello. Una delle società sospettate dalla Finanza e dalla procura di aver ripulito il denaro è amministrata dal tesoriere Centemero, così c’è scritto nel decreto di perquisizione. Questo è il contesto in cui si muove Di Rubba, il presidente della fondazione pubblica lombarda. Ripartiamo proprio dalla Lombardia Film Commission. Il professionista bergamasco ha lasciato l’incarico di presidente della fondazione ad agosto scorso. Insediatosi a settembre 2014, a nove mesi dall’incoronazione di Matteo Salvini a segretario del partito, è stato scelto dalla giunta di Roberto Maroni su proposta dell’allora assessore alla Cultura Cristina Cappellini, salviniana che voleva istituire all’interno dello “sportello famiglia” il numero anti-gender (sarebbe servito a segnalare i casi di «indottrinamento gender nelle scuole»). Di Rubba lascia la presidenza dell’ente pubblico quasi quattro anni più tardi, agosto 2018. Al suo posto l’intellettuale Pino Farinotti, critico cinematografico, scrittore e giornalista. Di Rubba fa però in tempo ad assistere dall’alto del suo ruolo al colpo grosso messo a segno da un’immobiliare milanese, la Andromeda Srl. L’immobiliare, il 5 dicembre 2017, incassa dalla Lombardia Film Commission 800 mila euro per la vendita dell’immobile di Cormano. Sull’atto notarile finale del 13 settembre 2018 c’è la firma del successore di Di Rubba, Farinotti. Ma è nel medesimo atto che si dà conto del pagamento ad Andromeda avvenuto tramite due bonifici accreditati il 5 dicembre 2017, cioè quando a capo della fondazione c’era il commercialista della Lega. Fin qui nulla di strano, se non fosse per alcune curiose coincidenze. La prima: la proprietà che sta dietro l’immobiliare Andromeda. La seconda: chiuso l’affare con i soldi dei cittadini, Andromeda è stata messa in liquidazione. Che i soldi finiti all’immobiliare siano pubblici non ci sono dubbi. Dai documenti letti dall’Espresso risulta che il tesoretto accumulato sul conto corrente della fondazione era composto da 1,4 milioni di fondi regionali, destinati all’attuazione della programmazione della Lombardia Film, 99 mila euro provenivano dal Comune di Milano e 100 mila da Cariplo. Ma a chi è riconducibile l’Andromeda, la società che vende per 800 mila euro l’immobile all’ente pubblico lombardo? Le quote sono detenute dalla “Futuro partecipazioni”, di proprietà di una società fiduciaria con sede a Milano. Impossibile dunque risalire al reale titolare. Ciò che si conosce però è il nome dell’amministratore della “Futuro Partecipazioni”, la società che controlla l’immobiliare che incassa il denaro pubblico: si chiama Michele Scillieri, di lavoro fa il commercialista e revisore contabile, ha lo studio in via privata delle Stelline 1, a Milano. Proprio dove è stato registrato il nuovo brand del Carroccio sovranista, la “Lega per Salvini premier”, a fine 2017. Non solo: Scillieri è stato sindaco della fondazione diretta da Di Rubba, e pochi mesi dopo che Andromeda ha venduto l’immobile di Cormano è stato nominato anche consulente della fondazione con il ruolo di contabile amministrativo. Una nomina avvenuta quando Di Rubba si trovava ancora al comando della struttura pubblica. Il contratto di Scillieri scade nel 2020, la sua retribuzione è di 25 mila euro all’anno più Iva. Nella dichiarazione pubblicata sul sito della fondazione, il commercialista milanese dichiara di non aver alcuna incompatibilità né conflitti di interesse. Eppure quando Andromeda conclude l’affare, lui è allo stesso tempo sindaco supplente della fondazione che eroga 800 mila euro pubblici, e amministratore della società privata che beneficia di quegli 800 mila euro. Come se non bastasse, c’è un dettaglio ulteriore che rischia di mettere in serio imbarazzo la Lega di fronte ai suoi elettori lombardi: Scillieri, dopo la vendita del fabbricato di Cormano, è stato anche nominato liquidatore dell’Andromeda, la srl dai proprietari misteriosi che sta chiudendo i battenti dopo aver incassato i denari dei contribuenti italiani. Abbiamo chiesto a Scillieri che ruolo ha avuto nella compravendita. Non ha risposto. Nel luglio scorso ha invece rilasciato un’intervista a un quotidiano nazionale e ha spiegato perché sia stato scelto il suo studio come domicilio della nuova Lega: «È stato solo per un piacere personale a un collega. L’accordo era chiaro: ho accettato la domiciliazione ma volevo tenermi totalmente fuori a livello politico, finanziario e operativo». Nella stessa intervista sostiene di conoscere solo Andrea Manzoni, il collega di Di Rubba, revisore legale del gruppo Lega al Senato, e Centemero, il tesoriere del partito. E Di Rubba? Di lui non fa cenno. Eppure all’epoca Scillieri era già da qualche mese consulente della Lombardia Film Commission di cui Di Rubba era presidente. La storia dell’immobile venduto dall’Andromeda a 800 mila euro si arricchisce ancora se seguiamo il tragitto dei soldi pubblici incassati dall’immobiliare. Che non li tiene fermi in banca. Partiamo da quando l’immobiliare collegata a Scillieri acquista il fabbricato di Cormano, poi rivenduto all’ente pubblico. L’immobile diventa proprietà di Andromeda solo undici dieci mesi prima della vendita alla fondazione. Quanto è costato ad Andromeda? La metà, ossia 400 mila euro, almeno così è scritto nell’atto notarile. Insomma, grazie a Lombardia Film Commission quei 400 mila lieviteranno e frutteranno alla Andromeda, oggi liquidata da Scillieri, il doppio. Non male. Anche perché nell’atto di compravendita è specificato che l’immobile è «in pessimo stato di conservazione e manutenzione e con necessità di effettuare significative opere di ripristino». Una precisazione, che tuttavia, non compare undici mesi dopo nella cessione alla fondazione Lombardia Film Commission, in cui sono menzionate alcune opere in corso di esecuzione, consistenti in «opere interne ai fabbricati ed al rifacimento della copertura degli stessi». Un affare come tanti, verrebbe da pensare. Ma è ciò che accade nei giorni successivi a riportare i soldi vicinissimi alla Lega. Cinque giorni dopo aver incassato il denaro pubblico per la compravendita dell’immobile di Cormano, l’immobiliare versa 480 mila euro alla società Eco e sei giorni dopo 178.500 alla Sdc. La Eco è un’azienda con sede a Milano, costituita un mese prima che Andromeda vendesse a Lombardia Film Commission. Il proprietario è di Gazzaniga, provincia di Bergamo, 5 mila anime in Val Seriana, paese natale di Di Rubba. Si occupa, recita l’oggetto sociale, di costruzione e ristrutturazione immobili. Possibile che l’imprenditore di Gazzaniga abbia ristrutturato il fabbricato di Cormano in un solo mese e che abbia incassato quasi mezzo milione di euro? Un mistero che solo i protagonisti della vicenda avrebbero potuto chiarire se avessero voluto rispondere alle domande che gli abbiamo inviato. Di certo possiamo aggiungere che la Eco ha intrattenuto rapporti economici con la Lega. Per esempio, il 13 febbraio 2018, Radio Padania e Pontida Fin- la storica società controllata dal partito, amministrata da Di Rubba- versano alla Eco in totale 60 mila euro. Pagamento fatture, recita la causale. Poi, due settimane più tardi, è la Eco a pagare società che orbitano attorno alla Lega. Tre bonifici, per circa 60 mila ero, i cui beneficiari sono lo studio Dea Consulting di Di Rubba (all’epoca era presente anche Andrea Manzoni), lo studio Cld - da poco incorporato in un’unica struttura con Dea Consulting- e Sdc, società il cui capitale sociale è stato versato sempre da Dea Consulting. Ed è proprio Sdc che, negli stessi giorni in cui la Eco riceve la sua parte, incassa la propria. La Sdc, dunque, riceve parte del denaro pubblico incassato da Andromeda. E ci riconduce ai professionisti pagati dal partito e a uomini organici ad esso: Alberto Di Rubba, cioè l’amministratore all’epoca della Lombardia Film Commission, Giulio Centemero, il tesoriere del partito, e Andrea Manzoni, il contabile del gruppo al Senato. Tra il 2016 e il 2018 la Sdc versa sistematicamente soldi al trio di commercialisti della Lega con causale “pagamento fatture”. Prendiamo Centemero, deputato e tesoriere del partito: in un anno ha incassato da Sdc circa 62 mila euro. Chi ha ricevuto di più da questa azienda nata nel 2016 è certamente Manzoni, il collega di studio di Di Rubba: 211 mila euro in un anno e mezzo fino al gennaio 2018. Anche dopo, quindi, che Sdc incassa i quasi 200 mila euro girati dalla fortunatissima immobiliare Andromeda. Anche Di Rubba non è da meno: riceve 198 mila euro da Sdc, sempre a titolo di pagamento fatture, emesse dal giugno 2016 al gennaio 2018. Le date indicano dunque che Di Rubba, durante la presidenza della Film Commission lombarda, ha guadagnato con prestazioni offerte da Sdc, che a sua volta ha ricevuto gli 800 mila euro pubblici spesi dall’ente che lui presiedeva. Abbiamo chiesto a tutti i diretti interessati di commentare questa vicenda: non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Dell’acquisto dell’immobile  abbiamo chiesto conto con domande puntuali  anche alla nuova dirigenza della fondazione partecipata dalla Regione. La nostra richiesta di commento è giunta alla consigliera Paola Dubini, che dall’estero ci ha risposto di non riuscire ad aiutarci: «Come giustamente dite voi non ero all’epoca entrata nel Cda e quindi l’approvazione del bilancio non è stato oggetto di lavoro da parte mia». Dubini ha girato le nostre richieste all’ufficio stampa, che però non ci ha più fatto sapere nulla. Una cosa possiamo dirla con certezza: i soldi dei contribuenti lombardi si sono persi in mille rivoli e hanno fatto guadagnare personaggi del partito della Lega, quasi una famiglia per Matteo Salvini. Uno strano caso di catarsi. Da “prima gli italiani” a “prima la famiglia”: the family, come ai vecchi tempi.

Claudia Guasco per "Il Messaggero" il 17 ottobre 2020. Per quell'affare il commercialista della Lega Michele Scillieri si è sentito tradito. «Due belle ville sul lago», diceva intercettato al telefono, risentito per essere stato escluso dagli altri due contabili del Carroccio Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. «Questi qua sono dei mascalzoni. Che mettono le mani nella marmellata. Appena la tiri fuori, ti rubano pure quella roba lì. A me hanno dato il terreno e loro si sono ciucciati le ville». GIRO DI BONIFICI Ora le due residenze al Green Residence Sirmione di Desenzano del Garda sono finiti sotto sequestro. Per i magistrati della Procura di Milano sono stati acquistati con i soldi versati dalla Regione Lombardia alla controllata Film commission per l'acquisto del capannone di Cormano. Manzoni e Di Rubba sono accusati di peculato, oltre che di turbativa d'asta ed evasione fiscale, proprio per aver usato gli 800 mila euro del finanziamento pubblico del Pirellone per scopi privati. Di questi, oltre 600 mila euro sarebbero stati usati per le due case sul lago di Garda. Il gip Giulio Fanales ha ordinato «il sequestro preventivo finalizzato alla confisca» della villa Bouganville nei limiti «dell'importo di 144.570 euro» e della villa Tigli sempre all'interno dello stesso complesso per un valore di «163.429,82 euro». Unico «obiettivo» dell'investimento immobiliare, scrive il giudice, era «il reinvestimento del profitto proveniente dal peculato». Stando alle carte il denaro arrivato da Regione Lombardia e affidato all'ente cinematografico nel 2017 guidato da Di Rubba arriva prima ad Andromeda, la società che vende il capannone di Michele Scillieri, quindi tramite un vortice di bonifici una parte è dirottata nelle casse della Taaac, società dei due contabili leghisti. La cui amministratrice era Vanessa Servalli, moglie del cugino di Di Rubba. «La complessa architettura societaria era utilizzata come mero strumento volto al drenaggio delle risorse pubbliche», scrive il gip. E l'operazione immobiliare del capannone di Cormano «risulta priva di una reale giustificazione economica, manifestandosi viceversa quale schermo giuridico dietro il quale occultare l'unico intendimento perseguito, ossia la distrazione del fondo erogato dall'ente pubblico», cioè Film commission, «a favore di Di Rubba e dei suoi complici, fra i quali in primo luogo Manzoni». Quanto alla Taaac, è una «società di comodo, priva di qualsiasi flusso di cassa fatto salvo i circa 163 mila euro generati dalla compravendita di capannone di Cormano».

Due morali. Ennesima inchiesta bufala dei "cani" di Travaglio: stavolta sulla Lega, ma dove è lo scoop? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. “Soldi & Lega”. “Notizie di interesse per la procura di Milano..”. Toni piuttosto espliciti, quelli del Fatto quotidiano, sempre attivo nel settore Manette & C. Questa volta hanno preso di mira la Lega di Matteo Salvini, dopo essersi appassionatamente dedicati a Open e a Matteo Renzi. Stanno seguendo l’odore dei soldi, in attesa e nella speranza che qualche uomo della procura, preferibilmente di Milano ma vanno bene anche altri, apra fascicoli e possibilmente anche le celle. E si lamentano pure, mettendo nero su bianco anche una sorta di protesta perché il loro “scoop” non è stato ancora raccolto da nessun altro organo di informazione. Li accontentiamo subito, anche perché la loro “inchiesta” somiglia molto a una ricopiatura dei vecchi elenchi del telefono, più che a un colpo al cuore di un partito politico. Che cosa hanno scoperto i cani da tartufo di Marco Travaglio? Semplicemente quel che succede in tutti i partiti almeno da settant’anni, e ancora di più da quando non esiste il finanziamento pubblico, l’assenza del quale mette l’Italia nella stessa casella della Bielorussia. Stiamo parlando di versamenti di oboli da parte di cittadini simpatizzanti per partiti o movimenti, ma anche di quel contributo di militanza che da sempre versano gli eletti a tutti i livelli istituzionali, ma anche nominati in enti pubblici o privati in “quota” di appartenenza. È così e non c’è nulla di scandaloso, men che meno di illegale. È un modo di appartenere, e di mostrarlo, a una comunità, una forma di orgoglio e lealtà. Non è un caso se sia un’antica tradizione del vecchio Pci, ma anche del Partito radicale, quello che forse più di tutti ha ricevuto dai suoi militanti quando venivano eletti, cioè il 50% dell’indennità. Non erano certo i versamenti dei militanti o dei simpatizzanti il problema di Enrico Berlinguer quando sollevò la “questione morale” negli anni ottanta o dello stesso Bettino Craxi quando in piena Tangentopoli denunciò nell’aula di Montecitorio il sistema “irregolare e illegale” del finanziamento dei partiti. Quelli erano problemi seri, che avevano a che fare con la legalità e con la moralità. Non con il moralismo e le bufale politico-giornalistiche, che sono altra cosa. Quelli del Fatto lo definiscono “il sistema del 15%” oppure “soldi & Lega”, neanche stessero alludendo a un traffico internazionale di capitali illeciti. I cani da tartufo hanno scovato un vecchio documento di vent’anni fa (cioè dei tempi in cui Matteo Salvini era un ragazzino, consigliere comunale a Milano) in cui il Consiglio federale della Lega aveva deciso di attribuire a Giancarlo Giorgetti il compito di sovraintendere alle nomine. E nel corso di una riunione il segretario organizzativo nel darne la notizia aveva anche comunicato alle sezioni di partito come fosse «dovere morale di quanti saranno nominati di contribuire economicamente alle attività del Movimento con importi che equivalgano, mediamente, al 15% di quanto introitato». Ah, il 15% per cento, pensano subito i tartufoni del Fatto nel leggere il vecchio documento. Ma non è la stessa percentuale citata da quel Tal Scillieri arrestato (e poi mandato a casa perché sta cercando di fare il “pentito”) nelle indagini per l’acquisto di quel capannone per conto della Film Commission? Ecco la puzza di bruciato, il 15% che “mediamente” coloro che sono stati eletti nelle liste della Lega o nominati in quota (come si dice nel gergo politico) versano come contributo nelle casse del partito. Ecco materia per procure. Poi naturalmente, poiché quelli del Fatto devono aver imparato dal loro direttore a non essere mai precisi, l’inchiesta a puntate ingarbuglia ben presto la vicenda. All’inizio pare un’indagine che affianca quella della procura di Milano sul capannone, ma anche le tante difficoltà subite dalla Regione Lombardia nei mesi della pandemia da Covid-19. Così si punta sulla sanità “padana”, e giù nomi di funzionari e dirigenti che, nell’arco di tre anni, tra il 2008 e il 2010, avrebbero versato, con regolari bonifici (e non con mazzette di contanti in scatole di scarpe) poche migliaia di euro (da tremila e seimila all’anno) nelle casse della Lega. Nomi, ruoli e foto a colori riempiono le pagine del quotidiano. Ma le notizie sono pochine. Così il filone “sanità lombarda” si prosciuga rapidamente, e i cani da tartufo tentano allora di alzare il tiro. Non temono il ridicolo nemmeno quando alle aziende pubbliche sono costretti ad affiancare enti privati, privatissimi. Si arriva così ai titoloni “Anche manager di Eni e di Intesa tra i pagatori”, laddove il termine “pagatori” evoca una costrizione, un’estorsione, un’arma puntata. Prendiamo il caso di Marcello Sala, che sedeva dal 2007 al 2016 nel consiglio di amministrazione della banca Intesa Sanpaolo, a controllo del tutto privato. Uomo vicino, come gli stessi tartufoni ricordano e come si legge sui giornali senza bisogno di leggere vecchi documenti, a Giancarlo Giorgetti. Bene, che dire delle sue responsabilità? Degli atti di cui dovrebbe occuparsi la procura di Milano? Sala avrebbe versato, secondo una rendicontazione interna al partito di cui i tartufoni sono entrati in possesso (perché sono abilissimi), ben 51.000 euro in sei anni. Un bel tirchione, se è consentito dirlo. Ma nulla si sa per ora di tutti gli altri, perché lunghi sono gli elenchi di manager che la Lega, unico partito italiano si suppone, avrebbe collocato negli enti come persone di fiducia, ma i nomi di coloro che avrebbero versato l’obolo sono pochissimi. Poi ci sono anche le gaffe. Come quella su Giovanna Colombo Clerici, militante della Lega dagli albori, che è stata anche parlamentare. Nulla si dice dei suoi versamenti negli anni in cui era a Montecitorio, ma si parla solo di 9.000 euro che avrebbe versato quando era nel consiglio di amministrazione della Rai. Una distinzione sottile, apparentemente, dal momento che tutta l’inchiesta (è ancora in corso, tranquilli) punta a isolare la Lega, come già Italia Viva con Open, dagli altri partiti in cui tutti gli eletti danno un contributo al partito. Infatti si fa la distinzione tra questi e i nominati, come se anche costoro, per quanto professionalmente più o meno competenti, non fossero indicati, sempre, dai partiti. Domandina facile facile: chi ha nominato il presidente dell’Inps? Tanto per fare un esempio a caso, naturalmente. Il che ci porta a ricordare quale sia quel movimento i cui eletti si distinsero, fin dai primi giorni, per quanto si accapigliavano per questioni di scontrini, e quanti siano stati espulsi perché non versavano la loro quota mensile alla struttura di partito e quanti se ne siano andati perché, si sa che al gruppo misto si guadagna di più e non si deve dare il contributo a nessuno. E potremmo anche ricordare che in quel certo movimento gli eletti devono anche (sono costretti davvero, non come donazione volontaria) pagare ogni mese una quota della propria indennità a una società privata. La stessa che riceveva fondi da una multinazionale proprio nello stesso periodo in cui qualcuno in Parlamento faceva ridurre le tasse ai prodotti di quella tal multinazionale. Che dire? Si sa che i moralisti sono quelli delle due morali, una per sé (e i propri amici) e una per gli altri. Oggi sappiamo anche che certi cacciatori annusano pensando di aver trovato i tartufi, invece trovano solo bufale.

 “Sanità, nessun trasferimento illecito”. Pubblicazione: 29.05.2020 - Fabio Belli su Il Sussidiario. Il tesoriere della Lega Giulio Centemero critica le illazioni contenute nell’articolo pubblicato sul settimanale l’Espresso: “Trasferimenti illeciti di fondi pubblici: l’affare che fa tremare la Lega di Matteo Salvini”. Il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, critica L’Espresso e l’articolo pubblicato sul settimanale dal titolo: “Trasferimenti illeciti di fondi pubblici: l’affare che fa tremare la Lega di Matteo Salvini“. Un vero e proprio Lombardia-gate padano che secondo l’Espresso riguarderebbe la sanità, la cessione di immobili e denaro passato attraverso le società collegate al giro dei commercialisti del partito. Un castello di falsità e congetture, secondo Centemero, che in una nota ha espresso riserve molto forti nei confronti dell’inchiesta: “Ancora una volta in questo nostro bel Paese accade che all’approssimarsi di un’udienza per una denuncia fatta all’Espresso arrivi puntuale l’offensiva di una certa stampa. Nell’ultimo articolo del settimanale, apparso in anteprima quest’oggi, si ripetono le falsità di un tempo e si aggiungono nuove e farneticanti accuse sui professionisti che collaborano per il partito“. Secondo Centemero l’attacco è grave perché mira non tanto alle nomenclatura, quanto alle fondamenta della Lega con le persone che svolgono il lavoro che manda di fatto avanti il partito. Secondo l’Espresso i trasferimenti di fondi illeciti nella Regione Lombardia orchestrati dalla Lega riguarderebbero diverse operazioni, da un immobile pagato il doppio del suo valore a denaro pubblico trasferito a società riconducibili sempre agli stessi professionisti al lavoro per la Lega. Si fa riferimento ad un prestanome dei clan fuggito in Brasile, un personaggio che sarebbe anche nel mirino della Procura di Milano. Centemero ha preannunciato azioni legali a tutela del partito, come spiegato nella nota di risposta a l’Espresso: “I comuni cittadini si sottomettono al giudizio dei tribunali aspettando con serenità e fiducia le relative decisioni. E anche quando la serenità e la fiducia cominciano a vacillare, come in questi ultimi tempi, ai comuni cittadini non resta altro che aspettare. Poi ci sono certi giornalisti che sono meno comuni degli altri e ai quali tutto è concesso e perdonato. A noi non resta altro che fare la cosa giusta: denunciarli ancora una volta e aspettare di vedere se alla fine i conti tornano“.

Sandro De Riccardis per "la Repubblica" il 4 dicembre 2020. Un sistema di retrocessione alla Lega di parte del denaro ricevuto dai professionisti per nomine e consulenze, avute sempre nel nome del partito. Nell' interrogatorio di sabato scorso, Michele Scillieri, il commercialista nel cui studio è stata registrata la lista "Per Salvini premier", ha parlato del suo incarico nella Lombardia Film Commission e di come abbia dovuto restituire una fetta considerevole dei compensi ai revisori contabili della Lega. Ma ha detto anche di sapere come il meccanismo delle retrocessioni al partito sia una prassi valida per tutti i soggetti che vengono collocati nelle caselle delle municipalizzate o che ottengono contratti nel sistema pubblico lombardo. Un interrogatorio fiume, durato dieci ore, davanti al procuratore aggiunto Eugenio Fusco e al pm Stefano Civardi che indagano sugli 800 mila euro stanziati dalla Regione Lombardia per l' acquisto della nuova sede della Lombardia Film Commission a Cormano, e che sono stati distratti dai revisori contabili della Lega in Parlamento, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Nel corso di alcune perquisizioni, il Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano ha trovato due fatture emesse da una società dei due revisori leghisti a favore di Scillieri, e i pm ne hanno chiesto conto al commercialista. Che ha chiarito come le due fatture servissero proprio a giustificare la restituzione del denaro. Nel suo caso, il 40 per cento di quanto incassato dall' incarico per "consulenza fiscale, tributaria, contabile" da 25mila euro più Iva, ricoperto dal gennaio 2018 - quando presidente della Lfc era Di Rubba - e che sarebbe dovuto durare fino al prossimo 31 dicembre. Nel frattempo - lo scorso 10 settembre - Scillieri, Manzoni e Di Rubba sono finiti ai domiciliari per turbativa d' asta, peculato ed evasione fiscale. Accusati di aver orchestrato già dalla fine del 2016 l' operazione sul capannone di Cormano, utilizzando il prestanome Luca Sostegni e una manciata di società decotte. Scillieri dice di aver saputo che le retrocessioni non riguardano solo il suo caso, ma ogni contratto che veniva assegnato a professionisti, scelti sempre tra persone vicine al Carroccio. E ha raccontato un episodio avvenuto poco distante dalla sede della Lega di via Bellerio, a Milano. Ricorda di aver segnalato ai revisori leghisti un suo cliente che, sapendolo molto vicino alla Lega, gli chiedeva insistentemente di ricevere qualche incarico. Ma la risposta ricevuta dai contabili è stata negativa: non è una persona di fiducia - è stato il verdetto non c' è la garanzia che una volta ricevuto i pagamenti ripaghi il partito. Mentre lui ha dovuto restituire quasi metà del compenso, le percentuali consuete sul denaro da retrocedere varierebbero tra il cinque e il quindici per cento. È a questo punto che gli inquirenti hanno evocato il "sistema Caianiello", dal nome dell' ex vicepresidente di Forza Italia a Varese Nino Caianiello, il "ras delle nomine" arrestato nell' inchiesta "Mensa dei poveri". Caianiello pretendeva la "decima" - una percentuale spesso del dieci, altre volte del quattro o del sette per cento - da professionisti e manager che piazzava nei gangli delle amministrazioni locali. Scillieri ha annuito, ritenendo sostanzialmente valido il paragone col sistema che ruotava intorno al politico forzista che gestiva il potere dai tavolini dell' Haus Garden pub di Gallarate. Il verbale di Scillieri è stato depositato al Riesame chiesto da Francesco Barachetti, l' imprenditore ai domiciliari che avrebbe incassato circa due milioni dalla Lega, poi retrocessi a enti vicini al partito. Barachetti è accusato di aver intascato anche lui parte del denaro pubblico stanziato per la Lfc. Dei tre contabili della Lega, Scillieri è l' unico che ha mostrato di voler collaborare con gli inquirenti. Iniziando ad aprire quel famoso «cassettino» di cui parlava con Sostegni, il prestanome che non riusciva a ottenere da Di Rubba e Manzoni il compenso per il ruolo di "testa di paglia" in Paloschi, la srl sull' orlo del fallimento che aveva originariamente in pancia l' immobile di Cormano. «A me non si apre quel cassettino della testa, non si è mai aperto in vita mia, non fatemelo aprire... - si sfogava il commercialista lo scorso 14 maggio, intercettato dalla Finanza -. Son dei criminali, dei banditi, dei ladri! Ma veri! Se non la finiamo con questa cosa di Luca, il cassetto lo apro, stiamo attenti».

Ai magistrati Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro, che indagano sullo stupro e il sequestro di quasi venti ore alla "terrazza sentimento" dello scorso 10 ottobre, si è affiancato un altro pubblico ministero, che fa parte del dipartimento competente sui reati societari e finanziari, coordinato dall' aggiunto Maurizio Romanelli. Allo stesso modo, insieme alla squadra mobile - che indaga sulla violenza nel super attico di Genovese, sull' altra a villa Lolita a Ibiza, e su una terza la cui denuncia verrà formalizzata in questi giorni - lavorerà all' inchiesta anche la Guardia di Finanza di Milano. Gli approfondimenti sono appena partiti, eventuali ipotesi di reato tutte da verificare, ma si partirà ricostruendo la situazione finanziaria e fiscale delle società di Genovese. Scavando sul mondo di feste, viaggi, cocaina e violenze sessuali dell' imprenditore delle start-up, i magistrati si sono imbattuti su numerosi prelievi di denaro contante. Decine di migliaia di euro per volta, fino a 50 mila euro. Somme enormi per comuni cittadini, ma spiccioli per Genovese che spendeva fino a 150 mila euro nell' organizzazione di uno solo dei suoi party. Il sospetto degli investigatori è che il denaro servisse per l' acquisto della droga per le feste, dove gli stupefacenti abbondavano e venivano offerti generosamente a tutti gli invitati. «C' era della droga alla festa - aveva messo a verbale una delle amiche della diciottenne violentata nella notte del 10 ottobre - ad un certo punto c' erano due piatti messi a disposizione per tutti, gratuitamente ovviamente. Anche nell' occasione del 18 e 19 settembre, c' erano dei piatti con sostanza stupefacente...». Di droga offerta a tutti gli ospiti parla anche la ventitreenne che ha denunciato lo stupro a Villa Lolita, a Ibiza, nella vacanza dello scorso luglio. I prelievi di contante così rilevanti sono stati segnalati dalle banche e finiti inevitabilmente in alcune "segnalazioni di operazioni sospette" (Sos) di Banca d' Italia, trasmesse poi alla Gdf. Che sta studiando in un' ottica nuova anche la Sos agli atti dell' inchiesta "Lombardia Film Commission" sui revisori contabili leghisti. In quel documento il nome di Genovese compare a proposito di una transazione da oltre 18 milioni che vede protagonisti due professionisti al centro di numerose operazioni finanziarie legate alla Lega, i notai Angelo Busani e Mauro Grandi. Il primo bonifica al secondo 18 milioni 744 mila euro, e nella causale ("Pagamento quote Prima assicurazione verso Bailican Ltd") compare il nome della società assicurativa fondata da Genovese, dove l' imprenditore dopo l' arresto ha abbandonato tutte le cariche, rimanendo comunque il socio principale. Quel denaro bonificato a Grandi - che ha curato con il suo studio molte pratiche nelle società di Genovese - verrà girato lo stesso giorno all' estero: 17 milioni e 802 mila euro alla società cipriota Bailican Ltd, controllata al 99,9% dall' imprenditore ed ex vicepremier ucraino Sehiy Thipko, e 937 mila euro al Merchant trust alle isole Cayman. Anche queste transazioni saranno ora rilette nel contesto delle movimentazioni finanziarie di Genovese.

Tutto quello che sappiamo su dove sono finiti i soldi scomparsi della Lega di Matteo Salvini. Con i conti del partito nel mirino dei magistrati sono nate società dove farli transitare. Ecco cosa abbiamo ricostruito fino a oggi con le nostre inchieste. E gli sviluppi esclusivi che possiamo raccontare. Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 22 maggio 2020 su L'espresso.

2016-2019, il triennio cruciale. Decisivo per le finanze del partito: la sentenza sulla truffa e il sequestro dei fondi; l’arrivo dei due commercialisti bergamaschi (Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba) chiamati ad affiancare il tesoriere Giulio Centemero nel tentativo di risollevare le sorti economiche del vecchio partito e gettare le basi di quello nuovo; il declassamento a bad company della Lega Nord con i suoi debiti e la creazione della nuova creatura nazionalista. E in questo contesto di cambiamenti interni e di elementi giudiziari oggettivi (il debito da onorare con lo Stato e i denari che non ci sono più sui conti) che i detective della Uif segnalano l’imponente flusso di denaro che dalla galassia del partito si muove verso lidi sicuri, nei conti di aziende della provincia di Bergamo, legate l’una con l’altra dai protagonisti principali di questo giallo: i due commercialisti e il tesoriere del partito. Il primo aprile 2018 L’Espresso pubblica lo scoop sulla Più Voci , l’associazione fondata dal tesoriere Centemero e dall’amico commercialista Andrea Manzoni. In quell’inchiesta, firmata assieme al collega Stefano Vergine, svelavamo l’esistenza della Più Voci - con sede legale nell’ufficio dei commercialisti bergamaschi - e i finanziamenti di 250 mila euro ricevuti dal costruttore romano Parnasi e quello da 40 mila di Esselunga. Dopo l’articolo la procura di Roma e quella di Milano hanno indagato per finanziamento illecito Centemero, che ora rischia il processo. L’accusa dei magistrati è che attraverso la Più Voci sia stata finanziata la Lega. Perché allora non darli direttamente al partito? Questo aspetto interessa più i pm di Genova che invece seguono l’indagine sul riciclaggio di parte dei 49 milioni. Il sospetto è che per non lasciare denaro sui conti correnti del Carroccio, passibili di sequestro, siano stati creati canali alternativi per salvaguardare il tesoretto. Una di queste piste conduce al giro di fornitori del partito.

Ecco così che arriviamo al 28 aprile e al 5 maggio 2019. L’Espresso titola in copertina “Prima i soldi degli italiani” e poi “RicicLega” . Due inchieste giornalistiche che hanno trovato conferma nelle segnalazioni sospette dell’ufficio antiriciclaggio di Bankitalia. Analizzando i conti correnti dei due partiti - Lega Nord e Lega-Salvini Premier - e delle società controllate - da Pontida Fin a Radio Padania - avevamo scoperto che almeno 3 milioni di euro sono usciti dalle casse dei due partiti e sono spesso finiti, dopo lunghi e complicati giri, ad aziende private e sui conti personali di uomini molto vicini allo stesso Salvini. Gente come il tesoriere Giulio Centemero, i commercialisti bergamaschi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, alcune semisconosciute imprese lombarde che ultimamente hanno fatto grandi affari con la Lega salviniana. In tutto più di 3 milioni di euro, approdati a una cerchia strettissima di persone. Milioni che sono usciti dalla Lega e si perdono in società private neonate. Tutto questo mentre i conti correnti del partito erano nel mirino della magistratura.

Prendiamo per esempio tre imprese della Bergamasca che fanno capo direttamente a Di Rubba e Manzoni, rispettivamente revisore legale del gruppo Lega al Senato e direttore amministrativo di quello alla Camera. Studio Dea, Cld e Non Solo Auto dal 2015 al 2018 hanno ricevuto 1,7 milioni dal partito. Motivazione? Pagamento di fatture non meglio specificate. Nei due servizi di copertina della primavera 2019, raccontavamo anche di Francesco Barachetti, il più fortunato di tutti, con la sua Barachetti Service di Casnigo, provincia di Bergamo.

Tra il 2016 e il 2018 il partito e le società del gruppo Lega hanno versato a Barachetti almeno 1,5 milioni di euro. In più, a pochi giorni di distanza dall’accredito sui conti della “Lega per Salvini Premier” dell’anticipo del 2 per mille anno 2018, 311 mila euro lasciano il conto corrente del partito sovranista e finiscono sempre alla Barachetti: saldo fatture, come sempre. Una ventina di giorni più tardi, la Lega si accorderà con la procura di Genova per restituire i 49 milioni a rate. Saranno necessari 76 anni circa per estinguere questo particolare mutuo.

Luca Morisi desaparecido, che fine ha fatto la Bestia di Salvini che costava 500mila euro? Fulvio Abbate de il Riformista il 5 Giugno 2020. Cosa rimane de “La Bestia” di Salvini Matteo e soprattutto del suo attendente con compiti di agit-prop, il deferente Morisi Luca? La sensazione che tutto si sia inabissato come un ippopotamo, se solo questi ultimi non meritassero d’essere associati alle piccinerie del sovranismo populista. O almeno così è sembrato a noi. S’intuisce però un possibile risveglio, dove la crisi economica svolge la sua parte. Vittorio Gassman ne L’audace colpo dei soliti ignoti, quando gli viene chiesto di mostrare prontezza di spirito, pronuncia esattamente: «Nun se dorme su la fregna», antico adagio da romani scafati e gagliardi. Che stia accadendo proprio questo a Morisi e colleghi? Ignoro dove siano con precisione domiciliati i responsabili della centralina di propaganda del “Capitano” (sono gli attendenti ad appellarlo così, suggerendo visioni da palazzina comando frequentata da “Il Tromba”), tuttavia, proseguendo con il lessico militare, pare davvero stiano “battendo la fiacca”. Assodata la percezione della loro assenza apparente, per saperne di più, getto un amo nella rete social accompagnato da una implicita nota: chi li ha (più) visti? Lancio e attendo pazientemente le risposte, nel frattempo torna in mente una foto dove l’intera squadra bestiale, outfit da applicati di segreteria, sciarpa con nodo a cappio, si mostra orgogliosa insieme al Superiore durante una sosta dal lavoro, il pollice sollevato nel gesto che fu di Guido Angeli, faccine tutte identiche, piccoli uomini medi, in tutto medi, compreso il figlio dell’attuale presidente della Rai, Leonardo Foa. Tra le risposte ricevute ne scelgo appena tre: «È sotto la lente per possibile abuso delle risorse pubbliche», e ancora: «Credo abbia rallentato i propri ritmi essendo stata istituita durante il lockdown la commissione parlamentare sulle fake news». E ancora leggo che il Viminale ha tagliato una ingente spesa di 500mila euro che serviva per finanziare proprio La Bestia: si trattava degli stipendi dei suoi collaboratori, segue un elenco dettagliato delle singole retribuzioni per ogni addetto alla comunicazione; per amore d’eleganza e stile eviteremo di riportare il dettaglio. Miserie spicciole, molto meglio fare caso alla narrazione antropologica, datemi retta. Di sicuro, l’arrivo della pandemia gli ha tolto di bocca, sia pure temporaneamente, il tema caldo dei migranti parassiti, la ringhiosa e tatuata propaganda d’ogni razzismo rionale, perfetta per istigare a un presunto orgoglio xenofobo, il tipico prêt à porter della destra che voglia rifarsi al nazionalismo, non certo quello di Luigi Federzoni che confluirà nel fascismo mussoliniano, semmai quell’altro di zio Lino, risentito per avere pagato quattro euro una Fanta al chioschetto sotto la Tour Eiffel. Addolora semplificare così il discorso, come farebbe altrove una Selvaggia Lucarelli, ma purtroppo il contesto temiamo sia proprio questo, e nel pensarlo vengono in mente i volti di molte finte bionde dallo sguardo carnivoro, pura celeste nostalgia dell’eterno fascismo in Smart, vistosi orecchini, pomeriggi in palestra, tatuaggi suprematisti, tra leggenda gotica e simboli tantrici, il pinscher come amuleto. E vi scongiuro, nessuno accenni ai consensi della Lega in picchiata, e Salvini costretto anche lui a indossare gli occhiali da moderato tributarista, e Zaia pronto a scaldarsi, resta che il carburante subculturale della destra leghista razzista identitaria non può che nutrirsi dei suoi abituali succhi gastrici di livore pop, se così non fosse basterebbe un Berlusconi Silvio, o il suo prestanome, per coagulare una decorosa area, come dire, moderata, conservatrice in senso liberale. Suscita quasi un senso di lutto non rivedere il Salvini Matteo che impugna un fucile mitragliatore su suggerimento proprio del Morisi Luca o addirittura a cavalcioni sulla bomba fine-di-mondo come il personaggio del maggiore T. J. “King” Kong nel film Il dottor Stranamore. Parafrasando i fondamentali della gastroenterologia, appena menzionati insieme ai suoi succhi, l’alfa da cui tutto ciò ha avuto inizio, sappiate che l’orrore è ancora pienamente lì, sottotraccia, a fermentare. Nun se dorme su…

Così un milione di euro di denaro pubblico è finito a Radio Padania. Circa 780 mila euro in 13 mesi, fino ad almeno novembre 2019. Fondi che arrivano dal contributo spettante al gruppo parlamentare della Lega e che possono essere utilizzato solo per attività dello stesso (e non del partito). Per l’antiriciclaggio si tratta di bonifici sospetti. E ci sono altri 500mila euro "anomali". Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 22 maggio 2020 su L'espresso. Il 7 settembre 2018 Matteo Salvini attacca frontalmente la magistratura: «Mi piacerebbe che invece di correre dietro a soldi che non ci sono e a conti correnti italiani o esteri che pure non esistono, lavorasse più rapidamente, per esempio sulla strage del Ponte Morandi». L’allora ministro dell’Interno era furioso per la decisione del tribunale del Riesame che confermava il sequestro dei 48,9 milioni di euro. Quei soldi non ci sono più, hanno sempre sostenuto i leghisti. In realtà la Lega i denari, almeno in parte, li aveva. Si tratta ora di raccontare come siano usciti dai conti del partito, di come siano stati investiti e dei sospetti dell’Uif su centinaia di operazioni bancarie, alcune delle quali inviate a due procure: a quella di Genova, che indaga sul riciclaggio del tesoretto della truffa; e a quella di Roma, dove i pm hanno chiuso l’inchiesta sulla Più Voci, l’associazione fondata dal tesoriere del partito e usata, sostiene l’accusa, per incamerare donazioni private per il movimento, come aveva scoperto L’Espresso ormai due anni fa.

L’ANTIRICICLAGGIO INDAGA SULLA BESTIA DI SALVINI: I SOLDI DEGLI ITALIANI ANDATI A LUCA MORISI E SOCI

TRE MILIONI DI EURO IN TRE ANNI, PROVENIENTI ANCHE DAL FINANZIAMENTO AI GRUPPI PARLAMENTARI CHE PER LEGGE DOVREBBE ESSERE DESTINATO SOLO ALL’ATTIVITA’ IN PARLAMENTO L’antiriciclaggio punta la Bestia di Salvini: i soldi degli italiani andati a Luca Morisi e soci. Secondo nuovi documenti Bankitalia, tra il 2017 e il 2019 la Lega ha girato alla società degli spin doctor del Capitano bonifici per oltre 800 mila euro. A cui si aggiungono gli stipendi garantiti dal Viminale. Per i guru incassi pure da misteriose srl collegate al Carroccio. Ecco come la macchina della propaganda di Matteo investe i soldi del 2 per mille e quelli destinati ai gruppi parlamentari del partito. Emiliano Fittipaldi e Gionanni Tizian il 22 maggio 2020 su L'Espresso. Costa cara la propaganda sovranista di Matteo Salvini. Milioni di euro. Soldi destinati alla “Bestia” inventata dallo spin doctor del Capitano Luca Morisi, e finiti anche a Radio Padana, quella che un tempo era conosciuta come la “Voce del Nord”. A pagare la diffusione capillare degli slogan nazionalisti e filorussi, le campagne anti immigrati o quelle sui bambini scippati di Bibbiano, è la Lega, certo. Ma indirettamente anche i contribuenti italiani. L’Espresso ha infatti scoperto che la Lega ha girato oltre tre milioni di euro in tre anni alla società SistemaIntranet di Morisi, ad alcune srl legate al Carroccio e alla cooperativa proprietaria della radio del partito. E che i denari provengono dai sostenitori privati, dal 2 per mille delle dichiarazioni dei redditi dei simpatizzanti, e dai soldi pubblici destinati ai gruppi parlamentari della Camera e del Senato. Fondi, questi ultimi, che ogni gruppo può usare per attività strettamente connesse all’attività parlamentare. Un flusso di denaro che ha destato più di qualche sospetto, tanto da finire nel radar dell’Unità informazione finanziaria di Bankitalia. L’ Autorità, cioè, incaricata di acquisire informazioni su ipotesi di riciclaggio che collabora con le procure.

UNA BESTIA INSAZIABILE. Partiamo dai segreti della “Bestia”, il sistema informatico personalizzato inventato da Morisi per propagandare il verbo del leader. Leggendo le relazioni di Bankitalia sulle operazioni sospette della Lega, i bilanci delle società collegate al partito e il database del Viminale si scopre che costa molto di più di quanto raccontato finora dai leghisti. «La mia società, SistemaIntranet, per il rapporto professionale con la Lega Nord e Matteo fattura annualmente 170 mila euro lordi importo comprensivo di tutti i costi vivi, server e trasferte comprese! Capito?!», rispondeva indignato il consigliere di Salvini nel maggio 2017 a chi ipotizzava costi maggiori. Circa 780 mila euro in 13 mesi, fino ad almeno novembre 2019. Fondi che arrivano dal contributo spettante al gruppo parlamentare della Lega e che possono essere utilizzato solo per attività dello stesso (e non del partito). Per l’antiriciclaggio si tratta di bonifici sospetti. E ci sono altri 500mila euro “anomali”. In realtà Morisi e il suo socio in affari Andrea Paganella hanno ricevuto dal 2017 al 2019, tra stipendi e versamenti vari, una cifra che sfiora il milione di euro. A questa vanno aggiunti altri centinaia di migliaia di euro che la Lega ha investito per pagare post sponsorizzati sui social e assumere collaboratori utili a far funzionare il poderoso ministero della Propaganda della Lega. Un partito che - dopo lo scandalo dei 49 milioni di rimborsi elettorali non dovuti ma incassati, spesi e mai restituiti, come ordinato dai giudici - deve allo Stato 600 mila euro l’anno in comode rate a interessi zero per i prossimi otto decenni. La narrazione del partito a secco di soldi è stato un argomento valido per convincere i magistrati a rateizzare il maxi debito. Andiamo con ordine. SistemaIntranet di Morisi e Paganella è una “società in nome collettivo” che, per legge, non ha l’obbligo di presentare bilancio come una spa o una srl. Ha solo due dipendenti e ha iniziato le sue attività nel 2009. Durante i primi otto anni, almeno a dare per buono quello che scrisse Morisi in un post su Facebook, la piccola startup ha fatturato in tutto poco più di 900 mila euro totali, circa 133 mila euro lordi l’anno. Dal 2017, però, la musica cambia. In meglio. Tra l’inizio di quell’anno, infatti, e il settembre 2018 un conto corrente intestato alla Lega Nord gira all’azienda dei guru della comunicazione di Salvini ben 516.800 euro. Mentre un’altra relazione su presunte operazioni sospette della Lega firmata dall’Uif, l’ufficio specializzato nell’antiriciclaggio, chiarisce poi che il 3 settembre 2019 all’azienda di Morisi e Paganella arrivano, da un altro conto corrente intestato a Lega-Salvini premier, altri 293 mila euro. «Dall’estratto conto si rileva che la provvista è stata parzialmente utilizzata, in quanto il saldo del rapporto, al 4 ottobre 2019, risulta pari a 262 mila euro, e che i principali impieghi sono costituiti da due bonifici di 12 mila euro ciascuno a favore dei due soci», aggiungono gli investigatori dell’istituto. I due uomini d’oro della propaganda del Capitano, oltre a incassare bonifici dalla Lega (810 mila euro sono quelli certificati in totale da Bankitalia), nello stesso periodo hanno incamerato anche la busta paga del ministero dell’Interno: appena Salvini si è seduto sulla poltrona più importante del Viminale ha assunto Morisi come “consigliere strategico per la comunicazione”. Un contratto da 65 mila euro l’anno cominciato il primo giugno 2018 e concluso con la caduta del Conte I ad agosto 2019. Anche l’altro socio di SistemaIntranet Paganella è stato promosso capo della segreteria di Salvini, a 86 mila euro l’anno . Sommando gli stipendi ai bonifici ottenuti tramite la società, i due Rasputin di Matteo hanno percepito negli ultimi tre anni quasi un milione di euro.

TRA BARISTE E PROPAGANDA. Non è tutto. La Bestia che permette a Salvini performance da record su Facebook e Twitter è un animale che ha sempre fame, e che per funzionare divora soldi senza sosta. Così per farla mangiare la Lega e gli uomini di Salvini nel maggio del 2018, due mesi dopo l’exploit elettorale del 4 marzo, creano dal nulla una nuova società, la Vadolive srl, il cui socio unico era inizialmente Vanessa Servalli. Una parente di Alberto Di Rubba, uno dei tre commercialisti del partito, un nome centrale che ritroveremo più avanti in questa storia di denari leghisti. A settembre 2018 le quote della Vadolive sono passate di mano, e sono state trasferite dalla Servalli all’attuale amministratore delegato Davide Franzini, già amministratore della cooperativa che edita Radio Padania. A cosa serve la srl, che ha come oggetto sociale la “conduzione di campagne pubblicitarie”? Il 10 maggio 2018 anni, evidenzia Bankitalia, la nuova azienda sottoscrive un contratto con il gruppo parlamentare del Senato della Lega-Salvini premier «impegnandosi a gestire la “promozione social” delle attività di tale gruppo», oltre alla formazione dei senatori leghisti «sull’utilizzo dei social media e delle tecniche di comunicazione». La società della Servalli, una barista, chiede per i servizi ben 480 mila euro l’anno, da versare in rate mensili anticipate. Le Lega dà alla nuova azienda 36 mila euro al mese per circa sei mesi: l’ultimo bonifico è del dicembre 2018. Secondo la Uif, in tutto la Lega abbuona alla srl 256 mila euro. A sua volta la Vadolive gira 12 mila euro alla Dea Consulting, una società di Di Rubba, quattro bonifici per il pagamento dell’affitto di un misterioso immobile a via delle Tre Cannelle, e 87 mila euro in favore «di più beneficiari».

Chi sono? I soliti Paganella e Morisi, più altri fedelissimi di Salvini adibiti alla gestione della propaganda della Bestia. Cioè Matteo Pandini (che in quel periodo risulta anche capo ufficio stampa al Viminale con contratto da 90 mila euro l’anno), il figlio del presidente della Rai Marcello Foa, Leonardo, e i “Morisi Boys” Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana : tutti e quattro, oltre essere pagati da Vadolive, sono stati assunti al Viminale con una collaborazione da 41 mila euro a testa. Morisi avrebbe potuto chiarire ogni dubbio, ma alle nostre domande non ha risposto. Facendo i conti, dunque, la somma finale di fatture varie, bonifici e stipendi assortiti, si scopre che la Lega e società collegate al Carroccio in meno di tre anni hanno speso per i servizi di propaganda quasi 1,3 milioni di euro. Soldi pubblici che forse Salvini avrebbe potuto risparmiare o, meglio, restituire almeno in parte allo Stato italiano. Che rischia di aspettare più di 80 anni per ottenere il rimborso completo dei 49 milioni “truffati” da Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito. Come mai la Lega può sperperare i denari per l’appetito della Bestia? Semplice: il Carroccio si è diviso in due dei partiti, Lega Nord e Lega Salvini Premier. Da un lato c’è la vecchia Lega nord per l’indipendenza della Padania, trasformata in bad company, con un debito mostruoso e con la condanna a restituire i 48,9 milioni di rimborsi elettorali. Dall’altro la Lega-Salvini premier, che può incamerare senza patemi la ricca torta del 2 per mille e dei finanziatori privati. E poi ci sono i gruppi parlamentari di Camera e Senato, che possono contare sui milioni del contributo pubblico.

A TUTTO FACEBOOK. Ai denari scovati grazie alle relazioni di attività sospette dell’Unità di informazione finanziaria ne vanno però aggiunti altri. La Lega infatti impegna somme consistenti anche a favore di Facebook e Google per sponsorizzare le pagine social del Capo. Bankitalia evidenzia bonifici nel 2017 e nel 2018 di 55 mila euro a favore del colosso di Mark Zuckerberg e di oltre 40 mila per Google. Ma la Libreria delle inserzioni pubblicitarie di Facebook (creata dopo le polemiche scatenate dallo scandalo di Cambridge Analytica) rivela pure che da marzo 2019 a maggio 2020 la Lega-Salvini premier ha investito 254 mila euro per sponsorizzare post della pagina di Salvini, più 79 mila euro per quella di Lucia Bergonzoni, candidata alla presidenza dell’Emilia Romagna. Cifre che vincono ogni confronto con quelle spese da altri partiti: nel medesimo arco temporale il Pd ha investito meno di un terzo per pubblicizzare la pagina del partito, e solo 1.649 euro per quella del segretario Nicola Zingaretti, Silvio Berlusconi ha pagato 90 mila euro (di tasca sua), mentre Matteo Renzi è in seconda posizione con 138 mila, pagati da Italia Viva e i Comitati Ritorno al Futuro. I grillini hanno investito “appena” 50 mila euro per la pagina del Movimento Cinque Stelle (zero su quella di Di Maio e Giuseppe Conte), Carlo Calenda poco più di 52 mila euro pagati da Azione e Siamo Europei. E Giorgia Meloni, che pure negli ultimi mesi ha - secondo alcuni studi - raggiunto un engagement (cioè il numero di condivisioni, reazioni e commenti) migliore di quello della pagina di Salvini, ha girato a Facebook solo 42 mila euro.

Insomma, la “Bestia”, seppur ferita in queste settimane dal gradimento calante del Capitano, continua comunque a macinare record, con 4,3 milioni di fans. Le performance straordinarie, come si scopre, costano però carissime: per diffondere in rete come un virus un video intitolato “Immigrato senza biglietto picchia capotreno”, la Lega a maggio 2019 ha per esempio speso tra i 10 mila e i 15 mila euro netti. In pratica, lo stipendio annuo medio di un italiano. (da “L’Espresso”)

Luigi Franco e Thomas Mackinson per “il Fatto quotidiano” il 10 febbraio 2020. Un aereo cargo russo, una cassa con milioni di euro in contanti sparita nel nulla. E una partita di oggetti d'arte della Costa d'Avorio. Sono gli elementi di una strana vicenda che unisce ancora una volta gli ex compagni di partito e di processo Francesco Belsito e Renzo Bossi. Condannato per i fondi della Lega, costati al partito una confisca da 49 milioni, Belsito cerca affari in Africa come consulente e investe soldi "per conto di amici". Questo ha spiegato nell''intervista condotta per Sono le Venti, il programma di approfondimento giornalistico di Peter Gomez sul Nove. Tra gli investimenti dell'ex tesoriere della Lega salta fuori l' artigianato locale. Belsito, che per sua stessa ammissione ne sa poco o nulla, l'anno scorso ha tentato di esportare ben 138 casse contenti 700 statue di legno: 50 elefanti, 50 scimmie, 300 maschere, 200 statue e 100 ippopotami. Il dettaglio si legge nell'autorizzazione rilasciata dal Museo del costume di Grand Bassam, l'ente che in Costa d' Avorio dà il nullaosta all' uscita dal Paese di manufatti locali. Sul documento è indicato il proprietario della merce, ed è proprio Belsito, con tanto di numero di passaporto. A occuparsi del trasporto vengono chiamati imprenditori russi che mettono a disposizione un aereo cargo. Ed è qui che entra in scena Renzo Bossi. È stato l' ex "trota" a metterli in contatto con Belsito e chiedere loro i preventivi. Alla fine, però, il trasporto salta. E qui le versioni dei protagonisti divergono. Secondo gli imprenditori, incontrati dai cronisti a Mosca, le casse vengono fermate nel giugno 2019 ad Abidjan, la capitale della Costa d' Avorio, prima di partire per Istanbul, la destinazione prescelta per le casse. "Durante un' ispezione viene aperta una cassa, era piena di banconote da 100 euro", raccontano mostrando la foto di un baule colmo di denaro. "C'è anche una scatola di diamanti. Noi non ne sapevamo nulla". Bossi, raggiunto mercoledì scorso sotto la sua abitazione milanese, dice di essersi occupato solo dei preventivi per il trasporto aereo, su incarico dell' ex compagno di partito. Alla fine il migliore è quello dei russi: 120mila euro. "Questa non l'ho mai vista", dice in lacrime appena gli viene mostrata la foto della cassa piena di soldi. "Mi sono cagato sotto". Sostiene che l' aereo non sia mai arrivato ad Abidjan, perché Belsito, nonostante il contratto, non ha mai versato l'acconto agli imprenditori. Promette un' intervista per l'indomani, in modo da chiarire tutti i dettagli della vicenda. Ma anziché venire all' appuntamento, rilascia una intervista al quotidiano Libero in cui accusa i giornalisti di volerlo fregare e di averlo intimidito. Cosa in realtà mai avvenuta. Aggiunge di non saper nulla dei "traffici" di Belsito e di essere tornato in contatto con l'ex tesoriere dalle Lega dopo il processo solo "per carineria". Dal canto suo Belsito, ammette di essersi interessato a una partita di oggetti d'arte tribale, ma sostiene che l'affare è andato a monte quasi subito. E sulla cassa piena di soldi? "La cassa non esisteva, sono stato truffato anch' io da un avvocato d' affari locale che mi ha mostrato quella foto per convincermi a lavorare con lui. Ho perso 200mila euro". Eppure esiste un video, in mano agli imprenditori russi, in cui Belsito, alla presenza di Bossi, parla di una cassa ad Abidjan. Il video, insieme ad altri documenti e interviste esclusive verrà mandato in onda da Sono le Venti, nel corso di una inchiesta a puntate che inizia questa sera.

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 7 febbraio 2020. «Qui mi vogliono fregare. Sono stato assolto da ogni accusa, da otto anni sono fuori dalla politica e sto cercando di ricostruirmi una vita come imprenditore insieme a mio fratello, eppure i giornalisti non mi lasciano in pace. Mi telefonano, me li ritrovo sotto casa, mi intimidiscono. Sono convinti che voglia far rientrare in Italia i famosi 49 milioni di rimborsi della Lega Nord, ma quei soldi io non li ho mai visti, erano tutti sul conto del partito quando mio padre ha lasciato la segreteria. Sono stati spesi nel tempo, per le esigenze della Lega, come è giusto che fosse, ma quando io ormai ero fuori dal giro. È tutto documentato». Renzo Bossi decide di giocare d' anticipo. Il figlio del Senatur, ex consigliere regionale in Lombardia, è spaventato e si è presentato ieri alla sede di Libero. «Si sono inventati una storia e vogliono farmela scoppiare in faccia, ma io ho la coscienza a posto, non ho fatto nulla e ho deciso di giocare d' anticipo. Ci ho impiegato otto anni per difendermi dall' accusa di appropriazione indebita di 150mila euro di rimborsi elettorali della Lega e ora che ce l' ho fatta voglio stare tranquillo, anche perché per provare che sono innocente ho speso 60mila euro in avvocati».

Cosa è successo?

«Mi sono trovato due giornalisti del Fatto sotto casa. Mi hanno detto che avevano delle carte su di me, ma non hanno nulla, parlavano per farmi cadere in contraddizione».

Di cosa la accusano?

«Di essere in affari con l' ex tesoriere della Lega, Belsito, e di organizzare con lui strani traffici dall' Africa».

È vero?

«Per sette anni non ho mai parlato con Belsito. Il giorno della mia sentenza d' assoluzione abbiamo fatto cinque ore di sala d' aspetto insieme e abbiamo fatto due chiacchiere. Mi ha chiesto cosa facevo nella vita e gli ho risposto che ho un' azienda agricola, produco salumi e formaggi e mi occupo di sviluppare progetti di export in tutto il mondo, sempre nel settore agroalimentare».

E Belsito cosa disse?

«Che anche lui era nel settore e poteva mettermi in contatto con imprenditori che sarebbero potuti diventare miei futuri clienti. Poi però il favore me lo ha chiesto lui».

Cosa le chiese in particolare?

«Successivamente a questo incontro Belsito mi contattò varie volte per presentarmi diversi imprenditori e per sottopormi dei prodotti per l' export, dal parmigiano reggiano in Italia al rame dal Congo. Poi mi chiese se fosse possibile fargli avere un preventivo per trasportare della merce per un museo della Costa d' Avorio in Turchia e mi mostrò tutta la documentazione timbrata e vidimata dalle autorità locali, sulla base della quale io gli presentai vari preventivi. Si trattava di maschere africane e alla fine si optò per uno spedizioniere russo».

Un traffico curioso quello di opere d' arte dalla Costa d' Avorio in Turchia, per di più via Russia, non trova?

«Dei traffici di Belsito non so nulla. Quanto alla Russia, io ho delle conoscenze laggiù perché sto cercando di espandere i miei affari e mi sono limitato a metterlo in contatto con chi poteva curare la sua spedizione».

Una consulenza gratuita?

«Non ho preso soldi, anche perché la spedizione non si è mai fatta».

Anche lei in Russia: certo che quel Paese è una maledizione per la Lega. Che ci faceva?

«Proprio in quel periodo, come noto anche dalle pubblicazioni quotidiane sui miei social, viaggiavo spesso in Russia perché seguivo lo sviluppo di un nuovo progetto per la creazione di un caseificio industriale in Cecenia, la regione più a Sud del Paese. Mentre mi trovavo in Russia per lavoro feci degli incontri per capire quanto poteva costare il trasporto della merce proveniente dal museo con un cargo russo. Belsito, valutate le offerte economiche, decide di proseguire con il soggetto russo».

Di che cifra stiamo parlando?

«Cento-centoventimila euro».

E com' è finita con le maschere ivoriane?

«Direi che Belsito mi ha messo in imbarazzo con la società russa, tant' è che nel luglio scorso, dietro richiesta degli spedizionieri, che non avevano più avuto riscontri, abbiamo avuto un incontro chiarificatore a Istanbul, dove io mi sono arrabbiato con l' ex tesoriere. Da allora non ne ho saputo più nulla, fino a quando mi sono trovato i giornalisti sotto casa».

Ma lei perché è rientrato in contatto con Belsito, anziché fuggirlo come la peste?

«Per carineria».

Come carineria, Belsito ha fatto male alla Lega, non ce l' ha con lui?

«Otto anni fa ricominciare con un altro lavoro è stata dura. La gente mi guardava con diffidenza. Io mi sono rivisto in lui e ho voluto aiutarlo. Lui ha gestito male i soldi della Lega come tesoriere, ma non ha rubato e poi con lui i bilanci del partito erano comunque migliori rispetto agli anni successivi».

Cosa vogliono da lei i giornalisti del Fatto?

«Montare su un' inchiesta contro la Lega. Sono alla caccia dei 49 milioni di rimborsi elettorali».

Già, che fine hanno fatto quei soldi?

«Sono sempre rimasti sul conto della Lega. Quando mio padre lasciò la guida del partito c' erano tutti, come risulta dai bilanci».

Non lo ha detto a quelli del Fatto?

Certo, ma quelli sono dei complottisti, anche se in mano non hanno nulla. Si figuri che Belsito, che ho sentito ieri dopo essere stato intimidito, mi ha detto che gli stessi giornalisti a lui avevano detto che erano disposti a soprassedere sulla vicenda ivoriana se lui gli avesse fornito dei documenti sui 49 milioni della Lega».

Che idea si è fatto della vicenda?

«Che è tornato di moda screditare la Lega e la stampa anti-salviniana ci sta investendo molto. I due giornalisti del Fatto sono stati in Costa d' Avorio due settimane, alla ricerca di chissà che cosa. Sono convinti che nelle maschere ivoriane Belsito volesse nascondere dei quattrini».

I famosi 49 milioni da far rientrare in Italia?

«Tesi ridicola; comunque i giornalisti mi hanno detto che alla fine della spedizione non si è fatto nulla perché Belsito ha avuto problemi con le autorità locali».

Perché è venuto a raccontarmi questa storia?

«Per provare a fermare le tonnellate di fango che temo vogliano scaricarmi ancora addosso. Io giro l' Italia con il furgoncino a vendere i miei prodotti. Ci metto la mia faccia nel lavoro. Se mi sputtanano ancora, sono rovinato».

Qual è la sua situazione oggi con la giustizia?

«Assolto per la vicenda dei rimborsi della Lega: tutte le spese considerate incriminate sono partite dal mio conto corrente, non da quello del Carroccio. Ancora sotto processo invece per i rimborsi da consigliere in Regione».

Ne approfittava?

«In quell' inchiesta sono coinvolti tanti. La gente è convinta che la cassa regionale fosse un bancomat; in realtà i miei rimborsi erano tutti autorizzati».

Vota ancora Lega?

«Eh certo, come si fa a non votarla? Sarebbe impossibile».

E la politica?

«Quello è un dramma perché è una droga, ti entra dentro e non te ne liberi più. Da ragazzo giravo le sezioni come un matto, avevo fatto la patente apposta. Ho rischiato la vita tante volte, tornando a casa la notte. Guidavi solo magari per trecento chilometri, quante volte mi sono svegliato a due metri dalla macchina davanti. Ma valeva la pena, per me era la vita. Per ora però sto alla finestra».

Cosa pensa della Lega di oggi?

«Fa delle battaglie giuste, che le portano molto consenso. In questi 15 anni però il modo di far politica è cambiato. Chi grida più forte, la vacca è sua, come dicono i legnanesi. Un tempo c' era più progettualità. Tutti sapevano che la Lega voleva un Paese federalista, oggi non è chiara l' idea di Italia di nessuno. Ma la politica è ciclica, tornerà il tempo della riflessione e dei grandi ideali».

La ricerca della verità sui soldi della Lega e il significato del giornalismo. Il tribunale ha archiviato la querela presentata contro L'Espresso per le inchieste sui finanziamenti del Carroccio. Perché il nostro lavoro è di interesse pubblico. E perché ci sono decine di milioni che devono ancora tornare nelle casse dello Stato. Giovanni Tizian e Stefano Vergine il 24 gennaio 2020 su L'Espresso. I 49 milioni di euro spariti, i finanziamenti all'associazione Più Voci. E poi il Lussemburgo, la Svizzera, i fortunati fornitori di Bergamo e provincia. Nessuna diffamazione nei confronti della Lega e del suo leader Matteo Salvini. Nessuna falsità: solo giornalismo d'inchiesta. Ora non siamo più soltanto noi a dirlo. Lo ha deciso un tribunale italiano, quello di Velletri, che ha archiviato la querela presentata nei nostri confronti nell'agosto del 2018 dai massimi vertici del partito: Salvini, Giorgetti e Centemero. Ci hanno querelato per le nostre inchieste e hanno perso. Perché, scrive il giudice per le indagini preliminari di Velletri, Gisberto Muscolo, abbiamo «ricercato le notizie, ripercorso gli eventi e tentato di ricostruire, nei limite del possibile, la gestione delle finanze del partito politico Lega Nord». Un argomento di interesse pubblico, ha spiegato il magistrato, perché dei 49 milioni di euro che dovrebbero tornare allo Stato italiano, finora ne sono stati trovati solo 3. Il nostro viaggio nei segreti delle finanze leghiste è stato un lungo e faticoso. Passo dopo passo abbiamo raccontato come Salvini abbia usato da segretario federale parte dei soldi della truffa consapevole di quanto stava facendo. Abbiamo ricostruito in che modo la Lega li ha fatti uscire dalle sue casse prima che scattasse il sequestro della magistratura, e quale architettura si è inventato il partito per continuare a incassare denaro nonostante il congelamento dei conti. Bocciato, dunque, il teorema secondo cui avremmo scritto queste inchieste solo per infangare il buon nome del partito e dell’ex ministro. Nessun accanimento, nessuna linea editoriale ostile al Capitano ex ministro Salvini. Soltanto la ricerca della verità su uno degli scandali accertati più clamorosi della seconda Repubblica: la truffa sui 49 milioni di rimborsi elettorali. Denaro pubblico che dovrebbe tornare nelle disponibilità dei cittadini italiani. E che oggi, a due anni e mezzo dalla sentenza definitiva sulla truffa, non è stato ancora ritrovato.

Matteo Salvini e la Lega sconfitti dall'Espresso. Il giudice: «Sui 49 milioni tutte notizie vere». Il leader del Carroccio sbugiardato dal tribunale: respinte tutte le querele per diffamazione. La sentenza assolve i cronisti ed elogia il «giornalismo d’inchiesta»: sulla maxi-truffa dei rimborsi elettorali, pubblicati solo «fatti documentati». Paolo Biondani il 24 gennaio 2020 su L'Espresso. Matteo Salvini è stato sconfitto dall'Espresso e sbugiardato dai giudici sullo scandalo dei 49 milioni confiscati alla Lega ma in gran parte spariti. Tutti i magistrati competenti hanno infatti dichiarato completamente infondate le querele per diffamazione proposte (e pubblicizzate) dal leader leghista, quando era ancora ministro dell'Interno, dal suo vice, Giancarlo Giorgetti, già sottosegretario alla presidenza del consiglio, e dal tesoriere del partito, l'onorevole Giulio Centemero. La sentenza dei giudici spiega che il lavoro dei giornalisti dell'Espresso rappresenta «indiscutibilmente» un esempio di «giornalismo d'inchiesta», che secondo la Cassazione va considerato «l'espressione più alta e nobile dell'attività d'informazione». Le motivazioni del verdetto, depositate oggi, precisano che «con il giornalismo d'inchiesta l'acquisizione delle notizie avviene autonomamente, direttamente e attivamente da parte dei professionisti e non mediata da fonti esterne mediante la ricezione passiva di informazioni». I giornalisti dell'Espresso vanno quindi assolti con formula piena perché hanno pubblicato solo informazioni «verificate» e «documentate», di «indubbio interesse pubblico» ed esposte «con correttezza», con tutti i crismi del diritto-dovere di cronaca. Per i vertici della Lega, la sconfitta giudiziaria è totale. Salvini, Giorgetti e Centemero avevano presentato una serie collegata di querele contro cinque articoli sullo scandalo dei 49 milioni, pubblicati dall'Espresso tra giugno e luglio 2018, firmati da Giovanni Tizian, Stefano Vergine, Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti, chiamando in causa anche il direttore Marco Damilano. Il procedimento penale, per competenza territoriale, è stato esaminato dai giudici del tribunale di Velletri. Nel giugno scorso i magistrati della Procura, chiamati a rappresentare l'accusa, hanno invece chiesto l'archiviazione, giudicando infondate tutte le ipotesi di pretesa diffamazione, dopo aver esaminato i documenti presentati dai giornalisti, illustrati nelle memorie difensive degli avvocati dell'Espresso, Paolo Mazzà e Clara Gabrielli. Il leader della Lega e i suoi fedelissimi, a quel punto, hanno rilanciato le loro accuse con una formale opposizione all'archiviazione, chiedendo ai giudici del tribunale (ufficio gip), questa volta, di rovesciare il verdetto e incriminare i giornalisti. L'udienza decisiva si è tenuta il 7 gennaio scorso. E si è conclusa con una sentenza, depositata questa stamattina, di assoluzione piena dei giornalisti. Nelle motivazioni, i magistrati riconoscono che tutti gli articoli dell'Espresso «sono il risultato dell'attività d'inchiesta portata avanti dai giornalisti, i quali, come attestato dalla copiosa documentazione depositata in allegato alla memoria difensiva, hanno ricercato le notizie, ripercorso gli eventi e tentato di ricostruire, nei limiti del possibile, la gestione delle finanze del partito politico Lega Nord. Argomento, quest'ultimo, che riveste un indubbio rilievo, stante l'interesse pubblico alla ricerca della verità conseguente agli scandali finanziari che hanno travolto il partito in questione». «In particolare», spiega sempre la sentenza, «a seguito della sentenza del tribunale di Genova emessa il 24 luglio 2017, veniva disposto il sequestro di circa 49 milioni di euro nei confronti della Lega Nord; sequestro che, però, non veniva eseguito nella sua interezza perché, al momento dell'esecuzione della misura cautelare, i fondi del partito risultavano parzialmente inconsistenti». I magistrati della procura e del tribunale di Velletri si riferiscono alla confisca, alla fine confermata anche dalla Cassazione, dei 49 milioni di euro incassati dalla Lega con la maxi-truffa dei rimborsi elettorali, che era costata una condanna in tribunale, poi cancellata dalla prescrizione, all'ex leader Umberto Bossi, fondatore del partito e tuttora senatore leghista. Quando è scattato il sequestro giudiziario, con la sentenza di primo grado, nella casse della Lega erano rimasti solo circa tre milioni. La Procura di Genova ha quindi aperto un'inchiesta, tuttora in corso, con l'accusa di riciclaggio dei restanti 46 milioni sottratti allo Stato. Prescrizione significa che il reato c'è, l'imputato lo ha commesso, ma non può essere punito solo per scadenza dei termini, che in Italia sono ridottissimi. Anche la Lega di Salvini tuttora si oppone alla riforma destinata a evitare la prescrizione almeno dopo le condanne di primo grado. La sentenza di assoluzione dell'Espresso è importante per tutta la stampa italiana, perché riconferma i principi sanciti dalla Cassazione sul giornalismo d'inchiesta: i cronisti che fanno questo tipo di lavoro non possono essere obbligati a pubblicare solo notizie «certe e incontrovertibili», cioè ad aspettare che siano convalidate da definitive sentenze giudiziarie dopo tre gradi di giudizio, ma possono anche evidenziare interrogativi, fatti sospetti, dubbi, purché fondati e comprovati da documenti e testimonianze attendibili. Gli articoli al centro del caso giudiziario sono stati pubblicati dall'Espresso tra il 3 giugno e il 15 luglio 2018: da allora nessuno ha mai potuto smentire la verità storica di tutti i fatti scoperti con le nostre inchieste giornalistiche.

·        Dio, Patria, Famiglia Spa.

Dio, Patria, Famiglia Spa. Report Rai PUNTATA DEL 20/04/2020 di Giorgio Mottola collaborazione di Norma Ferrara e Simona Peluso. Con l’esplosione della pandemia il fronte sovranista che si professa ultracattolico è tornato all’attacco di Papa Francesco. Sui siti della destra religiosa americana non hanno dubbi: il coronavirus è la punizione divina per il tradimento di Bergoglio. È solo l’ultima delle accuse mosse al Pontefice, e arriva dopo i violenti attacchi lanciati contro le posizioni assunte su migranti, divorziati, difesa dell’ambiente e omosessuali. Quello degli anti-bergogliani è un network potente che comprende giornali, siti, associazioni, fondazioni e un fiume di soldi che dagli Stati Uniti negli ultimi anni è approdato in Europa e in Italia. Report svelerà in esclusiva quali sono i gruppi politici italiani sostenuti da Oltreoceano e chi sono i cosiddetti dissidenti da Bergoglio all’interno delle gerarchie vaticane e i leader politici che stanno offrendo sponda.

“DIO PATRIA FAMIGLIA SPA” Di Giorgio Mottola Consulenza Andrea Palladino Collaborazione Norma Ferrara – Simona Peluso

PAPA FRANCESCO - BENEDIZIONE URBI ET ORBI 27/03/2020 Dio onnipotente e misericordioso guarda la nostra dolorosa condizione, conforta i tuoi figli e apri i nostri cuori alla speranza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sotto ad un cielo cupo coperto da nuvole cariche di pioggia, per la prima volta nella storia, un Papa ha parlato di fronte a una piazza san Pietro completamente vuota.

PAPA FRANCESCO - BENEDIZIONE URBI ET ORBI 27/03/2020 Non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo l’esplosione della pandemia, il Papa concede l’indulgenza plenaria ai credenti nel mondo. Ma in alcuni ambienti del cattolicesimo è il Papa stesso ad essere considerato la causa del coronavirus.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS È sensato immaginare che, anche solo in parte, questa epidemia sia la conseguenza del tradimento compiuto dal Papa contro nostro Signore?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insomma, con il coronavirus Dio avrebbe punito gli uomini per il tradimento del Papa. Ad affermarlo è il direttore di Lifesitenews, uno dei siti ultracattolici più seguiti nel mondo.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Il pontefice ha dato il suo consenso alle comunioni sacrileghe, concedendo la sacra comunione a divorziati e risposati. Questa profanazione della sacra comunione ha un collegamento diretto con la punizione divina.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da settimane questa tesi viene rilanciato da decine di siti ultracattolici e da numerosi predicatori americani del web.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Abbiamo avuto un Papa che per la prima volta nella storia ha introdotto l’idolatria a San Pietro e ha fatto un accordo sconsiderato in Cina.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le accuse di idolatria contro Bergoglio sono iniziate qualche mese fa, quando, in occasione del sinodo sull’Amazzonia, il pontefice ha accolto in vaticano le statue di Pachamama, un’antica divinità Inca, che oggi per i popoli amazzonici simboleggia madre terra.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Lo sanno tutti che, poco prima dell’esplosione del coronavirus, il Papa abbia acconsentito all’ingresso dell’idolatria nel Vaticano. L’idolatria di Pachamama.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per il fronte ultraconservatore il sacrilegio compiuto da Bergoglio non poteva restate impunito e così, un ultracattolico austriaco, Alexander Tschugguel, si è filmato mentre ha rubato le statue di Pachamama dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina dove erano esposte per poi gettarle nel Tevere.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Dio non è contento di noi e non è contento del Papato. Vuoi fare false adorazioni? Ti faccio vedere chi devi adorare davvero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma se il coronavirus è davvero la punizione divina per il tradimento compiuto dal Papa, allora l’ira di Dio deve aver sbagliato clamorosamente mira. All’inizio dell’epidemia infatti, a risultare positivo al Covid è stato proprio Alexander Tschugguel. L’uomo che ha buttato le statue di Pachamama nel Tevere.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER Alexander Tschugguel ha il coronavirus ed è a letto con febbre alta da una settimana. Si sente davvero molto male e mi ha chiesto di pregare per la sua guarigione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le campagne anti-Bergoglio sul Coronavirus non nascono a caso, ma germogliano dalle dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti delle gerarchie vaticane, come l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti. In varie interviste ha indicato il Coronavirus come punizione divina contro peccati mortali come l’aborto, il divorzio e l’omosessualità. Posizione condivisa e rilanciata da Ralph Drollinger, consulente della Casa Bianca sugli studi biblici, in un documento ufficiale ha collegato di recente l’epidemia al dilagare di omosessualità e lesbismo. Esattamente l’opposto di quanto aveva dichiarato giorni prima il Papa durante un’intervista alla tv spagnola.

PAPA FRANCESCO Dio perdona sempre, noi altri perdoniamo qualche volta. La natura non perdona mai. Cioè, la natura è in crisi. Quindi dobbiamo prenderci cura della natura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nessun riferimento a omosessuali, all’ira e alla punizione divina dei peccati. Tanto è bastato perché le parole del Papa scatenassero la furia dei media ultracattolici statunitensi.

JOHN-HENRY WESTEN- DIRETTORE LIFESITENEWS Quando ho sentito per la prima volta Papa Francesco dire che il coronavirus rappresenta una rivolta della natura, provocata dal nostro mancato rispetto dell’ambiente, non potevo credere alle mie orecchie. Ha già sbagliato tante altre volte su argomenti di fede come contraccezione, convivenza, divorziati e risposati e omosessualità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel dibattito ha preso una posizione netta anche il cardinale statunitense Raymond Burke. In un documento ufficiale sul Coronavirus spiega: “È fuori discussione che grandi mali quali la pestilenza siano effetto del peccato originale e dai nostri attuali peccati. È così, scrive il cardinale, che Dio ripara il caos introdotto dal peccato nelle nostre vite e nel nostro mondo”. Le parole di Burke solleticano gli istinti più belligeranti degli ultracattolici americani, e subito iniziano a propagare online il verbo del cardinale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un verbo al quale sono sensibili alcuni politici italiani. E qualcuno è anche finanziato, vedremo chi. Insomma, però sentire accusare Papa Bergoglio di essere addirittura la causa della diffusione del virus è un’esperienza che sinceramente ci mancava. E però la lista, la galleria di personaggi che critica Bergoglio è ricca. A partire dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, secondo il quale la diffusione del virus è legata a peccati, una punizione contro i peccati, quali l’aborto, il divorzio, l’omosessualità e sulla stessa linea è anche il consulente della Casa Bianca per gli studi biblici, Ralph Drollinger, per il quale il diffondere dell’epidemia è da collegarsi alla omosessualità, il dilagare dell’omosessualità e il lesbismo. Però il punto di riferimento del mondo ultraconservatore che critica di più Bergoglio è da cercarsi a pochi metri da dov’è il Papa nel Vaticano. Ed è il cardinale Raymond Leo Burke. Burke che appartiene anche al collegio del conclave è patrono dell’Ordine Sovrano Militare di Malta, ordine a cui appartengono anche diversi… son appartenuti diversi politici italiani molto importanti e che si comporta un po’ come uno stato a sé, può rilasciare documenti, patenti, passaporti e ha anche dialoghi con gli stati come se fosse uno stato indipendente. Ecco, non è piaciuta a Bergoglio la gestione degli ultimi tempi di questo ordine ha di fatto aperto una commissione per indagare e di fatto l’ha commissariato. Burke però è colui che ha più criticato apertamente il Papa soprattutto per la sua apertura, per il suo dialogo con le altre religioni, per la sua politica sull’accoglienza degli immigranti, e soprattutto per la sua apertura nei confronti dei divorziati. Burke che ha anche criticato il Papa di idolatria, ha detto, ha scritto addirittura spiegando della ragioni della diffusione del virus, “siamo testimoni anche all’interno della Chiesa di un paganesimo che rende culto alla natura. Ci sono quelli, all’interno della Chiesa, che si rivolgono alla terra chiamandola nostra madre, come se noi venissimo dalla terra, un’accusa neanche troppo poco velata insomma. E Burke è stato anche, è presidente di una fondazione per lo più sconosciuta, la Fondazione Sciacca che se da una parte fa attività di beneficienza, opere di beneficienza, dall’atra tesse relazioni. Dentro ci sono finiti i servizi di sicurezza, banchieri e magistrati. Burke è stato anche presidente dell’associazione Dignitatis Humanae, quella che fa riferimento a Steve Bannon, stratega di Trump, è colui che ha fondato Cambridge Analytica, quella che avrebbe violato 50 milioni di profili Facebook e avrebbe condizionato l’esito delle elezioni presidenziali e anche la Brexit. Poi, dopo aver discusso con Trump, cacciato da Trump, ha deciso di porre in Italia la sua scuola internazionale di sovranismo. Ecco, dove l’ha posta? L’ha posta nella splendida Abbazia del 1200 di Trisulti. Una gestione che però avrebbe ottenuta attraverso la presentazione, come ha raccontato Report, di documentazione anomala, non pagando un euro di canone né in ristrutturazione. Ecco, come guardiano ci ha messo quello che possiamo considerare ormai un nostro amico, Benjamin Harnwell. L’unico che ai tempi del coronavirus può passare in completo isolamento la sua quarantena. Il nostro Giorgio Mottola gli ha portato generi di conforto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino a pochi mese fa, Raymond Burke presiedeva la Dignitatis Humanae, l’associazione legata a Steve Bannon che ha preso in gestione la Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone. Qui, nella solitudine dell’antica abbazia, dove la quarantena non ha modificato di una virgola le sue giornate, vive ancora Benjamin Harnwell, l’uomo che per conto dell’ex capo stratega di Trump, Steve Bannon, è diventato custode e concessionario della Certosa di Trisulti, con l’obiettivo di trasformarla in una scuola politica di sovranismo. Vivendo completamente isolato, lontano da supermercati e negozi, l’unica condizione che Benjamin Harnwell ci pone per accettare l’intervista, è un piccolo rifornimento di viveri e sigari.

GIORGIO MOTTOLA Visto che Bannon ti ha abbandonato in quarantena, Report ha pensato a te. Ti ho portato un po’ di viveri, come avevi chiesto, e soprattutto i sigari che mi avevi chiesto.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Sì, grazie, ma devo mettere i guanti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A causa delle irregolarità del bando per l’assegnazione della Certosa che Report aveva portato alla luce, lo scorso giugno il Ministero ci aveva garantito che nel giro di qualche settimana Harnwell e la Dignitatis Humanae sarebbero stati costrette a lasciare la Certosa.

DA REPORT DEL 6 GIUGNO 2019 GIORGIO MOTTOLA Sfratterete Steve Bannon e Benjamin Harnwell dalla Certosa?

GIANLUCA VACCA – SOTTOSEGRETARIO MINISTERO DEI BENI CULTURALI Chiederemo ovviamente la restituzione della Certosa. Cercheremo di capire anche come valorizzare questa stupenda Certosa, questo stupendo monumento che è ricco di tesori al proprio interno.

GIORGIO MOTTOLA Eravamo convinti l’ultima volta di non trovarla più qui.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Ancora... ci siamo ancora.

GIORGIO MOTTOLA Infatti, fa un sorriso bello furbo, mi pare di capire. Finora ci ha fregati tutti. BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Finora siamo ancora qua.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In attesa dell’ennesima sentenza del Tar, che a causa del coronavirus è ovviamente slittata, Benjamin Harnwell continua a portare avanti le sue idee sul Papato di Bergoglio.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Il Papa dice le cose che non hanno nessuna radice nella storia della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA Secondo lei Bergoglio dice cose non cristiane.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Dice delle cose che non sono cristiane.

GIORGIO MOTTOLA È forte come espressione, che il Papa dice cose non cattoliche e non cristiane.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Giorgio, non so perché lo fa. Può darsi per malizia. Perché è un nemico della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La tesi di Bergoglio nemico della Chiesa nasce e si consolida oltre oceano. Tale posizione infatti, fin dall’elezione di Trump, ha come capofila politico Steve Bannon, e nonostante il suo isolamento nella Certosa, Benjamin Harnwell ci fa sapere che continua a sentirlo tutti i giorni.

GIORGIO MOTTOLA Steve Bannon del Papa che cosa pensa?

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Steve pensa che in certi rispetti questo Papa sia inadeguato.

GIORGIO MOTTOLA In questa battaglia contro il Papa Bannon ha trovato sponda anche dentro la Chiesa?

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Senz’altro sì.

GIORGIO MOTTOLA E una delle sponde è il cardinale Burke.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Su queste cose non mi sento sicuro di parlare.

GIORGIO MOTTOLA È Bannon che ha presentato Burke a lei?

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE No, io ho presentato Steve Bannon al Cardinale.

GIORGIO MOTTOLA Mi dica la verità, lei avrebbe preferito vedere sul trono pontificio Burke, al posto di Bergoglio. BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Sì.

GIORGIO MOTTOLA Questo è il suo sogno proibito.

BENJAMIN HARNWELL – DIRETTORE ASSOCIAZIONE DIGNITATIS HUMANAE Nella pienezza del tempo chi sa.

GIORGIO MOTTOLA Siamo lì che aspettiamo il prossimo conclave insomma.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Patrono dell’Ordine di Malta e punto di riferimento mondiale del fronte ultraconservatore, all’interno della curia romana, il cardinale Burke è una delle voci più critiche nei confronti di Papa Bergoglio. Con documenti ufficiali da tempo ha espresso il suo disappunto riguardo alle aperture del pontefice su divorziati, su dialogo tra le religioni e accoglienza dei migranti. In più di un’occasione, il Cardinale ha chiamato i fedeli alla resistenza contro i cambiamenti che il Pontefice sta provando ad apportare in Vaticano.

RAYMOND BURKE - CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA Chiaramente in un tempo di grande confusione e errore nella cultura e perfino nella Chiesa siamo veramente chiamati a difendere e combattere per le verità della fede.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il cardinale Burke coltiva rapporti molto stretti con esponenti dell’amministrazione Trump, sebbene con Steve Bannon la relazione si sia di recente molto raffreddata. In Italia, invece, Burke non ha mai nascosto le sue simpatie per Matteo Salvini. Quando era ministro dell’Interno, durante i blocchi in mare delle ONG, il cardinale lo ha più volte difeso in pubblico.

GIORNALISTA Lei è d'accordo con le azioni del ministro dell'Interno italiano?

RAYMOND BURKE - CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA Beh, io penso che sia comprensibile. La nazione deve prendersi cura innanzitutto dei propri cittadini e poi esaminare attentamente chi sono questi immigrati se sono davvero rifugiati politici o se sono persone che emigrano soltanto per… per… come dire, migliorare le loro condizioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Italia Burke presiede anche la Fondazione Sciacca, un’organizzazione filantropica cattolica di orientamento ultraconservatore che ha firmato protocolli d’intesa con il ministero della Giustizia e con la Agenzia Industrie Difesa, l’ente pubblico che si occupa di fornire munizioni ed esplosivi all’esercito. È una fondazione completamente sconosciuta, tranne però, almeno pare, nei posti e tra la gente che davvero conta in Italia. Negli organismi direttivi c’è infatti il capo dei servizi segreti Gennaro Vecchione, generali dell’esercito, giudici del Consiglio di Stato e banchieri come Ettore Gotti Tedeschi, ex direttore dello Ior. L’anima della fondazione è questo prete, Don Bruno Lima. Famoso a L’Aquila per le messe in latino che officia ogni domenica.

GIORGIO MOTTOLA Sono Giorgio Mottola, sono un giornalista di Report, Rai3.

DON BRUNO LIMA AL TELEFONO Mi dica la domanda, io non faccio interviste telefoniche.

GIORGIO MOTTOLA Io volevo soltanto chiederle: come avete fatto nella fondazione a mettere insieme così tanti pezzi grossi, capi dei servizi segreti…

DON BRUNO LIMATOLA AL TELEFONO Non sono interessato alle sue domande, buona sera.

GIORGIO MOTTOLA Però siamo interessati noi a capire come ha fatto, Don Bruno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per la sua fondazione infatti Don Bruno nel 2018 ha fatto un nuovo prestigioso acquisto, come testimonia questo video inedito recuperato da Report.

PREMIO INTERNAZIONALE “GIUSEPPE SCIACCA” 27/10/2018 PRESENTATORE A premiare sarà il Ministro Matteo Salvini, presidente del comitato scientifico della Fondazione Giuseppe Sciacca. Buonasera Ministro, intanto siamo contenti e onorati ovviamente di averla quest’anno nella famiglia del premio Sciacca e come presidente del comitato scientifico.

MATTEO SALVINI - EX MINISTRO DELL'INTERNO Ma sono io che mi sento onorato e anche inadeguato, sono l’ultimo dei buoni cristiani. Infatti, quando don Bruno mi ha proposto questa cosa ho detto: "Don Bruno stia attento ho poco da testimoniare, sono un peccatore di quelli…”

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà cosa fa il presidente di un comitato scientifico di una fondazione come quella Sciacca. Ecco sta di fatto però che Salvini che è un divorziato, che per noi non c’è nulla di male, lo chiariamo, viene nominato presidente da chi critica Bergoglio per la sua apertura nei confronti dei divorziati. La fondazione Sciacca va detto che ha effettuato varie iniziative di beneficienza, questo da una parte. Dall’altra però il dubbio che sia tessitrice di una rete di relazioni. E ci ha scritto l’ufficio stampa, ci ha scritto una nota dove esprimono la solidarietà al cardinale Burke, si dicono indignati per il fatto che sia stato accostato ai cosiddetti nemici del Papa. “Sua Eminenza”, scrivono, “è un insigne giurista e teologo noto in tutto il mondo, svolge i suoi alti incarichi istituzionali a servizio della Santa Sede e con spirito di obbedienza verso il Santo Padre”. Poi accusano anche Report di diffondere fake news, va tanto di moda in questo periodo. Una notizia invece emerge da un’intercettazione della Direzione Investigativa Antimafia. Il cardinale Burke viene intercettato a sua insaputa, finisce per una coincidenza in un’intercettazione, non è indagato, lo chiariamo subito, mentre c’è chi gli chiede una spintarella per far avere un incarico di governo a un Senatore un po’ controverso.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno vi avevamo mostrato le immagini della trasferta italiana di Steve Bannon del 7 settembre 2018: nel viaggio in auto verso il Viminale, si trova con un emissario della Lega, Federico Arata, figlio di Paolo: colui che secondo la procura di Palermo sarebbe socio occulto del re dell’eolico, Vito Nicastri, presunto prestanome di Matteo Messina Denaro. Paola Arata è accusato di aver pagato al sottosegretario leghista Armando Siri una mazzetta da 30mila euro per inserire un emendamento a favore dell’eolico. Ed è proprio con il figlio Federico che Bannon parla di strategie elettorali.

DA “THE BRINK” DI ALISON KLAYMAN STEVE BANNON - EX CAPO STRATEGA CASA BIANCA Intendiamo fornire inchieste, analisi di dati, messaggi dal centro di comando.

FEDERICO ARATA È l’idea che con questo possiamo diventare il partito numero uno in Italia. E poi dovrete dir loro che dobbiamo pianificare. “Pianificare” è la parola chiave… la vittoria per le elezioni europee.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Queste immagini che avete appena visto fanno parte del documentario “The Brink” di Alison Klayman, che Report vi mostra in esclusiva per l’Italia. Dimostrerebbero che Arata è il vero artefice dei rapporti tra Bannon e la Lega.

MISCHAËL MODRIKAMEN - PORTAVOCE THE MOVEMENT Sono Mischaël, dal Belgio. Sono di The Movement.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per conto di chi Federico Arata fa da intermediario tra Steve Bannon e la Lega? Nei mesi successivi a questo incontro Giancarlo Giorgetti ha assunto Arata a Palazzo Chigi, come consulente esterno. A che titolo?

GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO (06/2018-09/2019) I requisiti sono ben documentati da un curriculum che è stato pubblicato credo in tutti i giornali, in tutti i media, e che dimostra come questa persona avesse oltre che tre lauree, un’esperienza internazionale di tutto livello.

GIULIANO MARRUCCI E senta come si giustifica il fatto che Arata avrebbe fatto da mediatore tra Bannon e Salvini.

GIANCARLO GIORGETTI – SOTTOSEGRETARIO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO (06/2018-09/2019) Io questo non lo so, dovete chiedere a Bannon, non a me.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma oltre che a Bannon, forse bisogna domandare anche al cardinale Burke. Nel 2018, al momento della distribuzione delle nomine ministeriali, è infatti al monsignore statunitense che si rivolge Paolo Arata. Come emerge dalle telefonate intercettate dalla Dia di Trapani, a Burke, Arata chiede di far arrivare pressioni a Giorgetti per far ottenere al figlio Federico un incarico governativo.

INTERCETTAZIONE 6 APRILE 2018 Il 6 aprile del 2018 Paolo Arata telefona al cardinale Burke. “Io coglievo l’occasione per ricordarle se può fare quel famoso intervento su Giorgetti dagli Stati Uniti” - dice. E la risposta del cardinale è: “Sì, sì, quando è il momento giusto io sono pronto. Quando lei mi dice, io invierò subito”.

GIORGIO MOTTOLA Buona sera Monsignore, sono Giorgio Mottola sono un giornalista di Report, RaiTre. Volevo farle qualche domanda sulle sue telefonate con Paolo Arata.

RAYMOND BURKE – CARDINALE PATRONO ORDINE DI MALTA No.

GIORGIO MOTTOLA Come no...sua Eminenza. Chi è l'americano a cui lei telefona per raccomandare il figlio di Paolo Arata, sua Eminenza. Mi dice soltanto questo. Come ha conosciuto Paolo Arata?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la cura delle anime ha la priorità, aspettiamo in religioso silenzio e alla fine delle benedizioni proviamo a riproporre i nostri prosaici argomenti terreni.

GIORGIO MOTTOLA Sua Eminenza mi scusi, come mai si è messo a disposizione di Paolo Arata. Ok. Stavo solo facendo alcune domande…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo la Dia, l’intervento che Paolo Arata chiede a Burke su Giorgetti sarebbe innanzitutto per far ottenere un ministero a un senatore della Lega: Armando Siri.

GIORGIO MOTTOLA Lei conosce molto bene il cardinale Burke, Raymond Burke?

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Il cardinale? No, non lo conosco.

GIORGIO MOTTOLA Strano perché si è impegnato davvero tanto, almeno sembra essersi impegnato davvero tanto per la sua nomina a Sottosegretario.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Mah, io non lo so... io non lo conosco...

GIORGIO MOTTOLA E però lo conoscono molto bene Federico Arata e Paolo Arata e lei ha chiesto a Federico Arata una mano per essere nominato…

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ah, ma lei sta dicendo Burke!

GIORGIO MOTTOLA Sì, chiama Burke in realtà è americano.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ah, si chiama "Burke". GIORGIO MOTTOLA Lei ha chiesto a Federico Arata di fare pressione sull'ambasciatore americano affinché lei venisse nominato sottosegretario.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Addirittura... e cosa c'entra l'ambasciatore americano con il sottosegretario italiano?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ecco però il testo della telefonata che Federico Arata fa al padre: “Armando mi ha chiamato, mi ha detto se potevo fargli arrivare qualche sponsorizzazione presso l'Ambasciatore americano”. Su questa richiesta però Burke si dimostra pessimista e gli Arata, padre e figlio, ipotizzano di chiedere la spintarella a Bannon. E poche settimane dopo le telefonate in questione, Federico Arata viene assunto a Palazzo Chigi e Armando Siri diventa sottosegretario alle Infrastrutture.

GIORGIO MOTTOLA La sua nomina a sottosegretario quando dipende dall'intervento di Burke?

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Credo che la mia nomina a sottosegretario dipenda da Matteo Salvini che è segretario della Lega e che ha deciso che io dovessi fare il sottosegretario. È la cosa più logica in assoluto.

GIORGIO MOTTOLA Però se dipendeva solo da Salvini, perché ha chiesto aiuto a Federico Arata? Evidentemente lei non era così convinto che Salvini l'avrebbe nominata sottosegretario...

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ma no assolutamente...ma io non ho chiesto assolutamente nulla a nessuno. Guardi che queste sono cose che dice lei.

GIORGIO MOTTOLA Dalle telefonate sembra il contrario però…

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Eh, ma sa, nelle telefonate... chissà quante cose dice lei nelle telefonate...

GIORGIO MOTTOLA Non di diventare sottosegretario sicuramente.

ARMANDO SIRI - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Eh, magari di avere qualche altra cosa....

GIORGIO MOTTOLA Sicuramente non di diventare sottosegretario…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche perché Il nostro Giorgio fa bene il suo mestiere. Insomma cosa è emerso che Paolo Arata che è il consulente, l’esperto della Lega per le politiche energetiche, finisce sotto intercettazioni della Direzione Investigativa Antimafia perché è accusato di corruzione e soprattutto perché accusato di avere come socio occulto Vito Nicastri. Vito Nicastri a sua volta è accusato di aver finanziato la latitanza del capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Ora i magistrati dicono che Paolo Arata avrebbe proprio portato in dote al suo socio occulto, i suoi rapporti con la Lega, in particolare con Armando Siri con il quale è indagato per corruzione perché avrebbero tentato di infilare, tentato invano, di infilare un emendamento nella legge di bilancio del 2019 in base al quale avrebbero fatto percepire degli incentivi a tutti coloro che avevano aperto campi eolici nel 2017. Una norma retroattiva della quale avrebbero beneficiato anche loro stessi, Arata e il suo socio. E bene. Che cosa fa Arata? Chiede a Burke, al cardinale Burke una mano perché si rivenga nominato… abbia un incarico di governo. Burke si mette a disposizione, dice sì quando è il momento giusto, io sono pronto. Certamente Burke non conosceva i rapporti di Arata con Vito Nicastri, quello che ha finanziato la latitanza del boss. Tuttavia Arata chiede anche un’altra cortesia. Chiede a Burke di far avere al figlio, Federico, per il nuovo nascente governo della Lega un incarico. E anche qui Burke si dice disponibile, non sappiamo se poi abbia fatto, sia intervenuto. Sta di fatto che quando arriva Steve Bannon a Roma nel 2018 Arata lo va ad accogliere nei panni di consulente della Presidenza del Consiglio. E parla con lui di strategie elettorali come fosse un leader di partito. A che titolo lo fa? Va anche detto che in base anche alle mail che ha raccolto Report in esclusiva dal database del consorzio OCCRP emerge anche che Arata, Federico Arata aveva dei suoi rapporti con gli Stati Uniti già a partire dal 2017, novembre del 2017. È lui che cerca, si presenta come spin doctor della Lega e dice di voler innalzare la Lega a una dimensione internazionale, prepara il viaggio negli Stati Uniti, che poi non si è effettuato, di Giorgetti e Salvini e scrive a Ted Malloch. Ted Malloch è il faccendiere che è stato coinvolto nel Russiagate, colui che ha avuto un ruolo anche nelle mail hackerate dai Russi che erano compomettenti, Hillary Clinton. Insomma, è questo il contesto. E poi Ted Malloch ha contribuito alla campagna elettorale di Trump, è stato in contatto con l’estrema destra americana e anche con quella religiosa, dai cui media partono gli attacchi a Bergoglio. Questa volta le critiche arrivano perché si è deciso di chiudere le chiese per evitare la diffusione del contagio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dall’inizio della quarantena le porte delle chiese sono serrate e le messe sospese. Ma a Roma c’è chi si è inventato un modo per continuare a pregare in pubblico senza violare l’isolamento.

SUORE SACRO CUORE DI GESÙ Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Oh Santissima…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tutti i giorni, alle dodici in punto, le suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, salgono sul tetto del loro convento e, per qualche minuto cantano inni di preghiera per il pubblico affacciato alle finestre. GIORGIO MOTTOLA Si può celebrare la Pasqua anche stando a casa?

SUORA - SACRO CUORE DI GESÙ Assolutamente sì, io penso che si può vivere anche in modo più intenso quest’anno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In modo completamente diverso la pensano invece i media del mondo ultracattolico americano che sulla chiusura delle chiese in Italia hanno lanciato una violenta campagna che ha come obiettivo Papa Bergoglio.

TAYLOR MARSHALL – TEOLOGO YOUTUBER E la nostra risposta è stare zitti: chiudiamo le porte delle chiese, sospendiamo i sacramenti cosi tutti i mezzi per la grazia divina sono… puffff…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La campagna sulla riapertura delle Chiese contro governo e Santa sede è partita dai media ultracattolici americani come Lifesitenews e Churchmilitant ed è dilagata su siti come Breitbart, l’organo di informazione dell’estrema destra americana fondato da Steve Bannon. Gli stessi slogan e le stesse parole d’ordine hanno poi attraversato l’oceano e sono sbarcati in Italia. I primi a rilanciarli sui loro social sono stati i neofascisti di Forza Nuova, capeggiati da Roberto Fiore.

GIORGIO MOTTOLA Salve.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Salve. Salutiamo tutti…

GIORGIO MOTTOLA Lei sta così “nature” senza mascherina, senza guanti.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Io ho fede.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno Fiore si è reso protagonista di una serie di campagne contro il Papa e con l’arrivo del coronavirus il suo partito ha lanciato la teoria del complotto contro i cattolici, avallato da alcune gerarchie vaticane.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA La chiesa ha dovuto cedere a dei poteri forti internazionali che le hanno imposto di chiudere, di non dire più messa, di non dare sacramenti, che è una cosa, ripeto, inedita nella Storia, cioè l’ha fatto il comunismo ma il comunismo è stato più onesto, nel senso: noi siamo atei materialisti non crediamo a ste cose, non le potete fare se no vi sbattiamo in carcere.

GIORGIO MOTTOLA Questi invece vi chiudono le chiese con la scusa dell’emergenza sanitaria?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Con la scusa dell’emergenza sanitaria, esattamente.

GIORGIO MOTTOLA Vogliono chiudere le Chiese per sempre, secondo lei, è questo l’obiettivo?

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Oh Dio, oh Dio, attenzione, sicuramente questa è un qualche cosa che loro stessi, sto parlando dell’Oms che secondo me è il cuore dell’operazione, stanno vedendo… è in fieri.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per sventare il complotto anticristiano dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e degli altri poteri forti su CitizenGO, piattaforma di fondamentalisti cattolici, Forza Nuova ha lanciato una petizione che ha raccolto l’appoggio di Vittorio Sgarbi, Carlo Taormina, e dei principali esponenti italiani del fronte anti-bergogliano. Fiore e gli altri firmatari chiedono la riapertura immediata delle Chiese e il ripristino delle messe.

GIORGIO MOTTOLA E questa vaga contro-argomentazione per cui invece riaprendo le chiese si rischia di aumentare il contagio come la consideriamo? ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Una follia. Il collegamento fra ciò che è fisico e ciò che è spirituale ci dice ma questa è la prima cosa che più una persona è forte spiritualmente e più reagisce alle malattie. Quindi già da quel punto di vista uno dovrebbe dire: non dite scemenze.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che la fede rende immuni al Coronavirus pochi giorni prima di Pasqua, sui profili social del movimento di Fiore iniziano a comparire post minacciosi come questi.

GIORGIO MOTTOLA Avete annunciato che a Pasqua violerete la quarantena.

ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Domenica in modo pacifico, cattolico, noi celebreremo la Pasqua. Il nostro sacrificio perché alla fine sarà un sacrificio di carattere economico, qualsiasi carattere sia, però è una cosa che noi facciamo per tutti.

GIORGIO MOTTOLA Da fascista diventa ghandiano, in qualche modo.

ROBERTO FIORE - FORZA NUOVA No, non è ghandiano. Se il popolo lì non reagisce come ha detto a badilate e allora loro possono dire: domani noi facciamo tutto. Invece noi dobbiamo fare vedere che il popolo reagisce.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E il giorno di Pasqua ci sono anche le telecamere di Report a documentare l’annunciata processione di Forza Nuova davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Ma del sacrificio di Fiore non vi è traccia. Tra i militanti venuti a violare la quarantena manca proprio il leader. AGENTE DIGOS Ragazzi, a casa. Se ce ne avete una!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla fine, i militanti devoti e neofascisti sono solo uno sparuto gruppo e arrivano alla spicciolata.

GIULIANO CASTELLINO - DIRIGENTE FORZA NUOVA Volevamo avere la libertà di ricordare la santissima Pasqua, solamente perché abbiamo detto che questa era la prima libertà che noi vogliamo riprenderci. Io invito tutti i romani e tutti gli italiani a fare attenzione, stiamo vivendo sotto dittatura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fatto il comizio in favore di telecamere la Digos se li porta via.

GIULIANO CASTELLINO - DIRIGENTE FORZA NUOVA Viva la libertà, viva l’Italia!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i leader che siedono in parlamento ce n’è solo uno che ha offerto sponda alla campagna di Forza Nuova, rilanciando la petizione sulle Chiese sulle tv nazionali.

MATTEO SALVINI - INTERVISTA SKY Io sostengo le richieste di coloro che dicono in maniera ordinata, composta, sanitariamente sicura, fateci entrare in Chiesa, per Pasqua fateci assistere anche in tre, in quattro, in cinque, alla messa di Pasqua. Mi dicono: si può andare da tabaccaio, perché senza sigarette non si sta. Eh, per molti anche la cura dell’anima oltre che la cura del corpo è fondamentale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’intervento di Salvini non è arrivato a sorpresa: negli ultimi anni la destra italiana ha iniziato ad usare costantemente la religione come strumento di battaglia politica. Nemmeno ai tempi della vecchia Democrazia Cristiana è accaduto che leader nazionali in campagna elettorale brandissero simboli religiosi come armi di lotta politica.

MATTEO SALVINI E io personalmente affido l’Italia, la mia e la vostra vita al cuore immacolato di Maria che son sicuro ci porterà alla vittoria.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana, non me lo toglierete.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E soprattutto mai avremmo immaginato che leader politici potessero arrivare a recitare preghiere in diretta televisiva.

BARBARA D’URSO - LIVE NON È LA D’URSO Tutte le sere io faccio il rosario, non me ne vergogno, anzi sono orgogliosa di dirlo. Quindi l’eterno riposo dona loro signore...

MATTEO SALVINI - LIVE NON è LA D’URSO Siamo in due Barbara.

BARBARA D’URSO - LIVE NON E’ LA D’URSO Splenda per essi la luce perpetua, riposino in pace amen.

MATTEO SALVINI - LIVE NON E’ LA D’URSO Splenda ad essi la luce perpetua, riposino in pace.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tuttavia, a tanta devozione cattolica finora sono corrisposte altrettante critiche aspre nei confronti del capo della Chiesa.

MATTEO SALVINI Però il Papa è Benedetto, il suo Papa è Benedetto, il mio Papa è Benedetto. Papa Benedetto sull’Islam e sulla convivenza fra i popoli aveva delle idee molto chiare. Quelli che invitato gli Imam in chiesa non mi piacciono.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma esattamente quando e come è accaduto che la destra sovranista italiana ha iniziato ad avere una improvvisa vocazione religiosa e a nutrire al contempo un così forse sentimento anti-bergogliano.

PAPA FRANCESCO – TV2000 Ma la xenofobia è una malattia. E le xenofobie tante volte cavalcano sui cosiddetti populismi politici, no? Delle volte sento in alcuni posti, discorsi che somigliano a quelli di Hitler nel ’34. Si vede che c’è un ritornello.

DONALD TRUMP – PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D’AMERICA Il Papa? Il Papa era in Messico lo sapevate? Ha detto cose negative su di me. Se e quando il Vaticano sarà attaccato dall’ISIS e tutti sanno che per ISIS il trofeo più ambito vi garantisco che il Papa si augurerà e pregherà soltanto che Donald Trump sia presidente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’elezione di Trump è stata uno spartiacque: Report ha consultato i bilanci delle più importanti fondazioni della destra religiosa statunitense. E il risultato è davvero impressionante. Da quando Bergoglio è diventato Papa dalle organizzazioni ultra cristiane degli Stati Uniti sono arrivati in Europa oltre un miliardo di dollari.

PETER MONTGOMERY - SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Si tratta di associazioni cristiane integraliste ricchissime, che vogliono vietare l’aborto e cancellare le leggi in favore degli omosessuali in America e nel mondo. Sicuramente tra i loro obiettivi c’è la destabilizzazione dell’Unione Europea.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alcune delle fondazioni che hanno inviato denaro in Europa fanno parte del World Congress of Families, l’organizzazione ultra-cristiana che ha avuto nuova vita nel 2013 grazie Konstantin Malofeev, l’oligarca russo estremamente vicino a Putin che Matteo Salvini ha provato ad avere come ospite d’onore al congresso in cui è stato eletto segretario per la prima volta.

DA REPORT DEL 21 OTTOBRE 2019 GIORGIO MOTTOLA Quando ha incontrato Salvini la prima volta?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Molti anni fa. Sarei dovuto andare al congresso quando fu eletto.

GIORGIO MOTTOLA Era stato invitato?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, ma non andai perché avevo altri impegni e non riuscii a venire in Italia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo stesso anno in cui Salvini viene eletto segretario, Malofeev vola negli Stati Uniti e come abbiamo ricostruito grazie alle mail che abbiamo ritrovato nel database del consorzio Occrp, in quel viaggio l’oligarca russo ha incontrato deputati repubblicani come Chris Smith, rappresentanti del Family Research Council, una delle più importanti associazioni antiabortiste americane, Nation For Marriage di Brian Brown, presidente del World Congress of Families e rappresentanti dell’Heritage Foundation e del Leadership Institute, due delle più importanti fondazioni repubblicane.

GIORGIO MOTTOLA Qual era l’argomento di questi incontri?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Abbiamo discusso di come difendere le famiglie dal totalitarismo dell’agenda sodomita che si sta diffondendo in tutto il mondo.

GIORGIO MOTTOLA Quindi è in quel momento che è nata la Santa Alleanza?

KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, l’idea è nata lì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Di questa Santa Alleanza fanno parte anche le fondazioni della destra religiosa americana che hanno mandato più dollari in Europa. Si tratta di associazioni finanziate dai multimiliardari che hanno sostenuto a suon di milioni la campagna elettorale di Donald Trump. La famiglia Koch, industriali ultraconservatori che hanno sborsato per le ultime presidenziali americane quasi un miliardo di euro e la famiglia Mercer, fondatore di Cambridge Analytica ed editore di Breitbart, la rivista di estrema destra già diretta da Steve Bannon.

PETER MONTGOMERY - SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Le associazioni della destra religiosa americana e i miliardari conservatori hanno stipulato anni fa un’alleanza per ottenere il controllo del Partito Repubblicano. E oggi con la presidenza di Trump hanno ottenuto il loro scopo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le fondazioni sostenute dai Koch e dai Mercer in Europa non hanno finanziato solo associazioni religiose. Consultando i bilanci di tutti i partiti del parlamento europeo i loro soldi, 43 mila euro tra il 2016 e il 2017, sono arrivati anche ad un gruppo parlamentare: l’alleanza dei riformisti e conservatori di cui Fratelli d’Italia fa parte dal 2019. Secondo quanto ha scoperto Report, l’alleanza dei Riformisti e Conservatori è l’unico partito a Bruxelles finanziato da Heritage Foundation e da Atlas Network, le potenti e danarose fondazioni legate ai miliardari trumpiani. Ma quello tra il mondo trumpiano e il gruppo europeo della Meloni è un rapporto che sembra essersi molto intensificato negli ultimi anni. Questo è l’intervento fatto dall’ex capo stratega di Trump, Steve Bannon nel 2018 alla festa nazionale di Fratelli d’Italia.

STEVE BANNON – EX CAPO STRATEGA CASA BIANCA Io vi posso aiutare focalizzandoci sulle prossime europee per vincerle. Vi possiamo fornire e far realizzare sondaggi e analisi di big data. Preparare cabine di regia. Tutto quello di cui si ha bisogno per vincere le elezioni. Vi aiutiamo in modo gratuito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa invece è la più importante conferenza della destra americana. L’attrazione principale è l’intervento del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’anno scorso a scaldare il pubblico c’era anche un politico italiano.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Signore e signori, grazie per avermi invitato. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Insieme all’artefice della Brexit, Nigel Farage, Giorgia Meloni è stato l’unico politico europeo invitato a parlare alla conferenza.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA La crisi dell’Unione Europea è una crisi di democrazia e di sovranità popolare. Questa entità sovrannaturale e antidemocratica ha imposto sulle nazioni europee le scelte di élite globaliste e nichilistiche guidate dalla finanza internazionale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E chi sa se il riferimento era anche alle stesse élites finanziarie che pagano la conferenza. Come l’NRA, la lobby delle armi, che compare come sponsor principale sul palco accanto a compagnie assicurative ultra-cristiane e criptovalute giapponesi. In Europa da qualche tempo le fondazioni della destra americana hanno iniziato a esercitare un ruolo politico sempre più attivo. A inizio febbraio, in uno degli hotel più lussuosi di Roma, le americane Edmund Burke Foundation e l’International RaeganThatcher society hanno organizzato un mega evento politico internazionale tenuto a battesimo da Giorgia Meloni.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Questo evento è un evento che sono molto orgogliosa di aprire, come sapete è un evento dedicato al mondo conservatore internazionale, sapete che Fratelli d’Italia in questi anni ha lavorato molto a livello internazionale nella tessitura di una serie di rapporti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Alla conferenza sponsorizzata dalle fondazioni americane partecipano pezzi grossi della scena conservatrice europea. Come Marion Maréchal-Le Pen, astro nascente dell’ultra destra francese e soprattutto, il premier ungherese Viktor Orban. Che in patria, di recente, per l’emergenza coronavirus, ha assunto pieni poteri. Il titolo della manifestazione è di ispirazione religiosa. “Dio, onore e patria”. E ovviamente il Papato di Bergoglio è uno dei principali argomenti.

GIORGIO MOTTOLA Onorevole, potremo semplificarla con…

ADDETTO STAMPA Facciamo un attimo parlare anche gli altri giornalisti.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA No, ma lui mi vuole bene. Dimmi, dimmi. Ci tengo. Come vuole semplificare lei?

GIORGIO MOTTOLA Qui ci saranno anche altre figure molto critiche nei confronti di Bergoglio. Qual è la sua posizione? Lei non ha mai espresso pubblicamente una posizione su Bergoglio.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Non ho da esprimere una posizione su Bergoglio perché io faccio politica, non faccio il cardinale. Penso che il Papa debba portare avanti le sue… il suo lavoro, ecco. E la politica debba fare un altro lavoro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma alla tavola rotonda iniziale il tema è proprio il Vaticano. E le posizioni su Bergoglio vengono esposte in modo estremamente esplicito.

ROBERTO DE MATTEI – PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Se noi compariamo i due leader della nostra epoca, Papa Francesco e il presidente Donald Trump, scopriamo che abbiamo a che fare con un’inversione di ruoli: Papa Francesco ha rinunciato a essere un leader spirituale, subordinando i valori morali, come la vita e la famiglia, a istanze politiche e sociali. E perciò Papa Francesco è diventato il leader della sinistra internazionale. Dall’altro lato, Donald Trump, si sta avviando alla sua rielezione attribuendo una maggiore valenza morale al suo mandato politico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Papa Francesco è identificato come leader della sinistra internazionale. Forse senza girarci troppo intorno i motivi, il segreto degli attacchi a Papa Bergoglio sono racchiuse in queste parole che il nostro Giorgio Mottola ha registrato nell’intervento di un relatore al convengo dove era ospite Giorgia Meloni. Nel vuoto lasciato da alcuni partiti che incarnavano dei valori come quello dell’accoglienza, dell’abbattimento delle disuguaglianze, del socialismo, della difesa dell’ambiente violentato, anche un Papa che abbraccia l’ideale francescano può diventare il bersaglio dell’estrema destra. E poi abbiamo visto anche che c’è chi lo finanzia questo tiro al bersaglio. L’abbiamo sentito dalle parole dell’oligarca ultranazionalista vicino a Putin, Malofeev, l’ha detto che è in contatto dal 2013 con la Lega di Salvini e lui stesso ha ammesso, ho fatto dei viaggi negli Stati Uniti, ho incontrato deputati, ambienti dell’ultra destra americana, quello delle fondazioni più conservatrici, ecco. Con lo scopo di difendere la famiglia dall’attacco sodomita. E in questo viaggio ha incontrato anche fondazioni fra qui, Heritage e Atlas Network. Come ha scoperto Report hanno finanziato direttamente o indirettamente dal 2016 al 2017 per circa 50 mila euro l’alleanza dei conservatori riformisti europei. È il gruppo europeo al quale ha aderito anche Giorgia Meloni nel 2019. È un po’ il cavallo di Troia di Trump all’interno dell’Europa. È poca roba, ma non bisogna dimenticare che Report ha anche scoperto pochi mesi fa che da quando Papa Bergoglio è diventato Papa dalle fondazioni d’ambienti conservatori americani sono arrivati in Europa una pioggia di dollari, circa un miliardo di dollari hanno finanziato dei movimenti della destra, dell’estrema destra anche ultra religiosi per, da una parte, far implodere l’Europa, dall’altra per mettere in crisi il Papato di Bergoglio. Proprio dopo per aver aderito a questo movimento europeo Giorgia Meloni, dopo anche aver instaurato rapporti con Bannon, è stata invitata alle più importanti convention repubblicane. Ecco a febbraio scorso ha partecipato al prestigioso National Prayer Breakfast, l’evento annuale di politica e preghiera che viene organizzato a Washington, dalla potente controversa fondazione Fellowship e c’era anche il presidente Trump. L’onorevole Giorgia Meloni era tra i pochi politici europei presenti. Ma se l’humus è questo, è facile che germogli anti-bergogliani possano sorgere, spuntare qua e là. Ma c’è un filo che li unisce a partire da quello che c’è all’interno di un prestigioso istituto di ricerca dove c’è chi evoca il fumo di Satana fino ad arrivare alla sede di una televisione online Gloria TV che dietro al celestiale nome che evoca la preghiera di lode, però nasconde tre teste, una delle più attive degli attacchi di Bergoglio. Ha una testa in Svizzera, l’altra in Moldavia, la terza in un paradiso che però non è terrestre.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il fronte degli americani anti-bergogliani ha il suo quartier generale qui a Roma, dietro l’antica basilica di Santa Balbina. Varcata la soglia del cortile interno c’è la sede della Fondazione Lepanto, presieduta dal professor Roberto De Mattei, esponente dell’aristocrazia romana, nominato da Berlusconi nel 2008 vicepresidente del CNR, nonostante l’opposizione del mondo accademico.

GIORGIO MOTTOLA Mi pare di capire è su posizioni anti-evoluzioniste?

ROBERTO DE MATTEI – PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Assolutamente. L'evoluzionismo è un mito, è una leggenda.

GIORGIO MOTTOLA Ma in che senso è una leggenda?

ROBERTO DE MATTEI - PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO È una pura frottola. Tutti gli uomini che esistono discendono da Adamo ed Eva.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha anche una teoria interessante sulla caduta dell'impero romano. Che sarebbe la punizione per la diffusione dell'omosessualità nell'impero, è vero?

PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO L'omosessualità è sicuramente un peccato grave, condannato da Dio. E che può determinare la fine di una civiltà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dallo scorso anno la fondazione Lepanto ha iniziato ad organizzare preghiere di protesta in piazza contro la gestione della chiesa da parte di Bergoglio. Si auto definiscono Acies ordinata esercito regolare. La più affollata si è tenuta lo scorso settembre a Roma nel piazzale di Castel Sant’Angelo. Erano presenti i rappresentanti delle più potenti associazioni americane e i direttori di Lifesitenws e di Church Militant, i siti che hanno indicato nella punizione divina inflitta al Papa la causa del coronavirus.

ROBERTO DE MATTEI -PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Papa Francesco sta indubbiamente contribuendo a determinare la confusione all'interno della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA Lei ha scritto: il fumo di Satana sta avvolgendo il campo di battaglia.

ROBERTO DE MATTEI -PRESIDENTE FONDAZIONE LEPANTO Normalmente nelle situazioni di confusione che la Chiesa ha conosciuto nella sua storia i Papi sono sempre stati la soluzione dei problemi. Oggi noi ci troviamo per la prima volta nella storia in una situazione in cui il Papa invece di essere la soluzione del problema è la causa del problema. Perché è egli stesso, Papa Francesco, purtroppo tragicamente un fattore di autodemolizione della Chiesa e quindi di diffusione del fumo di satana all'interno della Chiesa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La propaganda anti-bergogliana corre e cresce innanzitutto sul web. Ci sono quotidiani on line monotematici con decine di giornalisti e budget illimitati, pagine Facebook contro il Papa e piattaforme on line come Gloria Tv che ogni giorno produce un telegiornale che spesso dà fake news su Bergoglio. TG GLORIA TV Il problema di Papa Francesco sono le sue parole ambigue ed equivoche, la sua reticenza, astuta e sleale, la sua opportunistica negligenza. E il fatto che dia l’impressione di approvare comportamenti omosessuali. In questo modo Papa Francesco sta compromettendo seriamente il suo compito pastorale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gloria TV è uno dei siti più violenti e virali della galassia online anti-bergogliana. Funziona come un social network e tutti i giorni pubblica vignette contro Bergoglio come questa, in cui viene rappresentato come un pagliaccio, o questa, in cui il Papa si fa un selfie con il diavolo. O ancora questa, in cui Bergoglio abbandona la cristianità per correre tra le braccia di Satana.

ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Ma c’è una cosa in comune qua. È questa paperella gialla, che ai più non dice nulla ma agli esperti di comunicazione online, la paperella gialla è il simbolo delle proteste contro Putin e la corruzione di Mosca. Per cui praticamente simboleggia il fatto che Bergoglio è contro Putin. È un nemico del popolo russo, è un nemico di Putin e fa capire esattamente da che parte sta Gloria TV.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La redazione di Gloria TV ha sede in un piccolo paese del cantone tedesco della Svizzera, al piano terra di questa casa. Fuori c’è l’insegna, ma dentro la stanza sembra vuota.

GIORGIO MOTTOLA C’è qualcuno di Gloria Tv?

DONNA No, non c’è nessuno. Proviamo a suonare il campanello.

GIORGIO MOTTOLA E da quando non si vede nessuno? DONNA Non c’è nessuno da un anno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I responsabili di Gloria Tv non sono irreperibili solo per noi. In Italia hanno ricevuto diverse denunce ma i loro server sono registrati in Moldavia.

ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE E la cosa interessante è che adesso siamo qua nella pagina italiana, se andiamo nelle lingue…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ci sono tutte le lingue del mondo.

ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Tutte le lingue del mondo. E ovviamente chiunque sia pratico del web e sappia quanto costa gestire queste migliaia di contenuti in queste lingue, più il sistema come un social network, sa che sono cifre di centinaia di migliaia di euro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma capire chi ce li mette tutti questi soldi è un’impresa impossibile. L’unica cosa che sappiamo, infatti, è che il dominio appartiene a Church Social Media, una società completamente anonima che ha sede nel Delaware, il paradiso fiscale americano. E pensare che ufficialmente a fondare e gestire il sito è questo semplice prete di provincia, Reto Nay, sostenitore della messa in latino, sospeso dalla Chiesa Cattolica per le sua posizioni estremiste.

RETO NAY- FONDATORE GLORIA TV Il punto importante non è fare il bene, fare il bene è un punto assolutamente secondario! Dunque smettete questi discorsi socialisti, comunisti, di gente povera, del povero. Il primo povero della tua vita sei tu.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Mentre siamo davanti la sede di Gloria TV vediamo un uomo che prende la posta dalla cassetta della redazione. Ci sembra incredibilmente somigliante a una delle foto più recenti in cui compare Reto Nay. GIORGIO MOTTOLA È lei don Reto Nay?

GEMELLO RETO NAY No no.

GIORGIO MOTTOLA No, è lei, è proprio lei.

GEMELLO RETO NAY No, non sono io.

GIORGIO MOTTOLA Però mi scusi, sembra lei.

GEMELLO RETO NAY Sembra, sembra. Siamo fratelli.

GIORGIO MOTTOLA Siete identici.

GEMELLO RETO NAY Siamo, siamo, come si dice, zwilling.

GIORGIO MOTTOLA Perché volevo chiedere chi finanzia Gloria Tv.

GEMELLO RETO NAY Ah, no no no! Non c’entro. Non mi interessa, andate via.

GIORGIO MOTTOLA Come mai la società ha sede nel Delaware.

GEMELLO RETO NAY Non mi interessa. Arrivederci. GIORGIO MOTTOLA Anche i server sono registrati in Moldavia, come mai?

GEMELLO RETO NAY Andate via! Vaffanculo! Non mi interessa. GIORGIO MOTTOLA Ma come vaffanculo, non mi dica così.

GEMELLO RETO NAY Arrivederci! Ciao!

GIORGIO MOTTOLA Però non mi spinga così!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dal web alla politica il passo è breve Dal 2016 il fronte anti-bergogliano in Europa ha anche un partito ufficiale di riferimento. Si chiama Coalition pour la vie et la famille e lo ha fondato il belga Alain Escada, estremista di destra noto per le sue posizioni antisemite.

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE L’obiettivo del Papa è rovesciare la chiesa. Insieme a noi ne sono consapevoli cardinali, vescovi, capi di stato cattolici, capi di partito, presidenti di associazioni e movimenti cattolici del mondo. Tutti hanno capito che il Papa è un sovversivo. E quindi bisogna agire per fare in modo che abbandoni il trono pontificio. Dobbiamo al più presto sbarazzarci di Bergoglio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Destituire il Papa non è un obiettivo da poco. Per questo la Coalition, che in Europa è presente in otto paesi, ha chiesto soldi al Parlamento Europeo, e nel 2017 Bruxelles ha stanziato per il partito di Escada e per la fondazione collegata quasi 500 mila euro. Fondi però, sostiene Escada, che non sarebbero mai veramente arrivati. Nonostante ciò, la macchina di propaganda contro Bergoglio non si è mai fermata.

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Non è escluso che questo Papa sia manovrato da forze occulte.

GIORGIO MOTTOLA Che intende per forze occulte?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Alle Organizzazioni giudaico-massoniche che agiscono nell’ombra per opporsi all’influenza della chiesa cattolica.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Papa Francesco è l’espressione di un piano giudaico-massonico in Europa?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Oggi Papa Francesco partecipa e collabora al piano del nuovo ordine mondiale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cofondatore e segretario della Colation pour la vie et la Famille, è un italiano, Stefano Pistilli.

STEFANO PISTILLI – AMMINISTRATORE DELEGATO ARKUS NETWORK Salve a tutti, sono Stefano Pistilli, amministratore delegato di Arkus Network, amministratore unico di Amanda Tours.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con le sue società di cui è amministratore lo scorso anno Pistilli ha partecipato all’acquisto del Palermo calcio, senza però riuscire a salvarlo dal fallimento. Ma che c’entra un manager di azienda e aspirante dirigente calcistico come Pistilli con il più anti-bergogliano dei partiti europei, che usa argomenti così neo-nazisti?

GIORGIO MOTTOLA Come ha conosciuto Stefano Pistilli?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Una persona che forse conoscete, Roberto Fiore.

GIORGIO MOTTOLA Lo consociamo molto bene.

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Mi ha presentato molte persone.

GIORGIO MOTTOLA E nella coalizione lui rappresenta Roberto Fiore?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Sì, certo. Ma io sono legato anche a molta gente nella Lega.

GIORGIO MOTTOLA Lei con chi ha rapporti nella Lega?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Molti europarlamentari della Lega che mi hanno messo in contatto con l’ex ministro per la famiglia Lorenzo Fontana.

GIORGIO MOTTOLA Ha rapporti anche con Fratelli d’Italia? Giorgia Meloni?

ALAIN ESCADA – PRESIDENTE COALITION POUR LA VIE ET LA FAMILLE Certo! Ammiro profondamente la signora Meloni, una vera paladina della famiglia tradizionale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E siamo sempre là insomma. Chi è che attacca Bergoglio in nome dell’integralismo cattolico? Ecco c’è l’estremista di destra, il francese Alain Escada che ha in qualche modo fondato il partito, il movimento, la coalizione per la vita e la famiglia. Ha un cofondatore un italiano Stefano Pistilli, che è quello che ha rilevato il Palermo calcio, poi è fallito. E anche l’amministratore delegato di Arkus, un network che fa riferimento all’imprenditore Salvatore Tuttolomondo, un imprenditore coinvolto in vari fallimenti, tra cui quello della Fiscom, la finanziaria legata alle attività di Enrico Nicoletti, considerato il banchiere della banda della Magliana. Poi Pistilli lo troviamo anche in un trust con la figlia di Roberto Fiore. Un trust londinese. Insomma il giro è quello. E poi c’è Gloriai Tv, una tv online che strizza l’occhio alla Russia di Putin, sforna fake news, attacca continuamente Bergoglio, però ha la proprietà in Delaware. Ecco tra le virtù che predica, manca sicuramente la trasparenza. L’unico a metterci la faccia è il fratello dell’anchorman, fratello gemello che però quando gli chiedi spiegazioni, ha il vaffa facile. Almeno in questi casi, pare che l’integralismo cattolico nasconde invece quello politico. Fa eccezione invece chi osserva con rigore la dottrina cattolica il cardinale Raymond Burke però anche lui, quando gli vai a chiedere spiegazioni sulle intercettazioni imbarazzanti dove Paolo Arata gli chiede raccomandazioni per Siri e il figlio, glissa o preferisce negare. È ovvio che se vai a vedere dal buco della serratura la vita di ciascuno di noi, anche quella dei santi, qualche macchia la trovi. Noi preferiamo non entrare nelle critiche di natura teologica, perché è materia delicata e non è nostra competenza. Tuttavia registriamo che le critiche a Bergoglio nascono soprattutto da ambienti ultranazionalisti vicini a Putin e quelli dell’estrema e della destra ultra-cristiana vicini a Trump. E qua vengono rilanciati da ambienti neofascisti e nazi-fascisti. Insomma, più che un obiettivo al centro di una diatriba teologica Bergoglio sembra essere l’obiettivo di una guerra fredda. Proprio oggi che la Chiesa deve essere unita e deve sembrare unita. Perché ci sarà da raccogliere i cocci di un’umanità quando si uscirà dal virus. Non bisogna dimenticare, come dice lo stesso Francesco, che il vero potere è il servizio, prendersi cura delle persone più anziane, delle persone più fragili, quelle che abitano alla periferia del nostro cuore. E ora invece vediamo come le ha raccolte queste persone, la vita di queste persone, un fotografo, Tony Gentile, che ha osservato la vita degli altri dalla finestra, mentre consumava la sua quarantena. È stato il fotografo dei due Papi, soprattutto quello che ha immortalato Falcone e Borsellino, in quello scatto che è diventato simbolo della resilienza alla mafia.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Antropologia Comunista.

BREVIARIO DI ANTROPOLOGIA COMUNISTA. Michele Gelardi su L’Opinione il 6 ottobre 2020. L’uomo comunista è unidimensionale. La politica assorbe e plasma tutte gli aspetti della sua vita interiore ed esteriore, perché la sua mission è quella di “modificare” la società, non già quella meno pretenziosa di regolarne la dinamica spontanea, in modo che il diritto degli uni sia compatibile col diritto degli altri. Nell’ottica del comunismo, la dimensione del diritto e quella della politica si intrecciano fino a confondersi. Per tale ragione, il comunista è necessariamente giustizialista. Il comunista si è dato un compito: accompagnare i suoi simili “dalla culla alla tomba”. Si tratta ovviamente di “accompagnamento” coattivo, perché non si attende la richiesta e non si presuppone il consenso del soggetto beneficiario. Il beneficio è talmente ovvio ed evidente, che il consenso è scontato; e perciò è lecito presumerlo; sicché il destinatario di cotale beneficio non può opporsi in alcun modo. È vero che il compito dell’accompagnamento, in mancanza di base consensuale, è proprio dello Stato e non del singolo comunista, ma è vero altresì che l’entusiasta simpatizzante ne è idealmente ed emozionalmente partecipe. Egli abbraccia la fede e la Weltanschauung comunista, al punto che vuole dare un suo contributo personale alla realizzazione del programma di partito e - ça va sans dire - all’opera pedagogico-correttiva dello Stato-accompagnatore. D’altronde, è fin troppo chiaro che, in mancanza dell’uomo comunista, lo Stato comunista non potrebbe insediarsi. In questa logica, il diritto diventa parte integrante della politica e la competizione politica entra nelle aule dei tribunali. Proviamo a capirne le ragioni profonde. In base all’insegnamento del grande filosofo del diritto Bruno Leoni, la libertà dell’uomo deve molto alla distinzione tra il diritto e la politica: mentre nella dimensione giuridica vigono rapporti paritari, fondati sul libero consenso delle parti, la dimensione politica è caratterizzata da rapporti di supremazia (o potestativi o egemonici). All’arretramento del diritto corrisponde necessariamente l’ampliamento del dominio politico; il che significa che i rapporti potestativi, ossia autoritari, prendono il posto dei rapporti consensuali. Orbene, è proprio questo ciò che accade negli Stati che pretendono di accompagnare gli uomini dalla culla alla tomba: la dimensione politica fagocita quella giuridica, proprio per il fatto che il consenso del beneficiario non è richiesto di fronte al “beneficio” apportato dallo Stato. Se si può supporre che l’uomo giunto alla tomba non abbia bisogno delle attenzioni dello Stato educatore e dunque le esequie di Stato siano ideologicamente e politicamente neutre, la stessa supposizione non si può fare a riguardo dell’infante che riposa nella culla. Il bambino ha bisogno delle amorevoli cure di Stato e massimamente della sua sapiente educazione, pertanto lo Stato comunista non può che essere uno Stato educatore, giacché assiste l’uomo fin dal suo nascere. E avendoci preso gusto, continuerà a educare il bambino divenuto ragazzo e il ragazzo divenuto adulto e l’adulto divenuto anziano; usque ad vitae supremum exitum. Sicché, in ultima analisi, il programma politico di assistenza “dalla culla alla tomba” suppone necessariamente che lo Stato detenga un universo di valori rappresentativi del bene comune. Per tale via, si depotenzia il ruolo educativo delle famiglie e delle Chiese, mentre lo Stato si connota di eticità. E mentre l’etica si confonde con la politica, si confonde altresì la politica col diritto. L’educazione di Stato non può che essere uniforme, per la necessità logica che la norma giuridica regolatrice (dell’educazione) abbia vigore erga omnes, e coattiva, per la necessità logica che la norma giuridica sia effettiva e perciò assistita da sanzione, in caso di trasgressione. Ne deriva che la cognizione dei tribunali si estende ai valori di Stato, in relazione ai quali i cittadini devono essere educati, e dunque la politica entra trionfalmente nelle aule dei tribunali per tre vie, l’un l’altra connessa: a) i valori politici (di Stato) non sono più opinabili, ma divengono giuridicamente vincolanti; b) la norma giuridica diventa elastica; c) l’avversario politico del comunista commette reato. Il motivo sub a) è implicito in ciò che si è già detto. Nello Stato comunista tende a instaurarsi il “pensiero unico”, proprio perché l’educazione è correttiva e coattiva. I contenuti del programma educativo di Stato sono vincolanti, sicché l’intimo dissenso esprime devianza e la manifestazione pubblica del pensiero deviante diventa reato. Il motivo sub b) è dato dal fatto che il “pensiero unico” vincolante si traduce inevitabilmente in precetti “morali” o “moralistici” ad ampio spettro. La linea divisoria tra il Bene e il Male (sociale) non è così precisa come quella che separa il rispetto e la violazione del diritto altrui nei rapporti privatistici; può essere tratteggiata solo per grandi linee, essendo poi rimesso all’interprete del caso concreto individuarla. Ne deriva l’estrema opinabilità del fatto illecito e la grande discrezionalità del giudicante, in misura direttamente proporzionale al tasso di comunismo che caratterizza l’ordinamento. Il motivo sub c) risiede nel fatto che l’avversario politico del comunista è nemico del bene comune e pertanto la sua attività è di per sé antisociale. S’intende che, a protezione della società e dunque per il bene di tutti, l’antisocialità va combattuta e repressa. In ragione di ciò, il comunista, il quale per definizione nutre simpatia per il comunismo, ossia per un ordine dei rapporti sociali, fondato sulla figura dello Stato che assiste ed educa la persona individuale “dalla culla alla tomba”, non può non essere giustizialista, instancabilmente dedito a invocare “giustizia”, ogni volta che ritenga in gioco un possibile vulnus alla sua Weltanschauug divenuta nel frattempo “pensiero unico”. E si può senz’altro formulare una legge universale: quanto più avanza il comunismo, tanto più la politica invade il campo del diritto e fa ingresso nelle aule dei tribunali. Da questo punto di vista, il primato nel mondo occidentale appartiene all’Italia, in cui si celebra ogni giorno un doppio processo “politicamente sensibile”, in tribunale e nella pubblica piazza.

Il dubbio progetto di ingegneria sociale. Redazione culturaidentita.it il 6 Ottobre 2020 su ilgiornale.it. Sul nuovo numero di CulturaIdentità in edicola dal 2 ottobre Alfonso Piscitelli firma un articolo sull’inquietante forma di ingegneria sociale adoperata sugli immigrati, impiegati per ripopolare i borghi in asfissia demografica. Conosciamo bene gli scenari di Londra (dove gli immigrati di seconda e terza generazione chiedono l’istituzione della sharia) e di Parigi (le banlieu diventate terra di conquiaùsta di un’immigrazione refrattaria all’integrazione) e le vie delle altre metropoli europee, ma se invece il fronte avanzato della immigrazione più invasiva fosse il “paese mio che sta sulla collina”?. Prima Beppe Severgnini con la sua idea di ripopolare di immigrati le aree rurali, poi la CGIL che propone addirittura la Sardegna come luogo in cui effettuare questo esperimento di ingegneria sociale volto a colmare il gap demografico d’Italia: “Paesini dimenticati da decenni diventano così il target di una nuova immigrazione pilotata”, scrive Piscitelli, in nome del “guadagno per gli imprenditori dell’accoglienza, anche nei borghi più sperduti, anche dove non c’è un campo di pomodori a giustificare la presenza di immigrati”, con le omelie benedicenti dei vescovi pro immigrazione.

·        I Comunisti e la Chiesa.

I tre libri a 100 anni dalla nascita. Il PCI fu un’eresia cristiana, Maritain ci vide giusto. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 15 Novembre 2020. L’avvicinarsi del centesimo anniversario della scissione di Livorno sta favorendo l’uscita di vari libri che cercano di trarre dei bilanci equilibrati di quello che è un pezzo di storia d’Italia. Devo dire che più leggo questi volumi più sono portato a valorizzare la chiave di lettura, oggi poco nota, che risale a Jacques Maritain, cui si deve la puntuale definizione del comunismo come “ultima eresia cristiana”. Eresia perché separava la verità cristiana dell’istanza della redenzione del mondo dall’altra verità non superabile, anche e soprattutto dalla politica, della finitezza umana, che si esprime nell’idea del peccato originale. Nel 1944 in poche ma penetranti pagine di Cristianesimo e democrazia, Maritain ne parla come di un’eresia «fondata sulla negazione coerente e assoluta della trascendenza divina, un’ascesi e una mistica del materialismo rivoluzionario integrale», ma formula anche una profezia, segnalando la possibilità che «una rinascita del pensiero e dell’azione democratica riconcili con la democrazia, col rispetto delle cose dell’anima, coll’amore della libertà e col senso della dignità della persona… molti comunisti per sentimento e molti di coloro che un senso di ribellione contro le ingiustizie sociali rende inclini al comunismo» perché, e questo è il punto chiave, «i comunisti non sono il comunismo». Ossia, come avrebbe poi tradotto Giovanni XXIII, la complessità di giudizio su un movimento storico non può essere ridotto all’analisi dell’ideologia da cui esso scaturisce. Perché la profezia di Maritain si realizzasse, come in effetti è realizzata dopo il 1989 in Italia, unico caso in cui una parte maggioritaria, ancora quantitativamente consistente, del movimento storico che aveva conservato i nomi e simboli del comunismo ha accettato, con varie contraddizioni e problemi, di rimettersi in gioco, era però necessario superare il mito della riformabilità interna dell’Urss. Un mito che, paradossalmente, l’esperienza gorbacioviana, destinata a seppellire quel sistema, aveva confermato nel Pci tra 1985 e 1989. Come era possibile immaginare la riformabilità interna? A partire dal mito dell’innocenza originaria dell’affermazione del comunismo in Urss. Anche qui ci troviamo di fronte a una secolarizzazione di quanto avviene nelle Chiese cristiane: di fronte alle contraddizioni anche gravi del tempo presente si riparte dalla vitalità del messaggio originario per produrre degli aggiornamenti. Il punto è che le chiese cristiane partono da un avvenimento che è impossibile vedere come negativo o contraddittorio (una persona che è crocifissa), ma qui l’origine, l’azione decisiva di Lenin, si può descrivere come positiva? Rispondono puntualmente Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro ampio testo Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia, edito da Marsilio: «È evidente che l’azione di Lenin, con lo scioglimento dell’assemblea costituente e lo svuotamento del potere dei Soviet, era sfociata in una dittatura comunista» (p. 111). Idem Andrea Romano nel suo Il partito della nazione. Cosa ci manca e cosa no del comunismo italiano, Paesi Edizioni: «Lo schema che reggeva questa e tutte le successive declinazioni del mito della riformabilità del sistema sovietico si fondava sull’immagine di un “leninismo buono” che sarebbe stato successivamente distorto dallo “stalinismo cattivo”. Per questo l’entusiasmo del Pci per Gorbaciov superò di gran lunga quello (molto più tiepido) mostrato da altri comunismi occidentali, per non parlare dell’aperta diffidenza venuta dai regimi autoritari dell’Europa Orientale (che nella perestrojka videro, e giustamente, l’annuncio della propria imminente estinzione”» (pp. 38-39). Se il mito originario non era recuperabile era quindi vana “la ricerca di questa introvabile terza via” tra comunismo realizzato e socialdemocrazia da parte di Berlinguer e dei suoi più diretti successori (Pendinelli-Sorgi, p. 208). A ciò si aggiunge anche la puntualizzazione della seconda edizione appena uscita del volume di Claudio Petruccioli Rendiconto. La sinistra italiana dal Pci ad oggi edito da La Nave di Teseo a proposito dell’espressione di Berlinguer sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre dopo l’autogolpe di Jaruzelski. Proprio nel momento in cui veniva espresso un giudizio severissimo e irreversibile veniva però salvata la bontà del mito originario, «il fatto che il 1917 fu considerato la rottura di un sistema e il passaggio finalmente possibile ad un altro sistema. È questo l’errore di cui liberarsi» (pp. 334-339). Se però l’ideologia era sbagliata perché allora quel movimento storico è stato consistente in Italia fino alla sua evoluzione successiva, mentre negli altri paesi occidentali arrivati al fatidico 1989 i partiti comunisti erano già marginali da anni? Romano ci parla della volontà di rottura con il tradizionale massimalismo socialista (p. 82) e più in generale, sia pur dovuta a un organicismo un po’ retro, ad un’impostazione che cercava di tenere presente l’intera società italiana quale essa era nella realtà effettiva: «la visione di una società che già negli anni Trenta si immaginava tenersi insieme senza fratture o divisioni per essere traghettata come un organismo univo verso il socialismo» (p. 49), una sorta di partito della nazione ante litteram. Un’applicazione particolare di questa impostazione si era avuta col voto alla Costituente sull’articolo 7 e più in generale con la realistica presa d’atto del radicamento particolare della Chiesa cattolica in Italia, come sottolineano Pendinelli e Sorgi (pp. 153-233). È del resto quanto ha tradizionalmente insegnato Pietro Scoppola, spiegando come quel voto sia stato uno dei passaggi chiave per favorire l’egemonia del Pci nella sinistra a spese del Psi a partire dalle elezioni del 1948. Paradossalmente questi pregi, il rifiuto del massimalismo, la volontà di cambiare la società italiana tenendo però effettivamente conto delle sue caratteristiche effettive, che sono e restano tali anche oggi, erano però in origine legati appunto al difetto di impostazione di un’eresia religiosa secolarizzata. Era così certo il conseguimento dell’obiettivo finale, della felicità sulla terra, che non era il caso di abbandonarsi ad estremismi controproducenti. Va segnalato inoltre un secondo paradosso di sistema: l’estrema flessibilità, la capacità di radicamento nell’intera società italiana e non solo nella classe operaia, la scelta togliattiana di un partito di popolo e non di una setta di rivoluzionari, ha fatto del Pci un partito capace di durare per decenni in ruoli importanti, ma il fatto che mantenesse un legame sia pure residuo con l’Urss ha contribuito a paralizzare la possibilità dell’alternanza, che invece ci sarebbe stata se a dominare a sinistra fosse stato un partito socialdemocratico. Basti rileggere uno dei passaggi chiave dell’ultimo discorso di Aldo Moro ai suoi gruppi parlamentari, cioè del leader che più di tutti cercò di andare oltre la frattura della Guerra Fredda ben prima del fatidico 1989: «Sappiamo che c’è in gioco un delicatissimo tema di politica estera, che sfioro appena, nel senso che vi sono posizioni che non sono solo nostre ma che tengono conto del giudizio di altri Paesi, di altre opinioni pubbliche con le quali siamo collegati, quindi dati di fatto obiettivi. Sappiamo che vi è diffidenza in Europa in attesa di un chiarimento ulteriore sullo sviluppo delle cose». Quali contraddizioni ha portato con sé questo traghettamento di un’eredità così contraddittoria agli appuntamenti successivi? Come spiega Petruccioli «una parte di noi ha voluto la svolta per ‘uscire’ dal Pci, mentre un’altra l’ha subita per ‘restarci’… Per i primi veniva meno la costrizione, poteva cominciare la libertà; per i secondi scompariva non un modello, perché neppure loro apprezzavano il "socialismo reale", ma la "forza". Due modi di intendere e di vivere la politica» (pp. 295-304-305). Del resto, in modi del tutto diversi, anche nell’altra più consistente cultura politica approdata nel Pd, quella del cattolicesimo democratico, la fine dell’unità politico-elettorale che era legata in modo indissolubile all’egemonia comunista sulla sinistra, è stata vissuta da alcuni come la liberazione da una costrizione e da altri come una necessità cui rassegnarsi. In questo senso, per capire meglio le vicende politiche, esse non possono mai essere lette a compartimenti stagni: come scrive Petruccioli «non solo nella politica, ma nella vita, nessuno è, e basta; tutti, anche diveniamo»(p. 224).

Callisto, martire della violenza comunista. Daniele DellOrco su culturaidentita.it il 26 Agosto 2020. Il coraggioso missionario difese i cristiani cinesi dalle persecuzioni di Pechino. Si arrabbiano i Cuorgnatesi, con ragione, quando su Wikipedia leggono che San Callisto Caravario è nato a Torino. Perché mai la città di Cuorgné non dovrebbe essere ricordata come luogo natale di un moderno martire e santo? La testimonianza non manca: all’ingresso della casa di via Trento, da poco ristrutturata, una stele marmorea ricorda quell’8 giugno 1903, quando Callisto venne al mondo, ed una cappella al piano terreno ne perpetua la memoria. Cappella consacrata nel 2017 dall’arcivescovo di Hong Kong Joseph Zen, quello stesso cardinale che impavido difende i cattolici cinesi fedeli alla Chiesa di Roma dalle persecuzioni di Pechino. Un vero passaggio di testimone, tra Zen e quel prete dall’aspetto austero e dal cuore d’oro che, adolescente, si trasferì con la famiglia a Torino, frequentando il quartier generale salesiano di Valdocco, nel quale la sua fede maturò con energia e coraggio. In quegli ambienti conobbe monsignor Luigi Versiglia, salesiano missionario dallo spirito combattivo, nel 1920 consacrato vescovo di Shaoguan. Due anime elette, votate entrambe al martirio. Nel 1924, animato da spirito missionario, Callisto raggiunge la Cina, prima a Shanghai per imparare la lingua, poi a Timor. La collaborazione entusiasta con monsignor Versiglia è sostenuta da una fede autentica ed incrollabile, orientata a far crescere le numerose missioni cattoliche già sopravvissute, nonostante tutto, alle violente rivolte dei boxer, il cui odio anticristiano è ribadito dai comunisti che hanno nel frattempo preso il potere. È il 25 febbraio 1930 quando don Caravario, consacrato sacerdote solamente un anno prima dallo stesso Versiglia, insieme al suo vescovo e ad alcuni giovani cinesi si dirigono in barca verso Linchow per una visita. Fermati da un gruppo di pirati bolscevichi sul fiume Beijiang, viene richiesto loro un pedaggio pesantissimo, che non riescono a pagare. La furia anticristiana dei pirati si scatena: oggetti sacri devastati, libri bruciati. E poi, quell’attenzione alle tre ragazze, che non esitano a richiedere come pedaggio. Qui, i cuori di Callisto e del suo vescovo fanno da scudo alle giovani. Sangue venerabile viene versato, e non invano: le donne, liberate dall’esercito, si salveranno e ricorderanno il martirio dei due Salesiani. Ma un’altra testimonianza rimane, tra realtà e leggenda. Si narra che uno dei pirati rimase sconvolto da come i due affrontarono la morte: “Tutti hanno paura di morire, ma quei due sembrava che ne fossero felici”. D’altronde Callisto, canonizzato insieme a Versiglia il 25 febbraio 2000 da Papa San Giovanni Paolo II, ricordava in una lettera alla madre, il giorno della sua ordinazione: “Sarà breve o lungo il mio sacerdozio? Non lo so, l’importante è che io (…) possa dire d’aver, col Suo aiuto, fatto fruttare le grazie che Egli mi ha dato”. Appena un anno dopo, avrebbe lasciato traccia indelebile nella storia del Cristianesimo

La città ideale del comunismo dove provarono a uccidere Dio. Daniele Dell'Orco il 25 agosto 2020 su Inside Over. Più che la promessa della realizzazione di un sogno, quella che Josif Stalin in persona fece a Bolesław Bierut, il primo presidente della Repubblica Popolare Polacca, nel 1946-47 aveva le sembianze dell’ordine insindacabile. Alle porte della borghese, cattolica e conservatrice Cracovia sarebbe dovuto sorgere un agglomerato urbano mastodontico, Nowa Huta, capace di portare fino dentro le case degli operai polacchi la luce del realismo socialista. Meno di due anni dopo, il progetto di costruzione della “città ideale” del comunismo staliniano iniziò a diventare realtà, una realtà da sviluppare attorno a Huta im. T. Sendzimira, un complesso siderurgico creato in parallelo ai nuclei abitativi che, con più di 30mila operai, diede vita al principale centro di produzione d’acciaio d’Europa. E dalla piazza centrale di Nowa Huta, che neanche a dirlo venne intitolata a Stalin, si “irradiano” cinque strade in cinque direzioni geometricamente perfette. A 45 gradi l’una dall’altra, le due diagonali dopo poche centinaia di metri sono unite trasversalmente da un’altra megastrada, che nella pianta del quartiere forma così un diamante. Il diamante, prima grezzo, poi man mano raffinato, dal duro lavoro degli operai, i “soldati” del comunismo. Oggi quella stessa piazza, la Plac Centralny, si chiama “Ronalda Reagana”, e al momento dell’arrivo da una qualsiasi delle cinque direzioni è impossibile non notare il monumento eretto per celebrare Solidarność, il sindacato antisovietico che nacque sì dai cantieri navali di Danzica, ma che riuscì a condurre il suo leader, Lech Wałęsa, fino alla dissoluzione del regime comunista in Polonia anche grazie alle rivolte e agli scioperi degli operai di Nowa Huta. Wałęsa che in qualche modo fa rima con Reagan, visto l’appoggio che il presidente americano non fece mai mancare a Solidarność e visto che fu proprio Wałęsa a inaugurare nel 2011 la statua di Reagan a Varsavia, mentre è nell’atto di pronunciare la storica frase “Mister Gorbaciov, tear down this wall” (“abbatta questo muro”) dalla Porta di Brandeburgo. Nowa Huta, che è ormai un sito urbanistico inglobato da Cracovia pur essendo a dieci chilometri dal centro, è un quartiere con spina dorsale. Ci vivono 250mila persone (anche per via dei costi relativamente bassi degli affitti, circa 200 euro al mese), molte delle quali non ruotano più attorno al complesso siderurgico che oggi è di proprietà dell’indiana Arcelor Mittal. Ma di “autoctoni” ce ne sono ancora. E sono piuttosto reticenti quando si finisce a parlare di storia. Una storia complicata che si sviluppa tra i palazzoni grigi molto nascosti dal curatissimo verde (eredità della mentalità sovietica) e divisi tra loro in semplici blocchi schematici: A, B, C e D. Una storia legata anche a un’altra inestimabile figura del Novecento: l’allora arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyła. L’ideologia staliniana prevedeva la cura e la formazione del perfetto cittadino sovietico attraverso case popolari, fabbriche, scuole. E, per gli imprevisti, ospedali. Non certo chiese. Anzi, gli operai non dovevano affidarsi a Dio per la salvezza della loro anima. Era il marxismo-leninismo, semmai, a doverli difendere da Dio. E infatti, nei primi 15 anni della sua esistenza a Nowa Huta non venne mai edificata alcuna chiesa. Nel 1960 gli abitanti, che provenivano da diverse aree rurali della Polonia, in cui la fede era (ed è) radicatissima, chiesero all’allora segretario generale del Partito Comunista polacco, Władysław Gomułka, uomo simbolo del “disgelo polacco”, di poterne costruire una. La sua sorprendente accondiscendenza però venne ben presto tradita. Giusto il tempo per i cittadini di piazzare una croce in legno tra via Marx e via Majakovskij in attesa che la raccolta fondi potesse riuscire a coprire i costi di costruzione, che il regime fece dietrofront. Per la volontà, ufficialmente, di costruire proprio lì e proprio in quel momento la scuola n. 87 del quartiere. Il 27 aprile 1960 a migliaia si recarono a difesa della croce, sprezzanti del pericolo di essere rastrellati dalla Zomo, la milizia paramilitare della Polonia comunista. A capo di questa spedizione che annovera operai, donne, bambini e anziani c’era Karol Wojtyła. La guerriglia che ne scaturì rende Nowa Huta irraggiungibile per giorni, isolata dal resto della Polonia, censurata sui media e privata addirittura dell’energia elettrica. La “città ideale” del comunismo divenne una trincea. Entro breve, la Zomo riuscì a riprendere il controllo della situazione, ma la “guerra” era tutt’altro che conclusa. Per anni i cittadini di Nowa Huta continuarono ad edificare croci in legno. Puntualmente abbattute. E puntualmente ricostruite. Memorabile una delle omelie pronunciate da Wojtyła la notte di Natale (dagli anni delle rivolte diventò un appuntamento fisso recarsi a Nowa Huta per le celebrazioni), incurante del tremendo freddo polacco: “Oggi a mezzanotte tutta la Chiesa nel mondo intero, su tutta la faccia della terra, dà di nuovo il benvenuto al Salvatore del mondo, che è nato a Betlemme. Lo saluta il Santo Padre celebrando a quest’ora la Messa di mezzanotte nella basilica di San Pietro. Lo salutano i vescovi in tutti i Paesi su ogni continente del mondo. Lo saluta la Chiesa di Cracovia qui a Nowa Huta. Noi veniamo qui per Gesù. Per Gesù noi cerchiamo un tetto”. Il permesso di costruire arrivò solo anni più tardi, nel maggio 1977 con la consacrazione del complesso di Arka Pana (“Arca del Signore”) ad opera dello stesso Wojtyła. Due anni dopo, da papa, Giovanni Paolo II tornerà nella sua Polonia, ma gli venne impedito di recarsi in visita a Nowa Huta. Il regime aveva capito. La “guerra” era persa, e nel nuovo contesto della perestrojka e del progressivo collasso dell’Urss quella fu una primissima crepa. La Nowa Huta che ne è sorta porta i segni di un passato ingombrante, col piedistallo che sorreggeva la statua di Lenin ben presente in “Viale delle rose” e con diverse “latterie” (bar mleczny, le trattorie economiche aperte solo di giorno in cui era proibito servire alcool) aperte in stile originale. Ma in questo strepitoso monumento a cielo aperto dal rigore geometrico e dal trionfo di calcestruzzo, ormai si respira un’aria completamente nuova.

Mandel'stam, lettere dall'inferno quotidiano. Negli scritti agli amici e alla moglie Nadja risalenti agli anni '20 e '30, il ritratto dell'orrore sovietico. Davide Brullo, Mercoledì 26/08/2020 su Il Giornale. Impararono a parlare con i morti, a nascondere le poesie dentro la federa dei cuscini, fedeli, forse, al futuro. «Ho voglia di vedervi. Sapete che sono in grado di sostenere una conversazione immaginaria soltanto con due persone: con Nikolaj Stepanovie con voi», scrive Osip Mandel'stam ad Anna Achmatova, siamo nel 1928 e un corrusco crepuscolo, da anni, grava sulla Santa Madre Russia. Nikolaj Stepanovi Gumilëv, marito della Achmatova, il poeta audace che aveva fondato, nel 1910, la gilda degli «acmeisti», volontario durante la Grande Guerra, volitivo, amante dei safari, certo di far fuori i bolscevichi con la stessa spensierata ferocia con cui ammazzava i leoni in Africa, era stato fucilato nel 1921. L'anno prima il governo «rivoluzionario» aveva chiuso, per decreto, le imprese editoriali private, sostituite dal fatidico «Gosizdat», le Edizioni di Stato che, di fatto, controllavano ciò che si pubblicava e tenevano sotto il giogo dello stipendio scrittori, poeti, intellettuali («Per un mese intero il Gosizdat ci ha dimenticati, siamo rimasti senza entrate, senza un lavoro stabile», scrive, nel 1925, al padre, Mandel'stam). Dal 7 novembre del 1917, d'altronde, con metodica violenza, Lenin aveva varato il Decreto sulla stampa, «che introduceva la censura e chiudeva tutti i giornali e le riviste che avevano un atteggiamento critico nei confronti del potere» (Andrej Siskin). Vladimir Majakovskij, il poeta della Rivoluzione, aitante, funambolico, geniale, fu marginalizzato nel 1919 impedendo al suo Comitato comunista-futurista di evolvere in partito politico; dal 1921 controllando il numero di copie stampate dei suoi libri fino al suicidio, accaduto nel 1930. Osip Mandel'stam (1891-1938), al contrario, pareva innocuo, stralunato, estraneo ai clamori della Storia. La sua calligrafia pende, incerta, come una traccia di muschio; il viso, nelle fotografie, pare un'anfora di vetro. «Senza piegarsi ai temi della contingenza politica, devoto sempre a un ideale di armoniosa bellezza, egli ha guardato la realtà come dall'alto di un'acropoli... Sotto il suo fatalismo talvolta l'immagine tortuosa e delirante del tempo è più viva che in tanti sonatori d'oricalchi»: così lo ha descritto Angelo Maria Ripellino. Voleva scrivere poesie, non ritenne opportuno iscriversi all'Unione degli scrittori sovietici, «Io so la scienza dei commiati, appresa/ fra lamenti notturni e chiome sciolte», recita la poesia più nota, Tristia, che si riferisce al grande poema di Ovidio scritto dall'esilio di Tomi, l'attuale Costanza, in Romania, sul Mar Nero. Si sentiva in esilio, non avrebbe mai pensato di essere il simbolo di «una generazione che ha dissipato i suoi poeti», secondo la formula di Roman Jakobson. Tra il ragazzo neanche diciottenne, vago per natura («Non nutro alcun sentimento preciso nei confronti della società, di Dio e dell'uomo, ma tanto più intensamente amo la vita, la fede e l'amore...»), che scrive al poeta Vladislav Gippius, da Parigi, «Vivo, qui, una vita assai solitaria e non mi occupo quasi d'altro che di poesia e di musica», e quello che, trent'anni dopo, da Vladivostok, arrestato per «Attività controrivoluzionaria» (didascalia buona per tutti, soprattutto per gli innocenti), riferisce ai familiari, un attimo prima della morte, «Sono sull'orlo dello sfinimento. Sono dimagrito, quasi irriconoscibile», c'è il ritratto, a colpi di mannaia, dell'orrore sovietico. Leggere l'Epistolario. Lettere a Nadja e agli altri (1917-1938) di Osip Mandel'stam, pubblicato da Giometti&Antonello (pagg. 254, euro 28; a cura di Maria Gatti Racah) - libro dedicato a Danni Antonello, poeta, libraio, anima della casa editrice, morto nel 2017 - fa bene. E tormenta. Con microscopico cinismo, il regime sovietico soffoca il poeta; non lo sfida, colpisce ai lati, con spudorata crudeltà. Al poeta se privo di padrini, padroni e tessere di partito viene sottratto tutto: il lavoro, le scarne amicizie, la dignità. Finché soccombe: si ammazza (Marina Cvetaeva, Majakovskij) o viene arrestato per una franca sciocchezza. «Quel che succede è indegno e spaventoso. È l'ultima tappa della putrefazione. Viltà, menzogna, piaggeria. Che mi scannino pure, ma io esorto i compagni tutti a salvaguardare il proprio onore e quello della letteratura». Estate 1929. La trappola si stringe intorno a Mandel'stam. Thomas Mayne Reid, scrittore irlandese naturalizzato americano, non vi dice nulla, ora è arso dall'oblio, scriveva di pistoleri e pellerossa (pardon, «nativi»). Mandel'stam traduce un suo romanzo, rimaneggiando traduzioni altrui. L'editore sovietico si dimentica di menzionare gli antichi traduttori. Scatta l'accusa di plagio, la persecuzione. Così, il 13 marzo del 1930, alla moglie: «Cara, è così dura per me, sempre così dura, e ora non trovo le parole per raccontarlo. Mi hanno imbrigliato, mi tengono come in prigione, non c'è luce. Continuo a voler scollare via la menzogna e non ci riesco, continuo a voler lavare via il fango e non si può. C'è forse bisogno di dirti come sia tutto, tutto, tutto delirante, come un atroce, torbido sogno?». Il regime toglie l'aria al poeta; il poeta viaggia, studia, si ribella. Nel 1933 pubblica Viaggio in Armenia libro meraviglioso, ma giudicato dagli organi burocratici «prosa da lacché» e la Conversazione su Dante. In una manciata di versi ritrae con lirica efficacia il profilo politico di Stalin: «Forgia un decreto dopo l'altro come ferri di cavallo:/ a chi lo dà nell'inguine, o fra gli occhi, sulla fronte o nel muso.// Ogni morte è una fragola per la sua bocca». Basta questo per il primo arresto e la gita rieducativa a Vorone. Gli amici la Achmatova e Boris Pasternak, di cui si sente devoto allievo: «voi vi prendete cura della vita, e con essa di me, che non vi merito, che vi amo immensamente» lo sostengono economicamente, si fanno carico della sua causa. I più, lo dimenticano, anche il fratello. «Di soldi per me non ne hai. Significa che per te sono superfluo», gli scrive Mandel'stam, al principio del 1937, già ridotto allo stremo («La mia salute è tale che a 45 anni ho conosciuto le delizie degli 85»). Verrà arrestato, in forma definitiva, l'anno dopo, in primavera. Secondo una pia leggenda, il poeta incoraggiava i prigionieri recitando a memoria alcune poesie di Petrarca. In verità, il poeta muore nel fango, al freddo, abbandonato. «La vita è lunga. Com'è lungo e difficile morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi, inseparabili, tocchi questo destino?»: questa lettera, scritta da Nadeda, la fedele e tenace moglie di Mandel'stam, non arriverà mai a destinazione. È esistita un'epoca in cui era consuetudine scrivere lettere d'amore ai morti. 

·        I Comunisti ed il Nazismo.

La sinistra ama i dittatori. Folle piazza comunista. A Dalmine una mozione li condanna insieme a fascismo e Islam radicale. E i rossi insorgono. Alberto Giannoni, Lunedì 28/09/2020 su Il Giornale. La «mozione della vergogna», la «scandalosa mozione» «tanto vergognosa quanto inaccettabile». La «mozione della discordia» che «non deve passare». Per non farla passare oggi arriveranno a Dalmine (Bergamo) anche da Brescia e da chissà dove: i compagni del Partito comunista bresciano troveranno in piazza tutta la sinistra, e i compagni della Cgil e l'Anpi, che «esprime profonda preoccupazione», per il «messaggio strumentale e populista» contenuto nella mozione, oltretutto «privo di qualsiasi fondamento scientifico». Ma cosa prevede mai questa «mozione della vergogna» che sarà discussa e approvata stasera nel centro industriale della Bergamasca? Ebbene, ricalca l'impostazione della risoluzione approvata esattamente un anno fa al Parlamento europeo, quella che equipara fascismo e comunismo. E perché mai a Dalmine si discute di fascismo e comunismo? Perché nel 2017 la maggioranza consiliare (allora di centrosinistra) introdusse anche a Dalmine - come a Milano e in tanti altri Comuni d'Italia - una norma che poneva come condizione per ottenere sale o spazi comunali, o per occupare il suolo pubblico, una dichiarazione di fedeltà alla Costituzione e ai «valori antifascisti e antinazisti». E la maggioranza che regge il Comune adesso (di centrodestra) ha semplicemente pensato di integrarla con una dichiarazione di rispetto della Costituzione italiana e di «condanna di tutti i regimi e le ideologie ispirate al nazismo, al fascismo e al comunismo, nonché ai radicalismi religiosi». Un rifiuto del totalitarismo insomma, categoria che ben comprende anche i regimi islamisti e ogni altra forma di violenza religiosa. Ineccepibile. Eppure l'intera (intera) sinistra lombarda è mobilitata contro questa ineccepibile (e si direbbe banale) integrazione, suffragata da una risoluzione del Parlamento europeo. «Cosa c'è che non va? Bella domanda - sorride il vicesindaco e assessore alla Cultura, Gianluca Iodice (Forza Italia) - l'idea è di una consigliera, Antonietta Zanga, eletta nella mia stessa lista, Noi siamo Dalmine. Questa signora iscritta a Fdi, ma di certo non incline al fascismo, ha sempre dovuto firmare il vecchio modulo, che richiedeva questa sorta di fedeltà antifascista, e ovviamente ha pensato non già di eliminare questa previsione, anche perché non aveva alcun problema a sottoscriverla, ma di integrarla. Lo ha proposto ai gruppi di maggioranza, che hanno accolto la proposta, e insieme abbiamo scritto la mozione». «Personalmente - aggiunge Iodice - nel 2017 alla fine ho votato a favore di quella norma. Avevo qualche dubbio, perché consideravo ridondante quella dichiarazione, a mio avviso non c'era niente da aggiungere rispetto alla fedeltà alla Costituzione, e in più vedevo il problema di una dichiarazione che sanzionava non l'iniziativa fascista, o la manifestazione fascista ma il fascista in sé, che non avrebbe potuto neanche vendere le azalee per la ricerca sul cancro. Comunque votai a favore, sono un liberale conservatore, un moderato, votai a favore, anche se si capiva che l'obiettivo non era Casa Pound, che pareva dovesse prendere il 40%». «Ora - conclude - vorrei capire perché una sinistra normale non può votare questa versione e perché non riesce a liberarsi delle frange comuniste, perché tradisce una risoluzione europea, perché si fa guidare da compagni che fanno la campagna elettorale col colbacco a giugno e difendono la Cina, o non distinguono la Caritas dagli islamisti. Perché nel 2020 è ancora giustificazionista rispetto a dittature sanguinarie? Albert Einstein diceva che la follia sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Lo dirò in Consiglio, se potrò parlare».

L'alleanza nazisovietica. Una non aggressione è il contrario di un'aggressione? Storia del patto Ribbentrop Molotov, l’alleanza tra Hitler e Stalin. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Settembre 2020. Due anni fa, avendo trovato un filmato che ancora non conoscevo, scrissi un lungo articolo sull’alleanza fra Hitler e Stalin, nota come Trattato di non aggressione Ribbentrop-Molotov, in cui descrivevo quel che chiunque può vedere nei filmati: i generali e i soldati, sia dell’esercito nazista che di quello sovietico partecipano a una comune parata militare a Brest Litovsk (oggi Brest in Bielorussia). Lì l’Armata Rossa rende onore alla Wehrmacht nazista con fanfare e festoni e con bandiere con stella falce e martello più svastica, pranzo di gala con limousine nere e volti sparuti di bambini polacchi ebrei che non sanno ancora quel li aspetta. Quel che aspettò me fu una caterva di insulti su questo tono: «Come ti permetti lurido mascalzone di infangare l’onore dell’Unione Sovietica che ha da sola sostenuto e respinto con più di venti milioni di morti l’invasione nazifascista?».

E poi, quanto al “patto di non aggressione” Ribbentrop-Molotov mi veniva spiegato per l’ennesima volta che si trattò di un capolavoro di astuzia di Stalin il quale, perfettamente consapevole del fatto che prima o poi Hitler avrebbe aggredito l’Urss, stipulò quel “patto di non aggressione” che gli fece guadagnare tempo prezioso durante il quale le divisioni dell’Armata Rossa e le industrie belliche furono trasferite fin sugli Urali, sicché poi quando venne il momento, l’Urss guidata da Stalin e un gruppo di magnifici generali seppero resistere, e conquistare Berlino, costringendo Hitler al suicidio e la sua cricca alla forca. Comunque, una non-aggressione è pur sempre il contrario di una aggressione, o no? Ecco il punto. No. Tutto quel che c’è da sapere su questa storia è pubblico ed accessibile a tutti. Ma l’intera storia non è stata mai raccontata se non in modo sfuggente. La storia del “patto” è tragicamente imbarazzante sia per come cominciò che per come finì. Cominciò quando, nel luglio del 1939, Hitler pensò che fosse ora di riprendere la conquista incompiuta in Europa, dove aveva già occupato tutte le zone tedescofone, compresa la Cecoslovacchia, e l’aveva fatto con il permesso di Francia e Inghilterra alla conferenza di Monaco del 1938, organizzata da Benito Mussolini. Stalin a Monaco non fu invitato. E neanche i cecoslovacchi furono invitati. Stalin se la legò al dito, considerando i paesi capitalisti e imperialisti (ma non la Germania nazional-socialista) come traditori. Francia e Inghilterra a Monaco avevano avvertito Hitler che la Cecoslovacchia era da considerare l’ultimo acquisto tedesco e che se per caso Hitler avesse attaccare la Polonia, Francia e Inghilterra sarebbero intervenute in sua difesa. Il primo ministro inglese Neville Chamberlain tornò a Londra sventolando sorridente un trattato firmato anche da Hitler che avrebbe dovuto garantire la pace per vent’anni. Fu allora che Winston Churchill commentò: «Hanno svenduto l’onore per la pace e otterranno il disonore e la guerra». La Polonia stessa pretese a Monaco un pezzo di Cecoslovacchia. Tutti mostravano enormi appetiti dopo la fine della Prima guerra mondiale, che aveva scoperchiato un’Europa di mille lingue e costumi, senza confini, ma con molte ambizioni e dagli anni Venti in poi era stata un teatro di colpi di mano, rivoluzioni mancate e formazioni di milizie. Hitler l’aveva scritto con estrema chiarezza nel suo Mein Kampf: al mondo sarebbero dovute restare soltanto due potenze di stirpe tedesca, la Germania e la Gran Bretagna, che considerava un Paese consanguineo con cui sperava di fare la pace. Che non venne mai. Quanto all’Est, era stato molto chiaro: tutti gli slavi andavano trattati da sotto uomini, da sottomettere o eliminare e comunque da cacciare dalle grandi pianure destinate a costituire lo «spazio vitale» del grande e potente «popolo tedesco». Stalin si era fatto tradurre personalmente il Mein Kampf e lo aveva letto sottolineandolo con una matita azzurra. In quel libro erano anche nominati tutti i capi della rivoluzione bolscevica, lui compreso, come assassini, banditi da strada e – nel caso di Stalin – ex rapinatori di banche. Stalin non era un tipo emotivo. Non era neanche un grande oratore. Diversamente da Hitler e Mussolini scriveva accuratamente i suoi discorsi diligenti e ideologici, ma senza slancio passionale e con un inguaribile accento georgiano. Tutti lo descrivono come paranoico, ma probabilmente aveva ben presente la posta in gioco in una partita di potere così lunga e complessa come la formazione dell’Urss e le guerre da combattere. Prima una guerra proprio con la Polonia, persa malamente nel 1920 da lui e da Trotsky. Poi la interminabile guerra civile con gli eserciti stranieri e quelli dei generali “bianchi”. Infine una guerra sotto casa, al confine fra Siberia e Manciuria, dove si erano installati da un decennio i giapponesi, che provocavano continui scontri di frontiera. In questi si faceva le ossa uno dei futuri eroi, il generale Zukhov, uno dei pochi che si salvò dalle purghe che nel 1937 portarono al plotone d’esecuzione quasi tutti gli alti e medi ufficiali, partendo dal divo generale Michail Nikolaevic Tuchacesvkij, maresciallo dell’Unione sovietica a 44 anni e inventore dell’uso moderno dei carri armati e dell’aviazione, di cui Stalin era gelosissimo fin dal 1930 quando lo chiamava “il piccolo Napoleone”.  In quella mattanza di generali e marescialli, i tedeschi avevano messo lo zampone con la diffusione di documenti falsi preparati da Renhard Heydrich, il gelido comandante delle SS di cui Hitler diceva: «Quell’uomo ha un cuore di ferro, ne sono orgoglioso ma mi fa paura». Le carte tedesche furono fatte passare per le mani del presidente cecoslovacco Benes e dalle sue a quelle di Stalin, il quale però non le prese in grande considerazione, perché aveva già deciso di far fuori quell’astro nascente che gli ricordava Napoleone. Non erano tempi confrontabili con i nostri, se non per il culto della menzogna storica, il sacro Graal delle bugie per cui ognuno è sacrificabile. I “trattati di non aggressione” erano di gran moda negli anni Trenta perché potevano essere disdetti in qualsiasi momento, ma servivano momentaneamente per fornire reciproche garanzie. Il punto era che il “patto di non aggressione” offerto dai tedeschi ai sovietici era una scatola di cioccolatini con doppio fondo. In superficie, uno strato di parole diplomatiche che certificavano la stabilità delle relazioni fra i due Paesi. Ma nel doppiofondo c’era un altro documento in cui si diceva che quando la Germania avesse ritenuto di agire in Polonia, l’Urss doveva sentirsi libera di agire in una serie di Paesi concordati. Questi Paesi erano la Finlandia, le tre repubbliche Baltiche, parte della Romania e parte della Bielorussia. Come era nato questo accordo? Da un discorso di Stalin a Mosca in cui aveva compiuto una distinzione fra la Germania nazional-socialista e le potenze imperialiste occidentali. Ci fu molto brusio nelle cancellerie perché von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, insistette molto con Hitler affinché prendesse in considerazione l’eventualità che Stalin potesse essere considerato almeno nel medio periodo un alleato. Hitler non aveva alcuna personale simpatia per Stalin e mandò il suo fotografo personale insieme alla delegazione che partiva per Mosca, affinché fotografasse i lobi delle orecchie di Stalin per vedere se l’attaccatura fosse di tipo semita o no. Non risultò semita e questa era già una buona cosa. Stalin, viceversa – le testimonianze in proposito sono abbondantissime – aveva un debole proprio per alcuni aspetti canaglieschi di Hitler. Apprezzò moltissimo quando il Führer, un anno dopo essere stato nominato cancelliere, decise di liberarsi di Ernst Roehm e delle sue milizie ormai inutili e sgradite, facendo trucidare più di centocinquanta uomini o costringendoli al suicidio. Roehm, come molti dei suoi uomini, erano omosessuali e furono colpiti di notte nei loro letti insieme ai loro giovani amanti. Quando Stalin conobbe i dettagli di questa storia scoppiò in una esclamazione di entusiasmo: «Ma è un vero diavolo, questo Hitler! È bravissimo!».

Storia dell’inganno di Yalta e dell’alleanza taciuta tra Hitler e Stalin. Paolo Guzzanti  su Il Riformista il 27 Settembre 2020. Hitler nel 1939 non credeva affatto che Francia e Inghilterra avrebbero fatto sul serio una vera guerra, malgrado quel che avevano minacciato a Monaco. E dopo essersi consultato con i suoi generali che in proposito avevano pareri diversi, decise di infischiarsene di eventuali dichiarazioni di guerra della Francia e dell’Inghilterra. Per quel che gli risultava, quei due Paesi non avevano la minima voglia di combattere e cercavano solo di fare il possibile per salvare la faccia. Hitler ne concluse che gli sarebbe convenuto liberarsi definitivamente della Polonia, recuperando le minoranze linguistiche tedesche e iniziando la liquidazione fisica della popolazione ebraica che in Polonia era di circa tre milioni. Il vero problema, spiegò Hitler al suo stato maggiore, non era ciò che avrebbero fatto la Francia e l’Inghilterra, che considerava militarmente insignificanti, ma come avrebbe reagito Stalin e l’Unione Sovietica. E se Francia e Inghilterra l’avessero davvero attaccato da Occidente mentre la Russia lo colpiva da oriente? Hitler era sicuro che la Germania avesse perso la Prima guerra mondiale per il fatale errore di averla combattuta su due fronti, con la Francia e con la Russia. Non sarebbe mai più dovuto accadere. Di conseguenza, per prendere la Polonia non vedeva altra soluzione che fare a Stalin un’offerta che non potesse rifiutare. Stalin del resto aveva pronunciato a marzo un discorso in cui distingueva fra potenze capitalistiche imperialiste e Germania Nazista. Il discorso era stato segnalato all’ambasciatore tedesco von Shulembrug che l’aveva segnalato al ministro degli esteri von Ribbentrop  il quale a sua volta l’aveva sottoposto ad Hitler con malcelato entusiasmo: “A mio parere, disse, Stalin non è più quel bandito bolscevico che conoscevamo, ma si è tra trasformato in un accorto nazional socialista”. Hitler non era così entusiasta, ma prese atto. E fece sondare Mosca: “Dicevate sul serio circa la differenza fra la Germania e gli Stati imperialisti?” Stalin stesso fece rispondere a Molotov che quello era esattamente il senso delle sue parole. Le trattative procedettoro veloci e il 23 agosto von Ribbentrop e tutto il suo staff erano a Mosca per essere ricevuti da Stalin e Molotov per la grande cerimonia del “Trattato di non aggressione”. Non una parola sugli allegati interni. Passò poco più d’una settimana e la Germania invadeva la Polonia. I polacchi sapevano perfettamente quel che stava per succedere alla loro frontiera e avevano deciso di mobilitare il loro esercito. Ma Parigi e Londra sconsigliarono caldamente: “Una mobilitazione sarebbe sfruttata da Hitler come un gesto ostile”. All’alba del primo settembre cominciò l’invasione dopo una messinscena di alcune SS travestite da militari polascchi che avevano attaccato una postazione tedesca facendosi poi inseguire nel territorio polacco. Una nave da guerra tedesca apriva il fuoco sulla Polonia e partivano stormi di cacciabombardieri della Luftweaffe. Nacque la leggenda secondo cui i polacchi erano talmente stupidi da caricare i carri armati con la cavalleria, ma le cose stavano diversamente. I poveri polacchi erano sicuri che Francia e Inghilterra sarebbero immediatamente entrate in guerra e che i francesi avrebbero attaccato i tedeschi alle spalle. Non successe nulla di tutto questo e Londra e Parigi persero tre giorni di tempo per dichiarare lo stato di guerra con la Germania. Finalmente la guerra fu dichiarata e non successe nulla. I francesi uscirono dalla fortificazione della Linea Maginot per un breve attacco ai tedeschi ma tornarono di corsa dietro le loro linee. I polacchi erano soli. Non sapevano nulla dell’imminente attacco sovietico e anzi sperarono che l’Urss venisse in qualche modo in loro soccorso. Anche Hitler aspettava che Stalin si decidesse a far varcare la frontiera polacca dall’Armata Rossa, ma Stalin fece spiegare attraverso Molotov all’ambasciatore tedesco di aver bisogno di una causa politica che non lo facesse passare per un invasore. Doveva far sembrare l’intervento sovietico come una operazione si soccorso alle minoranze etniche stanziate in Polonia come gli ucraini e i bielorussi, che restavano senza protezioni. Hitler si infuriò e fece una scenata a Ribbentrop dicendo che Stalin restava uno slavo come tutti gli altri, un mercante di tappeti alla ricerca di pretesti. Ribbentrop insistette molto con Molotov il quale spiegò che Stalin non voleva che i due eserciti, Wermacht e Armata Rossa combattessero restando troppo vicini fra loro e che apparissero come un fronte unico, che era esattamente quanto Hitler sperava. Hitler scalpitava per il ritardo sovietico, anche perché nei protocolli segreti l’accordo era che la Russia avrebbe ottenuto il 51 per cento della Polonia mentre alla Germania sarebbe andato il 49. I tedeschi intanto inauguravano la pratica del terrore assoluto contro i civili, cosa che poi non fecero, per esempio, in Francia. Ma Stalin seguitava a non muoversi. Von Ribbentrop pressato da Hitler ripeteva all’ambasciatore tedesco a Mosca Friedrich-Warner Schulemburg di fare pressione, ma di fronte all’atteggiamento impassibile di Stalin, Hitler ordinò al suo generale Heinz Guderian (l’inventore del blitz-Krieg la guerra lampo) di varcare la linea stabilita segretamente per separare le due metà della Polonia, quella tedesca da quella russa e Guderian avanzò nella zona polacca destinata ai russi andando ad occupare la città di Brest Litovsk. A quel punto l’Armata Rossa ebbe finalmente l’ordine di invadere la Polonia e le prime divisioni guidate dal giovane generale Semyon Krivoshein piombarono su Brest Litovsk dove i nazisti li attendevano per le consegne. Invito tutti i lettori a guardare l’intero filmato, circa dieci minuti, in cui ufficiali sovietici e nazisti si stringono la mano, si scambiano sigarette, alzano e ammainano bandiere, salutano l’inno dell’altro e dopo un formale ricevimento in alta uniforme terminano la festa con una comune parata militare. Quei filmati sono una prova, semmai ce ne fosse bisogno, del fatto che il trattato di non aggressione era un vero trattato di aggressione o, come dice oggi lo storico Roger Moorhouse autore di Il patto del diavolo fra Hitler e Stalin 1939-41 quel patto «aveva un solo scopo e un solo significato: dare il 23 agosto del 1939 la luce verde di Stalin alla guerra di Hitler. Ma da allora, per gli storici sovietici quel patto fu giustificato come il bilanciamento del patto che Francia e Inghilterra avevano firmato nel 1938 a Monaco, autorizzando Hitler ad occupare la Cecoslovacchia». Le clausole segrete furono tenute nascoste fino al 1948 quando furono trovate dagli americani negli archivi tedeschi e nel 1989 ufficialmente confermate da Michail Gorbaciov, insieme alla conferma che la strage di ventimila giovani ufficiali polacchi uccisi con un colpo alla nuca nella foresta di Katyn, era stata perpetrata dalla Nkvd, l’antenato del Kgb, ed attribuita ai tedeschi. Ma questi fatti non svelano tutto il mistero di una tale incredibile storia. Per mantenere ad un basso livello di visibilità l’alleanza nazi-sovietica con conseguente spartizione dell’Europa dell’Est (che poi Stalin riuscì a farsi confermare a Yalta dagli alleati occidentali) furono usate molte strategie ed intimidazioni che hanno ancora una presa emotiva profonda. In quegli eventi è maturata e ancora abita tutta la teoria della doppiezza e dell’intimidazione. E, poiché dura ancora ai nostri giorni quando tutti i protagonisti di quel passato sono quasi tutti morti, è utile chiedersi perché la macabra farsa su quel che realmente accadde continui ancora. 

Il patto Ribbentrop-Molotov. Così Hitler si prese gioco di Stalin e catturò suo figlio. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. L’ultimo fu un soldato tedesco comunista arrivato a nuoto fra gli avamposti sovietici. Non parlava russo, ma riuscì a spiegarsi: «ich bin ein kamarade e noi vi attaccheremo domani all’alba, se non fate qualcosa sarete tutti morti». Non era il primo. Fonogramma al Cremlino: il soldato tedesco è identificato, interrogato di nuovo e ripete la sua storia. Qualcuno corre a riferirla a Stalin che commenta con disprezzo: «Adesso abbiamo anche i provocatori nuotatori. Fucilatelo». In realtà quel soldato fu l’unico a non lasciarci la pelle: dovevano metterlo al muro all’alba, quando l’attacco tedesco iniziò davvero. Richard Sorge, il principe delle spie sovietiche, dalla sua tana nell’ambasciata tedesca di Tokyo dove si fingeva uno zelante nazista, aveva tempestato Mosca di fonogrammi con tutti i dettagli dell’attacco. Stalin aveva alzato le spalle: «Disinformazione giapponese». Quando Sorge fu arrestato, rifiutò di scambiarlo con agenti giapponesi e l’agente fu impiccato. I messaggi di Winston Churchill e di Franklin Delano Roosevelt lo mandavano in bestia: «È incredibile l’impegno con cui questi borghesi imperialisti si sono messi per far fallire il nostro patto con la Germania». Come molti storici diranno anni dopo i fatti, purtroppo sembra proprio che Josif Stalin nel 1941, mentre si ammassavano alle frontiere sovietiche divisioni per un totale di tre milioni di soldati, carri, aerei, artiglieria, linee di rifornimento, considerasse Hitler un interlocutore leale. Secondo molti storici, l’unico di cui si fidasse davvero. Tutti vedevano in Russia ciò che stava accadendo nel giugno del 1941, ma tutti avevano anche imparato che non era mai il caso di parlarne con Stalin: fucilazione, galera o sparizione automatica erano garantite. Ma c’è di peggio e lo ha rivelato nelle sue memorie il maresciallo Zukhov, uno degli artefici della vittoria finale russa: «Non potevo evitare di affrontare la questione con Stalin, neanche se mi avesse arrestato. Così gli chiesi udienza, lo pregai di ascoltarmi con calma e di guardare i dati che gli portavo. Mostrai lo schieramento tedesco alle nostre frontiere e l’elenco di oltre trenta testimoni che avevano avvertito dell’imminente attacco intorno alla fine di giugno». Stalin annuiva tacendo. Quando il maresciallo ebbe finito, Stalin aprì una cartella e ne estrasse dei fogli manoscritti che porse al Zukhov il quale racconta: «I primi erano stati scritti da Stalin a Hitler: una lettera in cui con tono allarmato gli chiedeva ragione di quell’ammassamento di truppe che alimentavano le voci su un imminente attacco tedesco». Chiedeva spiegazioni convincenti. Seguiva poi su altri fogli manoscritti la risposta di Hitler che diceva: «Vi do la mia parola di capo di Stato e di soldato che la Russia sovietica non ha nulla da temere da noi. È vero tuttavia che i continui bombardamenti inglesi mi hanno costretto a spostare le armate a ridosso della frontiera sovietica per proteggerle, ma ho preso una decisione finale. Come lei ben sa, signor Segretario generale, in questi mesi ho fatto di tutto per convincere gli inglesi ad un armistizio perché ai tedeschi non piace combattere contro un popolo che considera fratello. Ho anche dato loro una prova del mio atteggiamento consentendo per tre giorni la ritirata da Dunkirk dove avrei potuto distruggere o catturare il loro corpo di spedizione. Ma ora la mia pazienza è finita e ho deciso di scatenare la potente armata ferma lungo le vostre frontiere per sferrare l’attacco definitivo all’isola britannica per mettere fine a questa sciocca guerra. Nel frattempo devo avvertirla, signor Segretario Generale, che alcuni miei ufficiali sono del parere di attaccare la Russia anziché l’Inghilterra e ho dovuto tenerli a freno. Ciò significa che non posso escludere qualche provocazione di alcuni di loro che potrebbero essere tentati di penetrare nel vostro territorio. In questo caso vi prego di informarmi immediatamente attraverso corriere aereo dell’accaduto e vi supplico di non complicare le cose con reazioni militarmente eccessive che renderebbero difficile riportare le cose al punto di partenza. Avvertitemi se accadesse e io interverrò immediatamente». Zukhov spiegò che le due lettere materiali non esistono più ma che resta agli atti con gli stessi concetti e le stesse parole un comunicato dell’agenzia ufficiale Tass redatto dallo stesso Stalin in cui si smentisce nella maniera più categorica una qualsiasi intenzione tedesca di aggredire l’Unione Sovietica e in cui si aggiungeva anche che qualsiasi notizia di aggressione tedesca si dovesse considerare come provocazione. Il comunicato della Tass esiste tuttora e riferisce, sia pure senza citare la fonte, le stesse parole che Zukhov lesse sulla lettera inviata da Hitler a Stalin. Arrivò finalmente l’alba del 22 giugno. La Wermacht scatenò su tre direttrici una forza d’invasione di circa tre milioni di soldati, forze corazzate, cavalleria, rifornimenti, artiglieria e linee di rifornimenti, accompagnati dall’aviazione di Goering scatenata nel distruggere gli aerei russi al suolo. L’esercito tedesco non incontrava quasi resistenza e catturava centinaia di migliaia di soldati sovietici sbalorditi e disarmati. Zukhov telefonò alle quattro del mattino a Stalin: «L’invasione è cominciata. Vi attendiamo al Cremlino». Stalin arrivò e tutti erano terrorizzati dalle sue imprevedibili reazioni, più che dalla minaccia dei tedeschi. Molotov raccontò di aver incontrato von Schulemburg, l’ambasciatore tedesco, in lacrime. L’ambasciatore aveva forti sentimenti filorussi e finirà impiccato ad una corda di pianoforte appesa a un gancio da macellaio perché prese parte al complotto di von Stauffenberg per uccidere Hitler con una bomba. Tutta l’aristocrazia militare delle grandi famiglie finirà ai ganci. L’ambasciatore disse: «Sono settimane che cerco di avvertirvi di quel che si sta preparando e adesso è troppo tardi». Il ministro degli esteri Molotov replicò: «Che abbiamo fatto per meritare questo? È possibile fare delle concessioni e risolvere l’equivoco?». Anche Stalin diceva in uno stato di catatonia balbettante: «Che cosa gli abbiamo fatto? Perché ci trattano così?». Poi ricordò le raccomandazioni scritte di Hitler: «Date ordine di reagire soltanto in modo proporzionato e che a nessuno salti in testa di varcare il confine tedesco». Cominciò a chiedere e suggerire che la questione potesse essere risolta per vie diplomatiche. Poi, stremato e sotto un evidente stato di choc, si fece portare nella sua dacia da cui non dette notizie per sei giorni mentre le armate di Hitler dilagavano verso Leningrado, Mosca e Kiev. Si scoprirà poi che i tedeschi non avevano ancora deciso bene che fare, una volta entrati nell’immenso territorio sovietico e questo li perderà: prendere Mosca? Prendere i pozzi del Caucaso? Prendere Stalingrado? La Russia, come aveva constatato Napoleone, è infinita e non ha senso invaderla: ogni volta l’orizzonte si sposta di migliaia di chilometri e intanto arrivano l’inverno, la fame e le malattie. Al settimo giorno il gruppo dirigente del partito decise di andare a trovare Stalin nella sua dacia. Stalin confiderà di aver nascosto un revolver sotto il cuscino della sua poltrona. C’erano tutti, da Beria a Malenkov a Krusciov. Il figlio di Beria (il georgiano capo della NKVD, cioè della polizia politica, e torturatore al servizio personale di Stalin che fu fucilato dopo la morte di Stalin) racconterà che suo padre e Stalin la sera prima si erano visti nella dacia e avevano brindato allo scampato pericolo: «Visto? Tutti quegli uccelli del malaugurio ci davano nelle mani dei tedeschi e invece non è successo niente. Faremo i conti con tutti i traditori che hanno diffuso il panico». Non era mai accaduto che il gruppo dirigente del partito si recasse nell’abitazione privata del segretario generale. Vedendoli, Stalin disse alzando la voce: «Perché siete venuti a casa mia?». Risposero quasi tutti insieme, con la voce più forte di Nikita Krusciov che sarà il suo successore: «Compagno Stalin, la patria ha bisogno di voi. Il partito vi chiede di tornare immediatamente al Cremlino per guidare l’Urss nella sua ora più buia». Stalin era sollevato. Dunque, non erano venuti per destituirlo o peggio arrestarlo o, peggio, per ucciderlo. Chiese notizie del fronte. Erano catastrofiche. Accennò per l’ultima volta alla possibilità di proporre ai tedeschi compensazioni territoriali. Molotov gli disse che ogni linea con Berlino era chiusa. Gli dissero che intere divisioni dell’Armata rossa si erano arrese senza combattere perché non avevano armi. Rispose che la politica dei prigionieri di guerra era una sola: sono tutti traditori e i loro parenti vanno subito arrestati. Non si faranno scambi di prigionieri. E non ne fece neanche quando seppe che suo figlio, sottotenente, aveva dovuto arrendersi: «Si sarebbe dovuto suicidare sul posto», fu il suo commento. Aveva perso la scommessa. Hitler lo aveva giocato.

·        Comunismo: quando il falso diventa vero.

Comunismo: quando il falso diventa vero. Redazione de Il Giornaleoff il 27/05/2020. Nel numero in edicola di CulturaIdentità segnaliamo l’intervento di Marco Gervasoni sulle origini storiche della propaganda politica e sulla predisposizione, per ogni regime comunista, a rovesciare la verità: ” Il mentire è una caratteristica che definisce ancor più l’esperienza storica comunista, ne è anzi il tratto saliente: il comunista è comunista soprattutto perché mente […]. Si potrebbero riportare centinaia di esempi della realtà alternativa, fondata sulla menzogna, che i regimi comunisti, da quello sovietico a quelli sudamericani e asiatici a quello cinese, hanno costruito nel corso dei decenni, tanto che i visitatori stranieri, invitati dai regimi in quei paesi, si trovavano di fronte una sorta di Disneyland comunista: i più smaliziati se ne accorgevano e magari cambiavano idea, ma la maggioranza dei compagni di strada ci cascava o faceva finta di cascarci”.

Comunismo: quando il falso diventa vero. Marco Gervasoni il 23 Giugno 2020 su culturaidentita.it. Sorvegliare e mentire: se c’è un distico che caratterizza il comunismo, come ideologia e come regime, è proprio questo. Sorvegliare e pure reprimere, ovvio; anzi in questo il comunismo non accetta confronti, salvo forse con il nazional-socialismo tedesco. Il mentire però è una caratteristica che definisce ancor più l’esperienza storica comunista, ne è anzi il tratto saliente: il comunista è comunista soprattutto perché mente. Bisogna intendersi sul concetto di menzogna e in ciò ci aiuta l’etimologia. Proveniente dal latino mentiri, che sta anche per “indicare”, condivide la radice sanscrita men, cioè “ricordare”. Mentire quindi non significa tanto celare la verità, quanto indicarne un’altra, alternativa a quella vera. Una verità che deve essere intesa in tre forme: empirica (vero è ciò che vedo), logica (vero è ciò che è conforme al principio di non contraddizione) e ontologica (vero è ciò che è coerente con il senso metafisico). Per questo distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, fin dall’antica Grecia diventa uno degli obiettivi fondamentali della filosofia. Perché il falso si maschera da vero o si confonde con esso e anzi, come scrive Sant’Agostino nel De Mendacio, il falso è tanto più dannoso quanto più si presenta come vero, come gli dei pagani. Il comunismo rappresenta l’esempio più compiuto nella storia di falso che si presenta vero. Dal punto di vista dottrinale, è infatti figlio dell’Illuminismo e della idea settecentesca di “critica”. Secondo la celebre definizione di Paul Ricoeur, Marx assieme a Nietzsche e Freud, è uno dei tre “maestri del sospetto”. E infatti per Marx quello che si presenta come “vero” è, in realtà, frutto della costruzione del mondo ideologico della classe dominante. Per Marx la realtà è già una narrazione e in qualche modo egli è il primo decostruzionista, non per caso Michel Foucault e Jacques Derrida si definivano seguaci di Marx. Compito dei comunisti è quindi criticare, cioè decostruire, la narrazione dominante. Alla quale però, essi oppongono un’altra narrazione, che si presenta come vera: non vera in assoluto, perché la verità per Marx non esiste, ma vera agli occhi della classe operaia. Finché i marxisti stanno all’opposizione, la critica prevale sulla costruzione della verità alternativa, anche se essa è già presente nella propaganda moderna, di cui i partiti socialisti della Seconda Internazionale, a fine Ottocento, sono gli inventori. I problemi si pongono quando il comunismo, da opposizione, diventa governo, cioè regime. Ciò avviene per la prima volta in Russia, dove la cultura politica marxista si incontra con un’altra, pure di matrice europea occidentale, ma che aveva molto attecchito nel populismo russo. Vale a dire il nichilismo di Sergej Gennadievič Nečaev, seguace del tedesco Max Stirner, per il quale la realtà è solo proiezione della volontà del soggetto individuale, il mondo esterno essendo una sua costruzione. Nonostante la cultura positivista, che pure Lenin e i bolscevichi condividono, nel regime comunista si affermano l’idea e la prassi nichilistiche che è il partito a costruire la realtà. Da quel momento verità sarà solo ciò che viene affermato, deciso e messo in pratica dal Partito comunista. Ma poiché il Partito comunista coincide con lo Stato, i comunisti si impegnano a costruire una realtà e una verità alternative. Cosicché, da quel momento, nella propaganda comunista la menzogna diventa ciò che è vero, mentre ciò che è falso dal punto di vista empirico, logico ed ontologico, diventa il vero. Si potrebbero riportare centinaia di esempi della realtà alternativa, fondata sulla menzogna, che i regimi comunisti, da quello sovietico a quelli sudamericani e asiatici a quello cinese, hanno costruito nel corso dei decenni, tanto che i visitatori stranieri, invitati dai regimi in quei paesi, si trovavano di fronte una sorta di Disneyland comunista: i più smaliziati se ne accorgevano e magari cambiavano idea, ma la maggioranza dei compagni di strada ci cascava o faceva finta di cascarci. Vecchia storia, si dirà. Mica tanto. In primo luogo, mentre nazismo e fascismo sono spariti da decenni, i regimi comunisti sono vivi e vegeti: da Cuba al Vietnam fino, ovviamente, alla Cina. Che sul tema della menzogna è perfettamente in linea con la tradizione di Marx, Lenin, Stalin, Mao (del resto tutti, tranne il georgiano, sempre rivendicati laggiù). In secondo luogo, gli eredi dei Partiti comunisti sono ben attivi: dal Pd in Italia alle varie opposizioni in paesi come Ungheria e Polonia. Molti dei loro dirigenti sono cresciuti nelle scuole di partito che, anche se alle Frattocchie, condividevano l’idea di “verità” di Mosca, cioè la logica della menzogna. E che ora, nel governo Conte, ammiratori di XI ed eredi di Togliatti e di Berlinguer siano fianco a fianco spiega molte cose: tutte preoccupanti.

Dopo l'anno nero 1956 era impossibile illudersi sul comunismo. Il centenario della nascita del Pci si avvicina. La nostalgia sembra già farsi strada. Purtroppo. Giuseppe Bedeschi, Venerdì 18/12/2020 su Il Giornale.  Si avvicina il centenario della fondazione del Pci, il 21 gennaio 1920, escono libri e articoli sui giornali. Vorrei portare anch'io una piccola testimonianza personale a proposito della storia comunista, una testimonianza relativa a un anno fatidico, il 1956: che fu l'anno del rapporto segreto di Krusciov al XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, e l'anno della rivoluzione popolare ungherese. Stalin era morto solo tre anni prima. I partiti comunisti di tutto il mondo l'avevano osannato in modo delirante. Ma il 25 febbraio 1956 accadde una cosa stupefacente e sconvolgente. In un lungo discorso a porte chiuse (riservato cioè ai soli congressisti, senza la presenza delle delegazioni dei partiti fratelli e senza i giornalisti), Krusciov fece letteralmente a pezzi la figura di Stalin: il quale aveva governato l'Urss in maniera dispotica e terroristica, e aveva commesso innumerevoli delitti contro esponenti del partito e dell'esercito. Krusciov raccontò cose atroci e rivelò che l'uso delle bastonature e della tortura era diventato prassi corrente contro i supposti dissidenti. I dati forniti da Krusciov erano terrificanti: per esempio, dei 139 membri del Comitato centrale del partito al XVII congresso, il 70% era stato arrestato e fucilato. La stessa sorte toccò alla maggioranza dei delegati a tale congresso: su 1966 delegati, 1108 vennero arrestati e poi fucilati. Purghe altrettanto feroci furono scatenate contro l'esercito, con centinaia di vittime, sicché l'Armata Rossa si trovò in uno stato confusionale di fronte all'aggressione hitleriana. Prima di ripartire da Mosca, Togliatti ricevette dai capi del Cremlino una copia del rapporto segreto. La situazione nella quale il leader comunista veniva a trovarsi era assai sgradevole e imbarazzante. Il Pci, infatti, aveva tributato a Stalin un culto sconfinato. I comunisti italiani lo avevano sempre considerato il capo più amato, lo avevano esaltato in forme ditirambiche e morbose: Stalin era l'uomo che aveva realizzato il socialismo nell'Unione Sovietica, che aveva costruito dighe e deviato il corso dei fiumi, che aveva abolito lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, che aveva battuto gli eserciti hitleriani col suo genio politico e militare. Quando Stalin morì, i comunisti italiani lo piansero come si piange un padre. Il giorno in cui fu annunziata la sua fine, l'Unità uscì listata a lutto. «L'anima è oppressa dall'angoscia dichiarò Togliatti alla Camera dei deputati per la scomparsa dell'uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell'amico». In tutta Italia i comunisti organizzarono centinaia di manifestazioni, con enorme partecipazione di popolo, per commemorare il genio che si collocava accanto a Marx e a Lenin. Togliatti rientrò in Italia da Mosca il 6 marzo, e non fece cenno alle denunce kruscioviane contro Stalin. Una settimana dopo, egli tenne una lunga relazione al Comitato centrale del Pci, in cui affrontò anche la questione Stalin. Dopo aver tracciato un quadro grandioso della società sovietica e dei suoi straordinari progressi economici, sociali e civili, egli parlò delle critiche che Krusciov aveva rivolto alla figura di Stalin. Togliatti disse: «Il compagno Stalin ha avuto una grande parte, una parte positiva, nella lotta che ebbe luogo subito dopo la morte di Lenin, per difendere il patrimonio leninista contro i trotzkisti, i destri, i nazionalisti borghesi, per riuscire a prendere la strada giusta di costruzione di una società socialista. Se questa lotta non fosse stata condotta e non fosse stata vinta, l'Unione Sovietica non avrebbe riportato i successi che ha riportato, e oggi forse nell'Unione Sovietica non esisterebbero una economia e una società socialiste. Nel corso di questa lotta Stalin si acquistò prestigio e autorità. Il suo errore successivo fu di mettersi, a poco a poco, al di sopra degli organi dirigenti del partito, sostituendo a una direzione collegiale una direzione personale. Si venne così creando quel culto della persona che è contrario allo spirito del partito e che non poteva non arrecare danni». Nessun accenno, da parte di Togliatti, al rapporto segreto di Krusciov, che però venne pubblicato dal New York Times il 4 giugno, e poi fu riprodotto dai grandi quotidiani italiani. Naturalmente, enorme fu il disagio che si diffuse fra i comunisti. Le rivelazioni di Krusciov erano ben più drammatiche dei toni edulcorati di Togliatti. Si imponeva subito una domanda: il testo del rapporto segreto pubblicato in occidente era vero o no, era autentico o no? L'Unità parlava del «cosiddetto rapporto segreto». Il mistero fu presto sfatato. In un giorno di settembre del 1956, nella mia città (Ravenna) e in molte altre città italiane, fu convocata dalla Federazione del Pci una riunione (che si tenne in un'ampia sala di una sezione comunista), riservata ai dirigenti di Ravenna e provincia: il Comitato federale, il direttivo della gioventù comunista (di cui io facevo parte: avevo 17 anni), i sindaci e gli assessori comunisti, ecc. Questa riunione (alla quale parteciparono alcune decine di persone) fu presieduta da un autorevole esponente della Direzione del Pci, il senatore Arturo Colombi. Il quale fece una lunga introduzione, e a un certo punto disse: «e ora, compagni, veniamo al rapporto segreto di Krusciov pubblicato dai giornali: è vero o non è vero, è autentico o no? Certo, compagni, che è vero, certo che è autentico». Dalla sala si levò un accorato e struggente «ohhh! ohhh!», che durò per parecchi secondi. Colombi reagì con rabbia: «compagni, non dovete dire ohhh, non dovete scandalizzarvi, perché il nostro partito ha un suo costume rigoroso: se non ha sconfessato il rapporto segreto, ciò significa che esso è autentico!». I partecipanti a quella riunione uscirono sconvolti, e molti di essi erano ormai convinti di una verità elementare ma tremenda: che il mito dell'Urss e il mito della società comunista erano morti per sempre.

Porzûs, l’eccidio che svelò le ombre partigiane. Redazione de Il Giornaleoff il 27/05/2020. Sul numero in edicola di CulturaIdentità Anna Valerio indaga sulla strage di Porzûs (resa celebre dall’omonimo film di Renzo Martinelli), quando partigiani italiani filo titini assassinarono altri partigiani italiani e cattolici: “A rimetterci la pelle è anche il fratello minore di Pasolini, Guido. Una macelleria. Finisce la guerra, o meglio, si fanno i supplementari in tribunale. Tra molti imbarazzi e scandalose rimozioni e distorsioni della realtà, il PCI tenta in tutti i modi di far passare i compagni della Osoppo come venduti al nazifascismo […]. Nel 2012, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano andò a Porzûs a scoprire una targa in memoria dei partigiani uccisi. Era imbarazzato. Visibilmente. Sono quei posti dove non vai volentieri e dove ti viene da girarti di scatto alla prima ombra che passa.

 Vittorio Feltri, la differenza tra le piazze rosse e quella di Meloni e Salvini: "Perché detesto il comunismo".  Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 03 giugno 2020. Le manifestazioni di piazza non mi sono mai piaciute. Quando ero poco più che un ragazzo a Bergamo, città democristiana, partecipai a una sfilata del primo maggio. Indossavo un abito blu e nell'occhiello della giacca avevo infilato un fiore rosso, per far capire a tutti che ero di sinistra. Lo ero davvero. Se non che un omone sgraziato mi si avvicinò e mi apostrofò: senti Ciccio, questa è la festa dei lavoratori, non dei figli di papà. Gli risposi senza esitare: io il papà nemmeno ce l'ho perché è morto quando ero un bambino, se mi insulti gratis si vede che tu sei un figlio, non di papà, ma di puttana. Il tipo rimase di stucco, poi disse: sei tu che offendi me. E io ti prendo a schiaffi. La mia replica fu secca: e io te li restituisco, così restiamo in pareggio. Il personaggio scoppiò a ridere. Mi chiese: sei comunista? Replicai senza astio: sono socialista, Lombardiano, ti secca? Lui, continuando a ridere aggiunse: allora sei un compagno. Io di rimando: pensavi che fossi qui a fare compagnia a te, coglione. Sciolto il corteo in piazza Vittorio Veneto, andammo insieme al bar Savoia a bere l'aperitivo e fraternizzammo. Strada facendo egli dichiarò: si vede che hai studiato, hai la lingua affilata. Ero in imbarazzo, aggiunsi solo che studiare senza capire non serve a un cazzo, meglio lavorare, insegna di più. Ogni tanto lo incontravo sul Sentierone, lo struscio di Bergamo, e per me era un piacere. Due anni fa appresi che era morto di cancro. Provai un dolore immenso uguale a quello che ora mi lacera il petto ricordandomi di questo operaio che si ruppe la schiena per mantenere il figlio all'università, ora ingegnere. Ho raccontato questa storia per un motivo semplice: non ho odiato mai i comunisti, ma ho detestato il comunismo per la sua supponenza ideologica, quasi fosse una religione autorizzata ad allontanare con disprezzo gli eretici. La sinistra ha perso per fortuna i propri connotati bolscevici e me ne rallegro. Tuttavia ha mantenuto il vizio di considerare indegni coloro che progressisti non sono, preferendo altre correnti politiche, per esempio quella della Meloni, Fratelli d'Italia, e quella di Salvini, Lega. Ieri in vari luoghi del Paese si sono registrati raduni in varie piazze. Ebbene quelle tinte di rosso sono state valutate opportune, addirittura da applaudire, mentre quelle della destra sono state liquidate quali schifezze censurabili. Perché? Perché sì. Non c'è discussione. Gli eredi di Stalin e di Togliatti sono esseri superiori e sono autorizzati a organizzare manifestazioni pubbliche, ovviamente legittime e meritevoli di applausi, mentre chiunque altro si raduni in piazza è da vituperare. La democrazia non deve distinguere tra buoni e cattivi, è obbligata, per essere tale, a tollerare chiunque non ne rifiuti i principi. Il 2 giugno è la festa della Repubblica che sconfisse la monarchia anche con i voti dei repubblichini di Salò, tanto per essere chiari. Già il fascismo, pur deprecabile, era repubblicano. Sappiatelo.

·        La caduta del Comunismo.

GIANLUCA VENEZIANI per Libero Quotidiano il 14 novembre 2020. Sono caduti anche gli ultimi dèi, dopo che le idee e le ideologie se ne erano già andate da un pezzo. O meglio, sono caduti gli ultimi feticci che la sinistra aveva eretto a propri simboli, volti pop 3.0 del proprio pantheon. Non essendoci più i Che Guevara e i Martin Luther King di una volta, i compagni si erano aggrappati ai rasta di Carola Rackete, alla chioma zazzeruta e incolta di Mattia Santori, leader delle Sardine, e al cappello bianco con pon-pon di Greta Thunberg. Li avevano elevati a testimonial dei nuovi riferimenti "culturali" del mondo progressista: non più la lotta di classe, la difesa del proletariato e la giustizia sociale, ma l'immigrazionismo e l'ambientalismo, il politicamente corretto e lo spontaneismo di piazza condito di anti-populismo e una buona dose di giovanilismo. Questa nuova tendenza della sinistra italiana aveva però anche mantenuto, conservati in formalina, vecchi totem e miti di fine '900, come il giustizialismo manettaro incarnato da una delle figure, ahinoi, più celebri di Tangentopoli, il magistrato Piercamillo Davigo. giù dalla pianta Ebbene ora, vuoi per il virus vuoi per la loro insipienza, vuoi per la poca esperienza o per la troppa esperienza, tutti costoro sono stati rottamati, con destinazione reparto prodotti scaduti. Il crollo più clamoroso è quello di Carola Rackete, la «capitana» speronatrice di motovedette della Guardia di Finanza, la traghettatrice di immigrati clandestini che si è fatta fregare da un albero. Fatte le debite proporzioni, la sua storia ricorda quella di Al Capone, grande reo infinocchiato da un' evasione fiscale. Anche la Rackete ne aveva combinate di cotte e di crude e l' aveva sempre passata liscia, ma è stata incastrata per una quisquilia, una protesta ambientalista contro la costruzione di un' autostrada in Germania. I ben informati dicono che è stata arrestata mentre era vestita da pinguino. Una fine buffonesca per colei che era stata definita, in modo altisonante, l' Antigone moderna. Dalla tragedia alla farsa. In farsa sembrano finire anche i tentativi estremi di Greta Thunberg, la 17enne attivista pro-ambiente, di non cadere nel dimenticatoio. La pandemia l' ha fatta scomparire dai radar, scaraventando in fondo alla lista delle priorità dei governi la sua battaglia contro il riscaldamento globale. E a riconoscerlo è lei stessa in un' intervista di ieri a Repubblica in cui ammette che «in un momento come questo è logico che altre questioni, tipo quella dell' ambiente, vengano messe in secondo piano» e che «nella situazione attuale è difficile pianificare un progetto». La svedesina si è accorta che, se gli esseri umani non riescono più a respirare per il virus, non stanno certo a chiedersi se il pianeta respiri o meno. A maggior ragione, però, è penoso il suo tentativo di cavalcare l' emergenza per cercare nuova visibilità e sperare di tornare protagonista. La Thunberg si dice convinta infatti che la gestione della pandemia ci servirà in futuro per lottare meglio a favore del clima. Sì, Greta, credici piazza grande Difficilmente torneranno protagonisti anche quei soggettoni che un anno fa, il 14 novembre 2019, radunavano in piazza Maggiore a Bologna migliaia di persone facendo nascere il fenomeno delle Sardine. Di quegli improvvisati arringa-popoli, di quegli organizzatori di eventi senza il benché minimo progetto politico che non fosse l' anti-salvinismo, oggi non resta più nulla. Sia chiaro, già prima erano il Nulla. Solo che ora quel Nulla ha smesso di riempire le piazze. Avevano tentato l' estremo sussulto, il canto del cigno, o meglio della sardina, organizzando oggi una raccolta di lettere nella stessa piazza bolognese dove tutto era nato. Ma, sai com' è, scambiarsi missive in un periodo ad alto rischio contagio non era proprio una genialata E così hanno dovuto rinunciare, ripiegando tristemente su una raccolta virtuale di lettere, da inviare a un indirizzo di posta. Le Sardine sono tornate dentro la scatola: non avevano né idee né intelligenza politica, ma solo presenza fisica e capacità di mobilitazione. Tolte quelle, si sono essiccate. Così come si è essiccato un vecchio barricadero della magistratura, l' homo forcaiolus Davigo. Negli ultimi anni il pm di Mani Pulite ha perso potere, credibilità e seguito. Ma si ostina a non voler lasciare la poltrona. Dopo il suo pensionamento i membri del Consiglio superiore di magistratura gli avevano fatto capire, molto educatamente, che doveva smammare anche dal ruolo di consigliere. Ma lui niente, cocciuto, non ne ha voluto sapere. Si è quindi appellato al Tar, il quale tuttavia ieri gli ha detto che il suo ricorso è inammissibile per «difetto di giurisdizione»: ossia, se proprio voleva ricorrere, Davigo doveva farlo non al Tar ma al «giudice ordinario, dinanzi al quale la domanda potrà essere riproposta». Con la speranza che arrivi una risposta, chissà quando Non se ne faccia un cruccio, però, il 70enne Davigo. Nel peggiore dei casi potrà proporsi come nonno acquisito dei tre nipotini Carola, Greta e Mattia, a mo' di una specie di Papà Castoro che racconta ai bimbi le favole, di quando c' era una volta la sinistra e qualcuno le credeva pure.

Com'era bello il Pci. Tredici militanti raccontano la loro militanza a sinistra. Concetto Vecchio su La Repubblica il 10 novembre 2020. "Care compagne e cari compagni", edito da Strisciarossa, è un ritratto corale del mondo comunista in occasione dei cento anni del partito. Cos'è stato il Pci, di cui a gennaio ricorrono i cento anni? Un partito di massa, popolare, nel quale militavano gli operai e gli intellettuali, i giovani e la generazione che aveva fatto la Resistenza. C'è stato un momento, a metà degli anni Settanta, nel quale un italiano su tre votava comunista. Un unicum in Europa. Le città più ricche, da Torino a Roma, da Bologna a Firenze, erano governate da sindaci rossi. Un libro ora racconta le vicende di tredici comunisti italiani, uomini e donne in carne e ossa, per provare a dare conto di questo mondo grande: Care compagne e cari compagni , edito da Strisciarossa, con le vignette di Ellekappa e Staino. Lo hanno composto dodici autori: Bruno Ugolini, Paolo Soldini, Ella Baffoni, Pietro Spataro, Vittorio Ragone, Onide Donati, Vincenzo Vasile, Guido Sannino, Oreste Pivetta, Maurizio Boldrini, Jolanda Bufalini, Pietro Greco. Tutti, salvo Sannino, sono ex firme dell'Unità. Ne viene fuori un caleidoscopio esistenziale di grande ricchezza. Un pezzo della nostra biografia culturale e politica. Appartenere al Pci significava non soltanto spendere un'adesione ideale, no, implicava anche di stare dentro una cerchia, connessi in una rete di relazioni umane. "Come in una grande famiglia il partito provvedeva a tutto. I dirigenti e i funzionari delle Botteghe Oscure abitavano nelle case del partito, arredate con i mobili del partito, sempre più o meno uguali. Persino gli operai che entravano in queste case, muratori, idraulici o elettricisti, erano iscritti al partito. I comunisti delle Botteghe oscure per vestirsi andavano tutti nel negozio del compagno Vittadello, in piazza Risorgimento, di cui ci si poteva fidare e che faceva anche ottimi sconti", ha raccontato Miriam Mafai (1926-2012) in Botteghe oscure addio (Mondadori, 1996). Infatti scrive l'ex ministro Livia Turco nella prefazione: "Il popolo comunista era una comunità, perché animato dalla forza del progetto politico, che implicava un'idea di società". Molti divennero comunisti quando si dovettero confrontare con il lavoro in fabbrica, inurbati dalle campagne nell'Italia del boom economico. Bruno Ugolini ha raccolto, a questo proposito, la storia di Antonio Giallara, leader operaio alla Carrozzeria di Mirafiori, giunto a Torino dalla Sardegna nel 1969, l'anno dell'autunno caldo. La fabbrica era una città, e il partito aveva nuclei in ogni reparto. Giallara si politicizzò e divenne in breve tempo segretario della cellula alla Carrozzeria. In quella Torino i meridionali spesso venivano accolti con i famosi cartelli: "Non si affitta ai meridionali". A Rivalta molti dormivano nelle baracche, dove i posti letto ruotavano a secondo dei turni alla Fiat. "Allora si parlava di noi", rammenta però con orgoglio di classe Giallara. E infatti, a forza di scioperi e rivendicazioni, la classe operaia spuntò condizioni di lavori più salubri e salari più dignitosi. Ed è una grande lezione per tutti gli ultimi di sempre, anche nel mondo attuale. Giallara incrociò il leader del Pci Enrico Berlinguer, un rapporto che si rafforzò durante la vertenza dell'autunno 1980, che poi portò alla marcia dei 40mila. Berlinguer gli chiedeva sempre: "Quanti sardi ci sono in Fiat? E quanti di questi fanno sciopero? E quanti sono iscritti al partito". E' interessante notare che queste erano le domande che fece Palmiro Togliatti a Maurizio Valenzi, quando sbarco a Napoli nel 1944: "Quanti sono i compagni napoletani iscritti? "Dodicimila" "Non sembra entusiasta della cifra, ma non replica", scrive Valenzi in C'è Togliatti (Sellerio). A Roma, che non aveva fabbriche, la formazione di un comunista, come ha raccontato Loredana Mozzilli a Ella Baffoni, passava attraverso le lotte per gli edili e per le case popolari ai baraccati delle periferie. E bisognava studiare. Per quello c'era la scuola di partito, le Frattocchie, un luogo dove potevi ritrovarti con Nilde Iotti e Rossana Rossanda come docente, ma che, ricorda Mozzilli, "sembrava di stare in un collegio". La politica era comunque sempre intrecciata alla cultura. Lo dimostra anche la storia di Corrado Angione, che da Bari emigra a Milano, nel quartiere Baggio, nella testimonianza rilasciata a Oreste Pivetta. Dice: "Leggevo l'Unità ogni giorno, tutte le settimane Rinascita, e poi comincia a leggere il Manifesto di Marx, e i libri di storia, da Dennis Mack Smith a Storia degli italiani, di Giuliano Procacci". Del resto non erano le sezioni spesso gli unici luoghi dove i militanti potevano trovare dei libri, e confrontarsi sui destini del mondo? È vivida anche la vicenda di Carlo Ricchini, storico caporedattore centrale dell'Unità. A Pietro Spataro ha confessato di sognare ancora un giornale che raccolga l'eredità dello storico organo fondato da Gramsci. L'Unità, negli anni d'oro, la domenica diffondeva anche un milione di copie. Gli stipendi tuttavia erano magri. Ricchini guadagnerà da pensionato il doppio di quello che prendeva da assunto. E i giornalisti lavoravano fino a notte fonda: Ricchini stava scrivendo un articolo su un delitto avvenuto sulla Cassia quando la moglie lo avvertì che erano entrati i ladri in casa. "Ma non potevo lasciare quel pezzo nella macchina da scrivere, e così a casa ci andò Franco Magagnini", che poi, anni dopo, sarebbe diventato caporedattore a Repubblica. "Mia moglie Elsa non me l'ha mai perdonato". Ricchini ha visto passare tanti direttori. Il migliore fu Emanuele Macaluso, che inizialmente venne accolto con diffidenza perché esponente dell'ala migliorista, la destra del partito. Il libro aiuta a capire tante cose di un passato irripetibile, ma non è un'operazione nostalgia. Del resto quel mondo è tramontato per sempre e le ricette di allora oggi forse non funzionerebbero nemmeno più. La sinistra, se vuole ancora parlare al cuore dei ceti più in difficoltà, deve aggiornare i suoi ferri con umanità e generosità. Dice con saggezza Nino Ferraiuolo, intervistato da Guido Sannino, nella sua casa piena di libri a Napoli: "Da un lato occorrerebbe un'analisi critica della storia del movimento operaio italiano e, più specificamente, del Partito comunista italiano, che non è mai stata fatta. Servirebbe proprio una lettura critica, ma di massa, da parte della intelligencija di sinistra, anche perché la stragrande maggioranza di quelli che hanno appartenuto al Pci non ha fatto, dopo la Bolognina, un bilancio obiettivo e critico di ciò che era ancora valido e attuale e di ciò che invece avrebbe dovuto essere abbandonato. Si è preferito mettere tutto nel dimenticatoio. Dall'altro lato, invece, occorrerebbe un'analisi seria della società attuale, di che cos'è questo nostro Paese oggi, cioè quello che ha sempre cercato di fare il Pci durante tutta la sua storia, anche se non sempre lo ha fatto nella maniera più efficace e aderente alla realtà".

Livia Turco: «Io, comunista italiana, orgogliosa come allora». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2020. Cuneese, cattolica, l’ex ministra ricorda l’addio alla campagna per fare politica. «Andai a Torino, a Morozzo l’idea in cui credevo aveva significati sinistri». In città, lo choc: «Scoprii il terrorismo rosso e la presa che aveva su studenti e operai». Dicono che il tempo lenisca i dolori, addolcisca i ricordi brutti, metta un filtro alle immagini che si vorrebbero dimenticare. Vera in parte la prima, false le altre due. «Quel giorno del 1977 lo ricordo come se fosse adesso. Era il primo ottobre, quarantatré anni fa. Il corpo di quel ragazzo, completamente ustionato, era davanti a me. Noi della Federazione giovanile comunista di Torino eravamo presenti al corteo di Lotta Continua, anche se non avevamo aderito alla manifestazione. Qualcuno dalla folla lanciò delle molotov all’interno di un bar, l’Angelo Azzurro, che si diceva fosse gestito da fascisti, anche se non era vero. Roberto Crescenzio, uno studente lavoratore, era là dentro. Il corpo che avevo davanti ai miei occhi era pietrificato. Non saprei come definirlo se non così, pietrificato...».

Il tempo di Livia Turco, oggi, è assorbito dal lavoro alla Fondazione Nilde Iotti, che ha fondato anni fa assieme a Marisa Malagoli Togliatti, figlia di Iotti e Palmiro Togliatti, e a una decina di altre amiche e compagne. Prima ancora è stata ministra della Salute e della Solidarietà sociale nei governi Prodi, D’Alema e Amato oltre che parlamentare per diverse legislature, col Pci, poi col Pds-Ds, infine col Pd. Nel 1977 era una giovane comunista arrivata da qualche anno a Torino da Morozzo, duemila anime in provincia di Cuneo. Un anno dopo sarebbe diventata la prima donna a guidare la Federazione dei giovani comunisti di Torino.

I suoi genitori la appoggiavano?

«A Morozzo non c’erano i comunisti. La parola stessa assumeva un significato sinistro, lassù. Avevo imparato la dignità della condizione operaia da mio papà ma la mia era una famiglia di cattolici, elettori della Dc. Dovetti andarmene a Torino per fare politica in santa pace».

Lei è cattolica, giusto?

«Messa tutte le domeniche, da bambina persino la lettura della poesia al parroco che se ne andava. Diventai comunista, anzi catto-comunista, quando Enrico Berlinguer teorizzò il compromesso storico. La scoperta più sconvolgente, per tutti quelli della mia generazione, era che ci fossero comunisti che predicavano la violenza e la lotta armata. Credetemi, scoprire l’esistenza del terrorismo rosso, e quanto potesse essere pervasivo presso operai e studenti, fu sconvolgente, lancinante».

Ha mai avuto paura?

«Nel movimento giovanile del Pci ci si sentiva protetti da una storia più grande di noi. Quindi, direi di no. Un po’ cominciai ad averne quando gambizzarono Nino Ferrero, bravissimo giornalista dell’ Unità, che aveva la redazione dove noi avevamo la nostra sede; lanciammo una campagna “contro ogni forma di violenza”, un messaggio che oggi potrebbe sembrare scontato ma che per quell’epoca, mi creda, non lo era».

Nel 1978 diventa la segretaria della Federazione dei giovani comunisti di Torino, prima donna a guidare l’organizzazione nella città della Fiat.

«Il battesimo di fuoco fu con una riunione alla quale era presente Giancarlo Pajetta».

Partigiano, l’uomo dell’occupazione della Prefettura di Milano nel ‘47, grande dirigente nazionale del Pci.

«Mi chiesero di fare un intervento alla sua presenza, una specie di battesimo di fuoco della mia segreteria. Dissi che noi giovani eravamo sconvolti dal terrorismo rosso, che avremmo difeso in ogni modo le istituzioni ma che quelle stesse istituzioni dovevamo cambiarle. I giovani del Pci stavano senza se e senza ma con lo Stato; ma la domanda di cambiamento dello Stato avremmo dovuto raccoglierla, senza esitazioni. Pajetta riprese la parola, disse una cosa tipo “faccio gli auguri alla segretaria dei giovani ma devo dire che inizia molto molto male; fa un intervento per dire che lo Stato va cambiato ma dimentica le cose che lo Stato fa per le nuove generazioni, come il voto ai diciottenni”. Non mi sentii intimidita. Ma sconcertata sì, lo ero, per quella risposta».

L’organizzazione giovanile nazionale era guidata da Massimo D’Alema. A Torino, nel Pci, c’erano Piero Fassino e Giuliano Ferrara. Un pezzo di classe dirigente nazionale degli anni a venire.

«D’Alema dimostrava di essere un leader lungimirante già da quell’esperienza di guida del movimento giovanile del Pci. Anche di Fassino ho incredibili ricordi, guidava la Federazione di Torino quando ero arrivata in città. Ricordo la manifestazione del 1974 per il referendum sul divorzio, venne Nilde Iotti, la dirigente che più di tutti si era battuta perché il Partito sostenesse con convinzione il No all’abrogazione della legge, cosa che all’inizio era tutt’altro che scontata».

La solidarietà nazionale delle maggioranze Dc-Pci com’era, agli occhi di una giovane comunista?

«Fu un grande insegnamento che non avrei mai dimenticato, neanche dopo. Il dialogo parlamentare da un lato e la protesta sociale dall’altro portarono all’approvazione di leggi che senza quell’esperienza non sarebbero mai arrivate. La legge Basaglia che chiuse i manicomi, la legge 194 sull’aborto, la 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, la 285 sul lavoro».

Anni dopo lei sarebbe diventata la madre della legge sull’immigrazione pre epoca Bossi-Fini, la legge Turco Napolitano.

«Ne vado ancora orgogliosa. Anche di quello che successe dopo, con l’arrivo della Bossi-Fini, quando i medici italiani protestarono contro il rischio concreto che venisse tolta l’assistenza sanitaria agli immigrati che avevamo introdotto con la nostra legge».

Come fu la fine del Pci?

«Dolorosa. Io ero a favore della svolta di Occhetto ma andavo in giro per i congressi a sostenerne le ragioni con le lacrime agli occhi. Vede, per quelli della mia generazione l’essere altro rispetto all’Unione Sovietica era un tema già risolto. I conti li aveva fatti Enrico Berlinguer, con chiarezza. Ma capivamo con dolore che quella parola, comunismo, in certe parti del mondo aveva un significato che per noi non aveva; e per questo, con dolore, dovevamo rinunciarci».

Come si definirebbe oggi?

«Esattamente come mi definivo allora. Una comunista italiana. E, come allora, di questa storia continuo a essere orgogliosa».

CARTA D’IDENTITÀ.

La vita — Livia Turco, nata in una famiglia cattolica e operaia il 13 febbraio 1955 a Morozzo (Cuneo), si è laureata in Filosofia a Torino, dove ha iniziato la militanza politica. Sposata con Agostino Loprevite nel 2006, dopo 20 anni di convivenza, ha un figlio, Enrico, nato nel 1992.

La politica — Diventa segretario provinciale della Fgci nel 1978. Eletta deputata nelle file del Pci per la prima volta nel 1987, è poi favorevole alla svolta della Bolognina: aderisce prima al Partito Democratico della Sinistra e poi ai Democratici di Sinistra e al Pd. Dal 1996 al 2001 è ministro per la Solidarietà sociale nei governi Prodi, D’Alema e Amato e ministro della Salute nel Prodi II dal 2006 al 2008. Nel 2013 decide di non ricandidarsi ed è assunta come funzionario del Pd, suscitando polemiche nel partito.

Intervista a Massimo D’Alema: “Pd nato male, la sinistra senza ideologia non ha futuro”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 31 Ottobre 2020. Presidente della Fondazione Italianieuropei, già presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e molto altro ancora nella sua lunga vita politica, Massimo D’Alema ha rilasciato al nostro giornale molto più di un’intervista. La sua è una riflessione sul mondo all’epoca della pandemia e le ragioni che hanno reso l’Occidente l’epicentro della crisi, ma anche sugli errori e il futuro della sinistra, le cause del fallimento del Partito democratico e la necessità di ricostruire un partito «iniziando da una discussione seria sull’identità di una forza della sinistra democratica oggi».

Paura, rabbia, un’incertezza sul futuro che si fa sempre più angosciante. Sono questi i sentimenti che prevalgono dentro una crisi pandemica che non vede fine. Le chiedo: una sinistra che ha assunto responsabilità di Governo, può accettare che salute e libertà siano in antitesi e ridurre l’esplosione del malessere sociale a un problema di ordine pubblico?

«In questo momento la difesa della vita umana è la priorità, sopra ogni altra cosa, anche se questo comporta una dolorosa accettazione di una serie di limitazioni. D’altro canto, la maggioranza dei cittadini è favorevole a questo. Siamo in un regime democratico, e io ho letto che il 36% della popolazione è critica delle misure del Governo perché le considera troppo blande, e solo il 25% le ritiene troppo severe. Siamo in una situazione in cui le persone hanno paura e quando le persone hanno paura le istituzioni devono offrire sicurezza. Determinate rinunce appaiono inevitabili, naturalmente purché siano limitate nel tempo, si eserciti un controllo da parte del Parlamento e dell’opinione pubblica attraverso i mezzi d’informazione. La democrazia deve continuare a funzionare. Il problema vero è che questa esperienza deve essere l’occasione di un cambiamento. Le crisi, è una frase che viene ripetuta spesso, devono essere colte come occasione di cambiamento. Ne abbiamo vissute due grandissime del modello della globalizzazione senza regole: una è stata quella finanziaria del 2008 e poi questa. In realtà, alla crisi del 2008 che doveva imporre un cambiamento, la risposta non è stata adeguatamente coraggiosa. C’è stata una capacità di resistenza, una pervicacia del modello neoliberista che è riuscito a spingersi oltre la propria manifesta insostenibilità. Oggi questo appare per molti aspetti ancora più evidente, nel senso che una società di individui, in cui vengono meno tutte le reti di solidarietà, di coesione, è una società più fragile. Ci dobbiamo domandare perché l’Occidente è diventato l’epicentro di questa crisi, mentre una parte dell’Asia ha retto meglio, e non solo perché sono regimi autoritari, ma perché sono società più coese, nelle quali il legame tra le persone è più forte. Il modello individualistico che ha prevalso nelle società occidentali le ha rese più fragili. La nuova crescita che dovrà interessare il mondo, sarà una crescita in cui alcuni fattori, a partire dalla salute, avranno un peso enorme, saranno il volano della crescita, nel senso che la ricerca e l’industria, dovranno orientarsi a dare risposte a bisogni umani collettivi. Il modello capitalistico imperante negli ultimi trent’anni ha considerato la sanità pubblica come una spesa che ci si poteva permettere in una misura sempre più limitata. Una spesa che in qualche modo era un peso rispetto alle politiche di sviluppo. Oggi, invece, appare evidente che questa è una pre-condizione della crescita economica. Tornano di stringente attualità valori, idee che sono appartenuti al periodo d’oro della sinistra europea, quello del welfare, dello Stato sociale. Io non penso che si possa tornare agli anni’50-60 del secolo scorso, tuttavia si aprono due questioni: come si riorganizza una presenza pubblica nell’economia e in che modo i grandi beni comuni tornano ad essere considerati non delle spese ma fattori trainanti dell’economia. In secondo luogo la pandemia ha fatto compiere un salto di qualità alla sensibilità diffusa per le esigenze della sostenibilità ambientale».

Perché?

«Perché nella convinzione di moltissime persone c’è un nesso tra inquinamento e pandemia. Diverse analisi dimostrano che la propensione verso il prodotto naturale, biologico, abbia avuto una crescita esponenziale, e questo perché per una parte larga dell’opinione pubblica c’è, per l’appunto, una connessione tra il virus, l’inquinamento ambientale e la distruzione dell’ambiente. D’altro canto anche le scelte della Commissione europea rendono irreversibile la necessità di una svolta verso la green economy. E un’operazione di riconversione di una tale portata non può essere affidata soltanto alla logica di mercato».

Questo pone una grande questione che riassumerei così: ma esiste oggi un pensiero, oltre che un’organizzazione, di sinistra in grado di affrontare sfide quali quelle che lei ha delineato?

«Il pensiero direi ampiamente di sì. Oramai si è affermata l’idea che si debba arrivare ad una riforma del capitalismo globale perché la crescita economica torni ad essere compatibile con la democrazia, un ragionevole grado di uguaglianza tra le persone, e la salvaguardia dell’ambiente naturale. Questo richiede un maggiore equilibrio tra il ruolo dello Stato e il mercato; un nuovo patto tra pubblico e privato, è un pensiero presente da alcuni anni nella letteratura corrente, ma filtra poco in politica. In realtà la crisi del modello neoliberista ha trovato più una risposta nel campo populista, nazionalista, che non nella sinistra democratica…»

Perché?

«Perché quel campo ha dato risposta ad un problema reale, che era quello di riguadagnare sovranità rispetto al dominio del mercato. Quel fronte ha, però, declinato la sovranità in chiave nazionalistica in particolare nella tradizione europea e occidentale. Dall’altra parte, la sinistra democratica e, allargando l’orizzonte, le forze liberali, non sono riuscite a portare la politica al livello della globalità dei processi economici attraverso lo sviluppo delle istituzioni internazionali. Solo ora, nel vivo di questa crisi, un elemento di risposta progressista è venuta dalle politiche europee che, per la prima volta, hanno fatto un salto di qualità nell’integrazione politica. Nel momento in cui si decide di finanziare il Recovery fund attraverso la creazione di un debito europeo, si fa una scelta politica, una scelta di sovranismo europeo. C’è uno scatto, si apre una opportunità, vedremo se ci sarà la forza per continuare su questa strada evitando che, finita l’emergenza, qualcuno voglia tornare alle politiche di austerità. Ma certamente sono avvenuti due fatti importanti: una svolta in senso “keynesiano” e un’affermazione di sovranità europea. Non è un caso che in questo momento il sovranismo in Europa sia in difficoltà, perché la declinazione a destra della critica anti liberista, contro l’Europa adesso funziona meno. C’è una maggiore consapevolezza nelle classi dirigenti, anche in Italia, ovvero che l’Europa è il nostro destino. Non esiste alcuna prospettiva per un Paese come il nostro fuori dall’integrazione europea. Persino la destra in Italia si ripropone il problema di costruire un suo rapporto con l’Europa, tanto è vero che nella destra guadagna consensi quella componente più politica e meno populista. Appare evidente che la pura demagogia antieuropea non abbia alcuna prospettiva. In questo scenario, secondo me c’è lo spazio per una sinistra democratica che torni ad esercitare il suo ruolo. Molti dei temi che tornano obiettivamente attuali, sono temi che appartengono, infatti a quella tradizione, in particolare del nostro continente. Sarà una battaglia dura. È chiaro che il destino della sinistra europea cambierà anche a seconda di come si concluderanno le elezioni americane…»

Tema caldissimo, a pochi giorni ormai dal voto, il 3 novembre. Biden ha la vittoria in tasca?

«A me francamente queste elezioni sembrano molto più aperte, incerte nell’esito, di quanto non poteva sembrare, anche per la particolarità del sistema elettorale americano. La sicura e larga prevalenza dei Democratici nelle aree che conosciamo non sembra essere in discussione. Ma questa è l’America che noi conosciamo. Quando tu pensi agli Stati Uniti, pensi a New York, alla California, questa è la parte che voterà largamente per Joe Biden ma potrebbe non essere sufficiente se Trump riuscirà a rimettere in campo un’America profonda, in cui persino l’appello vagamente razzista al primato dell’America bianca può mobilitare un pezzo di elettorato. La diffusa convinzione che i sistemi maggioritari portano ad un’omologazione delle forze, non è così scontata; mai come questa volta la radicalizzazione ha marcato il terreno. Ciò nonostante nessuno dei due contendenti ha offerto una risposta vera al grande tema della crisi americana, della crisi dell’Occidente e di come quest’ultimo ridefinisce il suo rapporto con il resto del mondo. Tema che in questo momento neanche la sinistra europea affronta».

Con quali ripercussioni?

«In questo momento siamo nella seguente condizione: guerra commerciale, lotta alla crescita cinese, con danni gravissimi perché un ritardo nell’adozione del 5G porterà ad un ritardo nello sviluppo della competitività delle nostre imprese. Siamo nel campo dell’assoluta stupidità, quando uno pur di fare del male agli altri fa del male anche a se stesso. E ancora, sanzioni contro la Russia, sanzioni contro l’Iran e conflitto crescente con la Turchia, che vuol dire che l’Occidente è in conflitto con tutti e due i mondi islamici, sia quello sciita che quello sunnita. Praticamente in questo momento siamo in conflitto con tutto il mondo. Può essere questa una prospettiva? Ovviamente no, bisogna ricostruire un tessuto di relazioni internazionali, di regole condivise. Vorrei usare un concetto antico: tornare ad avere una strategia della coesistenza pacifica. La sfida è quella di ricostruire un tessuto di rapporti, di relazioni umane. È il tema affrontato, non a caso secondo me, nell’ultima Enciclica di Papa Francesco che rappresenta un punto di vista illuminante. Enciclica che è stata accolta con molta freddezza nel mondo occidentale, ma che io credo accenda una luce nella direzione giusta».

Lei prima parlava del destino della sinistra europea e occidentale. La vorrei portare ora sul destino del progressismo italiano, del quale il Partito democratico rappresenta gran parte. Tredici anni dopo la sua nascita, che bilancio trae di questa esperienza della quale è stato tra gli artefici?

«La scelta, compiuta dal gruppo dirigente del Partito democratico e dall’altra parte della sinistra, tra cui Articolo I di cui io sono un militante di base, di dare vita a questo Governo è stata una scelta giusta, coraggiosa, inevitabile direi. Bisognava avviare una collaborazione con i 5 Stelle, non soltanto perché una parte significativa del nostro elettorato era andato lì, ma anche perché bisognava evitare la saldatura tra il populismo della destra e quello dei 5 Stelle. Era un errore politico, un errore strategico, quello che fu compiuto all’inizio della legislatura, l’ultimo di una lunga catena. Avere corretto questo errore, avere fatto la scelta di costituire questo Governo, portarne con senso di responsabilità buona parte del peso, avere retto la sfida delle elezioni regionali in una situazione chiaramente anomala, è stato molto difficile, ma tutto è stato affrontato con dignità e senso di responsabilità. Non mi unisco al coro dei critici: va riconosciuto a Nicola Zingaretti, al gruppo dirigente del Pd e, per parte nostra, a Roberto Speranza, di avere retto in una situazione estremamente complessa. In particolare, per quanto riguarda Roberto, credo che trovarsi a fare il Ministro della Sanità in questa bufera non sia affatto un’esperienza facile. È chiaro però che non basta, bisogna spingere lo sguardo oltre l’emergenza. Il campo della sinistra democratica, del centrosinistra, appare oggi frantumato: c’è il Pd e poi una varietà di partiti, partitini e raggruppamenti. Quest’area è potenzialmente un terzo del paese. Occorre una forza politica che la rappresenti. La questione si coniuga con quella della riforma elettorale. La scelta, sostenuta dal Pd, del sistema tedesco, cioè di un proporzionale con lo sbarramento al 5%, non si configura solo come un’opzione di sistema elettorale, si tratta di una scelta politica. Optare per il sistema proporzionale tedesco significa aprire la prospettiva ad un sistema politico fondato principalmente sui partiti; si riduce il tasso di presidenzialismo, oggi molto presente nel quadro politico elettorale italiano perché le coalizioni si formano soprattutto attorno al leader. Questo determina l’esigenza di ricostruire un grande partito della sinistra che oggi non c’è. Quella del Pd appare oggi un’esperienza non riuscita, così come gli altri tentativi di costruire esperienza politiche esterne o contrapposte al Pd. Con onestà bisogna dire che non ce l’abbiamo fatta, c’è bisogno di una nuova forza».

Secondo lei il Pd ha fallito perché non ha mantenuto la sua ispirazione originaria?

«Penso che proprio l’ispirazione originaria fosse sbagliata. È questo il punto vero: l’idea di un partito post ideologico, programmatico, era un’idea sbagliata. È del tutto evidente che la crisi di oggi ha un contenuto così profondo, non solo economico ma che tocca il destino dell’uomo, delle persone, quindi c’è bisogno di una risposta ideologica. La destra è tornata ad essere forte perché ha messo in campo una risposta ideologica: il nazionalismo, l’etnocentrismo, lo scontro di civiltà con gli altri mondi. L’idea di un partito programmatico, post ideologico, non funziona perché non è adeguata allo spessore della crisi che stiamo vivendo. Un partito deve avere una visione del mondo, un’idea di futuro. È questo il senso che io attribuisco alla parola Ideologia, in questo senso indispensabile. E ancora, un partito aperto, un partito delle primarie, l’idea di americanizzazione della politica non funziona; il partito delle primarie è un partito che rinuncia a formare la classe dirigente, cioè rinuncia ad una sua funzione fondamentale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti».

Quali?

«Paradossali. Nel momento in cui tu dici di aprire alla società civile, il primo effetto è che si restringe drammaticamente la parte di società che viene rappresentata, perché diventa soltanto un ceto medio senza mestiere quello che si affida alle primarie. Infatti il ceto alto, intellettuale ed economico, non è interessato alla politica, quello basso non ci arriva, perché l’operaio non ha i mezzi per organizzare le primarie. Un partito di questo tipo non ha militanti, perché dovresti iscriverti a un partito in cui non hai neppure il diritto di eleggere il segretario? E un partito che si organizza intorno a comitati elettorali, perché poi il meccanismo delle primarie assomiglia molto a quello delle preferenze, è del tutto simile e quindi innesca forme di tipo amicale, nella migliore delle ipotesi, o clientelare di organizzazione del consenso. Manca il collante ideologico, quello organizzativo, si ha una somma di potentati di tipo personale. Tutto questo non funziona, denota una estrema fragilità. Occorre ricostruire un partito partendo dai valori, dalle idee, dal nucleo ideologico che caratterizza la sinistra riformista. Bisogna ri-costruire un partito, in cui si fanno le tessere, in cui per essere iscritti bisogna essere presentati da altri iscritti e quindi essere riconosciuti come persone perbene, in cui si forma la classe dirigente, in cui un iscritto ha una serie di diritti importanti a cui devono corrispondere dei doveri, compreso il fatto che uno deve contribuire all’attività del partito pagando la tessera in proporzione al proprio reddito individuale».

È pensabile oggi un partito del genere?

«Quando ero responsabile organizzazione del Pci, uno dei compiti più significativi che ho avuto nella mia vita, il partito aveva quasi 2 milioni di iscritti. Oggi se ne possono fare 100mila, 150mila? Benissimo, è un punto da cui partire, a patto che siano veri, però. Bisogna ri-costruire un partito iniziando da una discussione seria sull’identità di una forza della sinistra democratica oggi. Nell’intuizione del Partito democratico c’è una cosa che va assolutamente mantenuta e che più che mai è significativa oggi: l’unità della tradizione socialista e di quella cattolica. La cesura non è lì. Anzi oggi per certi aspetti, la critica del capitalismo contemporaneo che si esprime in una parte del mondo cattolico è molto più coraggiosa e avanzata rispetto a quella della sinistra tradizionale. Non riesco ad immaginare una nuova sinistra che non assuma come propria l’idea di solidarietà umana e di fraternità che viene proposta nell’ultima Enciclica di Papa Francesco. Bisogna fare i conti con gli effetti che la lunga egemonia dell’antipolitica ha avuto. Paradossalmente, la destra, superando la stagione del berlusconismo ne sta uscendo. Hanno ricostruito dei partiti. Ad esempio, in queste campagne elettorali regionali, nel Mezzogiorno in particolare, da una parte c’erano alleanze di partiti e dall’altra c’erano dei candidati presidenti, bravi, che hanno anche vinto, ma attorno ai quali c’erano delle variopinte coalizioni, liste civiche, con un impianto tipicamente presidenzialistico. Il centro sinistra non può essere questa specie di “Biancaneve e i sette nani”, non funzionerà mai, significa decidere di consegnare il Paese alla destra».

In questi giorni stanno montando molte critiche all’operato del Governo, anche all’interno della stessa maggioranza, lei cosa pensa?

«Nell’esprimere il riconoscimento ad un gruppo dirigente che sta reggendo una situazione difficilissima, io non mi unisco alle voci critiche. Il Governo ha fatto bene alcune cose, meno bene altre. Si potrebbe approfondire l’analisi. Ma tutto sommato se si guarda alla realtà del mondo in questa crisi, bisogna riconoscere che Conte e il Governo italiano si sono mossi meglio della media. E poi soprattutto, e in questo parla l’acquisita saggezza di un uomo di Stato in pensione come sono attualmente, in un momento così difficile, quando un Governo non ha alternative, perché questa è la realtà attuale dell’Italia, il dovere di un cittadino responsabile è quello di aiutarlo e non di sparargli addosso. Soprattutto chi ha avuto responsabilità pubbliche ha un particolare dovere di lealtà nei confronti del Paese e dello Stato».

L'intervento dell'ex leader della Cgil. Intervista a Guglielmo Epifani: “Ha fatto tanti errori, ma la sinistra non può fare a meno del Pd“. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 29 Ottobre 2020. La sinistra ai tempi del coronavirus, le sfide decisive e la crisi di un intero sistema politico. Il Riformista ne parla con Guglielmo Epifani, già segretario generale della Cgil dal 2002 al 2010, e dal maggio a dicembre 2013 segretario reggente del Partito Democratico, dal quale uscì nel febbraio 2017 per dar vita ad Articolo 1-Movimento Democratico e Progressista. Nelle ultime elezioni politiche è stato eletto alla Camera dei deputati nella lista di Liberi e Uguali. Con lui proseguiamo il confronto aperto su questo giornale da Fausto Bertinotti.

Tredici anni fa nasceva il Partito democratico del quale, per un breve ma intenso periodo, lei è stato segretario nazionale. Quale bilancio trae di questa esperienza?

«Prima di fare un bilancio sul senso, sull’azione, sui problemi e anche sulle opportunità che il Partito democratico ha espresso, io credo sia necessaria una riflessione un po’ più generale sul sistema politico italiano. A me sembra evidente che dove ci sono, anche in Europa malgrado le difficoltà del tempo, delle formazioni politiche autentiche, il rapporto tra cittadini e istituzioni, e la stessa democrazia parlamentare sono più forti. Dove invece ci sono partiti in gran parte personali, improvvisati, cangianti, senza radici profonde, senza una cultura politica e vita democratica autentica al loro interno, la democrazia è più debole. Il partito, sia singolarmente che collettivamente, è lo stato di salute della democrazia. E questo va detto con grande chiarezza, perché altrimenti scambiamo le cause con gli effetti e non ci rendiamo conto che il vero problema che abbiamo di fronte è ricostruire un’offerta politica fatta da partiti che abbiano queste caratteristiche. Dico questo perché se guardo la situazione oggi, nel 2020, sia pure di fronte a questa crisi epocale che stiamo attraversando, non riconosco più di due veri partiti, che pure hanno limiti. Gli altri sono tutti nati sulle basi di spinte irrazionali, di tendenze improvvisate, di umori profondi ma privi di prospettiva. Nel giudicare la storia del Partito democratico, dobbiamo tenere ben presente questo problema che riguarda il sistema politico italiano. Da questo punto di vista, non c’è un problema che riguarda solo la sinistra, il che non significa disconoscerne minimamente la portata, ma c’è un problema gigantesco che riguarda tutte le aree politiche del Paese».

E dentro questo ragionamento, il Pd?

«Il Pd è nato sulla base di una scommessa, l’incontro tra riformismi storici, soprattutto tra quelli di ispirazione cattolica e quelli di sinistra nelle sue diverse articolazioni, per traghettare il meglio di quelle esperienze nella formazione politica a carattere maggioritario. Il limite di fondo è esattamente questo: aver posto un’asticella molto alta che però non si è mai raggiunta. Tranne una fase molto transitoria, il Pd, per quanto oggi sia uno dei “baluardi” del sistema politico ed istituzionale italiano, questo obiettivo non l’ha raggiunto».

Su questo giornale, Fausto Bertinotti, aprendo un dibattito molto vivace, ha sostenuto che «solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e ai riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico». È una “provocazione” intellettuale o è una strada da percorrere?

«Intanto voglio dire, conoscendolo ed essendo amico di Fausto da una vita, che questa sua proposta rappresenta comunque un passo in avanti, perché in qualche modo Fausto si era racchiuso dentro una idea della fine della sinistra, della sinistra sociale, di quella politica, in una valutazione di impossibilità di ricreare uno strumento al servizio delle ragioni dei più deboli, che sono poi le ragioni di un partito della sinistra. Con questa proposta, rompe con questa sua valutazione negativa e prova a costruire, partendo naturalmente dal suo punto di vista, una prospettiva positiva. Di ciò sono anche contento, perché l’idea che tutto sia finito credo che sia sbagliata: non è finita la storia con il crollo del muro di Berlino e dell’impero sovietico alla fine degli anni ’80, non capisco perché debba finire la storia della sinistra, per quanto una sinistra da rinnovare, rimotivare e rimodellare. D’altro canto, capisco però anche le difficoltà che ci sono. Il fatto di esserci ritrovati in questa situazione impone a tutti una riflessione autocritica. Il Pd sarà pieno di problemi, ha fatto degli errori, non c’è il minimo dubbio, si è alimentato di una cultura tipica del pensiero progressista dei primi anni Duemila, che era, come oggi vediamo, sostanzialmente sbagliata, però contemporaneamente sta lì, amministra ancora tante città, importanti regioni, è alla guida del Governo, mentre tutto quello che è nato a sinistra del Pd – sia su un versante marxista sia su un versante ecologista – non ha mai saputo coagulare la costruzione di un soggetto in grado di incidere. Le ultime elezioni hanno dimostrato la limitatezza, se non addirittura l’inesistenza, di spazi sia per ciò che si è mosso alla sinistra del Pd che per ciò che si è realizzato, e non penso solo a Italia viva, alla sua destra. Quindi è su questa contraddizione che bisogna indagare. Non possiamo far carico al Pd di errori e responsabilità che hanno altri. Se riconosciamo questi errori e queste responsabilità, e prendiamo atto che hanno impedito di fare quello che pure si immaginava si potesse fare, cioè una formazione politica e più di sinistra ed ecologista a sinistra del Pd, a me pare evidente che sia impossibile ripartire senza il Pd».

Una sinistra che ha assunto responsabilità di Governo può accettare che dentro questa travolgente crisi pandemica Salute e libertà siano in antitesi e che, brutalmente, la scelta per tanta gente sia tra morire di Covid o morire di fame?

«È una giusta domanda, perché mi ricorda un altro grande dilemma che è stato uno spartiacque in una fase della storia della sinistra italiana: il rapporto tra uguaglianza e libertà. Oggi è come se rivivessimo questo rapporto, tra pandemia e libertà, con una destra sguaiata che cambia opinione ogni giorno e prova a intestarsi il tema delle libertà, e la sinistra tutta piegata, anche con ragioni, sul terreno della costrizione che la situazione pandemica propone. Fermo restando il realismo che c’impone di considerare la gravissima e anche inedita situazione di questa pandemia, io credo che in questo schema occorra ridefinire e mettere in campo una sinistra che ritrovi un rapporto stretto anche con la libertà. È una operazione difficilissima, perché la costrizione per un periodo può renderci più sicuri e tutelare la salute dei più deboli. La salute è un bene essenziale come la libertà, non dobbiamo in alcun modo contrapporle, come giustamente si è cercato in tutti i modi di non contrapporre le ragioni dell’economia con le ragioni della salute delle persone. È il tema sul quale lavorare in questi mesi. Ricordo una discussione che facemmo nella Cgil, quando Bruno Trentin lanciò le parole d’ordine della nuova Cgil, la Cgil dei diritti. Discutemmo proprio di come si affrontano e come si dirimono diritti che sono uguali quando sono in realtà scaglionati nel tempo. Come si conciliano il diritto di un pensionato di oggi e il diritto di un giovane di oggi che non avrà la stessa previdenza di chi è oggi pensionato? Oppure il tema del lavoro e della sicurezza, penso all’Ilva di Taranto. Oggi un diritto viene evocato, rivendicato per negarne o comunque in contrapposizione a un altro. È attorno a questo che abbiamo bisogno di più cultura politica, di più ricerca, di più discussione e di più elaborazione…»

E forse anche di una classe dirigente più autorevole. Tu prima parlavi di Bruno Trentin…

«L’assenza di quelle scuole di formazione e di esperienza politica che erano i nostri partiti, è un vuoto drammatico. Non abbiamo una selezione della classe dirigente, anche politica, così come c’era in passato. Spesso guardiamo al passato giustamente critici per gli errori e i limiti che l’esperienza ci ha proposto, ma ciò non può far velo al fatto che ci sono anche dei modelli di formazione, di discussione, di partecipazione che oggi ci mancano. Mi faccia ancora dire, a proposito del rapporto tra istituzioni e partiti, che uno degli errori che è stato fatto è quello di affidarsi ai cosiddetti tecnici. La scelta di partiti politici in grado di scegliere, di selezionare, anche di aprirsi, ha portato alla figura carismatica, alla figura del tecnico. Cosa che è avvenuta solo da noi, perché se guardi in giro per l’Europa, questa strana figura non c’è. E ancora adesso quando vedo una ricerca disperata di queste figure mi dico non abbiamo proprio capito qual è il problema. Perché quando hai un partito reale, vero, anche il rapporto con chi non fa parte della tua storia, ma viene dal mondo delle competenze, delle professioni, avviene su un terreno più importante, in cui cresce il partito e cresce l’esperienza di chi viene da un’altra storia. Non c’è più bisogno del salvatore, perché ci si salva assieme. Soprattutto le classi dirigenti più legate alla borghesia italiana hanno sempre conciato a questa scorciatoia, non rendendosi conto che in realtà non produceva qualcosa di positivo, ti salvava da una crisi finanziaria, come pure è avvenuto, ma non costruiva un sistema più stabile e più forte nel tempo».

“Il PD non rinunci alla sua identità”, parla Gianni Cuperlo. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 24 Ottobre 2020. Il Pd tredici anni dopo la sua fondazione: quale bilancio trarre? Rinnovamento o autoscioglimento? Il Riformista ne discute con Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd.

Sono passati tredici anni dalla nascita del Partito Democratico. Arturo Parisi, che nel 2007 faceva parte dei 45 membri del Comitato nazionale per la sua fondazione, ha emesso una “sentenza” durissima: “Più il tempo passa e più mi convinco che non c’è nulla da recuperare”, ha sostenuto in una intervista a La Presse. Siamo già ai titoli di coda?

«Per una forza nata tredici anni fa con l’obiettivo di essere il partito del nuovo secolo sarebbe una resa, e non solo per chi vi ha aderito, ma per un campo assai più largo. Naturalmente la scelta non può essere quella di lasciare le cose come stanno o portare i libri in tribunale. Serve l’onestà di vedere i limiti e i guasti che hanno rappresentato la zavorra del progetto, ma senza cancellare quella umanità che anche le settimane segnate dalla tragedia della pandemia hanno reso visibile. Lo dico perché c’è un pezzo di questa storia che nessuno pare considerare, che non sembra interessare ai giornali, ma che è una risorsa unica. Penso a sconosciuti segretari di circolo, a tanti amici e compagni, che senza un euro si ostinano a tirar su la saracinesca della sede o a centinaia di sindaci e amministratori di comuni grandi, medi o piccoli, che in questi mesi sono stati il vero e talvolta il solo, riferimento dentro le istituzioni. Non ho mai taciuto critiche su limiti e ritardi del nuovo partito, il punto è che anche quelle riserve devono sempre distinguere tra calcoli o riti di un ceto politico molto concentrato sui palazzi romani e il patrimonio che vive un centimetro o un metro più in là. Il problema principale del Pd, sostiene Parisi, “è stato proprio la sua nascita tardiva, quando ormai si era spenta l’ispirazione ulivista e richiuso il solco delle condizioni dentro il quale essa era cresciuta”».

Una fusione tardiva e, come sostenne chi non vi aderì, “fredda”?

«Per alcuni il Pd è nato tardi, per altri troppo presto. Io la penso come il mio amico Provenzano, più semplicemente è nato male. C’è chi lo ha vissuto come una scialuppa per conservare una rendita di posizione, chi ne ha banalizzato radici e ragioni e chi ne ha fatto un mito a prescindere. Tu hai citato un uomo acuto come Arturo Parisi e non a caso perché l’Ulivo, a modo suo, era stata un’intuizione coi piedi ben piantati nella parabola repubblicana. Alla base c’era l’incontro fertile tra il mondo del lavoro, della cultura e dell’impresa. Le forze della sinistra storica, laiche, cattoliche, azioniste, dentro quella cornice potevano incrociare altre sensibilità maturate in stagioni diverse, l’ambientalismo, il pensiero femminista, le spinte radicali sul versante dei diritti umani e di cittadinanza, ma tutto questo avrebbe chiesto una fatica della elaborazione che fosse in grado di collocare quei percorsi, ciascuno con la propria autonomia, dentro una nuova identità frutto di un confronto che allora mancò. Ora, se le cose sono andate così lasciamo da parte fusioni calde o fredde, piuttosto bisogna valutare le conseguenze che si sono prodotte».

A tuo avviso quali sarebbero?

«Una la definirei una funzione di supplenza, in mancanza di una chiara missione storica si è ripiegato su una identità leaderistica. In altre parole dove non poté la politica ci si è aggrappati agli statuti e una regola, le primarie aperte per scegliere il leader, da forma di coinvolgimento e decisione è divenuta il primo fattore di riconoscibilità e persino appartenenza. Non è una mia opinione, allora fu detto e rivendicato, con esponenti tra i più autorevoli a spiegare che la grande innovazione stava nel dar vita non già a un partito post ideologico, ma al primo grande partito post identitario. Però se ti proponi di dar vita al soggetto per il nuovo secolo tutto devi fare meno che privarlo di una propria identità. Per questo credo che oggi sia giusto reagire sul piano culturale e penso vada fatto adesso perché lo spartiacque globale della pandemia cambia intere categorie del pensare politica, economia, società e senza un profilo riconoscibile è complicato aprire un campo largo mentre aumenta il rischio di venire travolti da una realtà che non ti riconosce perché tu per primo fatichi a riconoscerla».

Afferma ancora Parisi: “Visto che lo scioglimento delle due principali forze preesistenti, i Ds e i Dl, aveva l’obiettivo di consentire la nascita di un soggetto nuovo che non fosse la continuazione né la loro somma, e in quanto nuovo puntasse ad un ulteriore allargamento dei consensi, dobbiamo riconoscere che l’obiettivo di allora è stato abbondantemente mancato". Sia che si guardi alle elezioni che precedettero la fondazione, quando i due partiti presero come Ulivo il 31,3%, sia che si guardi alle prime elezioni del 2008 nelle quali il Pd prese il 33,2%, guardando ai consensi di oggi dobbiamo riconoscere che un terzo dei consensi di allora si sono persi per strada.

«Ma sì, è così e i numeri difficilmente imbrogliano, però anche in questo caso conviene capirsi, noi rimaniamo la forza che ha retto in questa fase allo sfondamento della destra. Detto ciò tra il Pd di adesso e quello che prese le mosse al Lingotto ci sono differenze che vanno molto oltre le percentuali nelle urne. Prima di tutto perché è mutata la scena attorno. Quel partito degli inizi, anche se con un linguaggio aggiornato e in parte visionario, raccoglieva l’eredità della sinistra che si era plasmata negli anni Novanta. Parlo della coda della Terza Via di Clinton, Blair, in parte dell’Ulivo stesso. Quella era una lettura della globalizzazione vissuta come legge della storia col corredo di un liberismo temperato in economia compensato da una spinta più decisa ai diritti individuali. Se torniamo con la mente al Jobs act e alle unioni civili possiamo dire che di quell’impianto il renzismo è stato l’espressione più limpida e, a modo suo, coerente. Il punto è che la crisi del 2008 e oggi la pandemia hanno archiviato del tutto quella stagione, il Pd ha dovuto affrontare le novità di questi anni subendo due scissioni, guidate per altro dai due segretari più longevi della sua breve esistenza. A quel punto giocoforza si è trattato di reggere l’urto di eventi abbastanza traumatici. Letto così penso che il 20 per cento di adesso sia quasi un miracolo, anche perché segue il 2018 e la peggiore sconfitta della sinistra di sempre. È chiaro che tutto questo non basta e che la prova difficile è rendere attrattiva questa forza per il tanto di buono che esiste e agisce fuori da noi, intendo forze sociali, reti del civismo, un tessuto strutturato della solidarietà che resiste e si oppone a disuguaglianze indecenti. A Bologna, un anno fa, il tentativo fu questo e da quel metodo credo convenga ripartire, se possibile gettando alle ortiche una presunzione di autosufficienza che poca gloria e parecchi danni ha generato».

Dal passato al futuro. “Il Riformista” ha aperto un confronto, molto partecipato, a sinistra a partire da un articolo di Fausto Bertinotti, nel quale l’ex presidente della Camera sostiene: “Solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e a tutti i riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico”. È una “provocazione” o una via obbligata per una “casa comune” dei riformisti?

«Mi perdonerete una citazione, è di Marc Bloch, lo storico francese fucilato dai nazisti nel ‘44, dice: «L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato». Allora chiedo, cosa si intende quando si dice: «Scioglietevi perché solo quell’atto può consentire una costituente dei riformisti per un nuovo soggetto»? Non ti sembra la rievocazione dello stesso argomento utilizzato all’atto costitutivo del Pd? Quasi le stesse parole e formule? Però ci siamo appena detti che allora fu proprio la scelta di limitarsi a parole e formule senza offrire al progetto una chiave di senso a caricare di piombo le ali. Ecco, non vorrei incamminarmi sullo stesso sentiero, compresi gli stessi errori, senza prima scavare un po’ più a fondo».

Sì, ma cosa intendi per scavare?

«Ci sono almeno due filoni della storia del passato che hanno a che vedere col disegno di una unità dei riformisti in un soggetto unitario. Da un lato l’idea che tutto sommato il nostro fosse un paese fatto male e unificato peggio, un popolo gravato da storture, vizi, patologie, eredità di un passato diviso e servile. L’elenco è noto, scarso senso dello Stato, poco rispetto delle regole, evasione, corruzione, quel primato degli interessi privati a dominare sul bene pubblico battezzato più avanti familismo. Da Giolitti a Salvemini passando per Croce o Einaudi, seppure in forme diverse e anche correggendosi nel tempo, veri monumenti dell’Italia unita hanno considerato quelle deviazioni una condizione difficile da estirpare facendo discendere da lì il bisogno di una élite illuminata che dall’alto della sua sapienza avesse forza per dominare o reprimere quegli istinti primitivi».

E l’altro filone?

«L’altro filone della nostra vicenda quei ritardi non li ha negati, ma ha creduto che la maturità di una società capace di affrancarsene passasse da una democrazia partecipata, da grandi partiti specchio di culture politiche in grado di spingere il paese a colmare guasti antichi. Questo è Gobetti, questo è Gramsci, questo sono state le culture popolari a fondamento della Costituzione e del patto repubblicano. Culture che il secolo breve, il ‘900, aveva costretto per larga parte a procedere divise e che la rottura dell’89 e l’implosione del sistema politico del ’92 e ’93 resero per la prima volta partecipi, almeno sulla carta, di una prova sempre rinviata, la riunificazione dei ceppi del riformismo italiano nelle sue diverse espressioni e sensibilità. Questo rendeva potente il messaggio dell’Ulivo e conferiva un senso storico al progetto del Pd. Aggiungo che solo in questo modo evocare il partito per il nuovo secolo acquistava un valore capace di superare la retorica».

E allora, cosa è accaduto che ha frenato il tutto?

«E’ accaduto che una volta scavate le fondamenta e scomodato figure di prestigio per motivare l’edificio, quello in buona misura è rimasto un bel disegno, ma questo ha consentito a un ceto di professionisti la tutela di sé stesso. Credo che se non aggrediamo questo nodo l’invito a scioglierci per ripartire somigli un po’ tanto al gioco dell’oca mentre, insisto, è l’agenda del mondo, la pandemia, la trasformazione dell’economia e dei bisogni umani a partire dal legame tra reddito e lavoro o la nuova strategia dell’Europa che impongono di ripensare al chi siamo e di conseguenza al chi vogliamo rappresentare».

Pd, il partito delle primarie. Lo hai descritto quasi come un tratto costitutivo. Ma oggi la giudichi un’esperienza archiviata?

«No, penso che da quel metodo non si tornerà indietro ed è giusto così. Poi è evidente che se ragioniamo dell’attualità converrà tener conto di mille cose, per prima il fatto che montare i gazebo a pandemia in corso vuol dire incontrare non poche difficoltà. Però per me il punto resta quello accennato, benissimo le primarie, ma non possono rappresentare la chiave che definisce il resto.

Il portavoce di Si. Intervista a Nicola Fratoianni: “Che guaio se la sinistra al governo si scorda di cambiare il mondo…” Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Con Nicola Fratoianni, portavoce nazionale di Sinistra Italiana e deputato di LeU, Il Riformista prosegue il confronto a sinistra aperto da un articolo dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti.

Sostiene Bertinotti: «Solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e a tutti i riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico». È una “provocazione” o è una strada obbligata da seguire?

«Credo che innanzitutto quella di Fausto sia una “provocazione” e insieme un elemento di riflessione su una condizione irrisolta della politica italiana che va avanti ormai da molti anni. Non sono mai stato nel Partito democratico, non l’ho mai frequentato e dunque con più difficoltà rispondo a una “provocazione” che avanza una proposta innanzitutto al Pd. E tuttavia m’interessa una discussione, appunto, su quello che io vedo come un nodo irrisolto, in primo luogo tra la vocazione maggioritaria che il Pd ha dichiarato fin dalla sua nascita e la sua obiettiva incapacità di rappresentare l’intero spazio politico di quello che è stato, molte volte peraltro in modo alquanto ambiguo, chiamato riformismo, progressismo nel nostro Paese. Che oggi il Pd resti il perno fondamentale di un campo progressista, democratico, in grado di porsi come argine alle destre, e però non in grado di rappresentare da solo una forza sufficiente per costruire questa alternativa né di costruire efficacemente una coalizione capace di farlo, mi sembra un dato difficilmente contestabile».

Il problema che pone Bertinotti investe anche ciò che si muove a sinistra del Pd. Perché quella di cui lei è uno dei protagonisti, è anche una storia di scissioni, di difficoltà di ricomposizione di un soggetto politico unitario.

«Non c’è dubbio. La sinistra che è stata spesso nominata, in modo un po’ dispregiativo, come sinistra radicale, -confondendo la radicalità necessaria ad affrontare le sfide del nostro tempo, le contraddizioni del mondo in cui viviamo e che la pandemia ha peraltro ulteriormente disvelato e accentuato, con una sorta di radicalismo identitario e autoreferenziale- vive oggi una crisi evidente. È una crisi di rappresentanza, di identità, è una crisi di massa critica dentro una condizione di frammentazione che è diventata insopportabile agli occhi degli elettori, delle elettrici, di quelli che vorremmo rappresentare, ed è insopportabile perfino per chi la frequenta la sinistra politica di questo Paese, per me innanzitutto. È un problema molto grande, ma continua, per quel che vedo, a non essere risolto dalla proposta del Pd. E questo perché mi pare che il Pd continui ad aggirare alcune questioni fondamentali che riguardano la natura e le contraddizioni del tempo che stiamo vivendo, e dunque una proposta politica, che pure in modo articolato e plurale, sia in grado di affrontare in maniera efficace. Siamo dentro a una sorta di cortocircuito, perché quella proposta e quel partito sono dentro questa condizione, e da questa parte del campo politico, però, fatica drammaticamente ad emergere e a ricostruirsi una proposta che sia minimamente a livello della sfida che abbiamo davanti».

C’è chi sostiene, anche nel dibattito avviato da questo giornale, che la sinistra è malata di “governismo”. Il governo non più come strumento ma come fine.

«Penso che sia vero. Vorrei però approfondire che cosa significa, il rischio altrimenti è di liquidare questa questione molto seria, con una sorta di giudizio etico-morale nei confronti delle classi dirigenti, come se il tema fosse il potere per il potere, il gusto del governo come pura “comfort zone” nella quale collocare le proprie ambizioni, personali, collettive, l’esercizio della propria iniziativa. Francamente non credo che sia questo il problema principale, naturalmente può esserci anche questo, ma certamente non solo il PD ma potenzialmente tutti gli attori e le attrici della politica-politica. A me pare che questo nodo abbia invece un contenuto molto serio e fondato, quando ad un certo punto misura la rinuncia alla politica, al governo, al potere, come strumento di trasformazione radicale della realtà e l’idea che il governo sia in fondo l’esercizio quotidiano di un tentativo di mettere in equilibrio tra loro interessi diversi, di assommare l’una all’altra quelle che abbiamo chiamato, nella migliore delle ipotesi naturalmente, le “buone politiche”. A un certo punto nel linguaggio pubblico le “buone politiche” hanno sostituito la politica, vale per l’amministrazione, vale anche per il governo, come se le buone pratiche, l’efficienza, fossero di per sé sufficienti. È la stessa discussione che a un certo punto ha portato al suo centro il nodo delle competenze, e con questo il nodo dei tecnici che governano in nome di un sapere, che però si pone separato dalla politica come luogo di elaborazione collettivo, in cui si produce cultura e in cui la cultura serve come leva di immaginazione e di trasformazione della realtà. È una dinamica che è andata di pari passo con la rimozione, quasi definitiva, del conflitto dallo spazio della politica. Eppure il conflitto c’è, solo che hanno continuato ad agirlo nella società soltanto alcuni, mentre ha smesso di farlo, almeno in maniera sufficiente, quell’area della sinistra politica riformista, moderata, ognuno può usare il termine che più preferisce, ma non è questo il punto, ha smesso di farlo una certa idea del cosiddetto centrosinistra di governo».

Ormai si scrive e si dice in ogni dove, che nulla sarà più come prima dopo la crisi pandemica globale. Dal tuo punto di vista e dalla sua collocazione politica e ideale, come si dovrebbe tradurre questa affermazione? Il dibattito sembra oggi ruotare attorno a lockdown sì lockdown no, lockdown nì…

«È il gigantesco tema che abbiamo di fronte. Questo nodo del nulla sarà più come prima rischia di diventare il terreno di una gigantesca operazione retorica. Perché è vero che il virus cambia tutto, il problema è in quale direzione muove questo cambiamento. Il cambiamento non è un fatto neutro, come non lo è la politica, come non lo è il governo, per tornare al punto di prima. Il rischio che questo cambiamento muova in una direzione regressiva invece che in una direzione progressiva è molto grande. Faccio un esempio: dobbiamo tornare a quello che c’era prima? Quando nel linguaggio pubblico l’obiettivo sembra essere il ritorno alla normalità, a me si rizzano i capelli, perché credo che la normalità sia una parte decisiva del problema. Lo sia sul fronte dei diritti che non sono garantiti, come quelli alla salute, come al lavoro, alla cittadinanza, al reddito, ma anche il ritorno ad una normalità nella quale il capitalismo, per come oggi si organizza e funziona, produce una parte significativa della sua opera di accumulazione del valore direttamente nella vita delle persone. E io penso questo sia in fondo il nodo cruciale che abbiamo davanti, sia per rispondere alla crisi che la pandemia ha drammaticamente accentuato, ma anche per immaginare una costruzione nuova, perché questo è il terreno su cui è possibile provare a fare in modo che il “niente sarà più come prima” corrisponda a “il futuro sarà migliore di quello che avevamo prima”. Discutiamo del lavoro: penso che di fronte alle emergenze che la pandemia ha accentuato, ma anche alle tendenze che già erano presenti, come quelle legate alla rivoluzione digitale, all’innovazione tecnologica, torna, potente, la questione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, di un diverso modo di organizzare il rapporto tra il tempo della vita e il tempo del lavoro. Torna il tema del diritto al reddito, che non può essere confuso con le politiche attive del lavoro né con quella formula liquidatoria, un po’ dispregiativa, del “divano”, a cui anche tanta parte delle classi dirigenti di sinistra ogni tanto cedono; l’idea per cui se tu hai un reddito devi andare a lavorare in campagna perché devi in qualche modo restituire quel che ti è stato dato, come se quel che ti è stato dato non fosse il diritto ad una condizione di dignità e di cittadinanza che andrebbe garantito a chi non per colpa sua vive una condizione di marginalità. L’idea che la povertà non sia una colpa, ma che sia il frutto di rapporti di potere ineguali. In fondo la nuova Confindustria di Bonomi la sua partita la fa in chiaro. È quella che chiama “Sussidistan” ciò che muove nella direzione di garantire dignità a chi non arriva alla fine del mese, mentre chiama “contributi allo sviluppo” i sussidi ben più rilevanti di quantità che arrivano al sistema delle grandi imprese. È quella che chiede ancora più flessibilità nelle tutele e meno diritti, perché immagina che quei rapporti di potere debbano essere ulteriormente sbilanciati. A ciò aggiungo che la pandemia accentua, se è possibile, ancora di più la velocità con cui cresce la forbice nella distribuzione ineguale della ricchezza. In Italia i mega miliardari sono diventati ancora più ricchi, e credo non solo in Italia, durante la pandemia, mentre milioni di persone non solo scivolano in una condizione difficile sul terreno della sussistenza ma vedono chiudere le loro attività: parliamo non soltanto di lavoratori, di precari, delle figure deboli per definizione, ma anche di tante piccole imprese, dii commercianti. Ma dovremmo allargare lo sguardo su quello che accade al pianeta, all’ambiente, al clima. Attorno a questi nodi si gioca il futuro. E questo vale per tutti, per la sinistra nella quale io milito, vale per il Partito Democratico. Certo, se ci fosse una proposta che mette al centro della discussione questi nodi, e magari l’interpreta o costruisce le condizioni perché possano essere interpretati anche da punti di vista diversi, sarebbe interessante. A me pare che questa sia la questione che, se non ho letto male, pone in qualche modo anche Bertinotti».

Il Partito Democratico si autosciolga, serve una costituente per un nuovo soggetto. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. La politica italiana, dopo le recenti tornate elettorali, conferma la sua instabile stabilità. La risposta alla domanda su quale dei due termini dell’ossimoro è destinata ad affermarsi nel prossimo futuro è affidata alla piega che prenderà l’incertezza che, del resto è la cifra che connota questa ormai lunga e opaca fase politica tipica dell’Italia, ma non solo di essa. L’assoluta centralità del governo, ora allargata ai governatori regionali, ha fagocitato ogni dinamica partitica sul terreno istituzionale e l’ha desertificata nel Paese reale. Gli schieramenti e le alleanze tra i partiti si contendono il governo, esaurendo nella contesa ogni altro elemento della politica, fino alla scomparsa sulla scena degli elementi fondamentali, come gli aspetti ideologici, programmatici e addirittura gli elementi che connotano la natura di una formazione politica. Chi sta al governo lo fa per continuare a rimanerci e chi sta all’opposizione lo fa per giungervi. Tutto qui. Il quadro europeo, nella sua nuova conformazione assunta nel contrasto al Covid, rafforza il processo in atto. Il declino della tendenza politico-culturale vincente sino a ieri – una nuova destra fondamentalista, populista e reazionaria – sposta ulteriormente il baricentro della contesa sul governo, sempre più, a sua volta, sequestrato nella sfera amministrativa. Se il populismo voleva la fine della contesa classica tra destra e sinistra, il primato dell’amministrazione, che ad esso sembra subentrare quale tendenza prevalente, concorre allo stesso fine. È più precisamente la fine della politica per come si era venuta affermando in tutta la modernità. Nel campo del governo, nel nostro Paese, si sono venuti affermando due propensioni diverse, ma convergenti. Alla crisi del populismo di destra, in parallelo ad essa, si è aperta in termini ancora più esplosivi la crisi del populismo trasversale, quello personificato da Grillo e poi vissuto nei Cinque Stelle. Mentre il centrodestra è investito dal tema della sua ristrutturazione, il Pd è così risultato, per via di un processo prevalentemente alimentato da fattori esterni, il centro dell’attuale fase della governabilità, un centro immobile. L’immobilità e persino una certa sua afasia sono proprio quello che consente la tenuta elettorale del Pd, nella morte però della politica. Le previsioni di un suo dissolvimento, con la condivisione della sorte toccata al Partito socialista francese, sono state smentite dai fatti. Il rischio si era reso evidente con il crollo di molti dei capisaldi storici che gli avevano garantito il consenso elettorale, a cui era seguita quel che è stata chiamata “la nuova contendibilità” delle sue grandi casematte regionali. La storia politicamente e culturalmente devastante ha condotto, anche in quelle realtà, da una condizione caratterizzata da un popolo innervato sul Pci e sulle istituzioni del Movimento operaio ad aggregati informi di individui-cittadini. Essa ha reso possibile quel gigantesco smottamento e ha fatto avanzare anche l’ultimo rischio. Anche senza far ricorso alla massa di saggi storici e sociologici sul tema, basta la lettura dell’ottimo lavoro di Mario Caciagli sul Valdarno, Addio alla provincia rossa, per farsene una ragione, seppure drammatica. Ma il Pd esce dalle ultime elezioni potendo vantare una tenuta, se non un’inversione di tendenza. Dunque, proprio l’immobilità ha favorito la conservazione del consenso popolare. Il declino dell’estrema destra salviniana non ne ha cancellato la minacciosità e il Pd ha finito in ogni caso per rappresentare, rispetto ad essa, un argine rassicurante. La centralità assunta nelle contese regionali, dai presidenti divenuti sul campo governatori, ha opacizzato la contesa tra i partiti, già radicalmente ridimensionati nel ruolo pubblico e nella percezione popolare. Il Pd si è fatto il sostenitore meno problematico delle candidature presidenziali, a partire da quelle rivelatisi vincenti. I residui degli insediamenti storici, le tracce rimaste, incontrano il terzaforzismo nascente di ciò che Thomas Piketty ha chiamato «la sinistra intellettuale benestante». Da noi, le zone ztl sono ormai diventate una categoria della politica. Ma è il teatro dei morti che camminano. La loro incidenza sulla vita delle persone, sulle dinamiche del conflitto sociale di classe, sulle scelte di politica economica, che contribuiscono a costruire il futuro del Paese e dell’uomo, sui rapporti tra i popoli e i Paesi del mondo è pressoché nulla. Così la politica esce dal vissuto del popolo e muore mutandosi in semplice amministrazione. Sappiamo bene che la sua rinascita batterà strade ora sconosciute e che l’imprevisto da cui essa scaturirà alloggia in ogni caso nel corpo del conflitto sociale, piuttosto che nel cielo della politica. Ma quel che accade nella politica-politica, anche nel tempo della sua grande crisi, non è del tutto trascurabile né rispetto alla questione democratica, così acutamente aperta, né sui problemi di società, a partire da quello decisivo delle diseguaglianze. Il Pd è risultato vivo elettoralmente, ma resta muto e privo di incidenza politicamente. La causa prima risiede proprio in sé stesso, nella sua forma concreta e nella sua sostanza politica. La lunga parabola discendente della sinistra l’ha ridotto alla sua materiale e fisica esistenza, e il governo l’ha ingoiato. Nel dopoguerra, prima della rottura storica, la sinistra è stata partito di lotta, poi nella transizione, partito di lotta e di governo, infine, partito di governo e del governo. Questo esito ha connotato il Pd nel profondo, in esso vivono anche esperienze interessanti, militanti impegnati, dirigenti rispettabili. Non cambia niente. Il partito resta muto politicamente e immobile. La ragione di fondo è che la sua traiettoria e il suo attuale esito ne abbiano dettato l’intera costituzione materiale, sicché il Pd è diventato irriformabile. Tutto il campo, che in termini mal definiti possiamo chiamare “riformista”, vi fa riferimento anche criticamente, e in ogni caso, soggetti quandanche separati organizzativamente non possono prescindere dalla sua esistenza elettorale. Lo stallo investe così l’intero campo riformista. Non vedo altro modo di sbloccarlo che quello di produrre in esso una rottura, una rottura che non potrebbe che investire in primo luogo la sua forza principale, il Pd, la forza immobile. La parola che la esprime è forte, ma credo che sia indispensabile alle forze riformiste per tornare ad essere un soggetto politico protagonista della storia politica del Paese. La parola è “autoscioglimento”. Può sembrare una beffa perché scioglimento è il recupero, su tutt’altro terreno, di un termine che mise fine alla storia di un grande partito e non è stato l’inizio di quell’altra storia che i suoi sostenitori avevano annunciato. La discontinuità tra le due storie è radicale e definitiva. Si tratta ora di altro. Si tratta di rompere un vincolo che impedisce di prospettare il futuro di una soggettività politica che, sempre con qualche forzatura, chiamiamo riformista. Da tempo c’è una metafora, quella della mossa del cavallo, cui si ricorre troppo spesso. In questo caso il ricorso ad essa sarebbe però pertinente. La mossa aprirebbe una diversa prospettiva, brucerebbe ogni rendita di posizione, compresa quella degli attuali gruppi dirigenti; impedirebbe di sostituire alla ricerca di una linea politica la ricerca delle alleanze per governare; manderebbe in soffitta le immagini dei padri scelti per avvallare una politica, quella di centrosinistra, immagini tra le tante, anche più pericolosamente promettenti, di una storia conclusa ma a cui si sarebbe potuto attingere. Restituirebbe infine a tutti coloro che volessero partecipare a quel processo la titolarità delle scelte politiche costituenti. Solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e a tutti i riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico. Due potrebbero essere, in prima approssimazione, gli orizzonti tra cui la costituente dovrebbe avviarsi. Una più interna alla storia politica europea, l’altra debitrice da esperienze d’oltreoceano. La prima potrebbe essere di scuola neo-mitterandiana, la formazione cioè di una nuova forza socialista, ma di questa ipotesi non se ne scorgono neppure i segni lontani nell’intero campo riformista; la seconda potrebbe guardare più all’America di oggi, con la configurazione di un grande campo liberal-democratico, aperto a destra ai fruitori del primato del mercato e a sinistra fino alle forze in grado di riusare il termine socialista. Due orizzonti tra i tanti che solo una costituente di popolo e di ricerca potrebbe restituire vivi nel campo dei riformismi. Una costituente sarebbe il banco di prova della possibilità di vita, peraltro nient’affatto scontata nell’attuale realtà del mondo ed europea, di una forza riformista nell’attuale fase storica. Essa dovrebbe lavorare alla definizione di una sua ideologia – se la parola non spaventa – a una propria strategia, a un proprio programma, a una propria e originale forma di organizzazione. Se il campo politico fosse quello di tutti i riformismi, quello sociale sarebbe da costruire sia nella definizione dei soggetti sociali privilegiati, fuori della falsa retorica secondo cui lo sarebbero i cittadini tutti, sia nella individuazione delle prassi politiche e sociali da adottare con essi e in rapporto ad essi. “Vaste programme”, avrebbe detto il generale Charles De Gaulle. E ancora, resta fuori da questo schema il campo di chi si professa dichiaratamente anticapitalista, un campo che tuttavia non è, in particolare nelle realtà sociali, tutt’altro che fuori dalla contesa, e che anzi potrebbe rilanciarsi proprio nella ricostruzione di una contesa storica con l’ultimo capitalismo. Ma questo è un altro discorso…

«La sinistra post Mani Pulite ha buttato diritti e libertà. E così è sparita dalla politica». Orlando Trinchi su Il Dubbio il 30 settembre 2020. Parla il sociologo Alessandro Dal Lago, autore del saggio “Viva la sinistra”. «Non è compito di un libro sull’idea di sinistra proporre soluzioni operative. Si tratta semmai di tracciare delle linee di principio, come suggerito qui più volte. Ovvero dei limiti insuperabili. Così, anche le soluzioni sono difficili, la coerenza va salvata a ogni costo». Il nuovo saggio del sociologo e accademico italiano Alessandro Dal Lago, Viva la sinistra (Il Mulino Editore), sembra dirci proprio questo: che non può rinascere un’idea convincente di sinistra se non ci si ferma a ricordare i valori inderogabili che da duecento anni ne sono stati faro e ancora di salvezza.

Dal Lago, cosa possono insegnare, in termini di ideali di sinistra, gli esempi forniti da Carlo Pisacane o Rosa Luxemburg?

«A mio avviso, l’esistenza di valori non negoziabili. Principi a cui non si può e non si deve abdicare. Il Pd si è allontanato da essi nel momento in cui non ha posto come priorità il salvataggio delle vite, decidendo di rimandare indietro i migranti in una terra come la Libia, appannaggio di bande armate o seviziatori. Principi fondamentali dell’umanità, come il rispetto della vita e dei più deboli, sono stati ampiamente violati. Lo stesso direi riguardo posizioni rigidamente giustizialiste, testimoniate dall’acquiescenza del Pd nei riguardi della riforma Bonafede sulle intercettazioni. L’esempio rappresentato da Carlo Pisacane e da Rosa Luxemburg non è politico ma pre- politico. Per la Luxemburg un movimento di sinistra doveva ampliare le libertà borghesi, mentre per la sinistra post- Mani pulite le libertà borghesi contano poco o nulla.

Parlando del tema migranti: la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha recentemente affermato di voler rivedere il Trattato di Dublino. È fiducioso al riguardo?

«Onestamente no. Non ho difficoltà nell’ammettere la sincerità dell’appello della Presidente von der Leyen, che tuttavia deve fare i conti con gli egoismi dei vari Stati e con la mancanza di una struttura capace di imporre delle scelte coerenti a livello europeo. Il Trattato di Dublino, che prevede che il primo Paese in cui giungono i migranti debba anche essere responsabile della loro gestione iniziale, riguarda principalmente i Paesi rivieraschi, ovvero Italia, Spagna e Grecia in primis. Salvini si è ben guardato dal rivederlo, in quanto l’arrivo di possibili clandestini a lui fa comodo come pretesto per poter imbastire polemiche politiche.

È cambiato il panorama rispetto al dibattito ideologico inerente l’opposizione destra/sinistra suscitato da Bobbio negli anni Novanta del secolo scorso?

«È molto cambiato, in quanto le basi teoriche di tale dibattito oggi non sussistono più. Quando Bobbio ha identificato in Nietzsche il filosofo della destra e in Rousseau quello della sinistra, non si sarebbe mai potuto immaginare che il primo, nella lettura di Vattimo, sarebbe diventato un pensatore quasi libertario e il secondo sarebbe assurto a nume tutelare dei Cinquestelle, che di sinistra certamente non sono.

Più che di sinistra e destra, sarebbe più corretto parlare delle sinistre e delle destre?

«Sì. Mentre nel campo della sinistra continua a persistere quasi soltanto il Pd, ma per il resto le sinistre non esistono più, le destre, anch’esse divise, manifestano tuttavia un sentire comune. Salvini e la Meloni, ad esempio, si disputano il medesimo elettorato, laddove Forza Italia si pone come formazione liberale di centrodestra. Oltre a loro si stagliano le destre fasciste – come Forza Nuova o Casapound –, che in qualche modo si riconoscono nei leader della destra istituzionale, nonostante Salvini e la Meloni lo neghino.

Quanto è costata, in termini di popolarità, l’adesione più o meno manifesta di certa sinistra a un modello ordo- liberista?

«In Italia, Mario Draghi aderisce compiutamente a un modello ordo-liberista, secondo cui le leggi del mercato debbano dominare la società, mentre Matteo Renzi è fuori tempo massimo, un sopravvissuto di un tipo di cultura politica che ha avuto tuttavia un impatto enorme nel Paese.

Considera pericoloso il modello offerto dall’estrema destra al governo dei Paesi del gruppo Visegrad – «un tipo di vero e proprio bonapartismo» – cui attingono anche leader italiani?

«Il modello culturale di riferimento mi sembra essere quello che parte da Trump per approdare a Orbán e Kaczynski. L’idea di fondo è che le regole democratiche vengano minacciate proprio da coloro che grazie ad esse sono arrivati al potere. I nuovi leader si presentano come uomini soli al comando e si rivolgono direttamente ai propri elettori, marcando un’evidente distanza con la democrazia parlamentare strictu sensu. Anche in Italia non mancano i loro emuli: la dichiarazione di Salvini dell’agosto del 2019, in cui chiedeva pieni poteri, o quella di Grillo al presidente del Parlamento europeo, in cui ha confessato di voler abolire la democrazia parlamentare in favore della democrazia diretta, sono discorsi di estrema destra.

Nel suo libro, attingendo alla grammatica antropologica, ha rilevato la differenza tra rituali liminali (coinvolgenti, totalizzanti) e rituali liminoidi (freddi, teatrali). Quanta incidenza hanno rituali e simboli cosiddetti liminali nell’attuale opposizione destra/ sinistra?

«Un’importanza enorme. Tra rituali liminali e liminoidi esiste una differenza di grado. Il rituale di Salvini al Papeete era di tipo liminale, perché rivolto alla pancia della gente, così come quando Trump arringa folle osannanti contro i propri avversari politici. Il liminoide può identificarsi con la formalità, la teatralità del potere, ben rappresentata, ad esempio, dalle riunioni del Parlamento. La destra, oggi, è capace di utilizzare la sfera liminale, mentre la sinistra non lo è più: non è più capace di appellarsi ai sentimenti profondi, liminali, del proprio popolo.

Come, secondo lei, oggi le formazioni populiste hanno sovvertito la tradizionale narrazione binaria fra destra e sinistra?

«La destra rappresentata da Meloni e Salvini rientra in una dinamica di opposizione destra/ sinistra; il vero problema è che i suoi leader si sono appropriati di una serie di istanze sociali che sono state abbandonate dalla sinistra. La difesa dei lavoratori anziani sembra – almeno a parole – essere diventata appannaggio del programma politico di Salvini, mentre la Meloni si pone come rappresentante del ceto impiegatizio pubblico del Sud.

Ritiene che le ultime Regionali abbiano segnato un buon risultato per la sinistra – una certa sinistra – o, quantomeno, un arresto delle aspirazioni della destra salviniana?

«Le Regionali hanno segnato un sostanziale pareggio, oltre ad aver marcato l’interruzione del tentativo di Salvini di colonizzare il Sud. Non ci è riuscito, ed è probabile che nell’immediato futuro la Lega torni ad essere un partito soprattutto padano. Più che la sinistra, ha vinto un certo tipo di amministrazione locale rappresentata da personaggi pittoreschi come De Luca – che ha già dichiarato di essere al di là della destra e della sinistra – o Emiliano. Una sinistra politica in Italia non esiste più. Credo che oggi il gioco sia tra democrazia parlamentare, assimilabile al centrosinistra, da un lato e i tentativi dei neo- sovranisti, che temo essere destinati al successo, dall’altro. Leggo che, secondo alcune proiezioni del nuovo Parlamento ridotto, conseguenza della recente vittoria del sì al Referendum, la destra guadagnerebbe la maggioranza, una destra in cui Salvini e la Meloni avrebbero un peso preponderante. L’unica possibilità che ciò non avvenga è che, trattandosi di due leader in competizione, potrebbero indebolirsi a vicenda.

Qualcuno era comunista. Però continua a fingere di aver perso la memoria. Una storia del Pci e dei suoi eredi di piacevole lettura ma con alcune concessioni al luogo comune. E interrogativi attualissimi che restano senza risposta. Stenio Solinas, Domenica 27/09/2020 su Il Giornale. Quando c'erano i comunisti, di Mario Pendinelli e Marcello Sorgi (Marsilio, pagg. 383, euro 18), ha per sottotitolo I cento anni del Pci tra cronaca e storia e per, come dire, sottotesto, una serie di interrogativi. Per esempio, perché quello italiano fu il più grande fra i partiti comunisti occidentali? Per esempio, se e quanto fu rivoluzionario in senso totalitario, mirante cioè alla conquista da solo del potere? Paradossalmente, nel secolo che ci separa dalla sua nascita, e nel quarto di secolo abbondante trascorso dai suoi funerali, ciò che non viene preso in esame è ciò che forse ci dovrebbe più interessare, non tanto come storici o studiosi del problema, quanto come comuni cittadini interessati alla res, alla cosa, publica. Come è possibile che, tranne qualche frangia lunatica e qualche intellettuale freak, nessun politico oggi ex o post comunista parli più del come e del perché lo fu convintamente fino a ieri, uno ieri che arriva sino al 1989, quando, crollandogli il muro di Berlino sulla testa, fu giocoforza dover ammettere che, almeno come realtà storica, il comunismo non esisteva più e si era rivelato un fallimento? Ancora adesso, una parte significativa della nomenklatura piddina o para-piddina, da Zingaretti a Bersani, passando per Cuperlo, Orfini, Fassino e Minniti proviene da lì, per tacere di chi fino all'altro ieri, da D'Alema a Veltroni, ne guidò, con alterne fortune, le sorti. È come aver assistito a una sorta di mutazione genetica, al termine della quale il mutante non ricorda più nulla del suo passato, ma si mostra inorridito se qualcuno glielo riporta alla mente, un peccato di cattivo gusto o, peggio, di cattiva politica, di pregiudizio ideologico di matrice fascista, naturalmente. Un esempio clamoroso resta quello di Walter Veltroni, allorché da post negò di essere mai stato comunista, attirandosi il sarcasmo del Manifesto: «Facevamo schifo!» titolò in prima pagina dopo quella rivelazione. Val la pena ricordare che Veltroni è lo stesso che ha sentito il povero Willy, massacrato a morte in quel di Colleferro, sussurrare «non respiro più», caso limite di immedesimazione a stelle e strisce, ovvero di «pastorale americana». Corollario, straordinario, di questo atteggiamento di rimozione è che tutto il resto è però rimasto come prima. I meccanismi psicologici, la rissosità interna, la propaganda, il bis-pensiero, la designazione di volta in volta di un nuovo nemico assoluto, la diversità come superiorità morale... Si assiste così a un unicum: un'ideologia sconfitta e rimossa che di fatto continua a permeare la sinistra di questo Paese, anche se non si sa in nome di cosa e di chi, come quelle oche che, una volta decapitate della testa, continuano ad aggirarsi nel cortile di casa...Pendinelli e Sorgi sono due giornalisti di lungo corso, inviati speciali, più volte direttori, e questo assicura al libro una lettura scorrevole e piena di cose interessanti. Qui e là c'è qualche concessione al luogo comune. Dire, a proposito del neutralismo giolittiano, che «l'anziano statista aveva visto giusto quando aveva inutilmente suggerito di tenersi fuori dai combattimenti» è una frase priva di senso. Dà per scontato un neutralismo senza ripercussioni, un dopoguerra in cui l'Italia gode tranquillamente del suo essere rimasta fuori, esclude un'evoluzione del conflitto a noi contraria, eccetera, eccetera... Anche la definizione di Lenin come «dittatore», ma dello stalinismo come «più di una dittatura, uno dei tragici totalitarismi del Novecento», ha un vago sentore gesuitico nel voler riformulare l'idea che in fondo sia Stalin il vero cattivo di turno, il vero vilain del comunismo... Basta leggersi Stéphan Courtois e il suo Lénine, l'inventeur du totalitarisme, per vedere quanto e come Stalin stia in Lenin, ne sia l'inveramento, non la negazione. Infine, l'attenzione posta sull'«idea di fabbrica come sperimentazione della modernità», di matrice gramsciana, e sull'«élite operaia» come rigeneratrice dal basso del Paese, di impronta gobettiana, sembra non tener conto dell'osservazione sensata fatta all'epoca da un intellettuale come Prezzolini, la cui rivista La Voce era stata, sia per Gramsci sia per Gobetti, una lettura imprescindibile. Questi aveva allora ben spiegato che quell'élite operaia indossava la domenica la camicia bianca simbolo del decoro borghese e non la tuta da officina stirata e lavata per l'occasione, mirava ad emancipare i propri figli dal lavoro manuale, non aveva una cultura propria di riferimento, l'esatto contrario insomma di una aristocrazia fiera di sé stessa, dei suoi valori, della sua visione del mondo. Anche sul sequestro Moro e sulla fine del compromesso storico, Pendinelli e Sorgi si affidano a un'interpretazione poco meditata. «Nella Dc la linea della fermezza contro i terroristi - scrivono - e il rifiuto di ogni trattativa hanno lasciato spazio a un rimorso tipico di un partito che ha nel suo Dna la mediazione e la ricerca di una soluzione anche quando non c'è, mentre nel Pci hanno rafforzato l'argine verso il terrorismo di sinistra, costi quel che costi». È un discorso all'apparenza sensato, non fosse che il cadavere eccellente è quello di un democristiano e insomma è facile fare gli integerrimi, con i morti, purtroppo ammazzati, degli altri...Su Gramsci, Quando c'erano i comunisti fa delle osservazioni pertinenti, soprattutto intorno a quel concetto di egemonia, ovvero di conquista del potere dall'interno, la cosiddetta conquista della società civile, che era il frutto della sua riflessione di fronte alla bruciante sconfitta dell'ipotesi rivoluzionaria, da lui vissuta sulla propria pelle. Resta però inevaso il problema di fondo, ovvero quanto, come e perché il comunismo si definisse tale e non un socialismo più o meno riformista. Quanto, come e perché si declinasse in senso anticapitalista, ovvero dirigista e collettivista, almeno nei suoi enunciati teorici. Perché, in breve, continuasse a rifarsi a Mosca e alla sua lezione e non a Bad Godesberg e alla sua correzione socialdemocratica. L'appendice del libro, una lunga intervista a Umberto Terracini che copre in pratica un terzo del libro, è in tal senso emblematica. Avvenuta nel 1981, quando il Pci è ancora il Pci, ha appena ammesso l'esaurirsi della «spinta propulsiva» nell'Est Europa, ma continua a definire «la Rivoluzione socialista dell'Ottobre il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca», è la lunga disamina, dall'interno, di cosa abbia voluto dire essere comunista e sentirsi ancora tale. Terracini è un uomo di valore e di carattere, è stato tra i fondatori del partito, ne è stato espulso, ha sperimentato su di sé l'ortodossia feroce di chi in carcere viene isolato dai suoi stessi compagni perché così è stato deciso da Mosca, vi è stato riammesso senza che nessuno abbia sentito il bisogno di fare ammenda né lui di chiederne conto... È un perfetto esemplare di uomo comunista per il quale la causa è superiore a qualsiasi riflessione ideologica, etica, individuale. Nelle sue risposte c'è tutta la dicotomia fra il partito e la vita vera, ovvero l'analizzare la realtà sempre e soltanto in un'ottica partitica, e ad aver torto è sempre la vita vera, mai il partito. A proposito del riformismo al tempo della scissone del '21, si esibisce in un'ardita capriola del più puro materialismo dialettico. I riformisti, dice, «affermavano che il proletariato non avrebbe mai potuto assumere il potere nel cuore del mondo capitalistico, senza essere soffocato da un blocco economico e schiacciato infine dall'azione militare». Si tratta, osserva, di «una sorta di profezia» che «per quanto disgraziatamente si sia in qualche modo realizzata», non era però «sostenuta da nessun elemento concreto. Era una falsità». Questo perché «il socialismo stava nascendo e avrebbe potuto imboccare molte strade diverse». Loro i comunisti, pensavano all'occasione storica, senza precedenti, di costruire una democrazia operaia, basata sull'internazionalismo, sulla pace. Non avevano «ricette, ma una grande speranza che nonostante tutto non è mai venuta meno». Ragionamenti simili fanno cadere le braccia. La chiusa di quell'intervista è anch'essa sintomatica, nel suo nominalismo non di facciata, nell'intestardirsi a rivendicare per il suo partito il copyright del vero socialismo: «Si deve pur riuscire a definire in termini precisi e operativi un concetto di socialismo che non sia neppure la riproposizione del modello socialdemocratico. La crisi stessa del mondo contemporaneo, la caduta di tante speranze, sollecitano uno sforzo, un'immaginazione diversa». Tempo dieci anni e si sarebbero ritrovati tutti liberisti, globalisti, super-capitalisti anche se questo, morendo prima, a Terracini sarebbe stato risparmiato.

Bertinotti: "Sinistra? Quella tradizionale è morta. Deve rinascere". Intervistato da "Quotidiano Nazionale", Fausto Bertinotti fa un'analisi dettagliata e critica della situazione: "Elezioni regionali? Hanno vinto i governatori, non i partiti. La sinistra deve ripartire dai movimenti". Federico Garau, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. Mentre il governo giallorosso ed i suoi sostenitori continuano a festeggiare per il risultato delle votazioni, c'è chi invece analizza con freddezza la situazione, spiegando come la sinistra sia ormai ben lontana dagli ideali di un tempo. Intervistato dal "Quotidiano Nazionale", Fausto Bertinotti, una delle grandi personalità del mondo della politica, si dimostra molto critico nei confronti di coloro che adesso si ritengono dei vincitori. Alla domanda del giornalista, che chiede se la sinistra sia oramai scomparsa, considerati i litigi e le frammentazioni, l'ex presidente della Camera risponde: "No, così non si comprende il nocciolo del problema. Non si capisce il contesto, il perché di questa crisi che è insieme della politica e della democrazia. Crisi in cui si innesta la debolezza della sinistra cosiddetta rivoluzionaria, ma anche di quella cosiddetta riformista". Bertinotti propone quindi un'analisi del contesto attuale. "Basta con le vecchie categorie. Basta col Novecento. Ribaltiamo il nostro modo di ragionare. La sinistra politica tradizionale è morta. Non esiste più", attacca. "Ci sono gli stessi nomi di una volta, ma una cosa è il contenitore e un’altra il contenuto. Non basta chiamarsi 'comunista' per essere tali. La sinistra è altrove". Una lezione bella e buona, quella di Fausto Bertinotti, che continua: "La sinistra 'civile' esiste. Però si basa su presupposti diversi. Le sigle che vediamo sono irrilevanti. Le novità vanno cercate altrove". L'ex politico rivolge dunque il suo sguardo agli Stati Uniti, dove in questo momento stanno avendo luogo numerose proteste, ed alla Francia, a Marsiglia. Secondo Bertinotti, la sinistra non deve puntare a sopravvivere (comportamento ampiamente dimostrato dall'eccessivo entusiasmo per il risultato delle elezioni), bensì a rinascere. "L’importante, e lo sottolineo con forza, è smetterla con questa concezione della sopravvivenza. La sinistra deve rinascere dalle sue ceneri inserendosi con forza, come sta facendo in alcune realtà, nella società, cercando di capire e di passare all’azione", prosegue l'ex presidente della Camera. "Deve stare dentro i fenomeni inediti e non continuare a porsi il problema della continuità. Non serve". Che cosa è successo alle regionali?" Alle Regionali abbiamo avuto un Pd, che, da tempo, ha dato il via a una mutazione genetica proponendo un modello sostanzialmente liberale, che si appoggia a fenomeni presidenzialisti", spiega Bertinotti a "QuotidianoNazionale". "Il risultato delle elezioni del 20 e 21 ha visto protagonisti i governatori. Non i partiti. Insomma, ha ragione De Luca". Riconfermato alla guida della Compagnia, il governatore ha infatti dichiarato che a vincere è stato il leader di un popolo, non certo la sinistra. Le parole di Bertinotti sono chiare, il Partito Democratico ed i suoi alleati hanno ben poco da festeggiare. Solo attraverso le elezioni nazionali il Pd potrà realmente sapere qual è il giudizio degli italiani nei suoi confronti. Secondo l'ex segretario di Rifondazione la sinistra ha ancora una possibilità di recuperare, ma il percorso da intraprendere è "lungo e difficilissimo". L'importante è ripartire dai movimenti, tornare a battersi per l'uguaglianza. Soltanto in questo modo, conclude Fausto Bertinotti, la sinistra "tornerà ad avere un’anima e un seguito".

L'intervista all'ex ministro della difesa. “Occhetto D’Alema e il patto del garage”, retroscena del giorno in cui morì il PCI raccontata da Gianni Cervetti. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'11 Settembre 2020. “Mi ricordo, sì, io mi ricordo”. Ed è un ricordo ancora nitido, di un uomo che ha vissuto, da protagonista, un pezzo di storia del Partito comunista italiano: Giovanni “Gianni” Cervetti. Segretario regionale del Pci in Lombardia, capo dell’organizzazione durante la segreteria Berlinguer, è stato eletto alle elezioni europee del 1984. È stato presidente del “Gruppo comunista e apparentati”, membro della Commissione politica e della Commissione per i bilanci. Dal 1989 al 1992 è stato “Ministro della Difesa” del governo ombra del Pci. Ma soprattutto, è stato il depositario di tanti segreti sulla vita interna del partito che, comunque la si voglia vedere, ha segnato la storia dell’Italia repubblicana. A 87 anni, Cervetti mantiene nitida la memoria di quei decenni di vita politica, e nel ripercorrerli con Il Riformista, non è mosso da alcun nostalgismo. Perché se è vero che senza memoria non c’è futuro, quella di Cervetti è una lezione di cui i dirigenti del partito, il PD, che in una sua parte viene da quella storia, dovrebbero far tesoro.

Ricordare oggi ciò che è stato un partito che ha segnato la storia di questo Paese, il Pci, non vuol dire fare una operazione nostalgica, ma una riflessione politica. Tu che sei stato tra i protagonisti di quegli anni, che cosa ti sentiresti di ricordare, soprattutto ai giovani che di quella esperienza non hanno neanche il sentore.

«Mi sentirei di ricordare il ruolo democratico e nazionale di quel partito, che è stata una caratteristica fondamentale della storia del Partito comunista italiano. Mi piacerebbe che venisse in qualche modo ripresa questa lezione. E questa funzione il Pci l’ha sempre cercata di esercitare pur dall’opposizione. Avere un’ottica di governo non significa mirare al governo “a prescindere”».

In quel partito viveva una dialettica politica forte, della quale erano portatori dirigenti di fortissima personalità, come Giorgio Amendola, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Giancarlo Paietta, Emanuele Macaluso. In questo senso, cosa ti è rimasto più impresso nella memoria?

«Di tutti quelli che hai richiamato, mi rimangono impresse due caratteristiche: da un lato, il dire ciò che pensavano in maniera netta e chiara, e dall’altro, il continuo tentativo di cercare il confronto con chi aveva una idea diversa dalla propria».

Amendola, a cui tu sei sempre stato molto vicino, e Ingrao erano agli antipodi, per storia, per cultura. Cosa ha fatto sì che due personalità così forti e, al tempo stesso, così diverse tra loro scegliessero di restare dentro lo stesso partito, mentre oggi a sinistra personalità che di certo non hanno la loro statura prendono e si scindono senza soluzione di continuità?

«L’accettazione in ambedue del valore dell’unità. Questa è la grande lezione che ci hanno lasciato, sia Amendola che Ingrao, ma che purtroppo vedo oggi smarrita. Tutti e due avevano la volontà forte di affermare le proprie idee, ma contemporaneamente, accettavano il confronto. Anche nelle discussioni più vivaci e persino drammatiche, erano presenti tutte e due queste determinazioni. Nel confronto si tendeva ad affermare le proprie posizioni, ma senza mai arrivare alla divisione. Tra Ingrao e Amendola, quest’ultimo aveva la tendenza, caratteriale ancor prima che politica, allo scontro, ma poi era lui stesso a cercare il confronto. Oggi dal vocabolario della politica italiana, sembrano essere state cancellate parole che per noi, e non parlo solo del Pci ma dei partiti più importanti di quella stagione, erano fondamentali: parole come “unità”, “sintesi”, erano centrali nella nostra formazione politica. Così come lo studio e il rispetto per i militanti, gli iscritti, che erano l’anima di un grande partito popolare come fu il Pci».

Al di fuori dell’agiografia, che peso avuto, anche nei tuoi ricordi, una figura come quella di Enrico Berlinguer?

«Mi ricordo una volta che in una riunione di Direzione, uno intervenendo disse: questa cosa deve farla Berlinguer che ha l’autorità per farlo. E lui, interrompendolo, rispose: ma quale autorità, lascia perdere… Dicendo così, Berlinguer si poneva all’altezza degli altri. Non voglio scomodare Gramsci, parlando del partito come “intellettuale collettivo”, ma di certo la determinazione di una linea politica viveva del confronto ad ogni livello. Oggi qualcuno potrebbe dire che era una perdita di tempo, che nell’era del digitale basta schiacciare un tasto o iscriversi a una piattaforma per essere parte dirigente. Ma questa è una idea di partecipazione e di vita democratica che non mi appartiene, e non lo dico per nostalgia del tempo che fu, ma perché sono convinto che una democrazia realmente rappresentativa ha bisogno, un bisogno vitale, di partiti organizzati, di massa, nei quali ognuno si senta parte attiva non solo della pratica ma anche dell’elaborazione di una linea politica».

Tu sei stato un dirigente di primissimo piano del Partito comunista milanese. Quello è stato un partito che ha vissuto stagioni drammatiche…

«La prima di queste stagioni è stata quella di Piazza Fontana. La manifestazione che accompagnò i funerali delle vittime dell’atto terroristico che colpì la Banca Nazionale dell’Agricoltura (12 dicembre 1969, 17 morti e 88 feriti, ndr), quella marea di gente, in una giornata plumbea bagnata da una pioggia insistente, era la dimostrazione di grande forza senza alcuna volontà di prevaricazione. Amendola mi disse: «quando ho visto quel muro di folla, ho pensato la democrazia è salva». Quella piazza stracolma di gente, operai, studenti, persone di ogni età e ceto sociale, testimoniava l’incontro di due elementi fondamentali: il sentimento popolare, fatto di dolore, di rabbia, di volontà di difendere le conquiste democratiche sotto attacco. Ma c’era anche quella che un po’ enfaticamente si definiva l’organizzazione. Quella folla fu organizzata».

Tu hai scritto un libro che ha fatto molto discutere e che è stato, per certi aspetti, utilizzato per dire: ma quale diversità il Pci osa rivendicare, visto i finanziamenti che riceve. Mi riferisco a L’oro di Mosca. La testimonianza di un protagonista (Baldini&Castoldi, 1993).

«Anche dentro quella storia c’era un punto che è stato peculiare al comunismo italiano: l’autonomia. Questi soldi li riceviamo e li utilizziamo come vogliamo noi. Li utilizziamo per difendere la democrazia, servono per sostenere la nostra linea politica e non c’è nessuno che possa mettere becco, tanto è vero che quando si decise di troncare lo si fece perché eravamo arrivati al punto che non ci si sentiva più sufficientemente liberi. E allora si decise di porre fine a quella storia che si perdeva nella notte dei tempi e che aveva avuto una sua premessa ai tempi del partito clandestino».

In una intervista a questo giornale, Achille Occhetto ha rivendicato, anche con gli occhi dell’oggi, la svolta della Bolognina, ammettendo, però, i grandi limiti nella sua gestione successiva. Cosa ti senti di dire al riguardo?

«Che questa è una cosa vera, che ha però la sua radice nel modo in cui è stata fatta la Bolognina. Al fondo delle considerazioni di Occhetto, c’è la convinzione che la responsabilità di tutto è di Massimo D’Alema. Ora, D’Alema ha sicuramente delle grandi responsabilità, però anche Occhetto non può passare per vittima di un complotto ordito dal “deputato di Gallipoli”. Il “patto del garage” aveva rotto una consuetudine…»

Il “patto del garage”?

«Ma sì, quando Occhetto e D’Alema si incontrarono nel garage di Botteghe Oscure (la storica sede nazionale del Pci, ndr) e dissero: adesso il segretario lo fai tu e poi lo faccio io…In quel garage si misero d’accordo sulla successione. Ma non erano loro due che decidevano. Si decideva in tanti. Quel “patto” maturò dopo la morte di Berlinguer, quando Natta assunse la direzione del partito. Quell’atto lì rompeva un costume che aveva sempre caratterizzato la vita interna del Pci: scelte di quell’importanza dovevano essere decisioni corali, non di due persone».

Che cosa è rimasto di quel sistema dei partiti su cui si è costruita la nostra democrazia. E quale consiglio ti senti di dare al partito, il PD, che, in una sua parte, viene da quella storia?

«Quello che va ricostruita è la dialettica dell’unità. Far valere le proprie idee ma in una ricerca continua di unità. Questo binomio dialettica-unità, non è dato una volta per tutte, ma va costruito con pazienza e serietà. Nella fine di quel sistema dei partiti a cui tu facevi riferimento, c’entra anche, e non poco, il venir meno di questa tessitura. Ciò è valso per il Pci come per gli altri partiti della prima Repubblica».

Il 20-21 settembre si voterà per il referendum sul taglio del numero dei parlamentari. Tu che hai vissuto una lunga stagione da parlamentare, che idea ti sei fatto al riguardo?

«L’idea che il male non sta nel numero, e che ridurre il problema, reale, di un miglioramento dell’efficienza del Parlamento, a una mera questione numerica, è una visione semplicistica e semplificatoria che non mi appartiene».

Se la sinistra ha finito le idee… Andrea Massardo l'8 settembre 2020 su Inside Over. Sembrano lontani i tempi in cui i grandi leader del passato della sinistra italiana scendevano nelle piazze stracolme di manifestanti per esprimere la propria visione di un mondo aperto all’equità ed alla giustizia, di un mondo in cui tutti potessero esprimere la propria voce e in cui nessuno potesse essere privato delle proprie libertà. A ben vedere il calendario, però, non è passato nemmeno un trentennio da quando i grandi partiti che hanno infervorato la politica italiana per quasi mezzo secolo sono implosi uno dopo l’altro, sino alla “tragedia” di Mani pulite. Un’inchiesta, quella, che ha fatto ben altro che condannare coloro che negli anni aveva compiuto – secondo sentenze – abusi di potere per perseguire interessi privati e di partito. L’Italia che è uscita dai tribunali è stata cambiata radicalmente nel suo volto: e così anche il modo stesso di fare e di intendere la res publica, nel significato latino del termine. Da quel momento in avanti, gli stessi vecchi politici che per anni avevano dominato la scena pubblica hanno indebolito i propri discorsi, trasformando gli storici ideali progressisti nell’ombra di loro stessi. E soprattutto, dall’inchiesta di Mani pulite è sparito un grande attore della scena politica che aveva sempre fatto da collante soprattutto con le classi meno abbienti della popolazione italiana: la sinistra.

Dalle battaglie sociali ai “contentini” elettorali. Se nell’ultima tornata elettorale la maggioranza dei voti provenienti dal ceto operaio si è riversata nel serbatoio della Lega in Nord Italiana e nel Movimento cinque stelle e Fratelli d’Italia al Sud qualcosa deve essere necessariamente cambiato. Un tempo territorio amico del Partito comunista e di tutta quella serie di partiti che da lui sono discesi adesso proprio i ceti meno abbienti si sono rivelati essere il nemico principale della sinistra italiana, diventata sempre di più espressione di una – odiata – élite. Dalle grandi battaglie per i diritti sociali, infatti, si è passati alla difesa delle minoranze, ne tentativo di recuperare terreno in termini di consenso garantendo dei diritti che, nella maggioranza dei casi, non sono in realtà mai stati accordati. Un’eterna promessa, buona per tutte le occasioni, che ha dissolto l’impatto della dialettica di sinistra, svuotandola sempre di più sino a portarla, negli ultimi anni a questa parte, a doversi confrontare esclusivamente presentandosi come alternativa alla Destra tradizionale: abbandonando i progetti e dedicandosi esclusivamente agli attacchi verbali.

La Sinistra gioca soltanto sulla critica. Mentre in Europa ed in generale nel mondo occidentale questo fattore è diventato evidente soltanto dal 2015 in avanti, in Italia sin dai governi guidati da Silvio Berlusconi la sinistra si è dedicata esclusivamente all’attacco del proprio avversario, senza mai presentare valide soluzioni alternative. Lo scopo è sempre stato lo stesso: giocare per distruggere l’immagine del proprio avversario, così da renderlo peggiore agli occhi del popolo – e dimenticandosi di combattere, invece, per apparire migliori. Questo gioco, però, non ha quasi mai pagato. Conosce molto bene questo particolare Pierluigi Bersani, che non riuscì a formare un governo nemmeno in un momento in cui, grazie alla situazione disastrosa in cui stava viaggiando l’Italiana post-governo Monti, avrebbe dovuto vincere tutto; e invece si piazzò di poco sopra alla coalizione di centrodestra. E lo conosce molto bene anche Matteo Renzi, che è riuscito a portare prima il Partito democratico al suo massimo storico ed in seguito ad affondarlo al suo minimo, sempre a causa della stessa mancanza di progetti solutori per le problematiche reali. Quando si fonda la propria campagna elettorale esclusivamente sulla critica al proprio avversario, si compie un errore molto comune ma che risulta discriminante per l’esito delle votazioni. A causa di questo atteggiamento, infatti, l’elettorato percepisce una sensazione di inadeguatezza e inferiorità: perché quando si sarà ipoteticamente al governo (come in questo momento), quale sarà la linea tenuta dalla sinistra? Inizieranno i progetti costruttivi o verrà ancora una volta portata avanti esclusivamente la critica verso i propri avversari? E sotto questo aspetto, la linea di governo dell’esecutivo Conte II è stata abbastanza chiara, propendendo in modo principale per la seconda ipotesi.

La sinistra occidentale non sa più dove andare. Uscendo dal territorio italiano, le stesse problematiche si sono riscontrate anche nel resto del mondo. Nel Regno Unito, per esempio, dove Boris Johnson ha affrontato un partito laburista che sembra l’ombra di se stesso e che non è risultato in grado di difendere nemmeno le proprie roccaforti nel Galles e nell’Inghilterra operaia. E negli Stati Uniti, una politica di lunga data come Hillary Clinton è stata sconfitta in modo rocambolesco da un Donald Trump che, sino a quel momento, non avrebbe scommesso nemmeno su se stesso (e per comprenderlo, basta andarsi a rivedere i video della “festa repubblicana”, dove la dirigenza del partito non aveva preparato nemmeno il discorso per la vittoria). Entrambe queste sconfitte, in fondo, sono però da ricondursi proprio a questo atteggiamento che la sinistra sta portando avanti ostinatamente da alcuni anni a questa parte e che, di fatto, ha dissolto la sua carica progressista e creativa che da sempre l’ha contraddistinta e della quale la politica necessiterebbe almeno come bilanciamento. Ma il dramma, tuttavia, è insito nell’incapacità nel rendersi conto degli errori che sono stati compiuti in questo gioco “di rincorsa”, ostinandosi a portare avanti un piano d’azione che, dati alla mano, non ha mai pagato. E che, con ogni probabilità, sarà destinato a continuare ad essere fallimentare.

Le mogli, i figli, i cognati: i massacri di Stalin continuavano anche in famiglia. Nadja, che si sparò dopo aver visto gli orrori compiuti del marito. Il primogenito Jakov, che si fece uccidere per disperazione. Vasilij, morto alcolizzato. Svetlana, una vita in fuga da se stessa. E gli altri. In una scia di sangue e di follia. Antonio Monda il 06 agosto 2020 su L'Espresso. Mi sono sempre chiesto cosa pensasse la sera, prima di andare a letto. O in punto di morte, quando si rese conto che stava finendo tutto. Che non ci sarebbe stato un domani, e nel giro di poche ore sarebbe diventato un corpo in decomposizione. E poi ossa, cenere e silenzio eterno. Come quello delle sue vittime. Nel suo caso non ci sarebbe stato certo l’oblio, e aveva dedicato tutta la forza di cui era capace per evitare il rischio dell’infamia. Chissà cosa avranno pensato Hitler, Mao, Pol Pot, Mengele, Videla, Idi Amin Dada. O Basilio II, l’imperatore di Bisanzio di stirpe macedone. Sotto il suo comando, il suo impero raggiunse un’estensione che non aveva da cinquecento anni.

L'intervista. “L’unico di sinistra è Bergoglio, il Pd non più”, il pensiero del "polemista" Luciano Canfora. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 30 Giugno 2020. «Una persona che dice e fa cose di sinistra senza doversi dire tale? Papa Francesco. Le definizioni lasciano il tempo che trovano, ciò che conta è la visione che ispira un agire concreto». «Fare una cosa di sinistra? Requisire le caserme vuote per farne delle scuole». A sostenerlo, in questa intervista a Il Riformista, è il professor Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, una “coscienza critica” della sinistra che non ha mai avuto peli sulla lingua o interessi di bottega da coltivare. Una voce libera, cosa sempre più rara nell’Italia d’oggi. Professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni), Tra i suoi libri, ricordiamo: Fermare l’odio (Laterza); Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza); Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee (Bur, Rizzoli).

Professor Canfora, in questi anni è come se si avesse paura di definirsi di sinistra, come se questo segnasse un tempo che fu, da archiviare. Ma di fronte alle sfide epocali del Terzo Millennio, sinistra è una idea spendibile e se sì, quale sinistra?

«Potremmo dire che essendo la destra il contrario di sinistra c’è un bisogno urgentissimo di sinistra, questo va da sé. La destra al potere l’abbiamo sotto gli occhi. E fa spavento: dal Brasile agli Stati Uniti d’America, per non fare altri esempi. Quindi reagire urge. Il problema è che mentre il fascismo non ha mai disarmato, ha cambiato vestito, neanche pelle, al contrario il movimento comunista si è venuto via via sgretolando, ma più che altro per pentimenti interni, intimi. Questo è un processo che viene da lontano. Dopo di che ci sono altre forze che fanno una politica di sinistra, non si proclamano tali ma certamente lo sono».

Per esempio?

«L’attuale Pontefice, papa Bergoglio, in lotta contro una parte del vertice della Chiesa cattolica, fa un lavoro di sinistra, un lavoro molto efficace avendo quelle leve in mano di carattere spirituale e di prestigio. Quindi anche un torvo nazionalista xenofobo come Salvini, pur avendo cercato di insultare il Papa qualche volta, però non osa una contrapposizione frontale. Ciò vuol dire, a mio avviso, che uno spazio per la sinistra c’è, speriamo che quel che resta del movimento operaio, sindacale, intellettuale se ne accorga».

Massimo Cacciari, su Il Riformista, ha accusato la sinistra, e in essa la sua forza maggioritaria, il Pd di essere affetta dal virus del “governismo”. È una diagnosi impietosa?

«Sarei molto perplesso dinanzi a questa risposta, per una serie di motivi. Innanzitutto il Pd non è affatto detto che sia una forza politica di sinistra, non lo dichiara. È un movimento più o meno di centro, con figure nobili e meno nobili. Hanno tolto la parola sinistra via via dalla loro ragione sociale, quindi a rigore è un po’ forzargli la mano, dire voi siete di sinistra. Giorni fa, mi accadeva di ascoltare il ministro Gualtieri intervistato dalla Gruber, la quale gli ha chiesto, dopo una serie di domande, ma lei è di sinistra? E lui è rimasto un po’ perplesso, e poi ha detto sì, sì. Vuol dire che la domanda lo ha colto di sorpresa, e la cosa non mi sorprende. Il “governismo”, a parte che è un termine un po’ sommario, perché andare al Governo, cioè dirigere il Paese è l’obiettivo di qualunque forza politica. Non vedo il peccato mortale di essere “governista”. Se per “governista” s’intende che cosa? Di voler restare al Governo a qualunque costo? Ma il costo è presto detto qual è: il consenso elettorale quando c’è, quando non c’è uno può avere pure il desiderio di andare sulla luna ma resta a casa sua. La questione andrebbe impostata meglio. Soprattutto c’è questa ambiguità che pesa, e non poco, sulla nostra vita politica, e cioè da quando Occhetto sciolse il Pci, abbiamo un popolo di persone oneste, a suo tempo numericamente molto consistente, privo di una dirigenza politica che parli un linguaggio di sinistra».

A proposito di Occhetto. Ciò di cui si avverte il bisogno, ha rimarcato in una intervista a questo giornale, è, cito testualmente, «una sinistra che non nasce mettendo assieme i cocci del passato, ritornando al balletto, a cui assistiamo negli ultimi tempi, di fusioni e scissioni a freddo di apparati, che sono avvenute sia nella sinistra moderata e sia nella sinistra alternativa, bensì mi sembra necessaria una costituente delle idee…».

«Già Platone mi pare che avesse qualche idea in tal senso. Non se ne dolga Occhetto, ma la sua non mi pare essere una proposta nuovissima. Non so bene cosa significhi questa raffica di parole: fusioni a freddo, non a freddo, certo sono state abbastanza deludenti: basti pensare alla nascita del Partito democratico, mentre ancora era al Governo Romano Prodi, gli hanno sfilato la sua maggioranza di sotto alla seggiola, nel mentre che fondevano il Pds e la Margherita, quindi cambiava il quadro politico, e dopo un po’ Prodi si dimise. Ma il tutto avveniva tra dieci persone da una parte e quindici dall’altra. Mentre si farnetica su questo tipo di problematiche, che sono da salotto, cioè riguardano delle élite ristrette, essenzialmente gravitanti su alcuni quartieri di Roma, c’è un’altra realtà, che è quella più inquietante, e cioè il fatto che questi partiti derivati da formazioni politiche un tempo di sinistra, hanno deciso, in solitudine, che il vangelo è l’Europa, e quindi il peccato mortale è criticare questa baracca. europea. Col che hanno dato il colpo di grazia a qualunque possibilità di avere consenso nelle masse, alle quali l’Europa non dice altro che la perdita del valore reale del salario dopo l’entrata in vigore dell’euro, che ha dimezzato il salario di netto. Nessuna Confindustria, neanche Bonomi, potrebbe sperare di fare un colpaccio del genere, che fu fatto nello spazio di un mattino con l’eleganza di non mettere a referendum nulla di quelle decisioni, tutte di vertice. Ora, come fai a mobilitare le masse per l’unico credo che dichiari di avere, vale a dire un fumoso, privo di contenuti concreti, europeismo. È ovvio che così concedi una prateria ad una destra cosiddetta populista, termine stupido peraltro. Una destra che parla al popolo, come hanno fatto Mussolini e Hitler, i quali hanno cercato il consenso delle masse: i disoccupati di Weimar eccetera, e quindi hanno davanti a sé un successo assicurato. La gente ha bisogno di risposte che stanno dentro il perimetro delle decisioni possibili, cioè del Paese, della nazione, non delle chiacchiere che si fanno a Bruxelles, da un Parlamento europeo che non ha nessun potere decisionale e una Commissione europea onnipotente, non elettiva, che ci può dettar legge senza contraddittorio. Come vuoi sperare che ti vengano dietro, coloro che un tempo votavano a sinistra”».

Mario Tronti ha sostenuto su questo giornale: «Gli intellettuali di sinistra, invece di firmare appelli a sostegno del governo Conte, si mettano a riflettere e a ragionare su questo punto: come è potuto accadere, che cosa è successo in questo povero nostro paese per ritrovarci con un primo ministro nella figura dell’uomo qualunque che si chiama Giuseppe Conte… Questo è il problema». Lo è anche per lei?

«Mi pare un quesito nobile ma svincolato dalla realtà. Nessuno di noi è pronto a schierarsi per il contismo-leninismo, che non è stato ancora inventato. Però nella situazione hic et nunc, hai da parte quest’uomo che tiene in piedi con nastro adesivo un Governo che fa da argine ad un esecutivo a guida Salvini-Meloni. Dopo di che tutto il coro giornalistico, lavora per il re di Prussia. Va benissimo, però sarebbe meglio dirlo chiaramente. È giusto criticare l’incapacità di ministri. Per esempio: il problema della scuola. Poco fa ascoltavo il giornale radio che diceva che la brava ma abbastanza inesperta ministra Azzolina ha lanciato l’idea di tornare a scuola, facendo insorgere i presidi! I presidi che sono stati proclamati manager con stipendio potenziato, perché dovevano essere capaci di risolvere i problemi concreti. Adesso si mettono in ginocchio e vogliono che dall’alto gli arrivi una soluzione! Non osano neanche proporre il doppio turno, perché sanno che poi ci sarà la reazione corporativa. E a protestare ulteriormente sono poi le Regioni. Io vorrei capire cosa diavolo c’entrano le Regioni con l’apertura dell’anno scolastico. L’unica cosa che non si dice, che io vado sostenendo da tempo, purtroppo inutilmente, è che noi abbiamo un Paese pieno di caserme vuote, da quando non c’è più la coscrizione obbligatoria, ma il demanio militare non si tocca. Anziché dire: riflettiamo sulle cause profonde per cui siamo arrivati al Governo Conte, che poi non sono così profonde ma immediate, rimbocchiamoci le maniche e lottiamo per alcune proposte concrete minime. Siamo su un giornale che si chiama Il Riformista. Io ho grande simpatia per i riformisti, quando fanno le riforme, però. Una delle quali è questa: è uno scandalo questo demanio militare intangibile e le scuole senza spazio o fatiscenti. E ciò avviene perché i militari sono una casta potente. Che si trasformino quelle caserme vuote in scuole: ecco una cosa di sinistra. E di sinistra è anche evitare che le persone più fragili scivolino verso l’esclusione dal diritto alla cura, perdendo la possibilità di provvedere alla propria salute e di farsi assistere.  Un altro esempio di una cosa di sinistra? Eccolo: abolire quella vergogna dei decreti sicurezza, in particolare quello Bis. L’ho detto quando fu votato e lo ripeto ora: quella robaccia non solo fa ribrezzo, è anche in contrasto con la Costituzione. Quindi è illegale».

Tutti ripetono che dopo la crisi pandemica, nulla sarà più come prima. Ma non c’è il rischio che questo “nulla” si trasformi in “peggio”?

«È una frase priva di senso, che probabilmente non sarà più ripetuta quando si toccherà con mano che tutto è uguale a prima. Sono quelle formule retoriche di cui il nostro giornalismo trabocca. Certe volte mi viene di rimpiangere la durezza di Ždanov verso i giornalisti».

Tre domande per Diego Fusaro. Giordano Di Fiore de Il Riformista l'1 Giugno 2020. Tre domande per Diego Fusaro, filosofo e saggista. Dopo la positiva esperienza condotta con Marco Rizzo, ho pensato di rivolgere le stesse identiche domande al noto opinionista controcorrente. In verità, in un primo momento, avrei voluto, in qualche modo, riadattare le domande: sarei partito dalla relazione tra Kant e il potere, per poi arrivare a definire meglio il ruolo della democrazia moderna. Infine, mi sono convinto che sarebbe stato più proficuo per il lettore essere meno accomodanti e portare avanti il nostro dibattito sulla libertà, sulla teoria dell’emergenza permanente, sul ruolo ambiguo degli schieramenti politici. Il presupposto, come già nell’introduzione a Rizzo, è quello di provare, nel nostro piccolo, a dare voce a chi, oggettivamente, in questo momento, ne ha poca, con la consapevolezza che il pensiero critico, qualunque sia la nostra opinione, sia il vero vaccino ai mali della democrazia. Buona lettura.

Dal crollo del muro in avanti, trovo che in Italia si sia creata, nel popolo di sinistra, una certa confusione. Gli avversari politici utilizzano l’espressione “buonismo”, in senso dispregiativo. Qualcosa di vero, tuttavia, sembra esserci: quando si propongono sanatorie a tempo determinato e quando si fa finta di appellarsi alla solidarietà per, in realtà, legittimare la schiavitù, si fa finta di essere buoni, ma si fa il gioco del cosiddetto “potere”. Lei cosa ne pensa?

D.F.     Si, confusione è una parola molto garbata e neutra: io la definirei meglio metamorfosi kafkiana delle sinistre. Il mio maestro soleva definirla il serpentone metamorfico pci pds ds pd: dal grande Antonio Gramsci, al bardo cosmopolita Roberto Saviano. Più che di confusione, parlerei di una normalizzazione integrale delle sinistre, le quali, da polo di rappresentanza del lavoro, sono diventate il polo di rappresentanza del capitale cosmopolita. Peggio ancora, sembrano passare larga parte del loro tempo a demonizzare le richieste di emancipazione delle classi lavoratrici, che chiedono, evidentemente, salari più dignitosi e maggior protezione da parte dello Stato. Confusione, dunque, è un’espressione vera, e, al tempo stesso, fin troppo buona: non buonista, ma molto buona, sicuramente. Le sinistre sono diventate l’ala culturale della destra finanziaria capitalistica: come ho spiegato nel mio libro “Pensare altrimenti”, c’è una sorta di sinergia tra la destra liberista del danaro e la sinistra libertaria del costume, che sono, per cosi dire, la doppia apertura alare del globalismo capitalistico. La destra del danaro vuole un unico mondo ridotto a mercato, senza stati nazionali sovrani che possano limitare l’economia. La sinistra, anziché valorizzare gli stati nazionali e la lotta contro l’economia, definisce gli stati nazionali fascisti e nazisti, in quanto tali. La destra del danaro vuole ancora produrre una sorta di globalizzazione senza luoghi e la sinistra l’appoggia in pieno. Ciò che la destra vuole, la sinistra legittima: questo è il paradosso del nuovo ordine totalitario del capitalismo.

Ho trovato molto singolare che, durante il cosiddetto lockdown, molte persone si siano ritrovate a cantare Bella Ciao, ma non per strada, sul balcone! Qualcosa del genere è successo anche per la Festa dei Lavoratori. In pratica, molte persone che credono di riconoscersi nei valori della Libertà e della Resistenza hanno, poi, sposato la linea dell’obbedienza totale al capo. Come mai è avvenuto tutto questo?

D.F.     Si, il cantare Bella Ciao, nel lockdown, dietro le sbarre dei propri balconi o inneggiare, come accaduto, ai droni, alla tracciabilità e alla delazione è un vero e proprio rovesciamento dialettico. Per dirla con Hegel, come la virtù illuministica si capovolge nel terrore giacobino, cosi la società aperta si capovolge in lockdown. E Bella Ciao si capovolge nell’elogio dell’esercito nelle strade, e della delazione. Nihil novi sub sole: sono le avventure o le disavventure, se si preferisce, della dialettica.

In questi mesi, un governo, diciamo così, tendente a sinistra, tramite l’artificio dello stato di emergenza permanente – che molto ricorda la guerra permanente di orwelliana memoria – ha giustificato l’azzeramento di libertà costituzionali conquistate in anni di lotte sociali. Qual è la sua opinione in merito? Cosa ci aspetta ancora nei prossimi mesi?

D.F.     Eh sì, è proprio così: la tesi che sostengo, e che concorda in parte con quelle di Agamben, è che il nuovo principio della società sia il distanziamento sociale, che impedisce, o limita fortemente, ogni relazione, ogni contestazione, ogni luogo pubblico: con il lockdown, lo limita totalmente. Si tratta di una razionalità politica, che, in questo modo, impedisce in partenza ogni contestazione del capitale. È una svolta autoritaria in seno al capitale, a mio giudizio, che usa l’emergenza del virus per costruirci sopra una razionalità politica di tipo autoritario e repressivo. Forse il capitalismo stava iniziando a perdere il suo consenso, e, quando la classe dominante ha il dominio, ma non il consenso, Gramsci docet, usa il manganello, la violenza: in questo caso, utilizza le norme emergenziali. Per garantire la sicurezza, bisogna rinunziare alla Costituzione e alla libertà.  Più durerà l’emergenza, più si rinunzierà a Costituzione e libertà e l’eccezione diventerà quella che oggi già chiamano la nuova normalità.

Il Pd vuole "Bella Ciao" a scuola "Cantatela con l'Inno di Mameli". Alcuni deputati dem hanno presentato una proposta di legge per inserire il canto partigiano nei programmi scolastici. Alberto Giorgi,  Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. Il risultato delle Regionali deve aver dato alla testa al Partito Democratico. Già, perché ora i dem tornano alla carica su una questione a loro molto cara: affiancare Bella ciao all’Inno di Mameli, facendo sì che il canto simbolo dei partigiani e della resistenza entri di diritto nei programmi scolastici di tutto il Paese a decorrere dall'anno scolastico 2020/2021. La pensata non è nuova e anzi risale alla scorsa primavera, quando l’Italia era in piena emergenza coronavirus. In data 30 aprile, infatti, un gruppo di parlamentari dem – tra cui Piero Fassino, Michele Anzaldi, Stefania Pezzopane, Patrizia Prestipino e Gian Mario Fragomeli – presentano a Montecitorio una proposta di legge per inserire nei programmi scolastici lo studio della canzone "rossa" per eccellenza, così da ottenere il riconoscimento ufficiale della canzone simbolo della lotta partigiana come canto ufficiale dello Stato italiano, quasi alla pari dell'Inno di Mameli. Oltre all’idea in sé, stupiscono anche le tempistiche, visto che in quelle difficili e durissime settimane l’Italia era in ginocchio e terrorizzata dalla pandemia di coronavirus, che continuava a mietere vittime. Con il Paese congelato dalla serrata e dalla paura, alcuni deputati del piddì hanno però pensato bene di badare ad altro e di interessarsi a Bella ciao. In quel 30 aprile, allora, a Montecitorio fa capolino la seguente proposta di legge: "Riconoscimento della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della nascita de dello sviluppo della Repubblica". Ma come detto non è tutto. "Non meno importante, infine, la legge dispone anche che in tutte le scuole, all’insegnamento dei fatti legati al periodo storico della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della lotta partigiana, venga affiancato anche lo studio della canzone Bella Ciao", come spiegato dal dem Fragomeli. Dalla scorsa primavera a questo autunno, perché praticamente all’indomani del risultato elettorale del referendum, delle Regionali e delle Comunali, la proposta di legge – come rende noto Il Tempo – è stata appena licenziata dalla commissione e approderà dunque in Aula, dove il Pd farà di tutto per ottenerne l’approvazione. D’altronde, secondo loro, come si legge all’interno della proposta di legge stessa, "Bella ciao è un inno facilmente condivisibile e non è espressione di una singola parte politica, visto che che tutte le forze politiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone". Il blitz del Pd sulla canzone partigiana è tutto condensato nell'articolo uno del provvedimento che potrebbe diventare legge. All’articolo uno, infatti, si legge: "La Repubblica riconosce la canzone Bella ciao quale espressione popolare dei propri valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. La canzone Bella ciao è eseguita, dopo l'inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". Insomma, Bella ciao come secondo inno nazionale.

Dritto e Rovescio, Giuseppe Cruciani su Bella Ciao: "Non ha un'impronta italiana, proprietà dei comunisti". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020. Siamo a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 1 ottobre. E in studio si parla della priorità del Pd: insegnare Bella Ciao in tutte le scuole italiane, proposta accompagnata da un disegno di legge. Proposta cancellata in modo netto da Giuseppe Cruciani, che prima di battibeccare sul tema con Sara Manfuso spiega: "Nessuno nelle classi italiane ha bisogno di cantare canzoni, non si canta neppure l'Inno italiano figurarsi Bella Ciao. Penso che Bella Ciao sia una canzone di cui si sono appropriati, legittimamente, dopo la seconda guerra mondiale sostanzialmente i comunisti - rimarca il conduttore de la Zanzara -. Non vale per tutti, non ha un'impronta italiana, non ha un valore trasversale: è una canzone di una parte politica, quella di sinistra. È questa la realtà dei fatti, si vuole introdurre a scuola qualcosa che appartiene a una stagione politica che si è conclusa", conclude un impeccabile Giuseppe Cruciani.

Insegnante minaccia alunni: "Canta Bella Ciao o sei fascista". Insegnante di scuola media minaccia alunni di brutto voto se non intonano Bella Ciao: "Chi non canta, è fascista". Rosa Scognamiglio, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Se non canti Bella Ciao, vuol dire che sei fascista e ti metto un brutto voto". Con questa frase un'insegnante di scuola media avrebbe intimato ai suoi studenti di intonare l'inno della Resistenza partigiana minacciando una sfilza di insufficienze a chiunque si fosse rifiutato di farlo. Dalle parole ai fatti, il passo è breve. Così, con metodi educativi piuttosto discutibili, una professoressa ha ben pensato di politicizzare la classe - virando verso una inequivocabile ideologia di sinistra - con la minaccia di un brutto voto sul registro qualora i giovanissimi alunni avessero osato delle rimostranze o si fossero rifiutati di cantare i versi di Bella Ciao. Ma non è tutto. A quanto pare, l'insegnante si sarebbe spinta ben oltre il semplice ammonimento. La faziosa educatrice avrebbe talora apostrofato con l'appellativo "fascista" coloro che non avrebbero assecondato la sua richiesta perentoria. Dunque, spaventati dalle conseguenze di un eventuale diniego sulla media in pagella, i ragazzini non avrebbero potuto far altro che compiacere l'insegnante. A dare notizia dell'accaduto è stata la Lega Prato che, stando a quanto si apprende dalla testa d'informazione GoNews.it, ha riportato la segnalazione di un genitore - l'identità dell'uomo non è stata rivelata per evitare la gogna social – il quale riferiva della presunta condotta diseducativa adottata dalla professoressa durante le ore di lezione. "Abbiamo letto con molta preoccupazione la richiesta d'aiuto di un genitore di un bambino di seconda media: questi denunciava ieri sul suo profilo Facebook che la professoressa di Italiano avrebbe minacciato gli alunni di una classe di seconda media di cantare Bella ciao, pena un brutto voto. - si legge nella nota trasmessa dal gruppo consiliare Lega Prato - L'insegnante avrebbe anche detto agli alunni che se non avessero intonato Bella ciao sarebbero stati dei fascisti. Speriamo si sia trattato di un frainteso, perché altrimenti sarebbe un fatto gravissimo: tanto più apostrofando come fascisti dei bambini colpevoli di non aver imparato una canzone. Per questo chiediamo lumi alla presidenza della scuola media interessata. Pretendiamo quindi chiarezza: questi sarebbero metodi inaccettabili, trattandosi eventualmente di una educatrice che si rivolge a minori con pregiudizio e minacce". Al momento la vicenda resta ancora da accertare ma non è escluso che, nei prossimi giorni, possa essere ulteriormente dettagliata da altre eventuali testimonianze. Nel caso in cui, tale segnalazione fosse confermata, le conseguenze per l'insegnante potrebbero avere persino conseguenze giudiziarie fino alla sospensione dal servizio.

Bella ciao a scuola. Ma i ragazzi sanno della strage partigiana di Mignagola? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

La paventata introduzione del canto “Bella ciao” nelle scuole, per il 25 aprile e/o per manifestazioni celebrative della Resistenza ha suscitato aspre polemiche. Perché questi temi continuano ad essere così divisivi? Può valere la pena far capire a scolari e studenti come mai tali questioni continuino ad essere così “irritanti”, a 75 anni di distanza, offrendo loro uno squarcio di verità su un periodo storico che ha conosciuto non solo luci, ma anche ombre. Importante, però, che questo avvenga senza faziosità e giudizi, sulla scorta di fonti autorevoli e, meglio ancora, attraverso le dichiarazioni rese in sede processuale dagli stessi protagonisti e testimoni. Non bisogna temere i fatti, proprio per avere un panorama equilibrato e completo di quella pagina drammatica della nostra storia e per consentire ad ognuno di maturare un giudizio personale. Dopotutto, a scuola si va per questo. “Anche a Treviso ci fu un eccidio rosso come quello delle Fosse Ardeatine a Roma” scrive Bruno Vespa nel suo “Vincitori e vinti” del 2005 in riferimento alla “Strage della Cartiera Burgo”. Una vicenda di 75 anni fa, iniziata il 27 aprile ’45 e terminata ai primi di maggio: la struttura industriale, a 7 km da Treviso, era stata adibita dai partigiani a campo di concentramento per i prigionieri fascisti e per i civili anche solo sospettati di collaborazionismo. La cartiera giunse a raccogliere circa 2000 persone rastrellate nella zona: militari repubblicani, ausiliarie, civili più o meno legati al passato regime, possidenti. Per quanto misconosciuta, la strage è ampiamente documentata - oltre che dai rapporti dei Carabinieri - dalle testimonianze dei partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi che furono chiamati a deporre nel processo del 1949.  In realtà, questo eccidio presenta caratteristiche diverse rispetto a quello delle Fosse Ardeatine. Innanzitutto fu compiuto a guerra finita e non fu una rappresaglia condotta nel solco delle pur terribili leggi di guerra dell’epoca (anche se con 5 vittime in più): si trattò di processi sommari, torture ed esecuzioni che, come riportavano i Carabinieri, nemmeno tenevano conto dei nomi degli imputati. Anche sui numeri non c’è corrispondenza con le Ardeatine: materialmente furono recuperati “solo” 100 morti; secondo il cappellano delle Brigate nere don Angelo Scarpellini, le uccisioni furono 700, mentre per il maresciallo dei Carabinieri Carlo Pampararo, 900. Per vari storici furono, comunque, diverse centinaia. Il numero non è chiaro perché, come documenta il partigiano e storico comunista Ives Bizzi, i corpi di molte vittime vennero disciolti nell’acido solforico della cartiera o bruciati nei suoi forni, oppure seppelliti in luoghi remoti o gettati nel fiume Sile. Tale dettaglio fu confermato nel 2007 al Gazzettino anche dal partigiano rosso Aldo Tognana, ex comandante della piazza militare di Treviso: «Il parapetto sul Sile era tutto sporco di sangue, di notte avevano portato lì prigionieri fascisti e non, e li avevano uccisi e gettati nel fiume.»

Inoltre, emergono dal processo torture, stupri ed efferatezze sui prigionieri che si spinsero fino alla crocifissione. “Tutti i prigionieri venivano portati in cartiera – dichiarò al processo del ’49 il partigiano comunista Marcello Ranzato -  i tedeschi - senza che loro venisse torto un capello - venivano custoditi nel garage; i fascisti, invece, in altri locali del pianterreno della cartiera. Questi venivano bastonati e seviziati, tanto che alle volte udivo urla e rumore di percosse. Venivano anche fatti processi sommari. Simionato Gino, “Falco”,  (il loro capo n.d.r.) era uno dei più attivi seviziatori e percuoteva le sue vittime con zappe o badili nelle ore notturne”. Come riportato in “La cartiera della morte” (Mursia 2009) di Antonio Serena, con prefazione di Franco Cardini, il 27 aprile furono catturati presso Olmi sette fascisti della Banda Collotti che portavano con sé dell’oro; questo fu spartito fra partigiani comunisti e democristiani. I prigionieri furono tutti uccisi, anche una donna incinta, amante di Gaetano Collotti. Il 29 aprile, don Giovanni Piliego si recò alla cartiera per confessare dei prigionieri visitati il giorno prima, ma questi erano già stati uccisi. Si rivolse così al vescovo Mantiero che protestò con il CLN e con gli americani. Il 30, militari Usa giunti con una jeep, imposero la cessazione delle attività, ma gli ammazzamenti continuarono. "Dopo la liberazione abbiamo avuto cinque giorni di carta bianca – testimoniò il partigiano Romeo Marangone -  Abbiamo continuato gli arresti”. In realtà, come testimoniò don Ernesto Dal Corso, parroco di Carbonera, le esecuzioni proseguirono ben oltre il 30: “La maggior parte delle uccisioni avvenne dietro una specie di processo presenziato da tali Polo Roberto, Sponchiado Antonio, Brambullo Giovanni, Zancanaro Silvio, Trevisi Gino”. Anche dopo lo stop ordinato dal CNL, invece, “Simionato Gino ha ammazzato un numero di 37 persone, dicono, a colpi di badile”. Spiega lo studioso Massimo Lucioli: “Testimoni oculari riferirono al processo come il giorno 4, un sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana, Luigi Lorenzi, di 20 anni, (catturato nonostante il lasciapassare del CLN) venne preso di mira perché aveva difeso un’ausiliaria dalle violenze dei partigiani. Altri raccontarono di come egli portasse una medaglietta religiosa al collo: minacciato di crocifissione e rifiutando di togliersela avrebbe risposto: “Muoio come Nostro Signore. La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano”.  Stando alle testimonianze e ai referti, Lorenzi fu inchiodato a due assi di legno, frustato e poi gli venne spaccata la testa. Come da lettera del Comune di Breda, il giorno 8 la madre di Lorenzi andò dal sindaco, il partigiano Giuseppe Foresto (che aveva contatti con i partigiani della cartiera) il quale le rispose, mentendo, che suo figlio era stato rimesso in libertà due giorni prima”. Su denuncia dei familiari delle vittime, fu istruito il processo già nell’estate del ’45, ma in un brutto clima: “Nessuno vuole parlare – riferiscono i rapporti dei CC - tutti sono terrorizzati, perché i colpevoli sono in circolazione, coloro che potrebbero dare preziose notizie, vivono ancora sotto l'incubo della rappresaglia”. Il processo a carico del solo Gino Simionato e di altri ignoti andò avanti fino al 1954, quando il giudice Favara così sentenziò: “Pur essendo altamente deplorevole l’indiscriminazione con cui taluni partigiani o patrioti ebbero a sfogare la mal repressa rabbia, troppo spesso senza accertarsi prima della colpevolezza dei singoli individui rastrellati […] dichiaro non doversi procedere a carico degli imputati in ordine ai reati loro rubricati, perché estinti per effetto amnistia. Si trattava dell’amnistia promulgata dal segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1946, poi reiterata nel ’53.

Dalla finta sinistra dei diritti civili alla vera destra della finanza internazionale, il "pensiero scomodo" di Alessandro Meluzzi. Giordano Di Fiore, Creativo, su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Tre domande per il Prof. Alessandro Meluzzi: continua il nostro viaggio all’interno del pensiero “scomodo”.  E’ trascorso un po’ di tempo da quell’insolito 25 Aprile, passato ad intonare Bella Ciao, ma dal balcone. Una situazione tanto ossimòrica da meritare un approfondimento. Qualcosa che andasse oltre il pensiero unico dominante, dettato dalla dittatura sanitaria. Ecco perché abbiamo deciso di formulare tre domande “urticanti” e riproporle, senza mai cambiarle, ad alcune personalità fuori dagli schemi, molto differenti tra di loro, ma caratterizzate da una rara libertà di pensiero. Abbiamo avuto il piacere di intervistare il filosofo Diego Fusaro, l’On. Marco Rizzo, il Prof. Massimo Cacciari. Non poteva mancare il Prof. Alessandro Meluzzi, psichiatra, docente e noto opinionista, il quale ci fornisce delle risposte molto pungenti, tratteggiandoci il tragico ritorno ad un mondo pre-marxiano, dominato ancora una volta dalla dinamica servo-padrone, storicamente arretrando  rispetto alla dialettica della Rivoluzione Francese. Dal crollo del muro in avanti, trovo che in Italia si sia creata, nel popolo di sinistra, una certa confusione. Gli avversari politici utilizzano l’espressione “buonismo”, in senso dispregiativo. Qualcosa di vero, tuttavia, sembra esserci: quando si propongono sanatorie a tempo determinato e quando si fa finta di appellarsi alla solidarietà per, in realtà, legittimare la schiavitù, si fa finta di essere buoni, ma si fa il gioco del cosiddetto “potere”. Lei cosa ne pensa?

«Di buone intenzioni è spesso lastricata la via dell’Inferno. L’esibizione di buoni sentimenti è lo strumento migliore attraverso cui idee repressive o di sfruttamento dell’uomo sull’uomo possono mascherarsi da umanitarismo, di buonismo o, peggio, di politicamente corretto: quella dimensione per la quale alcune idee dominanti, basata sulla percezione della non esclusione di altri, servono, in realtà, a sancire, a consolidare e a cristallizzare il potere di alcune élite ristrettissime sui più. Il fatto che alcuni padroni mettano i bianchi contro i neri, i cinesi contro gli europei, i migranti contro i nativi è uno strumento attraverso il quale chi controlla il vero potere, quello della finanza, riesce attraverso il divide et impera a riaffermare non solo forme di vetero-schiavismo, diventato neo-schiavismo, ma anche l’azzeramento di quella classe media, figlia dell’illuminismo e della Rivoluzione Francese, che è stata quanto di più civile che la storia dell’umanità abbia prodotto. Ma una nuova, antica distinzione tra padroni e schiavi si riafferma, mascherata da buonismo».

Ho trovato molto singolare che, durante il cosiddetto lockdown, molte persone si siano ritrovate a cantare Bella Ciao, ma non per strada, sul balcone! Qualcosa del genere è successo anche per la Festa dei Lavoratori. In pratica, molte persone che credono di riconoscersi nei valori della Libertà e della Resistenza hanno, poi, sposato la linea dell’obbedienza totale al capo. Come mai è avvenuto tutto questo?

«Della sinistra comunista post-comunista e post-socialista, dopo la caduta del muro di Berlino, è stato fatta una sorta di OPA ostile, nel senso che il globalismo capitalista e totalmente finanziarizzato si è in qualche modo silenziosamente comprato gli apparati dell’antica sinistra (pensate ai residui del PC diventato PDS, PD e quant’altro), come, peraltro, è successo ai diversi partiti socialisti, trasformandoli dai partiti dei diritti sociali, dei lavoratori e delle classi subalterne a presunti partiti di presunti diritti civili. Insomma, non era più l’obiettivo di lottare per il possesso e il controllo dei mezzi di produzione, ma la libertà di poter sfilare in mutande con piume in testa, rivendicando il gender, o pensando a visioni di biopolitica o biosocialità dalle quali Foucault stesso sarebbe inorridito. Questa finta sinistra dei diritti civili che esclude l’antico ruolo strutturale, economico e anticapitalista si è ridotta a quella delle canzoni ‘Bella Ciao’ sui balconi, in una dimensione in cui questa finta sinistra diventa il principale presidio della vera destra, che è quella della finanza internazionale dei Rothschild, dei Soros, dei Rockefeller e dei Gates che vorrebbero marchiarsi con microchip sottopelle».

In questi mesi, un governo, diciamo così, tendente a sinistra, tramite l’artificio dello stato di emergenza permanente – che molto ricorda la guerra permanente di orwelliana memoria – ha giustificato l’azzeramento di libertà costituzionali conquistate in anni di lotte sociali. Qual è la sua opinione in merito? Cosa ci aspetta ancora nei prossimi mesi?

«Diceva un grande intellettuale francese, André Malraux, che la prima vittima della guerra è la verità, dopo la quale c’è la perdita dell’innocenza. Dietro la logica della guerra sta sempre la logica della falsificazione: falsificazione dei sistemi di spionaggio, falsificazione delle informazioni sul nemico, falsificazione delle verità interne. La spagnola venne così chiamata perché la Spagna, non essendo paese belligerante nella Prima Guerra Mondiale, era l’unica nazione in cui la verità su quella vera pandemia poteva circolare. È la conseguenza di questa falsificazione. Nulla è meglio per dominare i popoli che mantenerli in uno stato di guerra permanente o di finta guerra permanente, affinché la vera guerra delle élites, che comandano e anestetizzato le masse oppresse, debba sempre avere legittimazione. Chi ha il potere, gestendo la semiosfera dei segni, può permettersi di impedire che circolino le informazioni che riguardano le verità che potrebbero liberarci. Invece, le élite ci tengono al guinzaglio con la minaccia di un pericolo superiore (ora un virus, ora una guerra, ora una carestia, ora un tracollo economico). Sono quelle élite, prestatrici di denaro e stampatrici di titoli, che governano attraverso il ricatto dello Spread e un’idea di debito, muovendo una psico-info-epidemia di monete. Sotto la minaccia di una guerra, ora materiale, ora economica, il popolo soccombe, non avendo le leve della dinamica, che rappresentano la vera chiave del mantenimento dello status quo».

Ma quale Berlino ’89? Il comunismo cadde in Polonia dieci anni prima. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Novembre 2019. Nelle precedenti puntate abbiamo cercato di indicare le connessioni, in genere pudicamente trascurate, fra le questioni militari durante la Guerra Fredda e la politica interna, in particolare l’agibilità del Pci come possibile partito di governo occidentale, una volta consumato in modo irreversibile lo strappo avviato da Enrico Berlinguer, e poi rimasto incompiuto. Il comune sentire che è stato tramandato di quel periodo che comprende gli anni Ottanta, cioè quelli della massima crisi e poi della soluzione della crisi, viene riassunto più o meno così: erano anni di forte contrapposizione fra Est e Ovest, ma ormai i semi della democratizzazione erano penetrati nel sistema sovietico che nel giro di qualche anno, attraverso la “perestroika” e la “glasnost” di Michael Gorbaciov e sotto la pressione dell’Inghilterra di Margaret Thatcher e degli Stati Uniti di Ronald Reagan, sarebbe entrato nella crisi che avrebbe condotto alla caduta del Muro di Berlino e poi al collasso dell’intero sistema. Questa – riassunta in modo semplificato – sarebbe la versione ideologica e umana di quel che accadde, ma del tutto scollata da quella militare che a sua volta è ancora l’unica chiave in grado di restituire senso ai veti incrociati e ai desideri incrociati, per un ingresso del Pci nei governi italiani. Ho citato in un precedente articolo il volume “A Cardboard Castle?” dove si possono leggere tutti i verbali delle riunioni del Patto di Varsavia (l’alleanza anti-Nato) le quali invariabilmente riferivano di un unico schema di esercitazione militare: quello che prevedeva una penetrante controffensiva dopo aver respinto un’aggressione dell’Europa occidentale tale da permettere una velocissima conquista delle coste atlantiche sigillandole. Qual era la ratio di una tale ossessione militare? L’hanno spiegata molti politologi del mondo sovietico e può essere riassunta così: l’Unione Sovietica si era resa conto di non poter reggere a lungo una corsa al riarmo con gli Stati Uniti a causa degli altissimi costi e della qualità tecnologica di armi capaci di manovrare anche nello spazio (le cosiddette “guerre stellari”, agitate dal presidente americano Ronald Reagan). Yuri Andropov, per un quindicennio inflessibile capo del KGB e poi Segretario Generale del Pcus, teorizzava la necessità di tentare il colpo di mano finché fosse aperta una finestra di possibilità, ma nel caso non fosse stata realizzabile un’operazione militare vincente, di passare al piano “B” consistente nello smantellamento e sganciamento dei Paesi satelliti troppo costosi da mantenere, con una operazione di “strategia del sorriso” di cui si sarebbe volentieri occupato il giovane segretario e pupillo di Andropov, Michail Gorbaciov. L’esame delle esercitazioni cui si sottoponeva annualmente il Patto di Varsavia dimostra che ogni operazione militare aveva come teatro di partenza e come retroterra di manovra un solo Paese: la Polonia. La Polonia era stata da sempre considerata un Paese ostile e difficile: una prima guerra subito dopo la sua costituzione in Stato indipendente nel biennio 1919-1921 avea messo in ginocchio la fragile Armata Rossa guidata da Leon Trotzki e da Josef Stalin. Nel 1937 Stalin fece arrestare l’intero gruppo dirigente del partito comunista polacco costringendo il numero due del Comintern Palmiro Togliatti a tornare di corsa con un volo militare sovietico dalla Spagna per firmare le condanne a morte del PCP (e gli storici pensano che quell’atto brutale fosse, nella mente di Stalin, una sanguinosa precauzione per poter poi procedere alla spartizione con la Germania nazista nel settembre del 1939). Davide Lajolo – che è stato direttore dell’Unità – ricorderà molti anni dopo in un’intervista televisiva di aver chiesto a Togliatti con quale animo avesse firmato quelle condanne e che Togliatti rispose: “Se non l’avessi fatto, mi avrebbero ucciso e resta da vedere se fossi stato più utile da morto in quel momento o più utile per le battaglie che ci attendevano”.  La Polonia fu allora spartita fra Germania e Urss (il 52 per cento andò all’Unione Sovietica), poi alla fine della guerra assegnata come “area di influenza” e poi minacciata più volte di invasione, secondo la ricetta già sperimentata nella Germania dell’Est nel 1953, nell’Ungheria del 1956 e nella Cecoslovacchia del 1968. La Polonia preferì l’auto-golpe del generale Wojciech Jaruzelski pur di impedire una invasione, ma il problema rappresentato dalla Polonia non era affatto di natura ideologica (la stragrande maggioranza dei polacchi era notoriamente molto cattolica e al novanta per cento anticomunista) né religiosa, ma militare. Il vero colpo di scena che avrebbe cambiato gli equilibri del mondo era avvenuto il 16 ottobre del 1978 (l’anno del rapimento e della uccisone di Moro, l’anno della morte di Papa Montini e della improvvisa e sospetta morte dell’appena eletto Papa Luciani con il nome di Giovanni Paolo I) quando il cardinale Jozef Wojtyla era stato eletto al Soglio di San Pietro. Il nuovo papa non soltanto era in piena forma fisica, sciatore, attore, eccellente oratore con un passato di resistente prima ai tedeschi e poi ai sovietici, ma guidava sul territorio polacco il potentissimo sindacato Solidarnosc, di cui era leader l’elettricista Lech Walesa, che poi diventerà il primo presidente della Polonia democratica. Io ho conosciuto Walesa a Varsavia durante l’affare Popieluszko, dal nome del giovane prete Jerzy Popieluszko ucciso nel 1984 e per il quale si celebrò un processo a porte chiuse. Ma poi ebbi con lui quasi uno scontro quando venne a Roma per partecipare ad un convegno sul decennale dalla caduta del Muro di Berlino di cui ero il chairman e che quasi mi aggredì: “Piantatela – mi disse nel 1999 – di celebrare il Muro di Berlino come l’evento e la data che fecero crollare il comunismo sovietico. Il comunismo cadde a Varsavia, non a Berlino e lo facemmo cadere noi polacchi. Il muro di Berlino lo fece cadere Gorbaciov e fu un’operazione di maquillage sovietico che voi occidentali ancora vi bevete”. Era furioso. Ma non aveva torto. Anzi aveva pienamente ragione. L’avvento di Papa Wojtyla per Mosca significava qualcosa di molto più ostico di un semplice papa antisovietico. Quell’uomo era la causa fisica, personale, della inagibilità territoriale e dunque militare dell’intera Polonia, perché Solidarnosc aveva dimostrato di avere il controllo dell’intero Paese e di essere in grado di far saltare se necessario ogni linea di comunicazione. Questo fatto provocò una forte reazione al Cremlino ancora nelle mani di Yuri Andropov e poco dopo l’elezione del Papa polacco fu sottoscritto un documento interno nel Soviet supremo, firmato anche da Michail Gorbaciov, in cui si raccomandava un attento contenimento dell’attività papale, fino alle “misure attive”, espressione molto tecnica che serve a indicare le cure dei servizi segreti. Quando riaprii l’inchiesta sull’attentato a Wojtyla del maggio del 1981 all’interno della Commissione Mitrokhin, fu possibile fare analizzare due volte le foto che ritraevano un uomo con i baffi che si trovava accanto al killer Ali Agca, da due diversi expertise (uno chiesto dalla maggioranza e uno dalla minoranza della commissione) che conclusero con i moderni strumenti della medicina legale computerizzata che quell’uomo era senza ombra di dubbio Serghei Antonov, capo della sede romana del servizio segreto bulgaro, sotto la copertura di direttore della compagnia Bulgaria Air e l’ambasciatore bulgaro a Roma mi confermò l’intera storia. Naturalmente il sicario Ali Agca, arrestato dopo aver sparato al papa ferendolo, aveva ampiamente confessato di essere stato ingaggiato dai bulgari per conto dei sovietici, salvo poi dichiararsi pazzo e reincarnazione di Gesù Cristo in Terra. E poi raccontò al giudice Imposimato che l’ordine di cambiare versione gli venne impartito dal “magistrato interprete” bulgaro Markov Petkov che venne a Roma per la rogatoria insieme al giudice militare Jordan Ormankov. Questi ormai, a distanza di anni, appaiono come sbiaditi dettagli. Ma il punto da focalizzare per quanto ho potuto nella mia lunga inchiesta e secondo le testimonianze raccolte è la tentata eliminazione del papa polacco fu un estremo (e fallito) gesto violento per recuperare l’agibilità militare della Polonia.

Non per virtù proprie. Alessandro Gilioli il 21 settembre 2020 su L'Espresso. Più o meno, le percentuali di Ivan Scalfarotto in Puglia e di Tommaso Fattori in Toscana sono uguali, e ridicole entrambe. Scalfarotto è il sottosegretario agli Esteri, insomma un membro non da nulla del governo,  e a questo giro nella regione dov'è cresciuto era il candidato di Italia Viva, partito nato dalla scissione a destra del Pd, quella renziana; Fattori è invece  l'esponente più in vista della cosiddetta sinistra radicale in Toscana, un attivista dei beni comuni di lunga data e di grande, lodevole impegno. Sembra quindi esserci un destino comune, in queste due storie così diverse e parallele. E cioè che fuori dal Pd, al momento, non c'è nulla che viene votato a sinistra o al centrosinistra che sia. Il che è paradossale, s'intende. Quasi misterioso. Perché il Pd è un partito d'identità debole, incerta, a tratti proprio irrintracciabile. Un po' con il lavoro un po' con i padroni, un po' a sinistra e un po' al centro, più spesso barcollante nel nulla, con un segretario che sorride sempre ma non decide mai, che sembra quasi  lasciarsi trasportare dagli eventi -  prima il governo con M5s, poi il referendum - anziché timonarli, eppure tappo di sughero nei marosi della politica, sempre a galla nonostante un profilo che rasenta l'anonimato, il nascondimento, la sparizione. Ma alla fine, anche stasera si porta a casa un tre a tre, e potrebbe fare gesti beffardi a chi fino a 24 ore fa ne prevedeva il crollo e le dimissioni. Si possono fare diverse ipotesi sulle ragioni di questa "tenuta" whatever it takes del Pd - il partito mamma, il partito ombrello, il partito erede seppur lontano del Pci - a fronte dei fallimenti dei suoi piccoli vicini scissionisti. Personalmente ne ho una, forse naif ma l'unica a cui per il momento credo, cioè l'esistenza di una sinistra nel paese nonostante i suoi partiti, cioè nonostante i partiti di sinistra o di centro sinistra. Nel Paese vuole dire nelle coscienze, nell'associazionismo, nei comitati, nei sindacati, nei corpi sociali, nelle mille forme in cui oggi si manifesta l'impegno politico e sociale stando ben lontano dai partiti, eppure alla fine dovendone votare uno, di questi partiti. Ed è quasi inevitabile che a quel punto il partito/candidato scelto sia quello più grosso, quello che può fare muro contro una destra che non è nemmeno destra, ma un misto di sovranismo, antiscientismo, egoismo e fascismo di pancia. E va bene, per carità, va bene perfino il grigissimo Giani e il suo codazzo di renziani orfani e massoni famelici, va bene tutto, ma sempre lì è il problema, e non da oggi ma almeno dal 1994, la sinistra che quando vince, vince solo per battere la destra, non per virtù proprie, non per visioni proprie - ed è questo appunto il problema da più di vent'anni, e vorrei magari vincere un giorno un'elezione per qualcosa e non contro qualcuno, Pd o non Pd, scissioni o non scissioni.

·        Socialismo e scissioni.

La nascita del Partito Comunista scisso dal Partito Socialista e dal Partito Fascista.

Paolo Franchi per il “Corriere della Sera” il 21 novembre 2020. «Care compagne e cari compagni». Nel vecchio Pci, si trattasse del Congresso nazionale o di un' assemblea di poche decine di persone in sezione, l'oratore cominciava sempre così il suo discorso. Facevano allo stesso modo, ci mancherebbe, anche i socialisti, e persino i socialdemocratici. Nel Pci, il Partito con la P maiuscola, la cosa aveva però un sapore particolare. Nel suo primo discorso da segretario in pectore (Bologna, 1969), Enrico Berlinguer tenne a definirlo «un partito laico e mondano», in polemica con chi lo rappresentava come una Chiesa. Ma una dozzina di anni dopo fu lui a rivendicarne orgogliosamente la radicale «diversità» rispetto a tutti gli altri, e i suoi (con l' eccezione, parziale, della pattuglia migliorista) si riconobbero in questa affermazione, soprattutto alla base. Non sarebbe mai stato possibile se non si fossero sinceramente considerati membri non soltanto di un partito, ma di una comunità di destino. Ce lo ricorda un libro che proprio così si chiama, “Care compagne e cari compagni”, appena edito, in vista del centenario della nascita del Pci (21 gennaio 1921) da «Strisciarossa», il blog cui ha dato vita, dopo la chiusura del quotidiano, un gruppo di giornalisti «storici» dell'«Unità». Livia Turco ne ha scritto una commossa prefazione, Sergio Staino ed ElleKappa lo hanno impreziosito con le loro vignette. Ma di sicuro non se ne avranno a male se dico che a colpire di più anche chi ha avuto a che fare con questa vicenda collettiva sono le storie di vita dei tredici militanti, donne e uomini di diverse generazioni, dirigenti di base, intellettuali, giornalisti, raccolte dalle migliori firme di «Strisciarossa». Perché sono storie vere delle passioni, delle speranze, delle pene e insomma del lavoro, perché anche quello politico lo era, di un' Italia all' apparenza, ma solo all' apparenza, minuta (e non parlo solo dei comunisti) che non c' è più da un pezzo, ma che merita di essere raccontata anche per come l' ha vissuta chi l' ha fatta. I più giovani faticheranno (ma un po' di fatica a volte può servire) a farsi una ragione di un mondo in cui, ma è solo un esempio tra i tanti che questo libro ci propone, una giovane agit-prop, la partigiana romana Luciana Romoli, chiamata negli anni Cinquanta a lavorare alle Botteghe Oscure, pretende con le sue compagne di poter studiare. E il duro Edoardo «Edo» D' Onofrio («er più communista tra i romani, er più romano tra i communisti») risponde di sì, ma solo prima dell' inizio del lavoro, dalle sette alle nove del mattino, e comunica il nome dei docenti: Concetto Marchesi insegnerà l'italiano, Lucio Lombardo Radice la matematica, Luigi Longo la chimica e la fisica. Non sorprende che i protagonisti di queste storie, quando sono chiamati a parlare dell' oggi, parlino tutti di un senso di vuoto o, quanto meno, di mancanza. Di una comunità che non c' è più da quasi trent anni, e forse anche da prima, naturalmente. Ma pure, e forse ancora di più, di futuro. Uno stato d' animo reso bene dalla vignetta di ElleKappa. «Il Pci è morto per salvare la sinistra», dice uno. E l'altro: «E poi, cos' è che non ha funzionato?».

Chiedimi chi erano i comunisti. Simonetta Fiori su La Repubblica il 19 novembre 2020. Lo strappo coi socialisti un secolo fa ha segnato per sempre il Pci e poi la sinistra. Una "dannazione" dice Ezio Mauro. Che in un libro racconta un pezzo della nostra storia. E qui anche un po' della sua. Il grande romanzo della sinistra italiana comincia da un peccato originale che Ezio Mauro nel suo ultimo libro ha chiamato "dannazione". È un sortilegio, una coazione a dividersi, che cent'anni fa - il 21 gennaio del 1921 -  trovò la sua culla simbolica nel Congresso di Livorno, con la scissione dei socialisti e la nascita del partito comunista d'Italia. La sua storia è consegnata a un'ampia bibliografia, ma nessuno l'ha raccontata con lo sguardo di un grande giornalista che torna nei luoghi, i passi che dividono il Teatro Goldoni dal vecchio Teatro San Marco, cerca nei palchi a sinistra, nascosto nell'ombra, il busto di Gramsci e in platea, a destra, la barba lunga di Turati. "È una lezione che arriva da Nabokov", dice Mauro dal suo studio romano, alle spalle una parete di libri dedicata alla Russia. "Sono i dettagli a trasformare un materiale inerte in qualcosa che merita di essere letto: li definiva "note a piè di pagina nel volume della vita"  che rappresentano "una forma suprema di consapevolezza"". Alle giornate congressuali, ricostruite sotto una luce inedita grazie a un'aggiornata ricerca archivistica, fa da controcanto la tumultuosa storia del socialismo italiano, all'ombra del pericolo fascista che avanza. Una vicenda drammatica che, nell'eterno conflitto tra radicalità e riformismo, avrebbe segnato l'intero Novecento. E dove le ragioni della storia faticano a trovare quelle della politica.  A questa epopea della sinistra non è estraneo l'autore, direttore prima della Stampa e poi per vent'anni di Repubblica, di cui è oggi editorialista. "Posso dire di aver sempre cercato la sinistra. L'ho cercata soprattutto attraverso il mio lavoro".

Partiamo dalle convulse giornate di Livorno. Il congresso rappresentò una novità nella politica italiana.

"Per la prima volta comparve una cinepresa a un congresso di partito. E, davanti al teatro Goldoni, i leader venivano immortalati dal fotografo ufficiale con i lampi di magnesio. Fu un grande spettacolo nazionale, ma soprattutto fu una pagina inedita della storia politica: non era mai accaduto che una rivoluzione venisse discussa in pubblico,  sotto gli occhi di migliaia di carabinieri, soldati e guardie regie che presidiavano il campo".

Nel libro riveli che c'erano molti agenti segreti in azione. È un aspetto che non è mai stato raccontato.

"Ci fu un intenso lavorìo tra prefettura, questura e ministero degli Interni per intercettare le conversazioni telefoniche dei congressisti accorsi a Livorno. Dovettero dirottare il controllo sulla centrale di Pisa perché nella sede telefonica di Livorno la maggior parte dei lavoratori era iscritta "ai partiti estremi". Questo fa capire come il potere considerasse i socialisti degli eversori. E d'altra parte, indipendentemente dalle correnti - riformista, massimalista e comunista - , non c'era nessuno che non si considerasse rivoluzionario".

La rivoluzione russa era arrivata con una forza irresistibile.

"Era stata una formidabile spallata ai tempi della storia, come se improvvisamente si fosse accorciato l'orizzonte socialista e la rivoluzione fosse a portata di mano. Anche Filippo Turati non aveva saputo resistere al fascino rivoluzionario di Kerenskij, come dimostrano le lettere scambiate tra il 1917 e il '18 con la compagna Anna Kuliscioff. Poi entrambi avrebbero preso le distanze dalla fase bolscevica".

Fu Lenin a chiedere l'espulsione della corrente riformista. La scissione nasce da questo.

"In larga maggioranza il partito votò contro l'ultimatum di Mosca e la frazione comunista abbandonò il Teatro Goldoni per andare a fondare il nuovo partito nel vicino Teatro San Marco. La cosa sorprendente è che il congresso sembra  ipnotizzato da se stesso, incapace di capire ciò che accade nel Paese: lo squadrismo fascista è già molto attivo ed  è singolare che rimbalzi pochissimo dentro il teatro. Nel profluvio di parole che i congressisti si scagliano addosso, il concetto di libertà non appare quasi mai. In pochi avvertono il pericolo fascista che avanza".

Quasi tutti pensavano che fosse un fuoco di paglia destinato a spegnersi. Solo due anni dopo, in una lettera a Togliatti, Gramsci definirà la scissione di Livorno il "trionfo della reazione".

"Lo dice anche Giacinto Menotti Serrati in una lettera inedita a Jacques Mesnil che ho trovato negli archivi della Fondazione Feltrinelli: "Ci divoreremo tra di noi e la borghesia finirà per avere qualche poco di pace". Non sappiamo se la storia avrebbe cambiato il suo corso, ma certo le divisioni all'interno del movimento operaio favorirono l'ascesa del fascismo.  Nel 1919 Mussolini aveva avuto un risultato elettorale deludente".

A Livorno viene sancito un destino permanente della sinistra italiana che è la condanna a dividersi. Un sortilegio che si ripeterà nel tempo.

"In realtà la dannazione si era presentata fin dal principio: già nel 1892 a Genova, nel congresso che dà origine al Partito dei lavoratori, Turati e Prampolini avevano invitato gli anarchici ad andarsene. E ancora nel 1912 c'era stata un'altra scissione con la cacciata dei gradualisti tra cui Bissolati e Bonomi".

Il conflitto tra riformismo e radicalità è una costante della sinistra. Vittorio Foa tendeva a rappresentarla con la sua consueta ironia: tra riformisti e rivoluzionari non c'è alcuna differenza perché i riformisti non fanno le riforme e i rivoluzionari non fanno la rivoluzione.

"Foa è stato uno dei miei punti di riferimento. Ma ora mi viene in mente la battuta di un dirigente locale: "Il socialismo è quello che il suo tempo lo fa". È la storia che di volta in volta privilegia la componente riformista o quella "intransigente". Se uno reinterpreta quegli accadimenti con il senno di poi - ma è troppo facile! - le ragioni della storia sono dalla parte di Turati, del suo gradualismo riformista. Il problema è che il leader socialista non riesce a tradurle in una pratica politica. E queste ragioni non gli vengono riconosciute nel momento in cui vive".

È evidente la tua simpatia per  Turati.

"Sì. Ma sono affascinato anche da una figura per molti aspetti agli antipodi che è Antonio Gramsci. Entrambi non sono solo dei militanti, ma provano a mettere in campo una teoria politica. Quella gramsciana dei consigli di fabbrica incontrò molte diffidenze nel partito e nel sindacato. Fu messo sotto accusa per il fallimento della stagione rivoluzionaria con l'occupazione delle fabbriche a Torino. Ed è anche per queste critiche che Gramsci non parlò al congresso. Nonostante il suo nome sia stato invocato più volte dalla platea, preferì non sporgersi dal palco".

A proposito della dannazione, tu scrivi che è come se la dinamica dei corpi sociali fosse indipendente dalla teoria. I socialisti predicano fratellanza e solidarietà ma non riescono a praticarla, dividendosi costantemente in fazioni.

"Il socialismo è stato un'infaticabile fabbrica di teorie e di modelli sociali, ma ha finito per prevalere il settarismo: ogni corrente ha ritenuto che il proprio modello ideale fosse migliore di quello degli altri. Da qui deriva la tragedia della sinistra italiana:  gli avversari dentro lo stesso campo politico diventano i principali nemici. Ed è un destino che ha colpito anche la mia generazione".    

Nel libro racconti come nasce la scintilla socialista. Ma in te quando è scoccata la fiammella della sinistra?

"Il primo a parlarmi di politica è stato uno zio che abitava accanto a casa mia a Dronero. Era anticlericale come mio padre e lo ricordo seduto in poltrona immerso nella lettura dell'Espresso formato lenzuolo".

Un liberale di sinistra?

"No, decisamente un uomo di sinistra. Poi sono andato avanti confusamente per conto mio. Con un vantaggio enorme rispetto alla leva precedente: la mia generazione è arrivata alla politica adulta con il Sessantotto e l'invasione della Cecoslovacchia per cui non ha dovuto sciogliere il nodo del sovietismo. Ci siamo tutti battezzati alla politica diventando contemporaneamente di sinistra e antisovietici".

Tu facevi politica?

"No, non direttamente. La facevo attraverso i giornali che inventavo ovunque io fossi:  prima in collegio, poi al liceo, e nel mio paese, dove ancora escono regolarmente alcune di quelle testate. La prima volta fu in terza media: ero compagno di classe del figlio del tipografo di Dronero che aveva un ciclostile. Ma la preside mise fine bruscamente all'avventura".

Cosa voleva dire essere di sinistra?

"Nella parte d'Italia dove vivevo, nel basso Piemonte al confine con la Francia, significava stare all'opposizione rispetto al potere politico: era una zona fortemente democristiana che in questi ultimi decenni ho visto mutare dai toni felpati della Dc all'urlo leghista. Allora lo scudocrociato era il nostro avversario. Con i miei amici passavamo ore a sfigurare i loro volantini in sostegno di questo o quel sindaco: al posto del "sì" incollavamo un "no" e poi facevamo volantinaggio nel segno del rovesciamento".

Un incontro che ti ha segnato?

"Norberto Bobbio, professore di Filosofia del diritto: è stato il primo corso che ho seguito alla facoltà di Legge, a Torino. Una volta entrò in classe buttando la cartella sul tavolo: erano appena accaduti i fatti di Avola e Battipaglia, le rivolte contadine soffocate dalla polizia nel sangue. Ha cominciato a camminare su e giù davanti alla cattedra e con uno dei suoi scatti nervosi si è rivolto a noi: ma insomma, alla vostra età e con quel che è successo, non avete niente di meglio da chiedermi che farvi lezione? Fece una dissertazione sulla violenza".

Poi hai approfondito l'amicizia grazie al lavoro.

"Mi ricordo la lunga lettera che gli scrissi nel 1990 durante il volo da Mosca a Torino. Ritornavo alla Stampa come condirettore accanto a Paolo Mieli, dopo tre anni di corrispondenza in Urss per Repubblica. Sentivo il bisogno di raccogliere i vari pezzi della mia esperienza giornalistica - cronista del terrorismo, giornalista parlamentare, il lavoro in Russia durante la perestrojka - per impostare la fase nuova che mi aspettava. La Stampa rappresentava un potere forte, la Fiat.  Ed era radicata nel quotidiano la linea culturale dell'azionismo. A me interessava l'autonomia del giornale dalla politica, e l'autonomia della politica dai poteri forti. Avvertivo l'urgenza di dialogare su questo con Bobbio. Si può dire che ho sempre cercato la sinistra. Anche attraverso il mio lavoro".

Sulla Stampa, sotto la tua direzione, le voci dell'azionismo erano molto presenti in prima pagina.

"Era giusto che trovassero libera espressione. E anche Repubblica è stata il tentativo di unire la cultura liberalsocialista agli altri pezzi della sinistra italiana. In questi lunghi anni è capitato che qualcuno per insultarmi mi abbia detto: azionista! Io tra me e me rispondevo: magari...".

Nel libro racconti la Torino del primo Dopoguerra dove avviene l'incontro tra Gramsci e Gobetti, tra la matrice comunista e la cultura liberale che si apre al socialismo. Quanto ha contato la memoria storica di Torino nella tua formazione?

"Moltissimo. È qui che è cominciato il mio lavoro di cronista. La Gazzetta del Popolo è stato un grande amore dove ho fatto anche il sindacato: chiuso nel 1974, il giornale continuò a uscire grazie a una cooperativa di giornalisti e poligrafici. Lavoravamo di giorno e di notte occupavamo la redazione, con grandi avventure, grandi amori, grandi amicizie. Quello che ho imparato politicamente lo devo al mestiere. Soprattutto negli anni del terrorismo, che è stata la guerra della mia generazione".

In che modo ne è uscita fortificata la tua coscienza di sinistra?

"Nell'ottobre del 1977  le Br gambizzarono Antonio Cocozzello, un consigliere comunale democristiano che era stato protagonista delle lotte contadine in Basilicata. Aveva studiato grazie al sindacato. Arrivai quando i soccorritori gli stavano tagliando i pantaloni: lo vidi a terra, dolorante, le mutande da mercato che poteva avere mio nonno. Mi indicò una cartellina di plastica marrone: per favore, portala alla Cisl, dentro ci sono le pratiche di due pensionati. Tornato al giornale, lessi il comunicato dei terroristi che lo indicava come "servo delle multinazionali". Il giornalismo mi ha messo sempre davanti i  fatti, aiutandomi a capire come stanno veramente le cose".

Hai sempre votato a sinistra?

"Sì, ma ponendomi ogni volta una domanda: cosa serve al Paese che io faccia? E la risposta è sempre stata il voto a sinistra".

Hai avuto rapporti più stretti con qualcuno dei leader storici del Pci?

"Ho incontrato molte volte Giancarlo Pajetta, sia a Torino che a  Mosca. E ho avuto un buon rapporto con Enrico Berlinguer, anche se intorno a lui si formava sempre un semicerchio di rispetto: la sua estrema riservatezza ti obbligava a un passo di distanza. Ma alla fine di un'intervista, nella sua stanza di Botteghe Oscure, mi sorprese parlandomi di Juventus".

Chi speravi fosse il suo successore alla guida del partito?

"A un certo punto ho sperato in Luciano Lama, un leader dalla personalità carismatica. Mi ricordo le lunghe chiacchierate davanti alla sua scrivania di ferro. Quando Lama morì, l'avvocato Agnelli mi raccontò di essere andato a trovarlo nei giorni della malattia e che lo fece sedere sul suo letto. "Oggi posso dire quello che disse mio nonno quando morì Bruno Buozzi: è morto un galantuomo"".

Li hai frequentati sempre per lavoro?

"Sì. Anche se posso dire di aver visto Alessandro Natta in pigiama. Lo seguii in Cina per una visita a Deng Xiaoping, che ci apparve con una potenza scenica straordinaria. Una notte arrivò dall'Italia la notizia del conflitto su Sigonella tra il presidente del consiglio Craxi e l'amministrazione americana. Ci precipitammo a svegliare il segretario del Pci. Ma Natta si rifiutò di fare dichiarazioni".

Quando hai visto cambiare i comunisti?

"Il cambiamento era cominciato nel 1981,  con lo strappo da Mosca. Ma purtroppo non li ho visti cambiare abbastanza. Berlinguer ha fatto il passo più importante, ma era tutto interno all'orizzonte comunista. È una questione che ho discusso con Gorbaciov a Mosca: anche il segretario del Pcus era riuscito a dare una spallata decisiva al sistema sovietico, ma ne è rimasto dentro. Non è stato capace di trovare l'apriscatole che lo proiettasse fuori".

Dalla Russia ti sei portato indietro amicizie comuniste?

"L'unica fotografia che conservo è quella insieme a Sacharov, il fisico dissidente riabilitato da Gorbaciov nell'86. Ci vedevamo spesso a casa sua, in cucina, insieme alla moglie Elena Bonner. Si sarebbe potuto accomodare nel ruolo dell'ex perseguitato omaggiato dal mondo, invece aveva a cuore il cambiamento radicale del sistema sovietico, con la battaglia per i diritti: immune da qualsiasi spirito vendicativo, guardava in avanti".

Oggi lamenti che la sinistra in Italia non abbia un nome e un'identità.

"I due nomi che l'hanno definita nel secolo precedente sono durati uno troppo a lungo, il comunismo, finito solo dopo il crollo del Muro di Berlino, e l'altro troppo poco, il socialismo, suicidatosi in una pratica politica condannata da Tangentopoli. I socialisti avevano le ragioni della storia, ma non le hanno sapute tradurre nella politica. I comunisti hanno avuto la forza politica senza avere le ragioni della storia. E non sono stati capaci di fare il rendiconto conclusivo. Per anni ho sperato che socialisti e comunisti risolvessero la loro dannazione, ma così non è stato".

Che cosa significa per te essere di sinistra?

"Significa credere nella possibilità di un cambiamento, mettendosi dalla parte di chi ne ha più bisogno. Ho gli stessi amici dai tempi del liceo e ogni volta ci diciamo: ci siamo tutti - più o meno - e siamo ancora intatti, nel senso che siamo rimasti fedeli a un'identità che è anche la cifra del nostro stare insieme".

A chi guardi per il futuro della sinistra italiana?

"Tanti anni fa mi sono augurato un papa straniero. Oggi spero che una nuova figura venga da quella che  Turati definiva la "borghesia del lavoro": qualcuno che voglia spendere le sue esperienze di vita e le sue competenze nell'avventura della sinistra italiana.  Il problema è che se questo potenziale leader vuole cercare la casa del partito della sinistra italiana fatica a trovarla. Probabilmente non c'è il campanello sul pianerottolo e, se bussa alla porta, nessuno va ad aprirgli. Ma io finisco il mio libro con una ragazza che cuce il simbolo sulla bandiera rossa. Forse è arrivata l'ora del grande rammendo allo strappo del 1921". Sul Venerdì del 20 novembre 2020

A cent'anni dal congresso di Livorno. Croce, Labriola e Gentile sono i veri fondatori del Partito Comunista Italiano. Biagio De Giovanni su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Quello strano animale politico che è stato il PCI nacque storicamente come Pcd’I nel 1921 dalla scissione di Livorno, ma politicamente si costituì nel 1926 quando gli ordinovisti, e soprattutto Gramsci e Togliatti, ne presero la direzione. Esso non sarebbe stato quel potente e non illusorio ircocervo che è stato, se il suo vero atto di nascita culturale non fosse stato in quel dibattito, che si svolse tra fine 800 e primo 900, tra Antonio Labriola, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con il quale Marx entrò nella cultura italiana. Azzardo una ipotesi: una delle ragioni per le quali l’Italia non ha mai salutato la nascita di una socialdemocrazia è proprio in questo passaggio indicato, quanto mai decisivo: Marx non è entrato in Italia attraverso un Bernstein, come in Germania, pensatore che mobilitò il revisionismo riformista e socialista, ma attraverso la potenza di due “categorie” schiettamente legate a una filosofia della forza e del destino della storia: Materialismo storico, con Antonio Labriola; Marx filosofo del rovesciamento della prassi, con Giovanni Gentile, quest’ultimo considerato da Togliatti, ancora nel 1919, “il maestro delle nuove generazioni”. La cultura può avere un effetto dirompente sulla nascita delle formazioni storiche, e il dibattito che ho ricordato, lo ebbe sulla forma e sulla storia del PCI, e determinò largamente la sua originalità, unico partito comunista dell’Occidente governato da una grande e colta aristocrazia politica, non pochi dirigenti educati pure da Benedetto Croce; unico, arrivato alle soglie del governo, e con un ruolo decisivo nella storia d’Italia e nella sua cultura. Con Labriola fu introdotta la concezione materialistica della storia dotata di una raffinata “previsione morfologica” sul destino mondiale del comunismo; con Gentile entrò Marx filosofo della prassi, valorizzato al massimo con la traduzione delle marxiane “Tesi su Feuerbach” operata dallo stesso Gentile, che almeno in parte hanno orientato anche i “Quaderni” di Gramsci e l’insieme del dibattito italiano per lungo tempo. Croce, nel 1917, ripubblicando i suoi scritti su Marx, vide, nella idea di potenza e di genuinità della forza, il contributo decisivo che Marx aveva dato alla nuova elaborazione della politica, liberandola “dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità”. Dove poteva trovar spazio ideale una socialdemocrazia? Il partito nascente si liberò del comunismo di sinistra antibolscevico e antistalinista di Bordiga, e si collocò nella cultura di uno storicismo pensato nella prospettiva di un destino necessario, carico di influenze “idealistiche”. La filosofia della prassi di marca gentiliana operò, pure oltre i suoi rigetti ufficiali, inevitabili dopo le scelte politiche del filosofo, come una filosofia del rovesciamento della prassi, tema intorno al quale si svolse la discussione sul marxismo in Italia, oltre i nomi ricordati, fino a Giuseppe Capograssi e Rodolfo Mondolfo. Al centro del dibattito originario non fu “Il Capitale”, se non per la tesi neutralizzante di Benedetto Croce sul significato della teoria marxiana del “valore-lavoro”. Il partito che rinacque nel dopoguerra, con la guida di Togliatti, fu, insieme, stalinista nella visione del destino della storia e “ultra-culturale”, se così si può dire, nella centralità che diede al rapporto con gli intellettuali e a una elaborazione relativamente autonoma sul destino della rivoluzione in Occidente, soprattutto dopo la pubblicazione dei “Quaderni” di Gramsci. Un ircocervo, capace di contribuire alla elaborazione della costituzione e a una forma di governo costante della società italiana, ma che restò irrimediabilmente legato al destino dell’Unione sovietica, tanto che morì insieme ad essa dopo il 1989: simul stabunt, simul cadent, la sempre riaffermata e anche reale autonomia non aveva la forza per opporsi a questo destino. Qui ancora si rivelava qualcosa dell’atto di nascita del partito, spesso irriconoscibile sotto la spinta degli eventi: un materialismo storico dotato di un destino necessario che era nella vittoria mondiale del 1917, l’umanità finalmente liberata; e una filosofia della prassi che doveva, democraticamente, rovesciare il senso di continuità della storia. Ortodossa la visione generale, che impedì ogni vero distacco dall’Unione sovietica, seguendo i ritmi di quella storia, legando ad essa, solo qualche volta problematicamente, il suo destino; tutt’altro che ortodossa la prassi politico-parlamentare e il pensiero che le corrispose, secondo la doppia natura dell’ircocervo. E su questo punto va detto qualcosa di più, per completare quella che chiamerei la prima puntata di una riflessione. Mai il Pci fu una socialdemocrazia, mai penetrato dalla sua cultura; il suo “riformismo”, per quel che operò fortemente nella società italiana, voleva sempre essere “di struttura”, ossia capace di toccare la radice di un rovesciamento della prassi che nessuna socialdemocrazia aveva pensato di smuovere. La democrazia in occidente implicava la lotta per la conquista dell’egemonia, un gran principio innovatore della scienza politica fondata da Gramsci, onde anche l’enorme lavoro culturale e i dibattiti filosofici degli intellettuali legati in forme varie al partito, che formarono il ricco filone del marxismo italiano. Una egemonia che, vincente, avrebbe trasformato la democrazia in “democrazia progressiva”, verso comunismo realizzato, problema tutto da discutere, ma che faceva intravedere una difesa concettualmente strumentale delle istituzioni com’erano.  Una “doppiezza” che non va criticata moralisticamente, dato che quella parola si definisce con una vera valenza storica, legata al destino previsto per la storia del mondo. Tema che aprirebbe un altro capitolo, rinviato, Direttore permettendo, a una seconda puntata.

La fine di un mondo. Maledetta Livorno: aveva ragione Turati, non Gramsci. Bobo Craxi, Riccardo Nencini su Il Riformista il 28 Novembre 2020. Il 21 gennaio del 1921, a Livorno, il Congresso del Partito Socialista si concluse con una scissione. La frazione comunista, guidata da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci, si staccò dal partito e fondò il Partito Comunista. “E quando avrete fatto il Partito Comunista Italiano, quando avrete impiantato i Soviet in Italia, se vorrete fare qualcosa che sia rivoluzionaria per davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, perché siete onesti, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe…”. Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del PSI, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi. C’è dell’altro da considerare. Il Congresso si tiene nel momento del fascismo nascente. La strage di Palazzo d’Accursio del novembre 1920, a Bologna, rappresenta l’aurora dello squadrismo armato. Eppure, a Livorno, solo in pochi si avvedono del cambio di passo. Matteotti, Vacirca, Turati. La corrente comunista giudica il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo. Anche Gramsci la pensa così. Siamo all’esordio di una storia nuova, terribile, e solo un pugno di delegati, tutti riformisti, ne ha piena contezza. Superfluo ricordare chi avesse ragione. Non fu una rottura ideologica, Turati continuava a professare e ad attuare una inclinazione marxista adattata ai tempi e alle condizioni del Paese ma assieme alla sua corrente “riformista” del PSI si differenziava nella valutazione dei processi che avrebbero condotto a maturazione la società socialista. E la sua fu una differenza radicale che condusse i riformisti, molto tardi nella Storia, ad avere ragione e gli scissionisti che generarono il Partito Comunista Italiano torto. Si contestavano tre punti essenziali: 1) l’uso della violenza 2) la dittatura del Proletariato 3) la coercizione del dissenso. In sintesi “il culto della violenza” eretto a prassi e dottrina politica, cultura che si è tramandata a lungo nella storia della sinistra italiana che prese le mosse dalla scissione del Partito Socialista a Livorno. La vecchia mentalità insurrezionalista, blanquista, giacobina che si era riaccesa durante la Prima guerra mondiale e che fu indiretta causa della illusione rivoluzionaria che causò la prevedibile reazione. (Non sappiamo giudicare se la cosiddetta “rivoluzione italiana” degli anni Novanta abbia prodotto il medesimo effetto, vista l’insorgenza di una robusta destra reazionaria ai giorni nostri: però qualche sospetto ci è venuto). Turati non poté che ribadire a Livorno nel 1921 il valore del riformismo e del gradualismo come metodo, di fronte a un mito, quello della Rivoluzione russa, destinato prima o poi a svanire come tutte le illusioni, e le sue solenne considerazioni rimangono scolpite come una delle più grandi profezie della Storia politica italiana. Le pagine della Storia devono essere rilette perché esse illuminino il futuro, d’altronde è cambiato il secolo, si è trasformata la politica e potremmo dichiarare definitivamente tramontata la stagione delle diatribe e delle divisioni nel campo della sinistra italiana. Tuttavia, se non fossero perdurati a lungo i miasmi della lunga stagione di divisione storica fra il socialismo democratico e il comunismo, in Italia si potrebbe affermare che da tempo la cosiddetta scissione di Livorno sta alle nostre spalle. La verità è che stanno alle nostre spalle le ragioni contemporanee che la produssero ma non le identità che da essa generarono quella scissione che fu un atto di nascita, quello del Comunismo italiano e la sua separazione dal Socialismo. E se lo strappo dal Comunismo mondiale, un minuto dopo e non un minuto prima che accadesse il drammatico decesso, vide la nascita di un’esperienza politica che ne cancellò le insegne, tuttavia non si sanò mai la frattura consumatasi all’interno del percorso materno che resta quello del Socialismo italiano. Rifiutata l’ipotesi del “ritorno al futuro” ovvero del ricongiungimento formale e sostanziale nell’alveo del Socialismo italiano, ciò che fu generato attraverso il mancato superamento e revisionismo della scissione comunista di Livorno fu una perpetua partenogenesi di organizzazioni e movimenti politici senza definita identità e per giunta progressivamente annacquati nell’alleanza e fusione con gruppi e movimenti non consanguinei della storia del Movimento operaio e socialista. Ora la questione che si pone nella sinistra democratica, che si definisce “riformista” nel mondo moderno, riguarda ancora questioni di fondo, di metodo e di prassi nella lotta politica e di interpretazione dei modelli di società, a maggior ragione oggi che nella società globale aggredita dal medesimo incubo pandemico si stagliano all’orizzonte delle esperienze che riecheggiano le mitologie dei primi del secolo scorso. Non è forse “comunista” la potenza che si è affacciata nel mondo con il suo dinamismo e approccio truffaldino, ovvero quel vero e proprio ircocervo ideologico che è rappresentato dalla sintesi cinese di un turbo-capitalismo liberista per giunta guidato dal partito unico e dal suo comitato centrale? E quale rapporto si intende instaurare con le nuove esperienze che non nascondono la propria identità “socialista”, che sono state decisive nella vittoria dei democratici americani, attardatisi negli anni a difendere fallimentari “terze vie” che avrebbero dovuto superare i modelli socialdemocratici e le virtù più che mai attuali della capacità dello stato di essere decisivo negli orientamenti economici, proprio in presenza di un’aggressiva e onnivora ondata capitalista? Affrontiamo quindi l’occasione della celebrazione della nascita del PCI come un’occasione di riflessione politica e ideologica opportuna, nel rispetto e nella considerazione che si deve a una forza politica che è stata essenziale nell’affermazione dei valori nazionali e nella costruzione della Repubblica italiana, che è stata tanta parte della sinistra e che orienta ancora a un secolo di distanza una fetta consistente del suo popolo, dei lavoratori e delle giovani generazioni. La sua attualità, oggi come allora, sta nell’essere argine al populismo e ai nuovi autoritarismi, purché non ne assuma, come è accaduto in diverse fasi della politica del Paese, delle sembianze spurie. Non diciamo che il vento del populismo che spazza l’Europa e le Americhe sia fascismo tour court. No. E però esso va combattuto con tenacia e determinazione correggendo anzitutto gli errori che anche la sinistra ha commesso al tramonto del secolo scorso. Pensiamo all’Italia. La vulgata che lo Stato fosse onnivoro non era una falsità, e però una cosa è limarne le unghie, altro è smantellare pezzi di sanità pubblica e svendere aziende di Stato in settori strategici come è stato fatto dalla Sinistra al Governo. Una cosa è tagliare sedi universitarie in eccesso, altro non scommettere fino in fondo su ricerca e istruzione. Una cosa infine è il rispetto della legalità, altro è l’esaltazione dell’arbitrio giudiziario senza garanzie per gli imputati e l’utilizzo sistematico delle vicende giudiziarie per annientare e umiliare l’avversario politico. Quel che serve oggi, tanto più di fronte all’emergenza da pandemia, è uno Stato umanizzato, un canone sì riformista, dunque quanto mai rivoluzionario, che corregga le distorsioni della globalizzazione guidata da multinazionali e alta finanza, che restituisca all’Europa il ruolo che ebbe al tempo dei pionieri perchè possa inserirsi a pieno titolo nella competizione mondiale arrecandovi i valori del suo canone secolare: libertà, welfare, conoscenza, che, infine, si preoccupi di creare ricchezza senza dimenticare la massa crescente e disperata degli ultimi. Padre di questa storia e di questo futuro è il Socialismo umanitario. Per questa ragione, da socialisti ribadiamo le attualità prevalenti del metodo riformista, e intendiamo continuare a riflettere assieme a tutti coloro che mantengono vivo l’ideale e l’obiettivo di una società più giusta, più libera, solidale e moderna e vogliono richiamarsi ai valori più alti di un Umanesimo socialista adatto ai nostri tempi di cui più che mai sentiamo il bisogno.

La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».

La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.

L'anniversario della nascita del Pci. Il problema non fu la scissione, ma i socialisti massimalisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Dicembre 2020. In vista del Centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia sono schierati ai nastri di partenza storici, saggisti, commentatori, testimoni, politici, pronti a rivisitare la storia di quello che fu il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (alla morte di quest’ultimo venne meno la “sacralità” del segretario generale) e che svolse – nel bene come nel male – un ruolo fondamentale nell’Italia del XX Secolo, non solo nella vita istituzionale, politica e amministrativa. La sua influenza condizionò la cultura, le arti, l’accademia, il sindacato, l’associazionismo, la magistratura e ogni espressione della società. La sua ideologia e la sua prassi orientarono milioni di concittadini che trovarono in quella militanza politica una ragione di lavoro, di vita e di speranza, riuscendo a formare e a selezionare gruppi dirigenti forgiati nello studio, nella lotta e nella disciplina. Eppure nello scenario politico attuale il Pci (questo è il nome che il Partito –ça va sans dire – assunse nel dopoguerra) ha avuto il medesimo destino di Atlantide: un continente scomparso senza lasciare traccia se non nel mito e nella leggenda.  Quanti hanno vissuto quella storia – sia pure senza mai essere stati comunisti – non possono non provare un senso di smarrimento al cospetto della fine di un’epopea che non ha lasciato tracce di sé, i cui eredi hanno persino rifiutato di accettare un’eredità tanto gravosa, precipitandosi all’anagrafe della politica a cambiare le generalità. Il Pci, nonostante i giochi di parole delle “prese di distanza”, non ruppe mai con il sistema sovietico, se non quando l’Impero di Mosca, dopo il crollo del Muro di Berlino, si dissolse nel volger di pochi anni. Il partito seppellì il comunismo sotto le macerie e assunse un’altra identità, evitando accuratamente di rientrare nel filone del socialismo da cui era uscito nel 1921. La fine dell’Urss fu come la morte del dio di una religione laica, anch’essa corredata di dogmi, di teologia, di Sacre Scritture, di Santi, Martiri ed Eroi; persino di un catechismo atto a diffondere la dottrina tra le masse popolari. Il comunismo, nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, come una Chiesa, condannò le eresie, catechizzò con la violenza intere popolazioni, promosse Concili, istituì la Santa Inquisizione per debellare le deviazioni, privò miliardi di persone della libertà in nome di una promessa di giustizia che non trovò mai posto sulla terra. Eppure, davanti alla miseria della politica e della sua classe dirigente di questa fase storica, anche gli avversari del Pci non possono che constatare – come il poeta davanti alla quercia caduta – «Or vedo era pur grande». Ma ci saranno tempo e occasioni per parlare del comunismo e del Pci; soprattutto argomenti. Con questo scritto vorrei dialogare con l’articolo degli amici e compagni Bobo Craxi e Riccardo Nencini, quando scrivono su Il Riformista: «Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del Psi, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi». È vero la storia ha dato ragione a Turati («gli scorcioni non servono; la via lunga è anche la più breve, perché è la sola che esista»). Ma non al Psi del 1921, il partito che nell’ottobre del 1922, al Congresso di Roma, espulse la corrente riformista. Dopo la scissione (il pretesto fu trovato nella mancata espulsione dei riformisti in ossequio al diktat della III Internazionale) il PCd’I si rivelò, ben preso, una forza di minoranza. Pochi mesi dopo, nella competizione elettorale del 15 maggio 1921, il Psi ottenne 123 seggi (molti meno dei 156 delle elezioni del 1919), mentre il nuovo partito, nato a Livorno, elesse solo 15 deputati. Ma il dramma della sinistra non fu la scissione del gennaio 1921: Filippo Turati e Antonio Gramsci rappresentavano due minoranze di un Psi in mano ai massimalisti che fu il vero responsabile degli errori che in poco più di un anno aprirono – con la connivenza della Corona, dei poteri istituzionali ed economici – l’accesso al potere del Fascismo (nelle elezioni del 1919 il partito di Benito Mussolini si era presentato solo a Milano e non era riuscito a raggiungere neppure 5mila voti). Anche per la maggioranza del Psi il fascismo non era che «il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo». E l’obiettivo del «proletariato» in Italia era «fare come la Russia». Basta leggere il resoconto di quel Congresso (nel 1963 la Biblioteca socialista diretta da Lelio Basso pubblicò gli atti dei Congressi socialisti dal 1892 al 1937) che si svolse tra polemiche, contestazioni e interruzioni (Paul Ley nel suo saluto a nome del Partito socialista unificato tedesco affermo che ‘’l’unità del partito non è sempre un bene per il proletariato»). Il dibattito si concentrò subito (anche grazie ad una inversione dell’odg votata a maggioranza) sul punto 6) Indirizzo del Partito, Rapporti con l’Internazionale. Il Psi aveva chiesto l’adesione alla III Internazionale comunista e doveva quindi condividere i 21 punti che ne condizionavano l’accettazione. Tra questi il punto 7 obbligava i Partiti candidati «a riconoscere la completa rottura con il riformismo e con la politica di “centro” e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia politica comunista». Nel sollecitare «incondizionatamente e ultimativamente l’effettuazione di questa rottura – proseguiva il testo – l’Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori quali Turati, Modigliani, Kautsky (più un’altra seria di nomi, ndr) abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale». La frazione che si definiva dei “comunisti unitari” (ne facevano parte i maggiori leader massimalisti), non era determinata ad espellere i “concentrazionisti”, pur richiamandoli ad una più severa disciplina specie nel gruppo parlamentare (lo farà nel Congresso di Roma nell’ottobre 1922 poche settimane prima della Marcia fascista sulla Capitale). La mozione finale (a firma di Giacinto Menotti Serrati ed altri) riconfermava la «piena spontanea adesione alla III Internazionale» ed accettava i 21 punti intendendo che potessero essere interpretati «secondo le condizioni storiche e ambientali del paese’» e chiedendo perciò una sorta di esonero da Mosca. Per questi motivi Amedeo Bordiga (mozione comunista pura) prese la parola ed affermò che la maggioranza del Congresso si era posta fuori della III Internazionale; così invitava i delegati della frazione comunista ad abbandonare l’aula e a recarsi – al canto dell’Internazionale – nel Teatro San Marco dove sarebbe stato costituito il Partito comunista. Molto significativo, in proposito, l’intervento di Antonio Graziadei il quale rimproverò ai massimalisti di separarsi «dai più vicini per andare coi più lontani». Benché, dopo la vittoria socialista nelle elezioni amministrative, alcuni mesi prima a Bologna – il fatto è ricordato anche da Craxi e Nencini – fosse stato espugnato Palazzo d’Accursio ad opera delle squadracce fasciste, l’eco delle violenze, delle distruzioni delle Camere del Lavoro, delle sparatorie e delle spedizioni punitive, si avvertiva casualmente, a Livorno, all’interno di un dibattito di un partito impegnato a guardarsi l’ombelico e a cucirsi addosso un’ideologia che non gli apparteneva, ma i cui capisaldi erano già inseriti nel preambolo dello Statuto: la conquista violenta del potere politico e la dittatura del proletariato in vista della realizzazione del comunismo e della scomparsa delle classi sociali. Ma la sottovalutazione della minaccia fascista non era un limite della sinistra massimalista e comunista in Italia. Anche in Germania, il partito socialdemocratico – che diversamente dal Psi – era la colonna portante delle Repubblica di Weimar, il giorno prima di quello in cui Hitler ricevette l’incarico di formare il governo (30 gennaio 1933), aveva organizzato una grande manifestazione al grido di “Berlino è rossa”, mentre il giornale della socialdemocrazia, il Wortwars, scriveva: «La Germania non è l’Italia, Berlino non è Roma, Hitler non è Mussolini (questa considerazione, in senso inverso e a pelosa difesa del Duce, l’abbiamo sentita troppe volte da noi, ndr). Sbaglia di grosso – continuava il giornale – chi ritiene che qualcuno possa imporre un regime dittatoriale sulla nazione tedesca».

La ricostruzione del Pci. Togliatti, Gramsci e un’assenza: la svolta di Occhetto. Nino Bertoloni Meli su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Articolo gentilmente concesso dalla rivista “Ytali”, diretta da Guido Moltedo. Complice il centenario della nascita del Pci (Pcd’I per la precisione) di qui a pochi mesi, è tutto un pullulare di studi, saggi e rievocazioni di quel 21 gennaio del 1921 destinato a segnare le sorti del Paese e di alcuni personaggi che quella storia segnarono e da quella storia furono segnati. A differenza che in altri Paesi, dove di comunisti e comunismo si è spenta ogni eco da tempo (chi si ricorda più di Marchais in Francia, di Carrillo in Spagna, o di Cunhal in Portogallo?) da noi la storia del Pci continua a produrre effetti, a segnare studi e attualità, se non è proprio viva, comunque non è morta. «Perché proprio in Italia nacque, continuò a crescere e produsse storia e politica il più grande Partito comunista dell’Occidente?», è l’interrogativo che si pongono Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro Quando c’erano i comunisti per i tipi di Marsilio. La risposta, l’asse attorno al quale ruota l’intero volume, è che da noi ci sono stati un certo Antonio Gramsci e un certo Palmiro Togliatti, più il primo che il secondo, ma comunque entrambi hanno segnato dapprima l’esistenza, quindi la resistenza e ancora dopo il radicamento nella società italiana, attraverso quell’arcinota e ultrastudiata interpretazione del marxismo completamente inserita nella storia e nella migliore tradizione del Paese (la triade De Sanctis, Croce, Labriola), facendo del Pci non tanto lo strumento per una presa del potere en attendent la fatidica ora X, ma un partito utile almeno a una buona parte della società italiana, perfettamente e sapientemente inserito nelle dinamiche politiche e sociali del Paese. Già, ma quale ruolo, quale strategia, quale gramscismo, infine, mettono in rilievo i due autori, giornalisti politici di lungo corso che nella maturità si cimentano con i temi della storia più che della cronaca, come accade sovente ai giornalisti di razza? Il primo capitolo del volume si intitola, a sorpresa, “Gramsci e il banchiere”. Oibò, non è che la vulgata del Pd, in parte erede di quella storia, come partito dei petrolieri, dei banchieri e di élite da ztl risale addirittura al fondatore? No no, il libro di Pendinelli e Sorgi apre con la descrizione dell’Ordine nuovo, il giornale fortemente voluto e diretto da Gramsci, le scale della cui redazione vengono percorse da personaggi che si chiamano Benedetto Croce, Piero Gobetti. E Raffaele Mattioli, il banchiere appunto, che aveva conosciuto il sardo Antonio rimanendone colpito come tanti altri, e che un ruolo di primo piano avrà in seguito nella salvaguardia dei Quaderni, assieme all’altro economista amico fraterno di Gramsci, Piero Sraffa. Mattioli impersona quel tipo di banchiere alfiere di un “capitalismo riformatore”, non rampante e men che meno selvaggio, un capitalismo umano e umanistico. Ne discende l’assunto del libro: quando i comunisti, al di là dell’ideologia, si sono cimentati con i problemi di riforma del capitalismo, anziché declamarne l’abbattimento salvo poi doverci fare i conti anche stando all’opposizione, allora la storia del Pci (e dell’Italia) ha offerto grandi sviluppi, importanti passaggi, si è riusciti insieme, capitalismo e finanza “buoni” assieme a quanti provenivano dal Pci, a tagliare le unghie al capitalismo “cattivo”, famelico, più rendita che investimenti, “l’anarco-capitalismo”, come lo chiamano i due autori. È la politica tenacemente perseguita da Ugo La Malfa che aveva orecchie attente e interlocutori a Botteghe Oscure in leader come Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, e per altri versi anche in Alfredo Reichlin, per citare i più noti. Nel libro c’è anche dell’altro, ovviamente, molto altro. Ci sono i primi anni del Pcd’I strettamente intrecciati con Mosca e l’Internazionale da una parte, e l’avvento del socialista Mussolini, dall’altra. C’è Lenin in formato bunga bunga che nel treno che lo porta in Russia per poi scatenare la rivoluzione porta la moglie e anche l’amante, piombata anch’essa; lo stesso Lenin che ritroviamo poi bacchettone a stigmatizzare l’amore extra coniugale come «deviazione piccolo borghese». C’è Gramsci in formato latin lover, che sposa Giulia Schutz ma che si scopre essere andato a letto anche con la sorella Eugenia (altri storici gossipari giurano anche di una storia con Tatiana, la terza sorella Schutz che lo seguì in Italia fino alla fine). A coronamento del volume, la ripubblicazione dell’intervista di Pendinelli a Umberto Terracini, del 1981, che da sola vale un volume di Spriano. Ci sono poi le testimonianze degli eredi di Gramsci e Togliatti: Veltroni, D’Alema, Fassino, Zingaretti, Salvi, e anche Gentiloni. Balza agli occhi un’assenza vistosa: Achille Occhetto. La svolta della Bolognina, che chiuse il Pci per dar vita al Pds, non trova nel volume particolare trattazione. Alla svolta sono dedicate tre paginette, e per ribadire la nota tesi dalemiana del “grande coraggio” di Occhetto non accompagnato però da un’adeguata cultura politica, la Bolognina come atto di coraggio ma scarso di elaborazione. Eppure è là, in quel 12 novembre del 1989, a pochissimi giorni dalla caduta del Muro, che il Pci decise di sopravvivere, ma con una diversa cultura politica, che si lasciava alle spalle categorie quali la fuoriuscita dal capitalismo, lo scontro capitale-lavoro, il proporzionale come tabù da non infrangere, tralasciava l’alternativa di sistema per approdare alla più occidentale e perseguibile alternanza. Come poi è stato. E propedeutica a tutto questo, la svolta fu accompagnata da una significativa, e contrastata, de-togliattizzazione, proprio a sottolineare che il Pds si lasciava alle spalle tutto un bagaglio da alternativa di sistema. «Togliatti non ha più nulla da dirci», scandì Occhetto, raggelando i Natta, Ingrao, Iotti, D’Alema, Tortorella. Sicché forse è l’ora di ribaltare la vulgata della svolta coraggiosa ma fragile culturalmente: il coraggio che mancò fu quello di sbaraccare l’apparato, la vecchia nomenclatura resistente e conservatrice, mentre le basi culturali permisero ai comunisti italiani di affrontare il mare aperto seguito alla caduta del Muro (e del resto, quali elaborazioni più alte ci sono state dopo la Bolognina, al di là dei programmoni dell’Ulivo prima e dell’Unione dopo, paginate e paginate di elenchi della spesa?).

A spianare la strada furono i socialisti. Marcia su Roma, le responsabilità della sinistra nella presa di potere dei fascisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Il 28 ottobre 1922 fu la giornata della Marcia su Roma (“e dintorni” come Emilio Lussu volle intitolare il racconto di quell’evento). L’organizzazione paramilitare del fascismo – sotto la guida del cosiddetto quadrumvirato, costituito il 16 ottobre, composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi e stanziato a Perugia – iniziò a mobilitarsi il 27 con l’ordine di occupare le Prefetture, gli Uffici postali e telegrafici e le reti telefoniche. “L’esercito delle camicie nere” disponeva di un armamento raffazzonato e non sarebbe stato in grado di reggere uno scontro con le truppe regolari, scaglionate sulle strada di accesso alla Capitale agli ordini del comandante di quella piazza, il generale Pugliese. La mattina del 28 Luigi Facta (il presidente del “nutro fiducia”) portò al sovrano il decreto sulla proclamazione dello stato d’assedio, ma Vittorio Emanuele III non lo volle firmare; così le squadre fasciste entrarono indisturbate a Roma (vi furono tuttavia degli scontri nel Quartiere di San Lorenzo), mettendo a sacco le sedi sindacali, socialiste e comuniste. Nei giorni immediatamente successivi intervennero alcuni tentativi di mediazione, respinti da Mussolini; il Re decise allora di convocare il Duce per conferirgli l’incarico di formare il governo. Cosa che avvenne il 30 ottobre. Mussolini si presentò al Quirinale in camicia nera, scusandosi con il sovrano per non aver potuto indossare un abbigliamento più consono, in quanto – disse – “reduce dalla battaglia” (in verità Benito Mussolini, durante la parata delle sue squadre, si era ritirato a Milano, a un passo dalla Svizzera, dove intendeva rifugiarsi se l’avventura fosse fallita). Rivolgendosi al Re (quando era direttore dell’Avanti! lo definiva il signor Vittorio Savoia) affermò: «Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria e sono il fedele servo di Vostra Maestà».  La Marcia su Roma fu l’epilogo di quello che gli storici definiscono il “biennio nero” (1921-1922), il periodo in cui cominciò a dilagare – incontrastata – la violenza fascista, con la complicità palese degli apparati dello Stato e il sostegno politico ed economico di ampi settori della borghesia, del mondo dell’impresa e dagli agrari. Il Partito socialista aveva sprecato la grande capacità di lotta che le masse operaie avevano espresso nel biennio precedente (“il biennio rosso”) culminato nell’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920. Il gruppo dirigente non era stato in grado di far valere, sul versante istituzionale, il grande successo elettorale ottenuto nel novembre 1919, quando per la prima volta si votò col suffragio universale riconosciuto a tutti gli uomini che avevano compiuto 21 anni o, se più giovani, partecipato al conflitto bellico. Gli iscritti alle liste elettorali erano passati da 8,6 milioni a più di 11 milioni. Le diverse componenti liberali ottennero 178 seggi contro i 310 del 1913; i socialisti massimalisti 156 seggi contro i 52 precedenti; i popolari – al primo cimento elettorale – 100 deputati (il PPI era stato fondato da don Sturzo nel gennaio 1919); 39 i radicali, 27 i socialisti riformisti, 20 gli ex combattenti e 9 i repubblicani. I fascisti si presentarono solo a Milano ma ottennero circa 5mila voti e non elessero alcun parlamentare. Dopo le elezioni amministrative del 1920 in occasione delle quali i socialisti conquistarono più di 2mila comuni (1600 i popolari), nella successiva competizione politica, svoltasi il 15 maggio 1921, già si poteva intravvedere l’inizio del declino del Psi che ottenne 123 seggi (vi era già stata all’inizio del 1921, al Congresso di Livorno, la scissione del Pc d’I che elesse 15 deputati), mentre i popolari guadagnarono 8 eletti in più. I fascisti conquistarono 35 seggi, 10 i nazionalisti (coalizzati nei cosiddetti blocchi nazionali insieme alle liste liberali). Questi risultati del voto sono la prova che il Pnf costituiva una minoranza del Paese e che solo la violenza dello squadrismo e la benevolenza dei poteri economici aprirono a questo partito le porte del potere. Ma enormi furono gli errori e gli ostacoli incontrati dai socialisti e dai popolari a presentarsi come una reale alternativa. Se i popolari dovettero fare i conti con la Chiesa cattolica interessata alla linea di conciliazione offerta da Mussolini e ovviamente ostile al “pericolo rosso”, i socialisti fecero tutto da sé (anche se è innegabile che le milizie fasciste avevano usato il pugno di ferro contro il Partito e la Cgl). A cominciare dalla richiesta di aderire alla III Internazionale. Il loro programma consisteva nel “fare come la Russia”, istituire la Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, socializzare i mezzi di produzione e di scambio e quant’altro passava il convento del “mito bolscevico”. Pertanto, nel nome della rivoluzione proletaria, veniva respinto, dalla maggioranza massimalista, ogni possibile intesa con altre forze. A testimonianza dell’impotenza settaria che esprimeva allora il Psi, basterebbe leggere gli atti del XIX Congresso nazionale svoltosi a Roma dall’1 al 4 ottobre 1922 (ossia poche settimane prima della Marcia su Roma) e prendere atto dell’ordine del giorno con cui era stato convocato: “Situazione interna del Partito e sua attività politica nel Paese e nel Parlamento. Appoggio a indirizzo di Governo e partecipazione al potere nell’attuale regime”. Ballando ormai sull’orlo del precipizio, i socialisti portarono a termine quella scissione che era nelle cose da tempo (che era stata evitata a Livorno e a Milano). I massimalisti decisero di espellere la corrente riformista e quella centrista in ossequio ai diktat della III Internazionale (“Il partito socialista, eliminato dal suo seno il blocco riformista-centrista, rinnova la sua adesione alla III Internazionale”). Gli esiti del voto (32mila per i massimalisti contro 29mila per gli unitari) spaccarono il Partito a metà. Il dibattito si caratterizzò per le accuse contro i riformisti (e i loro interventi di difesa). Le prime critiche vennero già nella relazione del segretario Fioritto, il quale attribuì agli avversari interni la responsabilità dell’insuccesso dello sciopero generale del 30 luglio (uno sciopero politico per chiedere alle autorità di contrastare le violenze fasciste): «I riformisti (il gruppo dirigente della CGL, ndr) proclamando tale sciopero all’inizio della crisi e sospendendolo alla sua conclusione e definendolo legalitario, lo avevano fatto apparire al proletariato come uno strascico montecitoriale, snervando le masse più accese». Dopo il segretario intervenne Giacinto Menotti Serrati: «Il nostro compito non è quello di aiutare la borghesia a risolvere la propria crisi, ma quello di trarre dalla crisi i vantaggi rivoluzionari». Per i riformisti Modigliani ironizzò: «Se i riformisti erano colpevoli di aver impedito la rivoluzione, non si sarebbe dovuto aspettare tanto tempo per espellerli». Poi, l’oratore in polemica con Serrati – come è scritto nei resoconti – negò l’esistenza di una crisi del sistema capitalista e borghese, sottolineando la necessità di distinguere fra ristretti gruppi plutocratici (…) e la borghesia democratica. Lazzari, poi, preconizzò che al Partito si apriva un campo d’azione nuovo e illimitato; deplorò l’autonomia del gruppo parlamentare chiedendo una severa punizione per i deputati che avevano trasgredito. I massimalisti criticavano, in particolare, Filippo Turati perché aveva accettato l’invito del sovrano a recarsi al Quirinale per consultazioni. A nulla servirono le argomentazioni di Claudio Treves, il quale smentì che i riformisti volessero cercare una collaborazione permanente con altre forze con le quali sarebbe stata tuttavia possibile una alleanza temporanea per “impedire che la reazione finisse per distruggere le conquiste e il patrimonio del proletariato”. Dopo Giacomo Matteotti, era di nuovo intervenuto Serrati sostenendo che «la logica del collaborazionismo avrebbe portato coloro che di esso si facevano fautori a collaborare col fascismo verso il quale andavano in quel momento le forze della borghesia». La mozione approvata riprendeva questo concetto e deliberava che «tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Psi». Il discorso di addio venne svolto da Filippo Turati: «Mentre noi ce ne andiamo rientra il comunismo». A Turati rispose Serrati: «Il discorso di Turati ha dimostrato quanto l’operazione fosse necessaria». La mattina del 4 ottobre i riformisti si riunirono e fondarono il PSU, eleggendo segretario Giacomo Matteotti; intanto, il XIX Congresso proseguiva all’insegna del delirio e del compiacimento per la pur tardiva “operazione chirurgica”, avendo la “malattia trascurata per un biennio provocato un danno incalcolabile all’organismo del Partito”. Nel prosieguo del dibattito Giacinto Menotti Serrati fece notare – è scritto nel resoconto – che, indipendentemente dalla pressione reazionaria (tanti municipi governati dai socialisti erano stati attaccati e distrutti, ndr) il Partito non poteva più condividere le responsabilità politiche dei Comuni con i partiti estranei». Per quanto riguardava il sindacato, i Comitati sindacali socialisti erano invitati a portare avanti politiche «per le quali il concetto di classe e di espropriazione economica e politica delle classi dominanti devono essere preminenti». Pochi giorni dopo la Marcia su Roma Menotti partì per partecipare al IV Congresso dell’Internazionale comunista che iniziò a Pietroburgo il 5 novembre.

Lo Stato etico di Gentile è anche un po' socialista. Nel suo testamento spirituale del 1943 il filosofo colloca la collettività davanti all'individuo. Corrado Ocone, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Due belle notizie in una: riprende l'attività la storica casa editrice Vallecchi e subito esce per i suoi tipi la nuova edizione di una delle più importanti opere della filosofia italiana del Novecento: Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, di Giovanni Gentile (pagg. 262, euro 18, introduzione di Marcello Veneziani). Diciamo subito che si tratta di un'opera molto particolare, per più motivi: prima di tutto perché segna per Gentile un ritorno alla speculazione dopo vent'anni di impegno soprattutto politico-culturale; poi perché, per molti aspetti, essa rivolta il senso del suo sistema di pensiero «neoidealistico», così come era andato delineandosi soprattutto nei due primi decenni del secolo. Inoltre perché, giungendo alla fine della sua vita, essa suona quasi come un testamento, e anzi come tale fu scritto, quasi di getto, a Tonghi, presso Firenze, da un Gentile che presagiva la morte. Era il 1943 e il filosofo, che sarebbe stato ucciso da un agguato partigiano il 15 aprile dell'anno successivo, si mise a lavorare per scrivere l'opera subito dopo aver pronunciato a fine giugno un lirico Discorso agli italiani in Campidoglio. In esso, egli proponeva una conciliazione nazionale in grado di far ripartire il Paese dopo la guerra civile che lo stava spaccando in due. A Mario Manlio Rossi, un suo allievo antifascista e che da filosofo farà una strana carriera in Scozia nel dopoguerra come docente di letteratura italiana, Gentile, mostrando il manoscritto finito dell'opera, così disse: «i vostri amici possono uccidermi ora se vogliono, il mio lavoro nella vita è concluso». Quale sia la novità di Genesi e struttura della società è presto detto: l'emersione della comunità all'interno di un pensiero che, per come era stato elaborato, poteva subire facilmente torsioni individualistiche. Se è infatti evidente che l'individuo idealistico non è quello empirico, è pur vero che è nell'uomo concreto in carne e ossa che si consuma tutto il dramma di un Atto puro che, come il fuoco, consuma il combustibile che gli viene dato e trascende sempre le pratiche realizzazioni umane. Ne consegue che, per paradossale che possa sembrare, l'attualismo di Gentile è un «idealismo senza idee», come ebbe a definirlo Vittorio Mathieu, e quindi è molto prossimo al nichilismo e al relativismo. Con questa prospettiva, veniva però a contrastare tutta l'esperienza fascista, e in fondo la stessa voce di Gentile all'interno di essa. Il nazionalismo, l'appello allo Stato etico, l'organicismo, tutti quelli che erano gli elementi essenziali a cui, non senza contrasto con le altre anime del regime, il filosofo di Castelvetrano aveva praticamente aderito, trovano ora una giustificazione teoretica, ma anche una rivisitazione critica. Si fa perciò ancora più forte il distacco di Gentile dal liberalismo, da quella che lui considera hegelianamente una visione atomistica e astratta della società umana. Il «noi» precede l'«io», e l'individuo è un risultato e non un dato. Ed emergono con ancora più nettezza i caratteri del regime politico ideale come Stato etico. Uno Stato, cioè, con una propria religione, un insieme forte di valori da trasmettere ai singoli pedagogicamente e paternalisticamente. È uno Stato e una comunità in interiore homine, certo, quella a cui pensa Gentile, ma l'insistenza sui valori sociali avvicina ora veramente il suo pensiero a quello socialista. D'altronde, il Duce stesso, che egli fino all'ultimo non volle tradire, si ricongiungeva in qualche modo, con l'esperienza di Salò, alle sue origini. In questa direzione teoricamente raffinata e socialisteggiante va anche l'insistenza, in Genesi e struttura della società, su un «umanesimo del lavoro» che deve affiancare quello della cultura che gli italiani elaborarono già in epoca rinascimentale. Comunque sia, la radicalità e la profondità di questo pensatore, di cui pure tanto non condividiamo, ci fa toccare con mano in modo impietoso il deserto culturale dei nostri tempi e la decadenza delle classi dirigenti della nostra povera Italia.

Nel settembre di 50 anni fa. Settembre 1920, quando la rivoluzione fu messa ai voti e perse…Giuliano Cazzola Il Riformista il 14 Settembre 2020. Può essere che mi sia sfuggita qualche rievocazione importante. È possibile che il virus abbia determinato amnesie nella memoria collettiva di una nazione, in particolare nel popolo disorientato e confuso della sinistra (sarebbe bene cominciare ad usare il plurale come si fa con le destre). Il fatto però è evidente: nel settembre di cento anni fa (il 1920) aveva luogo l’episodio culminante del “biennio rosso”: l’occupazione delle fabbriche. Nell’introduzione del saggio “L’occupazione delle fabbriche” (Einaudi), dedicato a quell’evento, Paolo Spriano – lo storico ufficioso del Pci – scrive: «Enorme fu l’emozione che esso produsse in tutto il Paese e non solo allora (Antonio Gramsci, in una nota dal carcere, si riferì all’episodio parlando della “grande paura”, ndr): chè, dopo decenni, l’occupazione delle fabbriche è ancora un richiamo obbligato nella vita sociale e politica italiana». Spriano esprimeva quest’auspicio nell’aprile del 1964. Da allora è trascorso un lasso di tempo molto lungo, ma non abbastanza per stendere, come è accaduto, un velo di oblio su di un pezzo di storia del movimento operaio.

Il “biennio rosso’’. Gli anni 1919-1920 furono definiti “il biennio rosso”, quando si accesero le speranze di “fare come la Russia”, dove erano in corso la rivoluzione dei soviet e la guerra civile. La Grande Guerra era finita da poco e aveva prodotto, oltre alla “inutile strage”, enormi sommovimenti politici e sociali. Nel febbraio del 1919 gli operai metallurgici avevano conquistate le “otto ore”, mentre sul piano politico, nelle elezioni generali, il Psi (forte di 200mila iscritti) aveva eletto 156 deputati alla Camera (affermandosi come il partito di maggioranza relativa). La Confederazione del Lavoro (Cgl) contava poco meno di due milioni di iscritti, di cui più della metà erano operai dell’industria (solo per ricordare le federazioni più importanti: 200mila edili, 160mila metallurgici, 155mila tessili, 60mila statali, 50mila impiegati privati e quant’altro). Sarebbe come sparare sulla Croce rossa, far notare che, nelle confederazioni di oggi, la metà degli iscritti sono pensionati. Ma la Confederazione “rossa” non era l’unico sindacato esistente e attivo. L’Usi – di ispirazione anarco-sindacalista – contava 300mila iscritti, mentre il “sindacato bianco”, la Confederazione italiana del lavoro (Cil), era forte soprattutto nelle campagne dove aveva l’80% dei 1,8 milioni di iscritti complessivi: uno dei suoi principali leader, Guido Miglioli, era definito il “bolsevico bianco”. Vi erano poi formazioni repubblicane in Romagna; il sindacato ferrovieri, autonomo dalla Cgl, con 200mila iscritti. Oltre ai tessili dove era forte la presenza di lavoratrici, il sindacato più importante era sicuramente la Fiom, diretta da Bruno Buozzi. La forza di questo sindacato, scrive Spriano, stava nel fatto che “le sue direttive venivano accolte ed osservate dalla grande maggioranza delle maestranze”. La federazione, attiva già nei primi anni del XX secolo, si “era fatta le ossa’’ durante la guerra, aumentando il suo potere contrattuale. Buozzi e i principali dirigenti, anche a livello periferico, erano socialisti riformisti (come del resto quelli della confederazione). Secondo l’autore, queste persone avevano una «concezione di grande rigidità che fa[ceva] della organizzazione centralizzata, della disciplina all’autorità del sindacato e al suo potere contrattuale una sorta di feticcio».  Nella loro esperienza questi sindacalisti avevano visto e combattuto i guasti provocati del sindacalismo rivoluzionario nelle lotte di una decina di anni prima e avevano incanalato il movimento lungo un percorso strettamente attinente al negoziato delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro. Secondo Spriano – nelle sue parole si avverte un giudizio politico critico – quel gruppo dirigente non vedeva con favore la nascita di strutture consiliari a cui venivano contrapposte le commissioni interne (istituite dall’accordo Itala-Fiom del 1906); su questo tema vi era disaccordo con i torinesi di “Ordine nuovo’’ (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini e altri) per i quali “il consiglio di fabbrica’’ era “il modello dello Stato proletario’’. Sul piano politico i leader sindacali non condividevano la linea della maggioranza massimalista del Psi (che guardava all’esperienza sovietica e si poneva come obiettivi l’istituzione della Repubblica socialista, la dittatura del proletariato e la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio). Da socialisti riformisti aspiravano «ad una collocazione diversa delle masse operaie e delle loro legittime rappresentanze nel quadro dello Stato democratico» nonché «ad una organizzazione produttiva che rispecchi il peso accresciuto di queste masse nell’economia del Paese». La conflittualità era molto elevata. Oltre al problema dei salari, del cosiddetto carovita (ci furono dei saccheggi nei negozi e nei mercati come reazione all’aumento dei prezzi), erano in corso processi di riconversione industriale post-bellica che provocavano un crescente livello di disoccupazione (in assenza di qualsiasi forma di tutela del reddito). In tutto il 1919 (ricorda Massimo L. Salvadori nella sua “Storia d’Italia’’) si ebbero 1663 scioperi nell’industria e 208 nell’agricoltura con un perdita complessiva di 22 milioni di giornate di lavoro. In agricoltura dopo una durissima lotta dei braccianti durata per mesi, i sindacati avevano ottenuto, con grande disappunto degli agrari, il cosiddetto imponibile di manodopera che costringeva i padroni a negoziare gli organici. Nel 1920 il numero degli scioperi superò i 2 mila.

L’occupazione delle fabbriche. Scrive Salvadori che a metà agosto del 1920 «maturò una situazione destinata a procurare un confronto durissimo fra il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Lo scontro – continua lo storico affrontando il nodo cruciale di quella fase – mise a nudo “tutto il velleitarismo e l’inconsistenza del massimalismo del Partito socialista», il quale, mentre propagandava tra le masse una vaga prospettiva rivoluzionaria, non avendo la capacità di prenderne la direzione, «faceva al tempo stesso montare nella borghesia una volontà controrivoluzionaria e inclinazioni autoritarie». La situazione precipitò quando, rotte le trattative contrattuali, la Fiom proclamò lo sciopero bianco ovvero una sorta di boicottaggio della produzione a cui gli industriali risposero, man mano, con la serrata. Si aprì una sorta di processo di botta e risposta tra serrata e occupazione delle fabbriche, fino a quando la Fiom impartì una indicazione di carattere generale in tal senso. Così l’occupazione, iniziata all’Alfa Romeo a Milano, si estese a tutto il triangolo industriale – e non solo tra i metalmeccanici – arrivando a coinvolgere 500mila lavoratori. Gli operai si misero a gestire in proprio la produzione e approntarono una forma di difesa militare armata delle fabbriche, affidata alle cosiddette Guardie rosse. Il loro inno di battaglia iniziava così: «All’appello di Mosca, plotoni roventi, sotto il rosso vessillo dei soviet di Lenin…..». Il Partito socialista si trovò a dover gestire una situazione che in pochi giorni si era aggravata e poteva sfuggire di mano da un momento all’altro. I più radicali tra i massimalisti vedevano in quel movimento, che si era diffuso inaspettatamente e in breve, l’anticipo di un processo rivoluzionario, mentre i riformisti, con i sindacalisti in prima fila, sostenevano che era necessario riportare e mantenere gli obiettivi della lotta su di un piano sindacale. La riunione decisiva si svolse la sera del 10 settembre (giusto un secolo fa) e vi parteciparono le Direzioni del Partito e della Cgl. Nel suo saggio, Spriano cita un brano dell’intervento di Ludovico D’Aragona, il segretario generale della Confederazione: «Voi credete (rivolgendosi ai massimalisti, ndr) che questo sia il momento di far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio vi diciamo che ci ritiriamo e che diamo le dimissioni….prendete voi la direzione del movimento». «A questo punto», afferma Spriano, «tutti i membri della Direzione sono d’accordo nel ritenere che senza gli uomini della Cgl alla testa delle masse» il “grande salto” non si poteva fare. Così, l’ordine del giorno, presentato da D’Aragona, prevalse nella votazione finale. Spriano commenta questo esito in modo drammaticamente ironico: «La rivoluzione è respinta a maggioranza». Un altro protagonista di quella fase fu il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il quale adottò una linea attendista rifiutando – benché sollecitato – di impiegare la forza pubblica a sostegno degli industriali. Anzi, impartì, come ministro degli Affari interni, ordini precisi e rigorosi di moderazione «Anche di fronte all’impiego di armi da parte della folla». Paolo Spriano, in proposito, cita il testo di un telegramma inviato da Giolitti l’11 settembre al Prefetto di Milano, nel quale lo invitava a persuadere gli industriali che «nessuno governo in Italia farà uso della forza, provocando certamente una rivoluzione, per far risparmiare loro qualche somma». E aggiungeva: «Uso della forza significherebbe almeno la rovina delle fabbriche». Si racconta che al sen. Giovanni Agnelli il quale premeva perchè “l’uomo di Dronero” facesse intervenire l’esercito per sgombrare le fabbriche, il presidente rispondesse: «Bene. Comincerò a prendere a cannonate la Fiat». Quando maturò il momento della mediazione Giolitti convocò le parti a Roma, il 19 settembre. Dopo sei ore di discussione fu raggiunta un’intesa molto favorevole per la Fiom: 4 lire di aumento al giorno, minimi di paga, caroviveri, maggiorazioni per il lavoro straordinario, sei giorni di ferie annuali, indennità di licenziamento. Per convincere gli industriali a cedere, Giolitti minacciò di emanare un decreto per istituire il “controllo sindacale” delle aziende. L’accordo sottoscritto fu sottoposto e approvato in un referendum dai lavoratori.

Il biennio nero. «Dopo l’occupazione delle fabbriche, le masse sindacali sentivano confusamente di essere state sconfitte – Spriano cita così un commento del tempo – ma non vedevano chiaramente né come né da chi». Salvadori sottolinea che l’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo alla linea politica di Giolitti che si era procurato l’ostilità degli industriali; rappresentò una inesorabile dèbacle del Partito socialista; inasprì ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il fascismo si sviluppò e prese rapidamente quota. si intensificarono le violenze, gli assalti alle Camere del Lavoro, alle cooperative, alle sedi e ai giornali socialisti (la sede dell’Avanti! venne devastata più volte). Cominciarono a nascere nuovi sindacati fascisti che imponevano con la forza i loro contratti favorevoli ai padroni. Gli iscritti al Fascio – citiamo sempre Salvadori – passarono dai 20mila della fine del 1920 a 200mila a metà dell’anno dopo. Filippo Turati aveva predetto che il rivoluzionarismo inconcludente avrebbe avuto come unico effetto di scatenare la violenza degli avversari. Pietro Nenni trovò, in un breve saggio, una definizione – “Il diciannovismo” – per quel complesso di vicende politiche che avrebbero portato in breve tempo alla sconfitta della classe lavoratrice e al fascismo. In quel saggio, il grande leader socialista, con riferimento alla linea di condotta della sinistra, ricordava una frase di Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà, si scava la fossa». In Italia, la rivoluzione era stata persino messa ai voti.

Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».

Un vero revisionista. Vide per primo le origini socialiste del fascismo. Morto il grande storico israeliano: studiò (da sinistra) la destra rivoluzionaria. Marco Gervasoni, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Qualcuno ha osato chiamare i distruttori di statue, « revisionisti». Non sappiamo cosa ne pensasse il grande storico Zeev Sternhell, morto ieri a Gerusalemme ma crediamo che, pur essendo un uomo di sinistra, sarebbe inorridito. Nato in Polonia nel 1935 ma trasferitosi prima in Francia e poi nel '51 in Israele, apparteneva infatti alla generazione dei revisionisti veri, quella di Renzo De Felice, di Ernst Nolte, di François Furet i quali, pur di qualche anno più anziani, ci hanno fatto capire il fascismo collocandolo nella storia non solo dell'Italia ma dell'Europa. E anche se si trovavano su posizioni politiche diversissime - conservatori De Felice e Nolte, liberale Furet, sinistra laburista Sternhell - ciò non ha impedito di intrecciare le loro ricerche in modo proficuo; lo storico non è un militante politico, o almeno non lo dovrebbe essere quando scrive Storia, un aspetto dimenticato da molti delle generazioni successive. Se infatti oggi possiamo pensare di conoscere meglio il fascismo, fenomeno non solo italiano ma europeo, lo dobbiamo proprio a Zeev Sternhell. Il suo primo libro, una tesi di dottorato all'Institut d'études politiques di Parigi, fu Maurice Barrès et le nationalisme francais (1972) ancora oggi fondamentale per capire lo scrittore nazionalista, ispiratore tra gli altri di De Gaulle. In nuce vi troviamo le tesi delle due opere storiche maggiori di Sternhell: La droite révolutionnaire, del 1978 (trad. Corbaccio, 1997) e Ni droite in gauche. Les origines françaises du fascisme del 1983 (tradotta da Akropolis nell'84 e poi da Baldini e Castoldi nel '97). Anche se De Felice, sulla scorta delle intuizioni di Augusto del Noce, aveva già collocato il fascismo all'interno di una tradizione di sinistra, figlio del giacobinismo e della Rivoluzione francese, Sternhell si spinge più lontano: pensa che il fascismo, quello francese, ma anche quello italiano, siano nati da un'evoluzione della cultura politica socialista. Ciò dovette costare non poco a Sternhell, già da allora membro del Partito laburista israeliano; anche se per lui non era stato il socialismo nella sua integralità a generare il fascismo, ma unicamente quello rivoluzionario critico del marxismo. Nei due volumi citati, Sternhell avanza poi una tesi ancora più radicale; che, contrariamente alla vulgata, sarebbe esistito un fascismo francese autoctono, già definitosi prima del 1914, a cui poi quello italiano si sarebbe ispirato. Sternhell traccia infine la genealogia storica di una destra rivoluzionaria, che in nome della nazione intende abbattere l'ordine borghese: una destra i cui più eminenti rappresentanti venivano dalla sinistra, irrorando così sangue nuovo in un campo conservatore esangue. Destra e sinistra rivoluzionarie si sarebbero poi fuse nel fascismo in nome del superamento delle due categorie; né destra né sinistra, appunto. Delle tre, oggi ci sembra più resistente la tesi di un fascismo francese come fenomeno originale, negli anni tra le due guerre. Allo stesso modo ci appare ancora plausibile l'interpretazione di un fascismo da inquadrare nella storia della sinistra. Infine, nessun studioso della destra, e non solo francese, oggi potrebbe rinunciare alla categoria di «destra rivoluzionaria». Più caduche invece ci appaiono altre conclusioni di Sternhell, in particolare quella della primogenitura prebellica francese del fascismo: senza la Grande guerra, lo schiaffo degli «alleati» all'Italia a Versailles e le violenze bolsceviche nel biennio rosso, non sarebbe mai nato il fascismo in Italia. E quindi non si sarebbe espanso neanche altrove, neppure in Francia. Ciò non toglie che i due libri citati di Sternhell restino dei classici contemporanei. Quelli successivi, Nascita di Israele (Baldini e Castoldi, 1999) e Contro l'illuminismo: dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini e Castoldi, 2007), sono a nostro avviso poco riusciti. Nel primo, il tentativo di applicare la ricetta sternhelliana a Israele (sinistra più nazionalismo più attivismo uguale fascismo) con la condanna delle origini di Israele, nel cui esercito pure Sternhell servì più volte da valoroso militare, è stato duramente criticato. Così come lo sforzo di cercare le origini del fascismo nell'anti-illuminismo, a cominciare da Edmund Burke e da Johann Gottfried Herder, descritti alla stregua di ispiratori futuri di Mussolini e Hitler, è subito apparso piuttosto debole. Probabilmente Sternhell ha cercato di conciliare per tutta la sua vita marxismo, illuminismo, socialismo, tre fenomeni intellettuali-politici non sempre sovrapponibili e in alcuni momenti in contrasto tra loro. Ma anche in ragione del metodo storiografico scelto: diversamente da De Felice, non era un frequentatore di archivi, e come Nolte e Furet si poteva definire uno storico delle idee. Ma rispetto ai tre suoi maggiori di età, era meno attento al concreto e al contingente nella storia, che Sternhell tendeva a leggere secondo il lungo dispiegarsi delle culture politiche, senza considerare il fattore individuale e personale: frutto, questo, più del suo marxismo, di un illuminismo razionalistico. Ma sono inezie: ieri è scomparso un grande storico e chi vuole comprendere il '900 dovrà continuare a leggerlo ancora per lungo tempo. E a comportarsi da revisionista, ma in senso vero, di chi studia e non di chi abbatte i monumenti.

Dino Messina per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2020. L'Alba nera del fascismo, che dà il titolo al bel volume di Antonio Carioti (Solferino) con prefazione di Sergio Romano, presenta in realtà forti striature di rosso. A cominciare dalle origini famigliari e dai primi passi politici del futuro Duce. Fedele al credo socialista del padre Alessandro, fabbro a Dovia di Predappio, Benito Mussolini si affina nelle frequentazioni giovanili in Svizzera dell' esule russa Angelica Balabanoff, per seguire una carriera di militante che, dalla direzione di fogli di provincia e dalla collaborazione al periodico «La Folla» di Paolo Valera, lo porterà nel 1912 alla guida dell'«Avanti!». Un biennio di militanza intensa che si concluderà a fine ottobre 1914 sotto la spinta dei cambiamenti portati dalla guerra mondiale. Il suo ultimo articolo, che lo distacca dal neutralismo socialista, si intitola Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. È il salto verso l'interventismo e verso la direzione del «Popolo d' Italia», fondato il 15 novembre 1914. La guerra trasformerà l' Europa. E anche Mussolini non sarà lo stesso: il 15 dicembre 1917 pubblica il fondo Trincerocrazia , che «candida i reduci a classe dirigente del domani, forgiata dalla prova delle armi». E il 10 novembre dell' anno successivo, dopo Vittorio Veneto, così il futuro Duce arringa gli arditi in piazza Cinque Giornate a Milano: «Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia». Sembra l' atto conclusivo del passaggio al nazionalismo e alla destra più retriva. Invece non è così: il programma della riunione che è l' atto iniziale del fascismo, l'assemblea di piazza San Sepolcro a Milano del 23 marzo 1919, oltre a esaltare la guerra, il nazionalismo e l'antibolscevismo, prevede il voto ai diciottenni e alle donne, l'abolizione del Senato di nomina regia, la compartecipazione dei dipendenti nella gestione delle industrie, un prelievo fiscale sui grandi capitali, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi. Si rimane stupiti anche a leggere l'elenco dei partecipanti alla riunione di piazza San Sepolcro: oltre ai figuri che si macchieranno cinque anni dopo dell'uccisione di Giacomo Matteotti, a intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti, a esponenti degli arditi e a futuri dirigenti del Pnf, troviamo personaggi inattesi come Ernesto Rossi, il futuro antifascista di Giustizia e Libertà (che aderì da Firenze, ma non fu presente a Milano), ebrei come Piero Jacchia, Riccardo Luzzatto ed Eucardio Momigliano. C'è da aggiungere inoltre che San Sepolcro, tanto mitizzato ex post dal regime, è un episodio passato quasi in sordina in quel tumultuoso 1919, che vede al centro dell' attenzione il trattato di pace (con i dolori italiani per «la vittoria mutilata») e l' impresa a Fiume di Gabriele d' Annunzio. Il racconto di Carioti, che analizza i fatti dal 23 marzo 1919 al 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma, è avvincente e non è mai scontato. La narrazione, per chi vuole immergersi completamente nell' atmosfera dell' epoca, rimanda nei punti cruciali a un'appendice con i documenti e gli articoli del periodo, tanti firmati da Mussolini, che a detta dei seguaci, ma anche di molti avversari, fu un genio della comunicazione. Dopo il racconto dei fatti, le interviste agli storici Simona Colarizi, Alessandra Tarquini, Fabio Fabbri e al politologo Marco Tarchi, offrono un quadro delle interpretazioni sui nodi storici del fascismo, come la questione dei ceti medi, le connivenze dello Stato con la violenza squadrista, le differenze con il nazismo e le composite origini culturali riassunte da Zeev Sternhell, lo studioso israeliano che ha influenzato il nostro Renzo De Felice, nello slogan «né destra né sinistra». Nella lunga crisi di un dopoguerra che vede impoverirsi le classi popolari e aumentare le insicurezze dei ceti medi, il fascismo alimenta le violenze con gli attacchi alle sedi dei giornali e delle organizzazioni dei lavoratori protagonisti del «biennio rosso». I vari ras delle province, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e Leandro Arpinati a Bologna, Giuseppe Caradonna in Puglia, si mettono alla testa della reazione violenta, interpretando la voglia di rivincita dei possidenti agrari e giocando con le insicurezze del ceto medio urbano. Nello stesso tempo, dopo aver seminato odio e morte, il movimento fascista si presenta come garante dell' ordine. Una veste di normalizzatore che inganna agli inizi anche liberali come Luigi Albertini e Benedetto Croce. Mussolini è abile nell' incanalare politicamente la violenza. Un gioco che gli riesce anche grazie alle incertezze della vecchia classe politica e alla codardia del monarca, che non firma il decreto sullo stato d' assedio presentatogli da Luigi Facta la mattina del 28 ottobre 1922. Gli squadristi della marcia su Roma, che potevano essere facilmente dispersi, hanno vinto. Mussolini il 30 ottobre riceve l' incarico di formare il governo.

Milano, il Benito socialista in otto rarissimi filmati. I video-documenti in Rete da oggi mostrano il leader spesso "al naturale", senza pose studiate. Simone Finotti, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. È un Duce fuori Luce ma perfettamente immerso nella macchina da presa, unico fra gli astanti a fissare la camera con consapevolezza acuta e profonda, fiutando la potenza della nascente comunicazione di massa. Lo nota Antonio Scurati, vincitore del 73° Strega con M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018), che introduce così la straordinaria antologia di otto rarissimi filmati riemersi dagli archivi di Fondazione Cineteca Italiana, e disponibili in streaming dal 17 giugno con il titolo Il Duce fuori Luce (sulla piattaforma dedicata del sito cinetecamilano.it, in modalità Premium, 5 euro). Niente immagini e rappresentazioni ufficiali, niente pose studiate o esibizioni muscolari di quelle affidate all'epoca all'Istituto Luce, longa manus cine-fotografica della propaganda di regime: è un Mussolini spesso inquadrato a sua insaputa, da angolazioni mai viste, in riprese semi-artigianali che per quasi un secolo sono rimaste nell'ombra. Non aspettiamoci cedimenti: anche senza «sole in fronte» resta pur sempre l'uomo d'azione che guida le adunate accanto ai «lavoratori del braccio e del pensiero»; il granitico oratore, il giornalista picconatore dello Stato liberale che vediamo all'opera nel suo Covo di Via Paolo da Cannobio, l'ufficio dove prendevano vita gli strali veementi del Popolo d'Italia, che prepararono e accompagnarono l'ascesa dei Fasci di combattimento. Il corto propagandistico Il covo (Minerva film, 12 minuti, con sonoro), tra i più interessanti della silloge, è di Vittorio Carpignano, data 1941 e testimonia le origini milanesi del movimento, nell'humus dei sentimenti irredentisti del primo dopoguerra. Sullo sfondo di una città brumosa e ferita, si esalta il passaggio «sugli uomini e sugli spiriti disorientati» di una «voce nuova, traboccante di fede e volontà assoluta», pronta a «farsi idea e diventare storia». Il vecchio e il nuovo a confronto, la vittoria tradita lascerà spazio a un trionfo pieno e completo. Lo stretto rapporto con Milano è ben testimoniato, visto che quasi tutti i filmati sono stati girati qui; arrivano dall'ampia riserva di cinema amatoriale e documentario che accompagna tutta la vicenda storica del Fascismo, dalla conquista del potere agli anni del massimo consenso e dell'Impero. Dalla fascinazione (fuori tempo massimo) per il dominio universale all'idea (al contrario, lungimirante) di dotare la città di un planetario il passo non fu lungo, e molto del merito va ascritto all'editore Ulrico Hoepli, pronto a finanziarne la costruzione, e al geniale architetto Piero Portaluppi, che lo progettò. E così, il 20 maggio del 1930, ecco un Duce in alta uniforme e fez, affiancato dal podestà Visconti di Modrone, sbucare dalle colonne ioniche dell'edificio appena inaugurato e immergersi nel verde di Porta Venezia. È un breve filmato anonimo (appena 3 minuti, con belle musiche di Francesca Badalini), che mostra anche una parata del 1936 in piazzale Cordusio, a pochi passi dal Circolo dell'Alleanza Industriale di Piazza San Sepolcro dove nel 1919 vennero fondati i Fasci. In un altro anonimo di appena 4 minuti, piazza Duomo si prepara ad accogliere una visita nel 1934. Scene simili in una ripresa dall'archivio della famiglia Castagna, che nel finale strappa anche qualche fotogramma dell'arrivo del Duce, sulla classica auto scoperta, e della sua salita sul palco per arringare la folla. Gli 11 minuti di «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza» (con l'adunata milanese del marzo 1922, a pochi mesi dalla marcia su Roma) celebrano gli inizi, freschi, vigorosi ed energici: Mussolini che «divide il frugale rancio co' suoi commilitoni», poi mentre incontra le medaglie d'oro della Grande Guerra e si affaccia in camicia nera su una stipata via Vittorio Veneto, appropriandosi del saluto romano dei legionari di Fiume. Il tutto affidato alle riprese di un padre nobile del cinema italiano, il milanese Luca Comerio. Lo stesso che appena ventenne, nel maggio 1898, era sceso in strada a rischio della vita per immortalare i moti popolari duramente repressi dal generale Bava Beccaris. Da un pioniere all'altro (perché il Ventennio, con buona pace di certa critica benpensante, fu epoca fertile di talenti della pellicola), arriviamo a Luigi Liberio Pensuti, maestro dell'animazione tra le due guerre. È a lui che si deve una chicca come La taverna del tibiccì, piccolo capolavoro (peraltro molto attuale, di questi tempi) in cui grazie alla pulizia e all'igiene si sconfigge uno dei nemici più temibili, all'epoca, per la salute pubblica. Colpisce il taglio innovativo, che unisce tecniche di infografica, animazione ed elementi dell'iconografia fascista. È un Duce che spicca anche nell'assenza, come nell'interno domestico ricreato per lo spot delle Assicurazioni Popolari, in cui campeggia il suo ritratto. Le atmosfere esotiche e le inquadrature inusuali rendono preziosi i pochi minuti del Duce in Africa, realizzato da un anonimo francese in occasione di una visita a Tripoli e Garian con rassegna, a cavallo, delle milizie locali. Mussolini, non è un mistero, accarezzava il sogno di una Libia quarta sponda d'Italia. La visita più trionfale in Tripolitania fu nel marzo del 1937, durante la quale, ergendosi a cavallo, si proclamò addirittura protettore dell'Islam. Da Piazza Duomo all'Africa settentrionale rivive così, grazie ai tasselli di un inedito cinemosaico, la grande illusione della Giovinezza. Il programma è il primo di una serie di contenuti sulla Grande Storia. Seguiranno rassegne su Garibaldi e Napoleone.

La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».

Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».

La lezione di riformismo di Filippo Turati sul come rifare l’Italia. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Pubblichiamo stralci del discorso pronunciato il 26 giugno del 1920 da Filippo Turati alla Camera dei deputati. Onorevoli colleghi e compagni! L’idea madre del mio modesto discorso è semplice. Vera oggi, come ieri, come domani; ma, nel mutare inevitabile dei tempi, diverso può esserne il punto di applicazione. Se ogni lotta di classe è lotta essenzialmente politica e viceversa, è evidente che ogni politica trae colore e vigore dalla classe sulla quale essenzialmente si appoggia. Rivolgendomi oggi alle classi borghesi, le quali, se anche non nelle proporzioni di una volta, hanno pur sempre la dirigenza della società, in un certo senso posso dir loro: oggi, o non più ! Del resto, questo dell’urgenza, è un sentimento che in diverse forme trapela da ogni discorso, è nello stato d’animo di ciascuno di noi. Lo stesso onorevole Giolitti, cui si imponeva, per il posto che occupa, la maggiore prudenza di parola, non temette, e fece bene, di parlare di fallimento imminente, improrogabile, se non si corre ai ripari. Quale fallimento? Di chi? Come deprecabile? Questo è il tema generale della discussione. II suffragio universale, questa necessità che tutti abbiamo voluto, e di cui siamo i figli, ha generato, nella sua molteplice prole, un figlio cattivo: il gesto demagogico; la gara, dirò meglio, dei gesti demagogici. Noi dovremmo, come Bruto, condannare a morte questo figliolo traditore. Noi dovremmo insorgere contro di esso. Il demagogismo non è affatto, come si pretende, un privilegio dei partiti avanzati. C’e un demagogismo dei conservatori e dei Governi, che è di gran lunga il peggiore. La politica non è questo: non dovrebbe essere questo; e lo sarà sempre meno, quanto più i popoli diverranno consapevoli. La politica non è nell’agguato, non è negli intrighi, non è nell’arrembaggio ai Ministeri, non è nelle sapienti combinazioni parlamentari, non è nelle competizioni degli uomini; non è nei sonanti discorsi. È, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica.  Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica. E una tecnica, essenzialmente, è anche il socialismo. Noi stessi lo dimentichiamo troppo spesso, forse, quando nel fervore degli attacchi e dei contro-attacchi, subiamo noi stessi l’avvelenamento di tante illusioni, l’asfissiamento di tanto fumo. Il socialismo, nel suo primo e più grande assertore, è l’espressione ideale dell’evoluzione dello strumento tecnico; è lo sforzo di adeguare le condizioni politiche della vita sociale alle necessità materialistiche del momento storico. In questo senso, e in doppio senso, il socialismo è scientifico: in quanto sorge dalla coscienza storica, e quindi scientifica, dell’evoluzione; e in quanto chiama la scienza a proprio servizio. La schiavitù cessa, secondo il vecchio motto famoso, quando la spola comincia a camminare da sé sul telaio. Il socialismo è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno; è nella elettricità, più che in molti, cari compagni, dei nostri congressi. Ora voi tutti, signori, cercate, in questo momento, più che mai la salvezza : la salvezza del Paese e la vostra. Anche i socialisti cercano la salvezza del Paese e la loro. Se oggi il partito socialista, così com’è, sembra ad alcuni eccessivo di intransigenza, di vivacità, di precipitazione, pensino coloro, che di questo lo accusano, che ciò è l’effetto fatale della guerra, la quale ha creato nelle masse uno stato di insurrezione psichica che non sarà domato se non da conquiste reali, radicali e profonde. E il partito deve riflettere questo stato delle masse, per interpetrarle, ed eventualmente anche per poterle contenere. Chi spera che le differenze inevitabili di tendenze, che sono in ogni partito vivo, debbano condurci al distacco, allo sfacelo, credo che si inganni. Credo fermamente, e non da oggi e non per opportunità del momento, nella fondamentale necessità dell’unità del partito socialista. (…). Nelle sezioni del nostro gruppo si studiano proposte di legge e provvedimenti positivi, col consenso anche dei nostri più estremi estremisti, che eventualmente potrebbero anche essere l’àncora di salvezza per quel tanto di regime borghese, che è giusto debba per un certo tempo, sopravvivere nella zona del trapasso storico. Questa incoerenza formale è la prova che siamo vivi; che la formula ci serve ma non ci opprime; che sappiamo distinguere, e che non confondiamo quella che sarebbe collaborazione vera e propria di partiti e di classi, pericolosa in dati momenti, specialmente pericolosa per i più deboli, da quella che è coincidenza o comunione inevitabile di interessi vitali, insuperabile in qualunque convivenza sociale; che abbiamo nel nostro programma effettivo, quello che erompe nell’azione la quale è la grande pacificatrice delle tendenze, l’oggi e il domani, l’oggi per il domani, il domani per l’oggi. Certo non è più, oggi, la ormai arcaica distinzione del programma minimo e del programma massimo, come si concepiva una volta, che era un po’ una concezione cattolica, forse più del vecchio che del nuovo cattolicismo. (…) Perciò si parla, non da noi soltanto, di periodo rivoluzionario, di crisi di regime : di regime politico, di regime sociale. Molti di voi ripetono oggi, e molti credo in buonissima fede, che molto bisognerà concedere per non perdere tutto, per mantenere la compagine sociale, dico la compagine, non dico l’attuale compagine; per conservare ciò che è degno di essere conservato, ciò che è necessario ai supposti eredi del domani; per non precipitare insomma nell’anarchia, che è un po’ la sorella, un po’ la figlia del capitalismo, e che sta in diametrale antagonismo teorico, che è la negazione in termini, del socialismo. Molti sentono fra voi che ciò che siamo usi chiamare l’ordinaria amministrazione, non basta più. Lo sentì l’onorevole Nitti, che si ribellò, almeno idealmente, al trattato di Versailles che era (e dico che era perchè si può forse cominciare a parlarne al passato prossimo) il capitalismo, nella sua più cruda espressione, applicato alla politica internazionale; era la pace di guerra, così come il capitalismo, all’interno e all’estero, è sempre la guerra anche in tempo di pace. L’onorevole Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe prese da essi anche molte direttive nella politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte. E più volte preluse all’inevitabile, all’augurabile avvento di un Governo laburista in Italia. Ma l’azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata e ne tenne la sua fatale caduta. Così è tornato l’onorevole Giolitti, il cui ritorno a quei banchi sembra l’epilogo solenne di un vasto dramma, non soltanto suo personale, ma nazionale e storico, e trascende di gran lunga l’importanza di uno dei consueti avvicendamenti ministeriali. Bisognerebbe essere un po’ meno che uomini per non sentirlo, a qualunque idea si appartenga, sotto qualunque vessillo si militi (…). Ma dopo di lui molti vedono il buio, il nulla, l’abisso. Altri, dopo di lui, intravvedono l’alba; e ciascuno si sogna l’alba che più gli conviene. Certo è che la monarchia, in questo crollare fragoroso di troni e di dominazioni, non parve mai meno salda di ora anche in Italia. (…) E più si carezza il socialismo, e più esso rilutta e vi sfugge. Ora qui accade di ricordare una frase di Claudio Treves, che chiuse un suo mirabile recente discorso. Nel quale il mio amico analizzò la grande tragedia dell’ora, e a questa tragedia pose il nome: « Espiazione ». Espiazione, egli intese, della borghesia, che volle la guerra, che vinse la guerra, che non seppe e non sa darci la pace. (…) La borghesia, in questo momento, non è più capace di reggere il potere; il proletariato non è ancora pronto a riceverne la successione. Così Treves chiuse il suo discorso. (…) Ogni trapasso, anche se assume forme violente, è sempre un assorbimento del nuovo nel vecchio e del vecchio nel nuovo; con questo vantaggio che il vecchio non si rinnova e il nuovo non si rinvecchia. E questa è la rivoluzione. Perciò, ripeto, chi è assorbito assorbe. La generazione, la procreazione, la fecondità sono a questo patto. (…) Il gradualismo dell’onorevole Giolitti è un gradualismo prebellico, impari alle esigenze del momento, in ritardo di sei anni sul quadrante della storia. Il gradualismo è una magnifica cosa. Io sono accusato ogni giorno da questi miei turbolenti compagni di essere troppo gradualista. Comunque, il gradualismo è una cosa ammessa da tutti (abbiamo persino un massimalismo gradualista !) quando la natura delle cose lo consente. Quando insomma c’è tempo e si può aspettare. Allora, chi va piano va sano, e va qualche volta lontano. (…). Il rimedio primo, il più vero, vorrei dire il solo rimedio, è nel trasformare l’economia, non la finanza del Paese. Ciò che voi ponete dopo, deve venir prima, o almeno contemporaneamente. Tanto più che a rendere più spinose tutte le questioni, più difficili tutti i rimedi, concorre la crisi psicologica, la quale è causa ed effetto insieme della crisi economica, generate entrambe dalla guerra, mantenute dalla pace che non è pace; crisi che è una vera psicosi, diffusa, molteplice, universale, ma più grave in Italia, perchè è paese economicamente fra i più deboli di Europa. Non dirò dei fenomeni più appariscenti: il lusso sfrenato, rivoltante, che fa pensare con nostalgia, per quanto scettica, alle antiche leggi suntuarie. Ciò che più impressiona è lo spirito di indisciplina, che ha invaso tutte le classi sociali. Aggiungete il menomato rispetto della vita umana, dell’altrui come della propria. La guerra ha alterato profondamente tutti i consuetudinarii valori morali. La gente minaccia l’altrui vita, ed espone la propria, con una indifferenza non conosciuta prima della guerra. Il trattato di Versailles, che è – lasciatemi ripeterlo – l’espressione del capitalismo più crudo applicato alla politica internazionale, e la cui revisione si impone. Ora, su ciò tace completamente il programma del Governo. Se non che, forse, anche in questo silenzio è un argomento a favore della mia tesi, della preminenza, necessità ed urgenza assoluta della restaurazione economica del Paese, anche prima delle economie e dei provvedimenti finanziari. Perché, certo, finché noi saremo così strettamente vassalli dell’estero per il pane quotidiano quale voce effettivamente influente potremo avere nei consessi dei potentati, sia pure con le proposte Commissioni parlamentari? Dopo aver demolito la Germania, con nostro danno infinito, oggi dobbiamo pensare ad aiutarla a ricostruirsi per il nostro meglio; dopo aver combattuto la Russia, o almeno essere stati nella combriccola che si ingegnava di combatterla, dobbiamo fare di tutto per rappacificarci al più presto con quel grande ex impero ; dopo aver suscitato la guerra civile in Albania (a proposito, quanto c’è costata, onorevole Meda?) che si ripercuote in un’altra e ben peggiore guerra civile in Italia (e i fattacci di Ancona ammaestrano) dobbiamo dichiarare che rinunziamo (e ahimè! non farà ciò l’impressione della favola dell’uva acerba?) a ogni protettorato. E via via. Non vi è punto del trattato di Versailles che non sia tutto da rifare, da capovolgere. Senza dire che l’onorevole Giolitti, il quale fu già rimproverato, e sia pure a torto, di aver lasciata disarmata l’Italia (e dovette difendersene nel discorso di Dronero) e vuoti i magazzini militari, in un periodo pericoloso, certo non vorrà affrontare oggi la stessa accusa, nell’evento di altre guerre possibili. Ora, onorevole Giolitti, voi avete fatto, con nobili parole, appello all’Internazionale operaia, nel vostro discorso di Dronero, Per la salvaguardia della pace. Ma l’Internazionale proletaria non può esistere, non può essere forte, se non siano forti localmente, in ogni nazione, i proletariati organizzati ed i partiti socialisti. Ora questi proletariati e questi partiti cominciano ad avere la loro politica estera e cominciano ad imporla ai rispettivi Stati. È inutile dirvi che noi vogliamo soppresso il trattato di Versailles perchè esso è una abominazione, perchè esso è la proprietà privata applicata a tutto il mondo a beneficio di una egemonia. Ora l’onorevole Giolitti, nel discorso di Dronero, ha toccato tutta quanta la gamma della restaurazione economica. Agricoltura da industrializzare; emancipazione dal grano estero; chi lascia terre incolte commette un delitto (onde il suo progetto granario); confisca delle terre incolte; il cotone da coltivarsi nell’Eritrea o nel Benadir; irrigazione; istruzione agraria e tecnica serie; industrie che occupino più mano d’opera e meno materie prime, mentre sono ancora tanto care; utilizzazione delle forze idriche e quindi emancipazione dal carbone estero ecc., ecc. Insomma tutto il ricettario. Ossia Giolitti è ancora Nitti. E siamo, ripeto? tutti d’accordo ! Ma la questione non è nell’essere d’accordo in teoria; è nel volere e nel potere realizzare. Direi quasi che il problema è superiore alla volontà dell’uomo. Può il Ministero, con questa Camera, può la borghesia italiana, in questo momento, realizzare questo programma ? Lo vuole essa davvero? ’ Cè nel congegno del capitalismo italiano di quest’ora (poiché anche fra capitalismo e capitalismo bisogna spesso distinguere) qualche attrito invincibile che impedisca questa realizzazione? (…) Tanto più, badate, che in questo caso non si tratta di prestiti allo Stato, ma di prestiti alla Nazione. In altri termini: la soluzione della crisi, politica, economica, morale, crisi di regime, crisi di trapasso, chiamatela come meglio vi garba, consiste nel creare subito le condizioni economiche e politico-morali per cui la Nazione possa in breve termine raddoppiare la sua produzione. Oh Dio, non pigliate la parola « raddoppiare » nel senso strettamente aritmetico; non s’intende dire che si debba produrre il doppio di grano, il doppio di tessuti, ecc., ecc. ; s’intende resuscitare nuove sorgenti naturali, non artificiali, di energia nel Paese, perché esso possa superare il deficit. Quando questo si sarà ottenuto, si sarà molto più che raddoppiata la ricchezza. E ho parlato di condizioni economiche e di condizioni politico-morali, che sembrano due cose diverse e sono invece una sola; perchè non si creano veri miglioramenti economici senza certe riforme politiche – e questo dico alla borghesia – e non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche – e questo dico ai miei compagni – senza certi coefficienti economici. Bisogna che il Governo d’Italia – borghese ? comunista? bolscevico?; Giolitti ? Misiano? Non importa il nome e la persona; non importa neppure l’etichetta, perchè “vi può essere un bolscevismo (vedi Russia) che finisce per creare tutto ciò che vi è di più antisocialista, la piccola proprietà: l’economia è più forte di tutte le formule e di tutti i programmi a tavolino; … bisogna, dicevo, che lo Stato italiano, diventi da politico, economico; anticipazione precipitata del comunismo classico, secondo la definizione e il presagio del nostro Engels, per il quale il «Governo degli uomini » doveva, nel comunismo, diventare «l’amministrazione delle cose ». È unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, per la borghesia e per il socialismo; senza di questo è irremissibilmente perduta per tutti; per noi e per voi. (…) L’uomo è l’operaio, il proletario lo scontento, il ribelle, il rivoluzionario, e sarà tale finché non ne avremo fatto il padrone del lavoro e della produzione. Questo è dunque il programma dell’avvenire. Io non so chi lo eseguirà. Io so che, senza questo elemento, dell’emancipazione dell’operaio, niente di questo si farà. E non occorre essere socialisti. Io ho trovato – mi è arrivato l’altro giorno e lo avrete ricevuto anche voi – in questo libro fatto tutto da parrucconi molto rispettabili – che contiene gli studi e le proposte della Commissione del dopo guerra presieduta da Vittorio Scialoja, a un dipresso le medesime mie conclusioni. Leggete la relazione del nostro ex collega onorevole Fava, presidente della sezione decima. Egli dice le medesime cose: «Se non create le condizioni necessarie all’interessamento degli operai nella produzione, dati i tempi mutati, data la psicologia del dopo guerra, non otterrete nulla di nulla». Una volta era questione di giustizia, oggi è questione di vita o di morte. Conosco altri due uomini che hanno veduto queste cose; e sono un antico ed un moderno. Il moderno è il dottor Ratenhau, forse il più geniale ricostruttore, che abbia dato la guerra ; il quale nella sua Economia nuova dimostra, meglio che io non abbia saputo, come questa valorizzazione dell’uomo in Germania – e oggi là le condizioni sono peggiori che in Italia – sia indispensabile per redimere il paese. Vorrei ottenere che la Economia nuova fosse letta dai colleghi deputati: il mio discorso avrebbe raggiunto tutto intero il suo scopo. Solo quel popolo – afferma l’autore -che prima avrà soppresso l’antagonismo che è fra l’operaio ed il capitale, solo quel popolo trionferà.

L'opinione. Cosa direbbe Turati delle nostre prigioni? Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 24 Marzo 2020. «Fuggono anche i detenuti qualche volta, ma troppo di rado, e io vorrei che le evasioni fossero ben più numerose: me lo augurerei di cuore» (F. Turati, Il cimitero dei vivi, da un discorso alla Camera dei Deputati sulle condizioni del sistema carcerario del 1904). A fronte delle grida di dolore che si levano dalle carceri e dal personale penitenziario, il Governo ha tecnicamente risposto con una presa in giro – un “cinico bluff” come definito, con parole vere e chiare, dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza – che, nella migliore delle ipotesi, consentirà a poche centinaia di detenuti di scontare il residuo di pena all’interno delle proprie abitazioni. La presa in giro si annida nella parte finale del provvedimento: la concessione della detenzione domiciliare è subordinata (salvo che per i detenuti con un residuo di pena inferiore a sei mesi) alla disponibilità dei braccialetti elettronici. Sì, proprio quegli introvabili braccialetti elettronici la cui cronica e colpevole indisponibilità è la causa di quasi la totalità delle custodie cautelari in carcere: è irridente; è disumano. Pochissimi dunque usciranno dal carcere ed, a turno – come in una sorta di tragica riffa – via via che i braccialetti si liberanno. Quella moderazione, quell’evitare fughe in avanti, quella sana logica del miglior compromesso possibile a cui ci si è sottoposti per tentare di raggiungere un risultato intermedio in grado di salvare numerose vite umane sembrerebbe essere risultata vana. Il confronto sembra essere impossibile con gli integralisti delle manette, veicolo sicuro per attrarre il consenso. Ma non vogliamo e non possiamo arrenderci. Continuiamo ad invitare ed esortare il Governo e il Parlamento a cambiare rotta e ad assumere provvedimenti che realmente mettano al sicuro la salute delle decine di migliaia di detenuti, guardie penitenziarie ed operatori del carcere in questo momento sottoposti ad inaccettabili rischi. Aggiungiamo, inoltre – anche attraverso un appello al Presidente della Repubblica perché svolga quel compito di moral suasion che costituisce l’essenza fondamentale del suo ruolo all’interno degli equilibri costituzionali – la necessità di emanare provvedimenti di amnistia ed indulto che possano consentire al nostro paese di rientrare nei confini della civiltà e dell’etica. Mantenere lo status quo significa rappresentarsi ed accettare non già il possibile rischio bensì il più che probabile evento che moltissimi detenuti e guardie penitenziarie possano contrarre il virus ed in alcuni casi morire. Agire (o non agire) pur sapendo che necessariamente una simile condotta produrrà certi risultati significa assumere su di sé la responsabilità politica e giuridica delle eventuali morti. Si è davvero disponibili a tutto questo pur di restare coerenti alla brutale e demagogica propaganda?  Quattordici detenuti sono già morti nei giorni delle rivolte, “perlopiù” – come improvvidamente riferito in Parlamento dal Ministro di Grazia e Giustizia – per intossicazione da abuso di farmaci e metadone. Evitiamo tra qualche mese di contare decine di decessi tra i detenuti, perlopiù a causa del coronavirus. Nel 2020, cosa direbbe Filippo Turati sul carcere al tempo del coronavirus?

La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.

 

·        Vocazione: Scindersi…

Achille Occhetto: «La svolta del Pci fu dolore e speranza. Ma era mio dovere correre quel rischio». Walter Veltroni su Il Corriere della sera il 19 luglio 2020. L’ex segretario: «Proposi a Craxi di andare insieme all’opposizione. Lui rispose, “Forse hai ragione, ma se succedesse anche un solo giorno questi intorno mi farebbero fuori”». Simo, prima della caduta del Muro. Andai in Ungheria per il funerale postumo di Nagy. Quando tornai dissi: “Noi siamo stati all’avanguardia del processo di rinnovamento, rischiamo di rimanere retroguardia. Potrà cambiare tutto se i compagni ungheresi chiederanno prima di noi di entrare nell’Internazionale Socialista”. Il momento era venuto. Iniziai a chiedere cosa pensasse una parte rilevante dei deputati della sinistra indipendente dell’idea di dar vita ad una sinistra di tipo nuovo. Poi incontrai Neil Kinnock a Bruxelles. Io lo considero il vero innovatore del Partito Laburista inglese. Gli descrissi le linee di quello che noi avevamo chiamato, già interloquendo con un desiderio di cambiamento, il nuovo Pci. Lui rimase entusiasta: “Tutto quello che mi dici fa di voi già un partito della sinistra europea. Perché non cambiate nome?”. Io gli risposi tre volte che era difficile, molto difficile. C’era una storia grande, di persone e di idee, dietro quell’identità. Nel corso del colloquio ci interrompono e ci dicono di guardare la televisione. Vediamo le picconate al muro. Rilascio una dichiarazione che col nome non c’entrava: “Cambiano tutti i parametri della politica mondiale e sono finite le categorie della Guerra fredda. Tutti dovranno ridefinirsi».

E arrivi alla Bolognina...

«Prima sono passato per Mantova. Volevo vedere il rifacimento degli affreschi della sala dei Giganti di Giulio Romano. Ai partigiani dissi quello che in fondo era già uscito sui giornali: cambiava tutto, tutti dovevano ridefinirsi. Pensavo che al ritorno a Roma avremmo aperto una discussione per tradurre questa convinzione. Un giornalista mi chiede: “Tutto deve cambiare. Anche il nome?” Io non rispondo: “Sì”. Rispondo: «Quando dico che tutto è possibile, voglio dire tutto». I giornali il giorno dopo hanno titolato a nove colonne: «Il Pci cambia nome». So che non aiutò, per molti compagni fu un colpo durissimo. Però oggi posso dire che fu una felix culpa. Se avessimo seguito le vie tradizionali, i processi fisiologici, forse oggi saremmo ancora lì. Era un tempo di radicale cambiamento, noi dovevamo corrispondere a quel tempo».

Ho un ricordo personale: un momento in cui, nei giorni più duri, entrai nel tuo ufficio. Tu eri evidentemente turbato, ricordo che avevi un fazzoletto con cui ti asciugavi le mani. Sotto la finestra di Botteghe Oscure la macchina di Luciano Lama era stata presa a calci. Tu mi guardasti e dicesti: “Ma non avremo sbagliato?”».

«Lo sai che non mi ricordo? Non che non me lo voglia ricordare. Sono stati giorni terribili».

Mi colpì molto perché anche io avevo passato delle notti insonni. Quanto ti è costata umanamente quella scelta?

 «Quella è stata la svolta del Pci, ma è stata anche la svolta della mia vita. C’è chi dice, tra quelli che erano stati contrari, che in quei giorni piangevano, che hanno sofferto. Io credo sinceramente che nessuno di loro abbia sofferto come me. (La voce a questo punto gli si incrina). E la prova della sofferenza fu il famoso pianto al congresso. Per chi veniva da quella storia, che era una storia di unità interna — il sentirsi comunque compagni di uno stesso destino — avere determinato una situazione di scontro interno così forte provocava un dolore eccezionale. Alla ne di quel congresso, quando Ingrao si avvicina e mi stringe la mano, io penso, sbagliando: “Bene, è finita. Ci siamo combattuti ma adesso, anche con posizioni diverse, costruiamo insieme, cosa che sarebbe stata del tutto naturale, il nuovo partito. I mesi prima del congresso di Bologna sono stati per me forieri di una intima sofferenza, quotidiana».

Parliamo del ‘94 e della scelta del Pds di dare vita alla lista dei «Progressisti» come alleanza per le elezioni...

«Bisogna partire da un presupposto: tutta la politica italiana è stata sorpresa dalla novità dell’entrata in campo di Berlusconi. Fino a quel momento tutti ragionavano con i vecchi schemi. In particolare la Dc, che fu elemento determinante di quella sconfitta. Sconfitta nella quale, peraltro, noi guadagnammo il 4 per cento per il partito. I Popolari erano ancora convinti di essere il centro della politica. Martinazzoli non accettò la mia proposta di un’alleanza. Io lo capisco: era difficile per lui spostare tutta la vecchia Dc a sinistra. Trovammo un accordo, importante: se la somma dei progressisti più i popolari avesse avuto la maggioranza, avremmo chiesto a Ciampi di continuare il suo lavoro di presidente del Consiglio».

E il dibattito?

«Il dibattito avviene in una posizione strana: il mio problema era quello di mostrare al Paese che noi avevamo acquisito, con la svolta, tutte le stigmate di un partito di governo. Berlusconi scelse la strada che gli era più congeniale. Fu il primo inizio del populismo televisivo e politico. Fu lì che disse la famosa frase sul milione di posti di lavoro. In quel momento mi posi il problema: cosa posso dire io? Un milione e mezzo? Due milioni? E poi Berlusconi riattivò, proprio con noi che eravamo entrati nell’Internazionale Socialista e avevamo fondato un nuovo partito, lo spauracchio del comunismo. Demagogia sociale e furia ideologica. Una miscela che ha fatto molto male a questo Paese».

Vuoi tornare sulle ragioni della scelta del nuovo nome? E su quelle due parole: democratico, di sinistra.

«L’unica alternativa a quella scelta era la proposta che mi fece Trentin: Partito Laburista. Ma era una parola estranea alla tradizione politica italiana. Per me l’idea forte del nuovo progetto era che la nuova sinistra doveva essere il centro catalizzatore di una nuova democrazia militante nel Paese. Non qualcosa che poteva vivere da sola ma una forza punto di riferimento aggregante per le migliori culture democratiche: il mondo cattolico, l’azionismo, l’ambientalismo, la cultura femminista. Quindi democratico diventava centrale. Ma ci tenevo a riaffermare la sua collocazione. Per questo scrivemmo sotto la Quercia l’espressione “di sinistra”. Tu ne sai qualcosa...».

All’inizio dei Novanta tu dicesti al Psi: «Dateci un segnale, venite con noi all’opposizione e costruiamo le condizioni per l’alternativa». Quale fu la risposta?

«In un incontro con Craxi parlammo sinceramente dell’odio che ormai c’era tra i popoli socialista e comunista. Io gli dissi: “C’è una sola via per superare questa ruggine profonda che non è tra di noi, ma è nelle basi dei partiti: facciamo una comune esperienza di lotta all’opposizione e costruiamo l’alternativa al sistema di potere democristiano”. Lui non si scandalizzò. Prese un foglietto e scrisse delle cifre. “Guarda la somma dei partiti di sinistra, non ci sono i numeri”. Gli obiettai: “Non fotografare la situazione, guardala in movimento. Pensa l’energia che si genererebbe se socialisti e comunisti facessero insieme, come succedeva nel governo delle giunte locali, una esperienza politica, stavolta di opposizione. Per la prima volta l’alternativa alla Dc, matura politicamente, sembrerebbe possibile». Lui si fermò ancora, stette in silenzio e poi mi disse: «Forse hai ragione». Poi indicò attorno a sé con la matita e concluse: «Però questi che mi stanno intorno, se vado anche solo un giorno all’opposizione, mi fanno fuori».

Furono i ragazzi di Berlinguer a spegnere il socialismo. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Condivido con Fausto Bertinotti lo spirito di apertura e di dialogo per un confronto serrato non certo per una rissa. Nel suo campo i dogmatici e i faziosi sono ben altri. Poi come Fausto sa bene i peggiori fra tutti sono i dorotei (che è una sorta di categoria dello spirito equamente distribuita in tutti i partiti e schieramenti) che preferiscono un rigoroso silenzio perché considerano un lusso inutile la battaglia delle idee e molto più efficace il ricorso alle tecniche della gestione del potere svolte direttamente o per interposto giornale o per interposto pubblico ministero. Con tutta questa genia, non con i comunisti-operaisti come Bertinotti, ho tuttora uno spirito più che “guerresco” (la guerra, quella vera, l’hanno fatta loro alcuni anni fa), ma duramente conflittuale. Non è stato certamente l’operaismo, ma l’ultima versione del berlinguerismo, quella dei cosiddetti “ragazzi di Berlinguer”, che ha lavorato in modo scientifico a “spegnere”, come diceva Machiavelli, il socialismo italiano e Bettino Craxi. I “ragazzi di Berlinguer” non hanno affrontato il 1989, realizzando un proprio autonomo revisionismo che desse il senso di un trapasso culturale e storico dal comunismo italiano alla socialdemocrazia e all’Internazionale Socialista. È quello che invece hanno provato a fare con tutti i loro limiti e contraddizioni i tanto vituperati miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso e Ranieri) che non a caso sono sempre stati minoritari nel partito e in più di un’occasione hanno rischiato la pelle. Poi, per applicare fino in fondo anche al Pci quella che Togliatti chiamava “l’analisi differenziata” (che in effetti applicò quasi a tutti, anche ai fascisti, molto meno all’Urss), fra i “ragazzi di Berlinguer” ci sono state due opzioni: quella del tutto utopica di Achille Occhetto, che puntava a superare il comunismo italiano da sinistra recuperando temi e suggestioni da Pietro Ingrao, e quella, tutta fondata sulla realpolitik di D’Alema, Violante, Veltroni (al di là delle sue variazioni sul tema). Come è noto il tentativo di Occhetto fu reso impraticabile da due lati, dallo stesso Ingrao che non voleva superare il comunismo, ma “rifondarlo” e, appunto, dalla componente “realpolitik” dei “ragazzi” che nel frattempo si era collegata in modo profondo a una parte dell’establishment bancario, mediatico, giudiziario di questo paese (esemplare il loro rapporto organico con la Repubblica di Scalfari e di De Benedetti) giocando tutta la partita sull’ingresso nell’area di governo. Questa componente ereditò, gestendola ad un livello più basso ma anche molto concreto, la preclusione berlingueriana nei confronti di Craxi per cui cavalcò fino in fondo quel giustizialismo ispirato sia da un’area della magistratura, sia da Repubblica, sia da un settore del mondo imprenditoriale italiano che aveva dovuto rassegnarsi a lasciar svolgere un ruolo egemone alle forze politiche, in primo luogo alla Dc e poi anche al Psi, fino a quando c’era stata la divisione del mondo in due blocchi e in qualche modo il “pericolo comunista”. Quel pezzo assai aggressivo del mondo imprenditoriale ritenne che era venuto il momento di togliere la “delega” alla politica e ai partiti. Di conseguenza esso utilizzò il suo volume di fuoco mediatico, si liberò della Dc e del Psi cavalcando Mani Pulite. Lo fece con la massima faccia tosta perché proprio le grandi imprese, in primo luogo la Fiat, erano state l’anima strutturale del sistema di Tangentopoli che via via aveva coinvolto tutto e tutti, sistema di potere del Pci compreso. In quel sistema non esistevano certo dei poveri concussi come spiegarono nelle loro lettere ai Pm di Milano la Fiat e la Cir, Romiti e De Benedetti che sarebbero stati quotidianamente minacciati e rapinati dai perfidi e arroganti concussori nelle persone di Craxi, di Forlani e dei loro accoliti. Siccome, poi, nello svolgimento dell’operazione a un certo punto qualcuno spiegò a “lor signori” e al pool di Milano che non si poteva far tabula rasa di tutte le forze politiche, ecco che, anche per ragioni di rapporti di forza, fu realizzato un atipico compromesso storico fra queste componenti dell’operazione di Mani Pulite con i “ragazzi di Berlinguer” che, come spiegò lucidamente Massimo D’Alema, ragionava rigorosamente in termini di occupazione degli spazi politici e di potere: «Eravamo come una grande nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista, in sostanza un progetto annessionistico. Come uscire da quel tunnel? Questo era il nostro progetto strategico: come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana che avrebbe segnato la disfatta della sinistra. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affaristico avvinghiato al potere democristiano. Questo era il nostro vero dramma. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta, diventare noi il partito socialista in Italia». Tutto ciò si fondava su una grande mistificazione: come tu ben sai, caro Fausto, il Pci era fra i partiti italiani quello che aveva più fonti di finanziamento irregolare, sia detto senza alcun moralismo: dal finanziamento proveniente dall’Unione Sovietica alla rendita petrolifera dell’Eni, alle cooperative rosse, a una miriade di aziende private. Non a caso, diversamente dai miglioristi, quel settore del Pds, forse con l’eccezione di qualche riflessione culturale sviluppata da Piero Fassino, fu assai parco sul terreno della revisione ideologica, ma invece assai aperto e attivo su quello delle privatizzazioni. In qualche caso, taluno dei “ragazzi di Berlinguer” si impegnò a tal punto su quel terreno da guidare anche una cordata di “capitani coraggiosi” venendo però contrastato dall’interno stesso del gruppo dirigente del Pds da parte di coloro che oramai avevano rapporti organici con l’establishment finanziario ed editoriale di questo paese. Queste sono le ragioni, caro Fausto, per le quali mantengo una contestazione di fondo che non è certo rivolta al “comunismo” come categoria dello spirito avendo anche la consapevolezza che la dialettica fra quella ipotesi culturale e quella socialista nel senso classico appartiene per larga parte a un passato prestigioso, ma certamente superato. Invece anche per gli errori politici di Craxi e per il cupio dissolvi che caratterizzò ciò che rimase in campo del gruppo dirigente socialista, certamente nel ’92-’93 i “ragazzi di Berlinguer” vinsero la guerra nei confronti del Psi di Craxi, sia pure transitoriamente e illusoriamente. E allora per il sottoscritto e per altri compagni socialisti, in primis coloro che tuttora danno vita al Psi, a Mondo Operaio e ad alcune significative fondazioni, c’è oggi un obiettivo prioritario, quello di evitare che la storia del movimento operaio italiano si risolva, come è spesso avvenuto nel passato, nella storia fatta dai vincitori. Credo che su questo terreno qualche risultato significativo è stato raggiunto per tre ragioni di fondo: perché c’è stato un lavoro autonomo fatto da alcuni storici di grande qualità: solo per fare qualche nome mi riferisco a Piero Craveri, a Simona Colarizi, a Andrea Spiri, ai dieci volumi costruiti da Gennaro Acquaviva e da Luigi Covatta; in secondo luogo perché da un certo momento in poi i “ragazzi di Berlinguer” hanno accuratamente evitato il confronto su questo campo preferendo occuparsi di altro e cioè di una gestione sempre più asfittica del potere; in terzo luogo perché alcuni dei più significativi intellettuali di origine comunista (Biagio De Giovanni, Beppe Vacca, Silvio Pons, lo stesso Istituto Gramsci) si sono collocati su una dimensione storico-critica più elevata, insomma, per usare una battuta di Antonio Gramsci, stanno lavorando “fur ewig”, al di fuori e al di là dello scontro che ha diviso i socialisti e i comunisti negli anni ’80 e ’90. Dicevo che quella del ’92-’94 è stata per molti aspetti una vittoria transitoria e illusoria. Infatti avendo liquidato quello che era considerato il nemico principale, cioè il “social-fascista Craxi”, i “ragazzi di Berlinguer” hanno ritenuto di essere comunque arrivati a una piena conquista del potere politico e invece con loro sorpresa si sono trovati sbarrati il campo da parte di Berlusconi. Da qui prese corpo una sorta di bipolarismo anomalo, ben diverso dal bipolarismo europeo. Poi, anche in seguito alla devastante crisi economica del 2008-2010 quel bipolarismo è andato a gambe all’aria e ha finito col produrre i mostri con cui oggi ci troviamo a fare i conti, cioè il sovranismo razzista di Salvini e il populismo giustizialista e anti politico del Movimento 5 stelle. Non voglio scandalizzare nessuno, ma secondo me fra questi due mostri, la tematica berlingueriana della questione morale e della damnatio di tutti gli altri partiti e poi fra tutta la vicenda di Mani Pulite del ’92-’94, c’è un nesso, una sorta di consequenzialità. Il grillismo e il sovranismo sono a mio avviso la conseguenza finale dei demoni messi in circolo addirittura da quel Pci che originariamente (dal 1945 in poi) era la forza politica più storicista, più impegnata nella valorizzazione della politica, del ruolo dei partiti, del parlamento e della mediazione: tutto ciò era una delle caratteristiche più significative del Pci, ma del Pci di Togliatti, non di quello di Berlinguer, alcuni tratti del quale (e le battute di Tatò esprimono lo spirito dei tempi) ha incorporato in sé stesso, con tutti gli aggiornamenti inevitabili. Ma più i tratti del VI Congresso dell’Internazionale Comunista, quello per intenderci del social-fascismo, che non quelli del VII, il Congresso dei fronti popolari (vedi a proposito di tutto ciò il bellissimo libro di Paolo Franchi). In questo quadro non capisco perché, caro Fausto, ti identifichi totalmente nell’ultimo Berlinguer, rappresentato come un generoso e appassionato interprete del movimentismo. No, a mio avviso, l’ultimo Berlinguer fu rattrappito in un chiuso settarismo, certamente nobilitato da un impegno personale condotto usque ad effusionem sanguinis, per una spasmodica e disperata battaglia contro quello che era ritenuto il male e quindi come tale meritevole dell’onore delle armi come si deve a tutti i combattenti che credono fino in fondo nelle idee.

Riformisti o rivoluzionari? La contraddizione non esiste piú. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 27 Aprile 2020. La controversia tra comunisti e socialisti ha attraverso tanta parte della storia politica del nostro Paese, dunque si può capire che possa rispuntare anche da sotto le ceneri. Fabrizio Cicchitto lo ha fatto riprendendo il filo della relazione tra Craxi e Pellicani nella temperie del nuovo Psi che stava affermandosi alla fine degli anni 70. Lo fa con intatta passione e manifesto spirito di parte. Apprezzo l’una e l’altro, ma penso che non siano adatti ad indagare i rapporti tra socialisti e comunisti nell’Italia uscita dalla Resistenza e arrivata sino alla fine del Novecento. Sarà anche per ragioni autobiografiche. Sono stato nel Psi, nel Psiup e nelle diverse tendenze ispirate a eresie socialiste, quali quelle di Raniero Panzieri, e quelle varie delle sinistre socialiste fino a Riccardo Lombardi. Nel Pci, in quello guidata da quell’eretico senza scisma che è stato Pietro Ingrao. Come Cicchitto ho vissuto – certo molto più a lungo di lui – in quella casa comune che è stata la Cgil. Forse però è per questo che penso che, nell’oltrepassamento della separazione tra riformisti e rivoluzionari, un’esperienza di elaborazione particolarmente significativa è stata proprio quella degli anni 60, che un filosofo come André Gorz e un uomo della cultura politica come Gilles Martinet hanno chiamato dei riformisti-rivoluzionari: è la linea che legava socialisti come Lombardi, Foa, Basso a comunisti come Ingrao o Trentin in un’ipotesi di lavoro per il superamento della società capitalista. Ma penso così soprattutto perché dopo il grande e terribile Novecento, dopo la sconfitta del movimento operaio, e l’avvento di un capitalismo ancor più intollerabile, bisognerebbe riflettere diversamente su tutta quella storia che non consente più di far vivere filiazioni dirette, quanto piuttosto attraversamenti; certo senza negare preferenze e diversità di opzioni, ma concorrendo a un nuovo inizio nella storia per la trasformazione della società. La consuetudine e l’antica conoscenza, ma anche la leggerezza che vorrei connotasse questo confronto, mi suggerisce il ricorso al nome del mio interlocutore. Fabrizio mi è parso prigioniero della sua metafora guerresca, quella a cui fa ricorso, scrivendo: «Fu un fuoco di fila in cui si mescolavano le bombe a mano e il tiro di fucili di precisione». In guerra ci sono solo nemici, o vinci tu o vince lui. Vince, in ogni caso, chi resta in vita. È il trionfo della coppia nemico-amico. Sarei per deporre le armi, salvando la passione. Anch’io sono partigiano di una parte (oplà) e sul fronte opposto a quello di Cicchitto (oplà). Anch’io non sopporto gli eclettismi e non mi piace affatto risolvere le opposizioni con la somma delle stesse, ma il punto è che quel che ieri sono state opposizioni, oggi, nella rielaborazione del tempo, non lo sono più, almeno come tali. Non Marx o Proudhon, ma Marx e Proudhon, quello peraltro che diceva che la proprietà è un furto. Marx, caro Fabrizio, non si può seppellire, soltanto perché non è possibile farlo. È una pietra d’inciampo troppo grande. Resiste. Anzi, riemerge ora nel tempo del capitalismo finanziario globale e della sua crisi. La Marx Renaissance è stato un evento mondiale che ha mobilitato le università maggiori di ogni parte del mondo, a partire da quelle degli Usa. E solo qualche anno fa, Marx è stato l’autore più venduto nelle librerie del Regno Unito. L’avvertenza, lo sappiamo, è nota. Marx stesso diceva di non essere marxista. Dei grandi rivoluzionari e rivoluzionarie del Novecento non è più possibile ereditare la lezione per filiazione diretta, semmai lo è stato. Non si può farlo, se non creativamente. Se si vuole dire così, “revisionisticamente”. Solo per memoria dei tempi in cui quei giganti ci sembravano contemporanei, tanto da prendere parte alle loro dispute, a partire da quella tra riformisti e rivoluzionari, da quella fondativa tra Bernstein e la Luxemburg. Solo per memoria, allora, potrei dirmi luxemburghiano, ma si sa che in fondo sarebbe un nonsense. Il movimento operaio, vinta la rivoluzione e fattosi Stato, è fallito a Est. Il movimento operaio senza la rivoluzione ma col conflitto di classe è stato sconfitto ad Ovest. Ma l’una e l’altra storia hanno scritto un’epopea che ora è finita. Qui si situa la vicenda di cui scrive Cicchitto e la contesa tra Pci e Psi. Come ho già detto, stavo sull’altro versante rispetto al suo. Non mi convince ancora oggi la sua riduzione del Pci a Enrico Berlinguer e tantomeno a Tonino Tatò, di cui pure sono stato amico, e tantomeno ancora a una sua frase molto infelice. Tornerò brevemente, solo per un cenno, sul Pci, quasi un’avvertenza semplicemente metodologica, ma non vorrei sfuggire al problema a cui Berlinguer ha dato vita e che Cicchitto ricorda. Non è stato nelle mie corde il primo Berlinguer, quello che con grande consenso e grande successo è arrivato fino al Compromesso storico. Mi trovavo allora in dissenso e ancora oggi quell’ipotesi non mi convince affatto. Invece, trovo ricco e radicale il secondo Berlinguer, quello, per dirla sommariamente, dei cancelli alla Fiat nella lotta dei 35 giorni e della Scala mobile. Lo muove un’intuizione di classe e carica di futuro. La sconfitta dell’ipotesi non ne riduce affatto la portata. Fabrizio, che è cultore della Luxemburg, ricorderà sicuramente le sue pagine straordinarie sul valore della sconfitta: «Una sola può valere più di cento comitati centrali». Cosa intuisce quel Berlinguer? Intuisce che si è giunti alla fine del grande ciclo ascendente del conflitto operaio-studentesco, quello aperto dal biennio ‘68-’69, e che si è giunti di fronte al rovesciamento del conflitto di classe, come dirà poi lucidamente Luciano Gallino. Pensa, cioè, che da allora in poi saranno i padroni a organizzare la lotta contro i lavoratori e non più il contrario. E poi raggiunge la seconda sua intuizione, quella cioè che quando i partiti della sinistra smarrissero la radice di classe della loro politica, si avvierebbero inesorabilmente a una mutazione genetica che li trasferirà nel campo liberale. Vero è che il Pci, come tanta parte dell’opinione critica del Paese, non capisce la forza di una ribellione socialista a una condizione di oppressione paternalistica, lungamente subita da parte comunista, né intende la sua radice libertaria, quella di una carica provocatoria, che giunge fino a flirtare con un certo libertinismo. Ma siccome penso che ognuno dovrebbe riflettere a partire dai mali della propria parte, quelli della mia sono certo ingombranti e diffusamente approfonditi, vorrei invitare Fabrizio a riflettere su quel punto di partenza, quel 1978 socialista di cui scrive con passione. Continuo a pensare che di ben altra stoffa fosse il precedente revisionismo socialista, quello originato dal 1956, dopo la catastrofe ungherese, quando il ventaglio aperto era tanto ampio da andare da Panzieri a Giolitti, e ancora molto più in là. La ragione, secondo me, è che nel revisionismo socialista, che aprì la strada agli ani 60, c’era diversamente da quello di cui parla Fabrizio, l’ambizione di interessare l’intero movimento operaio in una sfida per l’egemonia, non per il comando. L’ha inteso un socialista liberale, come Norberto Bobbio.  Vorrei dire a Fabrizio, in verità e in amicizia, che penso che ciò che ancora gli impedisce un’analisi critica, ma serena, è il suo rifiuto di considerare il Pci per quello che realmente è stato. Delle sue colpe sappiamo e moltissimo si è scritto e detto, ma se parlando del suo retroterra culturale, degli intellettuali che ne hanno fatto parte, si scrive della «melassa culturale del Pci», allora si rivela un’incomprensione di fondo. Non farò torto alla cultura politica di Cicchitto, facendogli un quadro dell’intellettualità che ha fatto parte di quel mondo, delle loro esperienze, della loro produzione artistica, culturale, della creatività con cui hanno investito tanta parte della cultura mondiale. Melassa? Basti la storia di Pier Paolo Pasolini a bucare questa immagine inadatta. Ha scritto Pasolini: “Il Pci è un paese nel Paese”. Un paese, non una segreteria, una direzione, un comitato centrale. Mi dia retta per una volta, Fabrizio, ascolti Giorgio Gaber, ascolti la sua ballata “Qualcuno era comunista”. Se non sente viva quella storia di popolo, il conflitto tra Craxi e Berlinguer diventa indecifrabile nelle sue ragioni, nei suoi torti più profondi, quelli che potrebbero interessare ancora il nostro futuro e che comunque ci aiuterebbero a rileggere la storia con i dovuti “se”, perché non è vero che essa non si fa con i “se”.

Biografia di Rosa Luxemburg, la grande intellettuale tedesca. Redazione de Il Riformista il 24 Gennaio 2020. 5 marzo 1871 – Nata in Polonia, poi naturalizzatasi tedesca, Rosa Luxemburg si istruì da autodidatta prima e in un liceo femminile poi, dove entrò a far parte del gruppo rivoluzionario clandestino, Proletariat. Nel 1889, lasciò Varsavia, superando la frontiera austro-ungarica nascosta in un carro da fieno. Si stabilì quindi a Zurigo, dove nel 1897 si laureò in Giurisprudenza. A seguito della sua adesione al marxismo, si scoprì atea e conobbe il rivoluzionario Leo Jogiches, con il quale ebbe una relazione fino al 1907. La linea politica della «Sprawa Robotnicza» (La Causa Operaia), la rivista della quale Luxemburg era direttrice dal 1894, contrastò il programma del Partito Socialista Polacco (PPS) che chiese e ottenne, durante il III Congresso dell’Internazionale socialista del 1893, l’invalidazione del mandato di Rosa Luxemburg. Inimicatisi il PPS, Luxemburg con Jogiches, Marchlewski e Warszawski fondò clandestinamente la Socialdemocrazia del Regno di Polonia (SDKP), nel marzo 1894. Il loro obiettivo: una Costituzione democratica per l’intero Impero russo con autonomia territoriale per la Polonia, insieme ai socialdemocratici russi. 2 novembre 1898 – Al IV Congresso dell’Internazionale, Rosa Luxemburg presentò una mozione in cui negava che un programma socialista potesse accogliere temi nazionalistici. La sua battaglia contro il nazionalismo polacco la portò a trasferirsi in Germania, entrando nel più grande partito socialista d’Europa con Kautsky, Bebel e Liebknecht. In Germania, Luxemburg intervenne contro le tesi revisionistiche di Eduard Bernstein, autore di articoli che giudicavano superate molte indicazioni di Marx e condusse la lotta contro il revisionismo con estrema fermezza, anche quando nel settembre del 1898, si trasferì a Dresda alla direzione di un quotidiano. Pochi mesi più tardi, il 2 novembre, fu costretta a dimettersi dall’incarico, per le polemiche sul revisionismo, nelle quali perse l’appoggio dei suoi redattori. Nello stesso anno pubblica anche una serie di articoli sulla necessità di condurre una lotta politica contro il militarismo, in vista di una trasformazione del tradizionale esercito professionale in milizia popolare.

28 giugno 1916 – Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Luxemburg fece parte del fronte pacifista, creando nel 1915 con Karl Liebknecht, il Gruppo Internazionale, che sarebbe poi diventato la Lega Spartachista. Il 28 giugno 1916 i due furono arrestati dopo il fallimento di uno sciopero internazionale e condannati a due anni di reclusione, (Luxemburg era già stata in carcere per un intero anno). Durante questo lungo periodo continuò a scrivere quelli che sono diventati alcuni dei suoi articoli più noti. Due anni più tardi, partecipò alla Rivoluzione tedesca del novembre 1918, che portò alla trasformazione dello Stato tedesco in una Repubblica democratica e parlamentare, e nei due mesi successivi contribuì a fondare il Partito Comunista di Germania.

15 gennaio 1919 – Durante la Rivolta del gennaio del 1919, Luxemburg fu rapita e assassinata dai Freikorps, i gruppi paramilitari del governo. Il suo corpo, gettato in un canale, fu recuperato e sepolto nel cimitero di Friedrichsfeld. Lo stesso cimitero che nel 1935 fu raso al suolo dai nazisti, disperdendone i resti dei sepolti. Nel 1922, dopo la morte fu pubblicata La rivoluzione russa. Un esame critico, una breve opera scritta durante il periodo della sua carcerazione nel 1918, all’interno del quale Luxemburg esalta il coraggio dei bolscevichi contrapponendolo alla pusillanimità dei socialdemocratici tedeschi, criticando le scelte compiute da Lenin dopo la Rivoluzione d’ottobre.

Ritratto di Rosa Luxemburg, il suo pensiero eretico è ancora attualissimo. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 24 Gennaio 2020. Rosa Luxemburg è stata, per la storia, una rivoluzionaria. Una tra i più grandi fra i giganti del ‘900 che, del resto, ne riconoscono la grandezza. Lenin, il protagonista principe dell’ottobre, la riconosce come un’aquila, l’aquila della rivoluzione. Ma persino Bernstein, contro il quale la Luxemburg scrive i saggi più radicalmente critici, quelli poi raccolti nel volume Riforma sociale o rivoluzione? che ne costituisce l’antitesi, persino Bernstein riconosce che gli scritti della Luxemburg «appartengono a quanto di meglio è stato scritto su di me». La teorica della rivoluzione è dunque così rilevante che il valore della sua elaborazione viene riconosciuto anche dai suoi avversari. Il vecchio Franz Mehring, un’autorità nel movimento operaio tedesco che si dice morto di crepacuore per l’uccisione di tutti i suoi più giovani compagni spartachisti a lui vicini, ha scritto di lei che è stata «il cervello più geniale fra gli eredi scientifici di Marx e Engels». Qualche anno più tardi sarà Lukàcs a scrivere di lei che è stata la sola discepola di Marx «che abbia prolungato realmente l’opera della sua vita».

L’influenza della Luxemburg nel pensiero rivoluzionario. Non so se si può parlare per la Luxemburg della costruzione di un sistema organico di pensiero, certo si può farlo indicando la sua straordinaria capacità di dar vita a un pensiero critico. Forse per questo, diversamente da altri leaders rivoluzionari come Lenin o Trotsky, che hanno prodotto una filiazione diretta di organizzazione e di quadri, cioè una nuova ortodossia (il marxismo-leninismo è un’ideologia che segna di sé l’intera storia del movimento operaio del ‘900), Rosa Luxemburg suscita adesioni orizzontali piuttosto che verticali, piuttosto che nell’insieme sono alcuni elementi della sua elaborazione che vengono raccolti da realtà politiche e sociali diverse e tra loro diverse. Si troveranno nella storia elementi, scampoli, idee presenti nel suo pensiero in parecchie realtà e personalità del movimento operaio, ma non una tendenza organizzata, non una scuola. Non casualmente essi si ritrovano, seppure sempre come tali, in alcune tendenze che si potrebbero riassumere nella definizione di marxismi critici o in determinati periodi del conflitto di classe, quando questo si impenna e produce una rottura. È accaduto così nel biennio rosso ‘68- ‘69, quando il protagonismo delle masse ha dato al conflitto di classe una potenza eccezionale, quando il processo si è potuto pensare come rivoluzionario, quando si è potuto parlare dell’attualità del socialismo. Allora alcuni temi tipici del pensiero luxemburghiano sono diventati di tutto il movimento e di alcune sue componenti importanti in particolare. Il tema della rottura, la democrazia consigliare, l’insostituibile ruolo delle masse, il carattere del tutto decisivo del loro protagonismo ne hanno caratterizzato il tempo. Nello scritto Sciopero generale. Partito e sindacato, la Luxemburg aveva attribuito allo sciopero generale un carattere strategico, quello di levatrice di un processo storico. Pur con una del tutto diversa interpretazione, lo sciopero generale acquisterà nella fase della riscossa studentesca e operaia degli anni 70 del secolo scorso, una funzione cruciale.

I tre possibili errori dei partiti del movimento operaio. Individuato precisamente il primato delle masse e, in esso, il ruolo del partito, la Luxemburg vede lucidamente e, in un certo senso, prevede i danni che deriverebbero da tre diverse pericolose propensioni che in esso si possono determinare: il parlamentarismo, il burocratismo e l’autoritarismo. Nella lettura ottimistica dei processi storici nei quali scompaiono le drammatiche contraddizioni del capitalismo, in una lettura apologetica quindi, vede le basi dell’elettoralismo e del parlamentarismo, due errori devastanti che si possono sempre produrre dentro le organizzazioni politiche del movimento operaio e che lo condannerebbero alla resa e al fallimento. È questa una critica radicale e fondativa del suo pensiero che si sviluppa contro questa insidia fin dalla critica a Bernstein e, nella socialdemocrazia tedesca, alla separazione tra il programma massimo e il programma minimo, separazione che rende il primo, la costruzione del socialismo, confinato in un futuro tanto lontano da uscire dalla scena della politica e costringe il secondo, il programma minimo, ad essere estraneo all’interesse della classe operaia ad un’alternativa di società. Ma non è meno significativa, sull’altro versante, la lotta contro l’assunzione, da parte del partito del principio di autorità. Nasce da qui la critica ai bolscevichi e a Lenin. Ad essi la Luxemburg dà atto di un grande coraggio e di aver saputo affrontare la crisi con la realizzazione della rivoluzione, ingaggiando così una sfida immensa. Ma proprio con questa realtà essi hanno di fatto dato vita alla questione del rapporto tra democrazia e socialismo a cui non ci si può più sottratte. La democrazia socialista si costruisce contemporaneamente alla demolizione del dominio di classe e alla costruzione del socialismo. Per lei, la pratica socialista richiede una «trasformazione spirituale» del popolo che, a sua volta, richiede la più ampia e incondizionata libertà di stampa, di riunione e di associazione. La libertà per lei è quella di chi la pensa diversamente, non solo quella dei seguaci del governo e dei membri del partito.

La concezione radicale della libertà nella Luxemburg. Lo dirà chiaramente in La Rivoluzione russa. Il testo è, ancor oggi, impressionante per la radicale idea di libertà che contiene e per la sua indissolubile connessione col processo rivoluzionario. La Luxemburg giungerà a dire che, quando la vita pubblica viene soffocata, risultano inaridite «la sorgente dell’esperienza politica e il proseguimento dello sviluppo». Si vorrebbe andare oltre nelle citazioni, per dare conto della forza straordinaria della sua critica a ogni restringimento della democrazia e della libertà e di come sia stato un errore drammatico e colpevole, quanto diffuso in tutto il movimento comunista, d’averla omessa e dimenticata. Rosa ci ha detto che sospendere le libertà porta all’imbarbarimento della vita pubblica e conduce all’arbitrio e spegne le energie vitali del proletariato e, ancora, contemporaneamente, spinge la società sotto la dittatura di un pugno di politici mentre nasce e si rafforza la burocrazia che viene in soccorso ai capi. Così invece di trasformare lo stato, esso viene semplicemente e duramente rafforzato. La via d’uscita che viene proposta resta una lezione viva. Essa propone, infatti, di costruire un legame tra la democrazia e la rivoluzione socialista, perché solo così il proletariato può trasformare la società e liberare se stesso. Si deve trattare di una democrazia particolare e particolarmente ricca, capace di andare oltre la delega e la rappresentanza, contro e oltre lo stato; deve essere quella democrazia della vittoria del demos che, in qualche misura, la democrazia consigliare annunciava e prometteva. Dì nuovo ritorna la connessione, il legame tra il presente e il futuro che si invera nel processo rivoluzionario. Qui la libertà si presenta come “necessità” e come “imprescindibilità” nel processo, una necessità affinché si possa compiere e dispiegare la rivoluzione, una imprescindibilità perché solo così la classe operaia può prendere coscienza di sé e del suo compito storico.

Socialismo o barbarie. Colpisce come questa rivoluzionaria così pienamente immersa nel suo tempo risulti così acutamente, singolarmente e profeticamente preveggente su ciò che corroderà dall’interno l’esperienza della società post rivoluzionarie, del socialismo reale, fino a concorrere potentemente al loro fallimento finale. E si può capire, anche alla luce di quanto i tre grandi errori denunciati dalla Luxemburg abbiamo strisciato su tutta la “grande e terribile” storia del movimento operaio nel ‘900, sia le ragioni della mancata assunzione della sua lezione da parte delle grandi organizzazioni del movimento operaio e di tanta parte della sua intellettualità, sia le ragioni per cui in certi marxismi eretici e in certi momenti alti del conflitto sociale, siano stati accolti aspetti importanti della sua ricerca. A tutto questo ha concorso indubbiamente la costante riproposizione nel suo pensiero, come nella sua prassi dell’aut-aut. L’aver proposto sistematicamente l’esigenza insopprimibile della rottura, delle rotture. L’aver proposto sempre la rivoluzione come inesorabile necessità della storia. Socialismo o barbarie. Un bivio che è arrivato sino ai nostri giorni che anzi ne propongono una singolare, quasi paradossale, rottura attualità. Del bivio, ecco una nuova pesante difficoltà, conosciamo la barbarie. La Luxemburg ne aveva colta la radice dove altri proprio non la potevano scorgere, cioè in quella forma della modernità portata alla luce dalla modernizzazione capitalistica. Il nostro tempo ci propone la barbarie come una condizione alimentata dalla natura del capitalismo finanziario globale e consentita dalla politica che ha perduto qualsiasi autonomia dal sistema. Conosciamo perciò bene la barbarie, ci pare di non conoscere o di non conoscere più il socialismo.

Il valore delle sconfitte. La Luxemburg già in Riforma sociale o rivoluzione?, già nel suo potente esordio ci offre la trama di un antidoto contro le culture apologetiche il quale, nello sviluppo del suo pensiero e della sua praxis, lo diventerà anche nei confronti di quelle loro forme più direttamente politiche che sono il parlamentarismo e il riformismo. Si capisce perché di lei sia stato detto che “abbia prolungato l’opera della sua vita (di Marx)”. Rosa fa vivere, nella sua opera, tutta l’ambiguità della storia, il suo esito non predeterminato. Nel complesso, tormentato processo rivoluzionario, quello fatto di vittorie e di disfatte, di avanzamenti e di ripiegamento, quello costituitosi spontaneamente, solo la lotta di classe, la lotta diretta delle lavoratrici e dei lavoratori, può far scaturire, dalla oggettività dei contradditori processi del capitalismo, gli elementi della nuova società; solo, cioè, la lotta di classe, il processo rivoluzionario possono realizzare l’impresa altrimenti impossibile, l’impresa più alta della politica, il completo rovesciamento dei rapporti sociali. La spontaneità occupa un posto di assoluto rilievo nell’elaborazione della grande rivoluzionaria. Ma cos’è la spontaneità nella Luxemburg? Non è ciò che accade imprevedibilmente o, almeno, non è solo questo. L’imprevisto è, certamente, un fattore importante nella storia, tanto più se si legge tutta l’ambiguità che è compresa nello sviluppo capitalistico. Ma la spontaneità che diventa il motore del movimento è, anche, ben altro. È, soprattutto, l’accumulo di esperienze di lotta e del formarsi di una coscienza collettiva, la coscienza di classe. Lo dicono, meglio di altro, le sue parole, parole scritte dopo una sconfitta, una sorte di lascito rivoluzionario. Lo scrive in Malgrado tutto, dopo che Spartacus ha perso, drammaticamente. “Spartacus ha vinto! Si, gli operai rivoluzionari di Berlino sono stati vinti! Si, centinaia di migliaia di essi sono stati uccisi! Si, centinaia tra i più fedeli sono stati gettati in prigione!… Si, essi sono stati vinti? Era una necessità storica che lo fossero. Perché non era ancora giunto il tempo. E tuttavia la lotta era inevitabile…Ma ci sono sconfitte che sono vittorie e vittorie più fatali di sconfitte…I vinti di oggi saranno i vincitori di domani. Perché la sconfitta è per essi un insegnamento. Il proletariato tedesco manca ancora di tradizioni e di esperienze rivoluzionarie. È solo grazie ai tentennamenti, agli errori giovanili, agli scacchi dolorosi, che si può acquistare l’esperienza che garantisce il successo futuro. Per le forze viventi della rivoluzione sociale, il cui aumento ininterrotto è la legge dello sviluppo sociale, una sconfitta costituisce uno stimolo. Ed è tramite le sconfitte che il loro cammino conduce alla vittoria”. Si potrebbe dire la nostalgia dei giusti vinti.

Tutti pazzi per Berlinguer. La destra riscopre il Pci per convincere i delusi. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 22 gennaio 2020. In epoca di sovranismo e postideologia, il leader della Lega può anche urlare pubblicamente contro le sardine: «fosse qui Enrico vi prenderebbe a sputazzi». Tutti figli di Berliguer in campagna elettorale. Non importa essere di destra o post ideologici, quando una forza populista vuole convincere i vecchi militanti a cambiare bandiera si autoproclama erede, in tutto o in parte, del leader comunista. Lo ha fatto Gianroberto Casaleggio 2014, invitando i manifestanti a urlare il nome dell’ex segretario del Pci nella storica piazza San Giovanni, e lo fa da mesi Matteo Salvini, girando in lungo e in largo l’Emilia Romagna. «L’integerrimo dirigente della questione morale», «l’uomo perbene», «il leader dei lavoratori e non delle banche». Sono queste le frasi che rimbalzano da un palco all’altro, lanciate come esche, e come appigli, per elettori imbarazzati a frequentare piazze un tempo considerate “nemiche”. Così Berlinguer, per magia, si trasforma in un potenziale simpatizzante della Lega, avversaria dei poteri forti. «Se ci fossero Berlinguer e Peppone e vedessero Zingaretti, Renzi e Bonaccini cambierebbero marciapiede. Peppone e don Camillo voterebbero Lega», afferma impavido l’ex ministro dell’Interno durante un comizio a Maranello. Sono i miracoli del sovranismo, del “rossobrunismo” in cui tutto si mescola. Le famiglie politiche apparentemente sfumano i loro confini e ognuno può dichiararsi figlio di chi vuole. E se dalla piazza accanto arrivano le note di “Bella Ciao”, intonata dalle Sardine, è ancora il compianto segretario comunista a fare da scudo sonoro contro le contestazioni. «Non ci sono più i contestatori di una volta. Cantano “Bella Ciao” con il rolex al polso. Fosse qua Berlinguer vi prenderebbe a sputazzi», replica “il capitano” a Piacenza.Il copione è lo stessoanche a Brescello, patria ideale di Peppone e Don Camillo. «Non avete idea di quanti vecchi comunisti mi abbiano detto in questi giorni: quelli del Pd preferiscono i banchieri agli operai, stavolta voto per voi!», insiste Salvini. «Peppone e Don Camillo erano persone serie, politicamente erano distanti, ma leali. A sinistra oggi è cambiato il mondo, se pensiamo che una volta c’era più senso dell’onore e del rispetto in politica, da Luciano Lama a Enrico Berlinguer. Invece ora ci sono Renzi e Zingaretti…». Parole come onore e rispetto, non certo concetti cari al lessico comunista, perdono significato, soprattutto se cuciti addosso a chi non può replicare, in una campagna elettorale impazzita.Il Pd non sembra attrezzato a fermare questa miscellanea. «Salvini quando parla di Enrico Berlinguer si sciacqui la bocca» , è la sola replica affidata ai social del segretario Nicola Zingaretti. E per paradosso è la stessa, identica, risposta che Matteo Renzi pronuncia nel 2014 nei confronti del Movimento 5 Stelle, durante la campagna elettorale per le Europee. In quell’occasione, è addirittura Gianroberto Casaleggio, non certo un pensatore progressista, a sfidare i dem da uno dei luoghi più cari alla sinistra: piazza San Giovanni a Roma. «Una persona che noi possiamo considerare – indipendentemente dalla sua appartenenza politica – una persona onesta, è Enrico Berlinguer, che fu uno dei pochi italiani a riempire questa piazza», è l’incipit del discorso del fondatore M5S. Che poi sfida apertamente l’allora presidente del Consiglio Renzi: «Si sciacqui lui la bocca prima di parlare di Berlinguer», è l’affondo, prima di invitare i manifestanti a urlare tutti insieme il nome del segretario comunista scomparso «per farlo sentire fino a Palazzo Chigi». Del resto, solo un anno prima, durante il comizio di chiusura della campagna elettorale per le Politiche, dalla stessa piazza, Casaleggio pronuncia slogan del ’ 68 per galvanizzare la folla. La tecnica è sempre quella e sembra funzionare. Ai grillini, teorici della postideologia è andata bene, ma funziona anche con i lepenisti. In Umbria, lo scorso ottobre, Salvini porta in trionfo la sua candidata, Donatella Tesei,utilizzando lo stesso identico format: «Sono convinto che se oggi venisse in Umbria Berlinguer avrebbe schifo di quelli che si dicono di sinistra che conoscono più banchieri che operai, che conoscono più finanzieri che pescatori e artigiani», dice in uno dei tanti incontri elettorali. Risultato: roccaforte rossa espugnata.Il copione è talmente collaudato da tentare persino un liberale come Vittorio Sgarbi, oggi candidato al Consiglio regionale emiliano. «Le sardine sono una malinconia: passare dal Partito comunista, da Togliatti, da Berlinguer, da Gramsci alle sardine, animali senza coscienza e intelligenza…», si lascia sfuggire in conferenza stampa il deputato eletto nelle liste di Forza Italia. I figli di Berlinguer continuano a proliferare. Lontano dalla sinistra.

Massimo Cacciari attacca il Pd: "Da 30 anni cambiano nomi ma sono sempre gli stessi catorci". Libero Quotidiano il 12 Gennaio 2020. Massimo Cacciari affonda il Pd. Con il suo solito spirito critico, il filosofo dice che aspetterà "il voto in Emilia-Romagna, aspetterò di capire se il nuovo partito che promette Nicola Zingaretti sarà davvero nuovo o se sarà ancora un insieme di vecchi catorci, una classe dirigente di ministeriali, di uomini che da trent'anni si preoccupano solamente di rimanere al governo. In quest' ultimo partito non ci può essere posto per me e temo neppure per altri", attacca in una intervista a il Giornale. Da trent'anni, continua Cacciari, "sento le stesse promesse vecchie. Da trent'anni si sparano cazzate per non entrare mai nel merito. È cambiata la flora (querce, margherite, ulivi) a volte anche la fauna. Hanno sempre cambiato tutto per rimanere gli stessi. Il problema non è cambiare nome a un partito, ma dare contenuto alle parole. Il Pd, così come è, e come è stato, deve sbaraccare". Quindi accusa Zingaretti. Premesso che "di tutti rimane il più credibile", "mi chiedo su quali linee, in che modo? Di tutto questo ancora non se ne parla". Zingaretti "deve cambiare questo partito, anche rischiando di generare conflitti al suo interno, altrimenti è spacciato. Quelli che oggi si dichiarano a favore di un rinnovamento sono quelli che in questi anni lo hanno ferocemente ostacolato".  

Nicola Zingaretti, l’annuncio: “Dopo le regionali sciolgo il Pd”. Antonella Ferrari l'11/01/2020 su Notizie.it.  Annuncio shock del segretario del Pd Nicola Zingaretti che sta pensando ad una vera e propria rivoluzione per rilanciare il suo partito. L’idea è quella di agire dopo le regionali in Emilia Romagna sciogliendo l’attuale Pd per fondare un nuovo partito: “Prima vinciamo in Emilia Romagna. Il Pd sta facendo la campagna elettorale per Bonaccini in splendida solitudine. Poi sciolgo il Pd e lancio il nuovo partito” ha detto in un’intervista. “In questi mesi la domanda di politica è cresciuta, non diminuita, e noi dobbiamo aprirci e cambiare per raccoglierla – ha detto -. Non penso a un nuovo partito, ma a un partito nuovo, che fa contare le persone ed è organizzato in ogni angolo del Paese“. Parlando poi della legge elettorale Zingaretti aggiunge: “Dobbiamo costruire il soggetto politico dell’alternativa. Dobbiamo rivolgerci alle persone e non alla politica “organizzata”. Dobbiamo aprirci alla società e ai movimenti che stanno riempendo le piazze in queste settimane. Voglio offrire un approdo a chi non ce l’ha“. Facendo un’analisi del percorso che il Pd ha fatto sotto la sua guida, Zingaretti si reputa soddisfatto: “La linea unitaria sta pagando, come dimostrano i sondaggi. Il Pd è salvo, oggi non è più il partito debole, isolato e sconfitto del 4 marzo 2018. Abbiamo retto l’urto di due scissioni, e oggi i sondaggi ci danno al 20%. Siamo il secondo partito italiano e siamo l’unico partito nazionale dell’alleanza, l’unico che si presenta ovunque alle elezioni, l’unico sul quale si può cementare il pilastro della resistenza alle destre”.

Quando il partito si divideva su stalinismo e trotskismo : che nostalgia quelle espulsioni del Pci. Lanfranco Caminiti il 5 gennaio 2020 su Il Dubbio.  Il giorno in cui Togliatti decise di liberarsi di Magnai anche la sua cameriera lo lasciò solo: «Non posso servire un traditore». Non credo che Valdo Magnani si aspettasse un occhio di riguardo da Togliatti, sol perché era il cugino di Nilde Iotti, cui peraltro era molto legato. Magnani, il partito lo conosceva bene. «Una volta, un compagno – scrisse dopo – uno di cui non ricordo il nome, mi pare fosse di Massenzatico o di qualche paese di quella zona, venne a dire che insomma sua moglie lo aveva tradito e che questa questione doveva essere discussa dalla cellula e che quel compagno che era stato con sua moglie doveva essere espulso dal partito». A quel tempo, Magnani era segretario provinciale della federazione emiliana. Il partito controllava sotto le lenzuola, inflessibilmente – figurarsi come avrebbe trattato una dissidenza. E che dissidenza. Magnani era stato partigiano in Jugoslavia, anzi lì aveva messo assieme una Brigata garibaldina e poi aveva partecipato alla prima edificazione di quel socialismo, cui restò sempre legato, anche quando Tito entrò in rotta di collisione con Stalin. E quando il “titoismo” divenne il nemico pubblico numero uno del comunismo internazionale. Nel 1951, a un congresso provinciale, Magnani esterna tutta la sua contrarietà a un’idea di edificazione del socialismo basata sull’osservanza dello Stato-guida sovietico e alle «rivoluzioni importate su baionette straniere». Figurarsi. Lui e Cucchi – un altro partigiano, anche lui in crisi coscienza – vengono convocati a Roma, da Pietro Secchia, tanto custode della obbedienza a Stalin da diventare un problema per lo stesso Togliatti. Un incontro burrascoso. Magnani e Cucchi si dimettono da deputati – dimissioni respinte. Intanto, torna il Migliore – che era in Russia – e che affida il proprio pensiero a un articolo sferzante sull’Unità, un cui passaggio è rimasto proverbiale: «Anche nella criniera di un nobile cavallo da corsa si possono sempre trovare due o tre pidocchi». Fine della storia. Espulsi. Ma l’isolamento e il sospetto non finirono – la donna delle pulizie di Magnani se ne andò sbattendo la porta, perché non poteva servire un “traditore”; e un aitante giovanotto di provata fede sedusse la domestica di Cucchi, al fine di poter rovistare nel cestino della sua carta straccia. Erano espulsioni “a vita”. D’altronde tutta la storia dei comunisti italiani è punteggiata di espulsioni tremende. Quando fecero fuori Amedeo Bordiga – l’inflessibile e settario ingegnere napoletano che pure era stato tra i fondatori del PCd’I a Livorno nel ’ 21 e che aveva rappresentato il partito a livello internazionale, battibeccando con Lenin senza indietreggiare di un millimetro – fu una mezza tragedia. Bordiga non gliele aveva mandato a dire a Stalin, e proprio sulla “questione Trockij”. Non c’erano proprio “margini di trattativa”. Avevano votato i comunisti italiani rinchiusi a Ponza dal fascismo. Nel febbraio 1929. Votato una mozione che dichiarava Trockij come «uno dei nemici aperti dell’Internazionale comunista». Centodue avevano detto sì, trentotto avevano detto no. Tra i trentotto, proprio Bordiga. Che appena uscito da Ponza, viene espulso – marzo 1930: «Considerato che la opposizione trotzkista è oggi di fatto una formazione controrivoluzionaria la quale conduce sistematicamente la lotta contro il comunismo e contro la Unione soviettista, per spezzare le file del Partito mondiale della rivoluzione; dichiara A. Bordiga espulso dalle file del P. C. d’Italia, chiedendo al Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista di ratificare questa decisione;? pone all’ordine del giorno del Partito la lotta per la liquidazione definitiva dei residui dell’infantilismo sedicente estremista, il quale non è altro che una forma di opportunismo, che impedisce al Partito di riconoscere e di adempiere i propri compiti di guida della classe operaia nella rivoluzione». Fine di Bordiga. Neppure i fascisti volevano crederci. A Angelo Tasca non era andata meglio. Tasca era stato tra i giovani socialisti torinesi che avevano fondato e animato l’esperienza di «Ordine nuovo», con Gramsci e Terracini e Togliatti, e era stato convinto assertore della necessità della rottura dentro il Partito socialista e della fondazione del Partito comunista. Membro della direzione del Partito nei primi anni dell’esilio e della clandestinità, nel 1929 mandò una lettera da Berlino alla segreteria del Pcd’I che era un terribile atto di accusa: «Stalin è il maestro che muove tutto. Egli è all’altezza di una simile posizione? La mia risposta netta è: Stalin è smisuratamente al di sotto di essa… È un rimasticatore di idee altrui, che ruba senza scrupoli… Paragonare Lenin a Stalin è una profanazione… Stalin plagia perché non può fare altro, perché è intellettualmente mediocre e infecondo. Stalin è in Russia la pattuglia di punta della Controrivoluzione; esso è il liquidatore, finché avrà mano libera, della Rivoluzione d’ Ottobre». Lo espulsero a suon battente. Riparò in Francia, entrò nelle file del socialismo e scrisse una delle analisi più lucide sul primo dopoguerra e il giolittismo, il fascismo, il massimalismo, Nascita e avvento del fascismo. Penosamente e tragicamente, finì con il collaborare con Vichy e i nazisti. E non andò meglio a Rossanda, Natoli e Pintor e poi a Magri e Castellina che nel novembre del 1969 furono “radiati” dal Pci. Radiati, era un filo meno di ” espulsi”, ma il risultato era il medesimo: fuori dal Pci. La colpa? Avere stampato una rivista mensile, «il manifesto», che vendette cinquantamila copie al primo numero, e avere insistito per un dibattito aperto “dentro” il partito – c’era stata l’invasione di Praga, una tragedia. Che tipo di partito era necessario? Ci vollero tre comitati centrali, per arrivare a una decisione, e naturalmente il più duro fu Ingrao, verso quel gruppo di intellettuali che poteva definirsi “ingraiano”: «Sento non solo l’errore, ma l’infecondità di una proposta riguardante la vita interna del partito che si presenta così, davvero, come una proposta “esterna”, intellettualistica, e non come iniziativa ed anche lotta politica aspra, ma che si innesti nel vivo dell’esperienza che sta facendo il partito in questo momento, dei problemi e degli spostamenti che sorgono in questa lotta, del processo reale che si compie. Credo, compagni, che noi dobbiamo dissentire nettamente e profondamente dal frazionismo», eccetera eccetera. Ma, vivaddio, questa era “la stoffa” della lotta politica. Una lotta aspra, dura, che non prevedeva esclusioni di colpi. Fin nella vita intima degli avversari. Su analisi, posizioni nette, su “visioni”. Oggi, fa tristezza pensare che si viene espulsi da un partito, perché non si è ben rendicontato un versamento o perché si è trattenuta una quota del proprio stipendio parlamentare. E, magari, che con veemenza si risponda che no – le quote sono accantonate in un fondo oppure sono state già versate a qualche iniziativa benefica.

Pietro Nenni, rivoluzionario che avversò il fascismo e scivolò sul Fronte popolare. Riccardo Nencini il 7 gennaio 2020 su Il Dubbio. Lo sguardo sul secolo breve ti riserva qualche sorpresa in più. C’è un solo uomo che ha corso il ‘ 900 per intero e lo ha segnato senza tradire le sue radici, avvolto nella magia della storia. Furono in pochi a fare l’Italia. Tre, forse quattro. Quando pensi al Risorgimento, la memoria corre a Garibaldi, a Mazzini, a Cavour. Se vuoi essere di manica larga aggiungi anche il re, e lì ti fermi. Lo sguardo sul secolo breve ti riserva qualche sorpresa in più. C’è un solo uomo che ha corso il ‘900 per intero e lo ha segnato senza tradire le sue radici, avvolto nella magia della storia. Certo, dirai, Mussolini, e poi De Gasperi, e poi Togliatti, eppure solo Pietro Nenni guardò il sole in faccia per settan’anni, dalla guerra di Libia al compromesso storico, prima da leader politico, successivamente da uomo di stato. Una vita avventurosa punteggiata di tragedie, di errori, di colpi di genio come solo chi ha conosciuto il dolore è capace di fare. Il dolore di un padre che perde la figlia Vittoria nell’inferno di Auschwitz, la desolazione dell’esilio e del carcere. Sarà per questo che fu amato da due personaggi scomodi: Pierpaolo Pasolini e Oriana Fallaci. Pasolini lo riteneva una persona di cui fidarsi, con quel “basco da intellettuale e la faccia casalinga, romagnola”, Oriana un giornalista eccellente e un socialista galantuomo. Una vita in quattro atti, quella di Pietro. Gli esordi sono da rivoluzionario. Dev’essere stata l’aria di Romagna a influire sul carattere. Una terra particolare se ha dato la vita a Mussolini e a Bombacci, a Balbo e a Costa, tutti figli di un anticlericalismo viscerale aggiogato al sogno della palingenesi senza compromessi. Pietro nasce repubblicano, si fa le ossa contro la guerra di Libia, trascorre un anno nella stessa cella di Mussolini. Tra i due nasce un’amicizia profonda che si rompe quando il fascismo mostra la faccia squadrista al servizio degli agrari. Si incontreranno per l’ultima volta a Cannes nel gennaio del 1922. Una notte drammatica passeggiando sul lungomare, con Nenni che accusa Il Duce di aver tradito i valori di un tempo e di essersi venduto alla borghesia. Il secondo atto si spalanca di fronte alla tragedia del socialismo italiano. È Pietro ad opporsi alla liquidazione del partito già trattata a Mosca da Menotti Serrati. ‘ Non si getta una bandiera in un canto’ – scriverà su l’Avanti! chiamando a raccolta quanti si oppongono alla confluenza nel partito comunista. Siamo all’inizio del 1924 e per la prima volta Nenni incrocia la tenacia solitaria di Matteotti, tutto proteso in una lotta all’ultimo sangue contro Mussolini e il nascente regime fascista. Sarà proprio Nenni a leggere nell’omicidio di Matteotti, accanto a ragioni politiche, quell’intreccio affaristico che il deputato socialista stava per denunciare. Petrolio e mazzette. Il secondo dopoguerra archivia il ‘ ventennio’ e inaugura l’Italia repubblicana. Anni che coincidono con l’errore più grave e con l’intuizione più grande. La battaglia contro la monarchia e per il voto alle donne portano soprattutto la sua firma. A differenza degli altri leaders, Nenni non ha dubbi, sposa immediatamente entrambe le eresie. Chi legga i verbali del Consiglio dei Ministri s’imbatte in una fermezza cristallina. Doppia vittoria accompagnata da una mezza sconfitta sull’impianto della nuova costituzione. I socialisti avrebbero voluto marcare una maggiore laicità della Carta. Ma l’errore che segnerà per anni le sorti del socialismo italiano si compie con le elezioni del 1948: la formazione del Fronte Popolare. Una debacle con effetti difficili da smaltire. Il cammino autonomistico del PSI riprenderà solo più tardi e condurrà al primo vero governo riformista che l’Italia possa vantare. Il centro sinistra della scuola per tutti, della sanità pubblica, della riforma urbanistica, della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Insomma, un’Italia più civile e più libera. Nessun paragone con questo tempo, salvo una riflessione. Nenni intuì prima di ogni altro le conseguenze del ‘ diciannovismo’. A differenza dei comunisti, da Gramsci a Togliatti, lesse correttamente il futuro: l’Italia s’incamminava sulla strada della dittatura. Non vaticino affatto un ritorno al passato, tuttavia vedo crescere ovunque forme illiberali e desiderio di uomini soli al comando. Consiglio "Storia di quattro anni". Nenni la pubblicò nel 1926. Lettura quanto mai utile. Il politico “a tutto tondo” vedeva lontano.

Il Poverismo.

Contrordine, compagni: i giovani vanno stroncati. Max Del Papa, 22 agosto 2020 su Nicolaporro.it. Negli anni Settanta la sottocultura populista del Pci puntava sui giovani, li blandiva, li lusingava nel chiaro intento di farne tesserati, elettori ma, ancor più, di colonizzarne sensibilità e opinioni secondo insegnamento gramsciano. Essendo all’epoca imperante la sottocultura comunista, il gioco riusciva oltre le aspettative e siccome c’è sempre qualcuno più puro che ti spazza via i più fanatici e esagitati sfuggivano a sinistra dandosi in pasto ai movimenti terroristici o nell’alone della sovversione. In altre parole, al Pci si scoperchiò il vaso di Pandora e per un bel tempo non riuscì a chiuderlo né col condizionamento moralistico né con le ronde e i servizi d’ordine del sindacato o la paranza militare di partito. Oggi, anno nefasto 2020, la sottocultura populista del Pd 5 Stelle punta ancora sui giovani ma per ammazzarli, per stroncarli sotto colate laviche di manicheismo. I giovani da “nuovo proletariato” a cialtroni viziati, debosciati da discoteca e da movida, primi e unici responsabili del contagio che non c’è o se si preferisce c’è ma non ferisce, non è paragonabile alla falcidie di un Covid invernale tutto ancora da capire, da arginare, da curare. Il motivo è presto detto. I giovani non votano più a sinistra, tranne nei serbatoi conformisti dei Parioli e delle altre zone a monopattino elettrico imposto; quelli che ascoltano la vecchia Fiorella Mannoia o l’emergente Motta, evitabile, inesistente nell’arte ma ben piazzato nel circo da festa dell’Unità. I partiti fanno i loro calcoli. Persi i giovani, il target mercantile è quello dei migranti e di questi è vietato riferire i contagi veri o potenziali. I migranti che non migrano, che fuggono da guerre perlopiù inesistenti non sono infettati e non infettano: i monatti sono i giovani nostrani sui quali conviene dirottare emergenza e conseguenze. “Non fatemi fare la parte del maestrino” dice il ministro Speranza, che pare un precario della salute; poi parte con la retorica dell’irresponsabilità addossata ai giovani. “Negazionisti”, che sarebbe a dire aguzzini da Olocausto. Tanto per tenersi bassi. Tutto il resto, i pezzi di stoffa che non proteggono, le proiezioni e le cassandrate scentrate dei virologi da salotto, il virus che, come il presidente Giuseppi, agisce col favor delle tenebre, nella notte come il ladro biblico, tutto è pretesto e serve a un grumo di scopi, nessuno dei quali raccomandabile ma tutti evidenti al punto che nessuno si dà la pena di nasconderli. Come il critico d’arte organico Tomaso Montanari – ma perché questi neocomunisti di risacca e di censo hanno tutti il vezzo della consonante mancante, Tomaso, Mariana? L’hanno messa in un caveau a Lussemburgo? – che non si fa scrupolo a dire: “Col Covid non bisogna votare”. No, non bisogna votare e non bisogna tornare a scuola perché quella caricatura di ministro naviga allo sbaraglio, e bisogna chiudere la filiera del divertimento, più o meno sbracato, perché ci sono 4 intensivi al giorno e 50 contagiati su 60 milioni e i morti vengono attribuiti al Covid e poi si scopre che sono morti per tutt’altri motivi, e il virologo candidato Lopalco riferisce di epidemie pugliesi che nessuno ha visto e quando lo sbugiardano non fa una piega. Insomma più teniamo alta l’isteria e meglio è, abbiamo solo da guadagnarci: tutto si tiene. E qui si capisce una cosa, che l’insofferenza montante non è temerarietà, non volontà di nuocere ma odio a pelle, a istinto per le imposizioni sempre più assurde, per il neoconformismo di regime, per insofferenza a pelle per il populismo moralistico, per il controllo sanitario, per il terrorismo autoritario. È il governo che ha scatenato una guerra di pensiero e di opinione; è il governo che ha imposto vincoli sempre più soffocanti e demenziali e ingiustificati; è il governo che ha martellato con una propaganda allucinogena; è il governo che ha abusato, fino allo stupro sociale, dei suoi poteri per stritolare libertà sulla Carta garantite; è il governo che ha sbagliato strategia economica nella crisi e ha palesato il suo odio per l’iniziativa privata; è il governo che ha scelto di andare ai materassi, di truccare le carte per imporre se stesso colpevolizzando chi si ostina a ragionare, a lavorare, a vivere. Siamo al punto che se una donna rifiuta di infilarsi la mascherina nella sua macchina privata, imbarcandosi su un traghetto, il comandante blocca la partenza, chiama i carabinieri, la classica sceneggiata degli zelanti, dopodiché la malcapitata viene macellata sui social in una furia che non ha più niente di razionale, di umano: non discutono sull’opportunità, le dicono, in un mare di insulti da trivio: devi obbedire, devi fare quel che devi fare. È il governo che ha imposto questa guerra. Il governo e nessun altro. Oggi il dibattito sulla reale efficacia dei tamponi, dei presìdi, delle misure preventive non c’è e non può esserci perché non ne esistono i fondamenti scientifici e logici: il potere ha imposto il suo gramscismo virale esigendo obbedienza cieca e scatenando il killeraggio per i dissidenti, primi dei quali i giovani da non corteggiare più. Ma nel Fermano, centro del centro Italia, circolano voci inquietanti: chiuso il lockdown a maggio, le autorità avrebbero intrapreso nella massima discrezione uno screening sugli extracomunitari, secondo prescrizioni discese dal Viminale: i risultati pare siano traumatici, il quadernino coi positivi sarebbe lievitato a un volume da pagine gialle.  Nell’impotenza della sicurezza, dei corpi di polizia e sanitari che si limitano a pregare gli interessati di andare in giro il meno possibile. Strategia da gesuiti, ma non lo si deve dire, anche questo in coerenza con le prescrizioni governative. Allora che fare, come giustificare potenziali recrudescenze? Le si dirotta sui giovani che si baciano o fanno festa. Tanto nessuno potrà smentire, l’origine di un contagio è quasi esoterica, quello che conta sono i positivi ma i positivi esistono se li cerchi, altrimenti non fanno statistica. E se qualcuno obietta, se sospetta focolai esotici, gli si scatenano contro i giornali, i provocatori da social, gli intellettualini organici che vogliono democraticamente vietare le elezioni. È questo governo di clown che si stanno rivelando macabri ad avere scatenato il massacro, una provocazione dietro l’altra, e adesso ci stiamo accorgendo, col giusto terrore, che “non era che un debutto”, che il peggio deve ancora venire. In tutti i sensi. Ha detto a chi scrive una madre single con figlio malato: “Se mi impongono un altro lockdown di mesi, noi due soli in casa per mesi, abbandonati da ogni servizio pubblico, scaricati a noi stessi io non lo subirò: ho già pronte le medicine definitive per tutti e due”. Max Del Papa, 22 agosto 2020

Le matin des magiciens: «Lenin diceva che il comunismo è socialismo più elettrificazione. In un certo senso, l'hitlerismo era il guénonismo più le divisioni corazzate».

Berruti sulla Boschi: "Vi racconto la prima sera con lei È caduta dalla sedia, poi il vino..." E ora Giulio Berruti parla a ruota libera sulla sua storia d'amore con Maria Elena Boschi, e lo fa nel salotto di Verissimo. Carlo Lanna, Sabato 31/10/2020 su Il Giornale. Quella tra Giulio Berruti e Maria Elena Boschi è stata la storia d’amore più chiacchierata della scorsa estate, una delle tante in epoca Covid. Lui è un attore molto celebre, da poco lanciato anche tra il pubblico americano, lei è il capogruppo di Italia Viva dal settembre del 2019. Due anime che, per curo caso, si sono incontrate per non lasciarsi mai più. È stato amore a prima vista e, anche se Giulio Berruti e la Boschi all’inizio hanno cercato di sviare l’attenzione da parte del pubblico, le foto e gli incontri sono fugaci apparsi tra le riviste di gossip sono stati inequivocabili. Ora l’attore dai profondi occhi azzurri è ospite a Verissimo nel salotto di Silvia Toffanin e, nella puntata in onda il 31 ottobre, rivela i retroscena sulla sua storia d’amore con la Boschi. Le dichiarazioni sono molto sentite e non passano di certe inosservate. "Sono felice al momento. Maria Elena è una persona a cui voglio un gran bene – esordisce Giulio Berruti di fronte le telecamere -.Lei è una donna speciale. Quando la vedo e le sorrido, penso sempre che io non sono abbastanza per lei. Ha un gran cuore. È una donna dalla grande umanità", afferma. Poi, successivamente, regala qualche dettaglio in più sul loro primo incontro. E, da quel sembra, il loro non è stato amore a prima vista. Anzi, si è sedimentato con il tempo. "Ci siamo incontrati nel 2014 all’uscita di un cinema. Poi ci siamo rivisti tre anni dopo a un evento – racconta -. Finito il lockdown e dopo che io avevo chiuso una precedente storia d’amore, ci siamo rivisti e pian piano è nato un rapporto speciale – rivela Berruti -. Elena è propensa all’ascolto, è attenta ai bambini e alle persone in difficoltà. La prima volta che si è fermata da me mi ha chiesto di pregare per le persone che soffrono. Alla fine, non avrei mai pensato di innamorarmi di una donna che fa politica", ammette. Una storia d’amore che è stata vissuta dunque con serenità. E durante l’intervista, Giulio Berruti racconta anche qualche aneddoto divertente. "La prima sera che è venuta a cena da me è caduta dalla sedia e ha fatto cadere il vino. In quella vulnerabilità e in quella goffaggine ci siamo ritrovati". E poi: "Vorrei tanti figli. Tra noi ne abbiamo parlato. Poi si vedrà", conclude. Sul futuro? Non resta che attendere gli sviluppi.

Le sante notti della Boschi: "A casa prega per i poveri". Paolo Bracalini, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Santa Maria (Elena), prega per noi. La ricordavamo Madonna nel presepe vivente di Valdarno, neppure diciottenne, il «viso paffuto, la tunica bianca e lungo velo blu», il prete già conscio del suo valore: «Una bella persona». La ritroviamo, dopo vent'anni di carriera tra società partecipate, ministeri e scranni parlamentari, malgrado l'apparenza da donna di potere, invece ancora assorta nell'afflato mistico-religioso, proprio come da adolescente catechista di Laterina. Lo testimonia il nuovo fidanzato Giulio Berruti, con cui la Boschi è spesso colta avvinghiata dai paparazzi, ma anche in quei momenti l'apparenza inganna: in mente ha prima di tutto i poverelli. «Maria Elena è una persona molto dolce, dalla forte umanità - racconta l'attore a Verissimo -. È propensa all'ascolto, attenta ai bambini e alle persone in difficoltà. La prima sera in cui si è fermata da me mi ha chiesto di pregare per le persone che soffrono». Il padre vicepresidente di Banca Etruria, la madre vicesindaca del paesello, poi la fulminea collezione di poltrone con Renzi prima a Firenze e poi al governo, la sua ferrea volontà di essere ricandidata («Se vince il No al referendum lascio la politica», aveva detto) e pure riconfermata sottosegretario con il governo Gentiloni, da ultimo le foto delle sue vacanze in barca a Ischia, devono aver dato un'immagine sbagliata di lei. Non ha sete il potere, ma di giustizia nel mondo. Non è una zarina pronta a imporsi per ottenere quel che vuole, al contrario è vulnerabile e impacciata, sempre presa com'è dall'assillo per i più derelitti. Lo assicura sempre il fidanzato, con un'altra parabola dai loro primi incontri: «La prima volta che è venuta a cena a casa mia, è caduta dalla sedia e ha fatto cadere anche il vino, sporcandomi la camicia. In quella vulnerabilità e goffaggine reciproca ci siamo un po' trovati». Goffa, come quando in Alto Adige, dove fu candidata per essere sicura di rientrare alla Camera, abbozzò un breve discorso in tedesco per compiacere i sudtirolesi. Maria Elena, prega per noi.

Dall’account facebook di Fulvio Abbate il 13 agosto 2020. Per spiegare (almeno a me stesso, e a chi abbia voglia di intuire lo stato generale delle cose, anzi, del precipizio) ovvero la dissoluzione, la sparizione capillare della Sinistra in Italia, al momento, cercando di vederci più chiaro, ecco che mi soffermo su una foto (dello scorso maggio, fine lockdown) di Maria Elena Boschi. Un’immagine che la mostra sullo sfondo secondario di Ponte Vecchio, a Firenze. Ora direte: c’entra forse qualcosa la renziana Boschi con la Sinistra? Appunto, poco o nulla. La prossemica stessa della ragazza, semmai, più che plasticamente mostra il soggetto politico- antropologico ulteriore, che avrebbe dovuto, mostrando se stesso in modo post-ideologico, sostituire, diciamo, una narrazione che per semplicità definiremo appunto “di Sinistra”. “Famo a capisse”, dicono in questi casi, ragionando su alcuni nodi cruciali, esattamente a Roma. Semplifico ancora di più, una realtà politica che, mossa da voglia di rabbia e tenerezza, nasconde le vecchie bandiere rosse e il germe iniziale della storia e “l’epopea degli umili”, volti e luoghi che Bernardo Bertolucci ha provato a restituire quarant’anni fa con “Novecento”; già nel dire così immagino gli altri volti, perplessi, di coloro che, in nome della “modernità”, reputano l’immagine stessa del “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo non idoneo alle moquette, ai parquet, all’ “ouftit” (termine orrendo, che qui utilizzo solo perché proprio del linguaggio altrui, delle società in rapido mutamento glamour. Dunque, una narrazione che non riferiremo al mondo dei raduni comunisti in piazza San Giovanni a Roma, come li restituisce in “Dramma della gelosia” Ettore Scola, mostrando, nei primi anni Settanta, il derelitto mortodifame Oreste Nardi-Marcello Mastroianni innamorato inconsolabile della barbona Adelaide Ciafrocchi-Monica Vitti, durante il comizio di “Pietro”, nel senso di Ingrao. E neppure quegli altri volti del coté intellettuale, per restare nell’ambito di Scola, che affollano “La terrazza”, crema borghese appaltata al salotto progressista. Desertificato anche ogni pensiero antagonistico a favore di una pedagogia piagnona e anerotica. Altre paesaggi e conversazioni, perfino altra geopolitica, posto che oggi immaginare Che Guevara e “compagni” in segreta partenza per la Bolivia dove far germogliare laggiù  - 10 100 1000 Vietnam - la guerriglia terzomondista, fa quasi sorridere, appare come pura allucinazione storico-lisergica; nessuno metterebbe più alle spalle della propria scrivania lo stesso ritratto di Gramsci dirigente dell’Ordine Nuovo nei giorni dell’occupazione armata delle fabbriche, 1919-1920, al massimo come martire-maestro, così come figura sul cofanetto eponimo degli Editori Riuniti. Nella foto della Boschi cui accennavo, c'è una piacente ragazza bionda, appoggiata sul parapetto, l’Arno di sfondo, Ponte Vecchio alle sue spalle,  ma soprattutto, cercando il “punctum”, per dirla con il semiologo Roland Barthes, cioè il dettaglio più espressivo custodito dallo scatto, anzi, l’elemento più “politico” dell’intera foto, più significante, ecco che lo sguardo si ritrova calamitato unicamente dalla H dorata della fibbia della cintura indossata dalla capogruppo di Italia Viva alla Camera dei deputati; l’icona per definizione renziana. In molti, perfino creature duttili già di Sinistra, quando è apparso Matteo Renzi, hanno gridato al miracolo, hanno immaginato l’avvento benefico, finalmente, di una figura in grado di “svecchiare” il Partito democratico, una forza politica zavorrata dal peso dell’eredità comunista e infine post-comunista. Oggi come oggi, a dirla tutta, la Sinistra è completamente svanita, ma anche Renzi, la cura che avrebbe dovuto darle un destino ulteriore, non dà segnali d’esistenza; escludendo il gioco dei veti e delle ripicche governativi e parlamentari,  ciò che resta della “rottamazione”, altra parola del cazzo. Su tutto, campeggia quell’H, iniziale di un marchio-griffe di lusso e orgoglio globali, planetari, di più, provinciali, rionali, da sabato in discoteca. La stessa cintura che, fanno notare i più meticolosi, sul mercato ha un costo assai superiore alle migliaia di euro. Assodata la miseria del dibattito politico perfino pubblico, ormai circoscritto alle varie ed eventuali di un governo retto da estranei improbabili sotto la nube nera evidente delle meccaniche capitalistiche in affanno, resta ragionare in grande, chiarito che il crash della Sinistra non è un semplice fatto periferico, come già per il Covid. Il virus del suo prosciugamento è presente anche altrove. In Francia, la roccaforte del Parti socialiste già di Mitterrand e succedanei, è di fatto franata, la sede di rue de Solférino, come dire la chiusura del salotto di rappresentanza, è finita in dismissione; per non dire del Pcf, la cui sede spettrale progettata da Oscar Niemeyer è ancora lì intatta come appunto astronave aliena. La sala delle assemblee dell’edificio custodisce un gioco di rifrazioni tale da cancellare ogni ombra, compresa quella eventuale portata dalla mano che impugna una penna nell’atto di prendere appunti, anche questa una metafora, per chi avesse voglia e talento per le spiegazioni metafisiche. Tornando all’immagine della compiaciuta Boschi con la sua cintura griffata H., non esiste, almeno al momento, immagine più simbolica di questa per raccontare il trapasso. In tutti i sensi. Già evidente nella fabbrica del consenso che Enrico Letta volle piazzare sotto l’insegna di “Vedrò”, il suo laboratorio. E’ stato proprio “Vedrò” il bacillario di ciò che in seguito, altri, avrebbero ottenuto. Intendiamoci, nessuno pensi che si tratti di una riflessione nostalgica di tipo operaista, l’attuale populismo suggerisce semmai soltanto subcultura: la diminuzione dei deputati come “giusta punizione” per la classe politica, i parlamentari come “proci”, privilegiati con bandoliere colme di benefit. La Sinistra non ha saputo rispondere al populismo montante, non ha saputo spiegare ai suoi stessi sostenitori e perfino militanti la complessità delle cose. Senza però mai rimuovere l’ossessione governista, ha insistito nella convinzione che solo da una prospettiva istituzionale si possa incidere sulla meccanica delle cose. Può anche darsi che la Sinistra non sia idonea a questa nostra epoca, ma la convinzione che debba mostrarsi mutante, estranea al suo stesso germe, così da diventare convincente agli occhi degli estranei , la rende risibile, e nessuno pensi che in questa considerazione ci sia nostalgia per le cellule che ancora adesso fanno riferimento, metti, a ciò che resta di Rifondazione con il suo intatto perverso leninismo. L’abbraccio possibile e ventilato con il Movimento 5 Stelle, diportisti del sapere politico e culturale stessi, analfabeti degni dei nostri più stupidi e insieme “convinti” compagni di scuola, palestra, cral, muretto, officina di meccanico per ciclomotori, sarà forse il colpo di grazia definitiva; la sua testa nel cesto.

P.S. Questo pezzo sarebbe dovuto uscire su una testata tra quelle cui collaboro, ma l’obiezione che la foto non sia recente, e dunque avrebbe potuto sembrare un attacco pretestuoso, ha fatto così che lo utilizzassi per una semplice nota; ai miei occhi, frangetta o fibbia, il tempo per certe creature resta intatto, immobile nella sua sostanza piccino-borghese, di più, provinciale da la-più-bella-della-festa. 

Lettera di Massimiliano Parente a Dagospia il 13 agosto 2020. Caro Dago, ma davvero il mio amico Fulvio Abbate non ha trovato di meglio da criticare a Maria Elena Boschi che una cintura di Hermes? Indossando la quale non sarebbe di sinistra? Perché se siamo ancora lì siamo messi male, ancora legati all’idea di una sinistra stracciona e poverista, ancora lontani dall’idea di una sinistra moderna e capitalista come in Italia fu solo di Bettino Craxi, non per altro lo volevano morto. Una cintura di Hermes, e allora? Conosco moltissimi ricchi che le cose griffate possono permettersi di comprarsele false, mentre i poveri se le comprano vere perché sono spesso meno furbi ma più intelligenti, e in ogni caso non vedo che male ci sia, non certo tanto male da attaccare un pistolotto da Bertolucci a Che Guevara alla guerra del Vietnam, meno male anzi la Boschi non è rimasta impantanata lì. Un altro mio amico intellettuale sicuramente di sinistra è Giampiero Mughini, che Fulvio ha spesso intervistato, ma mai gli ho visto chiedergli perché Mughini abbia speso tutti quei soldi per un vaso di Gaetano Pesce o un Mao di Andy Warhol o una giacca da 5000 euro comprata da Degli Effetti, anche perché gli avrebbe risposto che per comprarseli ha versato per anni metà del suo stipendio allo Stato, più di sinistra di così si muore. D’altra parte di quanto Fulvio fosse del tutto fuori strada dal punto di vista ideologico lo capii quando scambiò per una “dragster da pista di Indianapolis” la DeLorean di Ritorno al Futuro che Matteo Renzi scelse come simbolo della Leopolda, che culturalmente è come confondere Freddie Mercury con Massimo D’Alema. A proposito di Freddie Mercury lui sì che è un mio idolo, e da scrittore moderno sono venuto a rendergli omaggio a Montreaux, in Svizzera, dove Freddie compose le sue ultime canzoni prima di morire di AIDS. Attaccato l’anno scorso da quel nano no-vax di Red Ronnie perché i Queen suonarono a Sun City, quando casomai proprio il loro concerto segnò simbolicamente la fine dell’apartheid, insomma cosa c’è di più rivoluzionario che cantare travestito da donna I want to break free nel Sud Africa razzista. Ecco, secondo me la sinistra, e anche Fulvio Abbate, e volendo anche la destra liberale, devono ripartire proprio da lì, da Freddie Mercury. Baci, Massimiliano Parente

Lettera di Fulvio Abbate a Dagospia il 13 agosto 2020. Dove l’amico Massimiliano Parente abbia visto un riferimento al “pauperismo” nelle mie parole sulla cintura di Maria Elena Boschi, renziana, pubblicamente orgogliosa di una griffe fregiata H, marchio del glamour affluente provinciale, resta, ai miei occhi, un mistero inspiegabile, assoluto, tragico. Nonostante tutto, non ho finora marcato a sufficienza l'alterità dal banale edificante comune alle anime belle, diciamo, progressiste. Limite e colpa miei, evidentemente. Riflettendo infatti in termini semiologici sull’immagine pubblica della Boschi, da molti indicata come esempio di apprezzabile mutazione in senso finalmente “moderno” di una forza democratica e, a suo modo, comunque “di sinistra”, ho unicamente marcato, ripeto, l’orgoglio feticistico piccolo borghese custodito nell’ostentazione di un significante provinciale. Sotto la cintura, niente; direbbero alcuni semplificando il tema con una parafrasi pop. Posto che quell’accessorio è il segno più ideologico custodito nell’intero scatto, surclassando perfino lo stesso Ponte Vecchio alle sue spalle. Sono costretto così a precisare che Petr Kropotkin era principe, e Mikhail Bakunin, non meno rivoluzionario anarchico, era conte (accludo per puntiglio lo stemma di famiglia di quest'ultimo) e ancora, accennando al germe della nostra Sinistra, aggiungo l’immagine della sciabola del nobile Carlo Pisacane, custodita nel Museo del Risorgimento di Roma, è con lui che le bandiere rosse irrompono nel Risorgimento. Aggiungo ancora un episodio non meno chiarificatore che inquadra il palermitano Alessandro Tasca Filangeri di Cutò, socialista fra le due guerre, questi, fermato dai birri - “Siete voi Alessandro Tasca?” - di rimando, rispose: “Per tutti, sono Alessandro Tasca, per voi sono il principe di Cutò”. Il figlio di questi, anch’egli Alessandro, sarà amico e collaboratore di Orson Welles per la produzione dei suoi film. La Sinistra "delle mie brame" sia sontuosamente ricca ed intellettualmente elegante, inarrivabile, nel senso più assoluto della parola; nessuna roba da parvenu, orgogliose delle griffe planetarie provinciali, nessuna posa da la-più-bella-della-festa. Quanto al pop da te chiamato in causa, degno dell’adagio acefalo sui “comunisti con il Rolex”, Massimiliano caro, mi trovo altrettanto sideralmente distante dal pop imperiale, “pompier”, di Freddy Mercury. Dove sarebbe in breve il mio appello al “pauperismo”? Firmato: marchese Fulvio Abbate.

Andrea Ranieri per “Avvenire” il 13 agosto 2020. È urgente un punto di vista alternativo alle visioni dominanti Caro direttore, c'è necessità di riconsiderare da un punto di vista alternativo alla visione dominante la questione della povertà e del cosiddetto sottosviluppo. “Avvenire” richiama a questo da tempo e con diverse voci, e con particolare intensità con vari articoli di Luigino Bruni. I poveri, le aree interne, i Sud del mondo soffrono innanzitutto della mancanza di riconoscimento delle loro scelte e specificità da parte del pensiero economico e politico sinora prevalente. La loro presunta arretratezza nasce in realtà dal fatto che si concepisce un solo tipo di sviluppo, trainato dalla crescita economica, dagli incrementi di produttività, dai consumi. La povertà va combattuta per far ripartire i consumi. Uscire dalle crisi, da quella finanziaria come da quella oggi indotta dal coronavirus, è l'imperativo. Per ricostruire, negli auspici, quello stesso mondo che aveva provocato la crisi economica e la crisi ambientale. Occorre allora ragionare - e questo credo sia l'avvio del percorso che Bruni ci invita a fare - sulla povertà non solo come una condizione da cui uscire (povertà imposta) ma come una condizione consapevole (povertà scelta), per provare a evitare il baratro in cui la crescita senza limiti di prodotti e consumi sta precipitando il mondo. La difesa a tutti i costi degli stili di vita dell'Occidente sta dando origine a una nuova "umanità", che distrugge gli habitat di animali e piante, e che assiste senza battere ciglio allo sterminio di esseri umani in fuga dalla guerra e dalla fame. L'unica alternativa è decidere e organizzarsi in Occidente per diventare più poveri, ridurre il nostro consumo di terra e di energia. Essere più poveri non significa la miseria. Anzi, credo che decidere di diventare più poveri e più uguali sia la strada per sconfiggere la miseria anche qui da noi. Contro la prospettiva dissennata che protegge e promuove la ricchezza, anche dei pochi, perché prima o poi sgocciolerà anche nelle tasche dei poveri. Una prospettiva dissennata, da un punto di vista sia umano sia ambientale. Che si è fatta vanto persino di sostenere il lusso e lo spreco, e insegna ai poveri a sognare i sogni dei ricchi, quello di poter attingere prima o poi allo stesso orizzonte di consumi, a ricercare nei consumi la propria identità, il senso della propria vita. Superare la miseria nel mondo di oggi non può avvenire, pena la distruzione del mondo e nel frattempo la distruzione della solidarietà e dell'amore per gli altri esseri viventi dentro di noi, solamente con la pur necessaria redistribuzione del reddito. Si diventa più uguali tassando con equità i patrimoni e i consumi dei ricchi ed estendendo il più possibile i beni che sono di tutti - quelli che vanno sottratti alla compravendita e al mercato: la cultura, la salute, l'istruzione, il paesaggio, la terra -, riportando il valore delle cose al loro valore d'uso, a quello che serve per vivere bene nel rispetto della natura e degli altri esseri viventi. Le persone migliori che ho incontrato nella vita erano povere. Operai che erano fieri di vivere del proprio lavoro, lottavano perché il loro salario fosse sufficiente per un vita degna, e difendevano con il contratto il loro stipendio, ma insieme conquistavano la scuola e la sanità gratuita, e non amavano fare gli straordinari, perché un po' di consumi in più non poteva valere il prezzo di consegnare ad altri un tempo ancora più grande della propria vita. E poveri sono gli abitanti dei tanti posti del mondo che difendono le loro terre dalla distruzione a opera dei cercatori di combustibili fossili e di altre materie prime, che stanno distruggendo la possibilità di vivere del proprio lavoro sulla propria terra, e che, prima ancora del diritto a muoversi, rivendicano il loro diritto a restare attaccati alle proprie radici, condizione per potersi muovere liberamente. Che significa partire da luoghi in cui è possibile tornare. Si sono fatte povere, in nome di carità e giustizia, per strappare alla miseria quelli più poveri di loro molte delle persone migliori del secolo che ci sta alle spalle, da Simone Weil a don Lorenzo Milani, a Danilo Dolci. La «bancarotta dell'umanità», come la chiama papa Francesco, ci riporta al punto di rottura della nostra storia che Pier Paolo Paolini colse all'inizio degli anni 60 del Novecento: il consumismo, che aveva inserito tutto il popolo nell'orizzonte economico e culturale della borghesia, e reso impossibile lo stesso pensiero di una vita diversa. In uno dei suoi articoli pedagogici per l'educazione del giovane Gennariello scriveva: «Perché c'è un'idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l'idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura delle classi dominanti. In altre parole la nostra colpa di padri consiste in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese ». Gli anni del dopoguerra furono anni di grandi lotte per la redistribuzione della ricchezza e per permettere alle grandi masse di accedere all'orizzonte dei consumi. La stessa democrazia, lo stesso consenso al potere si misurava su questa promessa di crescita indefinita. La stessa idea d'Europa fu concepita - parole di Ugo La Malfa - come un modo per valicare le Alpi e per non sprofondare nel Mediterraneo. Il fatto è che questa storia è finita. Questo tipo di 'crescita' ha trovato il suo limite ed è entrato in conflitto con la stessa possibilità di sopravvivenza del genere umano sul pianeta. I fattori che generano la diseguaglianza sono oggi in gran parte fuori dalla portata delle stesse, pur sacrosante, tradizionali politiche redistributive delle Stato keynesiano. Le politiche progressiste e sviluppiste sembrano sempre più la ricerca spettrale dei futuri perduti che una risposta alla drammatica e insostenibile situazione presente.

·        La bella vita dei comunisti.

TOMMASO LABATE per il Corriere della Sera il 26 agosto 2020. «Capalbio? Non ci vado più da trent' anni», taglia corto Achille Occhetto, il leader comunista che con un bacio stampato sulla bocca della moglie Aureliana - immortalato più di trent' anni fa dai paparazzi proprio nel borgo in provincia di Grosseto - aveva involontariamente lanciato nella cultura di massa il mito della «piccola Atene» della Maremma, all'epoca patrimonio esclusivo dell'intellighenzia della sinistra italiana. All'uomo della svolta del Pci, lo si capisce dal tono della voce e dall'argomentare insolitamente sbrigativo, il tema della via socialista alla vacanza piace poco; e Capalbio, oggi, gli piace ancora meno. «Senta», e qui il discorso viaggia inesorabilmente verso il più cortese degli arrivederci, «a me i posti piace scoprirli, un po' meno mi piacciono quando vengono, come dire, scoperti. L'avevo già fatto alla fine degli Anni Sessanta villeggiando in beata solitudine alle Eolie, a Stromboli. Poi arrivai a Capalbio, si era in pochissimi e si stava bene. Da un certo punto in avanti, quando ho iniziato a sospettare che andarci era diventato un esercizio pseudo-mondano, ho preferito riparare altrove. Sempre in Maremma ma da un'altra parte, a Montiano. E là non ci ho messo più piede». Nella strana estate del 2020, sbiadito il rosso che per decenni ha idealmente colorato il sole di questo lato della Maremma, a Capalbio fanno festa i registratori di cassa. «Di particolare quest' anno non è successo granché se non una cosa», spiega Chicco Testa, altro veterano della zona, con casa a Manciano. «Tutti hanno fatto un sacco di soldi. Turisti stranieri zero ma il Covid ha tenuto fermi qua tutti gli italiani che da queste parti hanno casa o che l'hanno affittata. Pieni gli stabilimenti balneari, gli appartamenti, i bed and breakfast, i ristoranti, i bar...». Le poche volte che dal suo buen ritiro in Val d'Orcia scende a fare il bagno all'Ultima spiaggia, dove dai primi vagiti del celebre stabilimento balneare la sua è stata una specie di «sdraio numero uno», il professor Alberto Asor Rosa forse non riconosce sempre, nei vicini di ombrellone, i segni di un comune album di famiglia. Resistono, fedeli nei secoli, il filosofo Giacomo Marramao, l'ex presidente della Rai Claudio Petruccioli, l'attrice Margherita Buy, Franco Bassanini, Giulio Napolitano, figlio del presidente emerito della Repubblica. A questi s' è aggiunta di recente una varia umanità che spazia dall'ex allenatore della Spal Adriano Semplici alla forzista (sempre più eterodossa) Mara Carfagna, presente assieme al compagno Alessandro Ruben. Il costo quotidiano di un ombrellone e due lettini si aggira attorno ai 50 euro, il ristorante serve specialità di pesce anche a cena e il dibattito annoiato sui destini del governo giallorosso lascia spesso e volentieri il passo alle grandi discussioni sull'emergenza Covid-19, che ha spinto la via capalbiese alla movida - il cui centro di gravità rimane il Frantoio - ad adeguarsi agli ingressi contingentati per prendere un cocktail e consumarlo fuori, ben distanziati gli uni dagli altri. Il pacchetto di mischia dell'alta finanza, che in zona ha in Carlo Puri Negri il suo nume tutelare, si ritrova invece al chiuso dell'esclusivo country club «La Macchia», di cui si favoleggiano tessere d'iscrizione per i soci dal valore di diecimila euro. A Ferragosto, a Capalbio, s' è visto anche Nicola Zingaretti. Tutti quelli che s' interrogano sulle sorti del Partito democratico hanno tentato di interpretare i segni della disavventura occorsa al segretario del Pd durante il suo soggiorno, raccontata dalle pagine locali de La Nazione . In soldoni, la macchinetta gli ha mangiato il bancomat che si era scordato di ritirare dopo il prelievo dei contanti, lui nel frattempo aveva raggiunto una macelleria di Capalbio Scalo assieme alla moglie e, una volta accortosi della dimenticanza, era tornato indietro. Inutilmente, visto che la tessera era stata già inghiottita dallo sportello. Sabato, al canto del cigno della stagione estiva, arriverà Massimo D'Alema, vincitore dello storico «Premio Capalbio» (categoria «Politica internazionale») per il suo libro «Grande è la confusione sotto il cielo», uscito per Donzelli con un saggio introduttivo sulla bufera del coronavirus. Forse perché terreno di caccia del suo antico nemico Occhetto, il primo presidente del Consiglio post-comunista non ha mai amato Capalbio, neanche ai tempi d'oro. I tempi, quelli, non ci sono più. Resistevano fino a un anno fa giusto nella retorica di Salvini, «la sinistra di Capalbio», «i radical chic di Capalbio», «gli immigrati mandiamoli anche a Capalbio». Ora anche il leader della Lega non ne parla più. Il sole al tramonto però è rimasto rosso. Quello sì.

FABRIZIO CACCIA per il Corriere della Sera il 25 luglio 2020. Ma il Gennaro Migliore, deputato di Iv, che sabato scorso era in barca, fotografato a Ischia sorridente insieme con Maria Elena Boschi e altri amici, è forse lo stesso Gennaro Migliore che rispose «Qual è il problema?» quando nel settembre 2006, da capogruppo di Rifondazione comunista, gli chiesero un commento sulla minacciosa scritta «Anche i ricchi piangano» che sormontava la foto di uno yacht? Quello era il manifesto escogitato dal suo partito di allora in vista della Finanziaria 2007: annunciava così la volontà di tassare le rendite, far pagare di più a chi ha di più. Nel frattempo, chissà, avrà cambiato idea. L'estate al mare dei politici è sempre foriera di polemiche, se poi vanno in barca diventa quasi una maledizione: Giancarlo Galan e la pesca d'altura al tonno rosso nel 2001, Gianfranco Fini e quell'immersione proibita a Giannutri nel 2008. Non ditelo, poi, a Massimo D'Alema: quanti maldipancia tra i militanti della sinistra nel vederlo per anni solcare le acque del Mediterraneo con le sue splendide, costose, barche a vela, dal Margherita all'Ikarus II . Ogni estate coi paparazzi in scia, da segretario Pds come da premier. Finì sui giornali anche quando decise di venderlo, l'Ikarus II , «per pagare il mutuo della tenuta in Umbria». Poi, luglio 2018, eccolo arrivare alla Maddalena al timone di una nuova barca. Curiosità che monta, cronisti scatenati e lui che spiega: «L'ho affittata, che male c'è?». Già. Che c'è di male? Così ha detto pure Luciano Nobili, deputato di Iv, a proposito della gita in barca a Ischia con la Boschi (c'era anche lui oltre a Migliore), mentre sui social imperversava la polemica («Vergogna, assembrati e senza mascherine»). Nobili ha parlato di «doppiopesismo delle reazioni: va in barca Di Maio, va in barca Grillo e nessuno dice niente. Questo Paese deve avere un problema di sessismo con le donne belle e brave come Maria Elena...». Mica vero: è rimasta famosa all'alba del millennio la querelle tra Grillo e lo scrittore Vincenzo Cerami che si domandava come mai la barca di Beppe non scandalizzasse nessuno, mentre quella di D'Alema faceva tanto rumore. E proprio come la Boschi, anche il ministro degli Esteri M5S, Luigi Di Maio, è incorso nella furia dei leoni da tastiera, un mese fa, quand'è stato pizzicato in barca a Ponza con la fidanzata Virginia Saba. Al post romanticissimo di Virginia su Facebook («La prossima tappa a Cagliari») qualcuno infatti, forse alle prese con la crisi post Covid, ha così replicato: «Noi invece prossima tappa Caritas».

Federica Mogherini e l'arte di cadere sempre in piedi. L'ex ministro degli Esteri della Ue è diventata co-presidente del gruppo degli sfollati Onu. L'ennesimo incarico di prestigio. Francesco Bonazzi il 14 gennaio 2020 su Panorama. Anche il Pd ha la sua piccola fuga di cervelli. Riuscita male quella di Sandro Gozi, ex sottosegretario agli Affari europei negli esecutivi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, che a fine ottobre ha dovuto dimettersi da consigliere politico del premier francese Edouard Philippe perché aveva mantenuto una consulenza anche con il governo di Malta. Riuscita invece benissimo quella di Federica Mogherini, otto mesi appena da ministro degli Esteri dell’ex Rottamatore fiorentino, cinque anni come Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’Unione europea (più familiarmente Lady Pesc) e dai primi di dicembre all’Onu, come co-presidente del gruppo sugli sfollati istituito dal segretario generale António Guterres. Davvero non male per una specie di Forrest Gump della politica estera, imposta a Bruxelles dall’ex premier fiorentino nonostante la poca esperienza, ma subito assai lucida nel capire che quella forzatura le avrebbe sbarrato la porta del ritorno nel Pd e che avrebbe dovuto giocare tutte le sue carte per diventare non un ambasciatore dell’Italia e dei suoi interessi nelle istituzioni internazionali, ma per smarcarsi dal proprio passaporto e farsi cooptare dalle alte burocrazie degli organismi internazionali. E per ottenere questo risultato, da ministro della Commissione Juncker, ha viaggiato tantissimo negli Stati Uniti e ha appoggiato qualsiasi iniziativa del Palazzo di Vetro. Notevole, per una che era partita dalla sezione romana del Pd di Ponte Milvio, la stessa che ai tempi del Pci era frequentata da Enrico Berlinguer, e dal giro «sgobbone» ma un po’ autoreferenziale di Walter Veltroni, suo primo mentore. Fra il 30 novembre e il 5 dicembre scorso, la Mogherini, 46 anni, è rimasta senza poltrona. Giusto il tempo di fare le valigie da palazzo Berlaymont, sede della Commissione Ue, al nuovo prestigioso incarico all’Onu per occuparsi di 41milioni di sfollati, picco storico raggiunto nell’ultimo anno. Ma è ovvio che un atterraggio simile dopo il quinquennio a Bruxelles non si prepara in cinque giorni. Dopo anni di posizioni pubbliche a favore dell’Onu e dei suoi inviati nelle aree di crisi, già in primavera i diplomatici europei di stanza a New York davano per certo un suo arruolamento al termine del mandato europeo. Da tempo, del resto, quando tornava a Roma, lei diceva agli amici che non sarebbe tornata nella politica italiana e neppure si è espressa, nelle ultime settimane, sulla scissione di Italia viva dal Pd. Lei che pure nel Pd aveva fatto tutta la carriera interna fino a responsabile esteri, lanciata da Veltroni, confermata e appoggiata da Piero Fassino, Pierluigi Bersani e poi non solo risparmiata, ma addirittura nominata ministro da Renzi. Affidabile, certo, ma nello slalom tra correnti e faide interne del Pd, forse la batte solo Dario Franceschini, l’uomo-liana. A marzo, probabilmente, la nuova poltrona era già decisa e in occasione del convegno newyorchese Women in power fece anche una dichiarazione decisamente impegnativa su ruolo e utilità dell’Onu. «Per noi europei, supportare le Nazioni Unite è il miglior investimento», disse con sincero trasporto nel suo consueto, impeccabile, tailleurino. Ritenuto da molti osservatori un organismo quasi inutile, non si sa se l’Onu sia davvero il «miglior investimento» per l’Europa, ma di sicuro lo è stato per l’ex Lady Pesc. Il 5 dicembre è dunque arrivata la nomina, insieme all’ex presidente dell’African Development Bank, Donald Kaberuka, alla guida del gruppo di lavoro alle dirette dipendenze del segretario generale Guterres. Per Mogherini si tratta di un primo passo importante con il quale entra nel «sistema Onu», al pari per esempio di un big come Romano Prodi, spesso utilizzato per incarichi e missioni speciali in varie regioni di crisi. E il Natale della Mogherini, figlia della buona borghesia romana (il padre lavorava nel cinema e la zia Isa Mogherini è stata una grande sceneggiatrice), liceo ai Parioli e laurea in scienze politiche, è stato allietato anche da un prestigioso premio tedesco, il «Theodor Wanner», ricevuto a Berlino dal ministro degli esteri Heiko Maas lo scorso 18 dicembre. Il riconoscimento tedesco suggella un quinquennio a Bruxelles non scialbo e neppure con gravi passi falsi come molti temevano, vista la totale inesperienza che aveva nel 2014, quando Renzi fece fuoco e fiamme per imporla come Lady Pesc, ma che alla fine non ha cambiato nulla di quello che il Rottamatore voleva cambiare. Mister (o lady) Pesc è già di per sé una strana creatura perché risponde per metà alla Commissione Ue e per metà al Consiglio d’Europa e storicamente non combina molto, deve sgomitare tanto, perché Paesi come Francia e Germania sono abituati a imporre la propria politica estera. Se poi si aggiunge che Mogherini aveva preso il posto di Margaret Ashton, un’algida e poco comunicativa baronessa che si concentrò sul negoziato con l’Iran e tenne volutamente bassissimo il profilo della politica estera Ue, allora ben si capisce come per invertire la rotta ci sarebbe voluto un peso massimo. E invece, la Mogherini, di peso non è. «Fine e non impegna», si direbbe se fosse un vestito. Come racconta chi ha lavorato nella scorsa Commissione, ha immediatamente seguito due direttrici che ne dimostrano l’astuzia: non solo ha capito che da Renzi aveva ottenuto il massino possibile e immaginabile, ma ha deciso di sganciarsi completamente dall’Italia e di investire sulle alte burocrazie degli organismi internazionali e sul rapporto con il Palazzo di Vetro. In più è andata regolarmente in Parlamento e in tutte le sedi istituzionali, sempre preparata e sempre con la sua brava cartellina, a rispondere e spiegare tutti i passi intrapresi, dall’Ucraina alla Siria, a differenza della Ashton, che mandava sempre qualche suo sottopancia e viveva già una personale Brexit mentale. E tuttavia il premio tedesco di fine mandato riassume il bilancio di cinque anni in cui Francia, Germania e Regno Unito hanno continuato a farsi gli affari propri e la politica estera europea ha annaspato, sempre in posizione residuale e con dichiarazioni da anime belle, tra importanza della «pace nel mondo» e «valore dell’accoglienza». Mogherini ha puntato molto sul disgelo con l’Iran, che le ha manifestato il proprio pubblico apprezzamento in varie occasioni, ma è stata sfortunata, perché l’avvento dell’Era Trump ha stroncato sul nascere quello che era un oggettivo successo europeo nel tentare almeno di avere rapporti decenti con l’Islam sciita. A quel punto, negli ultimi due anni, Lady Ponte Milvio ha varcato l’Atlantico, ha preso a viaggiare negli Stati Uniti e a New York con ogni scusa, costruendo la propria second life diplomatica, parlando sempre più di accoglienza, rifugiati, sfollati e immigrati. Ovviamente in senso inclusivo. E il tutto mentre l’Italia, specie con Matteo Salvini, provava a condurre in Europa una battaglia per contenere e limitare al massimo le politiche migratorie, anche facendo passare un semplice concetto che nei discorsi della Mogherini non ha mai trovato spazio, ovvero che occorre distinguere tra migranti economici e veri perseguitati politici. E la Mogherini, cervello Pd in fuga, chissà se si considera più un migrante economico o un politico in cerca di nuova identità.

Yacht, lussi e piaceri: la bella vita americana dei rampolli castristi. Il popolo vive in miseria ma gli eredi di Fidel fanno i nababbi. E se ne vantano sui social. Paolo Manzo, Domenica 22/12/2019, su Il Giornale.  San Paolo - Chi se ne frega se a Cuba il pueblo revolucionario sopravvive con la miseria di 270 pesos di pensione - l'equivalente di 10 euro e con salari da 540 pesos con cui sarebbe impossibile tirare avanti se non ci fossero i dollari mandati dai parenti di Miami. «Noi, i figli dei leader del PCC (il Partito Comunista Cubano) ci diamo alla bella vita, gozzovigliamo nel funesto impero yankee, giriamo il mondo in yacht, beviamo whisky e non ci vergogniamo nemmeno un po' di ostentare i nostri lussi da sceicchi sui social network, perché tanto siamo intoccabili». È questo, in sintesi, il messaggio che trasmettono sui social network (mostrando senza pudore immagini che confermano la ricchezza delle loro famiglie) i rampolli del regime castrista che è riuscito a rendere tutti i cubani uguali grazie ad una «decrescita felice» che i 5 Stelle se la sognano. Tutti miserabili a Cuba meno loro naturalmente e, non bastasse, molti fanno i gradassi sui social dagli Stati Uniti, l'odiato Impero secondo la narrativa ipocrita del Socialismo del XXI secolo, l'ultima balla trasformista del castrismo. Il caso più recente che ha fatto infuriare i cubani dell'Avana che, invece, il capitalismo a loro negato lo sognano è quello di Alex Acosta Aldaya, figlio di Homero Acosta Álvarez, nientepopodimeno che il segretario del Consiglio di Stato. Il trentenne vive a sbafo a Valley Stream, nella contea di Nassau, stato di New York, il cuore dell'odiato Impero yankee, e sul suo Instagram si immortala fiero mentre assiste ad un match di football americano in quel di Pittsburgh. Sul suo viso, bianco e brufoloso, ha anche gli adesivi degli Steelers, la squadra di casa, neanche fosse un elettore qualsiasi di Trump. Peccato solo che, quando torna a Cuba, passi il suo tempo in hotel a 5 stelle a Varadero, zona off limits per quel 95% dei cubani che, invece, sono costretti a godersi full time la dittatura con annesso comunismo su cui vigila il babbo di Alex. Poi c'è Alejandro Machín Rojas, figlio dell'ambasciatore cubano in Spagna, Gustavo Ricardo Machín Gómez, che è stato smascherato in un programma trasmesso sul canale América TeVé di Miami, da Luis Domínguez, autore del blog «Cuba al descubierto», che ha raccontato come quest'altro rampollo di castristi doc sia andato a vivere e studiare a Boston, nel Massachusetts, altro simbolo dell'odiato (a parole) Impero. E smascherato da Domínguez anche Raúl Rodríguez Castro, alias «Il Granchio», uno dei nipoti nonché bodyguard di Raúl Castro, che controlla una delle agenzie che inviano dagli Stati Uniti i pacchi a Cuba, pieni di cibo, vestiti ed elettrodomestici. Figlio del presidente del potente consorzio aziendale/militare Gaesa e di Déborah Castro Espín, «Il Granchio» fa i miliardi usando come prestanomi moglie e suocera. Il caso che ha però causato più sdegno è quello di Tony Castro, nipote di Fidel. All'inizio del 2019, giorni prima che l'isola comunista celebrasse il 60° anniversario della Rivoluzione, sono venute alla luce foto del giovane su yacht e nei luoghi più esclusivi del mondo. A differenza dei suoi connazionali, Tony non si priva di nulla e conduce una vita avvolta da piaceri e senza limiti, come dimostra il suo Instagram. Si gusta i vini e cibi migliori durante la celebrazione del compleanno di uno dei suoi zii, posa sdraiato su uno yacht di fronte all'orizzonte. Il nipote di Fidel, il leader che ha imposto la dittatura comunista lasciando l'isola nella miseria più nera, in altre immagini di Instagram si gode un viaggio al volante di una Bmw, mentre i suoi connazionali sono costretti invece a spostarsi molto sovente a cavallo, come 100 anni fa. Poi pubblica foto di un viaggio a Madrid, poco prima della fine dell'anno, si fa immortalare mentre si gode il paesaggio seduto di fronte a un antico tempio Maya, in Messico, fa shopping pazzo nei negozi di lusso vicino alla Puerta del Sol, nella capitale spagnola, come un capitalista qualsiasi. I cubani di Cuba? Chi se ne frega.

·        La Lega Padana Comunista.

Fabio Martini per “la Stampa” il 10 luglio 2020. Sembrava una piccola storia, un capriccio del caso: la Lega che va ad abitare a cinquanta metri dal Bottegone, per 45 anni la "casa" del Pci. La notizia - spuntata sui siti - sembrava finita lì. E invece Matteo Salvini - dopo averci pensato due giorni - ha rilanciato con una provocazione delle sue e nel giro di qualche ora è riuscito ad accendere una fiammeggiante polemica, alimentata soprattutto dagli eredi della sinistra comunista. Tutto è iniziato tre giorni fa, allo spuntare della notizia: la Lega ha preso in affitto un appartamento in via delle Botteghe Oscure, proprio davanti alla vecchia sede del Pci, qualcosa in più di un palazzo: il simbolo di una storia. Peraltro dismessa dagli eredi almeno 20 anni fa. Ma col passare delle ore quella notizia è diventata "pruriginosa", ha acceso polemiche online e Salvini ha pensato che valesse la pena rilanciarla: «I valori di una certa sinistra che fu quella di Berlinguer, i valori del lavoro, degli operai, degli insegnanti, degli artigiani, sono stati raccolti dalla Lega. Se il Pd chiude Botteghe oscure e la Lega riapre, sono contento: è un bel segnale». In pochi minuti dardi indignati hanno raggiunto il capo della Lega. Dal Pd sono stati espressi «orrore e pietà» (Emanuele Fiano), «come parlare di Cristo e Barabba (Achille Occhetto). Lapidario Nicola Zingaretti: «Chiamate il 118». In realtà nella sua breve comunicazione Salvini si è espresso in modo ambivalente, proprio per provocare un incidente: ha parlato dell'eredità di Berlinguer, ma facendo riferimento ad operai e artigiani, ai valori che sarebbero stati, a suo avviso, «raccolti dalla Lega». Un messaggio studiato con i guru della "Bestia" e mirato ai tanti elettori popolari, una volta di sinistra e che da anni, pur votando o simpatizzando per la Lega, restano affezionati ai leader carismatici della sinistra. E infatti, al netto dell'impossibilità di assimilare i valori di Salvini a quelli di Berlinguer, è vero che risultati elettorali e ricerche sul voto delle diverse classi sociali danno in larga parte ragione alla provocazione del capo della Lega. Nelle ultime elezioni il Carroccio ha fatto il pieno in molti quartieri popolari di quelle che per mezzo secolo sono state inossidabili zone "rosse". Arrivando a conquistare innumerevoli roccaforti un tempo inespugnabili: a partire dalla operaia Sesto San Giovanni, la Stalingrado d'Italia, dove governa un sindaco leghista. La ricerca Itanes che dopo ogni elezione produce la più precisa radiografia sulle motivazioni degli elettori (undicimila persone, interpellate prima e dopo le elezioni) ha dimostrato che il Pd - erede sia pur non esclusivo del Pci - ha mantenuto un primato nella "generazione 1968 " ed rimasto il partito dei "garantiti". Ma abbandonato dagli operai "comuni" e anche da quelli "qualificati ": appena il 12,6% di loro ha appoggiato il partito democratico. E la classe sociale per la quale la moderna sinistra è nata, gli operai, nel 2018 ha appoggiato massicciamente i due partiti populisti, 5 Stelle e Lega, ai quali erano andati oltre il 65% dei voti di quella fascia sociale. Ma non basta. Interessante un'altra ricerca, stavolta curata dalla Ipsos, concentrata sulla Cgil, da oltre un secolo il sindacato della sinistra. In questo caso la ricerca si è concentrata sulle Europee 2019: nel segreto dell'urna il 18,5% degli iscritti ha votato per la Lega, con un gradimento per Matteo Salvini che ha toccato il 44%. Con un travaso dai grillini alla Lega rispetto alle ultime politiche. La provocazione di Salvini, più o meno riuscita, era indirizzata a loro.

Salvini lasci stare il Pci di Berlinguer. Marcello Veneziani, La Verità 11 luglio 2020. Caro Salvini, annunciando che la Lega prenderà la sede storica del Partito Comunista alle Botteghe Oscure, lei ha detto che la Lega “ha ereditato i valori del Pci di Berlinguer”. La sinistra è insorta indignata e non so darle torto. O meglio, capisco due cose. Una, che gli eredi del Pci, i piddini, hanno tradito la tradizione comunista e socialista italiana, non sono neanche l’unghia della vecchia storia, tremenda ma a suo modo gloriosa, della sinistra comunista. Sono passati dalla difesa dei ceti proletari a guardia bianca del capitalismo globale, sono diventati gli asinelli di troia – cavalli sarebbe troppo – della troika europea; sono l’espressione della neo-borghesia radical; e alla difesa del Quarto stato preferiscono la difesa del Terzo sesso, trans inclusi. L’altra, che la Lega ha raccolto molti consensi proletari e operai un tempo del Pci, e ha fatto battaglie popolari che un tempo erano dei comunisti. Riconosciuta questa doppia verità, le dico: lasci stare il Pci e Berlinguer. Per rispetto della storia, dell’italocomunismo e, se permette per rispetto della destra popolare e nazionale che è dalla sua parte. Se a muoverle questa obiezione fosse solo un intellettuale in disparte, come io sono, avrebbe ragione di fregarsene e fare le sue boutade elettorali, anche per generare scompiglio tra gli eredi traditori della sinistra. Ma quel che le sto per dire, mi creda, esprime l’opinione dei due terzi del suo elettorato e la stragrande maggioranza dell’area sovranista. I valori del Pci non sono, non possono essere i valori della gente che la vota. Perché il Pci era un partito legato a doppio filo a Mosca, da cui prendeva soldi, ispirazione e ordini, fino agli anni Settanta. Perché il Pci sognava un modello di società egualitaria e collettivista che non sono certo i riferimenti, e tantomeno gli ideali, degli italiani che la votano e delle partite Iva. E se non sono di destra, sono ex-democristiani e anticomunisti, in conflitto aperto non solo col vecchio Pci di Togliatti ma anche col Pci di Berlinguer. Perché quel Pci era antifascista dopo il fascismo, cioè usava l’antifascismo per delegittimare ogni destra e perfino ogni partito conservatore, nazionale, cattolico non progressista. E un antifascismo che esaltava la lotta partigiana anche nelle sue pagine peggiori come le stragi del triangolo rosso, le foibe, l’odio verso chi, senza essere fascista, era fieramente legato alle tradizioni nazionali, cattoliche e spirituali del nostro paese. Forse non le dice niente Marx, e nemmeno Gramsci. Ma il loro progetto era la dittatura del Partito Comunista, l’avvento dei soviet nelle fabbriche, l’egemonia marx-leninista, la cancellazione, lo sradicamento di tutto ciò che rappresentava la storia e la tradizione della nostra civiltà. Perché quel Pci non fu mai sovranista per la semplice ragione che fu sempre, coerentemente, internazionalista. Perché quel Pci era collegato alla Cgil e alle lotte sindacali che fecero danni enormi al paese e all’economia. E che oggi sarebbero, e sono, coerentemente dalla parte dei migranti e non certo dei confini della patria e mai avrebbero detto prima gli italiani; mai avrebbero agitato il rosario e invocato la Madonna. Non si può un giorno imbarazzare i cattolici agitando quei simboli sacri e santi della religione cristiana e un altro giorno agitare il poster di Berlinguer e del Pci. Quanto a Berlinguer vorrei ricordare che fu un onesto e rispettabile segretario, dignitoso e serio, moralmente impeccabile. Ma Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e quanto a svolte fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, come stile ma anche come capacità, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, come le invasioni militari; fu mestamente comunista, considerò il Partito come l’Assoluto, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto. Quando Craxi lanciava il socialismo verso la nazione, l’Europa, la modernità, la libertà e il mercato (e le tangenti), Berlinguer era dalla parte opposta. Fu una persona per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? Da anni Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. Ma il comunismo non fu quella cosa light di cui si può appropriare. E non c’entra nemmeno con lo spirito comunitario. Il comunismo sta alla comunità come la polmonite sta ai polmoni: la comunità è un organo naturale, storico, sociale, il comunismo è la sua patologia, la sua infezione. La sua dichiarazione di sentirsi erede di Berlinguer e dei “valori del Pci”, dimostra oltretutto una pericolosa subalternità culturale, un complesso d’inferiorità e una piccola furbizia che si ritorcerebbe contro di lei. Perché è da quel complesso che un nuovo governo dovrebbe invece liberarsi se non vuol rimanere succubo del nuovo Pc, che è il Politicamente Corretto. Quel nuovo Pc che oggi esalta Berlinguer. Perché se si riferisce ai valori, alla questione morale, alla dignità della politica c’era un altro testimone molto più scomodo ma più compatibile col sovranismo e l’italianità. Si chiamava Giorgio Almirante. Ora non pretendo che lei, ex-comunista padano, scopra i valori del Msi e di Almirante, sarebbe imbarazzante il retrogusto fascista e la concorrenza alla sua alleata Giorgia Meloni, o Giorgita Melòn, per declinarla alla Evita Peròn. Ma se arriva ad appropriarsi dei valori del Pci e di Berlinguer, i suoi elettori, perlomeno i due terzi di loro, preferirebbero Almirante e il Msi. Se il richiamo invece, oltre che furbo e tattico, è alla politica seria di un tempo, allora bisognerebbe onestamente dire che quella stagione, coi suoi vizi e le sue virtù, è assai lontana dalla sua. Ci ripensi, Matteo. Se la politica è una cosa seria, eviti di passare col carrello della spesa tra gli stand storici e prendersi quello che più funziona per l’uso immediato. Ci sono due modi di denigrare il passato: uno è quello di abbattere le statue; l’altro è quello di farle parlare con le convenienze del momento. Quelle bandiere rosse meritano rispetto e avversari che vogliano affrontarle, non imitarle. Non può scambiarle daltonicamente col verde leghista. È tutta un’altra storia…MV, La Verità 11 luglio 2020

La vera sfida del socialismo è capire perché le politiche di uguaglianza sono fallite. Alberto Abruzzese su Il Riformista il 21 Maggio 2020. “Socialismo, la palla al piede che affonda libertà e uguaglianza”. Però! I titoli che i giornali decidono di dare a un articolo giocano sempre sporco… È la stampa bellezza! Ma penso che solo una testata ostinatamente garantista come Il Riformista possa permettersi questo “strillo” senza per questo gettarsi nel mazzo delle destre oggi in lizza. Provo dunque a dire qualcosa sull’intervento di Biagio de Giovanni al quale questo giornale (il 14 maggio) ha dato un titolo così tanto urtante eppure con qualche anzi non poca complicità del suo stesso autore. Ci provo, senza tuttavia avere intenzione di inserirmi nella discussione da cui l’articolo ha preso le mosse, in quanto non mi ritengo adatto a farlo per ruolo e professione. Sono incline a occuparmi dei margini tra un medium e l’altro (la chiamiamo mediologia) piuttosto che direttamente dei pilastri della società civile, quindi cerco solo di aggiungere qualche considerazione sulla logica, sulla mentalità, che mi sembra emergere nell’articolo. Non posso nascondere il fatto che, a intervenire, mi spinge un doppio sentimento. Da un lato la personale simpatia per una figura che nei miei anni di insegnamento a Napoli ho avuto modo di apprezzare per lo straordinario ruolo di maestro da lui svolto nell’ambiente culturale e politico della città, in elegante particolare distinzione tra il suo mandato di intellettuale e la macchina dei partiti. Dall’altro lato, tuttavia, un certo rimpianto che sulla mia strada di allora – anni Settanta e Ottanta – non si siano mai realizzati incontri e scambi di reciproco autentico interesse con le figure di maggiore peso nella sinistra napoletana. Ma con altri a Roma è andata assai peggio. Dunque, se non erro, De Giovanni dice in sostanza quanto sia o possa rivelarsi inutile e persino controproducente insistere a pensare la politica dentro quelle coordinate storiche occidentali in cui i principi di uguaglianza – presi a carico da soggettività socio-culturali pur diverse per radici, teorie e prassi come socialismo e socialdemocrazia – hanno vissuto e subito una progressiva disfatta. Tanto più dolorosa e traumatica quanto più, almeno per alcuni tratti, si è arrivati a credere che tali principi, se non pienamente raggiunti, fossero almeno pervenuti a una fase di progressiva realizzazione. Per rapidi cenni, in quanto teso ad arrivare alla chiave di volta del suo discorso, De Giovanni ci rimanda alle tappe di questa sconfitta epocale, direi nei termini di una vittoria mancata. Mancata in quanto prospettiva che sarebbe stata invece altrimenti possibile proprio nelle fasi storiche e sociali in cui si è consumata? In effetti non mi pare che egli scavi nella ferita sino a dirci o meno se davvero in ultima istanza l’impresa fosse già allora possibile. Se giusti fossero gli strumenti e ingiusti gli operatori o viceversa. La qual cosa significherebbe penetrare nel senso di quella realizzazione, sostanzialmente interrotta o deviata ad onta del suo generoso impegno umano e ideale. Significherebbe entrare nel suo rimosso: proprio ciò che si annida dentro l’obiettivo stesso dell’uguaglianza sociale. La traccia più interessante che il suo testo ci offre è, a mio parere, la sintesi già di per sé propositiva, illuminata, con cui dichiara quanto il corpo dei valori umani (l’espressione è mia) stia oggi vivendo al bivio estremo – vanishing point – tra la rinnovata eppure mai sopita esasperazione dei propri bisogni e l’urgenza estrema di trovare una via che non sia la seconda o terza o ennesima e ancor più promiscua via in cui, con impeto per giunta decrescente, è stato sempre di nuovo illuso. De Giovanni non precisa il senso che attribuisce all’aggettivo “umano”, ma in qualche modo – sospendendo il problema di quanto vi possa essere di “umanistico” nel suo modo di intendere la “qualità” di un aggettivo di così grande ambiguità e ambivalenza ovvero complicità con il proprio esatto suo contrario – lo si può ricavare dalla sua stessa tesi. Dal fatto di sostenere apertamente che la natura umana oggi può contare, nel bene e nel male, esclusivamente su “un capitalismo di Stato dispotico”. In eredità e continuità, dunque, con le “mille tragedie” prodotte dagli stretti vincoli economico-politici imposti alla società lungo l’intera storia dell’Occidente a partire dalla polis greca, e cioè da quella prima scintilla di civilizzazione che ha dato nome alle virtù sovrane della politica. Dell’utile per l’utile che si fa sempre di nuovo sistema necessario di assoggettamento a sé di ogni altra necessità di vita. È questo suo richiamo alla “natura umana” come alterità e resistenza rispetto alla sua obbligata condizione sociale, che trovo interessante in quanto mette in campo l’impatto senza sostanziali mediazioni, doloroso, carnalmente sofferente, tra essere umano e potere. Tra il suo corpo e il corpo del Potere che lo include e in cui inevitabilmente esso si include. Richiamo, questo di De Giovanni, di notevole tempismo, cioè in perfetta sintonia con una vita quotidiana in cui ogni singola persona è stata gettata dalla pandemia in corso dentro lo scontro faccia faccia tra se stessa e la società da cui è costretta – da sé medesima, dal proprio bisogno – a attendersi una cura: intelligenza e capacità operative di cura. Di salva-guardia (parola quantomai esemplare). Ogni richiamo – inevitabilmente libresco, sapienziale – alla funzione di controllo e sorveglianza di dispositivi tecnologici straordinariamente avanzati rispetto al panopticon, come pure ogni rilancio delle teorie elaborate da Foucault sulla violenza illiberale dello Stato, non sono bastati, nonostante l’eccellenza teorica, illuminante, dei loro fautori, a compensare e sedare la paura pura e semplice di morire, insorta e cresciuta – a torto o a ragione, strumentalmente o meno – nei singoli individui. Ed anzi hanno rischiato di apparire allarmi più irresponsabili dell’irresponsabilità congenita delle leggi sociali, della loro ingiustizia e strutturale cecità umana. Ma veniamo al dunque: l’eguaglianza come progetto mai davvero realizzato: saltuario e provvisorio o superficiale, sempre revocabile in quanto sempre nelle mani di chi è in grado di concedere o meno pari diritti non ad ogni persona ma ad una nei confronti dell’altra o per mezzo dell’altra. Sulla scorta di Aldo Schiavone – che sul tema ha scritto un ponderoso volume – De Giovanni tocca il punto cruciale: in un mondo profondamente trasformato a causa di mutazioni, che a me pare vengano da lui individuate più che altro a seguito del fallimento del quadro politico da esse stesse progressivamente reso impotente e obsoleto, bisogna ripartire trovando e dando strumenti e teorie in grado di rispondere e corrispondere ai valori di eguaglianza rivendicati dalla persona umana. «Il richiamo al socialismo non basta – scrive – sono le nuove urgenze globali che potrebbero far nascere le forze, i soggetti, le idee, i compromessi, le nuove alleanze». E conclude in termini di prospettiva a venire: «Un immenso lavoro anche ideale da svolgere». Che si tratti di svolgere un immenso lavoro non dubito. Ma dubito assai più che i tempi della politica, qui e ora, consentano questo ripensamento a meno di non immaginarselo come una qualche Fondazione alla Isaac Asimov, messa a lavoro mentre intanto il mondo continua a andare per la sua storia. Se si ritiene necessaria una pausa di riflessione dentro il tempo che precipita per conto proprio, la pausa da prendersi andrebbe allora costruita con strumenti fuori del tempo, come appunto s’addice a momenti di autentica rifondazione. Dunque il nodo problematico rivendicato in questo articolo è sacrosanto ma, almeno per come viene enunciato dal suo autore, mi suona troppo da vizio congenito di pensatori delle sinistre storiche, organici o disorganici che siano. Di menti proiettate sulla propria funzione di guida ideale piuttosto che sull’urgenza del “che fare”. Anche se per altro verso è giusto porsi la domanda – e De Giovanni in questo ci aiuta – se non sia stata proprio l’urgenza delle ideologie novecentesche ad avere bloccato il tempo moderno dentro il proprio insormontabile tragico orizzonte. Mi spiego meglio: De Giovanni scrive, volente o nolente, in nome e per nome di un “noi” in cui hanno avuto corpo tutte le azioni del fronte ideologico-politico di cui oggi sa assai bene, avendovi preso parte, come misurare la crisi e l’obsolescenza. Sa quindi benissimo che c’è una cultura politica del tutto attuale (quando addirittura inattuale) che ancora detiene, anzi si tiene ben stretti, ruoli e funzioni nel quadro dei partiti, delle organizzazioni e dei dispositivi di potere del sistema “democratico italiano”. E allora, io credo che le sue capacità critiche – e sono grandi – non dovrebbe spenderle guardando al futuro quanto piuttosto tornando al passato. Al prima, cioè assai prima, delle promesse aperte da processi, metamorfosi e mutazioni, in verità innestate assai poco per merito delle culture di sinistra, che anzi si son trovate a tentare di inseguirle con crescente affanno. È il passato ad essere ancora grottescamente operante nelle teste per le quali De Giovanni si immagina possa avvenire una permutazione di valori così clamorosa come quella che ci propone. La sua, per quanto nobile e intelligente – o forse proprio per questo – è una svista che può portarlo a due pericolosi risultati. Il primo è quello di lasciarsi scavalcare dalla miseria della politica attuale in cui, paradossalmente, finiscono per stare più “sul pezzo” – per fare più gioco politico, mercato di consensi, amministrazione ordinaria – quanti continuano, cinicamente o meno, a puntare sui vecchi stereotipi delle ideologie umaniste e libertarie nel tentativo di contrastare quanti invece ricorrono ai vecchi stereotipi delle ideologie liberiste o neo-sovraniste. Gli uni e gli altri, più o meno sbandierando tuttavia l’idea neo-moderna, neo-modernizzatrice o meno, che il mondo è profondamente mutato (senza poi avere capito davvero come e perché, in quali profondità: un mistero simile al covid 19). E che il campo dei conflitti gode ora di nuove clamorose tecnologie (purtroppo ancora percepite come cultura e politica hanno sempre voluto intendere la tecnica in rapporto alla natura umana: massa di manovra oppure capro espiatorio). Il secondo risultato, più grave (ma di questo giudizio non voglio essere sicuro, data l’accortezza intellettuale di De Giovanni), è quello di aprire nuovi giochi e nuovi orizzonti senza che ancora la nostra cultura di appartenenza, nostra in termini di movimento e movimento di opinione, abbia potuto (voluto?) approntare una analisi, mirata, dei conflitti di interesse tra persona e società dentro i conflitti di interesse di cui si alimenta il progetto, appunto il dispotismo economico-politico (la politica come ancella della finanza), definitivamente subentrato al tramonto del capitalismo democratico. Esso – come apparato materiale e simbolico, come nuovo Leviatano di un mondo sempre più disincantato, abbandonato da dei e re – è stato in gran parte inventore o comunque operatore e incubatore dell’idea di uguaglianza. Idea dunque che, nella sua mostruosità, non poteva nascere più pregiudicata a giudizio di quanti la hanno immaginata o teorizzata o desiderata o propagandata come integra da ogni compromesso. Le conseguenze della dissoluzione del capitalismo storico forse non sono state ancora delineate sino in fondo (cioè al livello di una mutazione di paradigma senza eguale come quella presente). Ora che le dinamiche autoreferenziali della finanza ha portato ai massimi gradi di ebollizione, fermentazione, l’impatto delle persone non più con il loro padrone o con il loro lavoro ma con se stesse, la loro carne e le sue necessità, precipita in nulla la formula di comodo, eppure di così clamorosa lunga durata, con cui l’essere umano – meglio: chi dell’essere umano s’è fatto voce; il “noi” che s’è fatto padrone della prima persona singolare – ha potuto scaricare per così lungo tempo sulla disumanità del capitalismo, la natura sua propria di essere vivente in stato di necessità e desiderio di sopravvivenza. E allora la diversa chiave critica con cui procedere non dovrebbe immediatamente saltare alla qualità dei mutamenti in corso, primo fra tutti l’orizzonte post-antropocentrico a cui in effetti De Giovanni mi pare in qualche modo alludere, implicitamente rimandando alla natura, reale e fantasmatica, dei linguaggi digitali. Ma dovrebbe piuttosto riuscire a costruire un essenziale per quanto tardivo riconoscimento delle ragioni per cui le politiche storiche di uguaglianza non sono fallite per causa soltanto dei loro attori sociali (ceti, organizzazioni e via dicendo), ma sono venute meno, sono state sfinite, perché ad essere sbagliata era proprio la base teorica su cui tali attori si sono ostinatamente mossi. E non è detto che – senza peraltro neppure un annuncio di futuro a conforto – mancassero di strumenti per pensare diversamente da quanto hanno pensato e creduto. Da quanto abbiamo pensato e voluto. E persino da quanto lo stesso pensiero moderno, quello più antipolitico o impolitico, abbia a tratti suggerito. Ma se la storia delle “alternative” di azione e pensiero contro la disuguaglianza è andata per altro verso, altra direzione, questo vuol dire che c’era di mezzo un corpo umano e sociale che, per una parte, desiderava immediata soddisfazione e, per un’altra parte, desiderava non perdere i propri acquisiti diritti. Per questa ragione Fausto Bertinotti è intervenuto a seguito di De Giovanni con un titolo strillato sì ma in direzione contraria, più contraddittorio e dunque più politicamente sofferente: “Sì, il Novecento è finito. Ma senza lotta di classe non si vince l’ingiustizia”. E ci sono diversi filoni di pensiero – penso a Michele Mezza e Sergio Bellucci – che in questi tempi si stanno forzando a trasferire la politica dei rapporti di potere dalla “lotta di classe” alla lotta di attori sociali decisi a negoziare fini e contenuti degli algoritmi. Sempre ancora si tratta di rapporti proprietari, sfruttamento del lavoro, equa distribuzione della ricchezza. Proprio al momento di congedare questo mio testo, ho visto riprendere il prezioso lavoro storico-teorico portato avanti da Aldo Schiavone (questa volta il suo saggio Progresso appena pubblicato da il Mulino) in una recensione di Roberto Esposito su “Robinson” (16 maggio), che ne condivide l’assunto antropologico e insieme ne prende in qualche misura le distanze sul piano filosofico. Come per de Giovanni – seppure, tra le righe, in gran parte anche per Esposito – lo scenario di partenza, la situazione da affrontare, è la difficoltà a “sopravvivere dei regimi democratici” a fronte di uno “straordinario salto tecnologico”. Il pensiero di Schiavone funziona, per il primo, da apertura di quei nuovi orizzonti tra presente e futuro per i quali vale la pena rinnovare senza inutili nostalgie o ripensamenti tutto l’armamentario politico del passato. Così come, per il secondo, vale da buona chiave di lettura degli inediti progressi della biotecnologia, in grado di realizzare un clamoroso avvicinamento tra natura della specie umana e natura del mondo vivente. Di più: la possibilità che “l’essere umano, anziché ciò che è, potrà diventare ciò che vogliamo sia”. È in qualche modo la speranza di quanti, come ad esempio Massimo Di Felice, saldano in uno stesso futuro Gaia e il post-umano delle reti digitali. Ma un filosofo accorto come Esposito sa troppo bene quanti possano essere i tranelli consci e inconsci che si nascondono nella volontà di potenza – “ennesima” – della natura umana, della “specie umana”. Ovvero, senza continuare a fare distinzioni, della tecnica. Dunque il conflitto è sempre di nuovo tra la persona e i suoi desideri.

·        Il Pd giustizialista figlio della sua storia.

Congiura e viltà politica. La persecuzione contro Antonio Bassolino che ha cambiato la storia della sinistra italiana. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Novembre 2020. Antonio Bassolino è stato assolto per la diciannovesima volta. È innocente. Non ha mai commesso alcun reato. È solo stato sospettato – per ragioni da scoprire – di avere commesso dei reati per diciannove volte. Da chi? Da alcuni Pm. Tra qualche riga ne parliamo. I giornali stavolta hanno riferito di questa ennesima assoluzione. In modo sobrio, non certo col clamore che suscitarono le varie incriminazioni. Però almeno ne hanno parlato. Caso chiuso? No, il caso-Bassolino è uno scandalo di dimensioni colossali che investe la magistratura, la politica, i partiti. Cioè la spina dorsale del nostro sistema democratico. Se non si affronta il caso-Bassolino la qualità della nostra democrazia perde molto valore. Ci sono due grandi questioni. Affrontiamole separatamente. La prima riguarda la magistratura ed è molto semplice: qualunque sia la logica che vogliamo usare, siamo di fronte a 19 errori giudiziari, tutti in fila e tutti a danno della stessa persona. Questa persona è l’esponente più importante della politica in Campania degli ultimi 30 anni almeno, ed è stato un protagonista di primissimo piano della politica nazionale. Come è possibile che vari Pm della Procura di Napoli commettano un numero così grande di errori professionali? Vi immaginate cosa capiterebbe al Cardarelli se un certo numero di medici sbagliassero diagnosi e cure per diciannove volte consecutive, nel giro di circa 20 anni, sullo stesso paziente? E cosa succederebbe se addirittura questo paziente fosse famoso, o se fosse l’ex sindaco e l’ex governatore? Non oso immaginare la fine di quei poveretti, i processi, la gogna, il seppellimento delle loro persone e delle loro carriere. Con Bassolino è successo qualcosa del genere. Lui, molto signorilmente, dopo la diciannovesima assoluzione ha dichiarato di non considerarsi un perseguitato e ha brindato perché alla fine la verità ha vinto. Però, a rigor di logica, qui i casi sono due: o c’è stata una persecuzione, o il livello professionale di un buon numero di Pm napoletani è assolutamente al di sotto del minimo necessario. È impossibile trovare una terza via. Il primo caso configurerebbe una situazione veramente gravissima. E anche se Bassolino lo esclude, è possibilissimo che la persecuzione ci sia stata. Già molti ministri della giustizia avrebbero dovuto intervenire per questa ragione sulla Procura di Napoli, e non lo hanno fatto. Ora tocca a Bonafede. Non può restare il sospetto che ci sia stata una congiura. Anche perché, se così fosse, si dovrebbe scoprire chi ha guidato la congiura, chi l’ha coperta, chi l’ha favorita. Oppure è solo incapacità professionale. Anche in questa ipotesi dovrebbe intervenire il ministero, e poi dovrebbe intervenire il Csm. Per evitare che dei magistrati pasticcioni e privi delle doti sufficienti continuino a fare guai. L’esperienza del passato è triste. I Pm che perseguitarono Enzo Tortora, un po’ per ideologia un po’ per incapacità, non furono fermati: uno finì Procuratore, un altro addirittura al Csm. Al Csm, sì: fu mandato lui a guidare la magistratura. Fu uno scandalo mostruoso, avvenuto nel silenzio assoluto di politica e giornali e Tv. Ripetiamo quella vergogna? La seconda questione riguarda la politica. Bassolino fu abbandonato. Dal suo partito, dai suoi amici e dai suoi avversari, quasi tutti. Bassolino era un cavallo di razza del Pci e poi dei Ds. Aveva avuto dei successi straordinari a Napoli ed era pronto a spiccare il volo in campo nazionale. Probabilmente, tra i cinquantenni di quegli anni, Bassolino era quello più forte, con più preparazione, più popolarità, più carisma. Era certamente più robusto di Veltroni ed era più popolare e meno scostante di D’Alema. Aveva grandi doti e forti idee. Era uno dei pochi, a sinistra, che non permetteva mai che l’utopia schiacciasse la realtà e non permetteva che la realtà schiacciasse l’utopia. Conosceva la società moderna e i limiti grandiosi del liberismo. Aveva dei principi, dei valori, una forte conoscenza della politica e del popolo. Non oscillava a qualsiasi vento, o alla Tv, o a carosello. Non era succube dei sondaggi. Era molto di sinistra, allievo di Ingrao, di Trentin, di Luporini, ma era capace di compromessi, di arretramenti, di politica-politica. Era un liberale. Non viveva – come molti dirigenti della sinistra di quell’epoca – nell’ossessione di Berlusconi. Immaginava una “sinistra-per” non la sinistra come elemento residuale e complementare del berlusconismo. Aveva buone possibilità a diventare l’uomo guida della sinistra e del suo partito. E se non lo ha potuto fare è stato per via della sua inaudita vicenda giudiziaria. I Pm napoletani hanno deviato il corso della sinistra italiana, in un momento molto delicato, mentre si stava sviluppando una crisi e una battaglia sulla strategia futura. Si discuteva di liberismo, di blairismo, di mitterandismo, di globalizzazione. Si provava a costruire la sinistra del dopo-comunismo. Se il Pd fosse nato sotto la guida di Bassolino sarebbe stato un partito diverso da quello nato sotto la guida di Veltroni e Franceschini. Migliore o peggiore? Questo non ha importanza, quel che conta è che la scelta non la fece la politica ma i Pm. (Io, personalmente, credo che sarebbe stata una sinistra molto più moderna, indipendente e forte). E la politica come si è mossa di fronte all’assalto della magistratura? Ha fatto quello che ha sempre fatto, di fronte alle persecuzioni giudiziarie. Si è girata dall’altra parte, e anzi ha usato le inchieste per risolvere conti interni. Ciascuna corrente ha festeggiato, ci ha guadagnato qualcosa. Bassolino è stato spazzato via. Qualcuno gli ha lanciato un salvagente? A me non risulta. Ecco, finché proseguirà questa usanza, e questa complicità di infimo livello, tra politica e la parte più scarsa, o più illegale, o più corrotta, della magistratura, la possibilità di riformare l’Italia e di portare a compimento la Costituzione non esiste neppure sulla carta. La sottomissione “a pagamento” della politica alla peggior magistratura è il cancro della nostra vita pubblica. Vogliamo archiviare il caso Bassolino come un incidente di percorso? Allora archiviamo anche lo Stato di diritto. Dico meglio: la democrazia politica.

Salone del libro di Torino, rinviato a giudizio l’ex sindaco Piero Fassino. Il Dubbio il 2 ottobre 2020. Walter Verini: «La sua correttezza sarà dimostrata». Sono 17 le persone rinviate a giudizio dal gup di Torino Ersilia Palmieri nell’ambito del processo sulle irregolarità al Salone del Libro nel periodo compreso tra il 2010 e il 2015. Fra gli altri, andranno a processo il 17 maggio 2021 l’ex sindaco Piero Fassino, l’ex assessore regionale alla Cultura Antonella Parigi e gli ex presidenti della Fondazione per il Libro Rolando Picchioni e Giovanna Milella. «Ho sempre agito con assoluta correttezza e trasparenza, con l’unico obiettivo di evitare che il Salone del Libro potesse essere a rischio e Torino subisse un gravissimo danno», dice Piero Fassino. «Ho sempre scrupolosamente ottemperato alle leggi vigenti e aderito, in ogni passaggio, alle indicazioni dei consulenti legali», prosegue, in una nota, l’esponente Pd. «Il proscioglimento deciso oggi dal giudice relativo all’affidamento diretto della gestione 2015 del Salone conferma la correttezza del mio operato che non dubito – sottolinea – sarà riconosciuta anche per le due imputazioni oggetto del rinvio a giudizio». Chiaro il commento di Walter Verini, deputato Pd e componente commissione Giustizia: «Conosciamo la correttezza e la serietà di Piero Fassino, e il fatto che da Sindaco si sia impegnato solo a tutela del futuro del Salone del Libro di Torino. Circa la vicenda giudiziaria, che lo ha già visto prosciolto da aspetti importanti dell’indagine (vicenda che Fassino segue avendo pieno rispetto e fiducia nella magistratura), siamo altrettanto fiduciosi che anche in giudizio tale correttezza verrà dimostrata».

Giuseppe Legato per  lastampa.it il 2 ottobre 2020. Il gip di Torino ha rinviato a giudizio l'ex sindaco Piero Fassino nell'ambito del processo per le presunte irregolarità nella gestione del Salone del Libro e, in particolare, sui conti della Fondazione tra il 2010 e il 2015. Il processo si aprirà il 17 maggio 2021 alle ore 9. Fassino va a giudizio per una presunta turbativa d'asta nel bando di assegnazione del Salone per il triennio 2016-2018. Dello stesso capo di imputazione risponde l'ex assessore regionale Antonella Parigi. Entrambi sono stati però prosciolti dalla stessa contestazione ma relativa all'affidamento diretto del Salone nel 2015. Prosciolta l'ex presidente Giovanna Milella. Patteggiano i vertici di Gl Evento Roberto Fantino e Regis Faure. Hanno chiesto di accedere alla mappa (messa alla prova) Massimiliano Montaruli e Niccoló Gregnanini dipendenti della Fondazione del Libro. Il pm Gianfranco Colace, titolare dell'inchiesta ha depositato richiesta di archiviazione per il manager Michele Coppola che era stato indagato nella veste di direttore "Arte, cultura e beni storici" di Intesa Sanpaolo. Rolando Picchioni, storico patrono, finisce a giudizio per peculato ma viene prosciolto dalle altre accuse.

PD: LA CORRUZIONE FATTA PARTITO E CON L’IMPUNITA’ GARANTITA. Da sowingchaos.wordpress.com, il blog di Paolo Sensini, l'1 giugno 2020. Sono gli eredi di un partito, il PCI, che per settant’anni è stato lautamente finanziato dall’Unione Sovietica e in più, grazie al sistema Coop impegnato in tutti i settori economici più rilevanti, hanno goduto di enormi sostegni per le loro attività burocratico-istituzionali. Oltre naturalmente ai finanziamenti “legali” che gli spettavano in quanto grande forza di massa. In pratica era il partito con più risorse di tutti quanti, ma a essere distrutti dai togati di Milano per “finanziamento illecito” sono stati gli altri, il PSI e la DC, lasciando campo libero all’ircocervo PCI-PDS-DS-PD. Ma andiamo avanti. Gli è bastato mezzo secolo per far collassare con la gestione diretta dei suoi uomini il Monte dei Paschi di Siena, forse la più antica e gloriosa banca al mondo, senza subire nessun tipo di conseguenza giudiziaria e politica. Tutto ripagato con montagne di soldi dei contribuenti. E anche la morte di un suo dirigente in maniera molto sospetta, parliamo ovviamente di David Rossi, non ha avuto alcun genere di sviluppo giudiziario. Tutto silenziato e messo nel dimenticatoio a tempo di record. Ma andiamo avanti. Hanno messo in piedi un sistema criminale chiamato “Mafia Capitale”, che in pratica attraverso l’immigrazione clandestina è riuscito a dirottare somme stratosferiche di soldi pubblici a proprie organizzazioni “di solidarietà”, creando un intreccio di criminalità & affari di proporzioni gigantesche. E che poi hanno esteso ai loro clienti disseminati nell’intera penisola. Anche in questo caso tutto finito su un binario morto. Ma andiamo avanti. In Umbria, regione da sempre amministrata dal PCI-PD, la loro governatrice Catiuscia Marini si è dovuta dimettere perché è venuto a galla che tutte le cariche più importanti nel sistema sanitario regionale erano pilotate e funzionali agli interessi dei burocrati targati PD. Ma, neanche a dirlo, ogni addebito verso corrotti e corruttori è finito come al solito a tarallucci e vino. Poi c’è il “caso Bibbiano”, un vergognoso scandalo di rapimento di bambini tutto gestito e controllato dalle amministrazioni da sempre a guida PCI-PD. Ma anche qui sono riusciti a insabbiare tutto grazie alla complicità di Tribunali e media. Oggi scoppia fragorosamente il “caso Palamara”, un boss della magistratura legato a doppio filo con la sinistra che decideva gli organigrammi delle procure in base al tornaconto del PD, mostrando plasticamente a quale grado di corruzione e marciume è sprofondato il sistema giudiziario italiano. Ma siccome nessuno controlla i controllori, e chi potrebbe intervenire è comunque una pedina funzionale al regime, state pur certi che anche questa volta non vi sarà nessuna conseguenza penale e politica per il PD. E avanti così fino al prossimo giro di valzer…

Il Pd giustizialista figlio della sua storia. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'11 Giugno 2020. La storia della sinistra comunista e postcomunista è una lunga teoria di negazioni mal riuscite, una vicenda inesausta di faticosi e mai soddisfacenti tentativi di quella sinistra di liberarsi da se stessa, di essere qualcosa rinunciando a essere ciò che è sempre stata e ha continuato a essere lungo un secolo. Si è trattato di negazioni mal riuscite e di tentativi insoddisfacenti perché nessuna fase di quel processo di accreditamento tramite auto-disconoscimento ha mai preso corso spontaneamente e in forza di un’autonoma capacità di iniziativa, ma sempre obtorto collo e cioè su sollecitazione altrui o quando la realtà delle cose squadernava l’inattualità, l’inaderenza, l’inadeguatezza essenziale di quella sinistra rispetto a ogni appuntamento notevole sul percorso civile di questo Paese. Il Pd non è il Pci ma un osservatore democratico chiederebbe oggi al Pd quel che si è sempre chiesto al Pci: di non essere se stesso. La presentabilità politica e democratica del Partito Comunista avrebbe supposto il sistematico rinnegamento di pressoché tutte le caratteristiche identitarie della tradizione con cui si era giustapposto: lo stalinismo, il rapporto irrisolto con la verità storiografica, la noncuranza per i diritti individuali, la irrevocabile propensione a criminalizzare le democrazie liberali che commettono errori e a giustificare la criminalità dei sistemi illiberali, infine ed emblematicamente la meccanica degradazione del dissenso, dell’idea contraria, dell’impostazione diversa, a realtà delinquenziali o patologiche. Questo rinnegamento non c’è mai stato, o non è mai stato compiuto, e a colmarne la mancanza è intervenuto, nel solco del solito procedimento contraffattorio, l’assunto secondo cui quel processo non sarebbe stato necessario non perché la tradizione comunista non fosse contrassegnata da quelle caratteristiche, ma perché dopotutto non era veramente comunista (l’avvicendamento delle denominazioni dissociato da qualsiasi progresso culturale effettivo e le serissime dichiarazioni di un personaggio come Walter Veltroni, che di sé dice di non essere mai stato comunista, descrivono in modo esemplare l’indisponibilità di quella storia a comporsi nella verità di un riconoscimento credibile). Oggi non è diverso. Perché ancora oggi, per il Pd, si tratterebbe di non essere ciò che è. Di non essere giustizialista. Di non essere statalista. Di non essere illiberale. E, soprattutto, di non confondere la sussistenza democratica del Paese con la propria partecipazione al potere, spacciando questa come garanzia di quella con i risultati che vediamo: i diritti individuali devastati, l’amministrazione della giustizia consegnata alla sopraffazione del potere inquirente, i decreti di stampo razzista mantenuti in purezza, la demagogia populista costituzionalizzata nell’esautoramento della democrazia rappresentativa e col trionfo del vaffanculo di piazza che si formalizza nel taglio dei parlamentari. La sinistra offrirebbe un’alternativa al Paese se fosse alternativa a sé stessa anziché competere con il proprio doppio, la componente di destra dell’identico complesso illiberale italiano.

·        I Sinistri Fratturati.

La frattura all’interno della sinistra svedese. Federico Giuliani il 22 dicembre 2019 su Inside Over. I progressisti svedesi hanno sbagliato tutto. La loro miopia ha portato la Svezia sull’orlo del baratro e la destra locale ha avuto la strada spianata per conquistare i tanti (ex) elettori di sinistra scontenti di un agenda così folle e suicida. È questa, in sostanza, l’analisi di Nils Littorin, dissidente del Kommunistiska Partiet (Kp), cioè del Partito Comunista svedese, uno dei due schieramenti di estrema sinistra presenti in Svezia assieme allo Sveriges Kommunistiska Parti (il Partito comunista di Svezia). Eppure il clima è saturo e il Kp sta per andare incontro a una inevitabile scissione. Già, perché le classiche battaglie politiche progressiste – dall’uguaglianza Lgbt all’accoglienza, dal multiculturalismo all’idolatria delle organizzazioni non governative passando per lotta al cambiamento climatico secondo i dettami di Greta Thunberg – servono ormai soltanto ad attirare esponenti della classe medio-alta. Non certo i lavoratori, traditi dai loro protettori naturali. A un certo punto, di fronte a una situazione paradossale e insostenibile, Littorin ha aperto gli occhi e detto basta: “Basta con Greta, Ong e gay. La sinistra torni a fare la sinistra”.

Una rottura inevitabile. Il punto centrato da Littorin è quello che ci consente di analizzare una situazione riscontrabile nella maggior parte dei Paesi del mondo. Per quale motivo la destra prende i voti dalla classe lavoratrice? In altre parole, perché i sovranisti sono diventati il partito di riferimento degli operai, gli stessi che un tempo erano ferventi comunisti? La spiegazione è semplice: i progressisti odierni hanno tradito la loro missione e portano avanti battaglie che non interessano minimamente al loro elettorato di riferimento. E questo è proprio quello che è successo in Svezia, dove la presa di coscienza di una parte della sinistra ha provocato un’inevitabile braccio di ferro tra la “sinistra pura e dura” e la “sinistra dei fighetti”. Quest’ultima, abituata a difendere ogni minoranza tranne quella dei lavoratori, è stata accusata da Littorin di essere la causa principale dell’avanzata della destra. A Malmo la sezione locale del Kp si è ribellata al politicamente corretto e, per bocca del solito Littorin, ha avviato una crociata ideologica per screditare l’operato della corrente interna allo stesso Kp, propensa ad abbracciare le istanze della sinistra arcobaleno internazionalista. L’obiettivo di Littorin è ambizioso e al tempo stesso coraggioso: riabbracciare i temi cari alla sinistra del passato.

Le colpe della sinistra. La realtà parla chiaro e non si può nascondere. Molti lavoratori svedesi votano partiti di destra come l’Sd (i Democratici Svedesi) e sono stanchi sia degli immigrati sia della loro “concorrenza sleale” in ambito lavorativo. Le parole di Littorin, come sottolinea il quotidiano Libero, sono una sentenza: “Hanno fatto ingoiare a forza ai nostri lavoratori fenomeni come l’immigrazione multiculturale, i diritti degli omosessuali e ora anche l’ecologismo di Greta. La sinistra ormai è una frangia di élite che vede i problemi della classe lavoratrice come alieni. Se la destra prende moltissimi voti dai lavoratori è perché la gente è insoddisfatta dell’immigrazione dovuta all’economia liberista, che a sua volta porta a una gara al ribasso dei salari, alla ghettizzazione e a una situazione di cui beneficiano solo le grandi aziende”. Insomma, la sinistra ha abbandonato la classe lavoratrice ovunque. Anche nell'(ex) “paradiso” svedese.

·        La sinistra e gli ebrei.

Il paradosso. Il paradosso dell’antirazzismo antisemita, perché tanto odio verso Israele? Valentino Baldacci su Il Riformista il 13 Dicembre 2020. Israele ha, in Italia e nel mondo, molti buoni amici le cui ragioni sono basate sulla conoscenza della realtà, in particolare della realtà del conflitto arabo-israeliano. Ma non ci si può nascondere che è diffuso, in Italia e nel mondo, un atteggiamento di ostilità verso lo Stato ebraico, che assume spesso la forma di un vero e proprio odio. È un odio difficile da contrastare perché basato in larga parte su elementi irrazionali che non hanno a che fare con la causa apparente di questo atteggiamento, di solito individuata con la posizione dello Stato ebraico nel conflitto con i palestinesi. Ma anche le posizioni apparentemente irrazionali hanno le loro radici. Individuare queste radici significa fare un grosso passo avanti per combattere l’ostilità contro Israele. Per quanto riguarda l’Italia, è relativamente agevole individuare queste radici sia a sinistra come a destra. A sinistra, con la svolta politica del 1992-94, le forze politiche e culturali di indirizzo laico e democratico sono state spazzate e via e oggi ne restano solo il ricordo e la presenza in gruppi relativamente ristretti. Lo spazio politico-culturale a sinistra è stato occupato pressoché interamente dagli eredi della cultura del PCI e della sinistra cattolica che avevano costantemente mantenuto, a partire dagli anni ’50, una posizione di ostilità verso lo Stato ebraico. Tali posizioni non si identificano meccanicamente con quelle di un partito, in particolare il Pd. Si tratta in realtà di un’area molto più vasta, che si può definire di sinistra diffusa, che trova, per esempio, nell’Arci e nell’Anpi le sue punte di diamante, e la cui presenza è significativa nella stampa, nelle televisioni, nelle Università, nella scuola, in altre forme di aggregazione anche informali, in particolare giovanili, nelle quali l’ostilità verso Israele è un dato di fatto non suscettibile di essere messo in discussione. È quindi di un’ostilità di tipo ideologico e l’ideologia è difficile da sradicare, se si riflette sul fatto che per decenni decine di milioni di persone hanno creduto, in buona fede, che l’Unione Sovietica e gli altri Paesi socialisti fossero il regno del benessere e della giustizia e solo vicende traumatiche come quelle che si sono verificate tra il 1989 e il 1991 hanno potuto, e forse solo in parte, scardinare certezze consolidate. Ma anche a destra ci sono certezze ideologiche difficili da superare. Qui continuano a giocare un forte ruolo – nonostante i mutamenti intervenuti nelle posizioni ufficiali dei partiti rappresentativi di questa area – i tradizionali pregiudizi antisemiti che, se apparentemente sono esibiti solo da gruppuscoli di estrema destra, continuano in realtà ad agire in profondità in una parte cospicua dell’opinione pubblica di destra e non solo, sotto forma di sotterranea accettazione di complottismi e di negazionismi di varia natura. Accanto a questi pregiudizi antisemiti, questa parte dell’opinione pubblica continua a essere influenzata dalle tradizionali posizioni della Chiesa cattolica. Il Concilio Vaticano II con la dichiarazione “Nostra Aetate” ha avuto un’influenza sul piano religioso ma non su quello politico-culturale. La Chiesa ha assunto una posizione simile a quella che si ritrova nell’art. 20 della Carta dell’Olp: gli ebrei costituiscono una religione, non un popolo, e quindi non hanno diritto ad avere uno Stato. Non a caso la Santa Sede ha riconosciuto diplomaticamente lo Stato d’Israele solo nel 1993, dopo che con gli accordi di Oslo sembrava aprirsi una nuova fase e una posizione intransigente appariva insostenibile. Ma da allora e fino ad oggi sull’Osservatore Romano e sull’Avvenire, organo dei vescovi italiani, non viene quasi mai usata l’espressione “Stato d’Israele” e si parla invece di “Terrasanta”, per esprimere una perdurante riserva sulla liceità stessa dell’esistenza dello Stato ebraico. Se in Italia le radici politico-culturali dell’ostilità contro Israele sono abbastanza chiare, esse possono essere individuate anche a livello europeo. Alcune delle cause presenti in Italia sono le stesse che agiscono negli altri Paesi dell’Europa occidentale. Anche se la sinistra come rappresentanza politica si è indebolita, tuttavia il suo sistema ideologico continua ad avere una forte presa per lo meno in alcuni Paesi, come la Spagna e la Francia. I pregiudizi antisemiti che sono presenti nella cultura di destra continuano ad agire in tutta Europa e anche l’influenza delle Chiese non può essere trascurata. Ma a livello europeo – anzi mondiale – va soprattutto tenuto conto dell’affermarsi della cultura del “politicamente corretto” che ha in larga misura sostituito quella che era la vecchia egemonia culturale del marxismo. Il “politicamente corretto” agisce quasi spontaneamente in senso antiisraeliano dando vita a forma di antirazzismo antisemita, che sembrerebbe una contraddizione in termini e che è invece una realtà ampiamente diffusa. Se queste sono le radici dell’ostilità contro Israele, appare difficile combattere con efficacia convinzioni così capillarmente diffuse. E tuttavia, come è stato in passato nei casi del nazismo e del comunismo, non si deve mai disperare nelle risorse della ragione e della conoscenza. È una battaglia dura ma che non può essere abbandonata. Non ci si deve mai stancare di far conoscere la realtà del conflitto arabo-israeliano, il costante rifiuto palestinese di giungere a una pace di compromesso, che consenta la realizzazione dell’obiettivo due popoli – due Stati. I recenti Accordi di Abramo hanno aperto prospettive che modificano profondamente un quadro che sembrava immutabile. Può sembrare un eccesso di enfasi retorica e tuttavia credo che si possa dire che gli Accordi di Abramo possono rappresentare per il Medio Oriente quello che per l’Europa rappresentò il collo del muro di Berlino. Ci vorrà tempo, naturalmente, perché tutte le conseguenze degli Accordi si facciano sentire e soprattutto sta agli amici di Israele farne comprendere appieno il significato. Ma la strada è stata aperta è appare possibile percorrerla fino a risultati che fino a ieri sembravano impossibili.

Antisemitismo, non solo stereotipi: si nutre anche dell’odio nei confronti di Israele. Barbara Pontecorvo e Emanuele Calò (Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni) su Il Fatto Quotidiano  il 24 gennaio 2020. A partire dal 2016 il mondo è stato costretto ad adottare, Paese per Paese, la definizione di antisemitismo dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). L’Italia, come prevedibile, è fanalino di coda. Questa iniziativa è destinata a proteggere chi, come noi, è nato dopo l’Olocausto, ma è figlio della generazione superstite alla demolizione morale delle leggi razziali e alla demolizione materiale della Repubblica Sociale (“sociale”?) e del Terzo Reich. Si è costretti ad approvare questo provvedimento come argine morale, per quanto non vincolante (nemmeno per il giudice), alle idiozie che costituiscono, al contempo la linfa e l’humus dove si abbevera l’odio verso gli ebrei. Qui, l’offesa s’interseca con l’oligofrenia, con una tale violenza che finisce per confluire in quest’ultima. Dal sondaggio sull’antisemitismo appena realizzato da Euromedia Reseach di Alessandra Ghisleri per Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni si apprende che l’antisemitismo non si nutre solo degli antichi stereotipi sugli ebrei, ma anche dell’odio trasposto nei confronti dello Stato d’Israele in quanto ebreo collettivo. A meno che non sia smaccato il pregiudizio di non voler riconoscere ad Israele il diritto ad esistere (contro ogni principio di autodeterminazione del suo popolo), che cosa dovrebbe essere l’antisionismo che genera antisemitismo in maniera cosi cospicua? Esistono ebrei che non amano il sionismo (esempi ne abbiamo anche in Italia), ai quali andrebbe forse riconosciuto il diritto di non voler andare in Israele, se non altro sulla base del principio della libera circolazione e del suo inevitabile corollario di poter restare legittimamente dove ci si trova. Ma ad un non ebreo cosa dovrebbe importare se un ebreo vuole o meno tornare in Israele? Potremmo, convintamente, essere contrari al diritto di un discendente di africani di voler tornare, per dire, in Nigeria, sulle orme del “Back to Africa movement”? Per il sionismo si fa un’eccezione, poiché il termine – non a caso mai definito dai cosiddetti antisionisti – viene inteso come una volontà imperiale di prevaricazione e conquista senza limiti. “Distinguiamo fra antisemitismo e antisionismo”, si sente spesso dire. È una frase vera nella misura in cui siano veri i pregiudizi di ogni natura e tuttavia è spesa a livello interclassista ed a prescindere dallo spessore culturale di chi ne fa scientemente uso. Anche per loro si approva la definizione IHRA di antisemitismo, perché certi getti di fango non saranno sanzionati, ma cambieranno colore. E quando un intellettuale farà ascoltare la voce di un anonimo che dice “le vittime di ieri sono diventate i carnefici di oggi”, non ci penserà due volte, perché ormai l’odio gli ha deformato l’eloquio e la mente, ma, vivaddio, gli si potrebbe finalmente rispondere con solidi argomenti. Si troverà sicuramente in buona compagnia con coloro che sostengono che gli ebrei controllano l’economia, lo sport, i media, la cultura, la salute, la filatelia, il sesso, le bocciofile, l’enigmistica, il teatro, la filosofia, l’aria, la terra, il sottosuolo e perfino gli scantinati. Forse è stato pensando a tutti costoro che Erich Fromm (ebreo, come Gesù, Marx, Freud, Einstein..) scrisse Paura della libertà. Eh sì, senza l’antisemitismo vi è il rischio, per gli ebrei e per i non ebrei, di sentirsi liberi, molto più liberi. E la libertà, in quanto comporta anche l’assunzione di responsabilità, mette paura.

Il sondaggio di Alessandra Ghisleri, così l’Italia si scopre antisemita: “Gli ebrei hanno troppo potere”. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Secondo un sondaggio  della Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, pubblicato sulla Stampa in edicola martedì 14 maggio, l' 1,3 per cento degli italiani pensa che la Shoah sia una leggenda inventata. L' 1,3 per cento potrebbe essere una percentuale fisiologica di imbecilli totali, scrive Mattia Feltri, e tuttavia corrisponde a circa 700 mila italiani maggiorenni - più o meno la popolazione di Palermo, quasi quella di Torino - convinti che Hitler non abbia torto un capello agli ebrei. Un altro dieci e mezzo per cento si limita a sostenere che il terribile consuntivo (sei milioni di ebrei ammazzati) sia stato fortemente esagerato dalla storiografia. Il 6,1 per cento si dichiara "poco favorevole" o "non favorevole" alla religione ebraica. Il 14 per cento degli intervistati ritiene che i palestinesi siano vittime di un genocidio da parte di Israele, l' 11,6 che gli ebrei dispongano di un soverchio potere economico-finanziario internazionale, il 10,7 che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, l' 8,4 che si ritengano superiori agli altri, il 5,8 che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. La sequela di pregiudizi dimostra che la percentuale di aperti antisemiti (6,1 per cento) è molto al di sotto degli antisemiti inconsapevoli, o malamente mascherati. E Alessandra Ghisleri invita a leggere bene i numeri. Intanto l' 1,3 per cento di negazionisti "non è alto, ma mi aspettavo lo 0,2 o lo 0,3, qualcosa del genere". Poi, aggiunge, è impressionante che fra i dichiaratamente antisemiti il 49 per cento abbondante accusi gli ebrei di strapotere finanziario e quasi il 47 di sentirsi una razza superiore, e cioè le pietre angolari su cui il nazismo costruì la sua propaganda.

Partito antisemita è il quarto d’Italia, secondo un sondaggio il 12% non crede alla Shoah. Emanuele Fiano il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Gli ebrei hanno troppo potere dicono in tanti che hanno risposto a un sondaggio. E l’antisemitismo si nutre sempre dello stesso cibo. Questa volta la ricerca sullo stato dell’arte dell’antisemitismo in Italia, è condotta da una ricercatrice, universalmente apprezzata, in genere dedita alla misurazione degli umori politici come Alessandra Ghisleri, e i risultati non sono affatto incoraggianti. Circa il 12% degli italiani crede sostanzialmente che la Shoah sia una bufala. Il 6,1% della popolazione si dichiara non favorevole alla religione ebraica, ma i valori che riguardano le motivazioni di questo plateale schieramento antisemita, sono ancora superiori (il 14% pensa che i palestinesi siano oggetto di un genocidio da parte degli ebrei, l’11,6 che gli ebrei dispongano di un potere economico troppo forte, il 10,7 che si occupino solo di se stessi etc etc ). Come al solito in questo tipo di ricerche, ancora più del valore assoluto sarebbe utile il valore comparativo, con gli anni precedenti. Nel caso della ricerca della Ghisleri non abbiano raffronti, ma tutte le ricerche che monitorano l’andamento storico degli atti e delle espressioni antisemite, anche sui social, misurano un cospicuo aumento. Quale giudizio dare dunque di questi dati?

Il primo: l’antisemitismo non è mai morto, e non morirà mai. La necessità dell’individuazione di un nemico, della circoscrizione del proprio territorio dove la diversità non è accettata, vale sempre. L’antisemitismo ha una sua peculiarità, una sua storicità, ma appartiene a una famiglia più grande, del razzismo e della discriminazione, che ha una persistenza storica formidabile e preoccupante.

Secondo: la concomitanza di fattori che inducono a un peggioramento della situazione, come le crisi economiche e (come dimostra anche per esempio il famoso post del senatore Lannutti), le crisi bancarie, aumentano l’intensità del fenomeno. Di fronte a un problema esistenziale così grande come la propria condizione materiale di vita, la precarietà della propria situazione, l’incertezza del futuro, l’impressione di essere impotenti contro un destino cinico e baro, scatta la ricerca di un nemico un po’ indecifrabile, un oscuro complotto, un popolo strano con strane usanze, qualcuno o qualcosa la cui alterità giustifica il sospetto di attività pericolose e nemiche.

Terzo: l’antisemitismo ha chiare e plurime matrici. Ai nostri giorni se ne ritrova uno classico di matrice neofascista o neonazista, i cui esiti ricorderemo tra poco nel Giorno della Memoria; ci sono le forme contemporanee, che usano lo Stato d’Israele come obiettivo, negandone il diritto all’esistenza e dunque attaccando un principio generale, sancito dal consesso internazionale e dall’Onu, che ovviamente è cosa ben diversa dal diritto di critica delle singole scelte dei governi che si succedono in Israele; ce n’è uno di matrice islamica, ovviamente in crescita nel mondo arabo e islamico, ma anche nei Paesi europei a forte presenza islamica; ci sono ancora presenti le matrici di origine cristiana, risalenti all’accusa di deicidio, anche se mi pare molto rarefatte. E credo si possa dire che la questione delle forme contemporanee dell’antisemitismo, delle sue matrici, non si distanzi molto da ciò che è stato osservato nel passato, e dalle sue radici storiche, anche se, sicuramente per l’Italia, oggi, la concomitanza di un’onda politica che fa della spinta identitaria, intesa come ricerca del proprio carattere originario come unico argine al globale, sta amplificando molto ogni sentimento discriminatorio.

Quarto: dobbiamo avere coscienza che Internet, e i social in particolare, hanno prodotto un’amplificazione esasperata dei peggiori sentimenti di odio, discriminazione e razzismo, magari nascosti dietro l’anonimato, come se la rete fosse una specie di terra di nessuno dove tutto è concesso. Dove io, anonimamente, posso finalmente togliermi il giogo delle norme, dei divieti, dell’etica pubblica. È la terribile questione dei discorsi di odio, che attraversano tutto il mondo della rete, e di cui l’antisemitismo è molta parte. Oggi dunque, questa è la mia impressione, i fattori contingenti si sommano all’eredità storica, nella stagione in cui peraltro sono destinati a scomparire gli ultimi testimoni della Shoah, con un connubio preoccupante. Serve un investimento complessivo. Non basteranno i divieti. Serve investire nella cultura, nella formazione e nel sociale. Ogni centimetro tolto al terreno dove sorge il pregiudizio è un centimetro guadagnato per il futuro.

Alberto Giannoni per “il Giornale” il 31 gennaio 2020. I negazionisti? Sono soprattutto a sinistra. Qualcuno sarà sorpreso o deluso, ma il dato è certificato nel Rapporto Italia 2020, lo studio Eurispes che è stato presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori. Contrariamente alla vulgata sull' allarme-fascismo infatti, dal rapporto emerge che la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. Certo, gli esiti del 32esimo rapporto Eurispes sono preoccupanti. Lo studio - un volume di 200 pagine - sviscera questioni molto diverse tra loro. E grande attenzione ha riscosso, giustamente, il «capitolo» dedicato alla Shoah, anche perché il tema è tornato sotto i riflettori: si teme un ritorno di sentimenti ostili agli ebrei, e purtroppo questo rigurgito sembra confermato come un pericolo concreto. Gli stereotipi sono sempre in agguato e in crescita. L' affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, in generale non trova consenzienti gli italiani, ma non manca una fetta consistente che condivide (23,9%). Quanto alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l' affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d' accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d' accordo), mentre i contrari raggiungono l' 84,4%. Il numero dei negazionisti oltretutto è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Eppure, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l' orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all' 8,8% a destra. È chiaro che dati del genere smontano una narrazione sempre più in voga a sinistra. Anche se non si vedono significative forme di movimentismo fascista, infatti, ha avuto notevole successo il «revival» della mobilitazione antifascista, che viene collegata immancabilmente all' allarme antisemitismo, a sua volta infilato nel calderone di un generico «razzismo». L' obiettivo è politico: vogliono far coincidere l' antisemitismo e il fascismo, e il fascismo col centrodestra, o con la Lega. Però questa «narrazione» è insincera: non solo non tiene conto dell' antisemitismo islamista, ma come si vede dai dati Eurispes tende a rimuovere il fenomeno dell' antisemitismo di sinistra, che c' è e si vede. E attenzione: qui non si parla di sionismo o di Israele, ma di stereotipi e pregiudizi anti-ebraici in senso stretto. Qualcuno dovrebbe forse guardare alla trave nel proprio occhio, anche perché l' antisemitismo a sinistra ha radici antiche e profonde, come documentato da un recente saggio della storica Alessandra Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei. E le radici sono marxiste e comuniste.

Negazionisti soprattutto a sinistra: ecco i numeri. Alberto Giannoni su Il Giornale il 31 gennaio 2020. I negazionisti si trovano soprattutto a sinistra. Al “Giornale” da tempo mettiamo in guardia contro una lettura parziale e strabica del tema-antisemitismo. Ora lo certifica il “Rapporto Italia 2020″, uno studio Eurispes presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori: contrariamente a quanto afferma la “vulgata” sull’allarme-fascismo, la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. In generale, limitandoci alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l’affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d’accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d’accordo), mentre i contrari raggiungono l’84,4%. Un dato preoccupante, anche perché il numero dei negazionisti è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Però, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l’orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all’8,8% a destra. Ed eccoli, i numeri di Eurispes. E analizzando i dati secondo la provenienza per macro area geografica, emerge che le opinioni totalmente negazioniste arrivano soprattutto dal Centro-Italia, come le risposte di chi si dichiara d’accordo con una lettura che minimizza la portata della Shoah.

Salvini e il no all’antisemitismo «Chi è contro Israele  è contro la libertà». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. «Mi ritengo un amico di Israele. Chi è nemico di Israele è nemico della libertà e della pace. Viva l’Italia e viva Israele». Matteo Salvini raccoglie una congrua dose di applausi chiudendo nella sala Zuccari del Senato, a palazzo Giustiniani, il convegno che ha fortemente voluto e attentamente organizzato, «Le nuove forme di antisemitismo». La storia è nota, aveva invitato anche la senatrice Liliana Segre che ha declinato per i troppi impegni ricordando che «la lotta all’antisemitismo non deve e non può essere disgiunta dalla ripulsa del razzismo e del pregiudizio». Le risponde Matteo Salvini indirettamente e senza nominarla: «Mi dispiace che qualcuno non sia oggi qui perché avremmo dovuto parlare di tutto: è una classica metodologia italiana». I temi evocati da Liliana Segre, esplicitamente non sono all’ordine del giorno in questa mattinata incentrata sull’antisemitismo e le sue nuove forme, in particolare l’antisionismo e le diverse modalità con cui nel mondo (governo iraniano in testa) si teorizza la fine di Israele come Stato indipendente, o addirittura la sua distruzione. Al tavolo, coordinato dal direttore dell’Agenzia Italia Mario Sechi, i relatori: Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs ed ex ambasciatore di Israele negli Stati Uniti; Douglas Mourray, accademico britannico, noto scrittore e saggista, autore di best seller; Rami Aziz, ricercatore egiziano copto e analista politico del Middle Eastern Affairs. Il saluto iniziale è della presidente del Senato, Elisabetta Casellati: «A più di settant’anni dall’abrogazione delle leggi razziali, quello dell’avversione etnica verso gli ebrei è tornato ad essere un tema di forte attualità. Un tema estremamente ampio ed articolato, che si nutre anche di una forte campagna di disinformazione su Israele. A ciò occorre aggiungere la percezione, sempre più diffusa, di come questo rigurgito antisemita sia anche espressione di un più generale sentimento di intolleranza verso ogni diversità: di etnia, di genere, di fede religiosa o di opinione politica». In quanto all’immigrazione, il messaggio della presidente è molto forte: «Mi chiedo se rinunciare alle nostre tradizioni in nome di un’esasperata globalizzazione non sia stato un errore. Una strategia che anziché placare le tensioni del tessuto sociale abbia invece avuto l’effetto di accrescerle. Mi chiedo se difendere il nostro essere italiani e il nostro essere europei, difendere le nostre radici culturali, non sia invece la strada migliore per creare presupposti solidi per costruire relazioni fondate sul rispetto e sulla considerazione reciproca». In sala molti giornalisti e volti televisivi: Lucia Annunziata, Fiamma Nirenstein, Monica Maggioni, Maria Latella, Antonio Di Bella, Paolo Liguori, Giancarlo Loquenzi, Annalisa Chirico. E poi - dato molto interessante - numerosi comunicatori italiani del mondo ebraico: Daniel Rerichel (Unione Comunità israelitiche), Daniel Fuinaro (Comunità ebraica romana), Fabio Perugia (Ospedale Israelitico di Roma). Si apre col saluto emozionante dell’ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar : «I miei quattro figli rappresentano la quarta generazioni di sopravvissuti alla Shoah per parte di madre, se i nazisti avessero portato fino in fondo il loro progetto criminale, non sarebbero mai venuti al mondo. Oggi il vecchio antisemitismo assume la nuova maschera dell’antisionismo, dell’odio contro Israele che è l’unico Paese rappresentato nell’Onu di cui altri Paesi mettono in discussione l’esistenza. La lotta contro il vecchio e nuovo antisemitismo va a beneficio di tutto il Paese, della sua società». Dore Gold cita dati allarmanti: «Gli incidenti legati all’antisemitismo, in Gran Bretagna, sono stati 500 nel 2013 e nel 2018 ben 1600, una crescita del 300%. In Francia, nel 2018, sono cresciuti del 75%». Murray racconta come degli ebrei si possa dire «tutto e il contrario di tutto, che si isolano o che vogliono integrarsi, che sono troppo ricchi o troppo poveri, che non hanno uno Stato o che lo hanno e anche molto forte….». Aziz arriva al punto: «Non c’è alcuna differenza tra l’antisemitismo, l’antisionismo e l’essere anti-israeliani». Sotto accusa, come emerge anche in altri passaggi dei relatori, l’antisionismo della sinistra europea. Aziz mostra una foto del leader laburista britannico Jeremy Corbyn in una manifestazione pro-Palestina: «Tra i manifestanti c’è chi alza cartelli violentemente anti-israeliani e nessuna ha qualcosa da dire. L’antisionismo è un nuovo modo di attirare soprattutto i giovani verso l’antisemitismo». Sullo sfondo del dibattito, l’imminente discussione e votazione in Parlamento della definizione di antisemitismo formulata dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto (IHRA), secondo cui ogni forma di odio contro Israele in quanto Stato legittimo è una forma di antisemitismo. Il testo è già stato votato dal Parlamento Europeo e da alcuni Paesi europei, tra cui la Francia (dicembre scorso) e l’Austria. Avverte Salvini: «Arriveremo in aula e così vedremo chi alzerà la mano e dirà di sì». Infine arriva una domanda su Carola Rackete: «Ritengo che Liliana Segre abbia tanto da insegnare a me e al resto del mondo, Carola Rackete no, e mi ritengo in diritto di sostenerlo liberamente».

Salvini: "L'antisemitismo in Italia? È colpa dei migranti islamici". Intervistato da un giornale israeliano, Salvini prende le distanze dai movimenti antisemiti. E rilancia: "Stop boicottaggio di Israele". Angelo Federici, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Matteo Salvini come Donald Trump. In un'intervista concessa oggi al quotidiano Israel HaYom, il leader della Lega ha affermato che è pronto a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele nel caso in cui dovesse diventare premier. Salvini, inoltre, riprendendo alcune affermazioni rilasciate questa settimana, ha assicurato che il suo partito non ha più alcun legame con organizzazioni - che Israel HaYom definisce antisemite - come CasaPound, Forza Nuova e Fiamma Tricolore. Nella sua intervista, Salvini parte con l'analizzare la situazione in Italia: "Tra i partiti seduti al governo c'è chi sostiene la Palestina, il Venezuela e l'Iran. La definizione di antisemitismo consentirà di chiarire le posizioni di queste persone, come nel caso del Bds (la campagna di boicotaggio di Israele, Ndr). C'è chi lotta per uno stato per i palestinesi, ma nega il diritto all'autodeterminazione per gli ebrei. Questa contraddizione si basa sull'ipocrisia. L'Italia è stata troppo lenta nell'adottare questa definizione internazionale (di antisemitismo, Ndr)". Poi, il leader della Lega si concentra su ciò che sta accandendo in Europa, dove si stanno registrando sempre più attacchi contro gli ebrei: "C'entra il fanatismo islamico", dice Salvini, che poi prosegue: "Ora la presenza massiccia in Europa di immigrati provenienti da Paesi musulmani, tra i quali ci sono molti fanatici che ricevono il pieno sostegno di alcuni intellettuali, sta diffondendo l'antisemitismo, anche in Italia".

Ci sarebbero, secondo il leader della Lega, due forme di antisemitismo in Occidente: quello dell'estrema destra e quello "istituzionalizzato dell'estrema sinistra. Pensa a Jeremy Corbyn o agli attivisti di sinistra in Germania che non vogliono essere come i nazisti ma si ritrovano a confiscare i prodotti israeliani". Salvini, inoltre, si è detto pronto, una volta al governo, a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. In questo modo, il leader leghista sposa, con ancora più forza, la linea dell'amministrazione Trump sul Medio Oriente. Era stato proprio il presidente Usa, il 6 dicembre del 2017, a riconoscere questa città come capitale dello Stato ebraico. Questa decisione è stata duramente contestata dalla comunità internazionale che ha visto nella mossa di Trump un possibile pericolo per l'area. Il leader di Hamas, invece, ha parlato di "una dichiarazione di guerra contro i palestinesi". Lo status di Gerusalemme è contestato. La città è stata occupata da Israele nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, e nel 1980 la Knesset, ovvero il parlamento israeliano, ha proclamato "Gerusalemme, unita e indivisa capitale di Israele". Come ricorda The Post Internazionale, però, "quella legge costituzionale fu definita però nulla e priva di validità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nella risoluzione 478. Fu considerata una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente". Per questo motivo, nessun Paese aveva mai spostato la propria ambasciata a Gerusalemme, preferendo Tel Aviv. Matteo Salvini è sempre stato un sostenitore di Israele e, in particolare, del premier Benjamin Netanyahu, che aveva incontrato il 13 dicembre del 2018. In quell'occasione, si era registrata una delle prime fratture all'interno del governo gialloverde. Il leader della Lega aveva infatti definito il Partito di Dio libanese un movimento terroristico: "Chi vuole la pace, sostiene il diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele. Sono appena stato ai confini nord col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione". Queste parole avevano provocato l'ira dell'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta: "Non vogliamo alzare nessuna polemica, ma tali dichiarazioni mettono in evidente difficoltà i nostri uomini impegnati proprio a Sud nella missione Unifil, lungo la blue line. Questo perché il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, è sempre stato riconosciuto nell'area". In seguito all'uccisione mirata del generale iraniano Qassem Soleimani, Salvini si è schierato al fianco del presidente americano Trump dicendo: "Donne e uomini liberi, alla faccia dei silenzi dei pavidi dell’Italia e dell’Unione europea, devono ringraziare Trump e la democrazia americana per aver eliminato Soleimani uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà". Solamente tre giorni fa, Salvini ha organizzato un incontro in Senato, intitolato "Le nuove forme dell'antisemitismo", in cui ha affermato che "chi vuole cancellare Israele ha in noi un avversario sempre" e ha chiesto che il Parlamento acceleri "l'approvazione del documento su come si identifica l'antisemitismo oggi". Come notava tempo fa Francesco Giubilei su IlGiornale, il leader della Lega è molto legato ai neoconservatori americani, in particolare alla galassia che ruota attorno a John Bolton, che rappresentano i più importanti sostenitori (e alleati) di Israele nel mondo: "I sostenitori di Salvini sono più al di fuori del governo piuttosto che al suo interno a partire dai leader tradizionali del movimento conservatore e dal gruppo di intellettuali legati all'area del national conservatism".

Dacia Maraini per corriere.it il 24 dicembre 2019. Mi capita di scrivere queste poche righe proprio sotto Natale. Un giorno in cui si festeggia la nascita di un bambino straordinario che ha cambiato le sorti di una grande parte del mondo. Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra. In nome di Cristo sono state fatte delle orribili nefandezze. La scissione fra etica e politica è accaduta nel momento in cui la Chiesa, da idealistica e innovativa forza rivoluzionaria si è trasformata in un impero che ha subito costruito il suo esercito, le sue prigioni, i suoi tribunali, la sua pena di morte. Ma molti, proprio dentro la Chiesa, hanno rifiutato i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l’intolleranza e la passione per la guerra. Oggi la novità del movimento delle Sardine ricorda alla lontana le parole di un pastore povero che a piedi nudi portava a pascolare le pecore. I movimenti che abbiamo conosciuto finora, perfino il grande Sessantotto, usavano le parole Lotta, Guerra, Appropriazione, Distruzione, Nemico da abbattere, ecc. Mentre le piccole sardine , (che spero tanto non si facciano trasformare dai media in tonni pronti per la mattanza), rifiutano l’insulto e l’aggressività. Non pretendono di cambiare il mondo, ma di introdurre in una società sfiduciata e cinica, una nuova voglia di idealismo. Non hanno sbagliato simbolo secondo me, perché la sardina da sola non esiste, ma in una massa di corpi volanti, aiuta il mare a compiere i suoi cicli vitali. Inoltre possiamo dire che la sardina è ormai il solo pesce che non provenga da allevamenti intensivi, non si nutre di farine sintetiche, e non viene rimpinzata di antibiotici. Il fatto che riescano a smuovere tante persone, soprattutto giovani, è segno di una richiesta di nuove idealità, ovvero fiducia nel futuro, progetti comuni, spirito di solidarietà e collaborazione. Certuni li ridicolizzano, ma non si accorgono che fanno del male prima di tutto a se stessi. Con il sarcasmo perpetuano il vizio tutto italiano di disprezzare tutto ciò che è comunitario, di sentirsi superiore a ogni manifestazione di indignazione civica, di criticare tutto e tutti in nome di una conoscenza del mondo più antica e superiore.

LA RISPOSTA DEL RABBINO DI SEGNI ALL’ARTICOLO DI DACIA MARAINI. Da shalom.it il 24 dicembre 2019. “Capisco che in questi giorni festivi si esaltino i buoni sentimenti e la non violenza. Capisco che si cerchi di sottolineare che il nuovo movimento politico che riempie le piazze porti una ventata di freschezza. Quello che mi riesce più difficile da capire è che si debba per forza trovare nelle complesse anime di questo movimento un afflato religioso natalizio. E ancora di meno capisco che si debba trovare in tutto questo una opposizione religiosa. Da una parte il vecchio testamento violento e misogino, dall'altra la rivoluzione cristiana pacifica e le sardine. Perché se è innegabile la presenza di violenza e di un atteggiamento maschilista nelle antiche pagine della Bibbia, è anche vero che le stesse pagine parlano di pace, perdòno e amore, esaltando ruoli femminili. E che tutto questo si trascina e cresce nella tradizione successiva. E che la rivoluzione cristiana è tutt'altra cosa. Oggi un cristiano informato sa evitare le banalità e le menzogne di questa antica opposizione (che ha un nome preciso: marcionismo), che è rimasta però in mente e in bocca ai laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti. Bisogna diffidare di chi predica una bontà stucchevole condita di false informazioni. È normale che un nuovo movimento politico cerchi di ispirarsi agli insegnamenti antichi, ma dovrebbe essere cauto nelle semplificazioni. Dopo il Gesù socialista, rivoluzionario più o meno armato, femminista ecc., oggi abbiamo anche, grazie a Dacia Maraini, il Gesù sardina. A me pare quasi una bestemmia, ma fate voi.”  Lo scrive il rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, nella sua pagina di Facebook, in risposta all’articolo di Dacia Maraini.

Dacia Maraini per corriere.it il 25 dicembre 2019. Mi dispiace se senza volere ho offeso la sensibilità di qualcuno con il mio articolo di martedì 24 dicembre sul «Corriere della Sera». Non avevo nessuna intenzione di criticare o offendere la religione ebraica. Non ho scritto un saggio sulla Bibbia ma solo un breve articolo di venti righe, semplificando per forza di cose, sulla nascita di Gesù bambino e su come le sue parole siano state poi tradite da una Chiesa cattolica troppo preoccupata del potere e gelosa delle sue prerogative. Non intendevo affatto riferirmi alla religione ebraica o alla Torah, ma solo a una storia tutta italiana di scontri fra una Chiesa diventata impero e una Chiesa che nella sua base continuava a credere nelle parole di Cristo. Considero la Bibbia un meraviglioso testo, di grande profondità e di grande poeticità. Ma certamente non può essere presa alla lettera. Le religioni savie hanno sempre storicizzato. E credo che anche la religione ebraica lo abbia fatto con saggezza. Per quanto riguarda le Sardine e l’accostamento che qualcuno ha considerato blasfemo, vorrei ricordare che per molti secoli Cristo veniva raffigurato con un pesce. Come scrive il dizionario «il pesce, essendo un animale che vive sott’acqua senza annegare, simboleggia il Cristo che può entrare nella morte pur restando vivo». Fra l’altro chiederei un poco di rispetto per una persona che, seppur bambina, ha subito due anni di campo di concentramento in Giappone per antifascismo e antirazzismo. Sento da sempre il dolore per le incommensurabili sofferenze del popolo ebraico, che ho sempre difeso e di cui ho spesso parlato nei miei libri con partecipazione e affetto.

Lettera del dottor Massimo Finzi a Dagospia il 25 dicembre 2019. La merda più la tocchi più puzza: se Dacia Maraini avesse tratto tesoro da questo vecchio adagio avrebbe evitato di peggiorare la situazione nel tentativo di correggere i contenuti di un suo precedente articolo pubblicato sul Corriere della Sera. Purtroppo per lei “verba volant, scripta manent”. Riferendosi a Gesù, Dacia Maraini aveva scritto testualmente: “ Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono.” Una frase che contiene un pregiudizio duro a morire (la religione ebraica improntata a giustizia severa e vendicativa) e un grave errore storico (Gesù avrebbe introdotto nella cultura monoteista il concetto del perdono). Nella tradizione ebraica giustizia e misericordia hanno eguale importanza (….senza misericordia il mondo non esisterebbe….) e sono in equilibrio tra loro come le due ali di un aereo il cui assetto di volo è garantito da entrambe le ali e mai da una sola. A proposito del perdono l’ebraismo ha sempre assegnato ad esso una importanza fondamentale tanto da dedicare  un giorno intero del calendario al Kippur(il giorno dell’espiazione e del perdono). Una ricorrenza rispettata con il digiuno assoluto anche dagli ebrei meno osservanti e addirittura nei campi di sterminio dove un solo boccone di pane poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Durante i dieci giorni che separano il capodanno ebraico dal Kippur, gli ebrei operano una ricognizione profonda alla ricerca delle colpe o delle offese che possono essere state commesse nei riguardi della Divinità, o nei confronti dei propri simili  o anche contro la natura. Questa accurata introspezione culmina nel giorno del kippur con il proposito a non ripetere gli errori, con il pentimento e soprattutto con l’invocazione del perdono. Dio, nella sua grande misericordia concederà il perdono per le offese rivolte a Lui se il pentimento è stato sincero. Il perdono per le colpe tra gli esseri umani deve essere diretto nel senso che la richiesta deve essere avviata da chi ha commesso la colpa e può essere concesso solo da colui che ha ricevuto l’offesa. La tradizione ebraica non contempla un perdono “conto terzi” e neppure permette di porgere la guancia di un altro; di conseguenza neppure i discendenti diretti possono concedere il perdono per le offese rivolte ad un loro parente. Vorrei consigliare a Dacia Maraini una breve visita alla libreria di Via Elio Toaff dove potrebbe trovare una ricca esposizione di libri di cultura ebraica: eviterebbe di scrivere “inesattezze” e imbarazzanti tentativi di correzione. Lo dico con il rispetto che debbo ad una persona come lei il cui padre fu rinchiuso, insieme alla sua famiglia, in un campo di concentramento giapponese per essersi rifiutato di servire nella repubblica sociale di Salò.

«Antisemitismo, Sala non si limiti a tagliare i nastri». Alberto Giannoni il 17 gennaio 2020 su Il Giornale.

Walker Meghnagi, past president della Comunità ebraica, che significa Memoria?

«Mi rifaccio al testamento di rav Laras, grande rabbino capo e grande uomo, che aprì con un altra grande figura come il cardinal Martini il dialogo fra cristiani ed ebrei. Laras spiega che la Shoah ha segnato per sempre la sua esistenza. Ma aggiunge che la Giornata della Memoria è anch’essa arrivata a una crisi di senso e di comunicazione».

Le pietre di inciampo sono un ricordo toccante e doveroso, non le pare?

«Sono belle, ma serviranno per le prossime generazioni. Sollecitano la memoria, devono essere fatte, perfetto, ma io dico: fermiamo gli antisemiti, quelli del passato e quelli del futuro! Io ho pagato sulla mia pelle, so cosa vuol dire antisemitismo dalla mia infanzia in Libia».

Che ricordo ne ha?

«Frequentavo la scuola italiana, che ci dava le aule di nascosto, per studiare ebraismo. Quando lo hanno scoperto, lì ci hanno ammazzato di botte. Ho tredici ferite, una volta usarono un vetro. Io non abbassavo la testa, ero già come mio padre, che era stato minacciato per questo, dagli islamisti. Aveva un’azienda e un giovedì sera, lui a un capotavola e mia madre all’altro, disse ai noi figli maggiori: Lunedì partiamo. Mia madre ci raggiunse in Italia dopo 45 giorni coi piccoli. Abbiamo dovuto lasciare tutto, le nostre radici, le scuole, le sinagoghe, i nostri cimiteri. L’odio che colpisce gli ebrei non arriva da una parte sola».

Cosa intende dire?

«Quando si dice razzismo uguale antisemitismo è un errore. Vedo Sala che marcia contro l’odio. L’antisemitismo esiste da sempre, milioni di ebrei sono stati uccisi, ma l’antisemitismo ha delle specificità e va combattuto per quello che è oggi. Non si può relegare a una sola espressione della destra, forse 70-80 anni fa era così, oggi non più».

Oggi cosa vede?

«Vedo il Bds, movimento antisemita mascherato da anti-sionismo. Vediamo legami documentati fra aree vicine a questo movimento e il terrorismo. Tutto ciò dietro una facciata di difesa dei diritti umani. Ci sono persone che alimentano l’odio per Israele e considerano gli ebrei italiani responsabili di ogni cosa faccia. Io da italiano esigo rispetto».

La rassicura la mozione del centrodestra in Regione?

«Mi rassicura tutto ciò che va in questa direzione, anche il convegno di Salvini. Sono disponibile a parlare con tutti. Sono antirazzista, potevo nascere nero e arrivare su un barcone dalla Libia. Dialogo con tutti, ma non si faccia un calderone parlando genericamente di odio. Ci sono valori che non si possono sacrificare».

La preoccupa l’islamismo?

«Io non ho paura dei musulmani, temo gli antisemiti e il terrorismo di matrice islamica. Certo se non si blocca e si cavalca la tigre corre. In Italia, al di là di quelle manifestazioni che nessuno ha condannato, non ce ne sono molte come in altri Paesi europei, vedi la Francia. In piazza San Babila, il 25 aprile, al 90% sono centri sociali ad aggredire la Brigata ebraica. E si sente dire: Dovevate restare nei lager. Mi sfugge il motivo per cui le autorità consentano certe manifestazioni come quelle del 2017 o quella recente che in stazione Centrale definiva terroristi gli Stati Uniti, sull’Iran».

Nel 2017 la condanna del sindaco arrivò, lenta e rituale.

«È raro che alcune forze politiche di sinistra dicano: Anche tra di noi esiste l’antisemitismo. Sono cerimonie, sindaci, conferenze, tagli di nastri. Io vorrei una presa di posizione per un fenomeno che non è più strisciante».

Il Pd parlò di matrice neofascista di quegli slogan.

«C’è difficoltà a difficoltà a riconoscere la realtà, che è sfaccettata. Erano musulmani, non c’entrava niente il fascismo. Il fascismo è stato una brutta bestia, terribile, ma questo non vuol dire che tutto sia fascismo. E oggi chi non è di sinistra è definito fascista. O accusato, tacciato di essere salviniano, o di Fdi. Bisogna uscire fuori da questi luoghi comuni».

Lei al convegno di Salvini sarebbe andato, a differenza di Liliana Segre che ha detto no.

«Assolutamente sì, se qualcuno mi chiama per dialogare io devo essere disponibile. Ci sono intellettuali divisivi, portatori di una cultura di intolleranza, che vedono la violenza da una parte sola. Una dipendente del Comune ha insultato Israele, non mi interessa parlare della persona, ma nessuno ha preso posizione».

Lei avrebbe voluto un provvedimento del sindaco?

«No, e ha ragione che non può e non deve controllare tutti, ma avrei voluto una presa di posizione ufficiale, non parlare con due tre persone della Comunità. Doveva dire che era contro quella violenza verbale. Invece niente. Se fosse stato qualcuno di destra sarebbe scoppiata l’Italia».

La sinistra antisemita a braccetto con l’islamismo. Alberto Giannoni su Il Giornale il 20 dicembre 2019. Si sa ormai che il Partito laburista di Jeremy Corbyn, per fortuna travolto alle ultime elezioni nel Regno Unito, è stato pesantemente infettato dall’antisemitismo. Il centro Wiesenthal lo inserito nelle liste dei peggiori antisemiti e a pochi giorni dal voto il rabbino capo inglese Ephraim Mirvis lo ha definito pubblicamente un pericolo per gli ebrei inglesi, lanciando un allarme che è stato condiviso anche dal capo della Chiesa anglicana, l’arcivescovo Justin Welby. Meno noto è il fatto che anche i Democratici americani stiano rischiando la stessa deriva, a causa di esponenti vicini all’islam politico. Adesso lo stesso virus ha attecchito in Francia, dove il comunista Mélenchon – proprio commentando la sconfitta di Corbyn, nel tentativo di difenderlo – si è scagliato contro la Comunità ebraica, con accuse strampalate e cospirativiste che in Francia qualcuno ha iscritto direttamente nel solco dei collaborazionismo filo nazista del regime di Vichy. Mélenchon è un riferimento per i gilet gialli, in cui si trova un inquietante impasto di islamismo ed estremismo politico, rosso e nero. E fra le vergogne dei gilet gialli c’è l’aggressione ad Alain Finkielkraut, il filosofo ebreo parigino. Questa situazione non trova riscontro nei grandi partiti italiani, ma alcuni segnali di convergenze inquietanti ci sono da tempo, basti pensare ai vessilli di Hezbollah che sventolavano in piazza San Babila durante l’infame aggressione alla Brigata ebraica nel giorno (teoricamente consacrato a celebrare la Liberazione). Ma, poco notate dai più, c’erano anche bandiere con la falce e il martello, a Milano, nella piazza Cavour delle grida jihadiste, a dicembre 2017. E questo incontro fra islam politico e sinistra estrema, che da anni aleggia, a Milano e non solo, trova una ambiente naturalmente propiziatorio nel bds, il movimento per il boicottaggio di Israele che si dice antisionista e fa – neanche proseliti fra vecchi arnesi della sinistra estrema e i nuovi  militanti dell’islam politico che inneggiano all’Intifada (“un sasso qua e un sasso lì) e manifestano per la Palestina invocando Allah (come nel noto corteo che nel gennaio 2009 si concluse con la preghiera sul sagrato del Duomo).

Dall’antisemitismo di Corbyn a quello nostrano “di maniera” pieno di ambiguità. Secondo il rabbino della Rocca dalla persecuzione degli ebrei è derivato un senso di colpa che è una chiave per comprendere le spinte antisemite di oggi. PIetro Di Muccio De Quattro il 21 Dicembre 2019. Con due editoriali, documentati e argomentati, Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli hanno affrontato sul Corriere della Sera il tema dell’antisemitismo in Italia e Gran Bretagna. Mieli dimostra che il leader del partito laburista Jeremy Corbyn che ha perso rovinosamente le elezioni anche per ambiguità su questo tema – merita appieno le accuse e le censure di antisemitismo che svariate parti, anche autorevolissime, della società britannica gli muovono da tempo. E si stupisce che «la sinistra politica e culturale del nostro Paese ( con alcune, purtroppo poche, lodevoli eccezioni) pur particolarmente attenta agli slittamenti antisemiti nel discorso pubblico italiano non abbia ritenuto meritevole di attenzione queste particolarità di Corbyn che hanno suscitato allarme persino nell’arcivescovo di Canterbury». Mieli dunque stigmatizza non solo “l’ambigua sinistra inglese” ma anche la sinistra italiana che evidentemente, Mieli non lo dice ma lo lascia supporre, fa prevalere a riguardo la scelta dell’affinità politica sul dovere della condanna morale. E qui soccorre Galli della Loggia, che investigando “la realtà profonda dell’antisemitismo” ne pone in luce la peculiarità italiana, definita una sorta di antisemitismo “indiretto” o “di risulta”. Sicché la variante italiana della peste antisemita ( espressione nostra, questa) sarebbe alimentata anche “da un ultimo fattore: l’uso politico dell’Ebraismo da parte dei non ebrei, cioè l’uso che gli esponenti politici non ebrei – solo loro, solo e sempre esponenti della politica e dunque perlopiù, ahimè, personaggi agli occhi dell’opinione pubblica largamente screditati – fanno spesso e volentieri dell’Ebraismo. ” Antisemitismo “di rivalsa” e “d’invidia”, “vale a dire l’effetto aggressivo di un avvilimento, una forma di ottusa rivalsa per la capillare mortificazione che l’identità europea si trova a subire da tempo”, come si esprime Galli della Loggia, il quale pare considerarlo anche il risvolto dell’attestazione di un preteso “impeccabile status etico- ideologico”, non proprio “la manifestazione di un’effettiva avversione diretta nei confronti degli ebrei” ma una forma strumentale, occasionale ed enfatica, di adesione (“vicinanza/ solidarietà/ amicizia/ stima ecc. ecc.”) all’Ebraismo. Il rabbino Roberto Della Rocca ha scritto sulla stessa testata che Galli della Loggia “ha messo bene in luce non solo le responsabilità della civiltà occidentale nella persecuzione e nell’odio verso gli ebrei, ma anche il senso di colpa conseguente che ne è derivato e che, a suo parere, sarebbe una delle chiavi principali per comprendere l’antisemitismo contemporaneo.” A nostro modo di vedere, esiste un’altra linea di demarcazione che si diparte dalle considerazioni di Galli della Loggia. Troppi ambigui personaggi, anche non screditati, affollano la rumorosa categoria degli anti- antisemiti, come vorremmo definirla a nostra volta. Costoro sfoggiano un anti-antisemitismo cerimoniale, di maniera, ad uso e consumo di telecamere, talk show, “social” e consigli comunali. Nelle aporie dell’esibita contrarietà all’antisemitismo, tipica di un certo strato politico- culturale della società italiana, è riscontrabile invece un latente cripto antisemitismo. Gl’Italiani anti- antisemiti, infatti, non sempre sono filo- israeliti, per non dire filo- israeliani. Dell’antisemitismo avversano il mallo anziché il gheriglio.

La vita impossibile degli ebrei in Francia. Roberto Vivaldelli su Inside Over  il 24 gennaio 2020. Islamismo fa rima con antisemitismo. Lo sanno bene gli ebrei francesi, che ogni giorno devono fare i conti con l’avanzata dell’islam radicale, soprattutto nelle periferie e nei sobborghi cittadini, interamente dominati dagli islamisti, com’è è emerso da un documento riservato inviato dal Ministro dell’Interno transalpino, Cristophe Castaner, ai vari prefetti, con la richiesta di convocare al più presto i gruppi di valutazione dei vari dipartimenti. Come già spiegato da Inside Over, il Dgsi, l’intelligence interna francese, ha mappato almeno 150 banlieue che sarebbero attualmente in mano all’islam radicale. No-go zone dove lo stato è totalmente assente e dove la vita per gli ebrei è diventata impossibile. È solo l’ultima conferma di una situazione che si fa davvero allarmante. Come riporta lo Spectator, gli attacchi antisemiti  nel 2018 sono aumentati del 74% rispetto all’anno precedente e le cifre per l’inizio del 2019 hanno rivelato un aumento del 78% rispetto allo stesso periodo del 2018. “Gli ebrei, che rappresentano meno dell’uno per cento della popolazione, sono soggetti a più della metà degli atti razzisti commessi in Francia”, ha dichiarato Francis Kalifat la scorsa settimana. Kalifat, che è presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia (Crif), ritiene inoltre che il numero di vittime sia più elevato. “Molte persone non sporgono denuncia”, ha osservato. “O perché non serve a niente o perché temono rappresaglie”.

55.000 ebrei hanno già lasciato la Francia. I numeri dell’antisemitismo in Francia fanno davvero impressione. Dodici ebrei sono stati uccisi specificamente a causa della loro religione dal 2003 ad oggi. La vittima più recente è Sarah Halimi nel 2017, picchiata a morte dal suo vicino musulmano, Kobili Traoré.  Secondo quanto riferito, Traoré e la sua famiglia avevano insultato l’anziana donna ebrea in numerose occasioni e l’assassino ha ammesso che vedere un candelabro ebraico e un libro di preghiere ebraiche nell’appartamento di Halimi aveva scatenato l’aggressione mortale. Peccato che poi, nonostante l’efferatezza dell’omicidio, i giudici del tribunale lo abbiano in parte graziato, poiché non era a conoscenza “degli effetti negativi” dell’abuso di cannabis. La verità è che, come racconta lo Spectator, gli ebrei in Francia si sentono abbandonato a loro stessi. Negli ultimi anni circa 55.000 ebrei hanno lasciato la Francia per Israele, soprattutto da Parigi e Marsiglia. Ad Aulnay-sous-Bois, un quartiere vicino a Saint-Denis nel nord di Parigi, il numero di famiglie ebree è sceso da 600 a 100 negli ultimi anni. Rimangono appena 460.000 ebrei in Francia, che con l’avanzare dell’islamismo nel Paese, rischiano di essere sempre meno.

L’allarme di Finkielkraut: “L’antisemitismo è di sinistra”. Alain Finkielkraut, uno dei più importanti filosofi e intellettuali francesi, è intervenuto di recente per lanciare l’allarme sull’avanzata dell’antisemitismo e dell’islamismo nel Paese. “In Francia l’antisemitismo fa parte dell’estrema sinistra e di una parte crescente della popolazione con un background migratorio”, ha dichiarato alla rivista tedesca Der Spiegel. “È particolarmente preoccupante che l’estrema sinistra difenda l’Islam radicale e antisemita per due ragioni: ideologicamente, perché per loro i musulmani sono i nuovi ebrei; ma anche per ragioni tattiche, perché oggi ci sono molti più musulmani che ebrei in Francia. Quindi, anche l’islamismo di sinistra ha un futuro, e ne ho timore”. “L’antisemitismo non è una cosa del passato, ha anche un futuro”, ha detto Finkielkraut. È evidente che la sinistra che parla di antisemitismo senza condannare con fermezza l’islam radicale non può essere credibile. Il caso francese è emblematico.

·        La Sinistra e le Donne.

Simona Bertuzzi per “Libero Quotidiano” il 30 luglio 2020. Il premier Conte deve avere un problema con le domande, soprattutto quelle delle donne. Ride della Meloni che lo interroga sugli italiani prostrati dai divieti e gli immigrati liberi di varcare i nostri confini e violare tutti i controlli. E viene in mente quando ad aprile, pungolato sulla mancata zona rossa ad Alzano, investì la giornalista di Tpi, Francesca Nava, dicendole «se lei un domani avrà la responsabilità di governo, scriverà tutti i decreti ed assumerà tutte quante le decisioni». La modalità è la stessa. Ridurre l' interlocutrice a poca cosa. Farla sentire inopportuna, insipiente e incapace. Peccato che nell' intervento della Meloni, come nella domanda lecita della giornalista, ci fosse nulla di divertente. Ad aprile si contavano i morti di covid e le bare lasciavano Bergamo portandosi appresso un corteo di dolore e lacrime. Ieri invece si faceva il punto sulla proroga dello stato di emergenza. Chiedeva la leader di Fratelli d' Italia con quale faccia si possano multare i commercianti che scendono in piazza e invocano aiuto e chiudere le attività di chi non rispetta il distanziamento, e però permettere a centinaia di clandestini di entrare nel territorio italiano e poi violare la quarantena imposta dalle misure di sicurezza. E il premier rideva. Quale sia il lato comico di questa domanda sinceramente ci sfugge. E chissà come l' avranno presa gli italiani citati dalla Meloni. Che poi vedete. La leader di Fratelli d' Italia non ha bisogno di difese d' ufficio, è talmente avvezza a farsi largo in politica che ha subito stigmatizzato la risata e rincarato la dose: «Non c' è niente da ridere, la nostra responsabilità ci impedisce di essere conniventi». Però la cosa non è sfuggita ai media che puntualmente hanno titolato "Meloni parla e Conte ride". Visto da donna, cittadina, giornalista, la risata del premier è stata uno sgarbo politico e umano. Le domande non sono tutte comode, anzi. E sicuramente governare è faccenda onerosa. Questa maggioranza viene da mesi di emergenza e decreti infilati all' ora della cena. Riunioni sfinenti, decisioni vitali. Ma la politica è faccenda complicata e quasi sempre, a chi governa, tocca l' ingrato onere di rendere conto del proprio operato davanti al Paese, all' opposizione e persino ai giornalisti. Uomini e donne. Avesse ricevuto una donna di sinistra il medesimo trattamento riservato alla Meloni, avremmo assistito a una levata di scudi e le femministe tutte quante si sarebbero alzate dai loro ombrelloni ben distanziati per chiedere conto al governo e magari una parola di scuse. Poiché si tratta di una leader di destra, la questione si può facilmente relegare alla voce "risata di stagione". Qualcuno d' altra parte è certo che non si tratti di deriva machista, quella in voga in questi tempi bui. Ma di una attitudine caratteriale del premier Conte, il quale pungolato su temi fastidiosi, non risponde nel merito ma attacca. D' altronde, ricordate tutti. Era maggio e la fase due era appena cominciata. Un giornalista gli chiese lumi sull' operato del commissario Domenico Arcuri e Conte rispose: «È stato un impegno faticoso il suo, se poi lei ritiene di far meglio, ne terrò conto per il futuro». Appunto. Eludere la domanda e sminuire l' interlocutore. Peccato che il paese si aspetti risposte e non battute piccate o risate sprezzanti.

Pietro Senaldi attacca il Pd: "Paladini delle donne solo a parole, Nilde Jotti l'ultima che ha fatto carriera". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 31 luglio 2020. Scoppia l'ennesimo psicodramma nel Partito Democratico. Il consiglio regionale pugliese, a maggioranza di centrosinistra, non ha approvato la legge sulla doppia preferenza di genere che imponeva alle prossime elezioni di settembre di votare sia un uomo sia una donna. La ministra autoctona Teresa Bellanova, tanto per cambiare, piange. Si lamenta che i maschi hanno umiliato le femmine. Niente di nuovo sotto il sole. Sul territorio il Pd non ha mai premiato le donne, tant' è vero che i suoi governatori sono tutti uomini, e così pure i sindaci delle principali città. E questo anche dove la sinistra governa indisturbata da decenni, e quindi forse una candidatura femminile si sarebbe potuta tentare. A parole i democratici sono tutti paladini del gentil sesso, a favore delle quote rosa e pronti a cedere il passo non solo quando si entra al ristorante ma anche quando ci si deve accomodare sull'unica poltrona disponibile. Nei fatti sono di gran lunga più maschilisti di leghisti, forzisti e perfino grillini. Non è un caso se l'unica leader donna sia Giorgia Meloni, a capo del partito più a destra dell'emiciclo, e se la donna che ricopre la più alta carica istituzionale sia espressione del centrodestra, la forzista Elisabetta Alberti Casellati. Neppure è un caso che entrambe le signore siano largamente sgradite a parlamentari e stampa di sinistra. Come lo era Mara Carfagna, l'unica ministra della storia per cui essere donna era una colpa, visto che era bella e piaceva a Berlusconi. Se una signorina vuol far carriera puntando solo sulle proprie forze, le conviene guardare a destra e non a sinistra perché da quelle parti, dopo tanti anni, quella che è andata più avanti di tutte resta ancora Nilde Iotti; e parliamo del secolo scorso. Brava e irreprensibile, ma anche la donna del capo. Per di più, se ricoprì ripetutamente la carica di presidente della Camera, la compagna Leonilde lo deve più alla galanteria e alla benevolenza dei democristiani che a quella degli eredi di Togliatti. fedelissima boschi Se vogliamo venire ai giorni nostri, per trovare una donna davvero di potere sul fronte progressista non possiamo che citare la renziana Maria Elena Boschi, altra fedelissima del capo. Doveva passare alla storia per le sue riforme, ma non se ne fece nulla e oggi compare sui giornali più che altro per le sue forme, peraltro più apprezzabili dei suoi progetti di modifica costituzionale. Altre figure femminili davvero di spicco provenienti dai partiti di sinistra, non se ne vedono né ricordano. Forse la Boldrini, ma fu eletta presidente per caso, e proprio in quanto donna, e si costruì il suo personaggio mediatico dopo. Gloria effimera perché, con la fine del mandato, la signora si è progressivamente spenta, persa dietro alle sue battaglie che hanno sempre meno eco. In sintesi, non c'è bisogno di essere maschilisti per non strapparsi i capelli davanti alla scelta del consiglio regionale di consentire agli elettori di votare chi vogliono a prescindere dal fatto che sia uomo o donna. Anche perché, viste alla prova dei fatti, le signore della sinistra non incantano. La Bellanova, che si lamenta, ha varato una sanatoria per gli immigrati fallimentare. Lo scopo era eliminare il caporalato nei campi ma si sono regolarizzati in pochi, e non nell'agricoltura. Intanto, frutta e verdura continuano a marcire nei campi e i produttori per riuscire a piazzare i loro prodotti spesso sono costretti a vendere sotto il prezzo di costo. L'altra renziana al governo è la Bonetti, la ministra tabula rasa alla Famiglia, alla quale l'esecutivo ha tagliato i fondi, approfittando della sua inconsistenza. tristezza democratica. Quanto al Pd, su sette ministri schiera solo una donna, la De Micheli. Ha la delega alle Infrastrutture ma più che dei cantieri, che stanno paralizzando intere regioni, si occupa del bonus biciclette. In compenso Conte voleva licenziarla accusandola di sabotaggio perché ha avuto posizioni ritenute morbide con i Benetton su Autostrade. le altre signore Le altre signore dell'esecutivo sono la Azzolina, e qui ormai basta la parola, la Lamorgese, che ha appena dichiarato che gli immigrati portano il Covid ma ciononostante si sta attivando per trasformare l'Italia in un ostello per profughi, la Dadone e la Pisano - chi le ha viste? - , e la Catalfo, alla quale dobbiamo il fallimento del reddito di cittadinanza. Più che testimonial femminili, si tratta di prove viventi che la competenza non è questione di genere. Anzi, valutandole viene da chiedersi se le quote rosa non siano in realtà un boomerang per le donne: aiutano le meno capaci a discapito delle più brave. Ma il nostro Paese procede per mode. Due mesi fa l'opinione pubblica si scandalizzò improvvisamente perché la commissione Colao aveva più maschi che femmine. In tutta fretta vennero arruolate due o tre signore, delle quali nessuno oggi ricorda il nome ma che possono condividere con gli uomini il disastroso esito dell'operazione, coronato dall'inabissamento della famosa app Immuni, elaborata da questo trust di cevellone/i. A proposito, che fine ha fatto? 

·        Ramelli, lo Squadrismo Rosso ed il negazionismo.

Condanne per il "presente" a Ramelli: per il giudice è colpa della "deriva sovranista". Depositate le motivazioni delle condanne per apologia di fascismo. Per il gup l'esigenza di tutela delle istituzioni democratiche "non è stata mai attuale come nel presente momento storico, nel quale (...) si assiste ad una pericolosa deriva sovranista". Elena Barlozzari, Mercoledì 11/11/2020  su Il Giornale. Erano troppi e troppo emozionati i ragazzi che il 26 aprile del 2019 si sono mossi da piazzale Susa in direzione del murales che campeggia sotto casa di Sergio Ramelli, ucciso a 18 anni da un commando di Avanguardia Operaia, per dare vita al rito del "presente". Questo, in estrema sintesi, il ragionamento che ha spinto un gup di Milano a condannare a 1 mese e 10 giorni di carcere per apologia di fascismo cinque persone, tra cui anche il leader di CasaPound Italia Gianluca Iannone. Le motivazioni della sentenza, arrivata lo scorso settembre, sono state depositate recentemente. "L'evento, lungi dal configurarsi come la mera commemorazione di un defunto, aveva, ed ha sempre avuto, il precipuo scopo di porre in essere manifestazioni usuali del disciolto partito fascista e di compiere attività di proselitismo", si legge nero su bianco nei motivi che hanno portato il giudice ad applicare la legge Scelba. "Il che - prosegue il provvedimento - emerge anche dal semplice rilievo dei numeri: mentre nel 2013 avevano partecipato alla manifestazione 600 persone, nel 2019 vi prendevano parte 1200 soggetti". "1200 persone delle diverse realtà extraparlamentari di destra riunite in modo compatto, che insieme rispondono alla chiamata del presente e alzano il braccio nel saluto romano con orgoglio ed entusiasmo, certamente creano in soggetti che si ritrovano nelle loro idee una suggestione, una forza, una evocazione del passato regime tali da rappresentare un concreto tentativo di proselitismo e, quindi, un concreto pericolo di raccogliere adesioni finalizzate alla ricostruzione di un partito fascista", argomenta il giudice. Non ha fatto breccia la linea difensiva e il richiamo ad alcuni precedenti giurisprudenziali, tra cui le sentenze della Cassazione penale numero 28298 e 1138 del 2016 e la 8108 del 2017, che hanno stabilito il principio secondo il quale "deve escludersi la rilevanza penale di manifestazioni quali il saluto romano, la chiamata del presente e l'uso di croci celtiche che, pur essendo certamente di carattere fascista, sono state poste in essere esclusivamente come omaggio ai defunti commemorati, non avendo alcuna finalità di restaurazione fascista". Le sentenze citate si riferivano a giudizi relativi a passate manifestazioni in ricordo di Ramelli, quindi fattispecie identiche a quelle oggetto di giudizio. Ma allora perché stavolta le stesse condotte sarebbero da considerarsi reato? Il gup sembra rispondere nel passaggio in cui sottolinea che l'esigenza di tutela delle istituzioni democratiche "non è stata mai attuale come nel presente momento storico, nel quale episodi di intolleranza e violenza dovuti a motivi razziali sono all'ordine del giorno e si assiste ad una pericolosa deriva sovranista". Ma un simile ragionamento non stravolge forse il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale? Non c'è il rischio di lasciar intendere che la sussistenza o meno di un reato possa dipendere dal partito che vince le elezioni nel momento in cui si celebra il processo? Una visione, questa, non proprio in linea con i valori fondanti della Costituzione italiana, pensata proprio dagli antifascisti che la scrissero per tutelare i diritti dei cittadini dalla tirannia del potere dominante. "Non avevo alcuna aspettativa, il clima di Milano lo conosciamo tutti", ci spiega l'avvocato Simone Andrea Manelli, difensore dei cinque condannati. "Eppure proprio sul saluto romano commemorativo di Ramelli, cioè lo stesso fatto posto in essere negli anni precedenti, un orientamento della recentissima giurisprudenza della Cassazione ha chiarito che in quel contesto non integra il reato contestato agli imputati poiché non ha fine propagandistico". "Ciascuno usa le proprie lenti per fare le valutazioni, fortunatamente ci sono tre gradi di giudizio - conclude - ed avremo modo di far valere le nostre ragioni".

Perché oggi è ancora così difficile parlare di Sergio Ramelli?.  Simona Di Rutigliano il 29/04/2020 su Il Giornale Off. Oggi ricorre il quarantacinquesimo anniversario della morte di Sergio Ramelli, ucciso a Milano nel 1975 a colpi di chiave inglese da attivisti di Avanguardia operaia. A causa dell’emergenza sanitaria non sarà possibile deporre alcuna cerimonia, che però può esser fatta privatamente alla memoria di Sergio e di tutte le vittime dell’odio che insanguinò l’Italia in quei drammatici anni di piombo (Redazione). Morti di serie A e di serie B perché non a tutti i defunti è concesso il ricordo. A pochi giorni dalla commemorazione del 25 aprile e quindi, dalle scomparse causate dalla Destra, ieri si è riproposto l’anniversario di un’altra morte, quella del giovane Sergio Ramelli alla quale però, non è concessa alcuna commemorazione riconosciuta a livello nazionale. Ma andiamo per ordine. Sergio Ramelli fu un militante fiduciario del Fronte della Gioventù durante gli anni di piombo. Mai poteva immaginarsi quale atroce fine lo aspettava. Dei rispettabilissimi medici praticanti, all’epoca dei fatti studenti, decisero di porre fine alla sua vita. All’interno del gruppo degli assassini e dei mandanti compare anche una donna, Brunella Colombelli, divenuta in seguito ricercatrice. Tutti militanti della sinistra extraparlamentare legati ad Avanguardia Operaia. I due carnefici, armati di chiave inglese, sfracassarono letteralmente il cranio di Ramelli che morì dopo una lunga agonia. Ma perché ancora oggi è difficile parlare di Ramelli? La verità è semplice: è impossibile per chi ha sempre ripudiato la violenza, collegandola unicamente alla Destra, giustificare una morte causata dalla mano dell’antifascismo. Tutti rammaricati, eppure convinti che Sergio Ramelli, più che vittima della Sinistra, fu una vittima di un’epoca storica dove davanti ad un avvenimento simile, non c’era sicuramente da meravigliarsi troppo. Assurdo, vero? Ma anche oggi non c’è da meravigliarsi: stiamo parlando di antifascisti, quelli che darebbero la vita per la democrazia a patto che il parere espresso sia conforme al loro pensiero. In caso contrario, si salvi chi può. Stiamo parlando di soggetti che più volte si sono detti terrorizzati dall’aspetto militaresco della Destra e dai suoi ideali mentre giustificano però, spesso e volentieri, l’omicidio di Sergio Ramelli. Sto parlando della Sinistra che ci circonda, e posso affermare per certo che la maggior parte di questa non ha proferito nemmeno mezza parola in merito alla commemorazione della scomparsa di Ramelli. Gli stessi che il 25 aprile erano in lacrime riempiendosi la bocca di belle parole e di quanto la violenza fosse da contrastare. Ecco, a me invece, a terrorizzare sono queste persone. Mi viene un dubbio quindi, che Sergio Ramelli e tutti quelli che oggi vengono anche solo minacciati, non siano veramente vittime dell’antifascismo. Sono infatti veri e propri perseguitati dei moralisti antidemocratici, che adottano ormai da anni l’antifascismo come arma per mettere a tacere chiunque sia di un parere diverso dal loro. Basta questa etichetta per scatenare contro la persona che la “sfoggia”, violenza politica e anche fisica. Dobbiamo essere obiettivi, il fascismo ha causato morti, anche la controparte però non ha scritto la storia a colpi di fiori ed arcobaleni, con la differenza che oggi continua a negare e giustificare non capendo che “in Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti” come diceva Ennio Flaiano e loro non sono altro che la fotocopia stampata con colori diversi, di ciò che criticano e temono. 

Walter Veltroni per il ''Corriere della Sera'' il 17 febbraio 2020. Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni. Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. «Tutti, tutti dormono sulla collina». Ho raccontato su queste colonne la storia di Mario Amato — magistrato coraggioso o forse solo magistrato — che fu ucciso da un commando di giovani fascisti. Ho scritto di Carlo Castellano, dirigente dell’Ansaldo iscritto al Pci, la cui vita è stata segnata dai colpi di pistola sparati da giovani che tirarono il grilletto sulle sue gambe in «nome del proletariato». Oggi voglio parlare di Sergio Ramelli, un ragazzo con i capelli lunghi che fu aggredito a Milano la mattina del 13 marzo del 1975 a colpi di chiave inglese e morì il 29 di aprile. Ma bisogna fare un passo indietro. Questo ragazzo, in niente dissimile fisicamente dai suoi coetanei di sinistra, ha idee di destra. Pier Paolo Pasolini, a smentire una diversità quasi antropologica, aveva scritto in una lettera a Italo Calvino: «Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale». Sergio non si distingue «da tutti gli altri giovani» ma ha idee di destra e non le nasconde. Non è, racconta chi lo ha conosciuto, un fanatico. Da poco ha aderito al Fronte della Gioventù. Ma è capitato in una scuola dove le sue idee non sono tollerate. Tutto comincia con un compito in classe. Il professore chiede ai ragazzi di descrivere un episodio che li abbia impressionati. E Sergio scrive un tema sul primo assassinio delle Brigate Rosse, quello compiuto a Padova nel 1974, in cui dei terroristi erano entrati in una sede del Msi e avevano ucciso a freddo Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola. Quel tema fu l’inizio della sua fine. I suoi compagni ne vennero a conoscenza e i membri del collettivo politico di Avanguardia Operaia affissero i fogli di carta protocollo al muro sottolineandone le frasi e commentandolo con la scritta: «Ecco il tema di un fascista». Comincia così il calvario di Sergio nella sua scuola. Lascio il racconto dei vari momenti a Luca Telese che, con il suo «Cuori neri», ha provveduto a integrare la memoria di quegli anni orrendi. «Una mattina del gennaio 1975, i ragazzi del collettivo extraparlamentare del Molinari entrano nella classe di Sergio. Interrompono la lezione, zittiscono le flebili resistenze del professore, prelevano Ramelli dal suo banco e lo trascinano fuori. Nessuno si azzarda a fermarli. In corridoio inizia un processo sommario: sputi in faccia, insulti: “fascista, vergognati!”. Poi, quando lo lasciano andare, una minaccia: “Con te abbiamo appena iniziato, Ramelli...”». È la mattina del 13 gennaio 1975, Sergio sta uscendo da scuola, con lo zaino dei libri in spalla. Basta solo un segnale che subito viene raggiunto da un gruppo di ragazzi, molti dei quali, più grandi di lui, non frequentano nemmeno la sua scuola. Dieci anni più tardi i testimoni di quel giorno ricostruiranno l’accaduto davanti ai magistrati, ma allora nessuno aiuta il ragazzo. Sergio viene fermato, spintonato, costretto a impugnare un pennello. Viene — si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio — «circondato in strada da circa ottanta studenti e costretto a cancellare con la vernice bianca scritte fasciste comparse sul muro dell’Istituto...». Racconta la madre Anita Ramelli: «Tornò a casa tutto sporco, ma a me disse solamente: “C’erano delle scritte e hanno voluto che le cancellassi”. Non voleva allarmarci, metterci in apprensione...». La giornata più drammatica, nel corso della lunga persecuzione che prepara il delitto, è quella del 3 febbraio 1975. Dopo molte discussioni, papà e mamma Ramelli hanno deciso di imporre al figlio di abbandonare il Molinari. A malincuore Sergio è costretto ad accettare, e quella mattina entra a scuola accompagnato dal padre per sbrigare le necessarie pratiche burocratiche. Purtroppo li stanno aspettando: nel corridoio della scuola padre e figlio sono aggrediti, picchiati e costretti a passare fra due file di studenti per un violento rituale di sottomissione. Sembra la scena di un film di Kubrick, sembra un’arancia meccanica in salsa meneghina, e ancora una volta bisogna lasciare la parola ai magistrati Grigo e Salvini per sapere come si conclude questa terrificante passeggiata: «Il ragazzo era stato colpito ed era svenuto, mentre lo stesso preside [sic] e i professori che avevano scortato il Ramelli e il padre verso l’uscita erano stati malmenati. Ancora più sconcertante la testimonianza del professor Melitton, secondo cui la preside aggredì il padre e gli disse: “Ma non vede che lei e suo figlio siete un motivo di turbamento per la scuola?”». Un suo amico di infanzia, Alfredo, mi parla di Sergio. «Siamo cresciuti giocando a calcio insieme all’oratorio. Poi abbiamo scelto due scuole diverse. Giravamo con la moto, ne comprammo persino una a metà. Non eravamo di destra, ma non eravamo di sinistra. E tanto bastava a etichettarci come fascisti. Lui era uno serio, deciso, non uno che tirava indietro la gamba, neanche al calcio. Altrimenti non avrebbe resistito a tutto quello che gli hanno fatto a scuola. Si sentiva isolato, accerchiato, uno contro mille. Cambiò istituto. Ma non bastò. Pochi giorni prima che lo aggredissero eravamo andati insieme al cinema Corso per vedere Chinatown di Polanski». Sono giorni orribili, a Milano. La città è l’epicentro della strategia della tensione, definizione non impropria. Tutto comincia non con Piazza Fontana, ma con la morte dell’agente Annarumma, nel novembre del 1969, ucciso durante scontri tra manifestanti marxisti-leninisti e polizia. Siamo nel pieno dell’autunno caldo. Che diventerà presto inverno. Il giorno dei funerali la città partecipa tutta intera. La tensione è alle stelle. La destra cavalca il dolore e l’indignazione. Un giovane con un fazzoletto rosso al collo si avvicina alla bara e la folla, nella quale ci sono molti neofascisti, lo aggredisce. Viene salvato a stento dalla polizia. Scrive la cronaca del Corriere della Sera: «Al salvataggio hanno contribuito l’onorevole Bettino Craxi, il sindacalista Giulio Polotti e Mario Aniasi, fratello del sindaco che si trovavano in quel punto. Poco lontano è avvenuto l’episodio di Capanna...». Mario Capanna viene aggredito e picchiato dai fascisti. C’è una foto che racconta quegli anni folli. Il commissario Calabresi — che un mese dopo si troverà al centro della vicenda Pinelli e al culmine di un’odiosa campagna denigratoria sarà ucciso vigliaccamente davanti alla sua 500 — accompagna Capanna, dopo averlo salvato dal linciaggio. A Milano, esattamente un anno dopo Piazza Fontana, ci sarà la morte, di nuovo durante scontri con la polizia, dello studente ventitreenne di sinistra Saverio Saltarelli. La sua morte verrà raccontata dolorosamente da una canzone di Virgilio Savona, raffinato intellettuale che guidava, gramscianamente, il popolare Quartetto Cetra. Poi moriranno Roberto Franceschi, e tanti altri. Ragazzi di destra e di sinistra. Sono anni di sangue, a Milano. Achille Serra, che allora lavorava alla mobile, ricorda lo strano attentato alla Questura, nel 1973. Era il giorno della visita di Mariano Rumor, allora ministro dell’Interno. La bomba fu lanciata da Gianfranco Bertoli, un singolare anarchico. «Un anarchico di destra, un tipo fragile, al quale fu messa in mano da qualcuno la bomba da tirare», dice Serra. La Commissione stragi indagò sul suo caso «confermando la presenza di Bertoli tra coloro che furono inseriti, pur se con esito negativo, nella struttura di Gladio». Tempi bavosi, altro che nostalgia...Il sangue continuerà a scorrere, in quegli anni milanesi. Ignazio La Russa, che è stato avvocato della famiglia Ramelli, racconta come tutto, per la destra, cambia con la morte dell’agente Marino, quando due esponenti neofascisti gettano bombe a mano contro la polizia. Fino a quel punto, dice La Russa, «avevamo un rapporto privilegiato con le forze dell’ordine. Quella follia cambiò tutto». Sergio Ramelli, con il suo Ciao e i suoi capelli lunghi, torna a casa, quel giorno di marzo del 1975. Lo aggrediscono in due, ma molti altri sono nei dintorni. Lo colpiscono con delle chiavi inglesi al capo, con violenza, ripetutamente. Nel libro di Giraudo e altri, pubblicato da Sperling, Sergio Ramelli una storia che fa ancora paura è riportato un articolo de la Notte che descrive quei momenti: «Sergio Ramelli si è accasciato al suolo, ma gli aggressori, trasformando il pestaggio in vero linciaggio hanno continuato a infierire, mentre il volto si copriva di sangue, che usciva abbondantemente da una ferita al capo». Morirà dopo 47 giorni di agonia. I responsabili sono dei giovani del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia. Poco dopo, non turbato dagli accadimenti, lo stesso commando diede fuoco a un bar «di destra» bruciandolo e rendendo invalido un ragazzo. Scriveranno dieci anni dopo alla madre: «Non avevamo nulla di personale contro suo figlio, non lo avevamo conosciuto né visto; ma, come troppo spesso accadeva in quel periodo, il fatto di pensare in modi diversi, automaticamente diventava causa di violenza gratuita e ingiustificabile. Nessuno di noi però aveva l’intenzione e neppure il semplice sospetto che tutto potesse finire in modo così terribile. Oggi riteniamo profondamente sbagliato, anzi inconcepibile il dirimere le differenze tra i diversi modi di pensare con la pratica della violenza». E oggi, diventati padri, sono certo lo pensino davvero. La violenza nei confronti di Sergio è proseguita incredibilmente anche dopo la sua morte. Hanno continuato a fare scritte di minaccia al fratello, a devastare la vita di quella famiglia con quotidiane telefonate anonime, a minacciare il padre. Una vera persecuzione. Bisognava essere dei fanatici, o delle belve, per non avere neanche rispetto del dolore che straziava la famiglia Ramelli. Quel dolore che oggi indossa, con composta discrezione, la sorella, che allora aveva otto anni. Storie analoghe potrebbero raccontare le famiglie di tanti ragazzi di sinistra uccisi a coltellate o a colpi d’arma da fuoco, in tante parti d’Italia. Sono stati tanti, troppi. Il magistrato Guido Salvini che, assieme al collega Maurizio Grigo, condusse le indagini dice oggi: «Non era terrorismo, era violenza politica. Scoprimmo gli autori dieci anni dopo. Durante l’indagine avvertimmo un senso di isolamento, come se certi ambienti della borghesia milanese non vedessero di buon occhio il fatto che si riaprisse quel capitolo. Fummo come accusati di processare il Sessantotto. I ragazzi, diventati grandi, erano professionisti, qualcuno aveva figli. Crollarono subito e confessarono. Ci colpì che non fosse un gruppo terroristico, ma un servizio d’ordine della facoltà di medicina, i cui membri non potevano non sapere cosa significhi colpire alla testa un ragazzo con una chiave inglese da due chili. Loro non lo conoscevano, Ramelli. Agirono sulla base di una foto che gli fu fornita dal comitato interno al Molinari. Non credo volessero uccidere, ma quello è stato l’esito. Poi alcuni proseguirono con altre aggressioni e con le schedature degli avversari politici. Cosa che veniva considerata quasi normale, da una parte e dall’altra, in quei tempi. Mi colpì che negli anni successivi, nei cortei, si rivendicasse con gli slogan quella morte. La morte di un ragazzo che affiggeva i manifesti del Fronte della Gioventù, ma non aveva mai fatto male a nessuno». Nel processo, che si concluse con serie condanne, ci fu anche un sipario comico.

Dai verbali delle dichiarazioni di uno dei responsabili: «Bisogna ricordare che allora avevamo paura di un colpo di Stato. Ricordo che una mattina un mio compagno di classe mi aveva chiamato agitatissimo per dirmi: “Marco, guarda che ci sono i carri armati per le strade”. Scoprimmo poi che era la sfilata del 4 novembre».

Presidente: «Ma a scuola non vi avevano detto che il 4 novembre era la festa nazionale?».

La risposta fu: «All’epoca leggevamo più i testi del marxismo che i testi scolastici».

La Russa racconta che quando Sergio arrivò al Fronte della Gioventù, in quegli anni di scarsa affluenza, lo guardarono con sospetto. Per i capelli, per l’aria moderata, per il carattere introverso, timido. Quando si iscrisse chiese di «non ricevere la posta a casa». Erano anni duri, a destra e a sinistra. Anni di ambiguità, di distinguo pelosi e viscidi, di appelli pubblici firmati per pigrizia o per ignavia. L’Avanti — siamo prima di Craxi, non dopo — scrive un commento in cui dice: «Ramelli era noto all’ufficio politico della questura di Milano per affissione abusiva di manifesti del cosiddetto Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Msi. La morte di Sergio Ramelli ripropone una serie di gravi problemi, innanzitutto alla polizia e alla magistratura. Infatti, il permanere di episodi di violenza privata e di vendetta ha la sua radice nella mancata eliminazione dei gruppi squadristi che, instaurando un clima di sopraffazione a colpi di rivoltella, innescano una spirale di violenza pericolosissima, prevista e sapientemente calcolata dagli artefici della strategia della tensione più volte denunciata dalle forze della sinistra». L’Unità, per la penna di Claudio Petruccioli, prende una posizione ben più netta: «Nelle sprangate che lo hanno lasciato morente sul marciapiede di Via Amedeo non vi era né volontà di riscatto né amore per la libertà. In quei colpi vi era solo una violenza cieca e compiaciuta, tutta individuale, che ad altro non mirava se non a riprodurre se stessa in una spirale senza fine: tale da suscitare orrore e repulsione in ogni sincero democratico, in ogni uomo onesto». La violenza ottusa porterà nei giorni dopo a una sequenza di morti. Ragazzi di sinistra e di destra, ancora. Esistevano piazze, scuole, quartieri, cinema nei quali un ragazzo di destra o sinistra non poteva entrare. C’erano cappotti o occhiali che non si potevano portare. C’erano giornali che non si potevano leggere. È stato il tempo dei nostri muri. E della follia della violenza tra ragazzi. Uno dei momenti più belli della mia vita fu quando ero sindaco di Roma e, in una manifestazione pubblica, si abbracciarono Giampaolo Mattei — fratello dei due ragazzi di Primavalle figli del segretario di una sezione del Msi bruciati vivi da militanti di Potere Operaio che non hanno fatto carcere — e Carla Verbano, mamma di Valerio, che ascoltò, legata e imbavagliata col marito, i suoni della morte di suo figlio, un ragazzo dell’area dell’autonomia al quale dei killer fascisti, mai trovati, spararono alla schiena nel salotto di casa. I morti di quegli anni non devono oggi essere rivendicati, scagliati, usati per protrarre l’odio. Il conflitto, in una democrazia, è vitale. Anche il più duro. Senza conflitto non c’è libertà. Ma l’odio è una patologia. E quegli anni sono stati un’epidemia di questo male. Non ci sono state morti giuste e ingiuste. Solo morti di innocenti. Anche in Italia è esistito un muro, invisibile. E i muri conducono, prima o poi, alla violenza. La madre di Ramelli ha raccontato: «Il giorno dopo la morte di Sergio venne un prete che aveva fatto il partigiano. Se ne stava con il suo fazzoletto blu dei Volontari della libertà, ad osservare qua sotto dove c’erano i fiori, i ragazzi, le foto di Sergio e scuoteva la testa. All’obitorio era presente per benedire la bara, e la volle seguire anche in chiesa il giorno del funerale. Quando la polizia glielo vietò si mise a gridare: “Non ho liberato l’Italia per vedere queste porcherie”». Pasolini, che verrà ucciso nel novembre di quell’anno, a proposito dei ragazzi di destra aveva scritto: «Essi non sono i fatali predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno — quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità — ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È un’atroce forma di disperazione e di nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso». Perché avete scelto proprio Ramelli? È la domanda che il giudice rivolge a uno dei responsabili dell’assassinio, nel processo del 1987. La risposta è agghiacciante: «Non esiste una risposta precisa. Ramelli per noi era un ragazzo del Fronte della Gioventù e in quel periodo rappresentava, o meglio era quello contro cui combattevamo, la destra, i neofascisti portatori di interessi politici ed economici di una classe contro la quale avevamo molto da ridire per il suo discorso antipopolare». Quel ragazzo col Ciao «rappresentava interessi politici ed economici di una classe»? E i ragazzi di sinistra uccisi erano, a loro volta, simboli del leninismo? No, quelle violenze erano «porcherie», solo porcherie, che hanno rovinato la vita a un Paese intero. E hanno impedito di vivere a ragazzi che avevano delle idee che forse avrebbero cambiato, o forse no, nel corso di una vita in cui si sarebbero innamorati, forse sposati, forse avrebbero messo al mondo dei figli. Sergio e gli altri, divisi sanguinosamente in vita, devono oggi essere uniti nella memoria collettiva. Uniti, almeno sulla collina. Lontani dagli sciagurati che, in pianura, non erano capaci di capire e vivere la legittimità e la bellezza dell’altro da sé.

Christian Raimo per jacobinitalia.it il 17 febbraio 2020. Ieri sul Corriere della sera Walter Veltroni, ex segretario della Fgci, ex militante del Pci, ex sindaco di Roma, ex segretario del Pd, ex ministro della cultura, ha scritto un lungo articolo su Sergio Ramelli, un giovanissimo militante neofascista massacrato barbaramente nel 1975 in un agguato, e morto dopo più di un mese di agonia. La storia di Ramelli è nota a chiunque conosca un po’ delle vicende politiche degli ultimi quarant’anni italiani. Ramelli dal suo funerale è diventato, anche suo malgrado, un’icona del neofascismo: la sua storia è quella di un camerata martire, al quale ogni anno a Milano migliaia di militanti di CasaPound, Forza Nuova, Fratelli D’Italia, Lealtà e Azione, eccetera, vanno a rendere omaggio, con il saluto romano e il «Presente!» urlato tre volte. Perché Ramelli sia diventato l’icona delle destre non è difficile da spiegare anche se occorre onestà intellettuale e amore per la complessità, ossia un approccio storico, per non sminuire il riconoscimento e lo sdegno per la brutalità dell’agguato senza astrarre e destoricizzare l’accaduto. Veltroni fa il contrario: apre il suo pezzo con un preambolo intellettualmente disonesto e tossico.  «Di storie come quella che sto per raccontare ce ne sono state molte, troppe, quando eravamo ragazzi. Vale la pena usare la memoria, non solo per un giorno, oggi che vediamo l’odio riemergere sui muri delle case di deportate morte da tempo e impazzare incontrollato su schermi tecnologici e moderni». In un solo paragrafo, mettendo insieme in un unico minestrone indigesto il riemergere terribile dell’antisemitismo e del negazionismo, le storie diversissime di violenza degli anni Settanta e un giudizio paternalista contro le tecnologie moderne, squalifica da subito il suo approccio. «Bisognerebbe scrivere l’antologia di Spoon River di quegli anni balordi e bastardi. Sono tanti, i ragazzi che non ci sono più. Potevano avere una divisa addosso, potevano essere di destra, potevano essere di sinistra. ‘Tutti, tutti dormono sulla collina’». È chiaro quale sia l’intento che da anni persegue Veltroni: togliere dal dibattito storico l’analisi degli avvenimenti, e relegarli a una dimensione astratta, velenosamente mielosa, astorica e vischiosamente memorialistica, omologante, in cui esistono solo le vittime, tutte uguali e confuse, umiliante persino per i famigliari che vogliono preservarne la memoria. Non è nemmeno il caso di scomodare René Girard, Giovanni De Luna, Daniele Giglioli, Slavoj Zizek, Richard Sennett, Annette Wieviorka e tutti quelli che hanno ragionato su come lo statuto della vittima abbia invaso il dibattito pubblico e persino la storia. Quello che fa Veltroni è molto più grossolano e scorretto. Sergio Ramelli viene ridotto a una figurina che non è mai stata né in vita né in morte: uno come tanti altri. «Questo ragazzo, in niente dissimile fisicamente dai suoi coetanei di sinistra, ha idee di destra. Pier Paolo Pasolini, a smentire una diversità quasi antropologica, aveva scritto in una lettera a Italo Calvino: ‘Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale’». Il Pasolini che usa Veltroni, quello per cui fascismo e antifascismo sarebbero uguali, e per cui il nemico è la modernità, è una caricatura revisionista di comodo accesso a una lettura superficiale del recente libercolo Il fascismo degli antifascisti (Garzanti) (Qui c’è un pezzo di Wu Ming 1 che ricostruisce bene il disgusto per il fascismo e la militanza antifascista di Pasolini). Sergio Ramelli è un ragazzo che ha idee fasciste, confuse, ingenue, come possono essere quando si è solo dei liceali chiaramente. Ha cominciato a costruirsi un’ideologia e un impegno politico da giovanissimo, e a esporsi. In nome di questa esposizione, verrà preso come bersaglio e ucciso. La sua storia non assomiglia a quella di altri perché ha i capelli lunghi, e perché rossi e neri sono tutti uguali, ma perché per come tutta la sua generazione la politica è ovunque. E la violenza politica fa parte della militanza. Tutto questo ha chiaramente un impatto drammatico, dolorosissimo per milioni di persone. Ma immaginare di leggere quegli anni senza la consapevolezza di un’età trasfigurata dalla militanza anche violenta, dimenticare che c’erano milioni di persone che pensavano di poter trasformare la realtà attraverso una rivoluzione (accadeva in altri paesi) o di difendersi dalla violenza dello Stato (era un’ipotesi che in altri paesi – di fatto tutto il mondo mediterraneo e latino – portava a dittature feroci) vuol dire, ancora, essere scorretti se non dei revisionisti. Comprendere in modo complesso la storia non vuol dire giustificare o rivendicare i suoi momenti più brutali: vuol dire chiamare le cose con il proprio nome, lasciare ai protagonisti della storia le responsabilità e le scelte, ricostruendone la genesi e l’evoluzione. Ramelli, scrive Veltroni facendosi scudo delle parole di un amico d’infanzia, «non era né di destra né di sinistra, e tanto bastava a etichettarlo come fascista». Anche qui è chiaro come, persino dando corda a quello che è un revisionismo amicale, chiamiamolo così, ciò che passava per la testa a un ragazzo di diciott’anni contasse e conti poco per la storia. Ramelli, che era un militante neofascista, è diventato un martire neofascista, anche ovviamente malgrado sé. Come ricostruisce Elia Rosati sul n. 42 della rivista Zapruder, i funerali di Ramelli furono la prima occasione per una strategia mitopoietica molto consapevole nel Movimento sociale italiano e nella destra neofascista tutta: «Tra il 1968 ed il 1976 il neofascismo italiano si trovò a vivere un periodo intensissimo, in primis il Movimento sociale: tra fermenti neosquadristi, strategia della tensione, scontri di piazza, grandi successi/tonfi elettorali e un’infruttuosa lotta con i liberali di Malagodi e Bignardi per diventare l’unico partito d’ordine alla destra della Dc. Giorgio Almirante – segretario ininterrottamente dal 1969 al 1986 – provò a gestire questa fase, sfruttando con spregiudicatezza tutte le carte in suo possesso, in primis le piazze, con il perenne problema di governare emotivamente le varie fazioni interne al suo mondo, anche costruendo un nuovo capitolo dell’altra-memoria. […] L’occasione con cui sperimentare la propria narrazione storica si concretizza il 5 maggio 1975, durante il funerale per la morte di Sergio Ramelli, il futuro cuore nero ufficiale del partito. La vicenda – oggettivamente tragica – venne presentata come un caso storico paradigmatico: chiaro il movente e il colpevole – l’antifascismo militante – incorruttibile e pura la figura della vittima – giovanissima, sconosciuta alle cronache, perseguitata a scuola dalla sinistra extraparlamentare, colpita di notte sotto casa e lasciata lì semimorente». L’operazione mitopoietica è selettiva e strumentale. I Cuori neri, come li chiamerà Luca Telese in un fortunato e velenosissimo libro anni dopo, sono giovani e vittime, a volte nemmeno dichiaratamente militanti, spesso hanno frequentato per qualche mese le sezioni del Fronte della gioventù, uccisi in agguati brutali, a cui vengono dedicate le sezioni neofascisti dagli anni Settanta fino a oggi; non più i militanti missini o di altre formazioni come Avanguardia Nazionale o Terza Posizione, morti in degli scontri con altri militanti di sinistra. I ragazzi, i giovanissimi, vengono cameratizzati soprattutto a cadavere caldo. Il Movimento sociale italiano a guida Almirante si rende conto che ha bisogno di eroi, e sfrutta – scrive ancora Elia Rosati – il massacro di giovanissimi per costruire una narrazione metastorica «secondo la quale: la violenza politica dei lunghi anni Settanta aveva trovato nell’uccidere un fascista non è reato il suo filo rosso; cominciando dai missini padovani morti nella sede del partito – in seguito a un’azione delle Brigate rosse – fino a quello che è considerato a destra come l’ultimo  strascico violento degli anni Settanta, la morte di Di Nella». Veltroni avvalora in tutto e per tutto, anzi corrobora questa narrazione che s’inaugura proprio al funerale di Ramelli. Lo scenario storico che ricostruisce Veltroni è questo: «Sono giorni orribili, a Milano. La città è l’epicentro della strategia della tensione, definizione non impropria. Tutto comincia non con Piazza Fontana, ma con la morte dell’agente Annarumma, nel novembre del 1969, ucciso durante scontri tra manifestanti marxisti-leninisti e polizia. Siamo nel pieno dell’autunno caldo. Che diventerà presto inverno. Il giorno dei funerali la città partecipa tutta intera. La tensione è alle stelle. La destra cavalca il dolore e l’indignazione. Un giovane con un fazzoletto rosso al collo si avvicina alla bara e la folla, nella quale ci sono molti neofascisti, lo aggredisce. Viene salvato a stento dalla polizia. Scrive la cronaca del Corriere della Sera: "Al salvataggio hanno contribuito l’onorevole Bettino Craxi, il sindacalista Giulio Polotti e Mario Aniasi, fratello del sindaco che si trovavano in quel punto. Poco lontano è avvenuto l’episodio di Capanna…".  Mario Capanna viene aggredito e picchiato dai fascisti. C’è una foto che racconta quegli anni folli. Il commissario Calabresi — che un mese dopo si troverà al centro della vicenda Pinelli e al culmine di un’odiosa campagna denigratoria sarà ucciso vigliaccamente davanti alla sua 500 — accompagna Capanna, dopo averlo salvato dal linciaggio. A Milano, esattamente un anno dopo Piazza Fontana, ci sarà la morte, di nuovo durante scontri con la polizia, dello studente ventitreenne di sinistra Saverio Saltarelli. La sua morte verrà raccontata dolorosamente da una canzone di Virgilio Savona, raffinato intellettuale che guidava, gramscianamente, il popolare Quartetto Cetra. Poi moriranno Roberto Franceschi, e tanti altri. Ragazzi di destra e di sinistra. Sono anni di sangue, a Milano». Letto così è tutto un grande papocchio, scritto male, astorico, incomprensibile, confuso, colpevolmente sciatto, in cui tutti aggrediscono tutti, manifestano non si sa perché, si sparano a casaccio. Proviamo invece a concentrarci sul contesto neofascista per comprendere qualcosa. Il Movimento sociale italiano fino al 1973, Elia Rosati lo ricostruisce bene, è il partito dell’ordine, sta tentando un maquillage che lo affranchi dalla storia mussoliniana, un affiancamento alla Dc e ai liberali in parlamento, già nelle elezioni precedenti del 1972, in nome di un atlantismo che paga, almeno sembra, in termini di consensi elettorali. Ma molti giovani militanti non hanno nessuna simpatia né per l’idea di partito dell’ordine, né per quella di fare da sostegno alla Dc andreottiana, né per l’atlantismo.  «Infatti il 12 aprile del 1973 a Milano una manifestazione nazionale del Msi, vietata e poi disconosciuta dal partito stesso, degenerò in forti scontri che tennero in ostaggio la parte nord est del centro cittadino per diverse ore. Durante gli incidenti di piazza alcuni sanbabilini uccisero con una bomba a mano l’agente di Ps Antonio Marino: nel giro di pochi istanti tutta la campagna missina per presentarsi come partito d’ordine crollò; in una manifestazione del Msi era stato ucciso un poliziotto. Fu così che la vicenda tragica di Sergio Ramelli, deceduto in seguito ai traumi ricevuti dopo un’agonia di quarantotto giorni (il 29 aprile 1975), offrì la cinica occasione per un riscatto mediatico e storico». In mezzo, non dimentichiamolo, c’è anche la strage di Brescia, 1974, che mostra in modo plateale la contiguità tra eversione neofascista e apparati dello Stato. Questa svolta decisiva viene ridotta da Veltroni a quattro elusive righe: «Ignazio La Russa, che è stato avvocato della famiglia Ramelli, racconta come tutto, per la destra, cambia con la morte dell’agente Marino, quando due esponenti neofascisti gettano bombe a mano contro la polizia. Fino a quel punto, dice La Russa, ‘avevamo un rapporto privilegiato con le forze dell’ordine. Quella follia cambiò tutto’». Attraverso la morte di Ramelli, come di altri, da Francesco Cecchin (18 anni) e Paolo Di Nella (20 anni), e attraverso soprattutto il processo nel 1987, in una fase storica completamente mutata, l’Msi trova una specie di rigenerazione. Invece di essere un partito che guarda ai colonnelli e al franchismo, sembra essere un capro espiatorio, e s’imbelletta da forza democratica: proprio quella narrazione che servirà a Gianfranco Fini, a Gianni Alemanno, a Giorgia Meloni, per provare a piegare l’antifascismo a violenza ingiustificata, e a presentare il neofascismo in un alveo democratico. Non a caso i primi a ringraziare Veltroni del suo articolo sono proprio Gianni Alemanno, Giorgia Meloni e Il Secolo d’Italia. Ma da quando, nel 2008, Gianfranco Fini esce definitivamente dall’agone politico, la storia cambia completamente: i movimenti neofascisti, CasaPound in primis (sulla scorta ideologica di Terza Posizione, e quindi anche di una distanza storica dal Movimento sociale italiano) rivendicano la violenza, lo squadrismo, l’arditisimo, e Sergio Ramelli è uno dei morti con cui si cammina insieme, come i martiri di Acca Larentia a Roma, come tutto il pantheon di martiri degli anni Settanta e Ottanta. Tutto questo piano storico e politico insieme, Veltroni non lo riconosce o non lo contempla o colpevolmente lo elide. Così finisce il suo articolo: «Sergio e gli altri, divisi sanguinosamente in vita, devono oggi essere uniti nella memoria collettiva. Uniti, almeno sulla collina. Lontani dagli sciagurati che, in pianura, non erano capaci di capire e vivere la legittimità e la bellezza dell’altro da sé». Quando era sindaco di Roma, Veltroni ha dedicato molta dell’odonomastica romana ai morti giovani di quegli anni, a quella che vorrebbe fosse un’unica Spoon River. A Villa Chigi per esempio, fece apporre una targa con scritto Paolo Di Nella, 1963-1983, vittima della violenza. Senza un aggettivo né una contestualizzazione storica. Come se in quegli anni fosse passato uno tsunami nelle piazze italiane. Paradossalmente c’è voluto il sindaco Gianni Alemanno per aggiungere Vittima della violenza politica. Rimangono poi due questioni più cruciali. La prima riguarda la disgustosa associazione tra cuori neri e cuori rossi. Soprattutto in questi giorni in cui si commemora il quarantennale della morte (anche questo un massacro brutale) di Valerio Verbano. Verbano era un giovane antifascista e aveva raccolto un lungo dossier che mostrava i rapporti tra criminalità, eversione nera e forze dell’ordine, l’esatto patto letale che portò ad avere in Italia il rischio concreto di una deriva alla greca. Questa storia non è la stessa della militanza neofascista, non è nemmeno lontanamente assimilabile, come fa Veltroni nel suo articolo. Vogliamo davvero ridurre la conoscenza storica di quegli anni alla narrazione Telese-Veltroni? La seconda riguarda il giudizio che dobbiamo dare come storici sulla violenza politica che fu tra i Settanta e gli Ottanta un fatto terribilmente drammatico e al tempo stesso di massa. È possibile farlo decontestualizzando la violenza, analizzandola a prescindere del contesto sociale, evitando di storicizzarla?  Questa è una domanda vera, laica, aperta, per gli storici. Gli ultimi libri di Monica Galfré e di Miguel Gotor ne ragionano, con l’ovvia complessità, e il dolore che serve. Senza facili semplificazioni che fanno specie quando le fa un ex sindaco di Roma, e fanno ancora più specie quando si scrivono editoriali sul Corriere della sera.  

Raimo critica Veltroni: distinguere vittime di squadrismo rosso o nero è agghiacciante. Piero Sansonetti de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. Negli anni Settanta, e anche negli anni Ottanta, in alcuni cortei dell’estrema sinistra si gridavan questo slogan: “Tutti i fascisti come Ramelli, con una riga rossa tra i capelli”.  Sergio Ramelli, anni diciannove, liceale, era un ragazzo, del Msi, cioè di estrema destra, che fu ucciso nella primavera del 1975 a sprangate in testa, mentre tornava a casa. Fu ucciso dal servizio d’ordine di un gruppo extraparlamentare milanese, Avanguardia Operaia. Che gli tese un agguato vigliacchissimo. Giorni fa Walter Veltroni ha scritto un articolo sul Corriere della Sera nel quale ha ricordato la vicenda dell’omicidio Ramelli e ha cercato di ricostruire il clima e la follia nei quali vivevamo in quegli anni, nei quali la lotta politica aveva confini inumani. Veltroni – che all’epoca era un giovane militante della federazione giovanile comunista – ha scritto per spiegare che i morti furono molti, e i morti fascisti non erano diversi dai morti di sinistra, e gli uni e gli altri erano vittime di una cultura di odio che aveva raggiunto punti altissimi di barbarie, e che non riguardava poche decine di persone ma un settore largo della nostra generazione. L’articolo di Veltroni è stato durissimamente contestato da uno scrittore abbastanza conosciuto, come Christian Raimo, che scrive libri e articoli su diversi giornali di sinistra. Raimo sostiene che equiparare i morti fascisti ai morti comunisti è una operazione disgustosa. E che Ramelli, suo malgrado, è un simbolo del fascismo di quegli anni. Quindi – dice Raimo – ricordarlo come una vittima, un martire, un ragazzino che ha subito soprusi atroci, fino alla morte – e soprusi osceni ha subito, per anni, la sua famiglia – è prova del tradimento di Veltroni. L’articolo di Veltroni era un articolo molto molto bello. Su Raimo a me vengono due osservazioni. La prima è che l’unica giustificazione che trovo, alle sue affermazioni su Ramelli, è la sua giovane – relativamente giovane – età. Raimo, credo, è nato dopo la morte di Ramelli. Probabilmente neanche immagina cosa furono quegli anni, nel bene e nel male. E come li vivemmo noi, militanti di sinistra e di destra, con furore, con passione, con amore, ma anche con folle violenza. Al di là di questa giustificazione non c’è nient’altro che possa salvare l’articolo di Raimo. L’idea che un importante intellettuale italiano possa distinguere tra vittime dello squadrismo rosso o nero mi agghiaccia. Mi chiedo quando mai la sinistra potrà riprendersi se i suoi intellettuali sono a questo punto. Quando ricomincerà a pensare? E poi mi torna nella mente quello slogan: “Con una riga rossa tra i capelli”. E mi rimbomba, mi rimbomba mentre leggo l’articolo di Raimo.

·        Rizzo. L’Ultimo Comunista.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 17 febbraio 2020.

Scusi, Rizzo, ma lei è ancora comunista? Perché, sa, c' era la diceria che fossero estinti.

«Sempre. Io ho una sola rotta. Ma non ci sono più i comunisti. D' Alema non lo era anche se fingeva, Fassino e Veltroni hanno pubblicamente dichiarato di non esserlo mai stati, anche se l' uno dirigeva la più grande sezione del Pci a Torino e l' altro dirigeva l' Unità. Delle due l' una: o mentono prima o mentono dopo. Ne aggiungerei un' altra: mentono sempre».

Cominciamo bene, sembra l' incipit di un apologo di Majakovskij (anch' egli comunista). Marco Rizzo, 60 anni, torinese ma romano d'adozione, pelata alla Kojak e pensieri sempre lucidi, ha Marx impresso nei neuroni e la falce e martello nel simbolo del suo partito; ed è davvero -probabilmente con Giorgia Meloni- il politico più coerente sulla piazza. Anche troppo. Rizzo, per dire, da deputato per Rifondazione comunista, arrivò a criticare Cossutta e Bertinotti perché troppo moderati. Ora, coerentemente e poeticamente legato alle lotte politiche e sociali che ha combattuto sin dagli anni 70, Rizzo riappare per sfidare nel collegio numero uno della Capitale il potente ministro dell' Economia Gualtieri, candidato dal Pd (che Rizzo un po' odia).

Rizzo, la domanda sorge spontanea: perché lo fa, perché vuol tornare in Parlamento?

«La questione è semplice: accade che Zingaretti in pomposa conferenza stampa annuncia che la candidatura al collegio Roma centro- presidio storico del Pd, ultrasicuro, dove era stato eletto Gentiloni- sia assegnato al mite Gianni Cuperlo. Senonché lì viene candidata la giornalista Federica Angeli da Renzi e Calenda. Allora Zingaretti, nel giro di pochi giorni, lascia a piedi Cuperlo e candida, in corsa, Roberto Gualtieri. Allora sai che succede? A Marco Rizzo gli girano, raccoglie in fretta e furia le firme e si candida proprio lì. Tra l'altro, io abito in Prati».

Cioè, vuol dire che si candida per difendere dalle angherie il mite Cuperlo? Oppure perché ritiene che Gualtieri sia l'«uomo della Lagarde e dei potentati europei» contro cui lei si batte da sempre?

«La seconda. Gualtieri è l'uomo delle banche, della grande finanza, quello che appena Christine Lagarde, passando dal Fondo Monetario alla Bce, disse: "sarebbe un ottimo ministro dell' Economia", fu nominato subito ministro. Ma la domanda che vorrei fargli è: signor ministro si sente davvero autonomo rispetto alle lobby europee? Poi ce ne sarebbero altre due: ma il ministro dell' Economia ha davvero bisogno di fare il deputato? Ovvio che sarà sempre assente. Non è che, ad essere maliziosi, sa che questo governo dura poco e, potendo ritrovarsi disoccupato, s'è assicurato il paracadute? Ma anche restasse a spasso, non basterebbe una telefonata per fare il consulente a Goldman Sachs?».

Sono quattro, le domande. Ma non credo il ministro le risponderà.

«Allora gliene faccio un'altra. Giustamente s'è attaccato Salvini perché usava il ruolo di ministro per fare propaganda. Quello però era un ministro d'ordine, Gualtieri è un ministro di spesa. Non sarebbe opportuno che, durante la campagna, smettesse il ruolo per evitare conflitti d' interesse?».

Interrogativi legittimi. Anche se, permetta, che Gualtieri, politico europeo di vecchio pelo, sia stato messo lì -come Gentiloni e Amendola- per raddrizzare i rapporti con la Ue e lo spread, non è esattamente una novità. Avevamo in ballo una procedura d'infrazione e altre amenità.

«Non è una novità, ma non ha mai smentito. E come se un tifoso della Juve dicesse: "Rizzo è un ottimo tifoso del Toro"; io direi che quel tifoso non lo conosco. Anche perché, parliamoci chiaro: chi mi vota sa quel che vota. Se ci pensa sono rimasto l' unico a battermi contro la Ue e contro l' euro».

Questo è vero. A sinistra. Ecco: il suo slogan è "L'altro punto di vista"; ma non crede che molte delle sue battaglie, specie contro l'Europa, siano già state cavalcate da altri, tipo la Lega?

«Salvini, con la Ue, è stato maleducato, ma in realtà è l'altra faccia della medaglia, è il Piano B. Quand' era ministro doveva mettere in discussione i trattati e non l'ha fatto, togliere il pareggio di bilancio in Costituzione e non l'ha fatto, bloccare il fiscal compact e idem. Ed è quello che, quando il ministro Tria ha accettato il Mes (il Meccanismo Europeo di stabilità ndr) non ha fiatato. Invece di fare cadere il governo sul nulla è lì che doveva agire».

Rizzo, sia sincero: pensa di essere eletto?

«Di sicuro la mia presenza scompagina, credo che andrà a votare poca gente».

Ma per un gesto di vera rottura allora -gliela butto lì- non era meglio allearsi con la Lega e Fratelli d' Italia (i temi sociali, in fondo, sono molto simili)?

«Mai con Lega e centrodestra, io ho una faccia sola, non l' ho mai cambiata a 30/40 anni, figuriamoci ora che ne ho 60. E tenga conto che il collegio uno non è solo borghese. Si vota in una zona variegata, da Prati all' Esquilino, da Testaccio a Monti, da una parte di Trastevere a una di Chinatown; ci sono anche quartieri popolari, e lì io vado».

Il suo programma ha due punti fondamentali: i giganti del web devono pagare le stesse tasse degli artigiani di Roma. E i grandi centri commerciali devono stare fuori dal Grande raccordo Anulare. Che sono due vecchie proposte di Renzi e Salvini, tra l' altro. Le crede realizzabili?

«Le ricordo che le idee di Renzi attraversano tutte le latitudini e longitudini, ma non si realizzano, e che Salvini stava al governo. Sui centri commerciali: se vuoi comprarti una cosa lì devi mettere il culo sulla macchina, pagare la benzina, e alla fine ti varrà di più la pena comprare quello che cerchi al negozietto all' angolo. Perché sa cosa? Si sta verificando quello che Marx chiamava la "caduta tendenziale del saggio di profitto"».

Sapevo che saremmo arrivati a Marx.

«Ovvio. La progressiva espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi. Le piccole aziende chiudono, c'è la proletarizzazione del ceto medio. L' altro giorno una mia amica avvocato di 42 anni, che non riusciva a pagare più nemmeno la cassa forense era entusiasta per essere riuscita ad ottenere un insegnamento in una scuola superiore».

Ecco il problema: ascensore sociale che si ferma e va verso il basso. È preoccupato per i suoi figli?

«Secondo lei? Ho tre figli, di 26, 27 e 30 anni: il primo è disoccupato, una porta in giro i cani e l' altra è precaria. In Italia 26 persone detengono il patrimonio del resto della popolazione. La soluzione sarebbe la redistribuzione dei redditi: lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio».

La politica registra il braccio di ferro quotidiano tra Italia Viva e il governo. Dalla prescrizione alle concessioni autostradali è tutto una minaccia di far saltare il banco. Crede che Renzi darà la spallata?

«Renzi è un ottimo killer politico, non comprerei mai un'auto usata da lui. Ma per esperienza posso dire che non spingerà al voto anticipato. Mancano ancora 40 mesi alla fine della legislatura: sono 640mila euro per ogni parlamentare, la maggior parte dei quali non verranno rieletti, eppoi c'è la storia dell' elezione del Presidente della Repubblica».

E mentre va in scena il teatrino della politica, la Ue taglia le stime del Pil italiano: siamo ultimi nella crescita e per debito pubblico in Europa. Non crede che dovremmo preoccuparci di questo, alla fine?

«Ma certo. L' Italia dal dopoguerra alla caduta del Muro ha vissuto una condizione di privilegio, era il Paese-cuscinetto con la frontiera dell' est e aveva il più grande partito comunista dell' Occidente. Avevamo una certa libertà nei settori dell' energia (anche se poi Mattei l' hanno ammazzato) e negli esteri. Finché Craxi non alzato la testa con Sigonella contro gli americani e Berlusconi non ha fatto l' accordo per il gas con Gheddafi e con Putin per il petrolio: chi tocca l' energia muore. L' Italia oggi, dunque, non ha più quel ruolo, esauritosi nell' 89. Oggi quel ruolo spetta a nazioni come l' Ungheria, la Polonia. Se me lo chiede, sì, sono molto preoccupato».

·        Il Zingarettismo.

Pietro Senaldi, il bluff di Nicola Zingaretti: "La stampa gli è amica, gli lanciano i pomodori ma lui rimane comunque lì". Pietro Senaldi Libero Quotidiano il 16 ottobre 2020. Zingaretti è l'uomo del grande bluff. Perde le elezioni e sostiene di aver vinto. Il Pd cede voti e lui afferma di guidare il primo partito del Paese. Viene a Milano a farsi un aperitivo per dimostrare che il Covid non deve cambiare le nostre vite e si ammala subito. Afferma che se governassero Salvini e Meloni avremmo le fosse comuni in spiaggia e due settimane dopo le progressiste Campania e Lazio diventano le Regioni dove il virus dilaga. Si vanta di guidare una macchina sanitaria all'avanguardia nella lotta al Corona e le sue unità di crisi diramano un comunicato che fotografa una situazione da Terzo Mondo: sei-otto ore di coda per fare il tampone presso i presidi pubblici con una fila media intorno alle 250 autovetture. Se ti metti al volante che sei negativo, rischi di contagiarti prima che arrivi il tuo turno. Poiché gode di stampa amica, gliele passano tutte; ma la realtà non diventa da nera a rosea solo per il fatto di non raccontarla. Ieri, 14 ottobre, era il tredicesimo anniversario della fondazione del Pd, partito a vocazione maggioritaria secondo i sogni del suo creatore, Veltroni, che subito tradì la parola alleandosi con l'Italia dei Valori di Di Pietro. Il fascino delle manette è qualcosa di irresistibile per la sinistra. Walter prese 12 milioni di voti, dando il là alla politica delle figurine, vip e nomi noti candidati al posto di politici di mestiere. Arrivarono le debuttanti al ballo Madia e Picierno, l'ex prefetto Serra, il volto tv Sarrubbi, il figlio di Colaninno, l'imprenditore nero Calearo. L'attuale Partito Democratico vale la metà dei voti di quello dell'ex sindaco di Roma e come capo non può vantare neppure un vip. Si accontenta di avere il fratello di una figurina, Nicola Zingaretti, cadetto del più noto Luca, al secolo il commissario Montalbano.

Caso Roma - Il bluff del segretario attuale è svelato dai numeri. Come illustrato dal vicedirettore Carioti, in questa stessa pagina, i dem hanno perso consensi e visto calare le loro percentuali in tutte le Regioni in cui si è votato regnante Zingaretti. Ma i trucchi non finiscono qui. Il Pd si atteggia come il partito che ha il Paese in mano. Nulla di più falso. Governa solo perché si è prestato a fare da ruota di scorta ai grillini dopo che Salvini li ha mollati, però incide pochissimo sull'azione del governo. A primavera si vota a Roma, dove la Raggi ha fallito e perfino Di Maio non la vuol più vedere neppure dipinta. Ciononostante Zingaretti, che oltre a leader del Pd sarebbe anche presidente del Lazio, non riesce a imporre un proprio nome. Forse dovrà accontentarsi di appoggiare Calenda, che ha passato gli ultimi sei mesi a dire che il segretario non capisce un'acca. La gestione del Covid è prerogativa esclusiva del premier e dei suoi commissari, tutti di provata fede grillina. L'unico dem che ha una qualche influenza è il ministro per l'Autonomia Boccia, che però è ormai molto più vicino, e non soltanto geograficamente, a Conte che a Zingaretti, al quale non riferiscono neppure le regioni rosse. Sul cavallo di battaglia grillino, il reddito di cittadinanza, il Pd non ha voce in capitolo, così come su tutti i provvedimenti identitari del Movimento che hanno sfasciato l'economia del Paese. Tabula rasa anche sulla giustizia, nonostante l'argomento sia brodo di coltura della sinistra parlamentare. Come sugli aiuti europei per la sanità, il famoso Mes: la maggioranza degli italiani è favorevole al prestito, ma Zingaretti non riesce a metterci le mani sopra causa veto pentastellato.

Alla deriva  - Forse il vero attore di famiglia non è Montalbano ma Nicola: riesce a stare sulla scena anche se non ha niente in mano, parla come il generale Patton anche se non guida la Terza Armata americana bensì un esercito alla deriva, non si fa scoraggiare dai pomodori che gli lanciano dalla platea ed è capace di sorridere e inchinarsi per ringraziare anche quando gli va tutto storto. Un bluffatore nato, senza assi ma con quattro voti, di un colore solo.

Simone Canettieri per ilfoglio.it l'8 ottobre 2020. Questa mattina si è spenta in una clinica romana Emma Di Capua, 86 anni, madre del segretario del Pd e governatore del Lazio Nicola Zingaretti, dell'attore Luca e di Angela. La donna era malata da tempo. Emma di Capua, proveniente da una famiglia ebraica romana, riuscì a 7 anni a rifugiarsi in un convento per sfuggire ai rastrellamenti dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Al contrario della nonna Ester, deportata ad Auschwitz. Il 16 ottobre 1943 i nazifascisti si presentarono a casa di Angelo Di Capua, bisnonno degli Zingaretti, a Monteverde Vecchio. Emma non era in casa. "Grazie a questo caso, noi oggi esistiamo. Non siamo ebrei, se non nelle radici culturali, perché non lo era nostra nonna materna, e quindi non lo è nostra madre. Anzi, come in molte famiglie romane, anche nella nostra c'è un incontro fecondo di radici ebraiche, cattoliche e cultura laica: diversi orientamenti che hanno convissuto e si sono contaminati senza mai entrare in conflitto fra loro e arricchendosi. Ma ai nazifascisti questo poco importava", avevano ricordato i fratelli Zingaretti qualche anno fa in una lettera a Repubblica in occasione del 70esimo anniversario dell'accaduto. 

Memoria, il segreto dei fratelli Zingaretti: "Così nostra madre sfuggì ad Auschwitz". Angela, Luca e Nicola Zingaretti su La Repubblica il 17 ottobre 2013.  "Viviamo per caso: I nazifascisti entrarono in casa a Monteverde cercando la famiglia di nonno Angelo. Mamma si salvò: aveva 7 anni". I fratelli Zingaretti Il 16 ottobre di 70 anni fa oltre 1000 ebrei, tra cui 200 bambini, furono rastrellati tra le strade di Roma e deportati ad Auschwitz. Tra loro anche Ester Della Torre, la nostra bisnonna. Nostra madre, quasi per caso, si salvò dalla deportazione, con la sorella e i genitori. Grazie a questo caso, noi oggi esistiamo. Non siamo ebrei, se non nelle radici culturali, perché non lo era nostra nonna materna, e quindi non lo è nostra madre. Anzi, come in molte famiglie romane, anche nella nostra c'è un incontro fecondo di radici ebraiche, cattoliche e cultura laica: diversi orientamenti che hanno convissuto e si sono contaminati senza mai entrare in conflitto fra loro e arricchendosi. Ma ai nazifascisti questo poco importava. Entrarono in casa a Monteverde Vecchio cercando la famiglia di Angelo Di Capua, nostro nonno, e se nostra madre di 7 anni fosse stata li, sicuramente sarebbe stata arrestata e deportata e poi uccisa. Cosi è stato per milioni di uomini, donne e bambini in tutta Europa. La nostra dunque è una storia di cittadini di Roma, come tante altre storie di romani e romane, che racconta bene il legame tra i fatti storici e la memoria, i ricordi e le vite, gli intrecci che esistono in una comunità. Questo, come altri esempi, chiarisce bene infatti come il 16 ottobre sia una ferita che ha colpito una comunità in particolare ma anche una ferita di tutti, non solo per naturali implicazioni etiche e valoriali di rifiuto dell'olocausto, ma anche perché ha coinvolto Roma e l'Italia. Il 16 ottobre del 1943 è tra noi, nelle vittime, nei non nati, nelle famiglie distrutte, nei sopravvissuti e nei tanti che sono nati e oggi vivono perché il nazifascismo ha perso. Dopo 70 anni questa memoria va tenuta viva, ce n'è un grande bisogno. Per questo, il prossimo 22 ottobre, nel giorno in cui probabilmente morì, abbiamo voluto dedicare a "nonna Ester", che non abbiamo mai potuto conoscere, eppure non abbiamo mai dimenticato, alle vittime di quella ferita incancellabile nella memoria di Roma e ai loro famigliari, una serata, davanti al Portico d'Ottavia, nel luogo in cui quella mattina gli ebrei, strappati alle loro case, furono radunati per iniziare il loro terribile viaggio. Luca e altri attori e attrici faranno una lettura del celebre racconto "16 ottobre 1943" di Giacomo Debenedetti: lo promuoveremo e sosterremo direttamente noi fratelli come impegno civile e lanceremo, in piazza, una raccolta di fondi per regalare ad alcune biblioteche delle scuole di Roma libri sulla Shoah. Abbiamo voluto intitolare la serata "Una storia romana" perché ovviamente il 16 ottobre riguarda tutti: è una ricorrenza che segna uno spartiacque non solo nella nostra vicenda famigliare, ma nella storia della nostra città. Rendere omaggio al ricordo di quanti vissero quegli eventi  -  chi fu inghiottito dal mostro della Shoah, chi si salvò dalla deportazione, e i pochi testimoni che fecero ritorno  -  significa anche riannodare i fili complessi di una storia che ci aiuta a comprendere cosa siamo oggi, sapendo che se dimenticassimo saremmo tutti più deboli e fragili. Un essere umano non può essere considerato un numero, come quello che i nazisti incidevano sul braccio all'ingresso dei campi, dietro ogni persona ci sono legami, affetti, odi, ci sono dei fatti e delle verità. Oggi, se raccontiamo pubblicamente insieme questa storia per la prima volta, è anche per un gesto estremo contro ogni idea di negazionismo che pure spesso si riaffaccia. Quante volte ci è capitato di interrompere qualcuno, davanti a una pizza, o in un dibattito in una scuola, che avanzava dubbi sulla Shoah e dirgli: "Vedi, io esisto per caso, perché una parte della mia famiglia è morta nei campi di concentramento e nostra madre si è salvata, ospitata in un convento di suore". Venite in tanti, portate le famiglie e amici giovani e non. Portate chi ha voglia di ricordare e chi ha bisogno di conoscere. Raccontate che si parlerà della nostra storia e di un fatto che non dovrà accadere mai più. Grazie a tutti. Ci vediamo il 22 ottobre alle 21 in largo 16 Ottobre 1943.

·        Il Renzismo Junior.

Antonio Amorosi per affaritaliani.it l'11 settembre 2020. Lo sapevate che il ministro Alfonso Bonafede, in arte Dj Fofò, è stato il legale di Alessandro Maiorano, il principale accusatore di Matteo Renzi (l’affiancamento sarebbe stato direttamente consigliato dal leader maximo Beppe Grillo, quando il comico non aveva in simpatia il Pd)? E che la bozza del nuovo libro appena pubblicato, “L’usciere ‘maledetto’ di Palazzo Vecchio”, edizioni Albratos, del dipendente fiorentino che da anni ha aperto una guerra personale contro l’ex premier toscano, è stata sequestrata prima della pubblicazione? E’ quanto si apprende dalla presentazione dell’opera avvenuta due giorni fa all'hotel Baglioni di Firenze. Maiorano, un passato da impiegato di Palazzo Vecchio, in piazza della Signoria, sede del Comune e un presente da accusatore indefesso di Renzi, ha cercato di condensare in uno scritto che con Affaritaliani abbiamo potuto leggere, la mole di accuse e soffiate, che negli anni ha dedicato quasi quotidianamente all’ex premier (il testo è a cura di Giorgio Riccardini). Guerra ricambiata dal leader di Italia viva che dopo altre denunce qualche mese fa ha accusato Maiorano di stalking. Contro l’ex usciere è aperto un procedimento in tal senso. “Ora l’attività di controllo di un cittadino sulla politica, quella di Maiorano su Renzi, è stata trasformata dalla Procura di Firenze in un’accusa di stalking”, spiega sorpreso l’avvocato Carlo Taormina che assiste Maiorano. “Devo dire che ormai la magistratura e la politica sono come due zoppi. Da sole non possono camminare. Ma vanno avanti insieme, tenendosi in equilibrio spalla a spalla e così procedono”. E’ questa la sintesi dell’avvocato. Il libro è un canovaccio scritto in modo semplice e in prima persona, cotto e mangiato si potrebbe dire, delle avventure e disavventure personali di Maiorano. L’ex usciere racconta la sua storia personale passata e i motivi del suo carattere guascone e rompiscatole in salsa toscana, passando dalle disavventure giovanili con le istituzioni alle lotte ai soprusi quotidiani fino alla guerra aperta all’ex premier Pd. Le esperienze del Maiorano pre-Renzi (l’usciere spiega nella prima parte del libro l’evoluzione della sua indole, dalle ingiustizie subite dai genitori all’indefessa passione di donatore anonimo  che salva chi è in difficoltà economica) fanno comprendere facilmente perché sia scoccata la “scintilla”, chiamiamola così, per il più famoso Matteo fiorentino. Il carattere inquieto ma al tempo stesso semplice e dalle umili origini dell’uomo trapela da ogni riga iniziale fino a dar forma a un racconto più articolato delle gesta del “Giglio Magico” (il gruppo di potere cresciuto intorno a Renzi), le spese ardite quando l’ex premier era presidente della Provincia di Firenze, la presa del potere, il sodalizio con Marco Carrai, fino alle denunce contro i genitori, al centro di vari guai giudiziari. In un continuo di critiche ma anche di contestazioni ai diversi procedimenti che gli sono stati aperti, in un batti e ribatti, il testo è un fluire di attacchi alla cerchia di politici, amici, faccendieri, fondazioni e apparati di Stato che secondo Maiorano hanno facilitato l’ascesa del leader toscano e creato quell’aura di protezione che ne ha permesso l’avvento sulla scena politica italiana.

Luca Bottura per ''la Repubblica'' il 12 settembre 2020. Matteo Renzi, ieri alla Leopolda, ha esordito dicendo che lui non fa polemica con nessuno. Poi ha attaccato duramente chiunque. A cominciare dal Giornale dei Giusti perché si occupa troppo spesso di lui, rilanciando poi indirettamente la teoria della querela intimidatoria come metodo di punizione delle testate non allineate. Mi spiace molto dover difendere una testata che mi ha spesso cremolato di letame. Però lo faccio. Perché quando un politico anche minoritario ha un concetto proprietario della stampa è un problema per tutti e non solo per lui. Poi Renzi ha preso a palle incatenate il Pd perché governa coi Cinque Stelle. In un esecutivo nel quale Italia Viva ha due ministri. Successivamente, mutuando un video molto divertente delle incolpevoli Paola Cortellesi e Michela Giraud (non citata), ha attaccato la politica che vive solo di social. Lui. D'acchito, sembrerebbe di trovarsi al cospetto di un caso di sdoppiamento della personalità. Tipo "noncenècoviddi" che se la prende coi negazionisti. Ma forse è più semplice di così: il Matteo Renzi della prima Leopolda, quello del famoso 40%, il trascinatore, giace segregato da allora nelle cantine della ex stazione. Qualcuno lo liberi, prima che quello di ora si dia del bischero da solo. Come non detto: anche quello l'ha fatto ieri.

L'intervista. Sentenza Berlusconi "pilotata", Matteo Renzi al Riformista: “Chiediamo verità, per gli italiani”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Luglio 2020. L’audio di Amedeo Franco su Berlusconi reso noto da Il Riformista non si sente, a sinistra. Come se in un paio di auricolari una delle due uscite fosse malfunzionante. Non riceve. Ci starebbero provando, assicurano. Ma non riescono. E anche quando dovessero sentirlo, purtroppo non riescono a pronunciare una parola di condanna sull’ammissione palese che le sentenze venivano manipolate ad arte. La sola eccezione è rappresentata da Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva nell’intervista che segue mette i puntini sulle i: «Berlusconi va rispettato come uomo ed ex presidente del Consiglio. Le accuse contenute nell’audio de Il Riformista, se confermate, offrono un quadro gravissimo su cui è urgente fare chiarezza». «Tocca alle sedi opportune – precisa – capire se lo sfogo di questo magistrato è una cosa seria o no. È un fatto tuttavia di cui è doveroso parlare, non può essere eluso da chi fischietta e fa finta di nulla. E io l’ho detto a Berlusconi perché pur nella contrapposizione politica è un fatto, che se fosse vero, sarebbe gravissimo». Alla domanda se abbia telefonato a Berlusconi, Renzi conferma: «Ci siamo sentiti. L’Italia non può far finta di niente. Proprio perché è un avversario politico questa cosa va chiarita».

Gli dà la sua solidarietà?

«Si dà solidarietà quando si è convinti della verità. Io non so cosa sia accaduto: non do solidarietà a chicchessia. Faccio di più, tuttavia: do credito alla figura di un ex premier, e alla sua sacrosanta richiesta di conoscere la verità. Da quando Il Riformista ha pubblicato l’audio si possono nutrire oggettivi dubbi sulla correttezza dell’iter. E dunque dobbiamo chiedere chiarezza: la dobbiamo a Silvio Berlusconi ma prima di lui a tutto il popolo italiano. Siamo in presenza di un fatto di grande rilievo. Il giudice che si sfoga con Berlusconi è l’estensore della sentenza che lo ha condannato, producendo evidenti ricadute nel gioco democratico del Paese, perché quella sentenza ha tenuto fuori dal Parlamento l’uomo che ha guidato più a lungo un governo nella storia italiana. Anche se sono un avversario politico, riconosco che su una vicenda del genere non si può tacere. Dopodiché non tocca a me decidere come sono andate le cose. Ma la politica italiana non può minimizzare ciò che è accaduto».

Cosa pensa della commissione d’inchiesta chiesta dal centrodestra?

«Non mi pare lo strumento più idoneo ma in ogni caso è fondamentale che questa vicenda non sia nascosta in un trafiletto a pagina 23 come vorrebbero fare in tanti».

Contestazione di Mondragone. Salvini ha diritto di parlare in piazza?

«Matteo Salvini ha il sacrosanto diritto di parlare in piazza e la sinistra ha il dovere di permetterglielo e di indignarsi quando ciò non avviene. Ho molto apprezzato le parole di Bobo Giachetti che su questo tema ha fatto sentire la sua voce da radicale, liberale e libertario. Ed è la voce di tutta Italia Viva e dovrebbe essere quella di tutte le persone che hanno a cuore il gioco democratico. Di cosa stiamo parlando? Le opposizioni messe a tacere, che non vengono fatte parlare, non sono la vittoria della democrazia: sono la fine della democrazia. E quindi non condivido ciò che Salvini dice ma faccio di tutto per permettergli di dirlo».

Sarebbe bello vincere sul piano dei contenuti. Perché Italia Viva dice sì al Mes?

«Perché soltanto chi è accecato dal furore ideologico può dire di no al Mes. Il Mes è un prestito senza condizioni e con elementi finanziari appetibili per un Paese indebitato come l’Italia. Mentre può dire no al Mes solo chi ha già altre strade per trovare i soldi. E allora voglio essere chiaro: Italia Viva è l’argine contro chi dentro il perimetro della maggioranza di governo vuole dire no al Mes magari per dire sì alla patrimoniale. Passeranno sui nostri cadaveri, piuttosto. Andiamo a dire di no ai soldi europei per andare a spennare i cittadini italiani? Non scherziamo. Considero l’opposizione dei Cinque Stelle un mero fatto tattico, finalizzato agli equilibri interni».

E l’opposizione di Salvini e Meloni?

«La loro è una opposizione sovranista e populista. C’è la destra della Merkel e c’è la destra della Le Pen. Salvini e Meloni hanno scelto quest’ultima, la parte peggiore. Senza l’Europa avremmo già avuto il tracollo finanziario».

Bonafede salvato, ma IV incassa la regolarizzazione dei migranti, il Family Act e apertura sul piano shock. Soddisfatti? Conti pareggiati?

«Ancora no, non siamo soddisfatti. I conti saranno pareggiati quando il piano Shock sarà chiuso, non quando sarà aperto. Quando cioè partiranno i cantieri, non le chiacchiere. Abbiamo apprezzato che il Presidente del Consiglio abbia condiviso la nostra linea. Ricordo quando in troppi facevano facili ironie sulla nostra richiesta di arrivare a 120 miliardi di euro; oggi c’è chi rilancia, si parla di 150-200 miliardi. Succede spesso così: lanciamo delle idee, ci prendono per pazzi, ci attaccano sui giornali. Poi dopo qualche settimana ci copiano. Va bene lo stesso. Il punto fondamentale è che per ogni euro speso in cantieri sono posti di lavoro che si aprono. Sono punti di Pil che tornano. Servono iniezioni di fiducia per un Paese che ne ha bisogno e che deve trovare la forza di tornare a credere in se stesso».

Appunto. La burocrazia è un’Idra dalle troppe teste. Che senso ha fare le indagini preventive per gli appalti, come fa Anac?

«Io penso che il problema burocratico esista e sia enorme. Ma l’Anac è stato uno strumento attraverso il quale, grazie alla saggezza e alla lungimiranza di Raffaele Cantone, noi abbiamo sbloccato delle partite che altrimenti sarebbero saltate. C’era l’Expo che stava saltando e attraverso quella struttura abbiamo agevolato gli appalti pubblici. Poi se per una esondazione di potere l’Anac è diventato un pezzo di burocrazia, possiamo discuterne e anche condividere. Ma non dimentichiamo che Anac è stata best practice al G20 nel 2014 in Australia e nel 2016 in Cina come strumento contro la corruzione. In altri termini: l’Anac ha aiutato a fare le cose, non a bloccarle. Non credo al revisionismo storico di chi trasforma la storia di Cantone e dei suoi come di persone che bloccavano tutto. È vero che – specie all’inizio – è stato il contrario».

Veniamo alla burocrazia.

«La burocrazia impedisce di spendere i soldi che già ci sono. E io trovo questo molto grave, e siccome trovo questo molto grave, non voglio trovare un facile capro espiatorio. Siccome in questi mesi siamo stati tutti in quarantena, facciamo una cosa: adesso mettiamo in lockdown la burocrazia, per qualche settimana, dando il “la” ad interventi che siano più simili a Milano Expo 2015, al grande progetto di Pompei 2014, a quello di Matera capitale della cultura, al Ponte di Genova. Facciamo cioè finalmente un lavoro di sburocratizzazione efficace».

A proposito di burocrazia, l’Inps mostra le corde. Tridico è inadeguato?

«Tridico è totalmente inadeguato. Le ragioni della nostra richiesta di dimissioni sono del tutto evidenti in ciò che è accaduto nella vicenda dei 600 euro per gli autonomi e per la cassa integrazione. Ma faccio un passo in più. Non soltanto Tridico è incapace e dovrebbe andarsene. Dico che ci sono esperienze totalmente diverse in questo governo, come quella dell’Agenzia delle Entrate di Ruffini che sul fondo perduto ha provveduto e proceduto con una rapidità esemplare. Le idee camminano sulle gambe degli uomini. Tridico si è dimostrato non all’altezza, Ruffini sì».

Rovesciamo un principio? Il vero abuso d’ufficio consiste nel non firmare gli atti.

«L’abuso d’ufficio è un tema complicato. Non mi convince l’interpretazione per la quale togliendo l’abuso d’ufficio si risolvano tutti i problemi. Certamente i dipendenti pubblici e i politici locali sono preoccupati dall’abuso d’ufficio, dal danno erariale, dal traffico di influenze. Ma non credo al potere salvifico dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, anzi. E poi, diciamolo: se un dirigente firma un atto, perché davanti alla Corte dei Conti deve rispondere il politico? E perché abbiamo una legge sul traffico d’influenze senza avere la legge sulle lobby? Nel documento che la ministra Severino presentò alla Camera, c’era scritto chiaramente: questa fattispecie ha senso solo a fronte di una regolamentazione delle lobby. Cosa che oggi non abbiamo. Al punto che se oggi ascoltiamo le intercettazioni dei membri del Csm, e non li considerassimo magistrati ma portatori di interessi al pari dei politici, dovremmo indagare tutti per traffico di influenza. Per non dire altro. Quanto al non firmare gli atti, basterebbero dei termini perentori, non importa insistere sull’abuso d’ufficio».

Emerge un quadro inquietante dalle intercettazioni di Palamara. Come si riforma la giustizia?

«Vasto programma. Credo che dalle intercettazioni – peraltro a mio giudizio in molti casi illegittime, perché effettuate in presenza di parlamentari, e in altri casi stravaganti perché il Trojan colpisce momenti privati della vita di Palamara e inspiegabilmente si ferma in contesti molto più interessanti sotto il profilo politico – emerga un modus agendi che non era del solo Palamara ma di tutte le correnti. Un capro espiatorio: questo è quello che il Csm cerca. Ma se il Csm condanna Palamara sta condannando il sistema delle correnti di cui anche questo Csm è espressione: chi giudicherà Palamara sarà espressione delle stesse correnti e degli stessi metodi che vorrebbero condannare. Penso che allora non servano grandi riforme, ma un solo impegno concreto: l’abolizione dell’ipocrisia. La verità non si raggiunge attaccando il solo Palamara, ma facendo una discussione seria, pacata, civile sul rapporto tra politica e magistratura, sul rispetto della separazione dei poteri, sullo strapotere delle correnti tra i magistrati».

Perché Italia Viva corre da sola in alcune regioni?

«Perché dovremmo correre insieme a Emiliano, che aveva definito il mio come “il governo delle lobby” e assisteva in giudizio i No Vax? Dopodiché in Toscana con Giani, in Campania con De Luca e nelle Marche con Mangialardi credo che saremo decisivi».

È verosimile un rimpasto di governo a breve?

«Non credo al rimpasto di governo, la Costituzione non lo prevede. Il premier non è un sindaco. Abbiamo un presidente del Consiglio che è un primus inter pares, ogni eventuale cambio al governo presuppone la salita al Colle e l’apertura formale della crisi. Dunque non mi sembra all’ordine del giorno, non mi sentirei di consigliarlo a Conte. Ma è verosimile che se il governo non si dà una mossa avremo un autunno caldo, con tante tensioni sociali e di turbolenze finanziarie, con tante difficoltà che il Paese incontrerà nella vita quotidiana. Il rischio di passare dai balconi ai forconi lo vedo molto forte. Il governo deve correre. Se il governo corre, noi tutti daremo una mano».

La parabola di Renzi:  dalla guerra ai partitini  al potere di veto del suo 4%,  il piano per sostituire Conte. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Bozza. Da bipolarista, strenuo sostenitore del maggioritario e nemico assoluto dei «partitini», a leader di Italia viva (nei sondaggi data attorno al 4%), formazione che sta tenendo sotto scacco il governo Conte II, grazie ai 17 senatori vitali per la maggioranza. È la parabola politica di Matteo Renzi, che, dichiarazioni alla mano, vale la pena ripercorrere per provare a capire meglio cosa ha in testa l’ex presidente del Consiglio, che con il referendum costituzionale avrebbe voluto cancellare l’eterna instabilità politica italiana. Ma riavvolgiamo il nastro. Novembre 2012, Renzi è nel pieno delle primarie contro Pier Luigi Bersani, per diventare il candidato premier del Pd. Il cavallo di battaglia è chiaro: «Gli italiani hanno diritto a non essere bombardati una volta al mese con da un nuovo partito che nasce: “ Dateci tregua” — dice a Otto e mezzo, su La7 —. Io sono abituato a un Paese in cui c’è il centrosinistra e il centrodestra: si chiama bipolarismo. Se continuiamo a fare partiti nuovi anziché dare risposte ai problemi vecchi, non andiamo da nessuna parte». E poi, l’estrema sintesi, in un tweet che sta creando più di un imbarazzo tra le truppe renziane: «Se vinciamo noi, non c’è più spazio per il potere di veto dei “partitini”». Mentre intervistato a Porta a Porta, in Rai, da Bruno Vespa sulla possibile nuova legge elettorale «modello tedesco» con la soglia al 5%, Renzi risfida i piccoli partiti. «Se un politico che ha fatto il ministro non riesce a prendere il 5% con il suo partito non è un mio problema», dice riferendosi ad Angelino Alfano, leader di Ncd. Il mantra contro i «partitini» riparte quando Renzi, dopo aver scalzato Enrico Letta da Palazzo Chigi, si lancia nella storica battaglia (poi persa) della riforma costituzionale: «Basta ingovernabilità, un minuto dopo la chiusura delle urne gli italiani hanno il diritto di sapere chi li governerà per i successivi 5 anni». Ai tempi, l’allora premier che aveva incassato il 40,8% alle Europee con il Pd, era alle prese con i recalcitranti di Ncd: «Non passo i prossimi mesi a parlare coi partitini ma tra italiani a rimettere in moto il Paese», tagliò corto Renzi. Nel frattempo è successo di tutto: il M5S è diventato il primo partito italiano, poi si è sgonfiato d’un colpo. Matteo Salvini ha trasformato la Lega nella formazione più forte. Matteo Renzi ha prima favorito a sorpresa la nascita del Conte II, con l’impensabile alleanza Pd-M5S, salvo poi varare la scissione dallo stesso Pd. Con Italia viva, oggi, l’ex premier controlla 29 deputati (a Montecitorio la compagine non è decisiva) e 17 senatori, che però sono l’ago della bilancia per tenere in vita l’esecutivo. Ma cosa ha in testa Renzi? «È consapevole che il suo gradimento è ai minimi, ma quello che interessa a lui in questo momento è stare al centro della scena, sia a livello politico sia a livello mediatico, e la cosa gli sta riuscendo», racconta chi lo conosce molto bene e da sempre. Sì, ma poi? «Il suo obiettivo primario è scalzare Conte da Palazzo Chigi, anche a costo di metterci Dario Franceschini (il suo “miglior nemico”, ndr) — ci spiegano ancora —. Il futuro? È a medio termine: Matteo penso abbia in testa di costruire un terzo polo, una nuova Margherita, anche rinunciando ad esserne il leader, federando ad esempio Italia viva con Azione di Calenda e +Europa di Bonino». Intanto, dal Pakistan, dove era volato per raggiungere una vetta dell’Himalaya in elicottero per sciare, innescando forti polemiche (qui il racconto), Renzi fa sapere, in maniera chiara: «Se cade il Conte II, nuovo governo e niente elezioni».

Sondaggi, iscritti e soldi: ecco tutti i flop di Matteo Renzi. Momento nero per il leader di Italia Viva: oltre al crollo di consensi - Iv viene data al 3% - anche quello dei finanziamenti e degli iscritti. Fabio Franchini, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Quando alla Leopolda 10 di metà ottobre Matteo Renzi lanciò ufficialmente Italia Viva non pensava certo di trovarsi in questa situazione quattro mesi dopo. Quella presentazione in pompa magna di If parlava di un partito non solo nuovo e centrista, ma soprattutto di una forza riformatrice capace di arrivare in doppia cifra, andando a convincere quell'elettorato moderato, erodendo il consenso a destra e a manca. "Non sarà un partitino al 5%. Questa nostra casa avrà a breve più di cinquanta parlamentari, centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti. Sarà una rivoluzione", diceva il senatore. Oggi la realtà dei fatti racconta ben altro. Il progetto politico dell'ex presidente del Consiglio sembra essere "morto nella culla": fin dai primi sondaggi, infatti, si capiva che qualcosa non tornava nei conti fatti (male) dal suo fondatore. Italia Viva, dopo le prime rilevazioni degli istituti demoscopici che la registravano al 5% circa, è sprofondata al 3%. Insomma, condannata all'inconsistenza nelle urne, all'irrilevanza politica. Perché con questi numeri, le decine di parlamentari, le centinaia di sindaci, la cinquantina di consiglieri regionali, le migliaia di amministratori e quel sacco di comitati e iscritti, rimangono realtà solamente nel libro dei sogni. Renzi le ha provate tutte in questi mesi di fine 2019 e inizio 2020. Per (ri)lanciare la propria azione politica e dare lustro al proprio partito, fa opposizione al governo di cui è maggioranza, arrivando a rompere, puntando i piedi per terra e sbattendo i pugni sui tavoli, sulla prescrizione, (s)nodo cardine della grillina riforma della Giustizia. Niente da fare: Iv, l'esame dei sondaggi, continua a non superarlo. E ora, per l'ex rottamatore, ci sono anche altre gatte da pelare. Quali? Quelle degli flop pure in materia di iscritti e di finanziamenti. Sì, perché come riporta La Verità le donazioni alla compagine renziana sono crollate da 329mila a 85mila euro, da ottobre a oggi. Il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro scrive: "Negli ultimi due mesi nessuna impresa ha contribuito alla sua causa. Le casse del partito sono rabboccate dai modesti oboli dei parlamentari: 500 euro mensili. Ma anche quelli sembra che comincino a latitare…". Quindi, pochissimi voti, magri finanziamenti e pure scritti che latitano. A ottobre l'ex premier dichiarava trionfante: "Abbiamo già 10mila iscritti. E ricordo che, per ogni iscritto, Italia viva pianta un albero". A inizio febbraio la sparata in alto: "Entro il 31 marzo dobbiamo avere mezzo milione di registrazioni". Bene, in data 13 febbraio Renzi informa che manterrà la promessa: un albero per ogni iscritto. E indovinate quanti saranno gli alberi piantumati? Diecimila, come gli iscritti di quattro mesi fa…

Da ilfattoquotidiano.it il 26 febbraio 2020. “Ogni volta che nomino Renzi, lui mi fa due cause civili e mi chiede 100mila euro, anche quando mi limito a nominare il suo nome e cognome. Quindi, vorrei astenermi dal rinominarlo”. E’ la risposta ironica che, nel corso di “Otto e mezzo” (La7), il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, dà alla conduttrice Lilli Gruber, che gli chiede un’opinione sul silenzio del leader di Italia Viva in questo momento critico del Paese per via dell’emergenza del coronavirus. “Ho cominciato a chiamarlo “l’Innominato” o “l’Innominabile” – continua, sempre in riferimento a Matteo Renzi – nella speranza che la smetta di farmi causa, anche perché purtroppo io non ho centinaia di migliaia di euro da dargli. Non li ho proprio. Vivo del mio lavoro e non ho potuto nemmeno nominare gente a Cassa Deposito e Prestiti, che possa farmi dei prestiti per comprarmi una villa”. E chiosa: “Quindi, dico che lo trovo molto bravo, molto geniale, sempre più intelligente, molto umile e soprattutto molto bello. E’ un bellissimo uomo che mette a repentaglio l’eterosessualità degli eterosessuali più impenitenti che ci siano in Italia. Spero che questo lo accontenti e che almeno per stasera mi eviti la causa quotidiana in sede civile, il che veramente sta diventando abbastanza seccante. Gli faccio, quindi, i miei complimenti perché è il più bravo di tutti”.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 17 gennaio 2020. Da quando è nato il partito-ossimoro Italia Viva, abortito ancor prima del parto, tutti si domandano che senso abbia, chi ne sentisse la mancanza e chi mai lo voterebbe. Ora però che la sventurata creaturina ha compiuto tre mesi di vita (anzi di morte), la risposta ai tre quesiti è chiara a tutti: siccome la politica è di una noia mortale, Iv serve a farci divertire un po'. Ha funzioni di svago, come i giullari nelle corti reali. Il primo partito che unisce l'inutile al dilettevole. Il capocomico è Renzi, che si sta impegnando allo spasimo per scendere nei sondaggi dal 3 allo zero per cento e, per quanto ardua sia l'impresa, ce la può fare. Per lui la politica è come il tressette, dove chi ha più punti perde e chi ne ha meno vince. Infatti, non bastando la sua faccia, pur utilissima come sfollagente, ci mette pure le parole: ogni volta che apre bocca, se ne vanno 10 mila elettori. L'altro giorno, per dire, ha dichiarato che Craxi era "un gigante" e fu "condannato perché non poteva non sapere". Una minchiata che ormai non osano ripetere nemmeno i figli di Craxi. Figurarsi l'entusiasmo dei suoi eventuali elettori, in un Paese che si beve di tutto, persino che B. era un perseguitato (tesi ovviamente sostenuta anche da Renzi per le accuse di mafia e strage), ma almeno i ladroni di Tangentopoli non li ha mai perdonati, specie se latitanti. Tre giorni fa, con mirabile scelta di tempo, Renzi ha dipinto il sindaco Pd di Bibbiano come un perseguitato solo perché la Cassazione aveva annullato le sue misure cautelari (piuttosto blande: arresti domiciliari e obbligo di dimora, mai il carcere): un minuto dopo la Procura di Reggio ha depositato gli atti dell'indagine, confermando e anzi rincarando le accuse. Che solo in minima parte riguardano il sindaco e in massima parte la galleria degli orrori di una terrificante setta di presunti assistenti sociali e sedicenti psicologi protetti dal "sistema Emilia" che rubavano i bambini ai genitori inducendoli ad accusarli di abusi inesistenti con ogni sorta di violenza psicologica. Se il sindaco tenuto a casa per qualche settimana è un martire, cosa sono quei poveri padri, madri e bambini? Poi, l'altroieri, il capolavoro: il voto di Iv alla controriforma della prescrizione del forzista Costa, a braccetto con FI , Lega e FdI che ha battezzato l' ingresso trionfale dei renziani nel centrodestra. Per giunta gratis, visto che la legge Costa è stata bocciata comunque, relegando i renziani al rango di pelo superfluo della politica italiana. […]

Luca Serranò per ''la Repubblica'' il 20 dicembre 2019. Quindici fatture per quasi mezzo milione di euro pagate dall' agente delle star Lucio Presta a Matteo Renzi, per il documentario "Firenze secondo me" di cui il politico era autore e conduttore. Un compenso elevatissimo per gli standard di mercato, con il quale l' ex premier sarebbe riuscito a restituire il maxi prestito contratto per l' acquisto della sua casa. Altre rivelazioni del settimanale L' Espresso (in edicola domenica con Repubblica ) sulla vicenda della villa fiorentina del leader di Italia Viva, che sarebbe stata acquistata anche grazie a un prestito della madre dell' imprenditore Riccardo Maestrelli (da lui nominato precedentemente membro del cda di Cassa depositi e prestiti immobiliare). Secondo il settimanale, che ha incrociato le carte del catasto con nuovi documenti dell' antiriciclaggio di Bankitalia, Renzi è riuscito a restituire il prestito il 6 novembre 2018 grazie alle fatture della società Arcobaleno Tre e non, come aveva sostenuto, con i soldi provenienti dalla vendita della sua vecchia villa (ceduta nel maggio del 2019) o con i compensi delle conferenze tenute all' estero. Sempre secondo il settimanale, la media company - Discovery Italia - che ha comprato la messa in onda del documentario ha dato alla società di Presta e di suo figlio Niccolò poco meno di 20 mila euro per i diritti del programma, una cifra quasi 25 volte inferiore al cachet del senatore. «Renzi è stato pagato con la ritenuta d' acconto - ha spiegato all' Espresso l' agente delle star - Non possiamo rivelare la cifra avuta da Discovery. Anche se non ho ancora venduto i diritti ad altre emittenti farò un Dvd e un libro. Ho i diritti per tutta la vita, Firenze non ha una data di scadenza». L' inchiesta mette a confronto i compensi ottenuti dall' ex premier con quelli dei più apprezzati conduttori tv. Come Alberto Angela, che nel 2018 ha guadagnato dal servizio pubblico 950 mila euro non per un solo lavoro ma per 15 trasmissioni tra "Ulisse", "Le Meraviglie" e "Stanotte a Pompei", con share oltre il 20% contro il 2% scarso raggiunto dal documentario di Renzi. Altri esempi: artisti come Toni Servillo, Helen Mirren o Jeremy Irons hanno preso tra i 30 e i 50 mila euro per fare i narratori e i conduttori di documentari sui grandi musei come l' Ermitage e il Prado. All' ex premier mezzo milione per il documentario su Firenze Ma Discovery lo ha comprato per meno di 20 mila euro.

Carlo Tecce e Valeria Pacelli per ''il Fatto Quotidiano'' il 20 dicembre 2019. Le attività non politiche del politico Matteo Renzi sono frenetiche. Non soltanto conferenziere a gettone che gira il mondo tra Qatar e Cina e l' intera penisola del Golfo e pure il Kazakistan, ma anche narratore televisivo che studia nuovi progetti. Come dicono quelli bravi. E dunque il documentario "Firenze secondo me" potrebbe essere un prologo. Al Fatto risulta che l' ex premier vorrebbe girarne altri e così le proposte che circolano tra i dirigenti televisivi sono pervenute anche a Mediaset. Col primo documentario "Firenze secondo me", prodotto dall' agente Lucio Presta, il senatore semplice di Firenze ha incassato 454.000 euro a fronte di 20.000 euro per quattro serate su Nove che la multinazionale Discovery ha pagato al medesimo Presta. Come ha rivelato L' Espresso, i diritti versati dall' agente per "Firenze secondo me", nell' autunno 2018, sono serviti a Renzi per restituire il prestito di 700.000 euro della madre dell' imprenditore Riccardo Maestrelli utilizzato per acquistare la villa sulle colline del capoluogo toscano. Secondo l' ex premier il 2 per cento di share racimolato su Nove da "Firenze secondo me" è uno stimolo a continuare, magari su Mediaset. Forse il Biscione è il rimpianto di Matteo. Perché le televisioni di Berlusconi hanno trattato a lungo "Firenze secondo me", girato nell' estate del 2018 con scene riprese durante il calcio storico che si tiene in piazza Santa Croce. Nel settembre del 2018, per esempio, Pier Silvio Berlusconi affermava di stimare il senatore: "Mi piacerebbe trasmettere la sua opera su Mediaset". Qualche settimana prima, Barbara Palombelli, nel programma d' informazione su Rete 4, ha introdotto l' intervista all' ex premier con le immagini in esclusiva del documentario. Poi sarà accaduto un imprevisto perché neanche un mese dopo "Firenze secondo me" viene comprata da Discovery a un prezzo più basso, molto più basso, del milione circa chiesto al Biscione. Presta dice a L' Espresso che ha la proprietà del documentario e quindi potrà sfruttarlo ancora in altri modi ("farò un dvd e un libro"). Non avvilito dal 2 per cento di share, però, il politico Renzi può considerare proficua l' attività non politica del 2018 e del 2019: egli stesso ha rivendicato con orgoglio di aver dichiarato nel 2018 un reddito di 830.000 euro e più di un milione nel 2019. Si può notare che in attesa di togliere gli elettori residui di Forza Italia con Italia Viva, Renzi vorrebbe prendersi un pezzo di palinsesto dei canali di Berlusconi. Che poi la differenza tra programmi televisivi e politici, spesso, non si percepisce. In novembre è stato sempre L' Espresso a svelare la segnalazione dell' Unità d' informazione finanziaria (Uif) di Bankitalia in cui emergeva la vicenda del prestito della madre dell' imprenditore Riccardo Maestrelli. I documenti dell' Uif sono finiti in procura a Firenze, dove è stato aperto un fascicolo per ora senza indagati né reati. E sono gli stessi pm fiorentini che nell' ambito di un' altra inchiesta - quella sulla fondazione Open - il 20 novembre 2019 perquisiscono Riccardo Maestrelli. Che non è indagato ed è stato perquisito, ribadiamo, non per il prestito della madre, ma per i finanziamenti alla Open. Di questi si parla anche in un' informativa, depositata il 13 novembre. Qui si legge che il 16 marzo 2017 alla Fondazione sono arrivati 150 mila euro da Egiziano Maestrelli, il patriarca morto il 10 febbraio 2018. Altri 150 mila euro sono arrivati con tre bonifici il 22 e 23 febbraio 2018, alla vigilia delle ultime elezioni politiche, da "Tirrenofruit, Fondiaria Mape Srl, Framafruit Spa, società tutte riferibili a Maestrelli Riccardo", scrivono i pm. Ma questa è un' altra storia. Torniamo a Presta. Nell' anticipazione di ieri, L' Espresso spiega che gli ispettori della Banca D' Italia che si sono concentrati sulla "provvista necessaria ai coniugi Renzi-Landini" per quanto riguarda la restituzione del prestito, hanno acquisito anche i conti della società del manager di importanti volti televisivi. "I fondi necessari ai predetti bonifici in favore di Matteo Renzi - scrivono - erano già presenti sul rapporto della Arcobaleno Tre". Per quanto riguarda il senatore, però, non c' è solo il documentario nel 2018 a ravvivare le sue finanze. Come detto ha guadagno tanto dalle conferenze. Sempre il settimanale spiega che, leggendo le carte Uif, nel 2018 per due interventi in Inghilterra, Renzi ha fatturato alla Algebris (fondata dall' amico Davide Serra) 57 mila euro. E poi ci sono gli 84 mila euro ricevuti dalla società inglese Celebrity Speakers per quattro interventi del 3 e 4 giugno e poi del 18 e 19 settembre. Per un evento in Kazakistan è stato pagato un gettone di 10 mila euro. Questo conferma che, come ha sostenuto lo stesso Renzi, non vive di politica, ma ha sempre tante cose da fare e in tanti posti del mondo. Impegni che possono aiutare l' ispirazione artistica.

Carlo Tecce per “il Fatto Quotidiano” il 21 dicembre 2019. Nessuno più di Lucio Presta ha investito fiducia e denaro in Matteo Renzi nell' ultimo anno e mezzo. Il sodalizio tra il produttore nonché agente televisivo e il senatore semplice di Scandicci viene fuori nel periodo di maggiore flessione della carriera politica di Matteo. Il Renzi che l' anno scorso ha firmato per Presta il documentario aveva appena subito una batosta alle elezioni di marzo che gli ha imposto le dimissioni da segretario del Pd. Matteo e Lucio si conoscono dai tempi in cui il giovane popolare di Pontassieve era alla guida della provincia di Firenze e poi si riconoscono nel momento in cui Renzi medita il rilancio o la vendetta. E qui si può citare il cosentino Presta, che da ragazzo ha studiato in collegio prima in Calabria e poi in Liguria: "Io sono salesiano. Prima mi vendico e poi perdono". Presta ha collaborato con Renzi per alcune edizioni della stazione Leopolda, soprattutto la più recente, di ottobre, che ha sancito la nascita di Italia Viva tra colori caldi e musiche forti. E c' era Presta nell' angolo dell' allenatore di Matteo nel duello con l' altro Matteo, Salvini, tra le morbide "corde" di Porta a Porta. Come ha scoperto l' Espresso, il documentario di Renzi non ha restituito a Presta ciò che ha speso. Per trasmettere su Nove le quattro serate del programma con l' ex sindaco di Firenze che racconta Firenze, la multinazionale Discovery ha versato a Presta un totale di 20.000 euro, mentre Renzi ha ricevuto 454.000 euro. Un piccolo esborso per Discovery che può rendere robusto il modesto due per cento di share. Presta sostiene che con gli anni l' affare tornerà in attivo e Renzi non ha mica deciso di smettere con la televisione, tant' è che in cantiere ci sono già altri lavori e le aziende, come Mediaset che la prima volta rifiutò Firenze secondo me, consultano i progetti. Alla Leopolda numero 9, con il governo gialloverde nel pieno del vigore poi smarrito, intervistato da Renzi c' era Paolo Bonolis. Forse Presta pensa di poter far risplendere Renzi come ha fatto splendere Bonolis, che dal programma per bambini - il mitico Bim Bum Bam - è passato alle serate di rilievo in Mediaset e pure in Rai. Chissà. Adesso il modello Renzi non funziona, ma le cose di Presta girano bene in Rai. Il Festival di Sanremo sarà condotto da Amadeus, un artista di Presta, e ci sarà anche Roberto Benigni, l' icona di Presta. Il rapporto tra Presta e Fabrizio Salini, l' amministratore delegato di Viale Mazzini, è per forza di cose ottimo. E pensare che fu pessimo con Antonio Campo Dall' Orto che arrivò in Rai con l' etichetta di direttore dei renziani e se ne andò su spinta dei renziani e bisticciò con Presta perché, per una gaffe, chiuse il programma di Paolo Perego, che è un volto tv e anche la moglie di Presta. L' aneddotica della televisione è piena di litigi di Presta, per esempio con Massimo Giletti. Presta ha un carattere per così dire ruvido, però ha un' ampia scuderia di artisti che riempie il settore dell' intrattenimento e da sempre è l' ossatura di Rai1 e di Mediaset: oltre ai già menzionati Amadeus, Bonolis e Perego, ci sono Mara Venier, Lorella Cuccarini, Antonella Clerici. Nato a Cosenza nel giorno di San Valentino del '60, la sua venuta al mondo è subito drammatica perché la madre muore di parto. Ha un' infanzia complicata e un' esistenza piena di colpi di scena, ci ha scritto una biografia dal titolo Nato con la camicia e pubblicata da Mondadori. Dice che ha iniziato a guadagnare a 14 anni da cameriere, poi diventa ballerino, debutta con Sceneggiato italiano di Edmo Fenoglio. Una volta organizza una esibizione in Nord Europa per Heather Paris e Franco Miseria e incontra il manager Vincenzo Ratti. Da lì con Bonolis e Benigni macina milioni di euro, più di 13 nel 2018, ha riportato L' Espresso. Ha sfiorato la candidatura a sindaco di Cosenza e adesso è un ascoltato consigliere di Renzi. E gli tocca l' impresa più difficile. Riportare in alto Renzi. Se non come politico, magari come conduttore tv.

Marco Lillo per “il Fatto Quotidiano” il 21 dicembre 2019. Sono tanti i clienti dello studio di Alberto Bianchi che si occupano di materie nelle quali le scelte della politica sono rilevanti. La Guardia di Finanza ha sequestrato l' elenco delle vendite Iva dello studio associato di Firenze perquisito a settembre nell' ambito dell' inchiesta sui pagamenti ricevuti dal gruppo Toto e girati - secondo i pm - da Bianchi alla Fondazione Open. Bianchi è indagato per traffico di influenze e finanziamento illecito alla politica per i suoi rapporti con il gruppo Toto, non con altri clienti. Però quell' elenco di nomi, importi e prestazioni, irrilevanti dal punto di vista penale e pienamente lecite, è invece interessante per l' opinione pubblica. Bianchi non è un avvocato qualunque ma un soggetto bifronte che da un lato tutela gli interessi dei suoi clienti e dall' altro è stato per anni il presidente della Fondazione Open, che ha raccolto dal 2012 in poi milioni di euro per aiutare l' ascesa di Renzi. Bianchi talvolta poi non disdegna di aiutare i suoi clienti nel perseguimento dei loro obiettivi anche mediante le sue relazioni pubbliche. Prendiamo ad esempio le due fatture del 6 e 13 febbraio 2015. La più alta è di 150 mila euro più Iva ed è stata emessa il 13 dallo studio Bianchi a Aiscat Servizi Srl, società dell' omonima associazione dei concessionari delle autostrade. La seconda, per 104 mila euro più Iva, è del 6 febbraio 2015 nei confronti di Sias, la holding del gruppo Gavio. Il Fatto ha già raccontato che il grupo Gavio, con il supporto di Aiscat, era impegnato tra fine 2014 e inizio 2015, ai tempi del governo Renzi, in un' attività di lobby per ottenere la proroga della concessione della Milano-Torino dal 2026 al 2030. L' oggetto dell' incarico di Aiscat a studio Bianchi da 150 mila più Iva era proprio l' assistenza e consulenza legale e amministrativa sulle questioni "in connessione con la procedura ex articolo 3 Tfue riguardanti alcune società operanti nel settore autostradale", cioè il procedimento davanti alla Commissione Ue per ottenere la proroga che avrebbe fatto felice Gavio. Il 6 luglio del 2015, come Il Fatto ha già raccontato, Bianchi, alle 13 e 34 discute dei compensi di "500" da chiedere a Gavio con un collega, Maurizio Maresca. Alle 14 e 30, incontra Beniamino Gavio. Alle 21 spedisce a Mauro Bonaretti, il capo di gabinetto del ministro Graziano Delrio, un sms in cui con modi felpati sostiene che chiudere al 2030, come Gavio vuole, "non parrebbe scandaloso". Ora si scopre che cinque mesi prima di quella telefonata Alberto Bianchi aveva già emesso ad Aiscat una fattura da 150 mila per la sua attività più una seconda a Gavio di cui non sappiamo altro che l' importo: 104 mila più Iva. Sono vicende che, a differenza di quelle che riguardano i rapporti Toto-Bianchi non sono ritenute penalmente rilevanti nemmeno dai pm. Ciò non toglie che andrebbero spiegate meglio pubblicamente non solo da Bianchi ma anche da Matteo Renzi, che in privato si dice all' oscuro di queste consulenze autostradali del suo amico. Nell' elenco delle fatture emesse dallo studio associato di Alberto Bianchi nel 2019 c' è anche la Telt, cioè Tunnel Euralpin Lyon Turin, società italo-francese che deve costruire la linea Tav in val di Susa. Studio Bianchi tra il maggio e il luglio scorso fattura sei prestazioni professionali per complessivi 37 mila e 167 euro più Iva. La Telt precisa che il direttore italiano Mario Virano non c' entra nulla. La partita è stata seguita dal Direttore del Settore Giuridico di Telt, il magistrato della Corte dei Conti francese Marie-Pierre Cordier, che ha indetto una gara per reperire i legali alla fine del 2018. L' incarico biennale è stato suddiviso in 5 lotti per un valore totale stimato massimo complessivo di 800 mila euro. In ogni lotto vincono i primi due. Bianchi ha gareggiato in associazione con lo studio Weigmann di Torino e ha vinto i due lotti più importanti da 370 mila e da 250 mila euro più uno dei tre "sfigati" da 60 mila euro. Nei primi due l' altro consulente selezionato è Strata Spa, presidente Vittorio Caporale. Studio Bianchi è quindi uno dei sette vincitori tra i 25 partecipanti alla gara Telt pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La dottoressa Cordier spiega: "Ho chiesto all' avvocato Bianchi alcune consulenze sulla legislazione ambientale italiana e su altre questioni". Bianchi, spiega Telt, "ha fornito prestazioni di consulenza pari al 29 per cento del totale speso su tutta la gara, nel lato italiano". Tra i clienti recenti dello Studio Bianchi spicca il gruppo indiano di Sajjan Jindal, 60 anni, amico di Matteo Renzi dal 2010 quando l' ex sindaco celebrò il mega-matrimonio della figlia Tanvi a Firenze. Jindal nel 2017 voleva prendere l' Ilva ma il ministro Carlo Calenda e i commissari preferirono Arcelor Mittal. Studio Bianchi ha emesso una fattura a Jsw Steel Limited per 73 mila e 902 euro il 19 novembre 2018. L' 8 agosto scorso c' è un seconda fattura al gruppo da 78 mila euro a Acciaierie e Ferriere di Piombino Spa. Nessuna sorpresa: da aprile scorso nel cda della Jsw Steel Italy Piombino Spa c' è anche Marco Carrai. Alberto Bianchi, va detto, era già un professionista stimato ma l' ascesa di Renzi ha giovato al suo profilo pubblico. Nel maggio 2014 è diventato consigliere di Enel (fattura personalmente 200 mila euro più Iva all' anno). Nel 2012 Studio Bianchi fatturava un milione e 662 mila euro, nel 2013 un milione e 327 mila euro, nel 2014 sale a un milione e 422 mila euro, nel 2015 sale ancora a un milione e 932 mila euro; nel 2016 il boom: 3 milioni e 150 mila euro con la fattura da un milione e 250 mila a Toto Costruzioni, ora sotto la lente dei pm (da sola vale quasi il fatturato del 2013) nel 2017 con Gentiloni, Bianchi non flette: 2 milioni e 672 mila euro. Nel 2018 solo un milione e 644 mila euro. Nel 2019 andrà meglio: a fine agosto lo Studio ha già fatturato un milione e 700 mila euro. Grazie anche a Jindal e Telt ma soprattutto grazie a Consip: il 3 gennaio scorso lo studio ha emesso tre fatture in un solo giorno per complessivi 271 mila euro comprensivi di Iva a Consip che però precisa: "Non ci sono pagamenti effettuati nel 2019". Mistero. "All' avvocato Bianchi dal 2013 al 2017 (non dall' attuale Ad Cristiano Cannarsa, ndr) complessivamente - prosegue Consip - sono stati affidati 70 incarichi per l' assistenza giudiziale in contenziosi amministrativi e civili, non di consulenza o pareristica. L' importo totale (netto Iva e Cpa) è 841 mila euro". Bianchi però non ha incassato tutto ma solo "594 mila e 686 euro (lordo Iva e Cpa, netto ritenuta d' acconto)". Forse la differenza sono quelle tre fatture del gennaio 2019?

Le avventure di Formigli e Travaglio: ecco Dagliomigli e i suoi scoop. Redazione de Il Riformista il 21 Dicembre 2019. C’è una novità. Vi abbiamo già detto di aver scoperto che Travaglio e Formigli (Travigli e Formaglio, per essere precisi) sono la stessa persona, e fingono di essere due, solo per andare più spesso in Tv. Ora abbiamo saputo che in realtà – come del resto dicono anche le Scritture – non sono due persone in una, ma sono tre. La terza persona – non so se lo Spirito Santo – è Marco Da Milano (Marco Dagliomigli, all’anagrafe). Dagliomigli si distingue però dagli altri due perché spessissimo sorride e alza poco la voce, mentre gli altri due hanno sorriso solo una volta nel 1964 (durante le Olimpiadi di Tokio, quando Eddy Ottoz vinse il bronzo sui 110). Ora Dagliomigli ha fatto un nuovo scoop. Ha scoperto, da vero segugio, che Renzi ha curato un prodotto televisivo su Firenze (e lo ha anche condotto), andato in onda in Tv e del quale i giornali avevano parlato solo per un mesetto, all’epoca. Dagliomigli ha avuto l’informazione da una fonte sicura, che non può rivelare perché lui è uno dei pochi giornalisti con la schiena dritta. Poi ha anche scoperto che Renzi è stato pagato per questo lavoro, mentre in genere, si sa, la gente che produce programmi televisivi, tipo Fazio, o Vespa, o Santoro o altri, lo fa gratis, solo a fin di bene. Renzi è stato pagato con soldi dello Stato? No, di un privato. Ha dato niente in cambio? No, niente. E lo scandalo dov’è? Beh, lo scandalo è che è Renzi. Mamma mia, ragazzi, mi sa che era meglio Travigli!

Che tempo che fa, Italia Viva contro Fabio Fazio e Formigli: "Stesso agente, un caso che attacchino Renzi?" Libero Quotidiano il 23 Dicembre 2019. Domenica sera, da Fabio Fazio a Che tempo che fa, su Rai 2, ecco comparire Corrado Formigli, il conduttore di PiazzaPulita su La7. E Formigli ha picchiato duro, come al solito, contro Matteo Salvini. Ma non solo: nel suo mirino anche Matteo Renzi, con il quale ha il dente avvelenato dopo la vicenda delle foto di casa sua pubblicate su Facebook. E dopo il trattamento riservato da Formigli a Renzi direttamente dallo studio di Fabio Fazio, ecco l'intervento di Michele Anzaldi, di Italia Viva, che sul Riformista dà conto di un dettaglio che, forse, sfugge ai più: "Ovviamente è solo un caso che entrambi risultino clienti della stessa società, Itc 2000, dell'agente Beppe Caschetto", scrive retorico. E ancora: "È normale che a invitare Formigli in Rai sia chi condivide con lui l'agente personale?". Dunque Anzaldi aggiunge: "Mi sarei aspettato maggiore correttezza. Invece di lasciar intendere in maniera allusiva, come si è visto a Che tempo che fa, che la descrizione della casa fosse stata resa pubblica grazie a chissà quali potenti mezzi spionistici di Italia Viva, perché Fazio non ha invitato in studio a confrontarsi con Formigli la persona che ha diffuso quei particolari, ovvero il figlio degli ex proprietari della casa che proprio a Formigli hanno venduto?". E la polemica continua.

Formigli da Fazio, Anzaldi: “Intervista finta, che strano hanno lo stesso agente”. Francesco Lo Dico il 23 Dicembre 2019 su Il Riformista. Onorevole Michele Anzaldi, le polemiche tra Corrado Formigli e Italia Viva dopo la pubblicazione sui social della descrizione della casa del conduttore sembravano sopite, ma ieri il giornalista de La7 ci è tornato, ospite di “Che tempo che fa” su Rai2. Che ne pensa? Fabio Fazio ha ospitato il conduttore di una tv concorrente, La7, Corrado Formigli. Ovviamente è solo un caso che entrambi risultino clienti della stessa società, Itc 2000, dell’agente Beppe Caschetto. Quando entrerà in vigore dal 1° gennaio il regolamento contro i conflitti di interessi di conduttori e agenti, annunciato dall’amministratore delegato Salini in commissione di Vigilanza in adempimento all’atto di indirizzo approvato dalla commissione oltre due anni fa, simili intrecci saranno ancora possibili. È normale che a invitare Formigli in Rai sia chi condivide con lui l’agente personale? Secondo lei non avrebbero dovuto affrontare la questione della casa di Formigli? In realtà mi sarei aspettato maggiore correttezza. Invece di lasciar intendere in maniera allusiva, come si è visto a Che tempo che fa, che la descrizione della casa fosse stata resa pubblica grazie a chissà quali potenti mezzi spionistici di Italia Viva, perché Fazio non ha invitato in studio a confrontarsi con Formigli la persona che ha diffuso quei particolari, ovvero il figlio degli ex proprietari della casa che proprio a Formigli hanno venduto? Di fronte al giusto sbigottimento di Formigli nell’aver visto pubblicato addirittura il “materiale con cui è fatto il lavabo del bagno” della sua villa, perché non ne ha chiesto conto, insieme a Fazio, al figlio degli ex proprietari, che evidentemente e a buon diritto quella casa conosceva bene?”. Se crede che la vicenda sia stata affrontata in modo sbagliato, di chi ritiene sia la colpa? Nel momento in cui una trasmissione Rai decide di tornare su un tema già abbondantemente superato nel dibattito pubblico, avrebbe potuto farlo per aggiungere qualcosa alla discussione. Invece ha preferito semplicemente ripetere l’attacco a Renzi da parte di Formigli già visto in diverse trasmissioni de La7. Quando Salvini dice che certe trasmissioni Rai fanno propaganda, quella Rai presieduta dal suo ghost writer Foa, intende questo? Un simile pasticcio sarebbe potuto avvenire se a capo della rete ci fosse ancora una persona attenta e professionalmente preparata come Carlo Freccero? Salini, direttore ad interim, ha svolto male il suo lavoro, è stato negligente oppure condivide questo modo di lavorare di una delle trasmissioni della sua rete?

Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano il 24 dicembre 2019. Siccome a Natale siamo tutti più buoni, vorremmo spezzare una lancia per Matteo Renzi. È vero, ogni giorno ci arriva una sua causa civile per danni (l' ultima, la settima in un mese, riguarda un articolo del Fatto del 1° luglio 2018, da cui solo ora si è sentito offeso, a scoppio ritardato). Ma, attratti come siamo dai perdenti, non riusciamo a liberarci di un' istintiva tenerezza per lui, almeno in questa fase terminale della sua parabola politica, mentre rilascia interviste su tutto a tutti dappertutto, pure ai videocitofoni, nel tentativo disperato di dimostrare che ancora respira, e mentre gli italovivi morenti bussano al Pd tentando la fuga dal suo partitucolo già fallito. Presto quelli che per cinque anni abbiamo conosciuto come renziani di chiara fama (e fame) fingeranno di non conoscerlo, anzi di non averlo mai conosciuto, cancellando post dai social, sbianchettando parole, opere e genuflessioni e confidando nella smemoratezza generale. Il più lesto, al solito, è Gianni Riotta detto Johnny perché, essendo nato a Palermo, si crede americano. L' altro giorno abbiamo citato alcune sue leccate d' antan a Renzi&Boschi, tratte da una sua memorabile lezione in inglese del 9 settembre 2014, in piena Era Matteiana, all' Institute of International and European Affairs di Dublino, dal titolo From Berlusconi to Renzi: Old Troubles, New Challenges. Le avevamo già riportate in altre occasioni, anche nel libro Slurp, ma sempre sotto il governo Renzi. Dunque Johnny si era sempre guardato dallo smentirle: anzi, ne andava fiero e teneva a farle conoscere a chi di dovere. Ora invece che il renzismo è in disgrazia elettorale e giudiziaria, nega pietosamente di aver detto ciò che ha detto. E cinguetta su Twitter: "Marco Travaglio deve inventarsi sul suo giornale false citazioni di miei articoli pur di provare a far ridere qualcuno dei suoi, stremati, lettori. Purtroppo, negli articoli di Travaglio sono invece le vere citazioni a farci ridere". Tweet subito seguito da una profluvie di lodi dei suoi fan, intervallati da alcuni dissenzienti che lui zittisce stizzito. Tipo quelli che chiedono quali sarebbero precisamente le "false citazioni" che gli avrei attribuito per far ridere i miei "stremati lettori", come se non bastassero quelle vere. Purtroppo, nella fretta, il Cortigiano Johnny si è scordato di far rimuovere da Youtube il video integrale della sua lezione all' IIEA, utilissimo sia per combattere la stitichezza sia per verificare se sono io che invento false citazioni di Riotta o è lui che slurpava Renzi&Boschi e ora comprensibilmente se ne vergogna.

Da Dante a Matteo, il cow boy scout . Minuto 7 e 35 secondi: "Come sapete, Matteo Renzi era il sindaco di Firenze. È facilissimo governare Firenze. Dopo l' esilio di Dante e dopo il Rinascimento, a Firenze, non è più successo niente (Firenze divenne fra l' altro la capitale del Regno d' Italia, ma sono cazzate, ndr ). Governare Firenze è facilissimo perché è una città ricca, solida, che si governa da sola. Fare il sindaco di Firenze è un po' come fare il direttore del Louvre a Parigi: è un lavoro comodo e redditizio. Poi Renzi ha deciso di partecipare alle primarie: dal museo al Far West".

La congiura de' Renzi. 9' 15'': "Con un colpo da maestro fiorentino (a very florentinian coup), è riuscito a conquistare il posto di primo ministro dal suo predecessore, Enrico Letta e, per questo motivo, nel suo partito molti l' hanno criticato. Io penso che sia stata una mossa del tutto naturale: c' è un giovane politico ambizioso che vince le primarie e vuole il posto, non vuole restare in panchina a cuocere a fuoco lento: prende il posto e affronta la sfida".

La Star Molto Bionda. 9' 52'': "Il suo governo è un governo molto fotogenico ma, allo stesso tempo, è pieno di star". 10' 25'': "Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi subisce molte, molte malignità da parte della stampa italiana perché è bella e bionda, molto bella e molto bionda, ed è, allo stesso tempo, una giovane avvocato capace di mettere in soggezione e che sa molto bene il fatto suo e io non vorrei mai essere dalla parte opposta alla sua a un tavolo di confronto".

Un po' Prometeo, un po' Alessandro Magno. 12' 06'': "Non voglio dire che Renzi quest' energia l' abbia creata. L' energia era già lì, ma Renzi è riuscito a inserire la spina per sprigionarla. Renzi è riuscito a dire a una generazione che voleva cambiare il Paese: 'Seguitemi e andremo!'".

Johnny is happy. 13' 47'': "Gli italiani avranno tutti i peggiori difetti di questo mondo, ma sono persone di buon senso. L' Italia reale, non quella che vedete alla televisione, ma quella delle persone riunite a tavola il giorno di Natale, ha votato per Grillo per dare un segnale di cambiamento, ma quando ha visto che con Renzi poteva incanalare la sua protesta in un modo razionale e non irrazionale, alle elezioni europee ha dato il 40% dei voti a Renzi e il 20% a Grillo E io sono contento (happy) che Renzi sia riuscito a ottenere questo".

Meravigliosa creatura (e pure sexy). 15' 03'': "Abbiamo un giovane primo ministro fotogenico, forte, intelligente, sexy, digitalmente esperto, con il suo meraviglioso governo". In lingua originale, suona ancora meglio: "We have a photogenic, strong, smart, sexy, digitally oriented, young prime minister with his great cabinet".

Cari, stremati lettori, vi ho inflitto questa raccapricciante cascata di bava proprio a Natale non per cattiveria, ma per spirito di servizio. Se è vero, come diceva Indro Montanelli, che "in Italia non è il padrone che fa i servi: sono i servi che fanno il padrone", Riotta è più utile dell' oroscopo di Branko: per sapere chi sarà il prossimo padrone, seguite la lingua di Johnny Lecchino. Non sbaglia mai.

Intervista ad Alessio De Giorgi, social media di Renzi: Nessuna “bestia”, ci delegittimano. Tommaso Ederoclite il 21 Dicembre 2019 su Il Riformista. Alessio De Giorgi, storico social media manager di Matteo Renzi, attualmente lavora con Teresa Bellanova e, dall’esterno, coordina il team digitale di Italia Viva.

Andiamo subito al punto, esiste una “bestia” renziana?

«Magari, mi verrebbe da rispondere per paradosso, se guardassimo solo ai dati quantitativi del nostro campo rispetto a quello sovranista, che sono nettamente inferiori. Se invece si fa questa affermazione per accostarci anche solo lontanamente a chi diffonde odio, razzismo e paura, la respingo con sdegno al mittente. Ennesima dimostrazione che da certe parti politiche si preferisce far la guerra al Matteo sbagliato».

Eppure anche voi siete accusati di orchestrare campagne di odio. Vedi il caso Formigli.

«Noi abbiamo una rete organizzata da tempo. Fatta però da persone in carne ed ossa, non da troll. Persone ricche di valori, appassionate alla politica, civili e sì, certamente vivaci. Che a volte esagerano e sbagliano e che vanno quindi meglio guidate».

Cosa ha scatenato questo vespaio sui social?

«Il figlio della coppia che anni fa vendette la casa a Corrado Formigli ha postato sui social alcuni dettagli di quella transazione, ma la rabbia per quell’intervista non giustifica certamente il suo gesto che anche io, infatti, ho censurato. Altri poi hanno rilanciato quel contenuto, ma parliamo di una decina di post, non certo delle valangate di odio di cui la “Bestia”, quella vera, è capace».

Eppure in molti vi hanno messo sotto accusa. Tra questi anche Enrico Rossi, governatore dem della Toscana. L’obiettivo è delegittimare il lavoro di Italia Viva?

«Assolutamente sì. Non si tratta solo di strategia, ma anche di mera incapacità di notare le differenze fra i militanti di Italia Viva e quelli del blocco sovranista. Che poi i social non siano – aggiungo un purtroppo grande quanto una casa – il regno dell’eleganza, del rispetto e delle posizioni sfumate, mi pare evidente. Semmai educhiamo tutti a saper stare sui social e in generale a essere rispettosi con chi la pensa diversamente: ma questo vale anche per un presidente di regione che parla di praticare l’elettroshock a un partner politico della futura coalizione».

Italia Viva è nata da poco. Come vi state muovendo dal punto di vista della comunicazione social?

«Italia Viva è una startup politica e lo è anche sul digitale. Ancora non sono stati nominati i coordinatori territoriali, quindi anche dal punto di vista social il team ha appena iniziato a metter ordine ai tanti che in giro per l’Italia si sono mobilitati anche sulla rete, entusiasti di questo nuovo progetto politico. Poi ci sono i gruppi Facebook, che fanno riferimento al nostro mondo, che sono sempre stati autonomi, anche quando eravamo nel Pd, e che sono uno straordinario strumento di mobilitazione. C’è ancora tanto lavoro da fare».

Caso Formigli, seguaci di Renzi paragonati alla “Bestia” social di Salvini: ma sono solo appassionati. Angela Azzaro il 14 Dicembre 2019 su Il Riformista. Tra le tante ricadute della polemica tra Matteo Renzi e Corrado Formigli dopo l’intervista a Piazza pulita c’è l’accusa rivolta allo staff di Italia viva di essere come la “Bestia” salviniana. Un ulteriore modo per screditare l’ex premier e mettere tutti e tutto sullo stesso piano: chi diffonde odio e chi si difende, chi ha il potere e usa i social per fare propaganda politica e chi invece come libero cittadino in un libero Stato usa i propri account su facebook o twitter per esprimere un parere, anche se in maniera non corretta e a volte deprecabile. Ma che cosa è la Bestia salvinana? È il nome che i giornalisti hanno dato al sistema che veicola i messaggi del leader della Lega. Lo staff, guidato da Luca Morisi, è fatto da un gruppo di giovanissimi smanettoni che hanno molta facilità a usare i nuovi linguaggi. Si è scritto molto su di loro, ma ci sono anche poche certezze e molti condizionali. Secondo alcuni userebbero un algoritmo che consentirebbe in pochi minuti di capire quale sia il “sentiment” della rete indicando al loro capo politico e a tutti gli account collegati che cosa scrivere e che cosa no per avere successo. La Bestia non sarebbe altro, per alcuni esperti, che un software che permette di monitorare il successo di un tweet o di un post e di orientare le scelte che vengono fatte da chi gestisce la comunicazione di un politico. Non un animale pericoloso quindi, ma un essere complesso e in fondo mansueto, sicuramente molto conosciuto da chiunque si occupi di questi argomenti. Ciò che si sa invece con certezza è che sia Salvini che il suo staff hanno fatto una scelta ben precisa: toni aggressivi, linguaggio dell’odio, messaggi che puntano sulla contrapposizione tra il noi (noi italiani, noi bianchi, noi leghisti) contro gli altri, i migranti, gli avversari politici, coloro che non rientrano nella narrazione a tinte fosche salviniana. Che cosa c’entra questo con la strategia del nuovo partito renziano? Nulla. I comitati di azione civile, da cui poi nasce Italia viva, fanno il loro esordio alla Leopolda contro il linguaggio dell’odio, contro le fake news, contro gli account falsi, che sono numerosi nell’area sovranista e razzista. Per contrastare questo clima Renzi ha scelto di usare un tono aggressivo, di non subire più, di rispondere “colpo su colpo” anche quando gli attacchi arrivano dai giornali, dalle tv, da quel circo mediatico giudiziario che con il caso Open sta dando il peggio di sé. Quello che però dà vero fastidio è che Renzi e il suo staff della comunicazione, guidato da Alessio De Giorgi, non siano stati a guardare. Invece di porgere l’altra guancia hanno reagito al linciaggio, hanno ribattuto, spiegato, denunciato. Ma non si deve fare. Il prescelto (si fa per dire) del linciaggio non solo deve potersi offrire come capro espiatorio, ma non deve neanche protestare. Perché se osa ribellarsi è la fine, diventa anche lui uno che usa i social in maniera sbagliata, dark, cattiva. Come una Bestia. Il giorno dell’intervista a Renzi da parte di Corrado Formigli è però successa un’altra cosa, molto diversa. Alcuni simpatizzanti di Italia viva, davanti all’attacco subito da Renzi, hanno protestato. E dai loro account privati hanno ricambiato con la stessa moneta il presentatore. Lui ha mostrato la casa di Renzi, loro hanno mostrato la sua, innescando un meccanismo che il presentatore ha giustamente condannato. Lo ha fatto pure Renzi: ha preso le distanze da chi aveva violato la privacy del giornalista. Formigli invece non ha chiesto scusa. Anche l’altro ieri, durante la nuova puntata di Piazza pulita, ha fatto un monologo in sua difesa. Formigli pro domo sua, ma non a favore di quella di Renzi, che può essere messa in piazza, senza nessuna cura né rispetto per la sua incolumità, né per quella della sua famiglia. La casa non è oggetto di inchiesta, l’interesse pubblico è stabilito dal clamore mediatico. È il cane che si morde la coda: siccome io parlo di te, siccome ti voglio processare, tu allora diventi di interesse pubblico e io – giornalista – posso dire quello che mi pare, fare quello che mi pare perché prevarrebbe il diritto a essere informati. Supponendo che davvero ci sia una Bestia salviniana, se c’è qualcosa che le assomiglia davvero non sono i due simpatizzanti di Italia viva che hanno attaccato Formigli, ma quel giornalismo che ha alimentato in questi anni il legame tra procure, stampa e tv, processo mediatico, linguaggio dell’odio. Questa sì che una bestia, una brutta bestia che rischia di travolgerci.

Da adnkronos.com il 30 gennaio 2020. Il senatore Matteo Renzi mi ha citato in tribunale per questo tweet che avevo fatto per dare la solidarietà a Corrado Formigli. Non capisco perché Renzi si sia sentito chiamato in causa visto che non l’ho mai citato né ho fatto riferimenti a lui o al suo partito. Ma tant’è!". Il post pubblicato su Twitter è di Salvo Sottile che, in un precedente tweet aveva scritto: "Chissà chi muove la manina che mette in rete i dettagli della vita di Corrado Formigli. Ma a naso mi sembra un messaggio mezzo mafioso, un avviso ai giornalisti (tutti):'Attento a bussare in casa mia, a farti i fatti miei, che io poi faccio vedere casa tua. Copyright (totò Riina)". Il tweet del conduttore era arrivato nei giorni in cui il giornalista di 'Piazza pulita aveva parlato di "odio social" nei suoi confronti dopo l'intervista a Matteo Renzi.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 31 gennaio 2020. Matteo Renzi ovvero non è necessario dirsi “di sinistra” per sentirsi, per dichiararsi orgogliosamente renziani. Semplificando essere e tempo nel mondo della geometria politica piana, ci si potrebbe accontentare d’essere “centristi”, peccato però che per un singolare caso della fisica dinamica non meno politica italiana il centro nel nostro paese, come i buchi neri, venuta meno la Democrazia cristiana, sembra puntualmente contrarsi fino a negare perfino un semplice atomo di se stesso. Per questa ragione, i renziani, i renzisti, i renziesi, come nella prodigiosa favola del Barone di Münchhausen, così come l’hanno trasposta al cinema i Monty Python, sembrano, almeno al momento, navigare sospesi in un cosmo buio e gassoso, intorno alla loro stella polare, esatto, sembrano sospesi nell’atmosfera, gli occhi rivolti al (già) apotropaico Matteo, magari in attesa del prossimo appuntamento elettorale che ne suggelli l’esistenza certificata o il baratro totale. I sondaggi non sembrano infatti incoraggianti, e questa sembra essere una notizia certa. Non entreremo però nel merito della legge elettorale, per amor proprio e soprattutto di fantasia, assodato che da circa trent’anni si discute d’ogni possibile variante di questa, senza tuttavia mai giungere alla forma sferica esatta. Il silenzio recente di Renzi è bene tuttavia che inquieti, non sembra infatti corrispondere alla natura della persona, infatti, come ci fa notare qualcuno che lo conosce bene, egli, Renzi, “nasce boyscout, e i boyscout hanno la consegna di mai stare fermi”. Si spiegherebbe così la caratterialità o piuttosto iperattivismo del nostro campione. C’è così da aspettarsi presto qualcosa, un improvviso bagliore, un qualcosa in grado di nutrire il suo narcisismo volontaristico, e non potrà essere certamente una nuova “Leopolda”, se è vero che le carte spettacolari sembrano essere tutte surclassate dall’altro suo omonimo sovranista. Di certo, nell’attesa, usando una crudele battuta riferita all’agit-prop uso mano, non si potrà dire che il leader di Italia Viva possa, pensando o nuove risorse e mediatiche, “andare per citofoni”. Questi ultimi, si è visto, sono già appaltati da altri, né si può dire che funzionino nel migliore dei casi. Le voci di dentro, fanno intanto notare che fuori dalla cassa di risonanza del Partito democratico Renzi non avrebbe margini, fiato, volume, spessore, già, né essere né tempo. Anche Italia Viva, partito-beauty case, almeno al momento si evidenzia soprattutto nel tratto permaloso dei suoi appassionati che presidiano i social, subito pronti a rivoltarsi all’unisono contro chi si dovesse semplicemente permettersi di mettere in discussione ancora una volta l’essere, il non essere e il divenire di Renzi e della sua avventura “riformista”: una scommessa “centrista”, nata dalla certezza di creare un magnete che possa anche attrarre coloro che hanno creduto all’improbabile “rivoluzione liberale” di Berlusconi in ogni sua declinazione possibile, compreso Carlo Calenda, altro campione di narcisismo, un solista di se stesso. E magari Brunetta come tamburo maggiore. Sarà pur vero che la sinistra è in affanno e ormai oggettivamente minoritaria, ma è altrettanto sicuro che proprio in nome del vestito nuovo del cosiddetto Riformismo, negli ultimi decenni, in Italia e non solo, le riforme sembrano state fatte per avvantaggiare l’impresa, i “padroni”, piuttosto che i lavoratori, così in nome della flessibile “modernità”, dove quest’ultima, plasticamente parlando, corrisponde a un’oggettiva doverosa debolezza delle classi subalterne, sempre più in una posizione di difesa, a fronte di un populismo di destra demagogico e razzista a viso aperto. E non parleremo qui, allargando il discorso all’ambito dell’istruzione, della “Buona scuola”. Sul batti e ribatti circa l’incompiutezza della sinistra italiana, a detta di alcuni bloccata tra tardo-leninismo e moralismo giansenista, così al di là della stessa santificazione a reti unificate di Enrico Berlinguer, nel tempo, passando per l’inenarrabile Veltroni e la sua portentosa “vocazione maggioritaria”, è cresciuto il vitello d’oro del renzismo, quasi che quest’ultimo fosse il doveroso necessario distillato prezioso di un compromesso storico finalmente raggiunto, in atto... L’ho detto che non è necessario dirsi di sinistra per essere renziani, renzisti, renziesi? Se poi politica culturale c’è stata, sempre forte dei suoi trascorsi da boyscout, è stato possibile innestare nuovi luoghi comuni nel discorso ancora una volta riformista, gli stessi già illustrati da Umberto Eco nella sua fenomenologia di Mike Bongiorno; c’è quasi un manifesto culturale, oltre che antropologico, nel rivederlo ragazzo e insieme concorrente della “Ruota della fortuna”, quasi che con quel gesto Renzi giungesse finalmente a dare piena credibilità pop a un arcipelago politico altrove ancora immobile nella supponenza elitaria perfino gramsciana, a emendare un partito da se stesso, ossia dal proprio zolfo, tutto ciò avvenuto come nella storia risaputa del cavallo di Troia…Prima o poi, ma questo spetterà agli storici nei decenni a venire, si dovrà studiare come mai Renzi abbia deciso di lasciare il vecchio domicilio conquistato con pervicacia per il cavalluccio a dondolo di Italia Viva, proprio lui che aveva raggiunto cifre di consenso plebiscitarie, saranno stati pure fuochi di paglia, ma adesso, sia detto senza polemica e perfino con un tratto di umana simpatia per Matteo nostro, quali acrobazie dovrà escogitare per sopravvivere nella precaria situazione tra partito e governo? Come recita proprio il motto del barone di Münchhausen, “Mendace veritas”.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 31 gennaio 2020. Il Tribunale del Riesame di Firenze ha dato ragione ai pm che indagano sulla fondazione renziana Open, individuandola come articolazione di partito. A dicembre Matteo Renzi si era ribellato a questa interpretazione: «Siamo in presenza di un vulnus al gioco democratico», si era lamentato di fronte a tale «equiparazione». E aveva attaccato il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, e l' aggiunto Luca Turco, «rei» di aver fatto perquisire i finanziatori di Open, cassaforte dell' attività del fu Rottamatore. In Senato Renzi era stato teatrale: «Se ai pm affidiamo la titolarità dell' azione politica decidendo (facendo decidere loro, ndr) che cosa è politica e che cosa no, quest' aula () fa un passo indietro per pavidità». Ma veniamo alle motivazioni, depositate il 23 gennaio, con cui il Riesame ha spiegato la conferma dei decreti di sequestro del novembre scorso, respingendo i ricorsi di otto imprenditori perquisiti e dell' ex consigliere di Open Marco Carrai. La corte presieduta da Elisabetta Pioli ha ricevuto i pareri pro veritate di tre illustri professori, i quali, su incarico di Carrai, hanno provato a smontare la sopracitata equiparazione. I tre luminari del diritto sono l' ex ministro della Giustizia del governo Prodi Giovanni Maria Flick, Giulio Ponzanelli e Domenico Pulitanò. In udienza hanno spiegato che dopo la totale abolizione del 2017 del finanziamento pubblico ai partiti, è stata «rafforzata la regolamentazione prevista per i finanziamenti privati ai partiti». Ecco così spiegata la corsa alla ricerca di nuove forme per finanziare la politica. Tra queste le fondazioni. Che, però, per i tre professori non possono essere accomunate ai partiti o ad articolazioni di partito, se non «a partire dall' entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019», la cosiddetta Spazzacorrotti. Sarebbe quindi da escludere che tra il 2012 e il 2018 (periodo delle erogazioni sotto esame) si potesse applicare a Open la norma penale relativa al finanziamento illecito ai partiti. Per il Riesame, però, «l' assunto difensivo non può essere condiviso» poiché «sulla base degli esiti dell' attività investigativa svolta, la Fondazione Open appare aver agito come "articolazione" di partito politico». A novembre Renzi aveva twittato: «Che Open dovesse finanziare la mia attività politica era scritto nello statuto». E allora i giudici hanno preso lo statuto e lo hanno letto. C' è scritto che tra gli obiettivi ci sono «promuovere un ricambio generazionale» nella politica italiana, elaborare analisi e ricerche in svariati settori, favorire la partecipazione delle persone alle decisioni politiche, suggerire modelli di organizzazione volti a «favorire prosperità economica, sostenibilità ambientale e inclusione sociale di identità diverse». Se questi lodevoli proponimenti sono «pacificamente lo scopo istituzionale» di Open, osservano i giudici, negli archivi della fondazione si trovano «riferimenti» non tanto a meritevoli attività scientifiche e culturali, ma al finanziamento dell' azione politica di singoli uomini di partito. Le toghe citano quanto emerso dal materiale sequestrato: i soldi di Open sono stati utilizzati per pagare le spese delle primarie del 2012 dell' ex premier contro Pier Luigi Bersani, per sostentare «il comitato per Matteo Renzi segretario», per rimborsi spese a favore di «parlamentari». Inoltre «la Fondazione Open ha messo a disposizione di parlamentari carte di credito e bancomat». Per questo i giudici ribadiscono: «Tali esiti investigativi consentono di configurare il fumus del reato contestato, in quanto la fondazione Open appare aver agito, a prescindere dal suo scopo istituzionale, quale articolazione di partito».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 9 febbraio 2020. In un' epoca in cui spopolano le sardine, Matteo Renzi ha pensato bene di farsi la piscina. Chissà che non le voglia attirare a casa sua, come hanno fatto Oliviero Toscani e Luciano Benetton nella loro «Fabrica», dove non «interessa se casca un ponte». Immaginatevelo l'ex premier mentre ospita a bordo piscina Mattia Santori & C. per un bell' aperitivo a base di tartine con acciughe del Cantabrico. In fondo in questo periodo Matteo sembra non curarsi del rischio impopolarità. Prima acquista una villa da 1,3 milioni di euro dopo aver mostrato un estratto conto da 15.000 euro; poi si fa prestare 700.000 euro da un amico che aveva precedentemente inserito nel cda di Cassa depositi e prestiti immobiliare; quindi sfrutta il brillante cursus honorum politico per diventare un globetrotter delle conferenze e fare documentari, rigorosamente a pagamento. In questa operazione simpatia al contrario Renzi ha pensato bene di ingaggiare un agente dello spettacolo, Lucio Presta, come un Bonolis qualsiasi, e di iniziare a frequentare personaggi poco in sintonia con i valori dell' elettorato piddino, in primis Flavio Briatore. Ma a Renzi, mentre il suo partitino non conquista sondaggi particolarmente favorevoli, ne è venuta in mente un' altra per tagliare definitivamente i ponti con il suo mondo di provenienza: costruirsi la piscina, dopo essere stato più volte immortalato dai paparazzi ai bordi di quella dell' hotel Roma villa imperiale di Forte dei Marmi, di proprietà dello stesso imprenditore che gli ha prestato i soldi per comprarsi la villa. Renzi ha speso 1.230.000 euro per la sua nuova casa e 70.000 per un terreno agricolo di 1.580 metri quadrati adiacente al giardino. Su Internet la lussuosa dimora era così descritta: «In strada prestigiosa, alle pendici di piazzale Michelangelo, villa indipendente con splendido giardino privato e passo carrabile. Al piano terreno: salotto triplo, grande cucina abitabile, studio/camera di sevizio, bagno. Al primo piano: tre camere, due bagni e una splendida terrazza». Alla descrizione bisogna aggiungere un locale lavanderia e una cantina. La superficie catastale è di 276 metri (11,5 vani) e la categoria è A7, quella dei villini esenti da Imu e Tasi. Ma adesso, dopo la meticolosa ristrutturazione e la costruzione della piscina, villa Renzi diventerà dimora di lusso (A8)? Vedremo. Ma torniamo alla piscina. Il 29 novembre Renzi e la moglie Agnese Landini hanno presentato in Comune la richiesta di autorizzazione alla realizzazione di una piscina e all' installazione di un manufatto accessorio, verosimilmente uno spogliatoio. Lo stesso giorno è stata creata la pratica. Il 2 dicembre sono stati inseriti i dati nel database, il 3 dicembre la pratica era già stata mandata all' esame della commissione paesaggistica. Il 12 dicembre ha passato l' esame ed è stata sottoposta alla firma del dirigente competente che l' ha subito siglata, in attesa del via libera della Sovrintendenza, a cui, sempre il 12 è stato richiesto il parere, essendo la villa adagiata su una delle colline più belle di Firenze. Il 31 gennaio il fascicolo è tornato indietro con «parere favorevole con prescrizioni». Il 3 febbraio è arrivata la marca da bollo dell' autorizzazione paesaggistica. Il 4 febbraio il provvedimento è stato sottoposto alla firma finale. Insomma le incombenze burocratiche sono state espletate e adesso il nostro potrà iniziare i lavori, in tempo per avere la vasca pronta per l' estate. È utile ricordare che il Renzi piddino non aveva mai fatto realizzare una piscina nella sua villa di Pontassieve, ma i tempi sono cambiati e il fu Rottamatore non ha più remore nell' esibire gli status symbol dell'uomo di successo. La mutazione, almeno pubblicamente, è iniziata nel 2018, quando La Verità raccontò in anteprima l' acquisto della nuova magione e lui replicò: «Svelo un segreto. Sono stato eletto parlamentare e prendo un ottimo stipendio. Non avendo più attività di governo posso avere ulteriori entrate, tutte pubbliche, tutte trasparenti». Lo scorso autunno, di fronte alle polemiche per il prestito da 700.000 euro, ha gonfiato ulteriormente il petto: «L' ho restituito in meno di cinque mesi. [] Grazie ai proventi personali regolarmente registrati ho dichiarato 830.000 euro nel 2018 e dichiarerò oltre 1.000.000 euro nel 2019. Nel 2019 ho pagato per adesso circa mezzo milione di euro di tasse. Questo per rispondere a chi dice che vivo di politica». Insomma, se questo è il mood del momento, preparatevi alle foto di Renzi con drink in mano e piedini a bagno. Poco importa se la piscina basterà a ospitare l' intero elettorato di Italia viva.

Giacomo Amadori e Carlo Tarallo per ''La Verità'' l'11 giugno 2020. L'inchiesta sulla fondazione Open, la cassaforte del renzismo, non è ancora giunta a conclusione, ma a Firenze prima dell'esplosione del coronavirus è stato aperto un altro fascicolo che sembra avere come oggetto proprio i guadagni del senatore semplice Matteo Renzi. La notizia emerge da una segnalazione inviata l'8 aprile scorso all'Unità di informazione finanziaria della Banca d'Italia. Una Segnalazione di operazione sospetta (Sos) «strettamente attinente alle operazioni registrate sul rapporto di conto corrente intestato alla Carlo Torino e associati srl», una società fondata lo scorso novembre. Nella segnalazione si legge: «Per completezza si notifica che in data 21 febbraio 2020 il signor Carlo Torino, congiuntamente alla società Carlo Torino e associati e al fratello Flavio Torino e al padre Antonio Torino anch' essi nostri clienti, risultano interessati dal procedimento penale 1836 del 2020 modello 21 (cioè con indagati, ndr) emesso dalla Repubblica presso il tribunale di Firenze e gestito dalla guardia di finanza». Il disvelamento dell'inchiesta potrebbe essere collegato a una visita degli investigatori presso l'istituto bancario finalizzata all'acquisizione di documentazione. L'operazione sospetta da cui parte l'indagine dovrebbe essere quella del 17 gennaio 2020, quando sul conto della Carlo Torino e associati arriva un bonifico di 75.000 euro proveniente dalla Salt venture group Llc, società Usa di marketing e comunicazione guidata da Anthony Scaramucci, per un breve periodo direttore della comunicazione della Casa Bianca con il presidente Donald Trump. «Tale provvista risulta in seguito parzialmente utilizzata tramite la disposizione di due bonifici per complessivi 33.000 euro circa (per la precisione 33.140 euro, ndr) a favore del senatore Matteo Renzi, noto politico italiano». Nella segnalazione si legge anche che: «In sede di adeguata verifica di tale operatività, il signor Carlo Torino ci fornisce copia dell'accordo tra la società Carlo Torino e associati, per conto di Matteo Renzi, e la Salt venture group Llc tramite il quale si disciplina la partecipazione del senatore a un congresso organizzato a dicembre a Dubai dalla Salt venture group Llc. In aggiunta risultano rassegnate altresì copie delle fatture emesse dalle parti interessate». Il riferimento sembra alla conferenza organizzata dalla Salt ad Abu Dhabi tra il 9 e il 12 dicembre. L'intervento di Renzi, della durata di mezz' ora, in coppia con l'ex cancelliere dello scacchiere (il ministro delle finanze) britannico Philip Hammond, si tenne il 10 dicembre e si intitolava «Il futuro dell'Europa». Non è stato possibile verificare che cosa abbia convinto la Procura di Firenze ad aprire il fascicolo citato nella comunicazione. Infatti ieri non siamo riusciti a ottenere chiarimenti sulla vicenda da parte degli inquirenti del capoluogo toscano. Non è andata meglio con Carlo Torino, 33 anni, originario di Napoli. Quando lo abbiamo contattato ha interrotto velocemente la telefonata: «Affari con Renzi? No comment su queste cose. Un'inchiesta sui pagamenti della Salt venture? Non sono a conoscenza di nulla, non ho ricevuto nessuna notifica da parte della Procura e le darei le informazioni sbagliate». Ambienti legati al vecchio Giglio magico riferiscono che Carlo Torino è conosciuto a Firenze: «Mi risulta che facesse l'asset manager e che adesso faccia il consulente finanziario nella City e dovrebbe fare anche da consulente o pr per Scaramucci» ci riferisce una fonte. «Come è arrivato a Renzi? L'ex premier ha fatto un paio di conferenze per istituzioni per cui lavora Torino». Il giovane yuppie campano sarebbe stato presentato al giro renziano da Raffaele Costa, un finanziere italiano che lavora nel settore immobiliare a Londra. Dopo questa presa di contatto Torino avrebbe provato a chiedere investimenti per il fondo Davis and Morgan Spa alla fondazione della Cassa di risparmio di Firenze, ma la proposta non venne presa in considerazione, visto che i dirigenti considerarono il settore in cui opera il fondo troppo rischioso (obbligazioni subordinate e crediti deteriorati).Torino in Italia è proprietario e amministratore unico della Carlo Torino e associati, una società a responsabilità limitata semplificata, con una capitale di 1.500 euro. La ditta, che alla Camera di commercio risulta inattiva, è stata costituita il 26 novembre 2019 a Napoli davanti al notaio Benedetto Giusti, proprio alla vigilia della partecipazione del senatore alla conferenza. Tra i vari oggetti sociali, oltre a quello di ufficio stampa e relazioni con i media, quello che ci sembra il più attinente è la promozione, l'organizzazione e la gestione, sia in proprio che per conto terzi, di fiere, congressi, convegni, seminari, corsi di aggiornamento, in Italia e all'estero, su argomenti connessi all'attività sociale e in via generale su tematiche internazionali e strategico-finanziarie e relativamente agli enti non profit». All'incirca le tematiche al centro della conferenza emiratina. La sede legale della società si trova a Portici (Napoli), al civico 128 di via Leonardo da Vinci, la strada dello shopping cittadino. Allo stesso indirizzo c'è anche la sede legale della ditta del fratello e del padre di Carlo, la Progetto stile napoletano Srls. Sul citofono, però, non ci sono i nomi delle due imprese; il portiere, assai cortese, ci spiega che non ha mai sentito nominare né i Torino né le aziende. Nello stabile c'è però uno studio di commercialisti. Il titolare, Mario Capuano, ammette: «Sì, i Torino sono miei clienti e hanno presso di me la sede legale delle loro ditte». Dunque nel palazzo al centro di Portici, i Torino hanno solo un appoggio, ma nessuno li ha mai visti. Pochi chilometri e si giunge alla Seconda traversa Luigi Sapio, dove è «domiciliato» Carlo Torino. Sul citofono, c'è il suo cognome e quello della mamma, Paola Oliviero. La zona, al confine con Ercolano, il cui sindaco è il turborenziano Ciro Buonajuto, non si può definire signorile, ma il parco privato è ben curato, tranquillo. Nella loro vita l'unica traccia di politica che troviamo è collegata alla signora Oliviero. In una foto su Facebook del dicembre 2013 è ritratta insieme con Flora Beneduce, consigliere regionale di Forza Italia in Campania. La Beneduce, in questi ultimi giorni, è stata al centro di retroscena politici su giornali e siti locali e proprio ieri ha annunciato di aver lasciato il partito di Silvio Berlusconi. Siti e giornali locali la segnalano sul punto di approdare alla corte di Matteo Renzi, in Italia viva. Ma, almeno questa, è sicuramente una coincidenza.

Giacomo Amadori per ''la Verità'' il 12 giugno 2020. «Follow the money», segui i soldi, si spiegava con queste tre parole il metodo investigativo di Giovanni Falcone. Lo stanno seguendo alla lettera tutti quelli che si occupano delle entrate di Matteo Renzi. A Firenze, come abbiamo svelato ieri, la Procura ha aperto un fascicolo su un bonifico da 75.000 euro partito dagli Stati Uniti, arrivato a una ditta di Portici (Napoli) e in parte girato al senatore semplice di Rignano sull' Arno. La stessa Procura ha da tempo avviato un procedimento sulle donazioni alla fondazione Open, già cassaforte del renzismo, inchiesta in cui il procuratore aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi contestano il finanziamento illecito alla politica e il traffico di influenze, considerando la stessa fondazione «un' articolazione di partito». C' è poi una segnalazione degna di nota inviata all' Unità di informazione finanziaria della Banca d' Italia lo scorso 11 marzo. E riguarda «Ritorno al futuro comitato di azione civile nazionale», il veicolo per la raccolta fondi di Italia viva. Il comitato ha aperto il proprio conto corrente nell' ottobre del 2018 proprio quando stavano arrivando gli ultimi contributi volontari sul rapporto della Open, che ha chiuso definitivamente la sua attività nell' autunno del 2018, come in un ideale passaggio del testimone. Ma l' amministratore, l' avvocato Roberto Cociancich, ex senatore del Pd e oggi consigliere di Sace Spa, azienda controllata da Cassa depositi e prestiti, ci informa che «attraverso un atto notarile i comitati sono stati trasformati in partito politico», cambiandone la natura giuridica. Ma chi ha segnalato all' Unità d' informazione finanziaria della Banca d' Italia, in pratica l' ufficio antiriciclaggio di via Nazionale, ha definito i comitati «ente senza personalità giuridica collegato al partito Italia viva di Matteo Renzi» e ha indicato come titolari effettivi Ivan Scalfarotto, attuale sottosegretario agli Affari esteri, il suo segretario particolare Alberto Castoldi, Emanuela Marchiafava, ex assessore provinciale del Pd, e lo stesso Cociancich, già presidente della Conferenza internazionale cattolica dello scoutismo dal 2011 al 2017. Nell' ultimo anno (la segnalazione va a ritroso dal marzo 2020) i movimenti del conto avrebbero registrato uscite per 795.081 euro ed entrate per 1.220.615 euro. La quasi totalità degli accrediti proviene da 545 bonifici (1.209.045 euro). Di questi, 348 sono stati inviati dall' estero e valgono 565.458 euro. Essi, si legge nella segnalazione, sono stati «disposti da Stripe payments Uk limited, con causali recanti sigle non comprensibili» e sarebbero stati effettuati tramite un conto corrente con iban tedesco. La Stripe payments è una piattaforma di pagamenti online e, come ci ha spiegato Cociancich, attraverso di essa vengono incassati i contributi volontari dei donatori che hanno aderito alla campagna di fundraising. Da questi numeri si evince facilmente che la capacità di attrarre finanziamenti dell' ex sindaco di Firenze non sembra esaurita, considerando che Open ha incassato 6,7 milioni in circa sei anni. Pare di capire che i fan di Renzi siano pronti a sostenerlo economicamente, in particolare durante la kermesse della Leopolda, a prescindere dal partito che guida e dal suo ruolo nelle istituzioni, anche se non abbiamo il dettaglio delle entrate prima e dopo la fondazione di Italia viva. Gli addebiti sul conto del comitato sono rappresentati quasi interamente da 115 disposizioni di bonifico, per un valore di 586.587 euro, che secondo la banca «non mostrano evidenti anomalie», ma anche da 18 ricariche per un totale di 206.000 euro della carta prepagata intestata a Cociancich. Con essa, l' amministratore, si legge sempre nella segnalazione, ha disposto 287 pagamenti Internet per un totale di 202.322 euro «dei quali non si ha chiarezza sui beneficiari». La maggior parte di questi pagamenti avevano importi fissi di 915 e 610 euro. Alla Verità Cociancich spiega: «I pagamenti a cui si fa riferimento sono a un fornitore di servizi Internet per la gestione della piattaforma su cui girano il sito e i vari social che abbiamo. Tutto è avvenuto tramite transazioni bancarie di cui ci sono i giustificativi». Proprio una prepagata, nell' inchiesta Open, è finita al centro delle polemiche, essendo stata utilizzata per le spese di alcuni parlamentari. La carta di credito di Ritorno al futuro è stata utilizzata per saldare le spese personali dei politici di Italia viva? «No, non abbiamo fatto nessun tipo di operazione "grigia" che possa essere contestata. Sono molto tranquillo», ci assicura Cociancich. Il documento visionato dalla Verità fa anche i conti in tasca allo stesso Scalfarotto, che ha ricevuto 169.945 euro in 31 bonifici quasi tutti disposti dalla Camera dei deputati per indennità parlamentare. Ma se in tali movimentazioni non vengono evidenziate particolari anomalie, il direttore della banca ha, invece, inoltrato la segnalazione di operatività sospetta in considerazione dei flussi provenienti dall' estero «che appaiono poco congrui» e dell' utilizzo di parte degli stessi per ricariche di una carta prepagata «le cui uscite appaiono non ben definite». Una diffidenza che forse è stata instillata dalla vicenda Open. Sul sito di Italia viva si legge che le somme raccolte verranno utilizzate esclusivamente per le finalità indicate all' articolo 3 del regolamento (che prevede, ad esempio, iniziative iniziative di natura sociale, civile, culturale, scientifica e politica volte a «costituire un argine alla diffusione dei sovranismi e dei totalitarismi») e che il comitato provvederà «a una adeguata rendicontazione pubblica dell' utilizzo delle somme raccolte». Che, però, sul sito non abbiamo trovato. Cociancich, in conclusione, respinge tutti i sospetti: «Abbiamo rispettato rigorosamente la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, tutti i pagamenti sono stati fatti a fronte di fatture per servizi che abbiamo ricevuto. Non mi risulta che ci siano state operazioni che possano risultare discutibili».

Alessandro Rico per ''la Verità'' il 12 giugno 2020. Sono tante le cose che non tornano, nella vicenda della triangolazione di denaro segnalata all' Antiriciclaggio, su cui sta indagando la Procura di Firenze. In ballo ci sono 75.000 euro che la Salt avrebbe trasferito alla Carlo Torino e associati srls, la quale, a sua volta, avrebbe girato a Matteo Renzi due bonifici, per complessivi 33.140 euro. Quel denaro sarebbe stato il corrispettivo spettante all' ex premier per la sua partecipazione a una conferenza ad Abu Dhabi, il 10 dicembre 2019. Il titolare della ditta, Carlo Torino, ieri ha tenuto il telefono spento per tutto il pomeriggio. E Mario Capuano, commercialista di Portici presso il cui studio ha la sede legale la società del trentatreenne, a parte annunciarci che «il dottor Torino sta procedendo a querelare chi ha scritto falsità», non ha potuto - o non ha voluto - metterci in contatto con lui. Spulciando tra le frequentazioni dell' imprenditore, però, abbiamo ricostruito le sue trasmigrazioni dagli ambienti di centrodestra a quelli renziani. Torino è stato attivo nel Centro studi del pensiero liberale, inaugurato in pompa magna dal Cav in persona presso la berlusconiana Villa Gernetto, nel settembre del 2017. Un anno dopo, il finanziere, che con i conoscenti sembra vanti spesso la sua lunga esperienza lavorativa in Goldman Sachs a Londra, promuoveva un incontro milanese del think tank con Pier Carlo Padoan, già ministro dem dell' Economia. Però, solo pochi mesi prima, l' 11 giugno, lo troviamo come relatore a un dibattito con Giulio Tremonti sul «ritorno della politica». Un evento che, visti il parterre e le fondazioni coinvolte, aveva un sapore decisamente più sovranista. Pare che Torino riferisse anche di suoi ottimi rapporti con l' ex inquilino di via XX settembre; in realtà, i due si sarebbero conosciuti solo in occasione di quelle conferenze politico-culturali, di cui Torino era assiduo frequentatore, specie nella Capitale. E qualcuno degli altri habitué ricorda che l' imprenditore gli aveva anche prospettato l' idea di costituire un «gruppo di pressione». Magari da intendersi nel senso di un pensatoio, investito del compito di impostare i programmi dei leader di partito. I lobbisti professionisti di Roma, in effetti, preferivano tenere il giovane yuppie campano a distanza. Chi ci ha parlato di lui, ha confermato l' indecifrabilità del personaggio: in cerca di spazio, perciò pronto a peregrinare tra gli schieramenti. A qualche potenziale cliente incontrato agli eventi avrebbe provato, legittimamente ma infruttuosamente, a proporre soluzioni finanziarie. A un certo punto, Torino, estimatore delle analisi economiche di Algebris, la società di Davide Serra, finanziere renziano a Londra, è entrato nella cerchia dell' ex premier. A introdurlo sarebbe stato un altro finanziere italiano della City, Raffaele Costa. Ma come si sia arrivati al bonifico da 33.000 euro, non è chiaro. Così come è curioso che la Carlo Torino e associati venga costituita il 26 novembre 2019: due settimane prima che il senatore semplice intervenga al convegno emiratino, ma tre giorni dopo la messa in liquidazione della Digistart, la società creata da Renzi nel maggio 2019, in concomitanza con le tournée da conferenziere nei Paesi arabi. Le due imprese hanno un oggetto sociale molto simile, come si evince dai rispettivi atti costitutivi. Resta da capire come sia nata la collaborazione della strana coppia.

Il caso e le polemiche. Inchiesta Open smontata, la rabbia dei renziani: era solo fango. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Open, aperto. Come lo squarcio sullo stato di diritto che l’inchiesta della Procura di Firenze si è incaricata di produrre, indagando la Fondazione Open – fondazione oggi chiusa – per illecito finanziamento ai partiti. Marco Carrai, imprenditore fiorentino vicino a Renzi e membro del cda, era stato indagato nell’inchiesta che il 26 novembre 2019 aveva portato a una raffica di perquisizioni in tutta Italia. Come in un film visto già troppe volte, la guardia di Finanza, coordinata dal procuratore Giuseppe Creazzo, aveva eseguito oltre trenta perquisizioni presso una dozzina di imprenditori di nove città italiane che in passato avevano finanziato Open, a partire dal presidente della fondazione, Alberto Bianchi, indagato per traffico di influenze e finanziamento illecito. È una blitzkrieg, le fiamme gialle agiscono in simultanea in tutta Italia. A casa di Bianchi e di Carrai sequestrano quello che trovano: documenti, computer, telefoni. Prendono anche i cellulari dei figli, ancora in pigiama, increduli e ignari. Italia Viva era nata da pochi giorni, Matteo Renzi aveva appena lasciato il Pd e annunciato la nascita del suo nuovo soggetto. E zacchete, ecco l’inchiesta. Ecco le sirene, le volanti, i verbali di sequestro. Un sequestro probatorio annullato, con un atto di verità, dalla Corte di Cassazione. Il materiale è pulito, o meglio, dicono i giuristi: ininfluente. È Matteo Renzi che commenta a caldo, ospite di Barbara Palombelli in televisione: «Finalmente giustizia per quelle persone che avevano solo voluto dare un contributo a una fondazione che non è mai stata organica a nessun partito. Adesso chiedo una cosa, che si esegua la sentenza della Cassazione e che quei telefoni cellulari presi a famiglie incolpevoli e perfino a dei ragazzi, svegliati di soprassalto mentre dormivano, vengano restituiti ai proprietari nel minor tempo possibile». L’effetto mediatico dell’inchiesta c’è stato, ed ha avuto come contraccolpo quello di fare il vuoto intorno a Renzi, reo soprattutto di amicizia con Carrai. Scoraggiati e anzi messi in fuga i sostenitori di Italia Viva, autentica vittima del caso. «Nati da pochi giorni» – ripercorre il Vice Presidente della Camera dei Deputati, Ettore Rosato, per il Riformista – «e quotati a due cifre dai primi sondaggi, abbiamo visto subito l’esito dell’operazione: gli amici e i finanziatori bloccati, spaventati. Era una bolla di sapone, anzi, di fango. Pensata ad arte per bloccarci e che infatti ci ha fatto malissimo. Ha fatto male sul piano del consenso e su quello dell’organizzazione». La Cassazione fa giustizia, ma la campagna di fango passa in giudicato. Il senatore Davide Faraone, Iv, lo nota: «Il giorno del sequestro, tutti mostri in prima pagina. Oggi che si scopre l’insussistenza dell’inchiesta, vedo due righe a pagina 16». Soddisfatti i legali, a partire dall’avvocato di Carrai, Massimo Di Noia. «Sono molto soddisfatto, questo dissequestro non è solo un segnale. Si inizia a fare giustizia in una vicenda incresciosa: non si può attentare alla libertà delle persone per cose che giuridicamente non esistono. Perché è stata riconosciuta la giustezza delle nostre tesi. Ammesso il nostro ricorso, cadrà tutto il castello accusatorio. Il sequestro probatorio si fa quando non ci sono prove, e si vanno a cercare. Qui il dissequestro avviene oggi perché i reati ipotizzati non sussistono, il materiale sequestrato, passato allo scandaglio degli inquirenti, ha messo in luce la totale assenza di prove a carico». La decisione della Suprema Corte cambia il quadro delineato dall’inchiesta toscana e le accuse mosse a Carrai sono messe in discussione, con quanta ampiezza si vedrà quando saranno pubblicate le motivazioni del verdetto emesso dalla Sesta sezione penale della Cassazione. Possono volerci trenta giorni. In base a quanto invece sostenuto dalla difesa di Carrai, forte anche del parere dell’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick, la Fondazione Open non si può considerare una articolazione di partito. Fondazioni e partiti stagnano d’altronde tutti nel limbo in cui il legislatore li ha lasciati, soggetti indefiniti e appesi ad un irrisolto articolo 49, autentica “incompiuta” della Costituzione.

Inchiesta Open conferma che in Italia c’è una magistratura deviata. Davide Bendinelli su Il Riformista il 17 Settembre 2020. Caro Direttore, due giorni fa la Cassazione ha sancito l’illegittimità del sequestro dei telefonini, dei documenti e dei computer disposto nei confronti dei finanziatori della Fondazione Open, che aveva contribuito al finanziamento della Leopolda, lo scorso novembre nell’ambito di un’inchiesta per presunto finanziamento illecito ai partiti. La notizia ebbe all’epoca un risalto mediatico straordinario: decine di imprenditori furono svegliati all’alba del mattino da un’irruzione della Guardia di Finanza. Un dispiegamento di forze degno di un’operazione antimafia, palesemente sproporzionato rispetto al reato contestato. Un’operazione che, guarda caso, arriva poco dopo la fondazione di Italia Viva e che, mio parere, incide anche sul consenso del partito. Il fatto interessante è che i due pm non sono nomi sconosciuti alla cronaca: sono infatti gli stessi che disposero l’arresto dei genitori di Matteo Renzi, arresto poi dichiarato illegittimo, anche questa volta, dalla Cassazione. Nessuno vuole mettere in dubbio che l’operato della magistratura, sia, nella maggior parte dei casi, giusto e trasparente. Allo stesso tempo, anche in seguito alla vicenda Palamara, appare chiaro come esista un pezzo di magistratura deviata, che utilizza il potere per scopi politici. Ci siamo passati con Silvio Berlusconi, lo vediamo oggi con Matteo Renzi. Il vero nodo della matassa, però, non riguarda tanto l’operato dei magistrati, ma la sottomissione psicologica della politica di fronte a una vera e propria cultura giustizialista che permea anche parte dell’opinione pubblica del Paese, a partire dai quotidiani che, salvo poche eccezioni di cui il tuo giornale rappresenta un fulgido e virtuoso esempio, sono sempre pronti a sbattere il mostro in prima pagina per poi relegare le assoluzioni a un trafiletto in decima. Intanto, il danno è compiuto, ma non solo: la vittima del fango mediatico e giudiziario non si vedrà mai ripagata dell’ingiustizia subita. Eppure, se un medico sbaglia, viene processato e condannato. Un magistrato, che ha a che fare con la libertà delle persone, valore non meno prezioso della salute, non paga mai invece. Ecco perché dico che la Politica dovrebbe avere uno scatto d’orgoglio, riappropriarsi del suo ruolo. I partiti dovrebbero sedersi ad un tavolo e dare al Paese una riforma della giustizia vera, che ripristini la separazione dei poteri oggi palesemente compromessa. Andrebbe varata, accanto a ciò, una legge più efficace dell’attuale sulla responsabilità civile dei magistrati. Mi spingo oltre: servirebbe una riforma delle misure cautelari, il cui utilizzo, soprattutto per ciò che riguarda l’arresto, andrebbe circoscritto ai delitti contro la persona. Il faro dovrebbe essere, molto banalmente, la Costituzione: la Carta sancisce a chiare lettere il principio di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato, così come recepisce i principi del giusto processo e la separazione dei poteri. Basterebbe, banalmente, applicare quei capisaldi dello Stato di diritto. Esiste poi un tema di fondamentale importanza che Matteo Renzi denunciò all’epoca del sequestro in Parlamento, inascoltato purtroppo dalle altre forze politiche. Quello sul finanziamento ai partiti. Nonostante questo sia stato il Paese di Mani Pulite, nessuno ha mai affrontato seriamente la questione. Vogliamo lasciare che siano i privati a finanziare i partiti? E allora, con trasparenza e regole certe, tuteliamoli dalle invasioni di campo dei pm. Oppure, ripristiniamo il finanziamento pubblico. Discutiamone, partendo da un principio: fare politica ha un costo e la democrazia non può avere un prezzo, come mi piace ricordare anche a chi sostiene lo sciagurato taglio del numero dei parlamentari millantando presunti risparmi.

Giacomo Amadori per ''La Verità'' il 7 novembre 2020. Dopo che per anni le Procure di mezza Italia gli hanno ronzato intorno, i magistrati di Firenze hanno iscritto Matteo Renzi sul registro degli indagati con l'accusa di finanziamento illecito per i denari incassati dalla Fondazione Open, la cassaforte del Renzismo. Per l'ex presidente del Consiglio è la prima volta. Come è la prima volta per Maria Elena Boschi, l'altro pezzo da novanta di Italia viva iscritto sul registro delle notizie di reato. I due si vanno ad aggiungere agli altri tre indagati per la gestione di Open: gli ex consiglieri Luca Lotti e Marco Carrai (nel consiglio direttivo c'era anche la Boschi) e l'ex presidente Alberto Bianchi, accusato anche di traffico di influenze. Nell'«invito a comparire» inviato ai quintetto sottoposto a indagini si legge che dovranno presentarsi il 24 novembre «dinanzi ai pm dottor Luca Turco e Antonino Nastasi negli uffici della Procura della Repubblica di Firenze [] per rispondere ad interrogatorio con l'assistenza del difensore di fiducia già nominato». Gli inquirenti hanno disposto che l'invito fosse notificato tramite il Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza il 2 novembre, il giorno dei morti. L'iscrizione di Renzi, della Boschi e di Lotti si deve probabilmente alle evidenze raccolte dai magistrati dopo le perquisizioni dell'anno scorso che avevano coinvolto la sede della fondazione e oltre 30 imprenditori legati da rapporti di tipo finanziario con la fondazione Open che tra il 2012 e il 2018, quando ha chiuso i battenti, ha raccolto circa 7,2 milioni di euro. Nell'invito a comparire si legge che somme erano «dirette a sostenere l'attività politica di Renzi, Boschi e Lotti e della corrente renziana».A tutti è contestato il finanziamento illecito continuato (reato punito dai 6 mesi ai 4 anni di reclusione) «perché in concorso tra loro, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ()» Bianchi, Carrai, Lotti e Boschi in quanto membri del consiglio direttivo della Fondazione Open «riferibile a Renzi Matteo (e da lui diretta), articolazione politico-organizzativa del Partito democratico (corrente renziana), ricevevano in violazione della normativa citata i seguenti contributi di denaro che i finanziatori consegnavano alla Fondazione Open»: circa 670.000 euro nel 2012, 700.000 nel 2013, 1,1 milioni nel 2014, 450.000 nel 2015, 2,1 milioni nel 2016, 1 milione nel 2017 e 1,1 milioni nel 2018. Nell'avviso l'ex premier viene identificato come segretario nazionale del Partito democratico per quasi cinque anni, nonché come parlamentare del Senato. Anche la Boschi è presentata con un bel cv: parlamentare, componente e poi coordinatrice della segreteria nazionale del Pd. Ovviamente questa vicenda rischia di rendere ancora più traballante la già instabile condizione politica dell'ex sindaco di Firenze, costretto a barcamenarsi tra lo scomodo ruolo di puntello del governo di Giuseppe Conte con la sua Italia viva e la voglia di fare opposizione. Adesso, con la vittoria ormai certa di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane l'unica speranza che resta a Matteo è quella di diventare segretario generale della Nato, per stare il più lontano possibile dall'Italia e per meglio gestire la sua immagine internazionale, grazie alla quale ha potuto incassare negli ultimi due anni quasi 2 milioni di speech all'estero e comparsate tv. Resta da vedere se quando verrà scelto il segretario generale, Renzi avrà già archiviato questa grana giudiziaria che, in caso contrario, potrebbe intralciare la sua corsa all'ambita poltrona. Era da mesi che scrivevamo che il convitato di pietra dell'intera vicenda era Matteo. Infatti era impossibile che fossero accusati di finanziamento illecito per i soldi incassati da Open, la fondazione di Renzi, solo gli amministratori e non chi usufruiva di quel denaro. Per lo meno questo a rigor di logica. Per i magistrati la creatura renziana, che ha promosso e organizzato anche le varie edizioni della Leopolda, come abbiamo scritto, «ha agito da "articolazione" di partito politico», quanto meno in relazione alle «"primarie" dell'anno 2012, al comitato per Matteo Renzi segretario» e «alle ricevute di versamento da parlamentari». Un'ipotesi che per come è stata costruita dalla Procura e dal Tribunale del riesame non ha convinto i giudici della Suprema Corte di Cassazione, i quali a settembre hanno accolto un ricorso presentato dagli avvocati di Carrai con queste motivazioni: «Non è sufficiente una mera coincidenza di finalità politiche, ma occorre anche una concreta simbiosi operativa, tale per cui la struttura esterna (Open, ndr) possa dirsi sostanzialmente inserita nell'azione del partito o di suoi esponenti, in modo che finanziamenti ad essa destinati abbiano per ciò stesso un'univoca destinazione al servizio del partito». La Cassazione ha invitato il Tribunale del riesame a compiere un'«analisi dell'operatività» della fondazione che finanziava la «Leopolda», «in modo da poter inquadrare gli elementi prospettati al di fuori della ordinaria attività di una fondazione politica e da poter per contro suffragare, sia pure all'attuale stadio delle indagini e per le relative finalità, l'assunto accusatorio dell'illiceità dei finanziamenti ricevuti e/o intermediati da Fondazione Open». Gli ermellini si sono espressi dopo che i legali di Carrai, Filippo Cei e Massimo Dinoia avevano impugnato il provvedimento di convalida di perquisizione e sequestri. La Cassazione ha anche annullato senza rinvio le perquisizioni e sequestri a carico di uno dei finanziatore di Open, Davide Serra, non indagato. Quando i giudici del Palazzaccio aveva accolto questi ricorsi, Matteo Renzi si era scatenato su Facebook: «Oggi su Facebook interviene Matteo Renzi in un post in cui si legge: "Dieci mesi fa centinaia di finanzieri inviati dalla Procura di Firenze hanno perquisito le case di cittadini non indagati «rei» di aver finanziato in modo legittimo e trasparente la Leopolda. Per settimane i giornali, i politici, gli addetti ai lavori hanno parlato di quella vicenda: il caso Open». Quindi aveva lanciato l'affondo: «Ieri la Cassazione ha stabilito che le perquisizioni erano illegittime: la Cassazione! Oggi silenzio di quasi tutti i media. In un mondo normale oggi qualcuno dovrebbe scusarsi per le tonnellate di fango che ci hanno buttato addosso. Non succederà e noi andremo avanti col sorriso e senza rancore. Ma chi pagherà per il danno politico, economico, mediatico, umano che abbiamo subito? Il tempo è galantuomo, certo, ma le cicatrici lasciano il segno. Un abbraccio affettuoso e solidale ai "perquisiti" e alle loro famiglie. E noi andiamo avanti a testa alta, come sempre, più di sempre». Renzi era stato durissimo con il procuratore Giuseppe Creazzo e l'aggiunto Turco anche l'anno scorso, dopo che i suoi genitori era finiti agli arresti domiciliari con l'accusa di bancarotta e false fatturazioni. Quindi, dopo le perquisizioni per l'inchiesta Open, il senatore semplice di Scandicci aveva commentato: «Non è la prima inchiesta che viene dal procuratore Luca Turco e dal suo capo Creazzo: sono certo che non sarà l'ultima. Che lavorino tranquilli sui numerosi dossier che hanno aperto: noi rispettiamo i magistrati e aspettiamo le sentenze della Cassazione, come prevede la Costituzione. Tutto il resto è polemica sterile». Ma torniamo all'inchiesta. L'iscrizione di Renzi & c. lascia pensare che i magistrati, dopo le perquisizioni dei mesi scorsi, siano riusciti a trovare le prove che stavano cercando. All'epoca gli investigatori erano andati a caccia di bancomat e carte di credito messe a disposizione dei parlamentari. Il che rendeva praticamente inevitabile la contestazione del finanziamento illecito e, in prospettiva, ma solo per i politici, anche l'appropriazione indebita (e non il peculato, perché quelli della Open non sono soldi pubblici) se gli inquirenti avessero scoperto che per esempio le carte di credito erano state utilizzate per effettuare spese personali, non collegate con la politica. Ma nell'avviso a comparire questa ipotesi di reato non compare e viene contestato solo il finanziamento illecito.

Indagine Open, Renzi:  «Pm ossessionato. Per Italia viva danno d’immagine». Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera l'8/11/2020. Il leader sull’inchiesta con al centro la Fondazione Open: «Io mi aspettavo delle scuse». «Pm ai quali la visibilità mediatica piace più del giudizio di merito, toghe che seguono la viralità dei social più che le sentenze della Cassazione». La parola complotto Matteo Renzi non l’ha mai pronunciata. Però non nasconde sorpresa, amarezza e sconcerto. «C’è un pm fiorentino che arresta il mio babbo e la mia mamma, — risponde al Corriere il leader di Italia viva — che indaga mio cognato, che sequestra i telefonini ai miei finanziatori, che manda trecento finanzieri a casa di cinquanta persone perbene che vengono svegliate la mattina alle 7 per chiedere loro se hanno contribuito alla Leopolda e alla Fondazione Open. E sa che cosa succede tutte le volte?». No, che cosa accade senatore Renzi? «I suoi colleghi lo smentiscono con tanto di sentenze. Allora io dico: se non è un’ossessione ormai questo pm è diventato un affetto stabile».

«Il pm ha capito la sentenza della Cassazione?» Dopo aver inaugurato da una terrazza romana l’assemblea nazionale di Italia viva, Renzi ribadisce di rispettare la magistratura composta per la stragrande maggioranza da persone perbene ma è convinto che ci siano «pm ai quali la visibilità mediatica piace più del giudizio di merito, toghe che seguono la viralità dei social più che le sentenze della Cassazione». Già, la Cassazione, che poco più di un mese fa aveva giudicato illegittimo il sequestro preventivo ordinato dalla procura di Firenze su alcuni indagati. «Era un segnale chiaro ai pm e io mi sarei aspettato una lettera di scuse. E invece è arrivato un avviso di garanzia e la convocazione in Procura a tutto il cda di Open. Un assurdo giuridico, visto e considerato che la sentenza della Suprema Corte di pochi giorni fa andava in tutt’altra direzione. Ma il pm ha letto quella sentenza e l’ha capita? Noi sì. Comunque se ne occuperanno i nostri legali».

«Incredibili errori». E quei 7,2 milioni versati a Open da dove sono piovuti? «Denaro bonificato e dunque tracciato, assolutamente trasparente, soldi versati a una fondazione e non a un partito — risponde Renzi —. Ma lei si ricorda le polemiche, quando ero nel Pd, sulla mancanza di bandiere di partito alla Leopolda? Non c’erano bandiere perché la Leopolda non era un’iniziativa di partito né di una corrente del Pd, ma un’iniziativa di una fondazione dove c’era gente del Pd e di altri partiti». Renzi è convinto che l’inchiesta su Open sia stata «un danno di immagine pazzesco per Italia viva, perché chi avrebbe voluto finanziarci non ha avuto coraggio di farlo». L’ex premier non lo dice, ma nel suo partito c’è chi rileva che nel mandato di comparizione dei pm fiorentini ci sono una serie di «incredibili errori». Come l’aver definito Maria Elena Boschi coordinatore nazionale («Lei non ha mai avuto questo incarico e al tempo era Lorenzo Guerrini», spiegano i renziani) e altre «sbadataggini». Il 24 novembre Renzi si presenterà in Procura? «Questo lo decederanno gli avvocati», risponde il senatore.

Simona Poli e Luca Serranò per repubblica.it l'8 novembre 2020. Il Giglio magico sotto inchiesta. La Procura di Firenze ha notificato un invito a comparire nei confronti del senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva, per finanziamento illecito ai partiti: con l'ex segretario del Pd sono stati iscritti nel registro degli indagati dai sostituti procuratori Luca Turco e Antonino Nastasi anche la deputata Maria Elena Boschi, capogruppo di Italia Viva alla Camera, e il deputato Pd Luca Lotti. Le accuse sono partite nel corso dell’inchiesta sulla Fondazione Open, giudicata dagli inquirenti una articolazione della corrente renziana del Pd, in cui già erano finiti l’imprenditore Marco Carrai e l’avvocato Alberto Bianchi. I tre politici toscani,  come anticipato oggi da La Verità, hanno ricevuto un invito a comparire in Procura per il prossimo 24 novembre “per rispondere ad interrogatorio con l'assistenza del difensore di fiducia già nominato”. Durissimo l'attacco ai magistrati del leader di Italia Viva in diretta Facebook : "L'inchiesta su Open è stata un danno di immagine pazzesco per noi di Italia Viva, chi avrebbe voluto finanziarci non ha avuto coraggio di farlo, molti non sono venuti nel nostro partito, comprensibile del resto", dice Matteo Renzi aprendo l'assemblea nazionale su una terrazza romana. "Dopo un anno dalla nostra nascita abbiamo luci e ombre, abbiamo avuto risultati straordinari in alcuni casi e in altri siamo andati davvero male. In questo scenario dobbiamo liberarci dall'ansia del sondaggio, perché questo meccanismo permette di rincorrere le cose peggiori", dice Renzi. "Un anno fa dopo la Leopolda eravamo partiti alla grande, stavamo puntando al 10% nei sondaggi e avevamo centinaia di migliaia di euro di finanziamento, poi cosa è successo? Uno scandalo, o meglio un presunto scandalo - spiega - Un pm di Firenze manda 300 finanzieri a casa di 50 persone per bene per chiedere se hanno contribuito alla Leopolda o alla fondazione Open: e certo che hanno contribuito, tutto alla luce del sole. Quella vicenda ci ha causato un danno pazzesco: i sondaggi hanno cessato di crescere, i finanziamenti di arrivare, un danno enorme anche alla nostra capacità attrattiva: molte persone non sono passate da noi perché avevano paura, ed è legittimo". "Da quei  pm di Firenze che hanno svegliato con 300 finanzieri i nostri finanziatori di prima mattina mi sarei aspettato una lettera di scuse e invece stamani arriva una convocazione in procura a tutto il cda di Open. Tra l'altro con un assurdo giuridico, visto e considerato che la sentenza della Cassazione di pochi giorni fa andava in tutt'altra direzione. Se ne occuperanno i nostri legali, la dottoressa Severino per Boschi, il dottor Coppo per Lotti, il dottor Caiazza per il sottoscritto. Credo che ci siano vari modi per replicare a quello che sembra un assurdo giuridico. A chi cerca la battaglia e la visibilità mediatica, bisogna rispondere con il diritto e pensiamo che la verità sia nella sentenza della Cassazione". Poi un attacco diretto: "Loro passano le informazioni alla Verità mentre noi pensiamo che la verità l'abbia detta la Cassazione. Nel caso il pm di Firenze non abbia capito, sarà compito degli avvocati dare le spiegazioni di diritto. Purtroppo l'ansia di visibilità di qualcuno rischia di nuocere anche agli altri magistrati e sono in tanti a fare il loro lavoro onestamente. Noi le sentenze della Cassazione le leggiamo e crediamo anche di capirle". Nella prima fase l’inchiesta si era concentrata sull'“intreccio tra prestazioni professionali rese da Bianchi e i finanziamenti alla Fondazione”, e le attività di procacciatore di sponsor rivestito secondo le accuse da Carrai. Al centro degli accertamenti proprio la presunta natura di articolazione di partito della Fondazione, che aveva portato a perquisizioni e sequestri anche tra finanziatori non indagati. I nuovi sviluppi riguardano somme messe a disposizione dalla Fondazione per i 3 politici toscani: “ricevevano in violazione della citata normativa contributi di denaro che i finanziatori consegnavano a Open”, scrivono i pm, indicando un totale di 7,2 milioni la somma ottenuta tra il 2012 e il 2018. Secondo le accuse quei soldi erano destinati proprio “a sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana”. Sorpresa e incredulità esprimono fonti di Italia Viva per le scelte della procura di Firenze. Renzi, che interverrà nel pomeriggio all'assemblea del suo partito, intende evitare polemiche politiche con i magistrati e affiderà la discussione nel merito del provvedimento agli avvocati.

Fabio Martini per la Stampa l'8 novembre 2020. Matteo Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi - i tre ex ragazzi della provincia toscana che dieci anni fa iniziarono la loro scalata alla politica nazionale - il 24 novembre dovranno comparire tutti assieme (ma accompagnati da avvocati diversi) davanti alla Procura di Firenze come indagati in un' indagine per il reato di finanziamento illecito ai partiti, del quale avrebbe goduto la Fondazione Open, emanazione diretta dell' ex Presidente del Consiglio. Il totale della cifra contestata è corposo: oltre 7 milioni di euro, spalmati su 6 anni. La notizia è stata commentata da Matteo Renzi con accenti "berlusconiani": «Ci sono magistrati, pochi fortunatamente, a cui la ribalta mediatica piace più del giudizio di merito, e perciò seguono la viralità sui social più che le sentenze della Corte di Cassazione», come quella che di recente ha annullato un atto dell' inchiesta. Sostiene Renzi: «Da quei pm di Firenze che hanno svegliato con 300 finanzieri gli sponsor della fondazione Open mi sarei aspettato una lettera di scuse» e non «un assurdo giuridico». L' ex capo del governo ha incolpato i magistrati di aver soffocato nella culla la sua Italia Viva: «Un anno stavamo puntando al 10% nei sondaggi e avevamo centinaia di migliaia di euro di finanziamento, poi un pm manda 300 finanzieri a casa di 50 persone per bene per chiedere se hanno contribuito alla Leopolda o alla fondazione Open. Quella vicenda ci ha causato un danno pazzesco: i sondaggi hanno cessato di crescere, i finanziamenti di arrivare». Un piglio molto aggressivo, quello di Renzi che si alimenta di una serie di vicende giudiziarie che hanno visto coinvolta anche la sua famiglia e che sinora hanno seguito lo stesso iter: accuse iniziali poi sgonfiate. Ma parole comunque impegnative, espresse da Renzi, aprendo l' assemblea nazionale di Italia Viva, durante la quale l' ex presidente del Consiglio ha spiegato una volta ancora che «Italia Viva è pronta a sottoscrivere «un vero e proprio contratto di programma alla tedesca». Ma ora sul futuro di Italia Viva incombe una vicenda giudiziaria per un reato che non rientra tra quelli che suscitano allarme sociale, ma che presenta qualche incognita per una ragione che esula dalla fondatezza dell' inchiesta: dieci anni fa quando Renzi avviò la sua ascesa, Luca Lotti e Maria Elena Boschi erano i suoi "scudieri", uniti in un team che si è via via sfaldato. Non tanto per i ruoli diversi (Boschi aveva assunto il ruolo di frontwoman, Lotti quello di shadow-man, uomo ombra) ma per un accumularsi di dissapori, diventati plateali quando Renzi ha lasciato il Pd, mentre Lotti ci è restato, in silenzioso dissenso dal suo ex capo. Ma tra Renzi e Lotti, già da tempo, si è consumato un divorzio, culminato in occasione delle elezioni regionali in Toscana: Italia Viva ha eletto soltanto due consiglieri regionali mentre fanno riferimento a Lotti ben 8 "parlamentari" toscani. L' inchiesta è chiamata a chiarire se e come sia stata aggirata la normativa sul finanziamento ai partiti a favore della «corrente renziana del Pd» e come si possano giustificare le spese realizzate da singoli con i fondi della Fondazione Open. I tre presenteranno un' unica versione dei fatti o differenzieranno le posizioni? Il primo segnale è eloquente: pur in presenza di un reato in concorso, i tre hanno preferito nominare avvocati diversi, che sono tre principi del foro: Matteo Renzi sarà difeso da Gian Domenico Caiazza, presidente dell' Unione delle Camere penale; Maria Elena Boschi da Paola Severino, mentre Luca Lotti sarà difeso da Franco Coppi. Se la vicenda dovesse aggrovigliarsi a quel punto potrebbe svilupparsi un dibattimento tra "giganti", potenziali lezioni per studenti di Giurisprudenza.

Carlo Tarallo per la Verità l'8 novembre 2020. «Sono vicino a Matteo Renzi. Rispetto per la magistratura ma in questi anni abbiamo visto troppe indagini finite in nulla che lo hanno riguardato»: Carlo Calenda, leader di Azione, è l'unico esponente politico che commenta la notizia dell'inchiesta che vede indagati a Firenze tra gli altri Matteo Renzi ed Maria Elena Boschi (peraltro in modo capzioso: il Bullo è indagato per la prima volta: quali sarebbero le altre indagini «finite nel nulla»?). Unico e solo: da Pd, M5s e Leu, neanche una parola. Renzi in questo momento è colui il quale tiene in piedi il governo guidato da Giuseppi Conte, dopo essere stato il principale artefice della sua nascita. Dunque, silenzio assoluto da parte degli alleati di governo. Un autobavaglio, quello sull'inchiesta fiorentina, che sorprende soprattutto per quel che riguarda il M5s. I grillini, lo sappiamo tutti, hanno nel loro Dna la cultura iper-giustizialista. Sono stati dal primo istante della loro apparizione sulla scena politica italiana, i primi a intervenire in maniera durissima ogni volta che un protagonista politico è stato coinvolto in una inchiesta giudiziaria. Non hanno mai risparmiato attacchi violentissimi, attraverso i social, le tv, i comunicati stampa, a chiunque finisse anche solo sfiorato dalle indagini della magistratura. Oggi, di fronte a una inchiesta che riguarda Renzi e il giglio magico, tacciono. Una conversione al garantismo? Assolutamente no: trattasi piuttosto di mero opportunismo, di ipocrita doppiopesismo: visto che l'inchiesta riguarda un loro alleato di governo, i grillini si mettono il bavaglio e aspettano che le acque si plachino. Renzi è oltretutto un alleato difficile da gestire, già in situazioni «normali»: figuriamoci cosa accadrebbe se qualche pentastellato si lasciasse andare a dichiarazioni urticanti nei suoi confronti. Abbiamo aspettato per l'intera giornata che dalle parti del M5s arrivasse un comunicato, una dichiarazione, un post su Facebook, un tweet, un segnale dell'esistenza in vita dei pentastellati in relazione all'inchiesta che vede coinvolti Renzi e la Boschi: nulla di nulla, neanche un «si faccia chiarezza» d'ordinanza. Parola d'ordine: far finta di niente. Dal Pd? Neanche a dirlo, zero commenti. Zero dichiarazioni. Zero valutazioni. Dal Nazareno nessuno si è neanche sognato di dire qualcosa in relazione a questa inchiesta, ma, va sottolineato, nemmeno sono arrivate parole di solidarietà. Renzi indagato, Renzi ignorato: eppure, quando a finire sotto inchiesta sono protagonisti politici del centrodestra, i dem non si lasciano certo imbavagliare, e vanno regolarmente all'attacco degli avversari politici, seppure in maniera più sfumata e politicamente corretta rispetto agli alleati a cinque stelle. Ieri, però, nulla di nulla: silenzio totale sull'inchiesta di Firenze. Questa è l'Italia ai tempi del governo giallorosso: anche i commenti alle inchieste vengono autocensurati dai protagonisti delle forze dei maggioranza quando si rischia di far saltare tutto. Il trionfo dell'ipocrisia, la non reazione degli alleati di governo alla notizia dell'inchiesta su Renzi. Il ledaer di Italia viva sembra ormai dominare, dal punto di vista psicologico, gli alleati, pur essendo in termini numerici l'ultima ruota del carro parlamentare della coalizione giallorossa. Renzi viene considerato uno pronto a tutto, capace di far saltare il banco per un punto percentuale in più nei sondaggi, una mina vagante sul percorso che dovrebbe portare, nelle speranze dei parlamentari, il governo Conte a durare fino alla fine della legislatura. Nessuno tocchi il fiorentino: il motto di Pd e M5s.

Il caso Renzi e il tempismo delle toghe. Augusto Minzolini, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. La rabbia. Matteo Renzi la nasconde a malapena con il suo inner circle. «Va bene si sfoga io alla fine prenderò l'avvocato Caiazza, Lotti l'avv. Coppi, Maria Elena la Severino e Carrai l'avv. Di Noia. I pm di Firenze se la vedranno con loro e spiegheranno a loro perché vogliono buttare in politica una questione giuridica...». Ed ancora: «È una cosa allucinante! L'avviso di garanzia mi è arrivato l'altro giorno, alla vigilia della verifica di governo. Io, comunque, visto che la cosa andrà avanti per anni, non rispondo. Mi chiedo come possano i Pm andare contro le sentenze della Cassazione solo per assicurarsi un po' di visibilità?! La verità è che vogliono buttarmi addosso solo fango mediatico Eppoi questa storia che vogliono scambiare la Leopolda per un partito, ma come si fa? È un'invasione di campo, meglio che sto zitto altrimenti mi incazzo! So solo che questa inchiesta ha provocato un danno pazzesco ad Italia Viva: un anno fa puntavamo al 10%, dopo quelle centinaia di perquisizioni i sondaggi hanno smesso di crescere, i soldi di arrivare come le persone che non rischiano più per darci un contributo anche economico». In un Paese in cui si ferma ogni cosa per il Covid, dalle scuole ai tribunali, le uniche inchieste che vanno avanti sono quelle a sfondo politico. Così la vicenda Open, data per chiusa, è tornata alla ribalta, malgrado poco più di un mese fa la Cassazione avesse fatto a pezzi l'indagine dei Pm («difetto di motivazione in ordine al fumus»), giudicando illecite le perquisizioni verso alcuni imputati. Puntuale come un orologio svizzero, alla vigilia di un vertice di maggioranza che doveva chiarire tutto, ma non ha chiarito nulla. Beh, con un avviso di garanzia in tasca, insieme a tutti i componenti di quello che una volta era chiamato il Giglio magico, era difficile che il più spigoloso dei capi della maggioranza potesse spingersi oltre il rito. Stesso copione ieri all'assemblea nazionale di Italia Viva dove Renzi ha detto che «è pronto a firmare un contratto di governo». C'è una distanza siderale tra quello che il leader di Italia Viva diceva appena mesi fa del governo e quello che dice oggi. E non è che il governo sia migliorato. Anzi. Ieri per la prima volta Conte ha dovuto licenziare uno degli uomini che aveva nominato in ruoli chiave, quel gen. Cotticelli fino a ieri commissario della sanità in Calabria, che non aveva neppure capito che toccava a lui impostare il piano regionale anti-Covid: non poteva non rimuoverlo, vista la vicenda surreale; ma, nella sostanza, se dovesse seguire lo stesso metro, il Premier dovrebbe mettere alla porta pure qualche ministro e il commissario Arcuri di fronte all'impreparazione in cui versa il Paese alle prese con la seconda ondata dell'epidemia. Per non parlare della confusione creata con la suddivisione delle regioni tra rosse, arancioni e gialle: altro che criteri imparziali! L'esecutivo per evitare disordini a Napoli ha lasciato la Campania in zona gialla, facendo, però, arrabbiare i calabresi. «Non conosce neppure la storia si sfoga l'azzurro Francesco Cannizzaro - : quest' anno è il cinquantenario delle rivolte di Reggio, del boia chi molla, e già ci sono state le prime manifestazioni nei capoluoghi, ma non c'erano solo gli esagitati, pure i borghesi!». Tutte queste cose Renzi le ha sempre sapute e le sa, ma fa finta di nulla. Oppure, è condizionato. In fondo sono trent' anni da Tangentopoli ai nostri giorni - che la magistratura più politicizzata, con il reato di cui è accusato l'ex premier, cioè finanziamento illecito, fa fuori protagonisti della politica o tenta di tagliargli gli artigli. E questo, non va dimenticato, è un governo organico alle due anime della magistratura «interventista», i nipotini delle toghe rosse e i seguaci del «rito Davigo»: basta pensare che l'«house organ» di Palazzo Chigi è diventato Il Fatto di Travaglio, da sempre il condensato del pensiero giustizialista nostrano. Per cui era fatale che l'ago della bilancia in Parlamento, cioè Renzi, si ritrovasse nel mirino. Potrebbero essere definiti «strumenti» di dissuasione: ogni volta che l'ex premier alza la voce, tornano vecchie inchieste dal passato. È un costume della casa: ne sa qualcosa pure Matteo Salvini. E, naturalmente, se sei al governo, se hai il potere di decidere, la «pressione» aumenta. «Da tempo ammette Gennaro Migliore c'è un tentativo di condizionarci, ma ormai siamo vaccinati. Certo colpisce la tempistica di queste azioni giudiziarie». «Una vicenda rincara Michele Anzaldi che fa venire i brividi: non si sa cosa hanno in mano i pm, ma intanto ti rovinano la vita. Per non parlare del tentativo di condizionarti politicamente. Ecco perché non mi stanco di ripetere ai mie colleghi che le critiche al governo non vanno fatte al bar ma pubblicamente: in questa situazione drammatica non puoi chiedere una verifica, eppoi uscirtene con la riforma del titolo quinto. Cosa gliene importa alla gente se oggi abbiamo sfiorato quota 40mila contagi?!». E torniamo alla «distanza» tra quello che professavano poco più di un mese fa Renzi e Zingaretti (anche lui da tempo nel mirino di un pm romano) e l'epilogo del vertice dell'altra sera: un mese fa parlavano entrambi di rilancio del governo, di rimpasto, ma poi sono rimasti imprigionati nella melassa di Palazzo Chigi. Un epilogo considerato strano anche da un personaggio come Cosimo Ferri, magistrato, ex esponente del Csm e ora deputato renziano, osservatore attento di quell'area di confine tra politica e magistratura. «È vero conferma dovremmo avere un atteggiamento più critico verso il governo. Ma poi... i tempi di questa nuova iniziativa giudiziaria colpiscono. Inoltre è un'altra puntata di un pm che indaga da una vita su Renzi. E pensare che arrivò a Firenze scelto all'unanimità, su consiglio dell'ex giudice Palamara». Già, in quella sala degli specchi che è il confine tra politica e magistratura, le vicende si intersecano, si confondono. Parli di una vicenda e la mente, naturalmente, risale ad un'altra. «Io ha raccontato a qualche confidente l'ex giudice Luca Palamara, da poco entrato nella commissione giustizia del partito Radicale con le inchieste su Open non c'entro nulla. Si sa che un pezzo della procura di Firenze è anti-renziana da sempre. Su questa vicenda si è inserito uno scontro di potere che riguardava il vertice della procura di Roma. Uno scontro cruciale che tra l'altro ha innescato la vicenda dei trojan al sottoscritto». Appunto, la Politica e la Giustizia. O, per grado di influenza, viceversa.

Renzi: «Quei pm spero siano in malafede». Carlo Fusi su Il Dubbio il 10 novembre 2020. Matteo Renzi, intervistato dal Dubbio dopo aver saputo di essere indagato per la Fondazione Open, parla chiaro: “Paradossalmente preferirei che i pm fiorentini che indagano su Open fossero in malafede. Perché se invece di essere in malafede, fossero solo superficiali sarebbe peggio”. No, non c’è la riapertura dell’eterno conflitto tra politica e magistratura. No, non suona la grancassa dell’accanimento giudiziario: anche perché chi ha calcato quella strada non è andato lontano. No, non ci sono sgambetti e entrate a gamba tesa da fare o da restituire. Però Matteo Renzi quel che ha da dire lo dice senza infingimento: «Io credo nella giustizia, nello Stato di diritto, credo nella magistratura, credo nell’avvocatura. Per cui sarà il Tribunale a dire l’ultima parola. Bisogna avere pazienza, credere nel sistema giustizia del Paese e nel fatto che la verità alla fine verrà a galla. Però…».

Però?

«Però mi viene da dire che paradossalmente preferirei che i pm fiorentini che indagano su Open fossero in malafede. Perché se invece di essere in malafede, fossero solo superficiali sarebbe peggio. Ci hanno mandato un avviso di garanzia in cui scambiano la Boschi con Guerini. Per capire le differenze tra Boschi e Guerini non è necessario aprire il codice penale, basta aprire un giornale».

Presidente, lei dice che non è in corso l’ennesimo atto dello scontro tra politica- magistratura. E allora le nuove indagini su Open cosa sono?

«Premetto. Io ho il massimo rispetto della magistratura. E se oggi potessi incontrare uno studente di giurisprudenza come ero io 25 anni fa, gli augurerei di cuore di studiare legge con impegno e dedizione. Poi che faccia il magistrato, l’avvocato o altro non importa. Noi dobbiamo credere nel sistema giustizia di questo Paese. Quindi nessuna guerra di religione, giù i toni da barricaderi. Anche perché – e ricordarlo è importantissimo – chi utilizza quei toni fa di tutta l’erba un fascio e impedisce un’analisi seria, serena e serrata dei singoli procedimenti, che invece è ciò che secondo me occorre fare in questa fase».

Allora giro la domanda così. Lei ha sostenuto che queste indagini vi hanno arrecato un danno. Dunque, parafrasando Shakespeare, c’è del metodo in quell’iniziativa giudiziaria: finalizzato a cosa?

«Che io sia stato danneggiato e con me Italia Viva è un dato di fatto. Non voglio generalizzare. Ripeto: credo nella magistratura e se non fosse così, se non ci credessi, non avrei promosso 70 azioni di risarcimento danni in sede civile: io mi fido dei giudici di questo Paese. Il punto è che mi piacerebbe che credessero nella magistratura e nel valore dei loro colleghi anche quei pm fiorentini che evidentemente non hanno letto, o non hanno capito, le sentenze della Cassazione sulla vicenda Open. Se le avessero lette avrebbero dovuto fare quella che la Corte definisce “una rigorosa verifica” dei fatti. Invece succede non solo che i pm non fanno la rigorosa verifica ma sbagliano le date per Lotti e Boschi della segreteria nazionale, e confondono la Boschi con Lorenzo Guerini. E pensa se non fossero stati rigorosi».

Insomma quello dei pm fiorentini è un accanimento o una prova, diciamo così, di scarsa professionalità?

«Io credo nel diritto. Credo nella magistratura e nell’avvocatura. Di conseguenza i professionisti di assoluto valore che sono stati incaricati di rispondere nel merito alle considerazioni degli inquirenti avranno modo di interagire nel procedimento secondo le regole di uno Stato di diritto. Per questo non urlo al complotto, non grido. Prendo atto che questa vicenda ci ha danneggiato in modo incredibile. Si pensi solo al danno economico per Italia Viva oltre che nei sondaggi. Avendo la piena consapevolezza che la Fondazione Open non era il Pd: si ricordino le tante polemiche sull’assenza delle bandiere di partito alla Leopolda o relatori poi candidati con altre forze politiche. C’è la necessità di rispondere alle accuse non con un tono ideologico ma nel merito. Quanto al rapporto tra politica, finanziamento della politica e magistratura, sono intervenuto in aula al Senato il 12 dicembre di un anno fa. Ho detto quel che c’era da dire sulla separazione dei poteri, non ho cambiato idea. In quell’intervento pubblico e trasparente c’è tutto quello che penso sulla gravità della decisione di perquisire i finanziatori di Open. Un atto gravissimo che la Cassazione del resto ha duramente stigmatizzato».

E come si rende trasparente il rapporto tra la politica e i suoi finanziatori?

«Le rispondo così. Si parla di finanziamento illecito ai partiti ma in ballo non ci sono i finanziamenti: c’è l’idea stessa di partito. Un giudice penale vuole decidere come funziona la democrazia di questo Paese. Questa di cui stiamo parlando non è una indagine sul finanziamento della politica perché è tutto tracciato, bonificato alla luce del sole. E non è neanche l’indagine su un illecito. Questa è un’indagine su un partito! Quello che i pm stanno cercando di provare non è una dazione di denaro sottobanco. Non esiste alcun fondo illecito. I pm stanno contestando la natura di partito ad una Fondazione. Per cui se loro avessero ragione da domani le forme della politica verrebbero decise dal giudice penale e non dalla libera associazione dei cittadini. I Paesi in cui è il giudice penale a decidere come funzionano i partiti sono Paesi sfortunati. Un fatto enorme. E questo a mio avviso pone una questione sulla separazione dei poteri. Non grido al complotto, porto argomenti che dovrebbero fare riflettere tutti».

Passiamo ai fatti politici. Le faccio una domanda facile. Lei quale colore preferisce: rosso, giallo o arancione?

«Preferisco il verde speranza».

Ironie a parte, la divisione del Paese in tre colori a seconda del contagio Covid la convince?

«Nel momento attuale penso che ci sia da stringere i denti per arrivare al vaccino. Ho preso l’impegno a non commentare, a non contestare, a non criticare ma solo a dare una mano. Questo mi ha portato dopo più di un anno di governo ad andare personalmente a palazzo Chigi ad una riunione di maggioranza perché la situazione è molto seria. Ormai per il vaccino è questione di settimane e dobbiamo lavorare perché il sistema sanitario regga. Certo, non riesco a capire perché si continui a dire no al Mes. Chi sta in coda ad aspettare i tamponi non si capacita di un diniego così perentorio quanto ideologico».

Bisogna andare sì o no al lockdown nazionale?

«Il governo ha scelto un metodo di lavoro che parte dall’analisi dei dati e dallo schema a tre colori. Rispetto questa scelta e non partecipo a discussioni astratte. La Toscana zona arancione e la Campania no per me è inspiegabile ma prendo atto e vado avanti. Noi rischiamo di affrontare una situazione molto difficile a livello sanitario, ma rischiamo anche di averne una ancora più difficile a livello economico. E i danni di questa pandemia si vedranno sul debito pubblico nel medio periodo. Ora rispettiamo le regole e i criteri del ministro della Sanità, ma intanto lavoriamo sulla strategia per i prossimi mesi».

Quanto la preoccupa il disagio sociale che può trasformarsi in ribellione nelle piazze?

«Mi preoccupa. Però molto di più mi preoccupa il disagio occupazionale che ci sarà nel primo semestre del prossimo anno. Quando si faranno i licenziamenti allora sì che si determinerà una vera e propria emergenza. L’Italia finora si è comportata bene, i cittadini benissimo. I pochi facinorosi e violenti sono stati già individuati e isolati. Non mi preoccupa la tensione di piazza. Mi preoccupa, moltissimo, moltissimo, la disoccupazione. Per questo dico: spendiamo subito e bene i soldi del Recovery. Diamo una visione per i prossimi dieci anni. Interveniamo subito per sostenere le aziende che porteranno alla ripresa. Dopo una pandemia c’è sempre una ripresa. Ma la ripresa va accompagnata, custodita, “coccolata”. Non può immaginarsi una ripresa che arriva da sola. Spendiamo i soldi del Recovery investendo su quelle filiere produttive che possono avere un futuro. Siamo un Paese pieno di talenti: investiamo subito e bene. È questa la scelta del tavolo politico che il presidente del Consiglio, e ne sono lieto, ha accolto. Di qui a fine novembre abbiamo tempo tre settimane per capire se sono rose e se fioriranno».

A voi di Italia Viva affibbiano sempre la patente dei rompiscatole. Un po’ le piace…

«Ci criticano nel breve periodo e poi ci danno ragione sul lungo. Se invece di criticarci ci dessero subito ascolto, sarebbe un bene per il Paese. Se il referendum di quattro anni fa fosse andato in porto, molti dei problemi attuali li avremmo superati. Pensi solo al Titolo V della Costituzione e alla clausola di supremazia sulla sanità regionale. Ma anche alla scuola. Se solo avessimo gestito per tempo i tamponi e i trasporti anziché buttar via soldi sui banchi a rotelle».

Chiudiamo così. Silvio Berlusconi è tornato ad insistere sul tema dell’unità nazionale. La convince? È tempo di tornare al patto del Nazareno e di allargarlo?

«Trovo molto sagge le parole del presidente Berlusconi. Trovo doveroso per il governo fare di tutto per coinvolgere quanto più possibile le opposizioni. Ma il presidente Berlusconi è il primo a sapere che questa offerta di collaborazione deve essere accompagnata da un atteggiamento diverso. Non tutte le opposizioni sono Forza Italia; l’atteggiamento di Lega e FdI è ben diverso. Nel concreto credo che la saggezza di Berlusconi meriti rispetto ma dall’altro lato occorre una disponibilità di tutti. Il presidente Conte per come ci ho parlato mi è apparso desideroso di avviare una collaborazione fattiva con le opposizioni; il segretario del Pd, Zingaretti, ha detto cose impegnative in questo senso. Se si vuole iniziare, è il momento».

Paola Fichera per La Nazione il 9 novembre 2020. All' ex rottamatore, deus ex machina della vita politica fiorentina nell' ultimo decennio, brucia ancora il risultato elettorale ottenuto dalla sua Italia Viva alle Regionali. Il fatto è che Matteo Renzi dopo il lancio del suo nuovo partito, in quella Leopolda 2018 che doveva segnare la rinascita e la rivincita dopo i veleni interni al Pd, era sicuro di poter conquistare la doppia cifra nazionale e parecchi punti in più nella sua Toscana. Invece... Invece l' ex sindaco, ex premier, oggi senatore semplice, si è dovuto accontentare di un 4,5 per cento regionale e un 6,5 fiorentino. Briciole per chi, da premier e segretario, aveva fatto navigare il Pd oltre il 40 per cento nel suo trionfale 2014 che sembrava aver spazzato via dalla scena politica anche l' arrembante Grillo. Ieri Renzi, in diretta Facebook per l' intervento di apertura all' assemblea nazionale del suo partito (tutta on line, ma senza rinunciare al leggio trasparente dei tempi d' oro), ha parlato di un «danno pazzesco» a Italia Viva causato da quell' inchiesta sulla Fondazione Open che ha portato alle umilianti perquisizioni in ben undici città dei finanziatori. «Dopo quella vicenda i sondaggi hanno smesso di crescere - ha ricordato - i soldi hanno smesso di arrivare, non ci sono più coloro che rischiano per darci un contributo anche economico. Un danno enorme alla nostra capacità attrattiva, molte persone non sono passate con noi perché avevano paura». E' vero che il dato elettorale non ha fatto la felicità di Renzi e dei suoi, ma è altrettanto vero che, comunque, in terra toscana Italia Viva ha allungato i tempi della formazione della nuova giunta del neo governatore Giani (che ha dovuto concedere la vicepresidenza della Regione a Stefania Saccardi e la vicepresidenza del consiglio regionale a Stefano Scaramelli). Non solo: apparentemente senza un motivo contingente, è entrata a sorpresa anche nel rimpasto della giunta Nardella con deleghe non banali all' assessora Titta Meucci. I primi a non capire la mossa del sindaco sono stati i consiglieri del Pd poi, siccome la polemica politica in tempi di Covid ha, anche lei, poco fiato la vicenda si è silenziata in fretta. Certo è che lo zoccolo duro del renzismo non ha mai smesso di abitare a Firenze. E' da qui che proprio grazie alle dieci 'Leopolda' finanziate prima dall' associazione politico culturale Big Bang e poi proprio dalla Fondazione Open (2012 - 2018) che non rivelerà mai tutti i nomi dei suoi finanziatori (per rispetto delle norme sulla privacy), che Renzi dà la scalata alla scena politica romana. E' qui che nasce e si consolida il famoso Giglio magico. E' nelle sale buie dell' ex stazione ottocentesca che per anni si affollano i renziani in cerca di incarichi e futuro. Per conquistare quei cinque minuti, scanditi dal gong, sul palco si dice servano buone aderenze. Renzi nega. Sostiene invece di scegliere storie, esperienze, di valorizzare il coraggio e l' ottimismo verso la vita. Normale quindi che spesso quei relatori entrino poi a far parte della non più tanto ristretta schiera dei collaboratori dell' ex rottamatore. Tre giorni di vetrina mediatica, tv e social che innamorano l' esercito renziano. Ogni anno la Leopolda macina consensi e raccoglie fondi, non per il Pd, di cui non si vede mai sventolare una bandiera, ma per lo show di Renzi che fra storie, canzoni, video e barzellette sa tessere la sua politica.

Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 9 novembre 2020. Gli attacchi dell' indagato Matteo Renzi contro i magistrati di Firenze che stanno indagando sui presunti finanziamenti alla fondazione Open sono senza precedenti. Eppure non abbiamo ancora notizie di interventi quirinalizi o del Csm a difesa degli inquirenti sotto assedio. Il fu Rottamatore ha accusato chi lo sta indagando di cercare la ribalta mediatica e ha persino detto, riferito al procuratore aggiunto Luca Turco, «se non è un' ossessione, ormai questo pm è diventato un affetto stabile». Turco è uno che ama i riflettori come Superman la criptonite. Ma a Renzi non a genio neppure il procuratore Giuseppe Creazzo, che oggi sembra atterrato su Firenze da Marte, ma che è stato nominato con i voti delle correnti di Area (le toghe progressiste) e Unicost (il gruppo all' epoca guidato dal «renziano» Luca Palamara) in pieno governo Renzi. In queste ore Renzi si offre agli italiani come un perseguitato, ma le carte delle inchieste e le condanne già intervenute contro personaggi del suo inner circle (a partire dai genitori) raccontano un' altra storia. L' ultima strategia dell' ex premier è quella di far passare il messaggio che la Cassazione avrebbe assolto lui e i suoi quattro coindagati (Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e l' ex presidente di Open Alberto Bianchi), mentre ha solo indicato dove fossero carenti le motivazioni alla base di sequestri e perquisizioni. I supremi giudici hanno sostenuto che i pm dovranno dimostrare la simbiosi tra l' attività della fondazione Open e l' attività politica di Renzi e della sua corrente. Ma la Leopolda, finanziata con i soldi di Open, che cos' era se non la kermesse di quella corrente così ben identificata dai magistrati? L' ex sindaco di Firenze è lo stesso che un anno fa chiedeva ossessivamente a Matteo Salvini dove avesse messo i 49 milioni del finanziamento pubblico (nello stesso periodo il Pd ne aveva incassati oltre 180). All' epoca le inchieste dei magistrati non lo infastidivano. In realtà, nel processo alla Lega, a far scattare le accuse è stato l' utilizzo di una parte del finanziamento totale, circa 3 milioni usati indebitamente dagli imputati o non sufficientemente documentati. Open, tra il 2012 e il 2018, di milioni ne ha incassati 7,2 (da aggiungere a quelli del Pd), ma Renzi, che sfotteva gli altri sulle inchieste, non sopporta di avere gente che gli setaccia fatture e note spese. Open, però, ha mai fatto qualcosa di diverso rispetto a un' attività a sostegno della «corrente renziana»? Per i pm evidentemente no. C' è una email, sequestrata dagli investigatori nella quale l' avvocato Bianchi, all' indomani di una cena del 2013, spiega ai finanziatori la mission della costituenda Open. E dopo i salamelecchi arriva al dunque: «Il primo presupposto è un impegno non esclusivamente per la campagna di segretario Pd 2013, ma più lungo e più ampio, ispirato (a) dalla certezza che Matteo è l' unico che ha la convinzione radicale di cambiare verso a questo Paese (che è ciò di cui il Paese ha bisogno)». Poi Bianchi aggiunge, come se il futuro premier e la costituenda Open si dovessero sovrapporre, che «il secondo presupposto è che l' impegno di Matteo e della Fondazione costa». Non nasconde che servono i piccioli: «Abbiamo bisogno di risorse». Ma non per fare opere benefiche, bensì per fare politica. Nelle carte si parla di «noleggio di strutture per manifestazioni e spettacoli», di «organizzazione di convegni e fiere», ma anche di «ricerche di mercato e sondaggi di opinione», di «ideazione di campagne pubblicitarie» e di «produzione video e campagne tv». Va da sé che c' è un particolare periodo dell' anno in cui Open non bada a spese. In autunno, infatti, a Firenze viene organizzata la manifestazione più nota del renzismo, la Leopolda. Il 2016 è un anno chiave nel percorso politico di Renzi che si gioca una gran fetta della sua popolarità con il referendum, tanto da promettere l' uscita dalla politica in caso di sconfitta. E tra il 3 e il 4 novembre vengono versati 100.000 euro sul conto del «Comitato nazionale per il sì», con la causale «contributo volontario», denaro inviato in due tranche dalla fondazione Open. Un capitolo a parte lo meritano gli uomini della «corrente renziana», i quali non hanno mai smesso di sostenere economicamente la stessa fondazione, circostanza che potrebbe avvalorare la tesi di una «concreta simbiosi operativa» evocata dalla Corte di Cassazione per giustificare la contestazione del finanziamento illecito. Nel 2013 tra i fedelissimi di Renzi più generosi si segnala Ermete Realacci, che versa sul conto di Open 3.000 euro. Anche l' ex ministro Boschi dà la sua parte (1.600 euro), l' attivista dei diritti Lgbt Ivan Scalfarotto (1.000 euro), Francesco Bonifazi, Andrea Marcucci e Michele Anzaldi (800 euro a testa). Un anno più tardi anche l' attuale vicepresidente del Csm David Ermini sostiene la causa, mettendo mano al portafogli (800 euro). Nelle carte raccolte dai pm di Firenze c' è una «nota di addebito del 30 dicembre 2013 da Fondazione Open a Comitato per Matteo Renzi segretario del Pd relativo a spese sostenute per evento Bari di vostra competenza di 103.742 euro». In un altro faldone è stata inserita una ricevuta dello stesso anno con la stessa dicitura. Negli elenchi delle note spese rimborsate figurano tutti renziani della prima ora, gente impegnata in prima fila nella battaglia politica. Insomma, sarà difficile dimostrare che Open fosse qualcosa di diverso da una cassaforte della corrente renziana. Forse per questo Renzi ha deciso di attaccare frontalmente i pm. Nel 2018, quando Salvini iniziò un braccio di ferro con la Procura di Catania per lo sbarco dei migranti salvati dalla nave Diciotti, Palamara e l' ex vicepresidente del Csm in quota Pd Giovanni Legnini (ex sottosegretario del governo Renzi) si affrettarono a diramare una nota stampa che si concludeva così: «Riteniamo che sia necessario un intervento del Csm per tutelare l' indipendenza della magistratura e il sereno svolgimento delle attività di indagine». Chissà se oggi il parlamentino dei giudici guidato dall' ex renziano Ermini si sveglierà e chiederà di aprire una pratica a tutela dei pm sotto attacco.

Giacomo Amadori per “la Verità” l'11 novembre 2020. Lo scontro istituzionale tra il senatore semplice di Scandicci Matteo Renzi e la Procura di Firenze che lo ha iscritto sul registro degli indagati per finanziamento illecito sta raggiungendo livelli di guardia. Ricordiamo che Renzi è il giurista che al padre che gli chiedeva da chi sarebbe stato interrogato nella vicenda Consip, rispose: «Considera che tutti i magistrati di cui si sta parlando, come dire, hanno dei loro giri, [] dei cazzi loro di vario genere, quindi io credo che a te ti interrogherà un magistrato importante di Roma, se ho capito bene». Ma forse gli inquirenti fiorentini non hanno «dei loro giri» e «dei cazzi loro di vario genere» e quindi non sono incasellabili nelle categorie del fu Rottamatore. Per esempio nel caso Palamara pezzi di Giglio magico e toghe di complemento si preoccupavano di «mettere paura» al procuratore Giuseppe Creazzo colpevole di aver fatto arrestare babbo e mamma Renzi. Bisognava spaventarlo con «quell' altra storia». I presunti complottardi volevano cavalcare un esposto anonimo, nato con altri intenti, e che era stato presentato a Genova. Ad esso erano seguiti verbali densi di accuse sulla gestione delle inchieste di un pm fiorentino, P. B., e di militari della guardia di finanza ai loro rispettivi superiori. Tra questi Creazzo, appunto, e il procuratore aggiunto Luca Turco, il bersaglio renziano del momento, colpevole di aver iscritto l' ex segretario del Pd, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e Alberto Bianchi sul registro degli indagati per 7,2 milioni di euro di erogazioni liberali transitate attraverso la Fondazione Open. La denuncia, per una sorta di eterogenesi dei fini, nella testa di partecipanti al dopocena dell' hotel Champagne, avrebbe dovuto lavare l' onta delle indagini sul Giglio magico. I magistrati di Genova (titolari delle inchieste su colleghi toscani), coordinati dal procuratore Franco Cozzi, hanno investigato approfonditamente per mesi su due ufficiali delle fiamme gialle al centro dell' esposto, su un sostituto procuratore, T. C., su Turco e su Creazzo. E anche se gli ultimi due non sono mai stati iscritti formalmente sul registro degli indagati i loro cellulari sono stati intercettati per settimane. Eppure le toghe liguri, a quanto ci risulta, non hanno trovato niente fuori posto. L' inchiesta è stata archiviata con una richiesta al gip molto articolata, mentre l' accusatore, P. B. , intercettato a sua volta, è finito sotto procedimento davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. A conclusione di una vicenda tanto intricata, Renzi è partito lancia in resta all' assalto di questi inquirenti passati ai raggi X dai colleghi liguri e che sono risultati senza scheletri negli armadi. Per fortuna, dopo che per giorni ci siamo stupiti per l' assordante silenzio dei vertici delle toghe su questa vicenda, ieri qualcosa si è mosso. Innanzitutto il Csm ha finalmente fatto sentire la propria voce e ha diramato un puntuto comunicato: «Il senatore Matteo Renzi, indagato dalla Procura di Firenze nell' ambito di una indagine per il delitto di finanziamento illecito, ha reso dichiarazioni alla stampa nelle quali definisce i magistrati della Procura di Firenze come "ossessionati", mossi da "ansia di visibilità", e ai quali "la ribalta mediatica piace più del giudizio di merito". Si tratta di dichiarazioni che destano preoccupazione, in quanto con esse vengono attribuiti ai magistrati intenti e finalità diverse e distorte rispetto all' accertamento della verità. Per queste ragioni chiediamo, ai sensi dell' articolo 36 del Regolamento Interno, l' apertura di una pratica a tutela della autorità giudiziaria di Firenze rispetto a comportamenti che appaiono "lesivi del prestigio e dell' indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria"». La richiesta di apertura della pratica è stata firmata, tra i consiglieri togati, da tutti e cinque i rappresentanti di AreaDg (le toghe progressiste), dai tre di Autonomia & indipendenza (la corrente conservatrice fondata da Piercamillo Davigo), dai due di Unicost (il gruppo centrista), dagli indipendenti Nino Di Matteo e Carmelo Celentano, dall' esponente di Magistratura indipendente Antonio D' Amato, dal consigliere laico grillino Fulvio Gigliotti ed è stata consegnata al Comitato di presidenza che la vaglierà domani. Del comitato fanno parte il vicepresidente (ed ex renziano) David Ermini, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio. Un mini politburo che, di fatto, fa trait d' union tra il plenum e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A non firmare sono stati due laici a testa di Lega, 5 stelle e Forza Italia e un solo membro togato, Loredana Micciché di Mi, la stessa corrente del renzianissimo Cosimo Ferri, oggi deputato di Italia viva. A difesa dei pm toscani è sceso in campo anche il Comitato direttivo centrale (il parlamentino appena eletto) dell' Associazione nazionale magistrati, dopo che ieri si era mossa la giunta regionale toscana. Il Cdc ha definito «inaccettabili, pur nella libertà di critica, prese di posizione che tentano di delegittimare la magistratura». Le doglianze non sono finite: «Neppure è accettabile l' allusione alla ricerca di una visibilità, in realtà mai ricercata dai colleghi fiorentini, da sempre impegnati esclusivamente nell' attività di indagine. Queste dichiarazioni rischiano di creare un clima di avversione nei confronti dei singoli magistrati e di confondere l'opinione pubblica». Infine l'Anm ha assicurato ai colleghi «vicinanza e sostegno, certa che nulla condizionerà il loro lavoro». Il sindacato dei giudici ha diffuso la propria presa di posizione anche su Twitter. Ma la campagna social delle toghe ha trovato pronto Renzi che ha replicato sui suoi canali alzando ulteriormente il tiro: «Sotto il profilo giudiziario, mi aspettavo le scuse dai pm fiorentini per lo scandalo delle perquisizioni annullate dalla Cassazione e, invece, è arrivato un avviso di garanzia multiplo. Un avviso di garanzia in cui Maria Elena Boschi (indicata dagli inquirenti come ex "coordinatrice della segreteria del Pd", ndr) viene scambiata per Lorenzo Guerini (già portavoce della stessa segreteria, ndr), giusto per dire un aneddoto e per far capire il rigore di questa indagine». Un concetto calcato in un' intervista: «Per capire le differenze tra Boschi e Guerini non è necessario aprire il codice penale, basta aprire un giornale». Quindi ha consigliato, a «chi vuole riflettere sul valore enorme di questa indagine per la nostra democrazia», di riascoltare il suo ultimo intervento all' Assemblea nazionale di Italia viva e un suo discorso al Senato contro gli stessi inquirenti del dicembre 2019: «C' è tutto, un anno prima che la Cassazione smentisse fragorosamente i pm fiorentini». Insomma vecchi e nuovi discorsi anti toghe, a cui si somma un' intervista al Dubbio, l' organo ufficiale del Consiglio nazionale forense, in cui spiccano chicche come questa: «Mi viene da dire che paradossalmente preferirei che i pm fiorentini che indagano su Open fossero in malafede. Perché se invece di essere in malafede, fossero solo superficiali sarebbe peggio». Nel botta e risposta, dopo aver sfottuto per mesi Matteo Salvini sulla questione dei 49 milioni di finanziamento pubblico, strepita: «Questa è un' indagine su un partito!». E sostiene che l' inchiesta avrebbe «danneggiato in modo incredibile» il suo partitino. «Si pensi solo al danno economico per Italia Viva oltre che nei sondaggi» sottolinea. In effetti dopo che era diventato premier i suoi introiti erano cresciuti a dismisura: in cinque anni quasi 6 milioni erano arrivati alla fondazione, nel 2018 e nel 2019, il suo reddito, grazie a conferenze e programmi tv, era arrivato a quasi un milione di euro l' anno, l' azienda di famiglia aveva visto salire il fatturato da 1,9 milioni a 7,2. Una pioggia di milioni. Grazie alla politica si era lasciato alle spalle i tempi in cui doveva lasciare le mansardine da 1.000 euro al mese perché non se le poteva permettere (era sindaco, ma aveva tre mutui da pagare). Purtroppo ora c' è il lockdown (quindi niente discorsi strapagati in giro per il mondo), l' azienda di famiglia ha visto scendere il fatturato 2019 a 1,1 milioni (nel 2013, l' annus horribilis dell' azienda, i ricavi erano stati 1,9 milioni), Open ha chiuso i battenti. E tutto questo con il mutuo da un milione di euro per la villa sulle colline fiorentine da pagare. Facendo due conti si capisce forse il nervosismo di Renzi. Quasi un ex milionario.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 13 novembre 2020. Come Paperon de' Paperoni anche Matteo Renzi aveva il suo deposito. Era la fondazione Open, a cui attingeva per organizzare mega eventi come quello del Lingotto di Torino (10-12 marzo 2017) da 459.600 euro e le varie Leopolde, ma anche per le spese del cellulare. Per l' utilizzo di Open, oggi Renzi, l' ex presidente della fondazione Alberto Bianchi e i vecchi membri del consiglio direttivo Maria Elena Boschi, Marco Carrai e Luca Lotti sono indagati per finanziamento illecito. Le carte dell' inchiesta fiorentina, coordinata dal procuratore aggiunto Luca Turco, non svelano, però, solo il legame finanziario tra la fondazione e l' ex premier, ma raccontano anche il tramonto del Giglio magico e il tentativo di costruire una nuova cassaforte dopo la chiusura di Open, avvenuta nel 2018. All' epoca l' ex premier non intende rinunciare ai propri finanziatori e pensa a una «fondazione Matteo Renzi». Una soluzione alla Barack Obama, alla Tony Blair o alla Clinton. Sogni e progetti emergono dagli appunti di Bianchi. L' avvocato pistoiese, come il conte Emmanuel de Las Cases sull' isola di Sant' Elena, trascriveva sulla carta intestata dello studio o sull' agenda i resoconti dei suoi incontri con il decadente Napoleone di Rignano sull' Arno. Nel settembre del 2018 la mancanza di denari popola di incubi la testa di Bianchi. Che in uno dei suoi promemoria scrive: «Leopolda 9. Chi organizza? Comitato, nuova fondazione? Composta da chi? Soldi. Ci vogliono 750 k. Da chi si va? (vedo Toto il 13)».  In effetti Bianchi il 13 settembre 2018 incontra l' imprenditore Alfonso Toto a Roma. L' annotazione prosegue in modo quasi indecifrabile. Dentro a un rettangolo di legge «Matteo, estromissione». Sotto: «Ora possibile». L' 8 ottobre il professionista trascrive altre parole, forse dopo aver incontrato Lotti. Anche qui si legge «Matteo estromissione» seguito da una parola non chiaramente comprensibile. Nello stesso appunto ci sono frasi sparse come «Leopoda (Presta ecc. RTV 38)», con riferimento all' agente di Matteo, Lucio Presta, e «aereo leasing: presto archiviaz». A quale leasing si fa riferimento? All' Air force Renzi? E di qualche archiviazione si parla? Scorrendo l' agenda di Bianchi-Rustichello (il memorialista del Milione) scopriamo che a fine 2018 l' avvocato sta progettando una società in accomandita semplice intestata a Eleonora Chierichetti, originaria di Rignano sull' Arno e per anni responsabile della segreteria di Luca Lotti. L'impressione è che l' azienda debba fare da veicolo per futuri guadagni di Renzi & c.. Nel progetto viene coinvolto anche Riccardo Maestrelli, uno dei grandi finanziatori del fu Rottamatore, nominato consigliere di Cdp immobiliare durante il governo Renzi. Il 22 novembre 2018, la Chierichetti, l' avvocato Alberto Maria Bruni, pure lui di Rignano sull' Arno, Bianchi e Maestrelli danno vita alla «Mediceo di Eleonora Chierichetti Sas». L' oggetto sociale è: attività di «consulenza e pianificazione strategica, finanziaria e commerciale; di advocacy». A luglio Bianchi aveva incontrato Lotti e i due avevano trattato l' argomento «società lobbyng e advocacy», abbinato ai promemoria «cercare ABruni» e «M avvisato». Da una nota del 17 settembre 2018 apprendiamo che il piano per una Sas viene affinato in un incontro proprio con l' avvocato rignanese. Che porta a queste conclusioni: «Accomandita semplice RM (Riccardo Maestrelli, ndr) accomandatario AB e AB accomandanti (con ogni probabilità Alberto Maria Bruni e Alberto Bianchi, ndr); consulenza varia offerta servizi; incassa la società paga una parte minore i suoi professionisti/ una parte fanno cassa e poi si stabiliscono i dividendi (anche ai professionisti); fiscalista del Maestrelli; chi è il destinatario terzo? (ABr non vuole essere coinvolto)». Il messaggio è abbastanza criptico, ma gli investigatori desumono che si tratti di un «incontro prodromico alla costituzione della Mediceo Sas». Alla fine la società non sembra essere stata utilizzata da Renzi. Lo si deduce dal riassunto di un colloquio tra Bianchi e l' ex premier. L' appunto del 18 marzo 2019 sintetizza una lunga conversazione tra l' ex presidente di Open e «MR a margine della riunione operativa sulle vicende dei suoi genitori». L' 8 marzo Tiziano e Laura erano stati rimessi in libertà, dopo essere stati arrestati il 18 febbraio con l' accusa di bancarotta. Nell' annotazione è indicato un capitolo «business». Dove si legge: «Scettico su Mediceo (penso abbia ragione). Scettico su opportunità di un unico mega contenitore con dentro lui, Marco (Carrai, ndr), Luca (Lotti, ndr), io e chissà chi altro. E - dice - priorità numero 1 è soldi x Luca, numero 2 restituire ad Alberto, numero 3 ecc. meglio diversificare (tradotto: non ha voglia di legami in società con Luca. Del resto, Marco me lo aveva detto)». In effetti due mesi dopo Renzi fonda la Digistart, di cui diventa amministratore unico Carrai. Ma il 23 novembre la società viene sciolta e posta in liquidazione dallo stesso ex premier (con una perdita di esercizio di 6.600 euro). La nota prosegue: «Fondazione MR. Gli ho detto che se ci dobbiamo riflettere, dobbiamo farlo fin dall' inizio, in modo sistematico. Anche perché dice, se la chiama "MR" non è cosa che si possa aprire e chiudere tipo Open. Appunto». I due avrebbero discusso anche della kermesse del Renzismo: «Leopolda: ok a farla dal 18 al 20 ottobre 2019, ok a che il contratto lo firmi io, per poi intestarlo vedremo a chi (fondazione MR? Altro Comitato?) [] Gli ho detto che vanno trovati al più presto i 400 per Leopolda 9. Dice che se non arrivano "va a prenderli lui" (vabbè)». L' ex sindaco di Firenze avrebbe anche provato a fare i conti in tasca all' amico: «Mi chiede come va il mio lavoro, quanti costi fissi ho, quanti siamo ecc. Chiede se dopo fine sua esperienza di Governo il fatturato è diminuito. Rispondo la verità: a parte caso Toto, mio fatturato (calato, cresciuto) indifferente. L' ho trovato veloce come sempre, acuto, infingardo (in senso buono), mai riservato». Ma anche perplesso sul proprio futuro: «Molto incerto in fondo sul fatto se la sua esperienza si sia conclusa o no». In quel momento mancano ancora cinque mesi alla mossa del cavallo, quella che gli permetterà di disarcionare un Matteo Salvini stordito dai mojito. La primavera del 2019 è quella in cui il Giglio magico si sta sfaldando mentre batte in ritirata. Carrai, Bianchi e Lotti stanno da una parte, Maria Elena, Renzi e il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi da un' altra. Il quadro emerge chiaro in una chat di Whatsapp tra Bianchi e la Chierichetti: «Allarme di L (Lotti, ndr): che fa M (Renzi, ndr)? Perché Bo e Bo (Boschi e Bonifazi, ndr) si muovono per chiedere finanziamenti per nuovo partito? Rischio perdersi [] Fondazione Matt= soldi da Lupo Rattazzi, Davide Serra (che parla male di Marco e Luca, dice Marco), Ferrero (?). Roba alla Obama, politica altra cosa, noi 3 fuori». I tre sono Bianchi, Lotti e Carrai, che la sera prima hanno cenato insieme. Gli investigatori chiosano: «Si rileva che il totale dei contributi e donazioni volontarie erogati da privati società ed altri enti nel corso dell' anno 2018 [] ammonta ad euro 1.159.856,89» ed «è inferiore al totale di euro 1.449.780,89 riportato» in un appunto manoscritto. Conclusione delle Fiamme gialle: «Visto il tenore dell' appunto "25/3", è plausibile ipotizzare che la relativa eventuale differenza di 289.924 euro, possa essere affluita su un rapporto di conto corrente intestato ad un altro soggetto». Infine un lungo appunto di cinque facciate riporta i contenuti di una chiacchierata con Enrico Laghi («EL 19/4/17»), che le Fiamme gialle sottolineano avrebbe toccato «diversi argomenti, personalità ed enti (fra l' altro viene fatto esplicito riferimento alla vicenda penale di Tiziano Renzi)». In quel momento Laghi è sulla cresta dell' onda e il Corriere della sera ricorda i suoi 24 incarichi. Dopo circa una settimana rassegnerà le dimissioni da Midco e Cai (Alitalia), mentre mantiene l' incarico di commissario straordinario dell' Ilva. Tra gli argomenti che i due professionisti avrebbero toccato ci sarebbe anche Flavio Briatore «con cui M», in quel momento «continua a scambiarsi messaggi». Nella nota Bianchi riporta che l' imprenditore cuneese «sembra coinvolto con il direttore dell' Agenzia entrate di Genova, che ha un processo perché scoperto a ricevere mazzette. Girano anche voci di pressioni governative (= del gov. Renzi) sul predetto direttore a favore di Briatore». L' avvocato ritiene non casuali le notizie apparse sui giornali su «un possibile rapporto tra Briatore e il direttore arrestato». Il Fatto quotidiano ha anche riferito di una donazione a Open da parte di una società del cognato di Briatore, azienda «sotto osservazione di Banca d' Italia per operazioni sospette». Bianchi trae questa morale: «Credo che Il Fatto voglia imbastire una storia che i fondi neri di Briatore, o il prodotto delle sue evasioni fiscali, venivano in parte usati per finanziare la Fondazione dell' amico Renzi. Ci scommetterei, che faranno così». Per questo invita alla «prudenza».

Csm e Anm contro Renzi: “Delegittima i giudici dell’inchiesta Open”. Il Corriere del Giorno l'11 Novembre 2020. Parole molto dure ed unanimi delle toghe nei confronti dell’ex premier Matteo Renzi, che ha sempre reagito con stizza sulle indagini che hanno coinvolto lui e la sua famiglia. I 16 componenti “togati” del Consiglio Superiore della Magistratura appartenenti a tutte le correnti, hanno richiesta di aprire subito una pratica a tutela dei colleghi fiorentini. Tutta la magistratura solidale ai pm di Firenze, dopo le violenti accuse di  Matteo Renzi, indagato dalla Procura di Firenze nell’inchiesta Open per aver violato le regole sul finanziamento ai partiti, che attaccando i magistrati, li definisce  “ossessionati” e  mossi “da ansia di visibilità”, aggiungendo che a loro “piace la ribalta mediatica più del giudizio di merito”. Immediata la reazione della magistratura a partire dall’Anm della Toscana, seguita a ruota l’Anm nazionale, ed infine tutti i magistrati del Csm. La prima dichiarazione a tutela dei pm di Firenze, è arrivata dai magistrati dell’Anm della Toscana. che subito dopo le dichiarazioni di Renzi replica: “I provvedimenti dell’autorità giudiziaria si possono impugnare e certamente criticare.  Quello che non è in alcun modo ammissibile – in un consesso democratico – e che viene fortemente stigmatizzato è quello di attribuire ai magistrati finalità e scopi diversi da quelli dell’applicazione della legge. Ritenere che alcuni pubblici ministeri siano mossi da sentimenti personali e dalla volontà di ottenere visibilità mediatica è francamente risibile e deve essere smentito con fermezza”. L’Associazione Nazionale dei Magistrati scrive che “la legittimazione della magistratura trova fondamento nella Costituzione”, e pertanto “sono inaccettabili, pur nella libertà di critica, prese di posizione che tentano di delegittimarla”. Secondo l’Anm è “inaccettabile l’allusione alla ricerca di una visibilità, in realtà mai ricercata dai colleghi fiorentini, da sempre impegnati esclusivamente nell’attività di indagine” aggiungendo che “queste dichiarazioni rischiano di creare un clima di avversione nei confronti dei singoli magistrati e di confondere l’opinione pubblica”. I 16 componenti “togati” del Consiglio Superiore della Magistratura appartenenti a tutte le correnti, hanno richiesta di aprire subito una pratica a tutela dei colleghi fiorentini. I togati del Csm scrivono che “i  comportamenti di Renzi appaiono lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”. Parole molto dure nei confronti dell’ex premier, che ha sempre reagito con stizza sulle indagini che hanno coinvolto lui e la sua famiglia. Il Csm in particolare ha sostenuto che “le affermazioni di Renzi destano preoccupazione in quanto con esse vengono attribuiti ai magistrati intenti e finalità diverse e distorte rispetto all’accertamento della verità”.

I magistrati contro Renzi. Ma lui: “Confondono Guerini con Boschi, leggessero la Cassazione…” Il Dubbio l'11 novembre 2020. Dopo l’intervista al Dubbio, i magistrati insorgono contro l’ex premier Renzi. Ma sulla fondazione Open l’ex premier è chiaro: “La Cassazione ha già smontato l’inchiesta”. E’ ancora una volta scontro tra politica e magistratura. A far alzare i toni oltre il livello di guardia sono gli sviluppi dell’inchiesta della procura di Firenze sulla fondazione Open. Matteo Renzi è indagato con l’ipotesi di aver violato le regole sul finanziamento ai partiti e alle toghe non sono piaciute le dichiarazioni rilasciate dal leader di Italia viva dopo aver appreso la notizia dell’indagine a suo carico (iscritti a registro, tra gli altri, anche Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai). Nell’intervista al Dubbio l’ex premier, insorgono i togati del Csm, “ha definito i magistrati della Procura di Firenze come "ossessionati", mossi da ‘ansia di visibilità’, e ai quali ‘la ribalta mediatica piace più del giudizio di merito’. Si tratta di dichiarazioni che destano preoccupazione – è l’affondo – in quanto con esse vengono attribuiti ai magistrati intenti e finalità diverse e distorte rispetto all’accertamento della verità”. Di qui la richiesta di aprire una pratica a tutela dell’Autorità Giudiziaria di Firenze rispetto a comportamenti che appaiono “lesivi del prestigio e dell’indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria”. Anche l’Anm parte all’attacco: “La legittimazione della Magistratura trova fondamento nella Costituzione e che sono inaccettabili, pur nella libertà di critica, prese di posizione che tentano di delegittimare la Magistratura. Neppure è accettabile l’allusione alla ricerca di una visibilità, in realtà mai ricercata dai colleghi fiorentini, da sempre impegnati esclusivamente nell’attività di indagine”, tuona il sindacato delle toghe che avvertono sul rischio di “creare un clima di avversione nei confronti dei singoli magistrati e di confondere l’opinione pubblica”.Matteo Renzi, però, respinge le accuse. “Nessuna guerra di religione” di berlusconiana memoria, “giù i toni da barricaderi”, assicura, anche perché, è il ragionamento, fare di tutta l’erba un fascio impedisce un’analisi seria, serena e serrata dei singoli procedimenti”. Io credo nella giustizia, nello Stato di diritto, credo nella magistratura, credo nell’avvocatura. Per cui sarà il Tribunale a dire l’ultima parola”, assicura. Ma c’è un però. “Mi viene da dire che paradossalmente preferirei che i pm fiorentini che indagano su Open fossero in malafede. Perché se invece di essere in malafede, fossero solo superficiali sarebbe peggio. Ci hanno mandato un avviso di garanzia in cui scambiano la Boschi con Guerini. Per capire le differenze tra Boschi e Guerini non è necessario aprire il codice penale, basta aprire un giornale”. Di più. I pm fiorentini “evidentemente non hanno letto, o non hanno capito, le sentenze della Cassazione sulla vicenda Open. Se le avessero lette avrebbero dovuto fare quella che la Corte definisce "una rigorosa verifica" dei fatti, invece succede non solo che i pm non fanno la rigorosa verifica ma sbagliano le date per Lotti e Boschi della segreteria nazionale, e confondono la Boschi con Lorenzo Guerini. E pensa se non fossero stati rigorosi”. Il leader di Iv guarda avanti. “Indossiamo il nostro sorriso più bello e via”, dice, ma ammette come l’esplosione della vicenda Open metta “a dura prova” la capacità di finanziamento del partito e chiede “un aiuto straordinario” ai suoi sostenitori. “Perché, nonostante ciò che pensano le anime belle – sottolinea – si può fare politica solo se si hanno le risorse. E, avendo abolito il finanziamento pubblico, l’unica strada è il sostegno dei privati, anche solo con piccoli versamenti da 5€ o 10€”.

Travaglio dà ordini, l’Anm scatta: “Criticare i Pm è illegale”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 11 Novembre 2020. Travaglio ordina alle toghe di colpire Renzi e di tutelare i pm di Firenze. E L’Anm scatta sull’attenti. Povero sindacato dei magistrati, come è malridotto. Orfano del navigatore Palamara, cacciato dopo esser stato riverito e usato, orbo dell’agitatore Davigo che ha lottato più di un qualunque Trump per rimanere al proprio posto. Oggi l’Anm si è chinata e fatta giunco (in attesa che passi la tempesta), e prende ordini da Marcolino. Si, proprio lui, Marco Travaglio. Il primo dei magistrati che si è svegliato ieri mattina, magari proprio il presidente, il creativo Luca Poniz, ha letto l’editoriale del direttore del Fatto, poi qualcuno ha preso carta e penna e alle 11,53 ha emesso il comunicato contro Matteo Renzi e a tutela dei pubblici ministeri di Firenze che stanno indagando sulla Fondazione Open e sul segretario di Italia Viva per finanziamento illecito ai partiti. Lui dà le direttive, loro eseguono. Marcolino, con il consueto sarcasmo di chi non sa usare l’ironia, aveva dato una bella strigliata. Puntando alto, ché il ragazzo non conosce limiti. Ussignur, si dice a Milano, mancava solo il Papa. Le aveva cantate al Presidente della repubblica, al Consiglio superiore della magistratura e al sindacato delle toghe, accusandoli di non aver mobilitato la contraerea contro Matteo Renzi. Quello che lui chiama “l’Innominabile” per avere la scusa di nominarlo tutti i giorni. Per negargli persino il diritto di parola, e anche quello di difendersi. “Nel” o “dal” processo, stucchevole domanda retorica della sinistra forcaiola, che importanza ha? Insigni giuristi hanno detto che il processo in sé è già una pena, che male c’è a cercare di evitarla? Fatto sta che Marcolino è indignato perché nessuna istituzione è partita lancia in resta a difendere i pubblici ministeri di Firenze cui Renzi rimprovera di non aver neppure letto i provvedimenti della Cassazione, che aveva esplicitamente detto come, per sostenere che una Fondazione altro non è che la longa manus di un partito, occorre che tra i due organismi ci sia una vera simbiosi. Non solo affinità di pensiero o di ideologia, ma proprio una convivenza, almeno una notte d’amore, se così si può dire in termini non magistrateschi. Mi tocca (e mi scoccia) citare un’intera frase della prosa travagliesca, perché è un vero ordine di servizio: “Secondo voi cos’hanno fatto o detto il Quirinale, il Csm o l’Anm, giustamente prodighi di pratiche a tutela e note di solidarietà ai pm insultati e calunniati da B. e Salvini? Ve lo dico io: nulla”.  Vuole la frusta per tutti. Dà ordini a Mattarella, nella sua veste di presidente del Csm, supponiamo, perché apra una “pratica a tutela” dei due pm fiorentini, il che significa semplicemente che vuol far processare Renzi due volte, una nella sua città d’origine e l’altra in quella in cui vive da parlamentare. Significativo il fatto che Marcolino colga l’occasione per mandare un pensiero gentile nei confronti di Berlusconi, il B. come beffarda fu l’imperdibile immagine di quella sedia spolverata con il fazzoletto bianco dove Marcolino si era seduto prima di Silvio. Imperdibile e indimenticabile visione, che a qualcuno è rimasta in gola come un nocciolino che abbia sbagliato strada. Il direttore del Fatto crede che il sindacato dei magistrati sia intimidito da Renzi, o ne sia condizionato perché è un uomo di sinistra. E che il Csm a presidenza David Ermini non intervenga per lo stesso motivo. La verità è un’altra, è che i tempi sono cambiati, siamo al dopo-Palamara e sarà bene che ne prendano atto anche i giapponesi che continuano a combattere nella foresta vent’anni dopo la fine della guerra. In ogni caso, un po’ stancamente, alle 11,53 gli uomini del sindacato delle toghe hanno inviato il loro comunicato. Persino il linguaggio è stanco, vetusto. Ci risiamo con la “delegittimazione” della magistratura. Che cosa vuol dire? Che io posso dire qualunque cosa, qualunque insulto per esempio a un politico ma non a un magistrato? Qualcuno forse ricorderà, anche se è storia ormai lontana, di quando il procuratore Borrelli diede dell’ubriacone al ministro guardasigilli Alfredo Biondi, dicendo testualmente che qualunque parola da lui pronunciata dopo le cinque della sera non andava presa sul serio perché frutto del suo stato di ebbrezza. Forse che il Parlamento o la presidenza del consiglio avrebbero dovuto aprire una “pratica a tutela”? La dichiarazione del Comitato Direttivo Centrale del sindacato magistrati pare quasi un’implorazione, come fosse stata scritta da qualcuno in crisi di pianto. Oltre alla solita tiritera sul reato (o peccato) di “delegittimazione”, mette in guardia dal pericolo di “creare un clima di avversione nei confronti dei singoli magistrati e di confondere l’opinione pubblica”. Ben altri toni, ben altre minacce si sono sentiti in altri tempi, fin dagli strali nei confronti di Bettino Craxi per arrivare a Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Perché il problema è che oggi è in discussione l’identità stessa della magistratura. Luca Palamara, senza prevederlo né volerlo, ha svolto un’attività maieutica nei confronti dei suoi colleghi. Ha consentito, con la complicità del suo telefono reso ignudo dal maledetto trojan, che emergesse il ruolo politico ormai privo di etica di una casta totalmente oscillante tra carriera e ideologia. I cittadini non hanno una grande fiducia nella magistratura, oggi, proprio come ai tempi del processo a Enzo Tortora. Non distinguendo in genere tra rappresentanti dell’accusa e giudici, si aspettano da tutte le toghe l’imparzialità. E non ci credono più, perché vorrebbero il magistrato lontano dalla politica, dalle sue correnti, i suoi intrighi. E sanno che nei confronti degli esponenti della politica la terzietà scende sotto le suole delle scarpe. Ecco perché, quando Matteo Renzi dice che si sente oggetto di eccessive attenzioni da parte dei pubblici ministeri di Firenze, che gli paiono persino ossessionati dalla sua persona, non si muove foglia in loro difesa. E si deve scatenare Travaglio perché almeno il sindacato dei magistrati sia costretto a scendere in campo per legittimare e ricucire la reputazione delle toghe strappate. Dal vento, che forse sta cambiando. Sarebbe il momento di un nuovo referendum.

Da liberoquotidiano.it il 12 novembre 2020. La cassa di Italia Viva è vuota e Matteo Renzi punta il dito contro l'ultima inchiesta che lo vede protagonista. "Con l’esplosione della vicenda Open la nostra capacità di finanziamento è messa a dura prova. Perché si può fare politica solo se si hanno le risorse. E, avendo abolito il finanziamento pubblico, l’unica strada è il sostegno dei privati, anche solo con piccoli versamenti da 5 o 10 euro", ha scritto il senatore di Scandicci nell’ultima e-news. Renzi infatti è indagato - insieme a Maria Elena Boschi e Luca Lotti - nell'ambito dell'inchiesta sulla fondazione Open. Dunque, fa un appello a iscritti e simpatizzanti del partito affinché contribuiscano per non far spegnere la macchina. In effetti, come riporta il Fatto Quotidiano, la situazione economica di Iv non è delle migliori: secondo gli ultimi dati, nel 2020 la creatura di Renzi ha raccolto erogazioni liberali per 300mila euro, circa 30mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Un'altra parte di finanziamenti, poi, arriva da deputati e senatori membri del partito. Il resto delle erogazioni, circa 150mila euro, arriva da imprenditori generosi. Nel confronto con altri piccoli partiti, è possibile notare le differenze. Basti pensare che Azione di Carlo Calenda o Cambiamo di Giovanni Toti - come spiega il Fatto - quest’anno hanno raccolto 550mila e 100mila euro solo di donazioni da imprenditori.

Giacomo Amadori e Giuseppe China per “la Verità” il 12 novembre 2020. I nuovi atti dell' inchiesta Open, nonostante gli strepiti di Matteo Renzi e dei garantisti a prescindere che non leggono le carte, potrebbero chiudere per sempre la stagione del Giglio magico. Infatti in tre informative dettagliatissime, datate luglio, ottobre e novembre 2020 e firmate dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Firenze (a cui hanno lavorato per mesi ben dieci militari) non c' è traccia della sciatteria che l' ex premier è riuscito a contrabbandare ai più ingenui o in malafede. L'inchiesta per finanziamento illecito che vede indagati Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e l' ex presidente di Open, Alberto Bianchi, ruota intorno a un' unica questione: la fondazione era una vera fondazione impegnata in studi, ricerche e politica o era solo la cassaforte di Matteo Renzi ed era da lui diretta come sostengono il procuratore aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi? A dare la risposta sembrano due degli indagati, Bianchi e la Boschi, in una mail acquisita agli atti. Il presidente della fondazione, il 28 giugno 2018, invia ai consiglieri la bozza di una parte del verbale del consiglio d' amministrazione della fondazione, convocato per lo scioglimento di Open: «In relazione al punto due dell' ordine del giorno, il presidente rileva che il quadro seguito all' esito del referendum del 4 dicembre 2016, alle dimissioni di Matteo Renzi dalla segreteria del Pd, alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, impone la presa d' atto dell' esaurimento delle finalità statutarie della Fondazione». Insomma, Bianchi intende collegare per iscritto l' imminente chiusura di Open al fallimento politico del suo faro. La Boschi intuisce i rischi di una simile asserzione e risponde: «Grazie! Anche se il verbale è un atto "interno" per prevenire possibili polemiche laddove un domani venisse fuori o ci fossero accertamenti vari e dovesse essere esibito, non conviene essere un po' più stringati sulle motivazioni dello scioglimento? Eviterei soprattutto di citare Matteo, se fosse possibile». Insomma consiglia di far sparire la parola Renzi dal verbale in vista di possibili «accertamenti», che in effetti un anno dopo si sono verificati, portando all' incriminazione per finanziamento illecito per il Giglio magico. Il giorno successivo Bianchi invia la versione emendata con il testo più «stringato», dal quale sono stati espunti i riferimenti bocciati dalla Boschi: «In relazione al punto due dell' ordine del giorno, il presidente rileva doversi prendere atto dell' esaurimento delle finalità statutarie della Fondazione». È abbastanza chiaro che il lavoro del Dream team di avvocati messo in campo dagli indagati parte in salita. E che Open fosse la cabina di regia della macchina elettorale di Renzi lo ammette lo stesso Bianchi in una mail risalente al 2011, quando il Giglio magico si preparava alle elezioni politiche del 2013, quelle che avrebbero permesso all' allora sindaco di Firenze di conquistare Palazzo Chigi. Bianchi nel novembre di nove anni fa, scrivono i finanzieri, «inizia a teorizzare il modello della struttura a medusa, avente come testa la Fondazione e una serie di tentacoli operativi i Comitati posti sotto il coordinamento e controllo strategico del Cda della Fondazione». L' avvocato, in una mail a Carrai, ipotizza «un Cda che abbia dentro Matteo (se vuole starci) te, e altri uno o due, meglio non politici, di assoluta serietà e fiducia di voi due, che coordina e strategicamente sorveglia una serie di tentacoli operativi (i Comitati)». Poi nel cda di Open entreranno, invece, i due politici più fedeli a Renzi, Lotti e la Boschi. Bianchi ribadisce la necessità di partire subito, sottolineando che «per costruire una candidatura (quella di Renzi, ndr) 18 mesi sono il minimo». Dalla lettura della montagna di carte sequestrate all' avvocato Bianchi è evidentissimo che anche se ufficialmente il suo nome non compare nel comitato direttivo, tutto deve passare da Renzi. Per esempio in una mail il presidente della fondazione scrive a proposito di una bozza di regolamento per il fundraising: «Attendo vostri preziosi urgenti contributi, sia sulle soglie dell' articolo 2.2 che sul resto, prima di sottoporre il tutto a Matteo». Ma ci sono molti altri messaggi come questo. In una delle tre informative della guardia di finanza si legge che «emerge che i beneficiari effettivi della fondazione non riconosciuta "Open" già "Big Bang", siano stati i suoi esponenti politici di riferimento: in primo luogo, Matteo Renzi; in subordine, Luca Lotti e Maria Elena Boschi, peraltro componenti dell' organo di amministrazione della stessa». Nei controlli a campione gli investigatori citano la cena al ristorante Cibreo di Firenze «con Carlo De Benedetti, Ezio Mauro, Alessandro Baricco, parlamentari & co.». Nove commensali, tra cui Matteo, e 120 euro a testa di menù degustazione. Sono poi indicati diversi pernottamenti alberghieri dell' ex segretario Pd a Roma, Firenze, Milano. Nella lista c' è anche un volo aereo di cui si è già interessata La Verità e il nostro articolo è stato ritrovato in una cartellina nello studio Bianchi. Il 13 giugno 2018 ci eravamo chiesti chi avesse pagato il jet privato con cui Renzi era volato a Washington per una commemorazione di Bob Kennedy. Il suo intervento era durato solo 143 secondi. Oggi scopriamo che Open ha speso circa 1.000 euro al secondo per quella passerella. Infatti i finanzieri hanno scoperto che il volo di andata e ritorno sul Dessault Falcon 900 da 12 posti è costato 134.900, per una trasferta durata poco più di 24 ore, tra il 5 e il 6 giugno 2018. Anche per restituire i soldi ai finanziatori chiacchierati Bianchi deve passare dai politici. Che poi riportano all' avvocato l' ultima parola, quella di Matteo. Il 21 marzo 2017, a pochi giorni dall' arresto di Alfredo Romeo per la vicenda Consip e dalle inevitabili polemiche per un' erogazione data a Renzi, Bianchi scrive a Lotti: «Vorrei restituire i 60 K (il contributo di 60.000 versato nel 2012 dalla "Isvafim Spa" riconducibile allo stesso Romeo, ndr). Procedo?». Lotti è dubbioso: «Sicuro? A me sembra un mezzo boomerang». Bianchi replica: «Con Buzzi s' è fatto. Comunque valutiamo». Il riferimento è al contributo di 5.000 euro versato nel 2014 dalla Cooperativa 29 giugno guidata da Salvatore Buzzi, poi coinvolto nell' inchiesta Mafia Capitale. Dopo un po' l' ex ministro torna per l' ultima volta sull' argomento: «Matteo contrario alla restituzione», facendo «intendere di aver interpellato al riguardo Matteo Renzi e che quest' ultimo fosse contrario alla restituzione del finanziamento». Un botta e risposta che porta gli investigatori a commentare: «Tale circostanza ribadisce ulteriormente la posizione di preminenza di Matteo Renzi quale decisore finale». Ma anche la gestione delle carte di credito prepagate della fondazione Bing Bang, poi ribattezzata Open, non lascia dubbi sulla direzione delle operazioni. Addirittura una carta di credito viene affidata per un mese ad Andrea Conticini, cognato dell' ex sindaco di Firenze, e un contratto per un furgoncino viene gestito da Tiziano Renzi. Gli autisti dei camper elettorali di Matteo, anche loro a carico di Open, è gente di Rignano sull' Arno. Dalla fondazione, nel 2017, escono pure i soldi per pagare l' ufficio fiorentino di Renzi, vicino all' hotel Four Seasons, alla modica cifra di 7.000 euro al mese (84.000 euro l' anno). Nelle carte emergono i problemi per il riscaldamento e per il mobilio. All' epoca l' ex premier ha appena lasciato Palazzo Chigi e le eleganti stanze del palazzo Ximènes Panciatichi vengono occupate anche dai giovani smanettoni chiamati a gestire i social di Renzi. Anche loro sono a spese di Open. A maggio la squadretta viene licenziata in tronco con un messaggino inviato alle sette del mattino. Un ex collaboratore di Renzi avverte Bianchi che «i ragazzi si sono sentiti usati e gettati via» e che «fare così è pericoloso», anche se magari «non sono il massimo nel campo delle attività sui social». Bianchi risponde: «Io non ho la gestione dei ragazzi se non per la parte finanziaria. Non li ho scelti non so chi sono, non so se servono. Seguo indicazioni». Successivamente si tiene una riunione per risolvere la questione. In ballo ci sono ben 24 posizioni. Una vera task-force, la Bestia del fu Rottamatore. Alla fine Bianchi comunica: «Ho già detto a Matteo che poiché l' onere complessivo a carico della Fondazione è di 230.000-250.000 euro complessivi, lo reggiamo a 3 condizioni, una delle quali è che il Pd assuma a proprio carico gli oneri della Fossatelli e della Duro (Agnese Duro e Valeria Fossatelli, ndr)». Annotano gli investigatori: «Risulta emblematico il passaggio finale con cui l' avvocato Alberto Bianchi evidenzia» che «per sostenere tali costi, ha posto tre condizioni a "Matteo", una delle quali è che il Pd assuma a proprio carico gli oneri di due collaboratrici». Il collegamento tra fondazione e corrente legata a Matteo è resa plasticamente anche dalle erogazioni dei cosiddetti parlamentari renziani tra il 2013 e il 2018. Gli investigatori ne individuano trentasette paganti e tredici non paganti (tra questi Matteo Richetti, Lorenzo Guerini, Roberto Giachetti e l' ex premier Paolo Gentiloni). Il più generoso di tutti è Ernesto Carbone che in cinque anni ha versato 43.200 euro. Segue un po' più distanziato Michele Anzaldi con 24.800. Terzo «contribuente» fra gli eletti l' attuale vice presidente del Csm, David Ermini, il quale ha donato 20.000 euro. Sfiora il podio Dario Parrini (18.200), poco più sotto Francesco Bonifazi (12.800) e Andrea Marcucci (12.000). Poi, tra i più noti, l' attivista per i diritti Lgbt Ivan Scalfarotto (9.800), Lotti (9.600) e la Boschi (8.800), Simona Bonafè (4.000) e, fanalino di coda, Davide Faraone (1.600). 

Giacomo Amadori per LA VERITÀ - estratto il 14 novembre 2020. Il Giglio magico era una specie di caserma, dove il comandante, Matteo Renzi, pensava a tutto. Anche all' organizzazione della vita privata dei suoi fedelissimi. Certo non arrivava a far siglare contratti con regole su look e fidanzamenti come l' ex magistrato Francesco Bellomo, ma aveva le idee chiare sull' immagine che i suoi dovevano trasmettere all' esterno. Emblematico pare il caso di Maria Elena Boschi, da settimane sulle prime pagine dei rotocalchi per la sua liaison con l' attore Giulio Berruti. Le foto della Boschi innamorata hanno oscurato quelle della Boschi vergine guerriera del renzismo che fu. La secchiona ha lasciato il posto alla pupa. Qualche retroscenista ha scritto che la nuova immagine della madonna di Laterina non piacerebbe a Renzi. Ma le carte dell' inchiesta sulla fondazione Open sembrano smentire questa versione. Nel fascicolo sui presunti finanziamenti illeciti alla corrente di Renzi, in cui la Boschi è indagata insieme con l' ex premier, Alberto Bianchi, Marco Carrai e Luca Lotti, sono stati depositati gli appunti dell' ex presidente Bianchi su agende e fogli volanti. Carte in cui riassumeva i suoi incontri più delicati. Ebbene, nel resoconto di una lunga conversazione con Renzi del 18 marzo 2019 Bianchi scrive: «Su Meb insiste a dire che è brava, è "donna-quindi-troia", perché in politica sta una volta alla settimana sistematicamente va alle presentazioni del suo libro (Renzi nel febbraio 2018 ha pubblicato Un' altra strada, ndr), si sistema in prima fila, piace ancora agli ultras renziani (ma fuori molto meno). Dovrebbe - dice - darsi una dimensione famigliare - moglie, fare un figlio - anche per migliorare decisamente sua immagine, ma la trova renitente anche a rivelare il suo rapporto con E. Mugnai (l' avvocato Enrico Mugnai, con cui l' ex ministra venne paparazzata insieme ad amici a Formentera, nell' estate 2015, ndr), malgrado "tutti sappiano" (anch'io). E (ma soft, en passant), per chiudere alle voci soavi che continuano a correre sui rapporti di lei con lui». Dunque, un anno e mezzo fa, Renzi sarebbe stato preoccupato di allontanare da sé i pettegolezzi sul legame con Maria Elena. La quale sembra aver accettato i consigli del fratello maggiore Matteo.

Giacomo Amadori per LA VERITA’ - Seconda parte il 14 novembre 2020. ……..Le carte dell' inchiesta sulla fondazione Open sui presunti finanziamenti illeciti alla corrente di Renzi, in cui la Boschi è indagata insieme con l' ex premier, Alberto Bianchi, Marco Carrai e Luca Lotti, sono stati depositati gli appunti dell' ex presidente Bianchi su agende e fogli volanti. Carte in cui riassumeva i suoi incontri più delicati.……Nel riassunto della «lunga conversazione» del 18 marzo 2019, alla voce «politica» si legge anche: «Per adesso (Renzi, ndr) sta alla finestra. Non si intesta alcuna corrente, ritiene di essere ancora "il più bravo" se si guarda intorno. Dice che paradossalmente l' esito delle primarie, che ha visto sconfitta - dice - la linea di LL (Lotti, ndr) di avere una robusta minoranza per condizionare Zingaretti (Nicola, segretario del Pd, ndr), favorisce lo stand by. Coltiva i suoi rapporti internazionali, guadagna bene. Agnese (Landini, la moglie di Renzi, ndr) gli dice di non rientrare adesso perché prevale ancora il suo lato di Grande Antipatico (e ha ragione)». Sempre Matteo «parla di LL come del "mio fratello", anche se dice che ha giocato male la partita primarie, lui avrebbe una candidata forte ( Teresa Bellanova, non Roberto Giachetti). Gli ho detto che secondo me L non lo tradirà mai, per quanto sembri a volte voler giocare in proprio. Mi è sembrato d' accordo». Il «fratello» Lotti alla fine ha seguito la propria strada e oggi la maggior parte dei consiglieri del Pd in Toscana fanno riferimento a lui. A unire Matteo e Luca è rimasta l' inchiesta per finanziamento illecito e la presunta passione per gli aerei a noleggio a spese di Open. La fondazione ha pagato per Renzi 134.900 euro per il noleggio di un Falcon 900 da 12 posti per una trasferta a Washington durata poco più di 24 ore, tra il 5 e il 6 giugno 2018. Il motivo del viaggio? Uno discorso di 143 secondi alla commemorazione di Robert Kennedy al cimitero di Arlington. Al confronto Lotti è un risparmiatore: ha speso quasi sette volte di meno (20.202 euro) per volare su un jet privato da Firenze a Liverpool in occasione della semifinale di Champions tra i Reds e la Roma. All' epoca «Lampadina» era ancora ministro dello sport e secondo i suoi vecchi collaboratori fece quel viaggio per motivi istituzionali «anche a vantaggio della fondazione». Ma torniamo ai diari di Bianchi. In essi si trovano numerosi riferimenti alla giustizia e al mercato delle nomine. Per esempio, l' 1 marzo 2019 Bianchi riporta un presunto colloquio con Lotti, in cui si anticipano le tematiche discusse due mesi più tardi all' hotel Champagne. Leggiamo: «Racconti imbarazzanti su magistrati e Csm. Proviamo Viola (Marcello, nel 2019 candidato procuratore della Capitale, ndr) a Roma e amico a Firenze. Creazzo (Giuseppe, attuale procuratore del capoluogo toscano, ndr) punta a Roma. Il fatto è che Magistratura democratica organizzati e con filiera, Unicost e magistratura indipendente no. Tempi per Roma prima metà del 2012 (sic, ndr), per Firenze inizio 2020». Negli appunti vengono citate anche le disavventure giudiziarie di Tiziano Renzi e della moglie Laura Bovoli, arrestati nel febbraio del 2019 con l' accusa di concorso in bancarotta di alcune cooperative. Secondo Bianchi, l'amico Lotti «teme che sui genitori di Matteo (in quel momento appena usciti dai domiciliari, ndr) ci sia altro» e non sarebbe d' accordo sulla nomina di un avvocato «raccomandato da Bonifazi (Francesco, ex tesoriere del Pd, ora di Italia viva, ndr)». Nel suo «caro diario» Bianchi puntualizza: «Non gli ho detto della telefonata di oggi di Mat, che mi ha chiesto valutazione su ipotesi pagare (per escludere bancarotta fraudolenta). Verificherò con Federico Bagattini (storico avvocato dei Renzi, bdr)». Ma poi i soldi non sono arrivati e adesso i genitori rischiano il processo. Anche nel 2017 Bianchi affrontava le questioni giudiziarie del babbo dell' ex premier. Questa volta l' argomento era l' inchiesta Consip: «Su Tiziano Napoli dice ci sono altre carte, Roma smentisce, ma irritata perché T. continua a telefonare, a muoversi, a trafficare, ecc. Prudenza», mette nero su bianco l' amanuense pistoiese su un foglio intestato allo studio. Non è chiaro chi sia la fonte. Segue questa frase: «Digli a M (Renzi, ndr) di cercare contatto con nuovo presidente dell' Anm, Eugenio Albamonte. Non è un talebano. È contro i processi mediatici. Genere Pignatone». Sfogliandole a ritroso, nelle stesse carte Bianchi riassume in nove paginette, non si sa per chi, l' informativa del 9 gennaio 2017 depositata dai carabinieri del Noe nell' inchiesta Consip, evidenziando le «cose già uscite sui giornali». Cita le dichiarazioni dell' ex tesoriere del Pd Alfredo Mazzei e le intercettazioni dell' imprenditore Alfredo Romeo che aveva cercato di agganciare il Giglio magico proprio attraverso quello che definiva «quell'altro baccalà di Bianchi». Ci sono poi tutte le conversazioni in cui si parla di Tiziano Renzi e del suo vecchio collaboratore Carlo Russo. Nei documenti sequestrati spunta pure un altro pizzino, sempre datato 2017, che sembra destinato a Lotti: «Posizione processuale tua e di Tiziano. Amici in contatto con Ielo (Paolo, procuratore aggiunto di Roma, ndr) mi dicono: a) per entrambi (te e Tiziano) più probabile richiesta rinvio a giudizio che archiviazione. Probabilmente in autunno». Come capita spesso, Bianchi annota a margine quella che sembra la risposta del suo interlocutore, in questo caso Lotti: «Dice che ha notizie diverse da Pignatone e Palamara». Alla fine la Procura per Lotti chiederà il rinvio a giudizio e l' archiviazione per il babbo, istanza respinta dal gip Gaspare Sturzo. La notula prosegue: «Per Tiziano Bagattini troppo fiducioso archiviazione opportuno suo affiancamento con avvocato romano (tipo Lattanzi, Caiazza - Giandomenico, attuale difensore di Renzi ndr -). Già passato messaggio a Mat. Su Tiziano pare ci fossero altre carte a Napoli, ma per ora tutto fermo. Marroni (Luigi, ex ad di Consip, ndr) continua a parlare ai pm». Dagli appunti emerge anche l' interesse del Giglio magico per la nomina del capo della Procura della Corte dei conti di Firenze, che negli anni scorsi ha indagato sulle spese e le nomine di Renzi da presidente della Provincia e da sindaco. «Domani fanno il bando» scrive Bianchi l' 8 maggio 2017. «Se lo fanno domani è praticamente certa posizione Acheropita. Se lo debbono rinviare, si apre spazio ad altri candidati, tra cui Tridico, amico, ma meno di Acheropita. Domanda: possono dare ok al bando subito e dunque Acheropita (per me ok, le ho risolto problema cabina Enel)». Alla domanda, Bianchi risponde con un «ok» cerchiato. Il 5 giugno 2017 Acheropita Mondera Oranges venne nominata ufficialmente nuovo procuratore regionale della Corte dei conti. Quattro mesi dopo, la figlia del magistrato fu assunta con chiamata diretta dal sindaco di Firenze Dario Nardella. La decisione suscitò molte polemiche. Ha collaborato Giuseppe China.

Da repubblica.it il 14 novembre 2020. "Questa mattina il quotidiano La Verità dimostra come possa cadere in basso il giornalismo italiano. Siamo in presenza di una vergognosa montatura per la quale chiederemo i danni in tutte le sedi". Lo scrive in una nota il leader di Iv, Matteo Renzi, in merito all'articolo uscito oggi sul quotidiano diretto da Maurizio Belpietro in cui si riportano le carte dell'inchiesta sulla Fondazione Open e gli appunti dell'ex presidente Alberto Bianchi, che parla di commenti sessisti dell'ex premier rivolti all'ex ministra Maria Elena Boschi. Su La Verità, infatti, si legge il seguente virgolettato di Bianchi riferito a suoi appunti presi durante una conversazione avuta con Renzi: "Su Meb insiste (Renzi, ndr) a dire che è brava, è "donna quindi-troia" (frase messa da Bianchi fra virgolette, ndr), perché una volta alla settimana sistematicamente va alle presentazioni del suo libro (Renzi nel febbraio 2018 ha pubblicato Un'altra strada, ndr), si sistema in prima fila, piace ancora agli ultras renziani (ma fuori molto meno). Dovrebbe - dice - darsi una dimensione famigliare - moglie, fare un figlio - anche per migliorare decisamente sua immagine, ma la trova renitente anche a rivelare il suo rapporto con E. Mugnai" (l'avvocato Enrico Mugnai, con cui l'ex ministra venne paparazzata insieme ad amici a Formentera, neIl'estate 2015, ndr). "Come ha già chiaramente spiegato l'avvocato Bianchi - prosegue Renzi - quelle frasi non sono mie. E del resto basta conoscermi e leggere la mia storia politica per sapere che non possono essere mie: lo dimostra la mia particolare attenzione per l'impegno femminile in politica, unico premier ad aver avuto un governo paritario. E come dimostra il mio impegno già da sindaco ho sempre valorizzato la presenza femminile a tutti i livelli, istituzionali e politici. Ancora oggi Italia Viva ha due ministre su due ed è il partito più impegnato contro i pregiudizi sulle donne in politica". "Chi poi conosce il mio rapporto politico e personale con Maria Elena, mio braccio destro da anni, - sottolinea - sa perfettamente la stima e l'amicizia che ci lega. Il basso gossip che abbiamo sempre dovuto subire e di cui le nostre famiglie - e i nostri affetti più cari - portano per prime il peso è bieca volgarità che non ci tocca. Rimane sullo sfondo l'ennesimo attacco mediatico frutto di una velina degli inquirenti che allegano agli atti materiale privo di alcun valore probatorio, redatto ben dopo la chiusura di Open e del tutto ininfluente ai fini del processo penale. Se questi sono gli atti dell'accusa penso che chiunque possa capirmi quando dico che si vuol fare un processo mediatico e non stabilire la verità dei fatti su un presunto finanziamento illecito che non esiste. Aspettiamo che si stabilisca la verità dei fatti e che i colpevoli di questo squallore paghino per le proprie responsabilità", conclude Renzi. Anche lo stesso Bianchi interviene a precisare il senso delle sue parole: "Quanto riportato oggi da La Verità è l'ennesima strumentalizzazione di un mio appunto preso durante una chiacchierata molto più ampia", spiega. E aggiunge: "La frase in questione non riporta né il mio pensiero né meno che mai di Renzi che mai si è espresso in questi termini con me. Maria Elena Boschi è una politica molto competente e in gamba. Il mio appunto è una mia sintesi di ciò che in politica troppi pensano quando etichettano le belle donne come facili. Sintetizzavo lo stereotipo e per questo uso le virgolette. Inoltre non capisco perchè oggi La Verità pubblichi miei appunti del 2019, successivi alla chiusura della fondazione Open e perciò inspiegabilmente inseriti negli atti dell'accusa", conclude Bianchi.

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 15 novembre 2020. L' ex presidente del Consiglio Matteo Renzi a volte sembra Alice nel Paese delle meraviglie. Ieri, per esempio, il fondatore di Italia viva ha manifestato in una nota diffusa via Ansa il proprio disgusto per la pubblicazione, da parte della Verità, di alcuni atti dell' inchiesta sulla Fondazione Open. Il riferimento ovviamente è ai giudizi poco lusinghieri sull' ex ministro delle riforme Maria Elena Boschi, che Alberto Bianchi, già presidente di Open, ha riportato sulla sua agenda, attribuendoli allo stesso Renzi. L' ex segretario del Pd ha replicato parlando di gossip, di bieca volgarità, di attacco mediatico, di veline degli inquirenti allegate agli atti nonostante non abbiano alcun valore probatorio, eccetera. Naturalmente, la nota era accompagnata dalla consueta minaccia di citazione in giudizio rivolta al nostro giornale. Sarà dunque bene precisare alcune cose. La prima è che Renzi fa politica da almeno 20 anni e per oltre quattro è stato presidente del Consiglio (quasi tre risiedendo a Palazzo Chigi e uno e mezzo a via del Nazareno, nascondendosi dietro il volto triste di Paolo Gentiloni). Dunque, avendo comandato a lungo questo Paese e continuando anche ora a esercitare per tramite di Giuseppe Conte un certo potere, se non vuole che alcuni atti che ritiene senza valore probatorio non debbano essere pubblicati non ha che una strada, ossia vietarne l' inserimento all' interno dei fascicoli giudiziari. Ma fino a quando questi documenti saranno depositati in tribunale, a disposizione delle parti, i giornalisti continueranno a fare il loro mestiere, che è informare, anche di ciò che al senatore semplice di Scandicci sembrano notizie da gossip. Dicevamo prima che Renzi è sulla scena da vent' anni, e dunque dovrebbe ricordarsi di quando la sua parte politica, insieme al coro dei giornali di sinistra, coniò uno slogan contro i limiti alle intercettazioni. All' epoca i compagni gridavano: «Intercettateci tutti». E infatti, sulle prime pagine finiva ogni genere d' indiscrezione, comprese quelle false. L' ex premier ricorda quando su un' esponente dell' allora Pdl circolò ogni volgarità, compreso il fatto che si dedicasse con passione alla fellatio? Ricorda quando un giornale scrisse tra virgolette un giudizio di Berlusconi su Angela Merkel? Beh, sia le notti bollenti dell' onorevole con il Cavaliere che la definizione di «culona inchiavabile» non erano agli atti, e ci risulta che quelle intercettazioni non siano mai esistite. Eppure, nessuno di noi ricorda l' indignazione che Renzi oggi manifesta per una frase che, al contrario delle false trascrizioni, è vera. Ciò che abbiamo riportato noi non è frutto di una captazione ambientale: è una frase scritta di suo pugno dall' avvocato Alberto Bianchi, stretto collaboratore di Renzi, che il presidente di Open attribuisce proprio all' ex premier. Proprio per essere ancor più chiari: non è farina del nostro sacco, è farina del sacco dei renziani. Del resto, leggendo le carte che stiamo pubblicando, si capisce che questi ultimi non si fidavano neppure tra di loro, al punto che lo stesso Renzi diffida perfino di Luca Lotti, il suo braccio destro. È sempre il fondatore di Italia viva - secondo ciò che scrive Bianchi - a dire di Boschi è «donna, quindi, tr». Ed è sempre lui, secondo il presidente di Open, a dire che, per essere credibile, «dovrebbe darsi una dimensione famigliare - moglie, fare un figlio - anche per migliorare decisamente la sua immagine». Inutile parlare oggi della «particolare attenzione per l' impegno femminile in politica», quando, secondo uno dei suoi più stretti collaboratori, una donna se non fa l' angelo del focolare passa per tr Renzi, dunque, non se la prenda con i giornali che pubblicano le notizie invece di nasconderle: se la prenda con sé stesso, per non aver modificato le leggi e per aver parlato con Bianchi: è lui a prender nota di tutto, anzi a tracciare tutto, come si faceva vanto un tempo lo stesso ex presidente del Consiglio. Quanto al resto, ovvero al nocciolo della questione, cioè alla presenza negli atti di fatti avvenuti dopo la liquidazione di Open, la spiegazione è semplice. Come si capisce leggendo le carte, l' avvocato Bianchi continuava a occuparsi di veicoli che avrebbero avuto come scopo il sostegno finanziario alla corrente o al partito di Renzi e le prove stanno negli appunti e nelle conversazioni riferite dal legale. È forse di questo che dovrebbe parlare il fondatore di Italia viva, il quale non ci risulta aver mai reagito per le molte inchieste che hanno riguardato la sfera privata di Silvio Berlusconi (se lo ricorda il «culo flaccido»?). Ciò detto, senza indignarsi troppo, spieghi che fine hanno fatto 289.000 euro che una volta usciti da Open i finanzieri non hanno ancora rintracciato, e di cui parliamo qui sotto.

I Benetton, Toto, la magistratura. Così Open tesseva la sua rete. Giuseppe China Alessandro Rico per “La Verità” il 15 novembre 2020. Nel 2018, Matteo Renzi si vantava di non aver mai ricevuto finanziamenti dai Benetton. Ma il gestore della sua cassaforte, questa tentazione, l' ha avuta eccome. In ansia per i costi della Leopolda 2014 (400.000 euro stimati), Alberto Bianchi, presidente di Open, in un' email a Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti, caldeggia la ricerca di «possibili sponsor». E nei papabili, colloca proprio i Benetton, che evidentemente reputa vicini alla causa. I «contatti» li avrebbe dovuti prendere Marco Carrai. Tuttavia, il 2 ottobre, la Boschi comunica: «No sponsor», anche se «Matteo si rende disponibile a fare una cena di finanziamento pro Leopolda entro Natale». L'avvocato è perplesso: «Senza sponsor sarà un casino. Di cene con Matteo ce ne vorrebbe altro che una». Tra i potenziali finanziatori «già contattati», Bianchi inserisce anche «VW». Per la Finanza, la sigla si riferisce a Giuseppe Tartaglione, rappresentante legale di Volkswagen Italia. Stavolta, il tramite sarebbe stato Franco Massi. Segretario generale del Cnel tra il 2011 e il 2017, magistrato (oggi segretario generale) della Corte dei conti, molto attivo su Twitter, dov' è seguito pure da Luca Palamara, due mesi dopo la Leopolda, viene nominato vicesegretario generale del ministero della Difesa dal governo Renzi. Nell' agenda del presidente di Open, che lo incontra spesso tra novembre 2013 e dicembre 2014 (sono segnati 24 appuntamenti), è annotata una «cena VW» per il 27 novembre 2014, in piazza Campo Marzio a Roma. Il convivio si ripete due anni dopo, il 25 ottobre 2016, allo stesso indirizzo. È proprio Massi a inviare la lista dei presenti a Bianchi: tra loro, Giovanni Legnini, Gianni Letta, Denis Verdini. Conferma anche Tartaglione, ma declinano l' invito la Boschi e il segretario di Benedetto XVI, Georg Gänswein. Ma dalla casa automobilistica non giunge denaro. Tanto che Bianchi, su Whatsapp, chiede a Massi: «Scusa dal giro VW arriva qcosa (sic)?». La toga risponde con un punto interrogativo. «Vabbe poi ti dico», taglia corto il legale. Il nome di Massi figura anche, tra il 2013 e il 2014, accanto a quello di Alfonso Toto, dell' omonimo gruppo di gestori di autostrade abruzzesi, con il quale sembra esserci un rapporto cordiale. Circostanza singolare: qualche anno dopo, da consigliere della Corte dei conti, Massi acquisirà la delega al controllo sugli atti del Mit, il ministero che vigila sui concessionari. In un' email del 23 luglio 2013, il magistrato invia all' imprenditore il proprio curriculum e un «Appunto Art», riguardante l' Autorità di regolazione dei trasporti. A gennaio 2014, Toto scrive a Massi: «Devo dirti che tutta l' impressione che a chi governa le grandi opere ed investimenti, sia manager pubblici che privati, poco interessa fare in modo che le cose si sblocchino Questo Paese diventa sempre più difficile». La toga lo incoraggia: «Vogliamo provare insieme a cambiarlo». E Toto: « Si dice che chi ben comincia è a metà dell' opera!!! Perché no?!». Tra l' altro, il primo contributo della famiglia abruzzese a Open risale al novembre 2014: 25.000 euro dalla Renexia, di cui è stato a lungo ad Daniele Toto (anche se gli inquirenti hanno individuato il tramite con la fondazione nel coindagato di Bianchi, Patrizio Donnini, fondatore della Dot Media, società di comunicazione della Leopolda e consulente dei Toto). È sempre alla loro holding che fa riferimento il famoso versamento di 400.838 euro, risalente al 2016, poi girato dall' avvocato, con due bonifici, a Fondazione Open e Comitato nazionale per il sì. Un contributo che l' inchiesta di Firenze mette in relazione a un emendamento alla manovrina 2017, che sospendeva due rate dovute dai Toto ad Anas. In un' email a due colleghi di studio, datata 9 aprile 2018, Bianchi riferisce che l' aggancio con i Toto era stata una prestazione professionale per un contenzioso con Aspi. La holding, alla fine, versa un lordo di 1.500.000 euro allo studio legale e 750.000 (i 400.838 netti) direttamente a Bianchi. Nel 2018, l' avvocato si ripropone di replicare lo schema. Stavolta, l' incarico riguarda la lite con Anas per la variante alla statale 1 Aurelia a La Spezia. Vengono stipulati due contratti, «che per ragioni di opportunità portano la data del 16 novembre 2016». Con il primo, i Toto s' impegnano a versare 8.000 euro lordi a Bianchi «per accettazione». In caso di esito favorevole, poi, assicurano un compenso «pari al 2% della quota [] del corrispettivo riconosciuto». Cifra che, spiega Bianchi ai colleghi, «Toto mi ha espresso il desiderio di versare a Open (o al soggetto che la sostituirà qualora Open chiuda)». Con il secondo contratto, l' impresa garantisce 16.000 euro lordi più «l' 1% della quota del corrispettivo versato da Anas», che invece, stando a Bianchi, dovrebbe andare «allo studio». «Trattasi di somme evidentemente incerte», riconosce l' avvocato, «visto che sia il contenzioso che le trattative sono in corso». E difatti, Toto, a giugno 2018, rescinderanno il contratto con Anas. Curioso un appunto di Bianchi del 2017: «Toto: Grande (Elisa, dirigente ministeriale, ndr) resta Mit. Garanzia per quella sua roba». Ma alle casse di Open non hanno contribuito solo i grandi concessionari autostradali. Ci sono anche imprenditori del settore alimentare, come Luigi Scordamaglia e Luigi Cremonini, che direttamente o attraverso la controllata Inalca, hanno versato 100.000 euro alla fondazione renziana. In una mail del 2014, però, Bianchi sollecita Scordamaglia, citando un «vecchio impegno», che coincide con il famigerato «patto dell' Ora d' aria». La risposta lo gela: «[] Non si era mai parlato di continuare. Magari ci vediamo con calma». Bianchi è stizzito: «Luigi, ci manca solo che ti mandi gli scambi di mail con l' impegno quinquennale, mai smentito! [] Avete tutta la gratitudine mia, di Matteo e della Fondazione, non avete nessun obbligo per il futuro [...]». In meno di mezz' ora il malinteso si risolve: «Alberto non eri assolutamente tu destinatario precedente mail scusa tantissimo ha confuso mittente». Il rapporto prosegue, come testimoniano i due elaborati Azioni urgenti (a costo zero) per l' interrogazione del Food and Beverage italiano sui mercati mondiali e Turismo, cultura, agricoltura e cibo: una politica di marketing, che Bianchi gira a Lotti. Tra i simposi per il referendum del 2016, cui partecipa anche Scordamaglia, da segnalare quello con altri 17 manager del settore, tra cui Piero Antinori, Guido Barilla, Luigi Cremonini, Antonio Ferraioli, Lisa Ferrarini, Luca Garavoglia, Andrea Illy, Nicola Levoni, Francesco Mutti, Cesare Ponti, Cosimo Rummo. Nel novero dei «sostenitori storici di Matteo Renzi», scrivono gli inquirenti, c' è poi Vincenzo Manes. Il fondatore di Intek group spa ha contribuito con 62.000 euro. Il 29 dicembre 2014, Manes viene nominato dall' ex premier consigliere pro bono per la riforma del terzo settore. Ed è proprio il governo Renzi, nel giugno 2016, a disciplinare la materia. Già nel 2014, Manes invia una mail allo studio di Bianchi: «Matteo, è il documento sulle imprese sociali. Leggilo poi dimmi». Grazie alla normativa varata due anni dopo, nascerà Fondazione Italia Sociale. L' ente (partecipato da altre 17 realtà profit e non) riceve come dotazione iniziale un milione di euro pubblici. E chi ne è il presidente? Lui: Manes.

Alessandro Da Rold per "La Verità" il 15 novembre 2020. Sono la «scatola nera» del Giglio magico di Matteo Renzi: le agende sequestrate dalla procura di Firenze ad Alberto Bianchi, l'avvocato già presidente della fondazione Open al centro delle indagini della magistratura. Su quelle pagine c'è il resoconto puntuale di come Bianchi si occupasse soprattutto di nomine negli enti statali, dalla Rai alla Consob, da Telecom a Terna, da Eni a Enel fino all'Anas. Bianchi annota tutto. Si occupa anche di quotidiani, tanto che arriva a definire «una grande occasione persa» non aver acquistato il Corriere della sera («Andava comprato», scrive). Allo stesso tempo si attrezza per rinforzare quelli già esistenti (Il Foglio) o di crearne degli altri. «Possibili nuovi finanziatori se si spinge su nuovi giornali: Cimbri (Carlo, ad Unipol, ndr), Tronchetti (Marco presidente di Pirelli, ndr), (Vittorio, ndr) Farina (?)». Annota i desiderata della corte renziana. Fissa appuntamenti con esponenti di rilievo del mondo delle partecipate. Nel 2013 segna in agenda anche un incontro con Franco Massi, attuale segretario generale della Corte dei conti. Mentre su un altro foglio riporta 19 nominativi sempre collegati alla magistratura contabile. Ragiona su chi potrebbe dare una mano per piazzare in un posto una persona. I suoi appunti destinati a Renzi sono un manuale di lottizzazione, mestiere che ormai si tramanda dalla prima alla seconda repubblica. Del resto, il legale fiorentino è sempre stato un veterano, anche perché da tempo è consulente legale di Consip. Per di più, gli anni su cui sta indagando la magistratura sono quelli in cui Bianchi era nel consiglio di amministrazione di Enel, con l'incarico di presidente del comitato nomine e remunerazioni, posti lasciati all'inizio del 2020. Così tra le note se ne può trovare una del maggio del 2017. Il titolo è «Rai: 3 messaggi da Maggioni (Monica, ex presidente della tv di Stato, ndr)». Bianchi scrive: «Salvo opposizione improbabile consiglio centrodestra il 22 il cda sfiducia Cdo». Erano quelli i giorni in cui il direttore generale Antonio Campo Dall'Orto andava verso la sfiducia del suo piano editoriale per la riforma delle news, che poi ci fu effettivamente, anche con il voto contrario della Maggioni. Bianchi prende ancora nota dei messaggi di Monica Maggioni: «Le piacerebbe assumere lei l'interim. Oppure un ticket Dal Brocco/Maggioni. Nota bene: Dal Brocco (Paolo, ndr) è una buona soluzione per noi anche a regime. Molto amico è di Vittorio Farina». L'avvocato annota ancora: «Rossi è in continuo costante contatto con Agnoletti, che si legittimerebbe come uomo di Matteo, vero?». E ancora: «Sempre in Rai, Giovanni Parapini è amico nostro. Ha parlato con Anzaldi. Di Anzaldi possiamo fidarci?». Come direttore generale della Rai alla fine arriverà Mario Orfeo, considerato un renziano di ferro. Tanto che in un altro appunto è sempre Bianchi a scrivere riguardo alla tv di Stato. «Hai potuto parlare con Orfeo per Pino Insegno? Non vorrei che ci fossero interferenze di terzi (Andrea Gemma si è proposto con lui dicendo che glielo dice e con Orfeo ci pensa lui). O gliene parli tu, o mi fissi con Orfeo e gliene parlo io. Ti ricordo poi che Piero Di Lorenzo ti cercava perché vorrebbe Orfeo ricevesse 10 minuti suo figlio, Daniele». Bianchi cita Gemma, ex consigliere di amministrazione di Eni, vicinissimo all'ex ministro dell'Interno Angelino Alfano. Ricorda persino a Renzi che Di Lorenzo, presidente della Irbm impegnata in questi mesi nella produzione del vaccino anti Covid, vorrebbe presentare il figlio Daniele (produttore cinematografico) al direttore generale Orfeo. Tra gli appuntamenti in agenda fissati da Bianchi ce n'è anche uno con Leonardo Bellodi, ex manager Eni, poi entrato in società con Marco Carrai.Tra gli appunti destinati a Renzi ce ne sono diversi dedicati alle nomine. In uno, titolato «Saladini», si legge: «Io sto andando avanti con Enel, Terna e ne parlerò il 23 anche con Granata (Eni). Con Telecom e Poste ci pensi tu? Ti lascio quello che mi ha detto lui relativamente a Poste». C'è un intero capitolo dedicato a Paolo Dal Pino, attuale presidente della Lega Serie A. «Vorrei tu conoscessi Paolo Dal Pino, che attualmente è ceo di Pirelli Industrial [] Mi dai una data?». Ci sono i giochi su Consob, in quei mesi al centro di una battaglia durissima su Giuseppe Vegas, mentre sui giornali montavano le polemiche su Banca Etruria e il coinvolgimento dell'ex ministro Maria Elena Boschi. Bianchi annota. «Vegas pronto a dimettersi se gli viene affidata costituenda commissione per piazza finanziaria Milano. Tra i commissari nuovi pensiamo alla Carla Raineri». Non finisce qui. In agenda si legge ancora: «In Consob Berruti è unanimemente ritenuto debole, troppo giurista, privo di esperienza di mercati finanziari. Garofoli (Roberto, ex capo di gabinetto del Mef, ndr) lo farebbe volentieri (non è stato proposto da Padoan) e mi pare che sia nelle grazie di Pagani (Fabrizio, ex segreteria tecnica Mef, ndr), che pensa invece a un paio di nomi con esperienza sui mercati finanziari e nell'internazionale o in subordine Di Noia (Carmine, ndr). Fortis (Marco, ndr), lasciamo perdere». Poi si parla anche di Anas, dell'ex ad Gianni Armani e della diatriba con il gruppo Toto per la A24: in ballo c'erano 50 milioni di euro.

Alessandro Sallusti per “Il Giornale” il 15 novembre 2020. «Game over», disse con spocchia Matteo Renzi il giorno della condanna definitiva di Silvio Berlusconi. Era il primo agosto 2013 e quel giorno Renzi neppure immaginava che presto sarebbe finito anche lui nel tritacarne giudiziario e mediatico che aveva fatto prigioniero il Cavaliere. In quei giorni d' estate Renzi stava mettendo a punto gli ultimi dettagli della presa del Pd che si sarebbe concretizzata a fine anno con la vittoria schiacciante alle primarie prima e l' ingresso a Palazzo Chigi subito dopo. Sull' obiettivo Renzi arrivò con una costosa rincorsa durata due anni e finanziata da una fondazione, Open, messa su con i compagni di sempre: Luca Lotti, Marco Carrai, Maria Elena Boschi e l' avvocato Alberto Bianchi, il famoso Giglio Magico. Nelle casse di Open affluirono milioni in contributi volontari di imprenditori e finanzieri grandi e piccoli che credevano nel progetto e nella possibilità di cambiare una sinistra impantanata nel veterocomunismo. Fu un' operazione trasparente e moderna - per intenderci uguale a quella fatta da Biden per diventare presidente degli Stati Uniti - finalmente degna di una democrazia. Ma noi non siamo gli Stati Uniti, e forse neppure una democrazia, per cui su Open, andato in disgrazia politica il titolare, si sono avventati come belve magistrati in cerca di gloria con i loro seguiti di spioni e giornalisti compiacenti. Risultato: inchieste, indagati come se piovesse e diffusione di verbali e intercettazioni che con l' ipotesi di reato non c' entrano nulla al solo scopo di sputtanare Renzi e compagnia. Che rilevanza penale può infatti avere che Renzi abbia noleggiato - costo 130mila euro - un aereo per andare poche ore in America a un congresso dei democratici, visto che parliamo di soldi privati di cui doveva dare conto né a me né ai magistrati, ma semmai ai donatori? Ma soprattutto cosa c' entra con l' inchiesta un bigliettino «la Boschi è una donna - quindi - tr...» rinvenuto a casa dell' avvocato Bianchi, trascrizione di una frase - così sostengono gli inquirenti che l' hanno fatta avere al quotidiano La Verità - che avrebbe pronunciato Renzi durante una riunione di Open? Battute da osteria del genere nei confronti di colleghe, disdicevoli fin che si vuole, le ho sentite pronunciare centinaia di volte nelle redazioni, certamente risuonano negli uffici delle procure e della polizia giudiziaria senza che ad alcuno venga in mente di verbalizzarle e diffonderle come è successo con Renzi, con un evidente abuso di potere coperto da quell' immunità che la magistratura si autoassegna. Io non credo proprio che Open fosse un' associazione per delinquere, al massimo parlerei di uno spregiudicato e fallimentare club privato. Non altrettanto mi sento di dire nei confronti di chi ha organizzato e attuato questa persecuzione politica e personale.

Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro per “la Verità” il 16 novembre 2020. Ps. Caro Alessandro Sallusti, il viaggio costato 134.900 euro per andare poche ore in America e assecondare la propria vanità, non è un affare privato, perché le fondazioni non servono per pagare i conti dei politici, ma per fare altro, e per questo godono di alcune esenzioni fiscali e normative. Senza dire che poi i privati non sono benefattori che regalano il proprio denaro per consentire a Renzi di fare un viaggio negli Usa. Quanto alle battute da osteria sulle donne, anche io ne ho sentite tante, ma quella riguardante Maria Elena Boschi non è una battuta: è una frase sessista e volgare scritta nel diario di Alberto Bianchi, insieme ad altre che riguardano soldi, nomine, potere. Non è il maresciallo a trascrivere: è il presidente della Fondazione Open a scrivere. È l' amico di Renzi, che oggi proprio con i suoi appunti è diventato il suo peggior nemico.

Camilla Conti per “la Verità” il 16 novembre 2020. La Fondazione Open nasce nel 2012 per lanciare l' Opa di Matteo Renzi sull'Italia. Nel febbraio del 2014 la missione viene compiuta: Renzi diventa presidente del Consiglio. Qualche mese dopo, l' 8 aprile, Alberto Bianchi invia una mail ad alcuni finanziatori come Beniamino Gavio, Luigi Scordamaglia e Davide Serra, mettendo in copia Marco Carrai. Nella missiva, l' avvocato ringrazia delle indicazioni e dei suggerimenti ricevuti «per cambiare il Paese», dell'«impegno di contribuzione anche finanziaria» e ne approfitta per fare il punto sulla Fondazione, «con Matteo se possibile e sennò comunque tra noi», proponendo una riunione conviviale a Firenze nelle settimane successive (si terrà alla fine il 6 maggio). Perché, scrive Bianchi nella mail, «è abbastanza chiaro cosa la Fondazione è stata finora, il soggetto che operativamente ha consentito la crescita della sola reale novità della politica italiana dopo Berlusconi. Adesso che Matteo è presidente del Consiglio, e il renzismo (orrenda parola, ma si fa per capirsi) è al governo, una riflessione si impone». L' unica novità della politica dopo Silvio, del resto, aveva stretto a gennaio del 2014 proprio con il Cav il patto del Nazareno. Due anni dopo, quel patto tenta di consumarsi anche nel business delle tlc. Dai faldoni dell' inchiesta su Open spunta infatti un messaggio Whatsapp spedito da Bianchi a Carrai il 16 dicembre del 2016, pochi giorni dopo il flop del referendum e le sue dimissioni da premier. «Tra le cose che pensi, pensa a Telecom. Se il Biscione con amici entra pesantemente li, porta la guerra nel campo del nemico, e se riesce noi prendiamo due piccioni con una fava. Fammi sapere se occorre sondare qualche fondo», scrive il presidente della Fondazione. Tre giorni dopo, un nuovo messaggio di Banchi, destinatario sempre Carrai: «Ci sta che io venga indicato per far parte del pool di legali di Fininvest contro Vivendi. Nel caso, faresti una telefonata a Luigi B??». Nella conversazione Bianchi spiega poi che a nominarlo potrebbe essere «l' avvocato Corbetta», che «dovrebbe dirlo al legale interno di Fininvest che è suo amico». E aggiunge anche che Pasquale Straziota, generale counsel di Fininvest (nonché responsabile degli affari legali di Mediaset, ndr) «dice che io sarei di grande aiuto per gli aspetti amministrativistici (concessioni ecc) della nota vicenda. Deve però parlare coi vertici. A questo punto una telefonata a LB potrebbe servire».

Luigi B probabilmente è Luigi Berlusconi, il figlio più piccolo dell' ex premierV. La mossa di Bianchi su Telecom va contestualizzata: il 6 dicembre 2016 il «mondo Berlusconi» sta valutando soprattutto con i legali le contromosse al blitz di Vivendi sull' azionariato Mediaset, a partire da una possibile richiesta di sequestro delle azioni del Biscione in mano ai francesi. Il gruppo guidato da Vincent Bolloré ostenta calma e manda il suo maggior emissario - l' amministratore delegato Arnaud de Puyfontaine, già a Roma per il cda di Telecom - a incontrare il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, colui che ha espresso per conto del governo le perplessità sulla scalata del gruppo media parigino. Qualcosa comunque si muove sul fronte Telecom: l' azienda come tale è lontanissima dal dossier Mediaset e potrebbe venire costretta a prenderlo in considerazione dall' azionista di riferimento solo dopo aver mostrato un chiaro miglioramento dei conti. La Borsa attende le mosse dei due contendenti, con il pool legale di Fininvest che sta preparando altro materiale da consegnare in Procura a Milano, nel quale potrebbe essere contenuta anche la richiesta d' urgenza di sequestro cautelativo delle azioni rastrellate dai francesi. Il 15 dicembre (ovvero il giorno prima della mail di Bianchi a Carrai) la scalata dei francesi al gruppo media è ancora al centro della politica, con il Movimento 5 stelle - al cui interno i toni sono comunque diversi - che definisce il Biscione non strategico e l' esposizione del governo a difesa della proprietà italiana «totalmente inappropriato». Mentre Vivendi dice che il suo ingresso nell' azionariato del Biscione non sarebbe «ostile», sul piano «politico» si muove anche l' Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (l' Agcom) specificando in una nota che «Telecom risulta il principale operatore nel mercato delle comunicazioni elettroniche, con il 44,7% del mercato prevalente delle tlc, mentre Mediaset raggiunge una quota del 13,3% del Sistema integrato delle comunicazioni (Sic)», e quindi operazioni volte a concentrare il controllo delle due società potrebbero essere vietate». Con questo quadro sullo sfondo, il presidente della Fondazione Open - nonché alfiere del Giglio magico - punta a entrare nel team legale di Berlusconi contro Bolloré. Il renzismo al servizio del berlusconismo.

Camilla Conti per “la Verità” il 17 novembre 2020. I metodi usati dal Giglio Magico per finanziare la scalata di Matteo Renzi all' Italia hanno sollevato subito qualche dubbio anche dai supporters della prima ora. Come il signor Dario Cusani, presidente della omonima fondazione. E fratello - gemello - di Sergio Cusani, l' imputato simbolo di Mani Pulite. Insieme hanno costituito nel 2008 in memoria del padre la Fondazione che si occupa di progetti sociali per la formazione dei bambini. Ebbene, Dario che ne è presidente, il 13 novembre del 2012 invia una mail a Renzi. Sono i giorni della Leopolda che si terrà dal 15 al 17 novembre con lo slogan «Viva l' Italia viva» per lanciare l' assalto alle primarie. Cusani vuol dare il suo contributo volontario di 5.000 euro, ha provato a fare la donazione ma con carta di credito non è possibile e quindi ha bisogno di un Iban per il bonifico. Palesa anche di voler costituire una cinquantina di comitati locali, con la precisazione che da oltre un mese sta chiedendo collaborazione tramite Ernesto Carbone, dal quale non avrebbe avuto nessuna risposta. La lettera viene girata dallo staff a Luca Lotti che procede di gran lena con la raccolta di contributi. Lotti la gira a sua volta all' avvocato Alberto Bianchi sottolineando di chiamare il potenziale finanziatore e che è «urgente e fondamentale». Bianchi si mette subito in moto, chiama Cusani cui poi invia sempre per mail lo statuto della Fondazione Big Bang e l' indicazione degli estremi del conto corrente intestato alla stessa, sul quale effettuare il bonifico. Quanto alla costituzione dei comitati locali, Bianchi invita a chiedere informazioni alla «coordinatrice» Maria Elena Boschi di cui fornisce il numero di cellulare, ringraziando infine Cusani anche a nome di Matteo Renzi. Finisce la kermesse della Leopolda. Il 20 novembre arriva la risposta di Cusani che comincia ad esprimere qualche perplessità e a chiedere dei chiarimenti «non vedendo» quale fosse il collegamento tra «Fondazione Big Bang» e Renzi. «Siccome il danaro non lo rubo né mi piove dal cielo prima di versare 5.000 euro ho bisogno di capire a chi vanno», scrive Dario Cusani. Sostiene anche che gli Iban che gli sarebbero stati forniti, sia da un «ragazzo del comitato di Roma» sia dallo stesso avvocato della Fondazione Big Bang, non sono relativi a conti correnti intestati a Renzi. Cusani solleva poi il «tema dei soldi che vincolano» facendo espresso riferimento ai rapporti tra Renzi e Davide Serra citati in un articolo pubblicato sul sito web di Repubblica Firenze il 19 novembre dove si punta il dito sui 10 milioni di euro di CoCo bond di Algebris acquistati dall' Ente Cassa di Risparmio. Letto l' articolo, Cusani chiede dunque a Bianchi: «Matteo Renzi è una persona libera? Il mio consulente finanziario mi dice che 10 milioni di euro rendono a Serra 350.000 euro all' anno di fronte ai quali i miei 5.000 sono briciole, con la differenza che io non chiedo nulla in cambio a Renzi se non di portare avanti le sue idee che condivido, Serra invece,», si legge nella mail messa agli atti dell' inchiesta. Bianchi risponde. «La Fondazione Big Bang. È la Fondazione di riferimento di Matteo Renzi, come dimostra il fatto che la presiedo io, e il cda è composto da Carrai (braccio destro di Renzi), Da Empoli (coordinatore del programma), Carbone (suo vecchio amico), Berruti (suo supporter e sindaco di Savona), Lotti (suo capo di gabinetto in Comune). Gran parte dei finanziatori della campagna ha versato lì i propri contributi. «Se lei preferisce, può contribuire in modo immediato e diretto alla campagna versando sul c/c del Comitato per la candidatura di Matteo Renzi, composto da me, da Carrai e Lotti [] », scrive l' avvocato toscano. E al versamento in favore della Fondazione, dà in alternativa quello «immediato e diretto» sul conto corrente del Comitato composto dallo stesso Bianchi, Carrai e Lotti. Sui «soldi che vincolano», l' avvocato sostiene, fra l' altro, che soltanto «qualche prevenuto e malevolo pensatore può ritenere che una Fondazione bancaria il cui cda è composto da 11 persone si lasci governare da due o tre consiglieri amici di Renzi, di cui solo uno nominato da lui». Insomma, non si può cadere in simili trappole», aggiunge Bianchi, rassicurando Cusani che Renzi, «per formazione e credo, è completamente libero da chiunque, ha un atteggiamento di assoluta libertà rispetto al denaro, e risponde solo ai suoi elettori». Cusani pare essersi tranquillizzato: la donazione risulta effettuata il 24 novembre, prima dell' esito delle primarie, a favore del «Comitato per la candidatura di Matteo Renzi» e non a favore della Fondazione. Tutto è bene quel che finisce bene? Non proprio. Perché qualche mese dopo, il 20 maggio del 2013, Dario Cusani torna a scrivere a Matteo Renzi e a Bianchi. Dopo aver sentito «un po' di commenti critici sulla trasparenza delle donazioni che non sarebbero state messe online», Cusani chiede al sindaco di Firenze e all' avvocato il motivo per cui non ha trovato il suo contributo né sul sito di Renzi né sul sito della Fondazione Big Bang. Bianchi risponde che la donazione non è stata a favore della Fondazione, ma a favore del «Comitato per la candidatura di Matteo Renzi», che il Comitato ha cessato la propria attività «in esito alla conclusione della campagna per le primarie per cui nacque», e che sul sito matteorenzi.it resta pubblicato solo il rendiconto finale delle spese sostenute. Pertanto, non sono «più online i nomi dei finanziatori». E qui Cusani sbotta: «la sua mail», scrive il 3 giugno del 2013, «ha il sapore di una presa in giro fatta poi a un napoletano come me che ben conosce il gioco delle tre carte». E ancora: «Ben conosco questo modo di fare perché ho avuto mio fratello gemello Sergio che con Tangentopoli si è fatto otto anni di carcere per la madre di tutte le tangenti». Morale? L' avvocato Bianchi fa marcia indietro e assicura che sul sito Internet della Fondazione Big Bang avrebbe trovato «a breve il suo nome e cognome tra i finanziatori del defunto comitato».

Giacomo Amadori per "La Verità" il 17 novembre 2020. L'avvocato Alberto Bianchi e il senatore Matteo Renzi si crucciano perché i magistrati hanno depositato al tribunale del Riesame le memorie scritte del legale pistoiese, anche quelle compilate in epoca successiva alla chiusura della fondazione Open. Ma non si devono dolere: quelle carte dimostrano come anche dopo la chiusura della cassaforte renziana Bianchi si preoccupasse di trovare i veicoli giusti per continuare a far guadagnare Renzi: con nuove fondazioni o società varie. Il finanziamento illecito può arrivare attraverso strade diverse da Open. E gli investigatori delle Guardia di finanza paiono ancora a caccia di eventuali altri tesoretti di Renzi. Per esempio, nelle informative depositate nei giorni scorsi, contributi e donazioni volontarie inseriti nella contabilità e affluiti sul conto corrente di Open collimano con il libro giornale della fondazione, ma non con il totale dei contributi indicato su un foglio manoscritto del luglio 2019. Anche negli anni precedenti, tra il 2012 e il 2017, c'erano state piccole differenze, per un totale di circa 13.000 euro, però, nell'ultimo anno, quello della chiusura, lo scarto è molto più alto e ammonta a quasi 300.000 euro. Scrivono gli investigatori: «Pertanto è plausibile ipotizzare che l'eventuale differenza di 289.924 euro, sopra evidenziata, possa essere affluita su un rapporto di conto corrente intestato ad un altro soggetto». Sì, ma quale? Gli investigatori evidenziano un appunto di Bianchi dell'ottobre 2018 da cui si desume che un non meglio identificato «comitato» avrebbe «aperto un rapporto di conto corrente». Di quale si tratta? I militari rispondono che «i più probabili potrebbero essere» quello della Leopolda 9 o quello di Ritorno al futuro-comitato di azione civile nazionale, da cui è nata Italia viva. Ma non c'è una risposta certa. Se i conti di Open non tornano, nelle carte c'è anche la prova di come gli stessi consiglieri del comitato direttivo fossero preoccupati per i loro bilanci e per l'elenco dei finanziatori. In una mail del 17 giugno 2015 lo stesso Bianchi, dopo aver allegato un elenco di una cinquantina di contributori da pubblicare online scrive: «Per me va pubblicata integralmente (). Maria Elena chiede se e di quanto possiamo posporre la pubblicazione dell'elenco e del bilancio: direi di non attendere oltre la fine del mese, non siamo mai andati oltre giugno, un ritardo ulteriore farebbe sorgere interrogativi inutili». Invece di insultare magistrati e giornalisti ci aspettiamo che i renziani spieghino dove siano finiti i 289.000 euro che, secondo gli investigatori, mancano all'appello e perché la Boschi volesse rimandare la pubblicazione del bilancio. Risposte che gli interessati potranno dare già il 24 novembre, data fissata dagli inquirenti per gli interrogatori degli indagati dell'inchiesta (Renzi, Boschi, Bianchi, Luca Lotti e Marco Carrai).Il fu Rottamatore, che ci accusa di «vergognosa montatura» per gli scoop sull'inchiesta Open, non è solo un campione di slalom tra i magistrati, ma, sembrerebbe, anche di campagne social a base di troll e fake news.In un Whatsapp del marzo 2017 il capo della sua claque digitale, Alexander Marchi, spiegava a Bianchi: «Copriamo bene le pagine di sostegno (di propaganda) da lunedì a domenica tutte le ore. Però non riusciamo a fare l'altra cosa che ci chiede Matteo. Per esempio se Matteo scrive un post avevamo un sistema che garantiva sostegno ai commenti positivi delle persone renziane. Perché al Movimento 5 stelle sono molto più organizzati e hanno un sistema che mandano profili falsi a offendere di continuo. Avevo creato un modo per contrastare questo problema però in 3 non ci si fa». E a mo' di esempio inviò alcuni commenti pubblicati sul profilo della Boschi.Al servizio di Renzi c'è stato anche l'ex hacker Andrea Stroppa (da minorenne venne coinvolto in un'inchiesta sul gruppo di pirati digitali Anonymous). Il ragazzo, cui è dedicato un paragrafo di una delle ultime informative, secondo gli investigatori «dal 2016 al 2018 si è occupato della gestione dei social network per la "Fondazione Open", fornendo altresì assistenza tecnica ed informatica». In due anni ha ricevuto nove bonifici per un importo complessivo di circa 60.000 euro, offrendo servizi di cyber security, ma anche di assistenza tecnica sms e analisi dei dati. Ha svolto pure consulenze per il Comitato per il sì al referendum del 2016, per il Pd e la Cgil. Nel 2017 Stroppa preparò un report per Renzi in cui si sosteneva che siti vicini alla Lega e ai 5 stelle che propalavano presunte fake news contro il Pd renziano avessero dietro la Russia. La ricerca, molto contestata, venne ampiamente pubblicizzata durante la Leopolda 8 e venne rilanciata dalla stampa internazionale. Il sito Buzzfeed arrivò a definire Stroppa «ricercatore indipendente sulla cybersicurezza». Lui che era a libro paga di Open.

Fabio Amendolara per "La Verità" il 17 novembre 2020. Lo slogan recitava «fai il pieno al camper». E grazie a un iban i simpatizzanti del Rottamatore potevano contribuire alla sua ascesa. Ma alla fine il pieno al camper lo ha fatto babbo Tiziano Renzi, con il conto pagato dalla Fondazione Big bang, qualche anno più tardi trasformata in Open. L'appuntamento con T., ovvero babbo Renzi, sull'agenda dell'avvocato Alberto Bianchi è fissato per il 13 febbraio 2012. È il primo contatto tra i due che viene annotato dagli investigatori dell'inchiesta sulla scalata renzista. Otto mesi dopo Bianchi ottiene da Luca Lotti una bozza di contratto: 1.500 euro per il fitto di un camper Transit dall'1 ottobre al 30 novembre. Il 31 ottobre, però, la Eventi 6, società dei genitori di Matteo, emette la fattura numero 209. In fondo c'è il credito vantato nei confronti del Comitato per la candidatura di Matteo Renzi: 4.235 euro. Ben 2.735 euro in più di quanto indicato da Lotti. Il documento fiscale della Eventi 6 è dettagliato. Ed elenca tutti i servizi offerti al Comitato per la candidatura di suo figlio: «Ritiro camper in Mugello ricovero, manutenzione e pulizia dei due mezzi, rifornimento gasolio e fornitura estintori». Il documento viene inviato l'8 novembre da mamma Laura Bovoli all'avvocato Bianchi con una mail. L'allegato è nominato «Spese adesso.pdf». La questione deve aver imbarazzato non poco il nascente Giglio magico. E infatti tra l'11 e il 12 novembre l'avvocato Bianchi, Andrea Conticini (cognato di Matteo, che risulta tra i detentori di una carta di credito prepagata della Fondazione, consegnata da Lotti con 1.000 euro di ricarica e 10.000 di postagiro) e Lotti si scambiano le email con le fatture da pubblicare online nella sezione trasparenza del Comitato per la candidatura di Matteo Renzi. Lotti consiglia a Bianchi di toglierne una: quella della Eventi 6. Si decide allora di far fatturare a Big bang. Sei mesi dopo, però, nonostante il documento si chiamasse «Spese adesso», il conto non è ancora stato saldato. E mamma Lalla interessa della questione Conticini, che a sua volta si attiva con Bianchi. Finché, il 5 luglio 2013 parte il bonifico. La Eventi 6 viene saldata: il ritiro, la pulizia del camper e qualche estintore sono costati la bellezza di 4.235 euro. Ma babbo e mamma Renzi e il cognato di Matteo non sono gli unici a lavorare per chi sostiene il Rottamatore. Le fila vengono ingrossate dagli amici di Rignano sull'Arno e limitrofi. C'è per esempio Roberto Bargilli, che viene indicato come «responsabile camper». Gli viene consegnata una carta di credito con ricarica iniziale di 2.500 euro, potere di spesa giornaliero di 3.000 e ricarica automatica. Un'altra ricaricabile, con le stesse opzioni, finisce a Eleonora Chierichetti da Figline Valdarno, già segretaria del Rottamatore al Comune di Firenze, poi arrivata nello staff di Lotti alla presidenza del Consiglio dei ministri. A riguardo la testimone Carole Schmitter, dello studio Bianchi, agli investigatori ha riferito: «Le carte ricaricabili o bancomat sono state date una a Lotti e una a Chierichetti ma non so se la usasse lei o qualcun altro, in quanto se non ricordo male all'epoca lei era la segretaria di Lotti». E poi c'è Franco Bellacci, di Reggello, paese a pochi minuti da Rignano. Da funzionario del Comune di Firenze è passato tra i collaboratori di Conticini durante la corsa elettorale di Matteo, per poi approdare a Palazzo Chigi come segretario particolare del Rottamatore (ora è dipendente dell'associazione Italia viva Psi). Per lui niente carta prepagata. Ma le prenotazioni negli hotel pagate da Open andavano a colpi di 250 euro a pernotto. Sempre da Rignano proviene Emanuele Tirinnanzi, dipendente di un'agenzia di agenti di spettacolo e sport. È nell'elenco dei contatti di Bianchi. Ed è a lui che Schmitter manda un preventivo per la Leopolda del 2016 per una verifica. Tirinnanzi esprime perplessità e ritiene che si tratti di «tantissimi soldi». Non si è badato a spese, invece, per la Dori pubblicità (finita anche in una segnalazione antiriciclaggio a carico di Conticini), molto presente tra i fornitori nelle voci di bilancio. Il titolare è Alessio Dori da Borgo San Lorenzo. E con lui l'area dell'Arno è al completo.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 17 novembre 2020. Faccio una premessa: di regola i giornali si appassionano a ogni sospiro che esca dalle Procure. Basta che ci sia di mezzo un' inchiesta con al centro un potente e si buttano a capofitto nella faccenda, cercando di strappare brandelli d' indagine. Se poi le accuse riguardano un politico di centrodestra, state sicuri che gli atti giudiziari saranno pubblicati a puntate, con rivelazioni a raffica. Inspiegabilmente però, tutto ciò non è accaduto con la vicenda che vede indagato Matteo Renzi. In totale solitudine, La Verità sta pubblicando le carte depositate dai pm di Firenze, ma lo spaccato di potere, arroganza e cinismo che emerge non sembra interessare alla grande stampa, che si volta regolarmente dall' altra parte, salvo registrare, quando è necessario, le smentite dei protagonisti del Giglio magico. Ciò detto, vorrei provare a spiegare le curiose anomalie che riguardano la fondazione Open, ossia lo strumento con cui l' ex presidente del Consiglio ha sostenuto gran parte delle sue iniziative negli ultimi anni. In particolare, vorrei richiamare l' attenzione su un paio di operazioni che mi sembrano rivestire un certo rilievo, ossia il viaggio in America a spese dell' ente presieduto dall' avvocato Alberto Bianchi e la stampa di un libretto che Renzi fece ai tempi della campagna con cui tentò, senza successo, la prima scalata al Pd. Nel caso del biglietto aereo, vale la pena di precisare che è costato quasi 135.000 euro, perché il senatore semplice di Scandicci, per andare negli Usa non si è accontentato di un volo di linea, ma ha preferito un jet privato e per il tragitto di 48 ore avanti e indietro sull' Oceano è stato speso l' equivalente di otto anni di stipendio di un normale impiegato. Ora, voi provate a immaginare se si fosse scoperto che a pagare il viaggio negli States fosse stato un imprenditore. Che avreste pensato? Beh, innanzitutto ci saremmo interrogati sul motivo di tanta generosità. Perché un imprenditore regala un volo privato a un politico, ancorché non di governo? In questo caso non si è trattato di un imprenditore, ma di una fondazione, che dagli imprenditori aveva ricevuto cospicue donazioni. Il risultato è che Renzi è potuto andare in America con tutti i comfort e l' ente presieduto da Bianchi ha saldato il conto. Nel caso del biglietto pagato da un imprenditore probabilmente l' ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto spiegare le ragioni di quella che un tempo avremmo definito un' utilità. Ma così, cioè grazie alla presenza della fondazione, nessuno - soprattutto i giornaloni - ha trovato nulla da ridire, anche se lo scopo delle organizzazioni senza fini di lucro non è certamente quello di pagare le spese di viaggio di un politico. Non meno strano è il caso del libro che abbiamo raccontato un paio di giorni fa. In piena scalata al Pd, oltre a fare un tour in camper, Renzi sente l' esigenza di documentare con un libro fotografico il suo viaggio in Italia. Dunque, si rivolge a una piccola casa editrice fiorentina specializzata in libri d' arte e tra i due soggetti, ossia tra l' allora sindaco di Firenze e la stamperia, viene sottoscritto un contratto. Il libro viene consegnato e regolarmente avviato alle rotative, ma quando è il momento di pagare interviene la fondazione Big Bang, progenitrice di Open, che anche in questo caso, come in quello del viaggio in America, si offre di saldare il conto. A dire il vero, non sarebbe dovuta andare così perché tra le carte rinvenute dalla Guardia di finanza nell' ufficio del presidente di Open è stata trovata una lettera con cui Alberto Bianchi chiede al rappresentante di una società svizzera di farsi carico della fattura. La triangolazione dovrebbe servire ad aggirare le norme del Pd, che prevedono limiti alle spese della campagna per le primarie, e poi a non avere noie con il fisco. Alla fine non se ne farà niente, e a pagare 130.000 euro per le 200.000 copie sarà la fondazione. Anche in questo caso, se un imprenditore avesse saldato la fattura di stampa di un sindaco, qualcuno si sarebbe chiesto perché, ma come per il volo aereo, il bonifico arriva da un ente senza scopo di lucro, che è finanziato da benefattori, e dunque nessuno si domanda niente, men che meno i giornali. Nel frattempo Bianchi, il presidente di Open, si occupa di tante cose, di contenziosi fra imprenditori concessionari dello Stato e lo stesso Stato oppure di società quotate che operano in settori strategici. Perché a volte l' avvocato del Giglio magico mette il cappellino di presidente di una fondazione che paga i conti dell' attività politica di Renzi e altre volte quello del legale in complesse partite di interesse pubblico. E i giornaloni? Sempre con la testa rivolta dall' altra parte. Non sia mai che vedano una notizia.

Estratto dell'articolo di Ilaria Proietti per "il Fatto quotidiano” il 17 novembre 2020. (…) Bellanova non dispera e anzi pensa al rilancio dalla ridotta renzianissima del Mipaaf dove continua a fare acquisti. Da ultimo si è assicurata anche i servigi di Antonella Manzione, già punta di diamante degli anni ruggenti del Giglio magico a Palazzo Chigi, quasi che i bei tempi dovessero presto tornare: sarà il suo consigliere giuridico, anche se al ministero, per la verità ne avrebbe già uno. Ma tant' è. Del resto Manzione, data in corsa anche per il posto di direttore generale nella regione Toscana di Eugenio Giani, offrirà i suoi uffici fino alla fine del mandato del ministro pur continuando a rimanere al Consiglio di Stato. Dove è stata nominata nel 2016 tra mille polemiche, addirittura più infuocate di quelle che accompagnarono il suo arrivo, due anni prima, a Roma per volere di Renzi che l' aveva piazzata a capo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi della presidenza del consiglio, facendola traslocare da Firenze dove dirigeva i Vigili urbani. Per via di quell' incarico così ambito, si era attirata critiche e invidie: a sentire i bene informati fu addirittura Maria Elena Boschi a volerla fuori da Palazzo Chigi dove invece lei sarebbe rimasta ben volentieri anche con Paolo Gentiloni. Prevalse la scelta di allontanarla, anche a prezzo di qualche forzatura pur di accordarle una buonissima uscita: la nomina a consigliere di Stato, nonostante le mancassero un paio d' anni per arrivare all' età minima prevista (all' epoca ne aveva 53 contro i 55 richiesti). E al curriculum non proprio in linea con gli standard di eccellenza richiesti a Palazzo Spada (…)

RENZI FA CAUSA PURE A DAVIGO!  Da liberoquotidiano.it il 19 novembre 2020. Ufficiale: tra Matteo Renzi e Piercamillo Davigo è guerra in Tribunale. Il leader di Italia Viva ha infatti "dato mandato ai propri legali di citare in giudizio il dottor Davigo - scrive l'ufficio stampa del senatore -  per le frasi da lui pronunciate durante la trasmissione DiMartedì condotta da Giovanni Floris". Il motivo? L'uscita del magistrato: "Mi sono chiesto se Renzi sa di cosa parla - ha esordito nella puntata del 17 novembre -. Ha detto che io violo la costituzione, in particolare la presunzione di innocenza perché ho detto che ci vorrebbe cautela quando uno è raggiunto da indizi o prove di reati". E ancora, il togato ha ricordato il passato: "Lui quando era presidente del Consiglio fece approvare una legge per il licenziamento immediato dei furbetti del cartellino, io mi  aspettavo solo la cautela, lui il licenziamento in tronco senza giudizio. Poi sono io quello poco garantista. Mah". Ma la frase incriminata è arrivata poco dopo, quando a gettare benzina sul fuoco ci si è messo il conduttore: "Lei ha anche paragonato la vicenda che riguardava la casa di Renzi a quello che succedeva in Germania dicendo che il presidente tedesco si è dimesso per molto meno. Perché?". Immediata la replica: "Certo - ha tuonato Davigo -, perché il presidente della Repubblica federale tedesca ha chiesto un prestito al suo amico. La differenza è che Renzi l'ha anche nominato nel consiglio di amministrazione della Cassa depositi e prestiti però". Poi la conclusione: "Io dico che in funzionari pubblici non hanno solo il dovere di essere onesti, ma anche di apparire tali".

(ANSA il 19 novembre 2020) - "Il senatore Matteo Renzi ha dato mandato ai propri legali di citare in giudizio il dottor PierCamillo Davigo per le frasi da lui pronunciate durante la trasmissione Di Martedì condotta da Giovanni Floris". Lo rende noto l'ufficio stampa di Italia Viva. Più tardi, l'ex premier su twitter aggiunge: "Credo talmente nella magistratura che ho deciso di agire in sede civile contro il dottor Davigo per le sue affermazioni a "Di Martedì". Vedremo i suoi colleghi giudici cosa faranno davanti alle evidenti falsità delle affermazioni del dottor Davigo. #tempogalantuomo".

Da adnkronos.com il 5 dicembre 2020. No al trasferimento delle indagini sulla Fondazione Open, considerata “la cassaforte del renzismo”, alla Procura di Roma e in subordine a quella di Velletri o Pistoia. La Procura di Firenze, secondo quanto si è appreso, ha rigettato l'eccezione di competenza territoriale presentata lo scorso 24 novembre dai legali dell'ex premier Matteo Renzi, che chiedevano di trasferire gli atti di indagine già compiuti ai pubblici ministeri della Capitale. I difensori del leader di Italia Viva, gli avvocati Federico Bagattini e Gian Domenico Caiazza, possono opporsi alla decisione dei pm fiorentini Luca Turco e Antonino Nastasi. I legali di Renzi, che risulta indagato nel procedimento per finanziamento illecito ai partiti, hanno ora dieci giorni di tempo per chiedere - in base all'articolo 54 quater del Codice di Procedura Penale - al procuratore generale presso la Corte di Cassazione "di determinare quale ufficio del pubblico ministero deve procedere". Dopo che l'istanza sarà presentata, il procuratore generale assunte le necessarie informazioni provvederà entro 20 giorni dal deposito della richiesta. Anche nel caso in cui l'indagine dovesse spostarsi da Firenze, gli atti di indagine preliminare già compiuti sono validi e potranno essere utilizzati dal nuovo ufficio competente. Nell'inchiesta sulla Fondazione Open l'ex premier Matteo Renzi è indagato con l'accusa di finanziamento illecito ai partiti insieme agli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi. Indagati anche l'ex presidente della Fondazione, l'avvocato Alberto Bianchi, quest'ultimo indagato anche per traffico di influenze, e il manager Marco Carrai, che era membro del cda della Fondazione insieme a Lotti e Boschi. Il trasferimento degli atti dalla Procura di Firenze a quella della Capitale dovrebbe avvenire, secondo il documento che era stato depositato dai legali di Renzi, sulla base della provenienza dei primi finanziatori della Fondazione Open (a partire dal 2014, anno in cui iniziano le contestazioni da parte dei magistrati sulla base delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza), che secondo i pm Turco e Nastasi si sarebbe comportata da "articolazione di partito". Il primo versamento accertato dalle indagini alla Fondazione Open sarebbe stato quello della British American Tobacco, con sede legale a Roma, e pertanto la competenza sarebbe della Procura della Capitale; poi ci sarebbe il versamento della Promidis di Pomezia, località che ricade sotto la giurisdizione del Tribunale di Velletri (Roma). Entrambe le donazioni sono registrate nei bilanci delle società e agli atti del bilancio di Open. In subordine, sostengono i legali di Renzi, la competenza territoriale sarebbe da individuare sempre a Roma quale sede del Pd, oppure infine a Pistoia dove è stata costituita ufficialmente la Fondazione nel 2012 da parte dell'avvocato pistoiese Alberto Bianchi, presidente di Open. I difensori di Renzi, come spiegava l'atto, hanno ritenuto che il reato a lui attribuito appartenga alla competenza di un giudice diverso dal Tribunale di Firenze ed hanno quindi chiesto la trasmissione degli atti alla Procura di Roma e in subordine a quella di Velletri e di Pistoia.

Aldo Torchiaro per ''il Riformista'' il 21 novembre 2020. È ormai un caso quello dell’impallinatura quotidiana de La Verità. Il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ogni giorno sceglie dal mazzo delle contestate carte della vicenda Fondazione Open una pagina a caso e la usa come bersaglio di tiro, pubblicando nomi e storie di persone per bene che sventuratamente si sarebbero avvicinate, negli anni, a una o più attività di Matteo Renzi o della Leopolda. O addirittura che avrebbero preso parte a una cena con parlamentari vicini a Renzi. Non si parla di imputati, né di indagati. Non si tratta quasi più della vicenda processuale, sulla quale gli elementi a discarico hanno fatto perdere mordente. Nel tritacarne oggi finiscono nomi di persone del tutto estranee all’inchiesta, che sul quotidiano di Belpietro figurano con nome e cognome sottolineati in grassetto. I più perché hanno dato un contributo alle spese organizzative della Leopolda, integrando il reato di “renzismo”, sulla cui codificazione penale attendiamo chiarezza dal legislatore. Giovedì su La Verità è stato il turno della mail con cui il presidente della Fondazione Open scrive al responsabile relazioni istituzionali di Pirelli, Filippo Maria Grasso. Grasso è un professionista molto stimato, oggi direttore Public Affairs di Leonardo. E non ha nulla a che fare con le inchieste in corso. Ma una volta in pagina su La Verità, diventa quello che riceve sospette mail, che coltiva chissà quali indicibili accordi. Cosa scrive l’avvocato Bianchi a Grasso? «Questa in allegato è la presentazione dell’agenzia di comunicazione Dot Media. Se la valuta interessante, la potrebbe inserire nell’albo fornitori». Una mail come tante. C’è l’ombra di una notizia in un testo in cui un professionista presenta una azienda ad un altro, nel modo più formale? No. Ma Dot Media è l’agenzia che ha curato la comunicazione della Leopolda, nei primi anni. E quindi qualsiasi mail, qualsiasi cosa va bene. È la lettera scarlatta. Venerdì La Verità prende un’altra carta. E spara nel mucchio. Se la prende con un’altra persona per bene, l’imprenditore pugliese Lelio Borgherese – leader nel mercato dei servizi Bpo e contact center in Italia, azienda da poco visitata dal ministro Gualtieri – per rimproverargli di aver preso parte a una cena renziana, nel 2014. Era una cena dietro al Parlamento – con cento imprenditori, con la politica – chissà che è successo. E si getta un fumogeno acceso. L’imprenditore nel 2019 risulta aver vinto un appalto Inps, guarda caso. E via un altro fumogeno. Andando a verificare si scopre che a quella cena di lavoro Matteo Renzi non c’era, e che Borgherese non lo ha mai incontrato nella vita. Di più: che la gara Inps è stata vinta con l’ultima gestione, quella avversata da Renzi, che del presidente Tridico ha chiesto le dimissioni. Sembra quasi che siccome l’inchiesta della magistratura non convince, si mandano i rinforzi per mestare nel torbido. Ma anche i mestatori falliscono. La Cassazione ha sentenziato a fine ottobre: «Non è provato che Open fosse un’articolazione del partito», condizione necessaria per configurare l’eventuale finanziamento illecito ai partiti. Ma il metodo della bastonatura mediatica, che accomuna La Verità al Fatto, non tiene conto delle sentenze che non condannano. Un metodo che nelle parole che Giuseppe D’Avanzo aveva dedicato a Travaglio, funziona così: «Si afferra un “fatto” controverso e lo si getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa e con “fatti” ambigui e dubbi, si manipola cinicamente il lettore. Se ne alimenta la collera. È un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target. Il qualunquismo antipolitico è alimentato, per interesse particolare, da un linciaggio continuo e irrefrenabile che può contaminare la credibilità di ogni istituzione e la rispettabilità di chiunque». Sotto a chi tocca, domani è un altro giorno.

·        Il Renzismo Senior.

Bancarotta e fatture false,  la procura chiede il rinvio  a giudizio per i genitori  di Matteo Renzi. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Gasperetti. La procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio dei genitori dell’ex premier e leader di Italia Viva Matteo Renzi, indagati per bancarotta fraudolenta ed emissioni di fatture false nell’inchiesta per il fallimento di tre cooperative. Tiziano Renzi e Laura Bovoli dovranno presentarsi il 9 giugno al tribunale di Firenze all’udienza preliminare che deciderà se processarli o proscioglierli da ogni addebito. Un anno fa l’inchiesta aveva fatto registrare un colpo di scena: Tiziano Renzi e Laura Bovoli erano stati arrestati (ai domiciliari) su ordine della procura ma dopo 18 giorni il Tribunale del Riesame aveva revocato il provvedimento. Come anticipato dal Fatto Quotidiano, nell’inchiesta sul crack delle tre cooperative (la Delivery Service Italia, la Europe Service e la Marmodiv), riconducibili ai Renzi sono indagate altre 16 persone. Tra queste Roberto Bargilli, detto Billy, l’autista del camper di Matteo Renzi per le primarie per la segreteria del Pd del 2012 e in passato nel cda di una delle cooperative. Secondo l’accusa i genitori di Matteo Renzi avrebbero provocato il fallimento delle cooperative per effetto «di operazione dolosa consistita nell’aver omesso sistematicamente di versare gli oneri previdenziali e le imposte, o comunque, aggravando il dissesto». A ottobre Tiziano Renzi e Laura Bovoli erano stati condannati (1 anno e 9 mesi con sospensione della pena) dal tribunale di Firenze per la presunta emissione di due fatture false da 20 mila e 140 mila euro. Con loro era stato condannato (due anni di carcere) anche l’imprenditore Luigi Dagostino.

False fatture, condannati i genitori di Renzi. Il giudice: "Prove precise". Laura Bovoli e Tiziano Renzi sono stati condannati per l'emissione di false fatture. Ecco le motivazioni della sentenza del 7 ottobre scorso. Alberto Giorgi, Martedì 07/01/2020, su Il Giornale. La sentenza risale al 7 ottobre 2019, le motivazioni sono state rese pubbliche oggi, a distanza di novanta giorni, secondo la prassi del sistema giudiziario italiano. E allora, andando a vedere quanto scrivono i giudici del Tribunale di Firenze si legge di "prove precise e univoche", che inchiodano sia Laura Bovoli sia Tiziano Renzi, rispettivamente madre e padre del fondatore e leader di Italia Viva, condannati a un anno e nove mesi di reclusione per l’emissione di false fatture. Con la coppia di coniugi è stata condannato anche un terzo soggetto, l’imprenditore Luigi Dagostino, il cosiddetto "re degli outlet", condannato a due anni di reclusione per fatture false e truffa aggravata. "Per quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale, risulta sussistere un compendio probatorio preciso ed univoco che consente di affermare, senza incertezze, la ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi dei reati contestati ai tre imputati", si legge nella motivazione della sentenza del Palazzo di Giustizia della città gigliata. Secondo le toghe fiorentine è stata comprovata "l'inesistenza oggettiva delle due fatture emesse delle società Party ed Eventi 6, sulla base di molteplici e convergenti elementi". Come il "mancato rinvenimento di qualsiasi documentazione comprovante l'esistenza delle prestazioni indicate nei documenti fiscali". Le due fatture considerate false e oggetto del processo, perché secondo l'accusa non corrisponderebbero in verità a prestazioni realmente effettuate, sono due e sono quelle relative a presunti studi di fattibilità su progetti commerciali nell'outlet "The Mall" di Reggello (in provincia di Firenze), del valore complessivo di quasi 200mila euro; per la precisione, una da 20mila e l'altra da 140mila euro più Iva. Le fatture vennero pagate alla società Party srl (quella da 20mila euro) e alla Eventi 6 srl (quella da 140mila euro) nel luglio del 2015. In modo concomitante, il Tribunale di Firenze ha comunque specificato che "nulla è stato rinvenuto nelle perquisizioni effettuate dalla Polizia Giudiziaria presso la sede della società emittenti, nulla è stato rinvenuto presso la sede della Tramor e tra la documentazione di quest'ultima in possesso del depositario delle scritture contabili, nulla è stato mai trovato da coloro che sono stati, successivamente, chiamati ad operare la revisione contabile ed amministrativa della società acquisita, tanto da rendere necessario un intervento di ravvedimento operoso da parte del gruppo acquirente, con un'operazione di espunzione degli importi fatturati dal bilancio della Tramor e dalle risultante della dichiarazione fiscale".

Genitori Renzi condannati per false fatture, i giudici: "Prove precise e univoche". Depositate le motivazioni della sentenza con cui lo scorso 7 ottobre Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono stati condannati a un anno e 9 mesi di reclusione. I difensori confermano il ricorso: "Palesi incongruenze giuridiche e contraddizioni"". La Repubblica il 07 gennaio 2020. "La fragilità e la clamorosa contraddittorietà della posizione difensiva" si evidenzia "in modo emblematico laddove si presti attenzione ad elementi che si traggono dalla documentazione concernente le due fatture e la corrispondenza informatica relativa alla loro trasmissione". E' quanto si legge nelle motivazioni della sentenza del Tribunale di Firenze che il 7 ottobre scorso ha condannato Laura Bovoli e Tiziano Renzi, genitori dell'ex premier Matteo Renzi, alla pena di un anno e nove mesi di reclusione al termine del processo per due fatture false, e l'imprenditore Luigi Dagostino a due anni di reclusione per fatture false e truffa aggravata. Gli avvocati Federico Bagattini e Lorenzo Pellegrini, difensori dei Renzi, parlano di "evidenti e palesi incongruenze giuridiche" delle motivazioni e della "ricostruzione dei fatti". E su questa base confermano che presenteranno ricorso. "Le contraddizioni presenti nella motivazione della sentenza ci fanno guardare al processo di appello con molta fiducia nel doveroso rispetto per i giudici", concludono. "Si ricava, infatti, dall'esame delle tre diverse versioni della fattura n. 202/2015, emessa dalla Eventi 6, non solo un'incertezza davvero sorprendente sul valore della presunta prestazione di consulenza, lievitato inspiegabilmente, nel giro di pochi giorni, di 40 mila euro, ma anche l'indicazione dell'esistenza di un incarico specifico, conferito in una determinata data, e di un altrettanto specifico momento di consegna dell'elaborato costituente l'oggetto della prestazione, avvenuto nelle mani di un fantomatico incaricato della società committente, la cui identità non è mai stata nemmeno allegata da parte dei due imputati", scrivono i giudici. "Ciò a dimostrazione di come, almeno nelle intenzioni degli ideatori dell'operazione, ben doveva esservi una documentazione comprovante l'effettività dell'incarico e della prestazione (sempre al contrario di quanto sostenuto nelle dichiarazioni difensive del Renzi e della Bovoli), tanto che una "relazione" veniva, comunque, trasmessa in allegato ad uno dei messaggi di posta elettronica (peraltro, non si comprende il motivo visto che doveva esservi già stata la consegna dell'elaborato, secondo quanto indicato nelle varie versioni della fattura)". Altra "anomalia" è rappresentata "dall'identità della prestazione fatturata da Eventi 6 e Party, secondo la descrizione contenuta nei relativi documenti fiscali; non si comprende, sul piano della logica, l'utilità di richiedere una stessa prestazione a due diverse società, tra loro collegate dal punto di vista soggettivo; non si comprende il motivo della elevata differenza del valore delle due analoghe relazioni "fantasma" e perché, riguardo alla Party, ciò sia stato richiesto ad una società che nell'anno 2015 era sostanzialmente inattiva, come dimostrato dal fatto che fino al mese di giugno non aveva emesso alcuna fattura e che quella contestata sia stata l'unica prestazione (o presunta tale) eseguita nella predetta annualità". "Per non parlare -si legge nella sentenza- del contenuto della relazione che, secondo la prospettazione difensiva e le dichiarazioni di tutti gli imputati, costituirebbe l'oggetto della prestazione di maggior rilevanza economica, il frutto, per dirla con le parole indignate di Renzi Tiziano, del "lavoro di mesi", una vera e propria opera dell'ingegno; si tratta di uno scritto di due pagine e mezza, contenente affermazioni di principio banali e del tutto generiche, espressioni tautologiche prive di un effettivo valore innovativo e creativo, tali da giustificare la convinzione di un documento predisposto, frettolosamente ed in modo maldestro, per dare l'impressione di una effettiva esistenza di uno "studio di fattibilità" in realtà inesistente; a cui, peraltro, erano allegate delle tavole pianimetriche evidentemente copiate da un precedente elaborato predisposto dallo studio "P&P", senza nemmeno l'accortezza di cancellare la stampigliatura attestante la paternità degli elaborati". I fatti al centro del processo risalgono al 2015, quando l'imprenditore Luigi Dagostino era amministratore delegato della Tramor, società di gestione dell'outlet The Mall di Leccio di Reggello (Firenze), e avrebbe incaricato le società Party ed Eventi 6, entrambe facenti capo ai Renzi, di studi di fattibilità per lavori all'outlet. Le fatture considerate false e oggetto del processo, perché secondo l'accusa non corrisponderebbero a prestazioni realmente effettuate, sono due: una da 20mila e l'altra da 140mila euro più Iva. Le fatture vennero pagate alla società Party srl (quella da 20mila euro) e alla Eventi 6 srl (quella da 140mila euro) nel luglio 2015.

·        I Renziani.

Altro che esodo...la deputata Rostan di Leu ed il senatore Pd Cerno passano a Italia Viva. Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2020. La decisione delle Rostan è stato comunicato nel pomeriggio attraverso la chat dei parlamentari di Leu: “Un abbraccio e un caro saluto a tutti”. In serata è arrivata anche l’annuncio del passaggio del senatore (ormai ex dem) nel partito di Matteo Renzi. E’ scontro aperto tra Matteo Renzi ed il premier  Giuseppe Conte, e si avvicina sempre di più  l’ipotesi di uno “strappo”. Mentre nella maggioranza viene trovato l’accordo sul decreto intercettazioni, Italia Viva fa la sua campagna acquisti ed accoglie due parlamentati provenienti dagli alleati, arrivando ad avere 30 deputati e 18 senatori.  Renzi avverte: “Chi forza a colpi di emendamento spacca la maggioranza“. Il Governo ha posto la fiducia sul decreto Milleproroghe, dibattito aperto sulla prescrizione. Renzi: Da Conte prova muscolare sulla giustizia. La decisione della parlamentare salernitana Michela Rostan è stata resa nota nel pomeriggio  intorno alle ore 16 con il messaggio “Un abbraccio e un caro saluto a tutti” comparso sulla chat dei parlamentari di Leu che è passata nel gruppo dei “renziani” di Italia Viva dove è arrivato anche il senatore Tommaso Cerno, ex condirettore di Repubblica, che ha lasciato il Pd. La deputata Rostan alcune ore prima aveva già scritto una lettera indirizzata al capogruppo Federico Fornaro.Una missiva amara con la quale ha spiegato le ragioni del suo addio politico a Liberi e uguali. “Non posso più affrontare battaglie politiche che sono per me fondamentali in assoluta solitudine“. Ricostruisce  i momenti che sono stati per lei più difficili: l’impegno per consentire il rinnovo dei farmaci che combattono l’epatite C di restare nel Fondo per gli innovativi oltre la scadenza di aprile. Dopo decine di audizioni, dopo che malati e associazioni hanno  affermato che debellare la malattia è prossimo ormai e quindi fondamentale che i farmaci innovativi fossero rinnovati per altri 6-12 mesi, è prevalsa evidentemente un’altra campana. Rostan allude agli interessi economici dell’Aifa. Racconta di avere cercato di inserire u emendamento nel Milleproroghe su questo. Niente da fare. Nessuna sponda dal “nostro” ministro della Salute, Roberto Speranza. Altra delusione della Rostan quella sulla legge per il contrasto alla violenza sui medici e il personale sanitario in servizio. Una battaglia, ha affermato Rostan, “in cui mi sono impegnata per il riconoscimento a queste figure dello status di pubblici ufficiali“. Sulla quale, insiste, il ministro Speranza avrebbe dovuto essere d’accordo. Ma in realtà nulla è stato fatto. Conclusione della Rostan: “Sono bocconi troppo amari da digerire”. che ha originato la scelta “che assumo con amarezza“. Una decisione che era nell’aria da qualche settimana. Era stato affidato a Guglielmo Epifani, l’ex segretario del Pd attualmente leader di “Articolo 1“, il compito di convincerla a restare nel gruppo, in quanto la deputata, 38enne era uscita dal Pd con i “bersaniani” confluendo appunto in Articolo 1. “E’ una decisione mia. Una decisione politica che tuttavia non c’entra con la questione del governo. ” ha commentato la deputata. L’ex condirettore di Repubblica Tommaso Cerno diventa il 18esimo senatore del gruppo renziano: “Trovo che il progetto politico delle correnti Pd – Zingaretti, Franceschini, Bettini  di progettare un’Italia proporzionale dove i governi e i processi durano in eterno non corrisponde alla mia visione del paese di domani“. Esulta Italia Viva: “Doveva esserci la fuga da Italia Viva e invece il partito di Renzi cresce“.  Il suo è un passaggio particolarmente importante visti i numeri della maggioranza al Senato ed i contrasti tra i renziani e i restanti partiti della sinistra che sostengono il Governo Conte bis. Cerno ha così motivato la sua decisione rivolgendosi a Renzi: “Credo sia ancora possibile ambire a una legislatura riformista che preveda l’elezione diretta e ridia ai cittadini la scelta autentica riguardo a chi guiderà il Paese. Invito Renzi a chiarire la posizione su questo punto”. Domani Matteo Renzi parteciperà a Porta a Porta, in una trasmissione che si annuncia particolarmente interessante. “Italia Viva ha oggi 30 deputati e 18 senatori”, ricordano fonti del partito renziano.

L’addio del senatore Cerno: “Pd troppo giustizialista. Per questo vado con Renzi”. “Non è possibile accettare un processo eterno, non possiamo accettare queste intercettazioni”. Il Dubbio il 19 febbraio 2020.  «Sono concettualmente distante dalle posizioni del Pd sulla giustizia, per me temi imprescindibili. La prescrizione, le intercettazioni, sono temi sui quali non è possibile non schierarsi». Intervistato dal Corsera il senatore Tommaso Cerno spiega le regioni del suo passaggio dal Pd a Italia Viva. «Voglio guardare i contenuti. E questi contenuti -spiega- sono temi fondamentali, che mi hanno spinto a lasciare il Partito democratico. Io appartengo all’area laica socialista e sono naturalmente schierato con i garantisti. Non è possibile accettare un processo eterno, non possiamo accettare queste intercettazioni: come giornalista ne ho avuto a che fare e so bene di cosa sto parlando». Cosa succederà al Conte bis? «Questo governo -replica Cerno- è già in fase di prescrizione a sua volta. Non può durare, mi sembra ovvio. Perlomeno, non può durare se prima non scioglie questo contenzioso fondamentale e divisivo»

Ma sul garantismo di Renzi, ha qualcosa da ridire il forzista Francesco Sisto: «La diagnosi è semplice, indipendentemente dai temi c’è qualcuno che ricatta il governo dall’interno e qualcuno che fa opposizione. Renzi ricatta il governo dall’interno e noi facciamo opposizione. Sono due cose diverse e inconciliabili tra loro. C’è il garantismo vero che è quello di FI e il garantismo d’occasione che è quello di Italia viva. Non inganni la occasionale coincidenza di determinate tematiche. Renzi è un giocatore disinvolto, abbastanza impavido, che tiene il governo sotto scacco».

Cerno lascia il Pd tra insulti  e querele: «Mi chiedevano il pizzo». La rabbia di Sala: ha usato il partito come un taxi. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Andrea Senesi. Non si erano mai davvero amati, ma il matrimonio tra Tommaso Cerno — ex direttore dell’Espresso e senatore eletto a Milano 1 — e il Pd di Milano è finito come peggio non si poteva. Accuse, insulti e querele. E come in ogni separazione, immancabile la lite sui soldi: secondo il Pd, Cerno è debitore di una quota del suo stipendio da parlamentare al partito. Mercoledì è arrivata però la versione dell’attuale senatore di Italia viva: «Mi chiedevano il pizzo, come i mafiosi, perché ero in dissenso sulla Tav», ha detto Cerno a «Un giorno da pecora». Che ha poi attaccato la segretaria milanese del Pd, Silvia Roggiani. «Faceva la portaborse dell’europarlamentare Patrizia Toia», la definizione non esattamente benevola. Tra ex compagni di partito volano stracci e anche querele. Perché Roggiani, subito dopo, ha annunciato una nuova azione legale nei confronti di Cerno. «È davvero grave che lui, paracadutato nel collegio più sicuro di Milano e dunque eletto grazie agli sforzi organizzativi e anche economici del Pd, si permetta ora di calunniare un’intera comunità». «Avanti Silvia Roggiani!». Anche Beppe Sala ha voluto esprimere solidarietà alla segretaria cittadina del Pd. Il sindaco non ha però rinunciato a una nota polemica. «Ricordate quando dicevo: “Evitiamo candidati alle politiche che usano Milano come un autobus per farsi eleggere”? Ecco, il comportamento del senatore Cerno dimostra che i miei timori erano fondati». 

Dagospia il 20 febbraio 2020. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. “Chi mi ha scritto dopo il passaggio ad Italia Viva? Qualcuno era molto contento e qualcuno mi ha mandato a quel paese dicendomi di non chiamarlo mai più, qualche collega che non ha amato questa scelta”. i”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Tommaso Cerno, neo senatore di Italia Viva, che oggi è stato ospite in studio della trasmissione condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Chi è che l'ha mandata a quel paese? “Un direttore di giornale molto puntiglioso sulla prescrizione e sulle intercettazioni”. Si riferisce a Marco Travaglio. “E' incazzato nero, mi ha detto di non chiamarlo mai più”. Perché? “Perché mi considerava un sostenitore di governo. Io lo sono, ma di un governo che abbia ragionevolmente chiaro che cosa sia il garantismo in Italia”. “Ieri ho annunciato che passo a Forza Italia Viva, Renzi ieri ha annunciato che io passavo con loro, io l'ho detto a lui e lui lo ha detto a Mentana. Sono stati cinque minuti critici, dovevo decidere in cinque minuti”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Tommaso Cerno, neo senatore di Italia Viva, che oggi è stato ospite in studio della trasmissione condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. A dire Forza Italia Viva per la prima volta è stata Mara Carfagna, forse in modo un po' provocatorio. “Infatti sarà la prossima...” A venire da voi? “Penso di sì”. Farete un gruppo unico con Fi? “Non tutta Fi sicuramente...” Ci racconti i momenti in cui ieri ha comunicato a Renzi che sarà passato con loro. “E' stato un momento cruciale ieri sera, alle 20 ero da Renzi a Palazzo Giustiniani, c'erano Matteo, la sua segretaria e Bonifazi”. Lei cosa gli ha detto? “Che sarei passato ad Iv per distinguermi sul tema della prescrizione”. Renzi l'ha chiamata spesso in questi giorni? “Due o tre volte al giorno- - ha detto Cerno a Rai Radio1 - e dal Pakistan mi ha mandato dei messaggini”. La sua crisi col Pd è iniziata prima dei dissidi sulla prescrizione. “Si. Il Pd dal 2007 non vince elezioni ha poco da gioire, io nel Pd c'entro molto poco, ero candidato indipendente”. E cosa ne pensa del premier Giuseppe Conte? “Premier di chi? Questo è un governo ridicolo, che non ha nulla a che vedere con l'idea che lo muove, un governo di correnti e di cialtroni”. Lei però ha votato la fiducia a questo esecutivo. “L'ho votata due volte e non penso che la voterò di nuovo”. Ma lei è ancora nella maggioranza. “Questo è un governo fatto da una sinistra che non esiste e da un M5S che si è ucciso, che non va da nessuna parte”. Lei vede a breve un Conte Ter? “Io vedo un fine Conte, vedo prescritto il governo Conte e vedo prescritto lo stesso Conte, che non è né assolto né condannato, come molti suoi ministri”. Crede possibile un governo di Renzi con Salvini? “No, non credo. Con Salvini si può discutere di riforma elettorale ma un governo non credo sia nelle cose”. Conte arriverà a mangiare la colomba? “Per il momento non cade, credo arriverà a Pasqua con fatica. Arrivare all'estate, invece, la vedo più complicata“. Parlando della Tav, Cerno a Rai Radio1 ha spiegato: “Renzi non mi pare proprio sia a favore della Tav, non è uno che investe sulla Tav”.

Dal "Corriere della Sera" il 20 febbraio 2020. «Come i mafiosi, chiedono il pizzo». Tommaso Cerno, senatore eletto a Milano col Pd e ora passato a Italia viva, ha replicato così, a Un giorno da pecora , con termini di cui poi si è scusato, alle accuse di non aver versato le dovute quote al partito. La segretaria milanese del Pd Silvia Roggiani ha annunciato querele ha incassato la solidarietà di Nicola Zingaretti. Anche il sindaco Beppe Sala ha commentato la vicenda: «Ricordate quando dicevo "evitiamo candidati che usino Milano come un autobus?". I miei timori erano fondati».

Estratto dell'articolo di Tommaso Rodano per “il Fatto quotidiano" il 20 febbraio 2020. (...) C' è un Cerno per ogni stagione, per ogni movimento dell' anima, per ogni sensibilità. C' è il Cerno giornalista, direttore dell' Espresso e condirettore di Repubblica. C' è il Cerno politico, che baratta il potere nei giornali con l' assenza di potere in Parlamento. Pare fosse convinto di diventare ministro, si ritrova peone. C' è il Cerno dei primi giorni al Senato, guardia del corpo di Renzi, sempre a fianco del segretario. Ma si stufa presto: "Matteo non riesce più a fare ragionamenti di ampio respiro". (...) Si apre uno spiraglio e Cerno torna in pista. Si autobattezza "Cerno-cerniera": il collante della nuova intesa tra Pd e grillini. Lui che è sempre stato No-Tav, lui che si considera "la sesta stella" del Movimento; lui che è eretico e diverso dai brontosauri della vecchia politica. Cerno chiede "un governo rock", di nuovo gli appaiono mistiche visioni ministeriali. Sogna in grande: vorrebbe andare all' Ambiente, promette di sparigliare tutto. Niente, non gli lasciano niente. E allora Cerno prende atto che è "un governo polka", lento e inadeguato, e si deprime di nuovo. Colpa di Zingaretti, ma pure di Renzi, che si scorda di lui. A settembre 2019 un grave Cerno racconta l' egoismo renziano: "Non è possibile che il nostro eterno, infinito problema non sia il futuro degli italiani ma di uno solo, all' anagrafe Renzi Matteo". Quindi non lo segue in Italia Viva. Resta nel Pd. Anzi è il Pd che resta dentro di lui: "Adesso che i dem sono venuti verso chi, come me, pensava da tempo che il futuro della sinistra fosse un big bang fra progressisti e M5S , sarebbe alquanto strano togliermi di mezzo". Sarebbe alquanto strano. E invece - pensa tu! - si toglie di mezzo: esce dal Pd e torna da Renzi.

Maurizio Crippa per "il Foglio" il 20 febbraio 2020. Quando la situazione politica si fa particolarmente ridicola, inspiegabilmente rispunta Tommaso Cerno. O forse spiegabilissimamente, detto sulla base della sua biografia politica largamente immaginaria. L' ultima volta che era emerso dalle nebbie del nulla primordiale era stato quando aveva detto che rimpiangeva il giornalismo, che al Senato si annoiava tantissimo e che Renzi ormai non riusciva più "a fare ragionamenti di ampio respiro". Anzi era la penultima, l' ultima volta fu per far sapere di aver votato la mozione No Tav dei Cinque stelle contro il suo partito, il Pd. Ora invece ha mollato il Pd per passare a Italia viva. E, a parte gli auguri a Italia viva, c' è solo da notare che un fervente No Tav nel partito di Renzi fa l' ef fetto di un Salvini in moschea. Ma c’è quest’altra faccenda, che farebbe solo ridere e invece a quelli del Pd, di Milano ma non solo, li ha fatti incazzare davvero, si sentono calunniati e pure con motivo. E’ che Cerno ha detto che il Pd di Milano gli ha chiesto il pizzo: “Si chiama pizzo, hanno chiesto il pizzo”. Pare gli abbiano chiesto un contributo di 18 mila euro. Forse per il fatto che se l’erano visto paracadutato per le elezioni come un qualsiasi satrapo della Prima Repubblica, si erano fatti pure il mazzo per farlo eleggere (roba che pure costa) e lui, che adesso se ne va con Iv, manco le spese aveva pagato. “Pizzo” è in effetti ignobile, persino se detto a un Un giorno da pecora. E comunque, gli unici che hanno diritto di lamentarsi, prima con il Pd e adesso con Renzi, siamo noi: costretti a pagare il pizzo della Casta per mantenere Cerno a fare un cazzo in Senato.

La retromarcia del senatore Cerno: non va con Renzi  e si iscrive al gruppo Misto. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Bozza. Il senatore Tommaso Cerno fa retromarcia e molla il partito di Matteo Renzi ancora prima di approdarvi e si iscrive al gruppo Misto. Eletto nelle file del Pd, ex giornalista del gruppo Gedi, Cerno era sceso in politica, voluto in lista alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 proprio dall’allora segretario dei dem. Renzi ha poi dato l’addio al partito per fondare Italia viva, portandosi via una nutrita pattuglia di parlamentari dem.

Cerno, però, aveva scelto di rimanere con i dem. Salvo poi strappare duramente nei giorni scorsi, nel pieno dello scontro in maggioranza sul fronte della prescrizione, e annunciando il passaggio al gruppo di Italia viva a Palazzo Madama, innescando l’esultanza di Renzi: «Dicono che perdiamo pezzi, ma invece un senatore si aggiunge al nostro gruppo». «Il Pd mi ha chiesto il pizzo», aveva attaccato Cerno, riferendosi al fatto che il partito chiedeva indietro i soldi dei contributi che ogni eletto deve al partito. Il senatore, a seguito della bufera, era stato poi costretto a chiedere scusa. Senato, Cerno non passa a Italia viva e si iscrive al gruppo Misto. Il senatore aveva annunciato lo scorso 19 febbraio l'addio al Pd per passare con i renziani. Adesso ha cambiato idea: la conferma arriva dalla capogruppo del Misto Loredana De Petris. La Repubblica il 26 febbraio 2020. Il senatore Tommaso Cerno, che aveva lasciato il Pd nelle scorse settimane, non si iscrive più al gruppo di Italia viva al Senato, ma passa al gruppo Misto. La notizia, che circolava stamattina a Palazzo Madama, è confermata  dalla capogruppo del gruppo Misto Loredana De Petris. Lo stesso Cerno avrebbe spiegato ad alcuni colleghi che il mancato approdo fra i renziani sarebbe dovuto a dissapori con Matteo Renzi che non avrebbe mantenuto dei patti sottoscritti con lui. Cerno aveva lasciato il Pd lo scorso 19 febbraio e aveva spiegato così la sua decisione: "Voglio guardare i contenuti. E questi contenuti -spiega- sono temi fondamentali, che mi hanno spinto a lasciare il Partito democratico. Io appartengo all'area laica socialista e sono naturalmente schierato con i garantisti. Non è possibile accettare un processo eterno, non possiamo accettare queste intercettazioni: come giornalista ne ho avuto a che fare e so bene di cosa sto parlando". Cosa succederà al Conte bis? "Questo governo -replica Cerno- è già in fase di prescrizione a sua volta. Non può durare, mi sembra ovvio. Perlomeno, non può durare se prima non scioglie questo contenzioso fondamentale e divisivo". Nei giorni successivi Cerno era stato protagonista di una dura polemica con il Pd milanese sul mancato versamento del contributo alla federazione.  "Il Pd di Milano ritiene che io debba dire quello che dice Sala, ma che soldi devo dare? Io non sono iscritto al Pd, non faccio parte del Pd. Sono stato eletto con il Pd, ma cosa c'entra questo? Si chiama strozzinaggio, si chiama pizzo, mi han chiesto il pizzo", aveva detto.

(ANSA il 28 febbraio 2020) - Il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto (Iv) è pronto, a quanto si apprende, a dare l'addio al governo in polemica con il ministro Luigi Di Maio che non ha assegnato a lui ma a Manlio Di Stefano la delega per il commercio estero. Scalfarotto voleva dimettersi già ieri sera ma, a quanto si apprende, Matteo Renzi lo ha trattenuto fino alla fine dell'emergenza coronavirus. "Non è il momento ora", avrebbe spiegato il leader Iv sostenendo che altrimenti addosserebbero a Iv la volontà di indebolire il governo. La ripartizione delle deleghe assegnate alla Farnesina "rinnega gli accordi assunti al momento della formazione del governo (il che non depone mai favorevolmente per la solidità di una coalizione)". Lo scrive il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto su Facebook aggiungendo che, avendo raccolto "l'invito" di Italia Viva, ha "deciso di non provocare in questo delicato momento una sia pur piccola crisi nella compagine governativa". "Illustrerò le mie decisioni - conclude - con l'attenuarsi di questa terribile emergenza nazionale". "Ieri pomeriggio - scrive Scalfarotto nel lungo post - senza alcuna previa consultazione, il Ministro Di Maio mi ha inviato per lettera copia del suo decreto, già firmato e definitivamente inviato alla Corte dei Conti per la registrazione, con il quale mi ha assegnato le deleghe da esercitare nella mia qualità di Sottosegretario di Stato degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale: Europa esclusa la Russia, Politiche commerciali (si tratta di tutto ciò che riguarda dazi e barriere al Commercio), adozioni internazionali. Ad altro collega sono state invece affidate le 'questioni relative alle imprese', la promozione degli scambi, l'attrazione investimenti, la supervisione della vendita di armamenti e prodotti 'dual use', spazio e aerospazio, energia, innovazione e ricerca, mare e ambiente (oltre all'Asia, Cina esclusa). Il Ministro ha invece tenuto per sé - non attribuendo, a suo dire provvisoriamente, le relative deleghe - tra l'altro: fiere, missioni di sistema e la vigilanza su ICE, SACE/SIMEST e Invitalia, con la responsabilità di tutti i fondi promozionali che queste società gestiscono". "Stanti così le cose, e non avendo avuto la possibilità di discutere preventivamente la questione - continua Scalfarotto - ho solo potuto reiterare telefonicamente in modo molto franco al Ministro le considerazioni che avevo avuto già occasione di esporgli in numerose circostanze precedenti, private e pubbliche". "Ho spiegato al ministro ancora una volta perché considero un errore gravissimo frazionare le competenze del Commercio internazionale privando le aziende che esportano e le nostre fiere - già in gravissime difficoltà a causa del coronavirus - di una interlocuzione unitaria con il governo, soprattutto nel momento di passaggio di queste delicate competenze dal Mise al ministero degli Esteri. Un errore grossolano, che peraltro curiosamente contraddice le scelte fatte dallo stesso Ministro Di Maio quando era allo Sviluppo Economico, di cui - sottolinea il sottosegretario - non desidero assumermi la benché minima responsabilità, avallando, con il mio benestare a questa suddivisione di competenze, una decisione che considero dettata esclusivamente dalla necessità solo politica di tener buoni un po' tutti, invece che per assicurare il buon funzionamento del governo e perseguire il superiore interesse del Paese". "Tuttavia - scrive Scalfarotto - consultati come necessario gli organi del mio partito, abbiamo purtroppo dovuto rilevare che l'attribuzione delle deleghe, dopo oltre cinque mesi di attesa, è giunta proprio durante un importante vertice internazionale e, soprattutto, proprio al culmine di una crisi sanitaria ed economica assolutamente inaudita e straordinaria. Per queste ragioni, raccogliendo l'invito che Italia Viva mi ha rivolto in questo senso, ho deciso di non provocare in questo delicato momento, con la decisione che in altre circostanze avrei certamente assunto senza alcun ritardo, una sia pur piccola crisi nella compagine governativa che potrebbe indebolirne l'immagine e la solidità percepita, anche a livello internazionale. Desidero inoltre - conclude il sottosegretario - non suscitare la minima impressione di una mia mancanza di rispetto nei confronti dei nostri concittadini, delle nostre imprese e delle persone che ci lavorano, che stanno vivendo situazioni personali e professionali estremamente complicate e difficili".

Lorenzo Giarelli per “il Fatto quotidiano” il 31 dicembre 2019. Il reato è bancarotta colposa e a gennaio andrà a processo insieme ad altri 13. Pier Luigi Boschi, padre dell' ex ministra Maria Elena, è stato citato a giudizio dalla Procura di Arezzo e dovrà giustificare una serie di consulenze esterne date nel 2014 da Banca Etruria, di cui Boschi era amministratore. In quei mesi la banca era alla ricerca di un potenziale partner per evitare il crac, ma secondo l' accusa quelle consulenze sarebbero state soltanto una spesa inutile, tale da aggravare la posizione dell' istituto. L' avviso di chiusura indagini per Boschi e altri 14 amministratori era arrivato a giugno e delineava un quadro da 4,3 milioni di euro spesi in consulenze sospette. Tra queste, i pm segnalavano quella da 800 mila euro agli Studi De Gravio e Zoppini; o l' incarico affidato da Etruria agli studi legali Scotti Camuzzi, Portale e De Marco (valore: 200 mila euro) con riferimento a una generica assistenza legale; o gli 824 mila euro per il parere giuridico dello studio fondato da Franzo Grande Stevens, storico avvocato di Gianni Agnelli e già presidente della Juventus; o ancora l'enorme consulenza da 1 milione e 902 mila euro affidata alla società Bain & Co. Ins e un altro mezzo milione girato a Mediobanca. Il tutto frutto di un "mandato in bianco" conferito dai consiglieri al presidente e al direttore generale per "determinare il compenso, la durata e quant'altro necessario" delle consulenze, senza "nessun obbligo di rendicontazione". Secondo la Procura, i 14 amministratori non avrebbero vigilato sulla redazione delle consulenze - ritenute appunto inutili e ripetitive, perché sovrapponibili nelle richieste e negli studi contattati -. Oltre ai 14 con citazione diretta ci sono poi tre indagati a cui gli stessi fatti sono contestati in un altro filone del processo. Si tratta dell' ex presidente Lorenzo Rosi, dell' ex dg Luca Bronchi e dell' ex vicepresidente Alfredo Berni: il primo è imputato per bancarotta fraudolenta, gli altri due sono stati già condannati con rito abbreviato rispettivamente a cinque e a due anni. Il padre di Maria Elena Boschi finisce invece a processo per la prima volta nella vicenda del crac di Etruria. Lo scorso ottobre la sua posizione era stata infatti archiviata nel filone relativo alla mancata fusione di Etruria con la Popolare di Vicenza, mentre all' inizio dell' anno era stato archiviato, sempre insieme ad altri amministratori dell' epoca, dall' accusa di falso in prospetto riguardo a comunicazione date ai risparmiatori per sottoscrivere alcuni prodotti. Proprio pochi giorni fa, anche alla luce di queste buone notizie, Maria Elena Boschi aveva colto l' occasione dello scandalo della Popolare di Bari per tornare sulle vicende del padre: "La mia famiglia ha pagato un prezzo altissimo e ingiusto. Mio padre è stato massacrato mediaticamente e ha subito vari procedimenti, ma la sua posizione è stata archiviata su tutto sinora. Resta un procedimento ancora in piedi e la Procura ha chiesto l' archiviazione anche per quello". Troppo ottimismo, perché in realtà Pier Luigi Boschi chiude l' anno con la citazione a giudizio per le consulenze che si aggiunge a un'altra indagine effettivamente ancora in piedi. Si tratta di un filone dedicato alla maxi liquidazione da 700 mila euro andata all' ex dg Luca Bronchi nel 2014, per cui sono indagate dodici persone. Entro qualche settimana è atteso il giudizio del gup Piergiorgio Ponticelli, che dovrà decidere se mandare un'altra volta a processo Boschi senior.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 23 agosto 2020. Ogni tanto […] Etruria Boschi comunica […] che suo padre è stato assolto da tutto. Poi frigna perché nessuno chiede scusa. […] è noto che […] i renziani hanno della verità un concetto piuttosto elastico. Ma […] il babbo martire resta imputato per bancarotta, rinviato a giudizio il 29 dicembre con altri 13 ex dirigenti per le consulenze milionarie concesse per trovare un partner a Etruria […] E Bankitalia lo ha già multato per la mala gestione di Etruria, che è ormai un fatto assodato, a prescindere dagli eventuali reati. […] le polemiche sul caso non riguardavano aspetti penali […] Ma - per il padre - il disastro gestionale e - per la figlia - il conflitto d'interessi, che lei negò alla Camera nel dibattito sulla mozione di sfiducia, smentendo sdegnata di essersi mai occupata della banca paterna. Poi purtroppo in Commissione Banche vari testimoni la sbugiardarono […] aveva incontrato il vicedirettore di Bankitalia, Panetta; il presidente di Consob, Vegas; il n. 2 di Unicredit, Ghizzoni; e aveva partecipato a un vertice con il padre, il presidente di Etruria, Fornasari, e l'ad di Veneto Banca, Consoli. Quindi, se c'è qualcuno che deve scusarsi per qualcosa, sono proprio i due Boschi. Lui per avere così ben gestito la banca che mandò sul lastrico migliaia di risparmiatori (uno si suicidò). Lei per le panzane che raccontò al Parlamento e continua a raccontare ai cittadini […] 

Il caso. «Io un intoccabile. E voi siete morti, leghisti di merda». Il renziano Librandi contro la Finanza. Il deputato di Italia Viva, che ha donato 800 mila euro alla fondazione Open, lo scorso luglio ha minacciato alcuni finanzieri che erano entrati nella sua azienda per una normale verifica fiscale. «Io lavoro, non come voi che non fate un cazzo dalla mattina alla sera. Chiamo il prefetto e vi faccio sbattere fuori». Diversa la versione dell'onorevole: «Hanno violato la Costituzione». Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian il 16 gennaio 2020 su L'Espresso. C'è il rischio che Gianfranco Librandi da ora in poi possa essere scambiato per il clone moderno del marchese del Grillo. Il protagonista del film di Mario Monicelli che, arrestato in una bettola dai soldati di papa Pio VII, viene subito liberato da un solerte commissario: «Mi dispiace: ma io so’ io, e voi non siete un cazzo», chiosava il nobile minacciando il povero gendarme che aveva osato far rispettare la legge: «Hai visto? E mo’ so’ cazzi tuoi...». A leggere le relazioni segrete della Guardia di Finanza su una verifica fiscale nell’azienda del deputato di Italia Viva, sembra essere di fronte a un Alberto Sordi redivivo. Lo scorso 24 luglio, ai militari che iniziavano una normale ispezione fiscale nella sua azienda elettronica da oltre 200 milioni di fatturato l’anno, Librandi ha infatti spiegato che lui «lavora, non come voi che non fate un cazzo dalla mattina alla sera, pago le tasse e quindi anche il vostro stipendio». Poi ha insultato chi comandava l’operazione («un leghista di merda»). E, dopo essersi definito un «intoccabile», l’onorevole ha annunciato che uno dei militari non avrebbe più percepito la pensione. Salutando i finanzieri che facevano il loro lavoro con un definitivo: «Siete morti». Ma cosa ha scatenato l’ira funesta del deputato renziano? Andiamo con ordine, partendo dall’inizio. Librandi non è un peones qualsiasi: ex garzone di una panetteria a Saronno e poi operaio di quinto livello della vecchia azienda di tv Ultravox, è un self made man. Fondatore trent’anni fa di una grande società di componentistica per l’illuminazione, la Tci Telecomunicazioni Italia, da qualche anno s’è buttato anche in politica. Ex berlusconiano, Librandi ha finanziato per anni partiti di destra e sinistra per centinaia di migliaia di euro: nel 2017 risultava tra i dieci donatori più generosi, quasi mezzo milione distribuito un po’ a tutti. Nel 2013 è riuscito ad entrare lui stesso in Parlamento tra le file di Scelta civica. L’esperienza nel movimento creato da Mario Monti dura però poco. Il saronnese passa presto nel Gruppo Misto e poi, folgorato da Matteo Renzi, nel 2017 entra nel Partito democratico. Che ha lasciato qualche mese fa, seguendo il suo leader preferito nell’avventura di Italia Viva. Sconosciuto ai più, Librandi è finito agli onori delle prime pagine dei giornali solo qualche settimana fa. Quando l’Espresso ha scoperto che il parlamentare è il più munifico tra i tanti finanziatori della fondazione Open, l’ente renziano su cui sta indagando la procura di Firenze. Una segnalazione sospetta di Bankitalia sui conti correnti di Open segnala infatti come Librandi tra febbraio 2017 e giugno 2018 abbia donato ben 800 mila euro all’organismo un tempo guidato da Alberto Bianchi. Ricchi bonifici emessi attraverso la Tci, proprio l’azienda al centro della verifica fiscale che risulta ancora in corso. A marzo 2018 Renzi, allora segretario dei democrat, candidò il primo finanziatore della sua fondazione per una poltrona alla Camera, piazzandolo in una confortevole circoscrizione lombarda. «Ci sono imprenditori che si comprano la barca o i cavalli, io investo su Matteo», s’è giustificato Librandi sul Fatto Quotidiano. Come mai l’onorevole e la sua srl finiscono nel mirino del nucleo di Varese? A causa di altre segnalazioni della Banca d’Italia. Che evidenziano una serie di anomalie su cui i finanzieri decidono di vederci chiaro. Sia sull’utilizzo della carta di credito aziendale (Librandi, amministratore delegato, «utilizza soventemente il conto corrente della stessa società per prelevare denaro contante al fine di versarlo successivamente sul proprio conto corrente»; solo tra giugno 2016 e giugno 2017 ci sarebbero prelevamenti per circa 137 mila euro). Sia su alcune operazioni finanziarie e immobiliari, connesse al rientro di capitali dalla Svizzera: gli investigatori evidenziano come circa 800 mila euro arrivati dall’estero siano stati infatti usati dalla Tci Telecomunicazioni per l’acquisto di due appartamenti a Saronno e a Porto Cervo, mentre altri 3,5 milioni (provenienti da un conto presso l’Ubs Ag) siano stati investiti per riscattare un leasing immobiliare. Non solo: la Guardia di Finanza spiega che l’azienda, specializzata in led, risulta proprietaria di un ingente patrimonio immobiliare valutato 44,5 milioni di euro a bilancio, e che la srl di Librandi nell’ultimo decennio non è mai stata sottoposta a «un’ispezione fiscale generale», ad eccezione di una visita mirata da parte dell’Agenzia dell’Entrate per l’anno 2012, riguardante solo i cosiddetti “prezzi di trasferimento”. Le nuove segnalazioni di Bankitalia, dunque, facevano propendere per una «verifica extraprogramma». Una procedura standard, interpretata però da Librandi come un affronto inaccettabile. La mattina del 24 luglio 2019 i finanzieri si presentano a sorpresa ai cancelli aziendali, come vuole il regolamento. Bussano alla porta della grande sede centrale di Saronno (300 dipendenti, segnala il sito on line dell’azienda), e a quella degli uffici commerciali di Milano e di Roma. Leggendo le relazioni di servizio, i militari segnalano come, «in considerazione della carica pubblica rivestita», Librandi veniva subito avvisato della loro presenza. In modo da evitare di ispezionare i locali eventualmente usati per le sue attività parlamentari. Il renziano, quando riceve la telefonata, è in Commissione Finanze, a Montecitorio. Appena capito che i militari si trovavano nella sua azienda perde le staffe. «Il dottor Librandi con tono alterato» scrive la Finanza riassumendo i fatti «incalzava il maggiore Pirrazzo dicendogli che, vista la sua assenza, doveva andare via e tornare solo quando lui fosse stato presente. Che stava commettendo un abuso di potere e che i militari non potevano occupare un’azienda che lavora senza prima avvisarlo». Quando il finanziere prova a spiegargli che l’ispezione può essere tranquillamente svolta senza la presenza del rappresentante legale della srl, il deputato, «esasperato», esplode. «Non ha capito, ve ne dovete andare... lei pagherà le conseguenze di quello che sta facendo violando le leggi. Ora chiamo i generali e le faccio vedere io se sta facendo bene! Andrà a finire male», si legge in una prima relazione di servizio. Mentre il maggiore tenta di convincere il deputato di Italia Viva a moderare toni e parole, Librandi lo incalza ancora: «Ve ne dovete andare! Non ha capito, io sono onorevole, e sto in Commissione Finanze ha capito? Ora chiamo il prefetto e la faccio sbattere fuori». I militari, però, non possono andar via. Chiedono a Librandi chi, in azienda, possa aiutarli ad avere la documentazione contabile richiesta, e a seguire le varie operazioni ispettive. L’imprenditore non si contiene: «Lei non ha capito, voi ve ne andare e tornate quando sarà possibile perché state violando i miei diritti e intralciando la mia attività di parlamentare. Io non mi faccio assistere da nessuno... lei ne pagherà le conseguenze... le farò causa e le farò pagare le conseguenze dell’occupazione militare che ha fatto questa mattina nei miei uffici di Saronno... io sono intoccabile, avete violato i miei diritti garantiti, io le avevo detto di tornare venerdì perché oggi erano presenti anche dei clienti tedeschi... Ci divertiremo in tribunale, vedrà. Mi saluti i suoi amici leghisti». Parole virgolettate nel documento protocollato il giorno dopo, il 25 luglio 2019, e firmato da tutti i militari intervenuti alla sede della Tci Telecomunicazioni di Saronno. Mentre il maggiore Pirrazzo avvertiva dell’accaduto il comandante provinciale di Varese, il generale Marco Lainati, Librandi si precipitava negli uffici romani della srl, dove altri tre finanzieri, guidati dal tenente Cerra, erano arrivati da una ventina di minuti. A leggere una seconda relazione di servizio, alla vista dei militari Librandi prima «si rifiutava di stringere la mano ai finanzieri che si presentavano intenti a rappresentare i motivi dell’intervento». Poi partiva nuovamente lancia in resta: «Io lavoro, non come voi che non fate un cazzo dalla mattina alla sera, pago le tasse e anche il vostro stipendio». Nonostante gli investigatori avessero cominciato a perlustrare solo gli spazi che una collaboratrice di Librandi aveva indicato come adibiti ad uso aziendale, l’onorevole faceva subito presente che la palazzina di quattro piani era «prevalentemente adibita all’attività parlamentare», e che dunque avrebbe «denunciato gli operanti per abuso di potere ed “estorsione”». Secondo la Guardia di Finanza, Librandi «inveiva contro i verbalizzanti asserendo che non avrebbe fornito il proprio documento richiesto per l’identificazione, che il tenente Cerra probabilmente a causa delle operazioni in corso non avrebbe percepito la pensione, che gli operanti avrebbero potuto considerare finita la propria carriera professionale pronunciando le parole “siete morti”». Per l’onorevole la verifica fiscale sarebbe stata in realtà una vendetta politica: «Il maggiore Pirrazzo sarà un leghista di merda», dice. Secondo i finanzieri mandati nella Capitale le invettive continuano per tutta la durata della tentata ispezione: quando Librandi scopre che una sua collaboratrice aveva rilasciato dichiarazioni in sua assenza (poi messe a verbale dai militari) va nuovamente su tutte le furie, spiegando che quanto scritto era del tutto falso. «Il Librandi sosteneva che la stessa era una “dipendente parlamentare” in ragione di un contratto. Alla richiesta di un documento che lo dimostrasse, l’onorevole urlava “Fuori, andate via, aria! Fuori da casa mia!”, indicando la porta d’uscita ai sottoscritti i quali, dopo aver tentato invano e con toni assolutamente pacati di riportare la calma, evidentemente persa dall’onorevole, procedevano a lasciare l’edificio». Finita qui? Neanche per sogno. Due giorni dopo il deputato consegna alla Finanza una sua dichiarazione scritta. In cui dà la sua versione della vicenda. Una relazione firmata da altri quattro dirigenti della Tci presenti durante l’ispezione in Lombardia. Il racconto è totalmente diverso rispetto alle ricostruzioni dei finanzieri: Librandi descrive il loro intervento alla stregua di un blitz bellico. «Il 24 luglio i militari irrompevano in azienda in nove, come all’assalto, creando il panico generale, al punto che gli stessi militari si compiacevano dello stato di agitazione e timore dicendosi tra loro “li abbiamo militarizzati”», scrive l’imprenditore candidato da Renzi. «Entravano senza titolo nel Laboratorio Progetti, causando la sorpresa e il blocco della attività... Impaurendo i dipendenti ed asserendo suggestivamente di avere il potere di controllare ed acquisire i computer e i telefoni personali». In pratica violando l’articolo 68 della Costituzione sull’immunità dei deputati, e svolgendo «l’incarico con supponenza ed invasività tali da indurre in forti preoccupazioni» i dipendenti. Librandi ammette di aver annunciato al telefono al maggiore Pirrazzo la volontà di rivolgersi «ai generali suoi superiori, a lui ben noti come persone ragionevoli, per verificare se i suoi comportamenti - oltre a violare l’articolo 68 della Costituzione - non rispettassero i diritti dei cittadini presenti, in tema di privacy e altro». Ma in tutta risposta, secondo l’onorevole, «il maggiore chiudeva la telefonata, gridando che lui non voleva sentire ragioni e “mi sono stancato di lei”». Nella dichiarazione, Librandi si lamenta anche della scelta da parte dei finanzieri di sigillare un armadio in azienda, «contenente carte istituzionali del deputato e documenti suoi personali», oltre che di atteggiamenti «intimidatori», di un verbale finale «ridondante ed unilaterale che comunque non può essere firmato perché non corrispondente alla realtà dei fatti». Insomma, per il deputato l’accertamento tributario s’è trasformato «in una incomprensibile mancanza di rispetto verso i dipendenti di un’azienda che paga milioni di imposte, che garantisce centinaia di posti di lavoro e che recentemente ha sostenuto una verifica dell’Agenzia delle entrate durata un anno e superata senza rilievi». Parole gravi, che sono state confutate dalle controdeduzioni della Finanza, dove si sottolinea come nove militari sono un numero più che congruo per un’ispezione fiscale in una sede con «tre buildings di due piani l’uno» e uffici con oltre 200 dipendenti. E che gli agenti hanno subito chiesto, una volta giunti nella sede societaria, di avvertire il titolare ed amministratore delegato. Inoltre, sottolineano, che la richiesta reiterata da quest’ultimo «di tornare in un’altra occasione, quando lui fosse stato presente, non poteva essere accolta in quanto non contemplata dalla normativa vigente». In effetti la circolare della Guardia di Finanza del 2018, in merito alla lotta all’evasione e alle frodi, evidenzia l’ovvio: la verifica fiscale in un’azienda o in uno studio professionale necessita di «un effetto sorpresa», in modo che nessuno possa sottrarre o occultare documenti utili all’ispezione. E che ogni accesso «è un atto amministrativo di natura autoritativa»: i finanzieri hanno tutto il diritto dunque di entrare e restare, «anche senza o contro il consenso di chi ne ha le disponibilità», nei luoghi in cui si immagina possano esserci elementi utili all’accertamento. Il marchese del Grillo si sentiva, nella Roma papalina di inizio ’800, al di sopra della legge. Fosse vero quanto scritto dai Finanzieri, al netto dell’esito della verifica fiscale della Tci che non ha subito finora alcun rilievo, Librandi sarebbe un suo degno epigono. Un paradosso, per un deputato che più volte ha chiesto rispetto e solidarietà per «le forze armate che ogni giorno mettono a repentaglio la propria vita per difendere la sicurezza dei cittadini». Ma che rischiano - quando toccano gli interessi di potenti che si considerano intoccabili - di prendersi insulti e pesanti minacce.

Xylella, Lezzi accusa ministro Bellanova: distrae 40 mln fondi per Gal suo segretario. Bufera in aula durante la discussione sulla manovra. Lega: se vero, fatto grave. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Dicembre 2019. «L'attuale ministro dell’agricoltura avrebbe predisposto il piano di rigenerazione a sostegno dei territori colpiti da xylella. Non l’ho letto ma le indiscrezioni ci danno cattive notizie che mi auguro vengano prontamente smentite». Lo scrive su Facebook l’ex ministra per il Sud, Barbara Lezzi sottolineando che «quei 300 milioni che stanziai per questo provvedimento devono arrivare agli agricoltori, piccoli e grandi. Devono arrivare a quelle persone che non hanno più lacrime per piangere, che sono nella totale disperazione perché impossibilitati a produrre e di conseguenza non hanno reddito». «È tutto importante. Lo è la ricerca, lo sono i GAL e i distretti agroalimentari - prosegue Lezzi - ma questa volta gli unici destinatari devono essere quegli uomini e quelle donne con i calli alle mani che hanno reso fino ad ora il Salento una meravigliosa distesa di ulivi. Si deve dare una risposta concreta per ripristinare la produzione e il paesaggio. Le risorse di cui sto parlando, annunciate a Lecce anche dal Presidente Conte che prese impegni precisi con gli agricoltori, devono essere destinate alle sole aree infette. Così prevede la legge. Peraltro, se è vero che l’attuale ministro abbia intenzione di «distrarre» dagli agricoltori 40 milioni di euro a favore di GAL e DAJS è bene precisare che il suo segretario particolare ne è amministratore. Non va affatto bene. Per niente bene. Basta giochini - conclude -. Gli agricoltori sono stati abbandonati per anni e molti di loro sono ormai in preda allo sconforto più totale. Prima di tutto venga la responsabilità».

SASSO (LEGA); SE VERO, FATTO GRAVE «Se così fosse, ci troveremmo dinanzi a un fatto molto grave. I soldi che il governo di cui faceva parte la Lega furono stanziati per l'emergenza xylella in Puglia, devono andare agli agricoltori pugliesi, che non hanno più nemmeno gli occhi per piangere, e non agli amici degli amici. Che il Ministro Bellanova smentisca la sua collega di maggioranza, o si dimetta». Lo dichiara il deputato pugliese della Lega Rossano Sasso.

Andrea Ducci per Corriere.it il 24 dicembre 2019. Il via libera definitivo alla legge di Bilancio per il 2020 richiede una maratona notturna, dopo l’esame di oltre 400 ordini del giorno presentati dalle opposizioni, che contestano all’esecutivo di avere compresso i tempi di approvazione, al punto da minacciare un ricorso alla Consulta. A rallentare i lavori è anche il duro scontro tra M5S e Italia Viva, con l’attacco alla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova. Al centro della polemica, i fondi destinati ai territori colpiti dalla xylella previsti dal piano di rigenerazione. Risorse che, sottolinea su Facebook la senatrice 5 Stelle Barbara Lezzi, ex ministro per il Sud, «devono essere destinate alle sole aree infette. Peraltro — attacca — se è vero che l’attuale ministro abbia intenzione di “distrarre” dagli agricoltori 40 milioni di euro a favore di Gal e Dajs (“Gruppo d’azione locale” e “Distretto agroalimentare di qualità Jonico Salentino”, ndr) è bene precisare che il suo segretario particolare ne è amministratore. Non va affatto bene. Per niente bene». Le opposizioni attaccano con il capogruppo della Lega, Riccardo Molinari: «Vorremmo che il ministro Bellanova venisse in Aula a spiegarci, perché il fatto attiene alla Legge di bilancio ed è di una gravità enorme». Accuse senza fondamento, replica il ministero delle Politiche agricole. «Chi stasera dal Movimento 5Stelle o dalla Lega nell’Aula della Camera o attraverso dichiarazioni stampa ha fatto insinuazioni sui fondi per le attività sviluppate nel Piano per la rigenerazione olivicola della Puglia attraverso i Gal o con i contratti di distretto dovrebbe sapere, per averlo condiviso in prima persona, che il piano approvato nel febbraio 2019 firmato dal Ministro Centinaio e frutto di concertazione già prevedeva interventi attuati attraverso i Gal e fondi nazionali per il contratto di distretto Xylella, rivenienti peraltro in parte dall’ultima legge di bilancio del Governo Gentiloni. Misure rimaste nel nuovo Piano per continuità amministrativa e con le stesse identiche finalità». Ma la nota non si ferma, e accusa direttamente Lezzi: «Si comprende la sua attitudine, dalla siderurgia alla Tap, di buttarla in caciara, provocando danni serissimi al territorio e nella percezione della realtà nell’opinione pubblica. Ma c’è un limite a tutto». Nel pomeriggio il governo aveva ottenuto la fiducia alla Camera, con 334 voti a favore e 232 contrari. Nella manovra da quasi 32 miliardi di euro ci sono lo stop all’aumento dell’Iva e delle accise, le microtasse su plastica e bevande zuccherate, l’aumento della tassa sulla fortuna, il bonus befana con gli incentivi per i pagamenti elettronici, il lancio di un «Green new deal» e il taglio del cuneo fiscale per i redditi da lavoro dipendente medio-bassi. Il gettito atteso delle micro tasse si è via via ridotto rispetto a quanto indicato nelle scorse settimane. Per le auto aziendali l’aumento della tassazione, dopo le prime ipotesi e lo scontro nella maggioranza, è quasi azzerato.

Il M5s inchioda la Bellanova: "Soldi al Gal del suo segretario". La ministra renziana ha distratto 40 milioni dai fondi per gli agricoltori colpiti dalla xylella al gruppo del suo segretario. Scoppia la polemica. Sergio Rame, Lunedì 23/12/2019, su Il Giornale. Scoppia un'altra grana nella maggioranza giallorossa. Il Movimento 5 Stelle si è, infatti, scagliato contro il titolare dell'Agricoltura Teresa Bellanova. Al centro della polemica, come ricostruisce anche l'agenzia Adnkronos, ci sono i fondi destinati ai territori colpiti dalla xylella previsti dal piano di rigenerazione. Risorse che, come sottolinea su Facebook la senatrice grillina Barbara Lezzi, dovrebbero "essere destinate alle sole aree infette" ma che la ministra renziana vuole di "distrarre dagli agricoltori". Ben 40 milioni di euro stanno, infatti, per finire nelle casse del Gruppo d'azione locale (Gal) e del Distretto agroalimentare di qualità Jonico Salentino (Dajs) il cui amministratore è segretario particolare della Bellanova stessa. "Non va affatto bene - chiosa la grillina - per niente bene". Nel post pubblicato su Facebook, che ha fatto esplodere una bagarre impressionante in Aula, la Lezzi precisa che quei 300 milioni di euro che lei stessa aveva stanziato per questo provvedimento, quando era ministro per il Sud, "devono arrivare agli agricoltori, piccoli e grandi. Devono arrivare a quelle persone che non hanno più lacrime per piangere, che sono nella totale disperazione perché impossibilitati a produrre e di conseguenza non hanno reddito". Quindi aggiunge: "È tutto importante. Lo è la ricerca, lo sono i Gal e i distretti agroalimentari ma questa volta gli unici destinatari devono essere quegli uomini e quelle donne con i calli alle mani che hanno reso fino ad ora il Salento una meravigliosa distesa di ulivi. Si deve dare una risposta concreta per ripristinare la produzione e il paesaggio". Interpellato dai cronisti dell'agenzia Adnkronos per commentare il post della senatrice pentastellata, il segretario particolare del ministro, Cosimo Durante, presidente del Gal Terra d'Arneo, non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Ovviamente le accuse alla Bellanova ha aperto l'ennesima frattura nella maggioranza che sostiene l'esecutivo Conte. La deputata salentina del M5S, Soave Alemanno, si è comunque detta certa che "il ministro vorrà rivedere la ripartizione dei fondi operata" e di non destinare più quei 40 milioni di euro a favore del Gal e del Dajs. "In un momento tanto critico e difficoltoso - conclude l'esponente grillina - c'è urgenza di responsabilità". Ad attaccare il ministro di Italia Viva, però, non ci sono solo gli alleati di governo, ma anche le opposizioni. A partire dagli uomini di Matteo Salvini. "I soldi che il governo di cui faceva parte la Lega furono stanziati per l'emergenza xylella in Puglia, devono andare agli agricoltori pugliesi, che non hanno più nemmeno gli occhi per piangere, e non agli amici degli amici", tuona il deputato pugliese della Lega, Rossano Sasso. "Che il Ministro Bellanova smentisca la sua collega di maggioranza, o si dimetta". Durante la discussione della legge di Bilancio alla Camera, il capogruppo della Lega Riccardo Molinari chiede immediatamente un chiarimento da parte del governo giallorosso perché quanto denunciato dalla Lezzi è "un fatto gravissimo" dal momento che ipotizza una "accusa di un reato". "Stiamo discutendo della manovra di Bilancio, stiamo parlando di risorse e quindi che la Bellanova venga a chiarire è del tutto pertinente, prima di votare la legge di Bilancio". La Bellanova preferisce, tuttavia, affidare al dicastero che dirige la replica alle accuse mosse dai Cinque Stelle bollandole come "offensive" e prive del "benché minimo fondamento". "Chi le fa dovrebbe sapere, per averlo condiviso in prima persona, che il piano approvato nel febbraio 2019 firmato dal ministro Centinaio e frutto di concertazione già prevedeva interventi attuati attraverso i Gal e fondi nazionali per il contratto di distretto Xylella, rivenienti peraltro in parte dall'ultima legge di bilancio del governo Gentiloni", si legge nella nota diffusa in serata. Queste misure, continua il documento, sono "rimaste nel nuovo Piano per continuità amministrativa e con le stesse identiche finalità". "Si comprende l'attitudine della senatrice Lezzi di buttarla in caciara, provocando danni serissimi al territorio e nella percezione della realtà nell'opinione pubblica - conclude - ma c'è un limite a tutto".

Teresa Bellanova è il panzer di Italia Viva: Matteo Renzi la manda avanti nelle risse giallorosse. Alessandro Giuli 14 Gennaio 2020. Teresa Bellanova non è affatto buona ed è appunto per questo che Matteo Renzi ha deciso di metterla alla guida della delegazione governativa del suo nuovo partito, Italia Viva. È lei che partecipa agli estenuanti tavoli negoziali della tragicomica maggioranza giallorossa; è lei a impugnare la clava quando Luigi Di Maio e i suoi accoliti mettono in discussione i capisaldi del welfare renziano, a cominciare dalla difesa del Jobs act («vogliono tornare al Novecento!»); ed è sempre lei a tenere sotto pressione l'esecutivo sui provvedimenti bandiera del Conte 1.0: la quota cento e il reddito di cittadinanza varati nella spericolata stagione gialloverde. Di suo Bellanova sarebbe ministro dell'Agricoltura, nota com'è per le sue storiche battaglie contro il caporalato e soprattutto per via delle sue origini da bracciante (ha iniziato a quattordici anni). Il physique du rôle non le fa difetto: rocciosa, energica e ben piazzata come gli ulivi della sua ferace terra salentina; sempre accompagnata dal sorriso soddisfatto di chi sembra avere appena schiaffeggiato un rivale incontrato lungo la via. In Bellanova, nel suo eloquio assertivo e nelle sue movenze spicce, percepisci subito i limiti e le virtù millenarie dello strapaese (Ceglie Messapica, fra le colline carsiche del brindisino) che nella terra del rimorso si è fatta gilda sindacale e Quarto Stato in marcia verso l'ascensore sociale.

COMUNISTA SOTT'OLIO. E lei è appunto questo: comunista all'olio d'oliva, tessera Cgil agroindustriale, poi operaia tessile, un ingresso in politica nei primi anni Duemila dalla via maestra della sinistra pugliese: la corrente diessina di Massimo D'Alema. Scarpe nuove e cervello fino. Di lì in poi il romanzo di formazione della nostra Teresa, deputata dal 2005 a oggi, prende una direzione sempre più istituzionale fino a incontrarsi, anzi a scontrarsi dapprima con il suo futuro leader di riferimento: Renzi. Anno 2012, il bullo di Rignano comincia la sua personale battaglia contro l'apparato della Ditta e lei lo osteggia, mettendosi a guardia dell'ortodossia laburista con la faccia cattiva e il pugno chiuso. Ma durerà poco, giusto il tempo che Pier Luigi Bersani completi il proprio suicidio politico (elezioni 2013) e la Bellanova, devota allo spirito del tempo, cede al corteggiamento renziano con uno spettacolare testacoda: meglio avere le idee giuste nel modo sbagliato - deve aver pensato - che restare coerentemente dalla parte del torto.

NUOVA MUSA. Ed eccola dunque, nel 2014, sottosegretaria al Lavoro e poi viceministro allo Sviluppo economico nel governo gigliato con il temerario compito di gestire il percorso parlamentare della riforma che porterà alla riscrittura dello Statuto dei lavoratori, all'abolizione dell'articolo 18, al culto delle tutele crescenti in assenza del posto fisso. Ed è così che la ragazza che si fece da sola diventa l'inamovibile biglietto da visita della Leopolda, novella Musa del «merito come qualità di sinistra». I nemici le danno subito della rinnegata convertita al verbo bocconiano ma lei, la contadina che ce l'ha fatta, terza media e via a lavorare, scrolla le spalle tornite continuando a solcare il Transatlantico con il piglio del latifondista inveterato. Un po' come l'antico arbitro Lo Bello faceva sui campi di gioco nelle sontuose descrizioni lasciateci da Gianni Brera. Ci sarà una ragione, pertanto, se la Bellanova è anche la donna-immagine del renzismo crepuscolare che si affaccia in televisione con l'improntitudine di sempre. Sa di cosa parla quando deve esternare, regge il conflitto con tenacia matronale, aggredisce i temi del dibattito pubblico con l'esperienza della veterana. E sa imporsi non senza una dose di studiata civetteria, riconoscibile ad esempio nei vestiti prescelti per il giuramento del governo ribaltonista, con tutte quelle balze blu che hanno offerto il destro alle solite truculente contumelie social alle quali la nostra Teresa ha replicato con indifferenza ("#vestocomevoglio") o con altre provocatorie mise a pois, indossate con la voluttà di un'orgogliosa scazzottata cromatica. Soltanto lei, insomma, per spessore e carattere, poteva reggere il confronto con Madonna Boschi dalle braccia candide, la dea del renzismo al suo zenit. Ma se Maria Elena irradiava un'inaccessibilità vertiginosa e letale, da Teresa promana un effluvio di bonomia dispotica che l'avvicina ai mortali, e rende dunque più pericoloso contrariarla.

LA CORAZZATA. Della sua presenza nell'attuale compagine giallorossa ancora non si colgono tracce destinate a futura e indelebile memoria (il grattacapo dei dazi americani sui prodotti agricoli è ancora lontano da una soluzione e la ministra dovrà presto riferirne in Parlamento). Ma in fondo il suo ruolo non è quello di andare in avanscoperta per tracciare sentieri rivoluzionari: Bellanova è la divisione corazzata che intimidisce i pulcini a Cinque stelle e protegge le retrovie d'Italia Viva dalle cattive coscienze ritorsive dei democratici di Nicola Zingaretti. Tanto basta. E avanza pure.

Alessandro Giuli

Lorena Loiacono per leggo.it il 30 maggio 2020. Tra le ministre maggiormente prese di mira dagli haters sui social, c’è Maria Elena Boschi. La foto ritoccata di lei che giura al Colle, con la biancheria in vista, che cosa le provocò?

«Sicuramente fu il battesimo di fuoco. Mi ha fatto male vedere quell’immagine falsa di me, a ritrarre proprio il momento più importante: quella foto venne ripresa anche all’estero, come se fosse vera».

Come reagì?

«Con determinazione. Al di là del dolore iniziale, ho sentito il bisogno di dimostrare che non contava il mio aspetto fisico né l’abbigliamento che avevo scelto, che poi non era niente di particolare. Contava il mio impegno. È come nelle arti marziali: sfrutti l’aggressione per trarne il tuo punto di forza».

Intorno a lei?

«Purtroppo ne risentirono anche i miei famigliari, gli consigliai di cancellarsi dai social o almeno di non leggere tutte le offese. Altrimenti ti fai del male».

Il suo non è l’unico caso...

«No, assolutamente. E non ci si deve abituare: questi attacchi arrivano a tante donne, diverse tra loro e di diversi partiti. Non sottovalutiamo questi messaggi negativi perché vengono presi come modello da replicare. Rischiamo di allontanare le ragazze dalla politica».

Come si risolve?

«Sostenendo le donne, permettendo loro di arrivare nei ruoli apicali in politica come nel lavoro. Così le persone si abituano. Dobbiamo pensare alle nuove generazioni».

Ai giovani?

«Da ministra alle pari opportunità ho inserito nel piano anti-violenza anche la formazione nelle scuole. Ci sono state campagne di sensibilizzazione molto efficaci: basta trovare la persona giusta che sappia parlare ai giovani, con Francesco Totti ad esempio fu un successo: i ragazzi ascoltano i loro idoli».

·        I Comunisti contro il Comunista Renzi.

Le avventure di Formigli e Travaglio, è arrivato Fazio! Redazione de Il Riformista il 24 Dicembre 2019. Che ne arrivasse un altro, ce lo dovevamo aspettare. A Travigli e Formaglio, lo sapete, si era aggiunto l’altro giorno la terza persona della trinità, e cioè Damagliovigli, direttore dell’Espresso, raccoglitori di clamorosi scoop e che aveva scoperto che anni fa Renzi curò una trasmissione televisiva. E forse questo è un reato. Comunque è uno scandalo. Ora c’è un quarto che bussa alla porta. Ma i tre lo hanno scacciato, per due motivi: primo perché una trinità composta da quattro persone non si è mai vista. E poi perché guadagna troppo. Prende dalla Rai uno stipendio tale che potrebbe comprarsi la casa di Renzi due volte all’anno. Senza prestiti. E loro sono invidiosi. Stiamo parlando di Fazzaglio Damigli (di origini nobili, con doppio cognome, anche se gli amici lo hanno soprannominato Fabio Fazio) che l’altro giorno ha fatto un’intervista in Tv (Rai) al suo concorrente (della Sette) Travigli, appunto, per permettergli di sparare su Renzi e sulla sua villa, e di tacere, invece, sul proprio appartamento, pare lussuosetto; anzi, non di tacere ma di elevare indignate proteste per il fatto che qualcuno, amico di Renzi, ne aveva scoperto l’esistenza. Ora, lasciamo perdere il fatto che non si usa in molti paesi del mondo intervistare in Tv un collega giornalista della rete concorrente, e che se la racconti all’estero, una cosa del genere, nessuno ti crede; ma c’è un dettaglio ulteriore: l’agente che organizza il lavoro di Travigli è lo stesso che organizza il lavoro di Fazzaglio Damigli. Non ci credete? E invece è così. Ma non c’è nessuna norma sul conflitto di interessi che impedisce qualcosa del genere in Rai? No non c’è. L’agente si firma Beppe Caschetto, ma in realtà all’anagrafe risulta che si chiami Caschettaglio. Corrado, Marco Marco Caschettaglio.

Matteo Renzi, ecco perché i compagni e la sinistra lo detestano. Giuseppe Basini su Libero Quotidiano il 25 Dicembre 2019. C' è qualcosa che corrode all'interno della sinistra italiana, che la agita e dissolve fin dalla sua nascita ed è il rifiuto del riformismo democratico, che risorge ogni volta che essa sembra sul punto di approdare definitivamente alla tolleranza, una sorta di richiamo della foresta che sempre la allontana dalla democrazia liberale nell'ultimo tratto, quando pare che vi stia finalmente per approdare. Prima i socialisti rivoluzionari e i massimalisti, poi i bolscevichi e i comunisti, poi ancora i gruppettari e i maoisti e oggi i giustizialisti insieme a fondamentalisti verdi e terzomondisti, c' è sempre qualcuno nella sinistra, che, alla domanda se si debbano e possano rispettare gli avversari, risponde in teoria sì, però sia chiaro mica tutti. E coloro che invece, sempre nel corpo della sinistra, aderiscono compiutamente alla democrazia e ai suoi valori, vengono isolati e attaccati. Bissolati e Bonomi, Turati e Saragat, Pacciardi e Craxi, sono esempi classici di uomini politici emarginati, quando non violentemente esclusi (e in un paio di casi fu il giovane Mussolini socialista a compiere l' impresa) e oggi l' opera sembra continuare con Matteo Renzi. L'uomo non è certo simpatico, è un po' bullo e un po' Pierino, sembra quasi che alla domanda classica di Totò "siamo uomini o caporali" risponda con entusiasmo caporale di giornata, è accentratore (ne sa qualcosa Calenda) però non è comunista, non lo è mai stato. È certo troppo sbrigativo e impulsivo e la sua riforma costituzionale era uno sbrego, ma io non ce lo vedo Renzi (spero di non sbagliare) a scassare l' economia di mercato o a fare nuove leggi liberticide contro i reati d' opinione e temo che sia proprio per quello che a sinistra lo rifiutino e stiano tentando di distruggerlo. In tutti i modi.

UN PIERINO CAPORALE. La sinistra, anche quella di oggi, lo fa ancora e spesso, almeno quella parte della sinistra che sente come lacerazione impossibile a sopportarsi la separazione dal mito dell' egualitarismo totalitario, per quanti lutti esso possa aver provocato nella storia. Nel caso di Renzi conta certo anche la banale cronaca politica, la concorrenza, il potere, le ostilità personali, ma è difficile sfuggire alla sensazione che al fondo della vera e propria aggressione che mi pare stia subendo, non vi sia la sua emarginazione in quanto "diverso", diverso da una lunga tradizione comunista settaria, che può accettare di essere messa in soffitta, ma non contraddetta. È un problema che sembra tornato d' attualità. Come si spiegano altrimenti le rispolverate tirate antifasciste, che quando erano dirette contro Pella, Scelba o Tambroni erano certo totalmente ingiustificate, ma almeno avvenivano ad una relativa breve distanza dalla fine del fenomeno, mentre oggi hanno un che di surreale, un po' come richiamare Erode o Attila a testimonial dell' attualità politica. Il nemico della democrazia si definisce con concetti generali: dittatura, totalitarismo o altro, ma non con un nome storico come fascismo, perché è come strizzare l' occhio e dire che per altre dittature, da quelle comuniste a quella religiose, il discorso può essere diverso, oppure, per contrasto, che la bonifica delle paludi o l' enciclopedia Treccani, furono negative perché "fasciste".

IL VECCHIO CHE RITORNA. Le Sardine, in questo senso, non sono un fenomeno nuovo, sembrano - e in effetti credo siano - solo il vecchio che ritorna, anche se, come spesso accade nella storia, rappresentano probabilmente non la possibilità di ripetere una vera tragedia, ma solo una farsa. Si capisce però facilmente, come Renzi e i suoi c' entrino poco con sardine, grilli, centri sociali, vecchi sindacalisti, attivisti anti-tav, spegnitori d' altiforni e procuratori d' assalto. I renziani vorrebbero imitare le sinistre di tradizione anglosassone e, anche se questo non è certo un gran pregio, perché il politically correct non è proprio un modello di tolleranza o di democrazia liberale, tuttavia rispetto ai redivivi trinariciuti italiani di guareschiana memoria (chiamiamoli Threenostrilled, per dare anche a loro un tocco di modernità progressista) beh, sono altro e, anche se col cavolo che possono sperare di travestirsi da moderati di centro-destra, questo basta e avanza per farli odiare a sinistra. Non avrei mai pensato di scrivere qualcosa in larvata difesa di Renzi, eppure c' è qualcosa negli attacchi che subisce che non mi convince per niente e allora ecco queste brevi note, ma smetto subito perché preoccupato da questo mio subitaneo attacco di buonismo. Giuseppe Basini

·        Il Calendismo.

Bergoglio, i gesuiti e Calenda. Luigi Bisignani per Il Tempo 8 novembre 2020. Per inzigare sempre con la politica il gesuita perde il pelo, ma non il vizio. È la volta di padre Antonio Spadaro, direttore della rivista La Civiltà Cattolica che punta a portare l’ansiogeno Carlo Calenda in Campidoglio. È una fiction sfiziosa che va raccontata.

Intreccio Palazzo-Vaticano. Parte dall’America Latina e arriva a Palazzo Chigi, con Nicola Zingaretti convitato di pietra, e ‘Giuseppi’, tristemente orfano di Trump, pronto a tutto per restare sulla scena, in modo da poter confermare, contro tutto e tutti, il suo amato Gennaro Vecchione al DIS in scadenza a ridosso della festa dell’Immacolata. L’idea terrorizzante che Matteo Renzi si adoperi per consegnare la sua testa al nuovo Presidente Usa, Joe Biden, così da ambire alla carica di Segretario generale della Nato, non la vuole neanche considerare. Ma tornando ai sacri palazzi, dopo padre Sorge e padre Pintacuda, che durante la Prima Repubblica spaziavano tra mafia e antimafia, favorendo la cosiddetta ‘primavera di Palermo’ il cui beneficiario principale fu Leoluca Orlando Cascio, è oggi il turno, appunto, di un altro siciliano rampante appassionato di cyber-teologia, padre Spadaro, che ama farsi dipingere come “L’uomo che sussurra a Bergoglio”, primo, e molto probabilmente ultimo, Papa proveniente dalla Compagnia di Gesù. Una lunga storia quella dei gesuiti, ordine fondato nel 1534 dall’ex nobile spagnolo Ignazio di Loyola che fece voto di predicare in Terra Santa e di porsi agli ordini del Papa per poi focalizzarsi, con grande successo, nell’educazione cattolica in giro per il mondo, anche se nell’ultimo ventennio Opus Dei e Legionari di Cristo stanno soppiantando quel modello.

Modello Spadaro. Un modello che ha trovato molte resistenze negli ultimi Papi, Montini, Luciani, Wojtyla e Ratzinger, soprattutto per le posizioni sistematicamente antitetiche con la Santa Sede in Italia, in Sud America e in Cina. L’elezione di Bergoglio, che per l’appartenenza alla Compagnia di Gesù per alcuni rappresenta infaustamente il "Papa Nero", sulla carta avrebbe dovuto ridare smalto agli oltre 20 mila appartenenti all’Ordine. Invece sin dal principio, un sottile filo di freddezza si è insinuato, a seguito delle posizioni contrastanti sul presidente del Venezuela Nicolás Maduro, tra l’argentino Bergoglio e il preposito generale dei gesuiti, Arturo Sosa Abascal, un baffuto pacioso venezuelano, sulla strategia da seguire per la pacificazione del paese dell’America Latina. Nel trascorrere del pontificato, la freddezza si è ispessita in gelo, da ultimo accentuato dal ruolo che padre Spadaro cerca di prendersi sognando di fare, prima o poi, il Cardinale a Napoli. Ingaggiato da Monica Maggioni ai tempi della sua direzione di RaiNews24, Spadaro, poco alla volta, grazie anche alle buone relazioni con Giuseppe Giulietti della Federazione Nazionale Stampa Italiana e con Vittorio Di Trapani del sindacato Rai, convince molti a pensare di essere ben piazzato a Santa Marta sfruttando al meglio sia la sua posizione di direttore della rivista gesuita -un tempo voce ufficiale della Segreteria di Stato- che la sua massiccia presenza sui social network. Ma l’ineffabile Calenda che c’azzecca in questo chiacchiericcio Vaticano? C’azzecca eccome. Per una coincidenza di circostanze, padre Enzo Fortunato, funambolico speaker di Assisi, e monsignor Rino Fisichella, sempre più addolorato perché vede la sua porpora più lontana, stanno puntando entrambi su Calenda, in profonda crisi di consensi nonostante gigioneggi ogni tanto in casa di Goffredo Bettini, come Sindaco di Roma.

Gelo di Zingaretti. Mettendo in atto qualche "diavoleria" e con la scusa dell’imminentissimo Giubileo del 2025, per appoggiare la sua candidatura, hanno tirato su una sceneggiata da Conte a Palazzo Chigi, anche alla presenza del Governatore del Lazio Zingaretti, ma senza invitare la “femme fatale” del Campidoglio, Virginia Raggi, che si è giustamente risentita. "Il piccolo lord" dei Parioli pensava di fare bingo, piegando anche il sorridente Zingaretti. Che effettivamente ha sorriso, ma poi se ne è seraficamente fregato. E chissà, magari il primo cittadino di Roma, lo farà proprio lui  visto pure il solito caos del centrodestra. Per Calenda, che si è messo incautamente nelle mani di Spadaro, si direbbe proprio un bello scherzo da prete…Luigi Bisignani per Il Tempo 8 novembre 2020

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 2 luglio 2020. Immagina l'Italia come un labirinto sorvegliato da mostri terrificanti. E quei mostri li abbiamo generati noi, sono dentro di noi. Carlo Calenda, leader di Azione, prende in prestito il titolo del film di Dino Risi per il suo nuovo libro, i Mostri (Feltrinelli). Non gli piace il «ridicolo bluff» della democrazia diretta M5s, «la leadership svogliata» del Pd, il sovranismo della Lega, il renzismo «mastelliano», il populismo dei sindacati, Confindustria «condannata all'irrilevanza», la stampa moribonda. Dell'Italia dice che «siamo il Paese più ignorante d'Europa». Ma ha molte ricette per liberarsi dei «mostri».

Calenda, come li possiamo sconfiggere?

«Con la consapevolezza. Il nostro rapporto con la politica è malato. I decreti sicurezza sono fascisti con Salvini e buoni con il Pd. Non daremmo da gestire un bar a Di Maio ma gli facciamo fare il ministro degli Esteri».

Sostiene che ci sia un finto scontro tra destra e sinistra.

«La destra non è mai stata fascista e la sinistra mai comunista, ma i toni sono quelli di un'altra epoca».

Per lei M5S e Lega sono generatori di caos, ma non di eversione. E Salvini non è un fascista, ma un piazzista.

«Lo abbiamo sperimentato al governo. Tutto questo rumore di sottofondo non ha prodotto una virgola. Il rischio di una deriva modello Orbán c'è. Ma il rischio è alimentato da sinistra: ogni volta che provi una riforma ti dicono che è un colpo di Stato».

Per lei serve un'identità repubblicana.

«La sinistra ha voluto superarla con un'idea sovranazionale, ma ha creato un varco a sovranisti e populisti. "Prima gli italiani" è uno slogan ovvio. Lo prescrive la Costituzione. Perché considerarlo un attacco alla democrazia?»

Sugli immigrati il Pd passa da «dalla beatificazione della Rackete» all'inerzia.

«Perché, dai tempi di Berlinguer, si pone sul piano morale e non politico. Se sei "i buoni" puoi accettare tutto: i decreti Sicurezza, quota 100, la prescrizione. È il meccanismo delle Sardine».

Tra le politiche Pd e Forza Italia non coglie «differenze sostanziali». Li vede bene insieme al governo?

«Certo, è fondamentale che chi si ispira alle stesse famiglie politiche europee costruisca un fronte repubblicano».

Di Renzi ha detto che voleva essere Macron ed è finito come Mastella.

«Ha governato molto bene. Ma non condivido nulla del modo in cui fa politica oggi».

Non si è condannato all'irrilevanza uscendo dal Pd?

«Al contrario, posso fare politica rispettando idee e valori molto diversi da quelli del Pd di oggi».

Lei pare quasi contento della Brexit e vorrebbe fuori Polonia e Ungheria. Perché?

«Se vogliamo fare gli Stati Uniti d'Europa servono pochi Paesi ben integrati».

L'accusano di arroganza. Per la sinistra è di destra, a destra dicono che «disprezza il popolo».

«È il momento di dire le cose di piatto. Quanto all'essere elitario, sono i politici che non danno soluzioni a disprezzare i cittadini».

Come valuta Conte?

«È la persona più distante da me dell'universo. Si arrotola nella retorica, indefinita, magniloquente, vuota. Conte non dice e non decide mai niente».

L'audio su Berlusconi cosa ci dice sulla giustizia?

«Che un pezzo di magistratura vuole moralizzare gli italiani, non perseguire i reati».

Per Crozza è esperto nella nobile arte dei fallimenti.

«Adoro Crozza. Il rischio di fallire non può essere un impedimento a osare. Certo, sarebbe stato più comodo restare nel Pd e fare il controcanto piuttosto che provare a dare una casa ai riformisti».

Si è iscritto a un corso di zumba, come dice Crozza?

«Se non vi iscrivete ad Azione, dovrete sorbirvi video di me che ballo zumba. Non un bello spettacolo».

Scontro Calenda-Meloni: "Parli come al bar", "Arroganza e disprezzo". La Meloni replica alle dichiarazioni rilasciate da Calenda durante "Mezz'ora in più": "Tipico della loro arroganza questo disprezzo per le persone comuni, questo disprezzo per il popolo". Federico Garau, Martedì 23/06/2020 su Il Giornale. Acceso scontro a distanza tra Carlo Calenda e Giorgia Meloni, conseguenza diretta di alcune dichiarazioni rilasciate dall'ex ministro economico nei governi Renzi e Gentiloni a Lucia Annunziata durante la trasmissione di Rai Tre "Mezz'ora in più". "La Meloni in televisione cosa fa? Ripete benissimo quello che sente al bar. E noi elettori, perchè la colpa è solo nostra, che cosa facciamo? Diciamo: 'Uuuh, questa dice le stesse cose che dico io, mò la voto. Non pensando che quella stà lì per proporre una soluzione al problema e non per fare l'eco.", ha attaccato il leader di "Azione". "E finchè la consapevolezza di questo, con l'andare di una situazione che peggiorerà, non entrerà dentro gli italiani, da destra a sinistra, questo Paese si sbriciolerà", ha aggiunto. "Noi dal prossimo anno saremo dipendenti da un Quantitative Easing fatto dalla Bce (Banca centrale europea) fatto solo per noi". Un'uscita, quella dell'ex Dem che ha ovviamente provocato l'immediata reazione del presidente di Fratelli D'Italia, raggiunta telefonicamente da "Rtl 102.5" durante una diretta radio. "Guardi ho letto ieri la dichiarazione di un esponente della sinistra che diceva: "Fratelli D'Italia prende i voti perchè la Meloni parla come si parla al bar", esordisce. "Ed è tipico della loro arroganza questo disprezzo per le persone comuni, questo disprezzo per il popolo. Ci hanno detto che alle nostre manifestazioni venivano solo parrucchieri. Ci hanno detto che noi eravamo ridicoli perchè stavamo nelle periferie". Chi ipotizzava che la querelle si sarebbe chiusa lì, tuttavia, sbagliava, dato che Calenda non ha preso bene la replica della leader di Fdi ed anzi ha voluto ulteriormente calcare la mano, utilizzando la propria pagina personale di Twitter. "Non buttarla in tribuna Giorgia Meloni. La vera arroganza è quella di pensare di poter guadagnare 15.000 euro al mese ma di non essere tenuta a fare proposte realizzabili, mentre ti riempi la bocca della parola popolo". Per poi aggiungere poco più tardi: "In che universo insultare è dire che ripete le cose che sente al bar senza fare proposte? Mi sa che “ignorante e arrogante” assomigliano più al genere insulto O no?". Un dibattito che si è acceso anche nei commenti al di sotto dei post incriminati. "Beh… i suoi ex amici Pd, con cui è stato eletto, con lo stesso stipendio di 15.000 euro al mese e con in più la responsabilità di governo non mi pare che brillino in quanto a propositività. Considero il suo come il richiamo della foresta (piddina)", ha affondato un utente. "Calenda è solo la versione riabilitata di Renzi", attacca un altro internauta. "Gode di stima in tutti gli ambienti ma è un voltagabbana e ipocrita. Diffidate da gente come lui".

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano”  il 20 gennaio 2020. Carlo Calenda sa fare tutto tranne una cosa: la politica. Sa parlare con ottima padronanza (al netto di qualche strascico da romano bene sulla cosiddetta "c dolce" affricata postalveolare sorda: "disciamo"), conosce le lingue straniere e si esprime in un inglese fluente come si addice a ogni manager pubblico e privato (e lui modestamente lo fu per conto di Luca di Montezemolo e per meriti propri), impersona con appassionata veemenza il fenotipo del patriota liberale che ha studiato davvero, ha confidenza con il mondo internazionale, ha un ego piacione commisurato alla sua imponente stazza fisica esibita sui social con autoironia in pose azzardate e bagni lacustri fuori stagione fra cigni stupefatti; è padre da quando aveva più o meno i calzoni corti e ha una numerosa e bellissima famiglia. Insomma possiede tutti i requisiti per essere un fuoriclasse della politica nell' epoca divoratrice della tirannia digitale. E invece niente: quest' anima loquente del buon senso civico ha le idee giuste ma le coltiva nel modo sbagliato, incapace com' è di fare squadra. Lo si nota dal fatto che prima ancora di aderire a un progetto, di regola, lui l' ha già sfasciato a furia di voluttuose scazzottate. Pochi giorni fa ha rilasciato al Messaggero un'intervista che vale come un'epitome della sua traiettoria: «Il governo tira a campare, con Matteo collaboriamo». Perché Calenda è fieramente all'opposizione della squinternata maggioranza giallorossa sorretta con sontuosa paraculaggine dal suo ex amico e premier Renzi, del quale Carlo ha voluto anticipare le mosse scissionistiche creandosi in estate un partito su misura ("Azione") insieme con Matteo Richetti: un modo intelligente per prenotarsi il posto d'onore nel nuovo centro che va prefigurandosi dentro il sistema impazzito di un bipolarismo proporzionalista all' italiana? Lo sappiamo tutti ma è bene ricordarlo: dopo aver servito la Patria in qualità di tecnico per diversi anni e tre governi (Letta, Renzi e Gentiloni), Calenda dal 2019 fa l'europarlamentare con una valanga di preferenze che si è procacciato personalmente sotto le insegne del Partito democratico. Un' affiliazione tempestosa e momentanea, durante la quale il nostro si è subito piazzato nel ruolo del bastian contrario: nemico di ogni richiamo della foresta socialista e sovietizzante. Più renziano di Renzi, si direbbe, tanto che i due si sono sempre pizzicati con asprezza. Per parecchi mesi Calenda non ha fatto altro che rilevare l'incoerenza del suo gemello gigliato, arcinemico dei grillini con i quali infine si è risolto a sgovernare l' Italia in società con Nicola Zingaretti sdraiato ai piedi del finto europeista Emmanuel Macron, di cui Renzi per l' appunto crede di essere l' avatar di Rignano. Ma adesso il ragazzone romano deve aver fatto due conti: con la decomposizione delle vecchie obbedienze di coalizione, l'occasione di mettere su un raggruppamento centrista si fa ghiotta; ma con i sondaggi che circolano 'ndo vado da solo? Già. «A questo terzo polo - ha detto al Messaggero - noi stiamo lavorando con Più Europa. Quanto a Renzi, siamo d'accordo a ragionare su candidati comuni nel voto delle regionali». Rieccoli, dunque: lui, Emma Bonino con la quale aveva flirtato avvicinandole la sua componente piddina "Siamo Europei", e il concorrente necessario Renzi. Stretti in un abbraccio tardivo ma indispensabile per valicare soglie di sbarramento e altre insidie sulla via giusta. Auguri sinceri, incoraggiati dalla possibilità di toccare percentuali a due cifre nel caso in cui ai due galletti liberali e alla matriarca radicale si aggiungano i forzisti berlusconiani, magari guidati dalla principesca Mara Carfagna. Resta il fatto che Calenda ha almeno due progetti in testa contemporaneamente: il centro liberale alternativo alla sinistra più involuta e al sovranismo cruento di Matteo Salvini; la scalata solitaria al Campidoglio dove giace l' ombra molesta di un sindaco impopolare e delegittimato come Virginia Raggi. «Non faccio nomi, ma serve qualcuno che abbia una conoscenza molto profonda e di tipo anche tecnico della Capitale». Non fa nomi, Calenda, ma pensa a se stesso. Altrimenti non avrebbe postato su Instagram, a fine anno, una sua foto da Fori romani corredata da una didascalia inequivocabile: «Annuale pellegrinaggio di tre generazioni di Calenda ai Fori. Centro del mondo e luogo di nascita dell' Occidente. In marcia verso il Campidoglio». Appunto. La verità è che Carlo C. sta bene a mala pena con se stesso. È uno sparigliato a cui piace sparigliare. Ciò nonostante, da lui possiamo attenderci molto. È capace di attaccare Macron senza rinnegare l' europeismo smodato del quale è portavoce ideale; elogia Giorgia Meloni quando lei difende una povera madre nigeriana incresciosamente dileggiata in un ospedale di Sondrio; litiga in televisione, in piazza o su internet con operai furenti e improvvisati politici pentastellati alle prese con la controversa eredità da lui lasciata al ministero dello Sviluppo, vedi le crisi irrisolte dell' Ilva, di Embraco e di Whirpool Insomma è un imprevedibile, irruento, a volte goffo ma sempre autentico nomade della politica costretto a nomadare (cit. Giorgia) dalla sua natura di outsider. Un Boris Johnson capovolto che con alterne fortune si batte per fare grande l'Italia in Europa e proteggerci da noi stessi. Se sapesse anche fare politica con gli altri, sarebbe il numero uno.

Carlo Calenda a ruota libera: “Renzi voleva essere Macron è finito come Mastella. Di Maio e Bonafede incapaci e incompetenti”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Carlo Calenda, deputato europeo, è figlio della regista Cristina Comencini e ha anche recitato da bambino nella miniserie tv Cuore, diretto dal nonno Luigi. Prima e ultima esperienza con il cinema, cui ha preferito le scene della vita pubblica: viceministro dello Sviluppo Economico nei governi Letta e Renzi, è stato rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea nel 2016 e in seguito ministro dello Sviluppo Economico nei governi Renzi e Gentiloni. Ha fondato a fine 2019 il movimento Azione, richiamandosi al Partito d’Azione. Tutti i sondaggi oggi lo danno in crescita. Forse perché non risparmia nessuno.

Fumano i verbali di Magistratopoli. Che impressione ha?

«Mi fanno abbastanza schifo le intercettazioni in senso assoluto e quelle con i trojan particolarmente. A meno che non si tratti di reati di mafia, a mio avviso non dovrebbero essere consentite. Ma al di là di questo, quel che leggo lo sapevo già: da Tangentopoli in poi c’è sempre stato questo rapporto sotterraneo tra politica e magistratura».

Adesso lo vediamo verbalizzato.

«Sì, adesso lo vediamo. Ma sono tutte cose che sapevamo perfettamente. Quel che penso è che in fondo in questi trent’anni di caduta della reputazione della politica, la magistratura ha pensato di salvare la propria reputazione diventando parte dell’attacco alla politica. E in realtà non l’ha salvata, perché anche gli indicatori della fiducia nella magistratura sono in caduta libera».

È almeno un anno che il Csm è in questa crisi.

«E che non si porti avanti una riforma del Csm neanche in queste condizioni fa capire che poi, passata la buriana, tutto rimarrà com’è».

Da cosa deriva questa incapacità della politica?

«C’è un meccanismo di selezione inversa. La politica ha perso l’onore. E poi veniamo da trent’anni in cui c’è stata la subalternità totale all’economia. Troppo spesso le persone più in gamba, soprattutto tra i giovani, escludono di dedicarsi alla politica».

Va reinventata una classe dirigente.

«Una volta tradizionalmente il mondo dell’alta burocrazia e della politica attraeva i migliori tra le nuove classi dirigenti. Oggi li respinge. Il mondo della politica, della burocrazia e persino della magistratura è diventato il ripiego di chi non sa fare altro. Ed è un disastro, capovolge una scala che va ristabilita. Anche perché oggi governare è immensamente più complicato di cento anni fa. Hai i condizionamenti esterni, i trattati internazionali e l’Unione Europea, e la velocità del progresso che spinge a prendere decisioni rapidissime. Aumenta la complessità, peggiora il ceto politico: ne risulta che in tutto il mondo occidentale la democrazia liberale è a rischio».

Siamo una democrazia liberale con intercettazioni a grappolo e fascicoli a ripetizione.

«È una vergogna da Ddr, da Stasi. Purtroppo avallata dal Pd e dai Cinque Stelle che hanno perso – e lo si vede anche sulla questione della prescrizione – ogni componente realmente garantista. E questo è direttamente collegato al fatto che partecipano a questo gioco, dunque sono esposti nei confronti della magistratura. Penso agli incontri che Palamara ha fatto con tutti, da Zingaretti in poi. Perché Palamara deve incontrare Zingaretti? Qual è l’obiettivo di quegli incontri? Io non ho mai incontrato Palamara, e se lo avessi ricevuto gli avrei chiesto perché parlava con me delle nomine sulla magistratura. È una commistione che fa schifo, perché rende la politica ostaggio della magistratura».

Troveremo il vaccino per questo virus?

«Vanno fatte le cose che andavano fatte da tanto tempo. Vietare ai magistrati in aspettativa di fare politica: penso a Michele Emiliano per esempio. Prevedere la rigida separazione tra le due carriere e anche tra due organismi di autogoverno, perché è evidente che il Csm è governato dai Pm, e dunque l’indipendenza della magistratura governante è puramente teorica. Misurare con chiarezza la produttività della magistratura, non con le cosiddette archiviazione a tampone. Oggi archiviano i procedimenti a suon di scatoloni, e quelli continuano a risultare provvedimenti gestiti. Tutto questo è una rivoluzione copernicana che va fatta, ma che può essere fatta solo da chi ha comportamenti etici inappuntabili, perché sennò dopo sette secondi sappiamo tutti quello che succede: escono fuori tue intercettazioni in cui tu parli di tua moglie…»

La giustizia rimane uno dei grandi freni per il sistema-Paese?

«Certo che sì. Guardiamo la vicenda Ilva: noi abbiamo dovuto fare lo scudo penale che proteggeva dalla magistratura l’investitore che rispettava il piano ambientale approvato dal governo. In quale altro Paese dell’universo una norma del genere è necessaria? E ovviamente questo sta determinando il fatto che sono tutte condizioni di eccezionalità. Per avere uno sviluppo normale, devi avere protezioni eccezionali dell’attività pubblica o dell’attività privata».

Vale anche per la pubblica amministrazione? Va riformato l’abuso d’ufficio?

«Sono dell’avviso che vada cancellato. Come il traffico d’influenze. Via dall’ordinamento. Dobbiamo ristabilire un principio: i comportamenti eticamente sbagliati non costituiscono per definizione un reato. Ti puoi comportare male e sei esposto a un giudizio pubblico, ma non per questo sei esposto a un giudizio penale. Perché il comportamento sbagliato può non piacere, ma non essere un reato. Altrimenti sei uno Stato etico».

Siamo già ben avviati.

«Stiamo diventando uno Stato etico, come nella tesi di Davigo. «Gli Italiani, corrotti nell’anima, vanno messi in galera». Quanti più possibile. Io non sono d’accordo che siano corrotti nell’anima, ma anche se fosse, alla magistratura non deve interessare: devono occuparsi di reati. Se c’è un problema di condotta, lo si vincerà sul piano dell’istruzione e dell’educazione, non mettendo tutti in galera».

Invece siamo alla cultura del sospetto.

«Sospetto preventivo su tutto, con la conseguenza di fermare il Paese. Il modello del ponte di Genova, che poi sarebbe un esempio di normale funzionamento, è diventato così esemplare perché tutto il normale meccanismo è diventato un assurdo. Chiunque partecipa a un appalto oggi è trattato come un ladro. Poi però se andiamo a vedere le condanne, non ce ne sono. Dunque il giustizialismo non porta neanche a un fatto di repressione di reati. No: funziona solo come discussione ideologica priva di contenuto. L’idea che tutti commetteranno reati è un’idea kafkiana, una follia. Ed è esattamente il sistema di Davigo, che ha dentro la presunzione che ogni magistrato è retto e onesto, il che è una gran cazzata. Perché io sono retto e onesto più di Davigo. E non ho bisogno che Davigo mi spieghi che cos’è la correttezza e l’onestà».

Lei no, ma Davigo ha tirato su Bonafede.

«Bonafede è quel che è. Ma non è lui il mio problema. Il problema è chi ha consentito che Bonafede rimanesse lì, da Renzi al Pd. Non dobbiamo domandarci perché il Movimento Cinque Stelle, che è la più grande aggregazione di incapaci e incompetenti esistente, abbia messo Bonafede alla Giustizia o Di Maio agli Esteri. Il problema è chi consente loro di fare i ministri: il Pd e Iv. Perché hanno paura di non riuscire altrimenti a vincere la sfida del governo. Sono codardi. E la codardia è cosa che comporta la costruzione di obbrobri. Nella storia è sempre stato così: quando tradisci i tuoi valori perché hai paura di andare in mare aperto, sei destinato a perdere e costruisci mostri. E questo governo è una mostruosità».

Qualche fibrillazione per la verità c’è stata in questi giorni. Sugli Stati Generali evocati da Conte.

«Ma quello è solo un fumogeno che viene lanciato: ogni volta che il governo è in crisi si inventano una vaccata che non serve assolutamente a niente. Quello che serve è mettere a posto le garanzie, la Cassa integrazione, le cose che fino a oggi non hanno funzionato. Poi si parla di quelle che ci saranno da fare. Ma nella vita se tu non metti a posto le cose che non funzionano, non sei titolato dal punto di vista della credibilità a parlare di quelle che farai. È un principio di base dell’azione umana che si applica anche alla politica. Ma il problema anche qui non è Conte, il problema è di chi gli va dietro, dai giornali ai partiti teoricamente riformisti».

Vede un problema di stampa compiacente?

«Vedo la Fiat con i gruppi editoriali che controlla. La Rai, che è pubblica e governativa. E qualche gruppo privato che sostiene l’azione di governo. Questo è anche normale. Quello che non fa invece parte della democrazia liberale è il non tener conto delle azioni che si fanno. Io vado in televisione e cerco di portare i numeri sulla Cassa integrazione, analizzo dei quadri, dati alla mano. A Conte e Di Maio chiedono opinioni vaghe, generiche. Domande aperte, risposte fumose. Nessuna replica. Non va: la democrazia funziona se tutte le componenti svolgono il loro lavoro. Politica, media, giustizia, burocrazia, sindacati devono fare ciascuno il proprio lavoro. Se tutto questo cessa perché i singoli pezzi non funzionano più nel rapporto con gli altri, la democrazia crolla».

A proposito di numeri precisi, ArcelorMittal mette fuori 3300 dipendenti.

«(Sospira) È l’unico caso nella storia dell’uomo dove un contratto vincolante, concluso, dopo una gara europea che prevede 4.2 miliardi tra investimenti e prezzo; il divieto di fare licenziamenti, e che viene rispettato alla virgola, viene smontato attraverso la revoca dello scudo penale in piena crisi dell’acciaio. Penso che non sia una cosa commentabile, perché nessun demente potrebbe fare una cosa del genere in nessuna parte del mondo. Noi non ci ricordiamo che nel giugno 2019 ArcelorMittal disse: «Se ci levate lo scudo, ce ne andiamo». E a settembre hanno levato lo scudo. E dopo avergli levato lo scudo hanno fatto un altro accordo, peggiorativo, che ovviamente non sta tenendo perché non ha nessun elemento vincolante. Con l’accordo che io avevo firmato, Mittal non avrebbe potuto dichiarare un solo esubero. Perché per ogni esubero dichiarato avrebbero dovuto pagare 150mila euro. Questo era il contratto firmato con me. Il nuovo governo lo ha stracciato e ne ha firmato uno con Patuanelli. Cosa prevede questo contratto sugli esuberi? – mi chiedo. Temo di saperlo. Niente. Perché questi non hanno mai gestito un bar nella loro vita. E non possono gestire un Paese, perché gestire un Paese è maledettamente più complicato che gestire un bar. Uno che fa una cosa del genere è un irresponsabile. Ma lo ripeto, il problema non è dei Cinque Stelle, che sono un branco di disperati. Il problema è del Pd e di Italia viva che se lo erano inventati, lo scudo penale. Era una norma voluta dal governo Renzi».

Ce l’ha proprio con Matteo Renzi.

«Voleva fare Macron, ha finito per fare Mastella. Si è trasformato. Oggi è una persona capace di fare un compromesso su qualunque valore, e lo abbiamo visto con Bonafede. Ha fatto sceneggiate per un posto di qualunque genere. Perché questo è il succo della questione. Non è un riformista, è semplicemente un populista come tutti gli altri. Poi racconta la “mossa del Cavallo”. Un continuo cazzeggio, insopportabile. Tanto più che Renzi è stato a mio avviso uno dei migliori premier che questo Paese abbia avuto e forse il più riformista. Vederlo ridotto in questo modo a me fa piangere il cuore. Ha distrutto non solo se stesso ma la legacy di un governo».

C’è chi invoca l’amnistia: non solo per ragioni umanitarie ma anche per rimettere in efficienza la macchina della giustizia.

«Non sono d’accordo. Perché vanno depenalizzati alcuni comportamenti, facendo in modo che si vada in galera di meno e solo quando c’è una pericolosità sociale. Si privilegino pene alternative, i domiciliari in tutti i casi possibili. E si costruiscano nuove carceri, più moderne, decorose, a fini rieducativi. Ma non possiamo ogni volta avere un problema di carceri e fare l’amnistia. I cittadini devono sapere che lo Stato punisce chi va punito e se non ci sono posti sufficienti, via ai cantieri per costruirli».

Si rende necessario anche un percorso di riforma dei codici e delle procedure.

«Quello che vedo nella riformite italiana è che spesso si fanno riforme che peggiorano la materia. O tu hai una chiarezza di orizzonte politico, o è meglio non fare niente. Se immagino di mettere la riforma del diritto civile, penale, della procedura penale in mano ai Cinque Stelle, mi tremano i polsi. Ormai lo sappiamo come funziona, su giustizia e legalità decide e comanda sempre e solo Bonafede, con il Pd in sonno e Iv che fa solo cagnara mediatica».

La politica è pur sempre trattativa.

«Tutte cazzate. Com’era la storia che avendo salvato Bonafede Renzi aveva ottenuto… faceva, diceva… Se ci basiamo sui comportamenti passati sappiamo che è una sceneggiata destinata a non avere conseguenze».

Dove vuole arrivare Azione?

«Il mio obiettivo è costruire un solido centro riformista che in Italia manca. Siamo l’unico Paese in cui populisti e sovranisti hanno sottomesso socialdemocratici e popolari. Abbiamo Pd e Forza Italia che governano insieme in Europa, ma in Italia sono sottomessi a Salvini e Meloni da un lato e ai Cinque Stelle dall’altro. Senza una agenda della politica riformista, che attrae socialdemocratici e liberali verso un fronte repubblicano, questo Paese è finito».

Carlo Calenda si confessa in tv: “Ho due figli comunisti”. Fulvio Abbate su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Voglio esprimere la più vera solidarietà a Carlo Calenda, uomo di mondo e politico sincero, del quale in passato ho scritto cose crudeli, assimilandolo a certo costume romano made in Parioli. Scopro ora che due dei suoi tre figli si dichiarano addirittura “comunisti”. In verità, va riconosciuto al nostro un tratto di generosità e di ironia affatto comuni nel contesto pubblico politico, compresa una disponibilità a duellare perfino con i più insolenti haters dietro al Convento delle Carmelitane di Twitter, addirittura a dispetto dell’ambito antropologico dal quale l’uomo giunge, figlio della scrittrice e regista Cristina Comencini, assimilabile, quest’ultima, all’assenza di ironia segnatamente veltroniana, in nome e per conto della “vocazione maggioritaria” che ha trasformato la sinistra capitolina in un deserto. A onor del vero, ho sempre associato, chissà perché, Carlo Calenda al non meno residenziale quartiere Trieste, parrocchia di San Saturnino, residenza di professionisti, notai, avvocati, professori universitari, giornalisti titolati, registi, presidenti della Repubblica già in servizio presso la Banca d’Italia; mobilia di ciliegio e radica, lauree honoris causa, feluche di ambasciatori, dorsi in marocchino fregiato d’oro della “Treccani”, compresi gli aggiornamenti, alle spalle di scrivanie imperiali di palissandro… Un’esistenza munita di prenotazione obbligatoria, la carta da visita in carattere “grisato” o, come pronunciano altrove, “baronale”. Sembra però che il destino abbia voluto punire Carlo Calenda, assodato, come ho detto, che due ragazzi su tre gli sono venuti “comunisti”. Parole sue: «Il figlio maggiore è comunista e fa propaganda in famiglia. Il fratello per le elezioni della scuola e la sua lista ha disegnato un logo rosso con un pugno al centro e la scritta “Rivoluzione continua”». Un notevole contrappasso per chi voglia farsi carico di un progetto politico liberal-riformista, munito di un logo che reca il semplice motto “Azione”. Cioè l’altrove rispetto al costume scoreggione e scosciato tra gricia e carbonara che, pensando ai tempi dei “forchettoni” e dei Tanassi e perfino dei Berlusconi, potremmo definire socialdemocratico-cristiano. Ho semplificato, è chiaro, ma spero di avere dato l’idea della persona. Scoprire ciò che Calenda ha confessato a Luca Bottura mi suggerisce, se non raccapriccio, un sincero bisogno di esprimere vicinanza a Carlo nostro, forse perché anch’io, da ragazzo e in parte anche da adulto, lo sono stato, in anni in cui si era addirittura convinti che il potere dovesse essere operaio, facendo trionfare il sentimento resistenziale dello “straccetto rosso” evocato da Pasolini. Oggi invece, a dirla tutta, si fa gran fatica a individuare cosa esattamente significhi l’essere, appunto, “di sinistra”, figuriamoci comunisti, la situazione data non fa ben sperare in questo senso. Forse, che i figli di Calenda sognino la dittatura del proletariato, l’abolizione della proprietà privata, il soviet, Marco Rizzo al Quirinale? O forse, più semplicemente, giustamente, umanamente, in nome della discontinuità, sono votati al sentimento della rivolta? Se così fosse, qualcuno dovrebbe spiegargli che la rivolta, più che marxista, è un sentimento libertario, come illustrato da Camus, un bisogno molto dissimile dall’idea di rivoluzione…Nel dire questo, torna in mente Woody Allen, Il dittatore dello stato libero di Bananas, dove il capo rivoluzionario, il mattino del giorno dopo la presa del potere, dà di matto imponendo l’obbligo a tutti di indossare la «biancheria intima non più sotto bensì sopra i vestiti». Per quanto esilarante, quest’esempio dà la misura esatta di ciò che altrove Rosa Luxemburg denunciava come involuzione autoritaria. Dico così perché molti di noi, anzi, io stesso, sono stato addirittura maoista, sognavo la rivoluzione culturale tra la via dei Laghi e il ristorante “L’Antico Girarrosto” (sul tema ho perfino scritto un romanzo, Quando è la rivoluzione, provando a riflettere sull’assenza di laicità nelle imprese assolute), peccato che allora venne nessuno a dirci che molte nostre convinzioni erano davvero deliranti, ottuse; assai grave invece che persone più grandi di noi (nel 1971 avevo 16 anni), come Alberto Moravia e il regista Marco Bellocchio, ci spiegavano che agitando il libretto rosso di Mao saremmo stati tutti presto più radiosi, felici e perfino liberi. Per queste semplici ragioni, senza volere mettere in discussione la tolleranza pedagogica manifestata da papà Carlo rispetto alle scelte identitarie dei suoi ragazzi, il cuore mi ha suggerito il bisogno di scrivere queste righe accorate. Se solo ne conoscessi i nomi, mi rivolgerei direttamente alla sua prole, in assenza di questa informazione, aggiungo che il tempo può portare a provare umana simpatia politica perfino per Aleksandr Kerenskij, il capo del governo provvisorio, l’artefice della rivoluzione russa di febbraio, posto che con il decantato ottobre rosso di Lenin, giunto a Pietrogrado convinto di sé sul suo treno blindato, arriveranno le amarezze e il disincanto. L’ho già detto che Carlo Calenda ha tutta la mia più sincera vicinanza?

·        Emanuele Macaluso.

Macaluso: “Battersi per i più deboli è una vita ben spesa”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 29 Aprile 2020. «Una sinistra che è ancora tale non deve avere paura, vergogna, della sua storia, delle sue battaglie, dei principi di giustizia sociale e di progresso che ne hanno ispirato l’azione. Battersi per l’uguaglianza, per il lavoro, per difendere e ampliare i diritti sociali e di cittadinanza, ecco tutto questo lo racchiudo in una parola, nobile, alta: socialismo». Novantasei primavere di lucidità e coraggio. Emanuele Macaluso, grande vecchio della sinistra, mantiene intatte energia, lucidità, passione politica che l’hanno guidato in tutta la sua lunghissima esperienza politica. Una esperienza che ha attraversato il secolo scorso e si proietta, con articoli e riflessioni che lasciano ancora oggi il segno, ai giorni nostri: la Sicilia dei braccianti, (fu lui a parlare a Portella della Ginestra il Primo Maggio del 1948, l’anno dopo la strage mafiosa, e l’anno scorso, a 95 anni è voluto tornare a parlare nel luogo dove la banda di Salvatore Giuliano sparò contro la folla uccidendo 11 persone), Togliatti che lo chiamò a Roma, la Guerra Fredda, la direzione dell’Unità ai tempi di Enrico Berlinguer, una vita assieme a Giorgio Napolitano nella corrente migliorista. Il Riformista, di cui è stato anche direttore lo ha intervistato e, per chi scrive, è stata una esperienza emozionante.

Biagio De Giovanni ha sostenuto sulle colonne di questo giornale che la sinistra potrà avere un futuro solo se saprà inventare nuove vie all’uguaglianza, lontane dal socialismo. Massimo Salvadori, sempre su “Il Riformista”, ha sostenuto, invece, che fuori dalle socialdemocrazie, non c’è spazio per l’uguaglianza. Lei pensa che nel Terzo Millennio, socialismo sia un concetto, una parola, un orizzonte ideale e politico da archiviare per una sinistra che vuole rilanciarsi?

«Io penso di no. Penso che la battaglia di una sinistra che è sinistra, è l’uguaglianza. Una battaglia per i diritti, per il lavoro. Tutte battaglie che il socialismo ha espresso, portato avanti, non solo nel secolo scorso, ma anche nell’800. Si tratta di un patrimonio incancellabile, e dico questo non perché nostalgico del tempo che fu, ma perché la società di oggi, se non ci fosse stata questa forza, sarebbe stata diversa, e non certo migliore. Guai a dimenticarlo. Le prime battaglie laburiste per un sistema sociale più equo, più solidale, più attento e attivo verso le fasce più deboli della popolazione, sono battaglie che iniziarono con Turati e sono tutte cose che non possono, che non devono essere dimenticate. I grandi leader della sinistra sono stati tali perché hanno sempre pensato e agito tenendo in conto gli interessi nazionali e delle classi lavoratrici. Una sinistra degna di sé non ammaina bandiere gloriose e attuali come sono quelle della Resistenza e della Liberazione. Da questo seme sono nate poi nel ‘900 le grandi battaglie della sinistra, e in Italia anche con il Pci che, a mio avviso, esercitò una funzione socialdemocratica. Basti pensare cosa siano stati i Comuni amministrati dalla sinistra, cosa è stata l’Emilia Romagna dove il Pci ha rappresentato una forza fondamentale con una funzione socialdemocratica, con la costruzione di un sistema sociale straordinario. Pensiamo agli asili per i bambini, all’assistenza per gli anziani, al servizio sanitario pubblico… Pensiamo anche al ruolo progressista che a Milano ha svolto l’amministrazione socialista. Ritengo che questa forza è stata essenziale, e che ha contribuito fortemente alla modernizzazione e al progresso dell’Italia».

Cosa rappresenta il “nuovismo” a sinistra e per la sinistra?

«Il nuovismo a sinistra è stato una grande deviazione. Il nuovismo non ha nulla a che fare con la sinistra. Il nuovismo non è sinonimo di progresso, ci sono forme di nuovismo reazionario».

In questo tempo segnato da una crisi pandemica globale, da più parti si è detto e ripetuto che dopo il flagello del Coronavirus, niente sarà più come prima. Cosa significa questo per lei?

«Guardi, a certi slogan io ci credo poco. Nulla sarà più come prima se ci saranno forze politiche e sociali che faranno sì che davvero nulla sarà più come prima. Non sarà la pandemia in sé a determinarlo. Se guarisci dalla malattia non è detto che per questo diventi una persona migliore. Una sinistra degna di questo nome non deve aver paura o incertezza nell’affermare che non siamo tutti uguali davanti al virus. Il miglioramento può avvenire solo da un attivismo sociale di forze che si muovono in un orizzonte di progresso. Ma che ciò accada, specie in Italia, è tutt’altro che scontato. In questo sfortunato Paese possono vincere anche forze di destra, e una destra reazionaria, della peggior specie. Sottovalutare questo pericolo sarebbe esiziale».

Guardando non solo al nostro Paese ma all’Europa, c’è il rischio che ad affermarsi sia un sovranismo ultranazionalista?

«Questo pericolo c’è, ma c’è anche una consapevolezza nelle forze più mature, non solo progressiste, che l’affermarsi di una economia che regga in questo mondo globalizzato, non può essere garantito dal sovranismo ma dall’Europa. Noi parlavamo dell’attualità del socialismo. Ebbene, io sono fermamente convinto che il socialismo del Terzo Millennio o è europeista o non ha futuro. Se tra gli Stati Uniti e la Cina, i grandi competitori mondiali, ci saranno solo Paesi europei disuniti, ciascuno di essi sarà solo una pedina nello scacchiere dominato da Washington e Pechino. Se vuoi contare davvero c’è bisogno di una Europa più unita, che non sia solo una moneta ma che abbia più poteri statuali, altrimenti con l’America e la Cina non ci sarà partita. Se l’Europa non va verso una federazione, con un esercizio unico del potere, a cominciare da campi cruciali come quelli fiscale, economico, sociale, con una economia sempre più integrata, se non si muoverà, con decisione, rapidità e condivisione d’intenti, in questa direzione, l’Europa si autocondannerà a un inesorabile declino. Nessuno si salva da solo».

In questa ottica e dentro questo orizzonte deve dunque muoversi il socialismo del Terzo Millennio e la sinistra?

«Assolutamente sì, ma per farlo la sinistra deve ripensarsi. Di certo non può più vivere di rendita, perché questa rendita non esiste praticamente più. Guardiamo alla Francia, e a cosa si è ridotto quello che con Francois Mitterrand è stato un grande partito: il partito socialista. In Italia c’è il Pd e null’altro, ma non mi pare che sia una forza sufficiente per esercitare un ruolo incisivo in Europa. In Grecia, è tornata a governare la destra, c’è la Spagna, con un premier socialista, e il Portogallo, con un governo socialista… Sono cose importanti, certo, ma non sufficienti per poter sostenere che nel Vecchio continente spiri un vento socialista…»

Lei ha attraversato la storia della sinistra per una vita. E ancora oggi, i suoi scritti vengono letti da tanti giovani. Ecco, se oggi dovesse dire in poche parole a un “millennial” italiano cosa è il socialismo e perché vale ancora la pena di battersi per quei principi che l’hanno ispirato, che parole sceglierebbe?

«Gli direi: guarda cosa è questo Paese, il tuo Paese oggi, quello in cui stanno crescendo sempre più le diseguaglianze, guarda come crescono le povertà. Noi abbiamo un processo gravissimo di impoverimento, e ritengo che questo sia dovuto anche alla scarsa forza della sinistra. E quando mi riferisco alla sinistra non penso solo ai partiti, alle forze politiche, ma anche a fondamentali corpi intermedi sociali, come il sindacato. Il sindacato, la Cgil, che pure ha un bravo segretario come Landini, deve fare di più per estendere e radicare la propria rappresentanza. Pensiamo ai migranti, un nuovo proletariato, persone, lavoratori che vengono sfruttati nella raccolta dei pomodori, costretti a vivere in condizioni disumane, alla mercé di caporalati e di padroni senza scrupoli. A costoro, e a chi continua ancora a chiudere gli occhi di fronte a questa tragica realtà, io vorrei gridare loro: miserabili, che avete fatto! Ai migranti che lavorano nei campi, o che badano alle persone anziane, devono essere garantiti dignità, diritti, cittadinanza. Devono essere regolarizzati, perché sono persone inserite e inseribili nel mondo sociale e civile di questo Paese. A un giovane d’oggi direi questo: battersi per i più deboli è una vita ben spesa».

·        Ritratto di Giorgio Gori.

Solidarietà a Giorgio Gori contro il metodo giornalistico dell’olio di ricino. Piero Sansonetti su Il Riformista il  8 Luglio 2020. Prendere un avversario politico e linciarlo, usando la stampa, è una pratica molto conosciuta in tutti i regimi autoritari. È usata anche nei regimi democratici da parte di quei giornali che vengono chiamati , nel comune linguaggio, i giornali spazzatura. Negli Usa, per esempio, ce ne sono molti di questi giornali, ma non godono di nessuna considerazione. Magari hanno anche molti lettori, ma l’opinione pubblica sa perfettamente cosa rappresentano – uno svago, una caduta di stile legittima, un momento di trivio – e non li prendono sul serio. Neppure i loro lettori li prendono sul serio: li leggono così, per svago, per sussultare, per immaginare se fosse vero. L’Italia è un paese un po’ speciale da questo punto di vista. Ha la stampa meno autorevole dell’Occidente e tra le meno autorevoli del pianeta. In Italia non si fa nessuna differenza tra informazione di qualità e informazione spazzatura. Tra notizie, analisi, gossip e linciaggio. Ieri un giornale a grande tiratura, e tra quelli che sono considerati i maggiori giornali italiani, ha compiuto una di queste operazioni di linciaggio. La vittima scelta è Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo. Colpevole di avere pronunciato una battuta spiritosa intervenendo nella querelle sulle scissioni o non scissioni aperta nel partito democratico. Gori aveva ironizzato su una frase di Orlando («senza le ultime tre scissioni saremmo primo partito») ricordando a Orlando che senza la scissione del 1921 (nascita del partito comunista) chissà dove sarebbe arrivato il Psi. Che era un po’ come dire, più profanamente, “se mia nonna avesse avuto le rotelle sarebbe stata un tram”. Ha ragione Gori? Ha ragione Orlando? Non so. Il problema è che quel giornale del quale vi parlavo è intervenuto nella polemica definendo Giorgio Gori “Giorgio Covid”. Associando il suo nome a quello della malattia che ha travolto la sua città e in buona parte anche l’Italia. È solo un problema di linguaggio? Sì, certo, linguaggio e metodo giornalistico. Il linguaggio è quello di Farinacci (che magari alcuni di voi non sanno chi sia, un giorno ve lo spiegherò) il metodo giornalistico è quello dell’olio di ricino. Piena solidarietà a Giorgio Gori. Non vi dico chi sia l’autore dell’articolo al quale mi riferisco, né quale sia il suo giornale. Tanto, anche se non lo sapete, lo avete già capito.

Giorgio Covid di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano del 7 Luglio 2020: Si pensava che, dopo il notevole contributo offerto ad alcune delle peggiori catastrofi nazionali dell’ultimo trentennio – dal berlusconismo al renzismo al Covid19 – il sindaco di Bergamo Giorgio Gori si sarebbe preso una lunga vacanza dalle esternazioni. Almeno da quelle in cui, da cotanta cattedra, insegna agli altri cosa dovrebbero e non dovrebbero fare. Invece niente: si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio. Infatti lui continua a pontificare come se niente fosse. Ora, per dire, dopo aver contribuito al fianco dell’Innominabile a trascinare il Pd al minimo storico del 18% nel 2018, s’è messo in testa che il partito debba cambiare segretario. Cioè far fuori Zinga che, fingendosi morto, è riuscito nella mission impossible di riportarlo oltre il 20%, malgrado le scissioni di Italia Viva e Azione (detta anche Calenda). O forse proprio per quelle. Che Gori sia rimasto berlusconiano, cioè renziano, lo dimostra il prudentissimo pigolio con cui commentò l’uscita più forse invereconda (tra le mille) dell’Innominabile durante il lockdown, quando il suo spirito guida, grande sponsor della riapertura a fine aprile, cioè di Confindustria, non trovò di meglio che chiederla a nome dei bergamaschi morti nella strage da Covid. Lui, anziché mangiarselo vivo come volevano i parenti delle vittime, balbettò che l’uscita era “poco felice, stonata e fuori luogo”, assicurando subito dopo che l’amico Matteo “voleva sottolineare l’attaccamento al lavoro della gente di Bergamo” e nel “pieno rispetto del dolore di queste province”. Resta da capire perché mai, anziché entrare in Italia Morta, si ostini a restare nel Pd e a strillare perché, anziché con B. e Salvini, governa coi 5Stelle. O meglio, si capisce benissimo: Iv un leader ce l’ha, ma gli mancano gli elettori; il Pd invece gli elettori li ha e, per il leader, lui pensa a se stesso, fra quattro anni quando gli scade il mandato da sindaco, o anche prima. L’età pensionabile, per i politici, è pressoché eterna. E lui ha appena 60 anni, ma ne dimostra molti meno. È come Umberto Agnelli nel ritratto di Fortebraccio: “Sembra un bambino cresciuto soltanto dal collo ai piedi, la faccia gli è rimasta quella degli omogeneizzati”. Un giovane-vecchio con idee decrepite, che abbraccia sempre fuori tempo massimo: ora, per dire, è blairiano e clintoniano, quando Clinton e Blair nei rispettivi paesi non mettono più il naso fuori di casa. Ergo il sindaco al Plasmon piace molto a Confindustria, che a Bergamo regna e governa in condominio con la Curia: infatti l’anno scorso chi comanda nella città alta e in quella bassa fece sì che la Lega candidasse una scartina per non disturbare la sua rielezione. L’altro giorno il vicesegretario Orlando nota che il Pd è a 5 punti dalla Lega e, senza le due scissioni, sarebbe pari. Apriti cielo. Siccome i sondaggi dimostrano che fece malissimo l’nnominabile nel 2018 a opporsi al governo col M5S, Gori replica al posto degli scissionisti: “Pensa il Psi: se nel ’21 non avesse subito la scissione di Livorno, a quest’ora dove stava”. Una scemenza assoluta: la dannazione scissionista della sinistra italiana la conoscono tutti i progressisti, dunque non Gori, la cui fama lo precede. Negli anni 80 è uno studente craxiano. Il che gli spalanca le porte di Bergamo Tv e poi della Fininvest (che le ingloba): nel 1989, a 29 anni, è capo dei palinsesti di tutte e tre le reti del Biscione, mobilitate l’anno seguente nella campagna pro legge Mammì. Nel ’91, a 31 anni, è direttore di Canale5, dove rimane fino al 2001, salvo due anni a Italia1. Sotto la sua guida, l’ammiraglia berlusconiana si batte come un sol uomo nel ’93 contro la regolamentazione degli spot (“Vietato Vietare”). Nel ’94 è il megafono della discesa in campo di B.: dagli spottini pro Forza Italia di Mike, Vianello, Zanicchi&C. ai programmi-manganello Sgarbi quotidiani e Fatti e Misfatti di Liguori, specializzati nel killeraggio dei nemici del capo (Montanelli in primis). Nel ’95 il Canale5 goriano spara a zero contro i referendum per mettere un freno agli spot e un tetto antitrust al gruppo (come ordina la Consulta). Nel 2001 il marito di Cristina Parodi si mette in proprio e fonda Magnolia, produttrice di format televisivi e fornitrice di Rai, Mediaset, La7 e Sky. Che lascia ai soci nel 2011 per darsi alla politica nel Pd al seguito dell’unico pidino che piace a B.: l’Innominabile. È Gori il regista delle prime Leopolde (da solo o in tandem con Martina Mondadori, membro del Cda della casa editrice di famiglia rubata con B. a De Benedetti), dove l’amico Matteo promette di rottamare la vecchia Italia prima di diventarne il principale santo patrono. Nel 2014 viene ricompensato con la candidatura a sindaco della sua Bergamo, che però gli va stretta. Infatti nel 2018 corre per la presidenza della Lombardia e riesce non solo a perdere (contro il centrodestra ci sta), ma pure a farsi quasi doppiare da Attilio Fontana (29% a 49%). E torna a più miti consigli nella città natia. Lì intercetta l’ultima disgrazia: il Covid, dandogli una mano a galoppare col famoso appello (a cena con la moglie) “Bergamo non ti fermare!”, anzi tutti in pizzeria, nei negozi e nei musei (“da riaprire”), contro “un clima di preoccupazione che è andato molto aldilà del necessario”. È il 26 febbraio, tre settimane prima delle colonne di mezzi militari in marcia con centinaia di bare. E stare un po’ zitto?

La strategia dinamitarda del sindaco Gori, il cobra che sorride. Francesco Specchia il 28 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Per via dello sguardo guizzante, delle labbra sottili e della gentile spietatezza, quando ancora svettava tra i palinsesti Mediaset, gli americani lo avevano soprannominato “The Smiling Cobra”, il cobra che sorride. Oggi che lo rivedo nella sua morbida scalata al Pd, Giorgio Gori mi ricorda sé stesso una ventina d’anni fa, quand’era il giovane plenipotenziario direttore di Canale 5 adorato e al contempo isolato da Berlusconi dal quale lo differenziava il colore politico, opposto. Gori, classe 60, padano di Bergamo nonché sindaco accreditatissimo della sua città, è l’uomo che ha appena chiesto al suo partito -il Pd, appunto- un «cambio di marcia» deciso, con i democratici non più «accondiscendenti» verso gli alleati 5 Stelle e un nuovo leader oltre Zingaretti che avesse esperienze amministrative e di territorio (requisiti che, peraltro, Zingaretti in teoria già possiede). Praticamente Gori ha, metaforicamente, azzannato al collo il suo segretario buttando lì una battutella fuori tempo ma velenosissima. “Smiling Cobra”, appunto. La reazione è che nel Pd ora sono tutti incazzati: quelli che non avrebbero mai fatto una mossa come quella di Gori e quelli che avrebbero voluto farla prima di lui. Gori è un ex “renziano asimmetrico”, ora uomo di punta di “Base riformista” la spina nel fianco all’interno del Partito Democratico. La sua tendenza a terremotare quella compagine già incasinata di suo fa parte del proprio, subliminale senso dello spettacolo. D’altronde, me lo ricordo quando, direttore di Italiauno, portò l’anarchia dei Simpson in prima serata; e Zingaretti, se lo guardate bene, ha molti punti in comune con l’Homer dei cartoni, specie la riconosciuta mancanza di leadership. Ex architetto, sposato alla deliziosa Cristina Parodi, tre figli, una carriera di giornalista stroncata sul nascere da Vittorio Feltri al quotidiano locale (“era bravissimo ma sentiva solo la campana di sinistra, e in un giornale di provincia non si poteva fare”) e un intuito geniale per i telefilm americani (lanciò negli anni 80 , A-Team), Gori divenne il supermanager della prima tv privata d’Italia. A meno di 40 anni. A meno di 45 anni aveva già toccato il top della carriera; Berlusconi non lo sopportava ma lui era talmente bravo da aumentarsi lo stipendio e divenire illicenziabile. Poi, a un tratto, ci distraemmo tutti; e, nell’arco di una giornata, il Cobra mollò il Biscione e fondò la casa di produzione Magnolia (quella dell’Isola dei famosi). Dopodiché, qualche anno dopo, incamerate diverse decine di milionate di euro di liquidazione, decide, a 50 anni suonati, di dedicarsi al suo pallino giovanile: la politica. Come candidato governatore in Lombardia, Gori ottenne il 29% dei voti venendo sconfitto dal candidato del centro-destra Attilio Fontana al quale ora sta imputando ripetute figura di palta soprattutto durante la gestione della Fase 1 del Covid. Come candidato sindaco venne eletto subito, accontentando i suoi concittadini di destra e sinistra, specie in tema di “autonomia differenziata” (in questo è della scuola Bonaccini che astutamente egli ha candidato segretario Pd). Però, conoscendone la grande ed implacabile visione strategica, ho idea che miri un po’ più in alto. Sparito Renzi (che qualcuno, ritenendone Gori lo spin doctor, definì “il suo capolavoro mediatico” ma si tratta di un falso storico) ossia il padre politico che il sindaco avrebbe dovuto uccidere di lì a poco, Gori si ritrova ad essere la migliore mente della sua generazione. Diciamo, ad essere onesti, che nel partito e fuori non ha una grande concorrenza. E diciamo che se la batte con Franceschini il quale, però, mira direttamente al Quirinale. Sicché, l’attacco allo Zinga da parte del Cobra non ha nulla d’estemporaneo. Tutt’altro. Ricordiamoci che Gori è anche l’uomo che ha portato il Grande Fratello in Italia: la sua tendenza al controllo della situazione ne fa uno stratega formidabile. No. L’assalto allo Zinga fa parte di una precisa strategia per arrivare al cuore del partito e controllarne i battiti, appunto. Ad occhio, vista la situazione e i candidati, ritengo che Gori possa essere pronto anche per fare il premier. Lo sa anche lui. Ma, come tutti i cobra che si rispettino, ora sta fissando ipnoticamente la preda, ad aspettare che faccia la prima mossa…

Ritratto di Giorgio Gori, il figlio del Biscione che salverà la sinistra. Aldo Torchiaro il 25 Gennaio 2020 su Il Riformista. Giorgio Gori, classe 1960, bergamasco e sindaco della sua città, scende in campo per parlare all’intera comunità democratica e non-sovranista. Lo fa col passo felpato di chi sa come muoversi e sa che il momento per farlo, nel caos che s’avvisa nei cieli del centrosinistra italiano, è arrivato.  L’estensore di quello che Il Foglio ha titolato, l’altro giorno, “Manifesto per una nuova stagione”, nella sua vita di stagioni ne ha vissute già due: quella dell’uomo di impresa, cinema e televisione prima; quella da uomo politico poi. E in ciascuna delle due vite ha dimostrato di saperci fare in modo sempre sorprendente e inaspettato. Il suo manifesto politico segna un punto di non ritorno, fa presagire una imminente discesa in campo. Chi lo conosce bene, come l’autore de Il metodo Machiavelli, Antonio Funiciello, non ha dubbi: «Può fare il leader del Pd». «A differenza di altri politici, è una persona in continuo miglioramento, in progressione intellettuale ed anche umana. E non a caso riesce, malgrado sia più introverso che empatico, a convincere gli interlocutori. Una persona con un carisma potente», testimonia Mauro Ferrari, che gli ha curato entrambe le campagne elettorali da sindaco. «Un animale politico che funziona in maniera straordinaria», scandisce un membro del suo staff. Marco Campione, Libertà Eguale, lo ha accolto lo scorso ottobre a Roma in una riunione interna:  «Tanto straordinario da essere umile, ha telefonato con un garbo di altra epoca il giorno prima della riunione, per informarsi. E l’indomani si è seduto tra noi ad ascoltarci e a prendere appunti. Abbiamo capito che era in fase di affinamento. Studiava da leader nazionale». Libertà Eguale, l’associazione riformista a cavallo tra Pd e Italia Viva, non fa grandi numeri ma grandi idee, ed è sempre stata un vivaio di eccellenze. Gli studi veri e propri Giorgio Gori li ha iniziati al liceo classico “Paolo Sarpi” di Bergamo, dove partecipa al gruppo studentesco laico e riformista “Azione e Libertà” che si opponeva al “Collettivo delle Sinistre”. Riformista già in calzoni corti. A 18 anni decide di fare il giornalista e incomincia a collaborare con Radio Bergamo, allora diretta da Vittorio Feltri. Dopo essere entrato come giornalista a L’Eco di Bergamo, ritorna nella squadra di Feltri che ha assunto la direzione di Bergamo-oggi. Qualcosa con il direttore va storto: lo licenzia. E lui si laurea al Politecnico di Milano in Architettura, perché se è uno è poliedrico non ha paura di dimostrarlo. Nel 1980, il giorno dopo il terribile terremoto dell’Irpinia, non sta a guardare. Forma un gruppo di giovani volontari bergamaschi e va a ripulire a mani nude i detriti del comune di Frigento, che nel 2011 se ne ricorderà, conferendogli la cittadinanza onoraria. Nei primi mesi del 1984 Giorgio Gori entra a Rete 4 grazie all’ex compagno di studi Lorenzo Pellicioli, allora amministratore delegato del canale televisivo del gruppo Arnoldo Mondadori Editore. Gori diventa assistente di Carlo Freccero, capo palinsesto della rete, e nell’estate dello stesso anno la rete passa alla Fininvest, all’interno della struttura programmazione. Nel 1988 Gori diviene responsabile dei palinsesti delle tre reti del gruppo di Berlusconi e nel giugno 1991 diventa direttore di Canale 5. Nel giugno 1997 passa alla guida di Italia 1, dove resta fino a maggio del 1999, quando torna alla rete principale di Mediaset, sempre in veste di direttore. È un ragazzo del Biscione, sono gli anni ruggenti di Silvio Berlusconi. Ma è da lì che nasce la forza dell’uomo che può salvare la sinistra italiana. Nella primavera del 2001 un nuovo balzo in avanti: Gori fonda con Ilaria Dallatana e Francesca Canetta la casa di produzione televisiva Magnolia, specializzata in prodotti di intrattenimento e infotainment e che ha come scopo lo sviluppo di format originali per la televisione e per i media interattivi. Nel 2007 Magnolia viene acquisita da De Agostini e successivamente portata in dote alla controllata Zodiak Entertainment. Magnolia cura nelle passate stagioni diverse produzioni per la Rai, Mediaset, LA7 e Sky mettendo a segno numerosi successi televisivi, tra cui spiccano L’isola dei famosi, Piazzapulita, MasterChef Italia e L’eredità. Nel novembre 2011 Gori si dimette da presidente di Magnolia e Zodiak Active, pur rimanendo Consigliere nel Board di Zodiak Media e azionista della società. Il 13 settembre 2012, in virtù della scelta di impegnarsi in politica, ha annunciato le dimissioni da qualsiasi incarico e la vendita di tutte le azioni possedute nella Zodiak, e ha successivamente ceduto la sua quota di partecipazione. Ed ecco che siamo alla seconda stagione di una vita che è tutta un film, o se preferite una serie. Dopo la sua esperienza televisiva si occupa di comunicazione per Matteo Renzi, con il quale il rapporto vivrà un saliscendi. Nel dicembre 2011 si iscrive al Partito Democratico di Bergamo. Nel dicembre del 2012 si candida alle primarie Pd per il Senato nel collegio di Bergamo, ma i tempi non sono maturi: arriva quarto e manca la candidatura per le elezioni del 2013. È un bene, perché si concentra sulla sua città. Decide di candidarsi a sindaco di Bergamo alle elezioni amministrative del 2014, non senza polemiche e con il dissenso dei civatiani. Ottenuto il consenso sul suo nome all’interno del Pd bergamasco, Gori si è confrontato in primarie di coalizione il 23 febbraio 2014 risultandone vincitore con il 58,53% delle preferenze. Al primo turno delle elezioni amministrative del 2014, Gori ottiene 28.288 preferenze (il 45,50%) contro le 26.219 (42,18%) del sindaco uscente Franco Tentorio. Al ballottaggio del 9 giugno 2014 venne eletto sindaco di Bergamo, con il 53,5% dei consensi. Per lui votarono gli scout e i preti, i professori e gli operai, gli imprenditori e i professionisti. «È un renziano senza Renzi», ci sintetizza il capo della sua comunicazione in quella campagna. Che aggiunge: «Un uomo capace di piacere a tutti, trasversalmente, pur rimanendo sempre coerente con se stesso». Bergamo entrava ufficialmente il 3 luglio 2016 anche nel Guinness dei Primati grazie all’Abbraccio delle Mura, iniziativa pensata da Gori per appoggiare la candidatura Unesco delle Opere di Difesa Veneziane, di cui il capoluogo orobico era capofila: oltre 11.500 persone si trovarono sui bastioni delle Mura venete di Bergamo per la catena di abbracci più lunga del mondo. Risultato raggiunto qualche anno dopo, con le Mura veneziane che entrano nel registro del patrimonio tutelato da Unesco. Nel 2016 un sondaggio Index per la trasmissione di LA7 Piazzapulita indicava in Gori il sindaco più amato d’Italia, con fiducia a livelli altissimi, 62,6%. Un record ineguagliato che lo incoraggia a candidarsi per la presidenza della Lombardia.  Verrà sostenuto da tutto il centrosinistra fino a +Europa, ma non basterà. Il 4 marzo 2018 ottiene il 29% dei voti, mentre lo sfidante del centro-destra Attilio Fontana vincerà con il 49%. Entra in consiglio regionale in qualità di consigliere, ma deve optare tra il Pirellone e la sua Bergamo, e segue il cuore. Il 10 aprile si dimette dalla carica di consigliere regionale e il 9 ottobre dello stesso anno si ricandida sindaco. Sostenuto da Pd, +Europa, Italia in comune, Lista Gori e un’altra civica, il 26 maggio 2019 viene rieletto al primo turno con il 55%. I voti assoluti aumentano. Come i timori di chi, al Nazareno, teme di dover fare i conti con lui per il post-Zingaretti. Della vita privata ci interessa il giusto. È dei Gemelli, come Francesco Rutelli. Dopo un primo matrimonio all’età di 25 anni, sposa in seconde nozze la giornalista televisiva Cristina Parodi da cui ha avuto tre figli: Benedetta (1996), Alessandro (1997) e Angelica (2001). Silvio Berlusconi si è dichiarato “l’artefice delle loro nozze”. L’interessato smentisce, ma il Cavaliere rimane uno dei grandi artefici del suo successo professionale. Due vite in una, ma non c’è due senza tre. La terza stagione di Giorgio Gori, scommette chi lo conosce, inizierà nei prossimi giorni. E come sempre, stupirà tutti. Stay tuned.

·        La storia della morte di Che Guevara.

Alberto Flores D'Arcais per repubblica.it il 6 novembre 2020. "Il famoso leader della guerriglia cubana Ernesto "Che" Guevara era presente con il principale gruppo di guerriglieri boliviani nel Sud-Est della Bolivia dalla fine di marzo almeno fino al 20 aprile 1967. In questo periodo è stato visto nella base da Jules Régis Debray e da Ciro Roberto Bustos... Si è personalmente incontrato con Debray tre volte... "Che" Guevara è arrivato nel principale campo della guerriglia poco dopo il 20 marzo 1967... Guevara era ancora con i guerriglieri quando Debray ha lasciato il campo". L'Intelligence Information Cable che la Central Intelligence Agency, l'agenzia per lo spionaggio all'estero degli Stati Uniti, meglio conosciuta per il suo acronimo Cia, invia il 10 maggio 1967, è il primo rapporto sul campo degli agenti americani (basati a Cuba, in Congo e in Bolivia) con cui il capo della Cia Richard Helms - e a seguire il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca (presidente era il democratico Lyndon B. Johnson) - iniziarono ad avere la certezza che Ernesto Guevara de la Serna detto il "Che" si trovava effettivamente in Bolivia. A rivelarlo, è scritto nel documento top secret, protocollo n. 64285 - adesso pubblico grazie al National Security Archive di Washington - sono "persone che affermano di aver visto e parlato con "Che" Guevara da quando è scomparso nel marzo 1965". Uno di loro, quello che diede alla Cia la prova definitiva della presenza del "Che" nelle montagne sud-orientali della Bolivia, era Régis Debray, il filosofo e giornalista francese ammaliato dalla rivoluzione cubana che, dopo aver vissuto a Cuba, decise di seguire Guevara nella sua avventura in Sudamerica. E che nell'aprile 1967 lo tradì. Quella del tradimento è un'ombra con cui l'autore del celebre saggio Rivoluzione nella rivoluzione? ha dovuto convivere per anni, sempre negandola. Arrestato il 20 aprile 1967 nel villaggio di Muyupampa e condannato per aver fatto parte della guerriglia, il 17 novembre (Guevara era morto da più di un mese) venne condannato a trent'anni di carcere. Ne scontò meno di tre, grazie a una campagna internazionale per la sua liberazione promossa da Jean-Paul Sartre, che vide in campo non solo partiti e organizzazioni della sinistra ma anche uomini come il generale Charles de Gaulle e papa Paolo VI. Rifugiatosi nel Cile di Allende, di cui divenne amico personale, dopo il golpe di Pinochet tornò in Francia, diventando anni dopo consigliere per la politica estera del presidente François Mitterrand. I documenti del National Archive (alcuni erano noti ma emendati, altri sono inediti) ricostruiscono adesso la grande caccia a Guevara attraverso i cable inviati dagli agenti americani al quartier generale della Cia di Langley, con le lettere top secret scambiate tra Helms, il Consigliere per la sicurezza nazionale Walt W. Rostow e il presidente Johnson e quelle tra l'ambasciatore Usa in Bolivia, Douglas Henderson, e il presidente-dittatore boliviano, generale René Barrientos. Carte che parlano, sia pure a più di mezzo secolo di distanza. Fissano l'ingresso di Guevara in Bolivia "il 3 novembre 1966, attraverso un viaggio prima in Spagna e poi in Brasile grazie a un passaporto falso uruguaiano". Ci dicono - oltre al provato tradimento di Debray - che l'esercito degli Stati Uniti aveva inviato un Mobile Training Team, un reparto delle Forze Speciali sotto il comando di Ralph "Pappy" Shelton, con la missione di addestrare i soldati boliviani; rivelano che ancora il 14 giugno 1967 la Cia era "molto agitata" perché, contrariamente alle notizie ufficiali (che davano i guerriglieri spazzati via), nell'ultimo scontro a fuoco di fronte a tre ribelli morti c'erano stati "trenta o quaranta soldati boliviani uccisi"; indicano che alla fine di giugno il capo della divisione Emisfero occidentale della Cia, Larry Sternfield, decide di dare una svolta ingaggiando a tempo pieno due agenti "a contratto": Gustavo Villoldo (alias Eduardo Gonzáles) e Felix Rodriguez (alias Felix Ramos o Benton Mizones). Rodriguez, detto El Gato, nato all'Avana e nipote di un ministro del dittatore Fulgencio Batista, era scappato da Cuba dopo la vittoria di Castro&Guevara e due anni dopo aveva partecipato alla fallimentare spedizione della Baia dei Porci, l'invasione organizzata dalla Cia per abbattere il regime castrista. Della Cia divenne ben presto un agente coperto di primo piano per le missioni in America Latina, fino a quando divenne il personaggio chiave degli americani in quella massiccia caccia all'uomo che avrebbe portato alla cattura e all'uccisione di Guevara. È lui che compare accanto al "Che" nell'ultima foto che lo ritrae ancora vivo dopo la cattura. Foto che per anni è stata ritenuta un falso della Cia e che documenti del Congresso Usa dimostrano invece autentica. Ègrazie a lui - che sotto le mentite spoglie di maggiore dell'esercito boliviano guida di fatto la caccia - che la Cia segue per mesi le tracce del rivoluzionario cubano-argentino. È lui che interroga Bustos, "entrato in Bolivia a febbraio, accompagnato dalla guerrigliera Tania, identificata come Laura Gutierrez Bauer de Martinez". Sarà Rodriguez ad allertare Richard Helms sui documenti trovati in una base, "due dei passaporti, con nomi differenti, hanno la stessa fotografia e le stesse impronte digitali, impronte che sono le stesse di Guevara ottenute dalla Cia nel 1954 e nel 1965". Documenti che i boliviani vorrebbero come prova nel processo a Debray, ma che la Cia sconsiglia di dare ("per non rivelare pubblicamente come siamo coinvolti"). È lui che ottiene da Debray la prova definitiva che Guevara è in Bolivia e raccoglie dal filosofo francese i dettagli sugli obiettivi della guerriglia: "Ha raccontato che quando è stato a Cuba un consigliere di Castro gli ha detto di chiedere a Maspero (editore francese di sinistra) che gli avrebbe dato istruzioni per un'intervista-incontro con il "Che" sull'America Latina... Ha detto di avere incontrato il "Che" tre volte in Bolivia... Ha parlato dell'appoggio di intellettuali europei, Bertrand Russell, Jean-Paul Sartre, Alberto Moravia...". Erano le 13.15 del 9 ottobre 1967 quando Ernesto "Che" Guevara venne giustiziato, dopo essere stato catturato il giorno precedente e ferito a una gamba. Secondo i documenti del National Archive, Felix Rodriguez aveva poco prima parlato con lui per circa due ore raccontando "che Fidel non era stato comunista prima del successo della rivoluzione cubana... la sua campagna in Congo... i prigionieri a Cuba... il movimento di guerriglia in Bolivia...". Mezzo secolo dopo l'agente della Cia racconterà così le ultime ore del "Che": "La foto in cui gli sono accanto è stata scattata dal pilota di elicottero Jaime Niño de Guzmán nel villaggio di La Higuera dove Guevara era tenuto prigioniero. Ci hanno informato che era stato catturato la mattina di domenica 8 ottobre dopo uno scontro a fuoco in cui il "Che" si è beccato una pallottola nella gamba sinistra tra il ginocchio e la caviglia, ma niente di mortale. Guevara è stato fatto prigioniero mentre gridava: "Non sparate! Sono Che Guevara e valgo più da vivo che da morto"". L'11 ottobre 1967 un memorandum è nello studio ovale di Lyndon B. Johnson alla Casa Bianca con la firma di Rostow. "Soggetto: morte di "Che" Guevara - Questa mattina siamo sicuri al 99 per cento che "Che" Guevara è morto. La Cia non ci ha dato ancora una risposta categorica ma arriverà oggi o domani... Le ultime informazioni che ci ha dato il nostro agente sono che Guevara è stato catturato vivo... Dopo un breve interrogatorio per stabilire la sua identità il generale Ovando - capo delle forze armate boliviane - ha ordinato di ucciderlo. Credo sia stata una cosa stupida, ma dobbiamo capire i boliviani".

 “Tra due minuti ti sparo”, storia della morte di Che Guevara: “Vigliacchi”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il  6 Agosto 2020. Quando trovai a New York “Hunting Che” (Dando la caccia al Che), lessi freneticamente ogni pagina e filmavo nella mia memoria. Eccolo, Guevara, ferito su un treno, colpito al polpaccio, non può più camminare. Quando un soldatino del corpo speciale che lo tallonava gli piantò il mitra sotto il naso e gli chiese: “E tu chi sei?”, tutte le fonti sono concordi nel dire che il prigioniero rispose: “Sono Che Guevara. E sarà meglio che non mi ammazzi perché di sicuro valgo più da vivo che da morto”. Bolivia. 1967. Sulla morte, due versioni. Secondo la prima, con il preavviso di qualche minuto per concedersi un momento di riflessione, fu abbattuto da un solo uomo che gli sparò sei volte. Il colpo mortale nel torace. I patti – con lo stesso Che – erano che avrebbero risparmiato il volto. Non per una cortesia. Il piano era far passare una esecuzione che in realtà era un omicidio, per un fatto d’arme: Che Guevara caduto in combattimento, da eroe, ma morto. Finalmente morto. La seconda versione prevede il rito molto ispanico del “se va al paseo”: lo mandiamo a fare una passeggiata, che è una prova da stress terribile: tu cammini, anzi nel caso di Guevara ti trascini ferito e dolente, sapendo che dei dardi di piombo incandescente stanno per forarti da parte a parte. Ricordavo in particolare nei suoi diari la descrizione dell’odore del corpo umano alla macchia senza potersi mai lavare o cambiare. L’odore antico una belva preistorica che non sente più altro odore che quello del nemico. Secondo i testimoni di questa seconda versione, Guevara mostrò il suo disprezzo verso i suoi assassini, dando loro del cobardes, vigliacchi, e cadde tremando sul terreno. Fu comunque una messinscena perché nessuno voleva assumersi la responsabilità di un omicidio, spacciato per esecuzione di un verdetto che nessuno aveva emesso, privo di qualsiasi legittimità. Ma il presidente René Barrientos Ortuno, tutto vestito d’azzurro come la Madonna, con fasce e medaglie, aveva deciso di far fuori il Che straniero e di farlo senza chiasso, senza processo, soltanto mostrando poi la deposizione del morto ammazzato, come il Cristo del Mantegna. Ma questo avverrà più tardi nell’ospedale, dove il cadavere già puzzava e la gente girava in tondo per essere sicura che quel morto fosse proprio quello dei giornali. Guevara passò alcuni giorni con i suoi carcerieri che avevano il compito di sorvegliarlo, tenerlo vivo e obbedire agli ordini in arrivo che però non erano chiari. I più probabili erano uno scambio, un processo pubblico, una estradizione negli Stati Uniti (per quale delitto?) ma soprattutto l’ammazzamento a sangue freddo da spacciare però come un eroico fatto militare. Il Che avrebbe avuto la sua parte di gloria perché era morto con le armi in pugno e i soldatini boliviani, con i loro ufficiali, gloria eterna perché avevano abbattuto in combattimento il tremendo bandito Che Guevara. Fu qualcosa di simile all’ammazzamento di Salvatore Giuliano, comandante di un fantomatico Esercito separatista siciliano sicuro di avere dalla sua i servizi americani, che fu assassinato nel sonno dal cognato (assoldato dal ministero degli Interni) il quale fu assassinato a sua volta in carcere con una famosa tazzina di caffè corretto, un dessert usato anche con Michele Sindona molti anni dopo. Si tratta sempre di ammazzamenti di stato, fatti passare per battaglia intemerata o suicidio inaspettato. Il Che in Bolivia aveva miseramente fallito la sua missione rivoluzionaria. La Bolivia è uno stato popolato prevalentemente da discendenti dei nativi che non hanno mai visto come possibili alleati dei bianchi colonizzatori, anche se venuti da Cuba con le migliori intenzioni. I campesinos non lo ascoltarono mai e lo tradivano quando potevano per intascare la taglia. Così restò isolato con il suo gruppo di teorici della rivoluzione e del terrore. L’uso del terrore come strumento politico è antico quanto l’uomo ma fu teorizzato da Robespierre e applicato con accuratezza sia da Lenin che da Stalin, per non parlare di Hitler. Guevara provò gusto per il terrore e lo disse e scrisse. Il terrore non significa punire i nemici della rivoluzione, ma uccidere a caso affinché nessuno si senta più sicuro. Ernesto Guevara era un medico argentino di ottima e intellettuale famiglia, con una grande biblioteca e totale libertà ideologica. I suoi viaggi in motocicletta, lungo i fiumi e le strade sudamericane, sono ormai famosi anche se ai nostri tempi, quando la mia generazione moriva di passione e di invidia per il “Che” (che oggi avrebbe 92 anni) non venivano esaltati questi gusti ribellistici e romantici che lo rendevano più simile a Bruce Chatwin che a Mao Zedong. La passione per uccidere gli venne dopo la disastrosa avventura della famosa barca Granma che scaricò Fidel e Che con un gruppo di inesperti ma determinati guerriglieri sulle piste della Sierra Maestra. Il Che si trovò giorno dopo giorno a fucilare più di trecento prigionieri, funzionari, sospetti, malcapitati. Ed essendo medico, scrisse di aver fatto un’accurata ricerca con la sua pistola per trovare il miglior punto per il colpo di grazia, misurando i secondi fra lo sparo e l’arresto cardiaco. Secondo la leggenda gonfiata da lui stesso, un vizio simile lo contrasse anche Ernest Hemingway durante la guerra civile spagnola, quando – come gli rimproverò lo scrittore Dos Passos – aveva preso un po’ troppo gusto ad uccidere. Personalmente, ricordo il Comandante Carlos della guerra civile spagnola, si chiamava Vittorio Vidali. che conobbi a Trieste nel 1979 e che si vantava di avere una mano con sole tre dita perché il revolver che usava per le esecuzioni gli era esploso per usura. Ernesto Guevara, riferiscono i suoi carcerieri (le uniche fonti disponibili, ma i racconti collimano sia fra loro che con la personalità del protagonista) mantenne sempre un tono sprezzante: “Volete sapere come diventai il presidente della Banca nazionale cubana?” chiese al capitano Rodriguez che comandava il posto. “No!” disse quello. E Guevara: “Non importa. Ve lo dirò lo stesso. In una riunione fra ministri Fidel Castro chiese chi di noi fosse un autentico economista. Io capii “autentico comunista” e alzai la mano: “Io!” E Fidel: “Allora da oggi la Banca cubana è nelle tue mani”. E, naturalmente, rideva. Se è tutto vero. Secondo i racconti, questo Rodríguez litigava con Che il quale gli dava del servo degli americani e infliggeva a tutti delle lezioni di marxismo molto pedanti. Poi si addormentava e gemeva leggermente perché le ferite lo tormentavano e i suoi carcerieri non avevano nulla da dargli per medicarle e controllare il dolore. Rodríguez chiese a Guevara come funzionavano i plotoni d’esecuzione a Cuba e il Che rispose: “Noi non fuciliamo cubani. Soltanto agenti stranieri e spie”. E allora Rodríguez replicò: “Be’, qui tu sei uno straniero e un agente straniero. Tu non sei boliviano e hai invaso il nostro territorio nazionale e lo hai fatto con le armi”. Che rispose: “E’ diverso: guarda il mio corpo: vedi? Sto versando il mio sangue sulla tua terra. Questa è una rivoluzione e tu non sai neanche di che cosa parlo”. Poi lo guardò meglio e gli disse: Rodríguez, neanche tu sei boliviano. Parli troppo bene e sai troppo su di me e Cuba. Di dove sei?”. E quello: “Sono cubano come te: facevo parte della 2506 brigata”. Guevara gli chiese se adesso lavorasse per gli americani e quello confermò. Era un suo connazionale che combatteva contro la rivoluzione dopo averne fatto parte. Rodríguez gli disse: “E’ l’ora. Che cosa vuoi che diciamo a tua moglie?”. “Che si risposi e sia felice”, rispose Guevara. “Preparati, disse Rodríguez. Ti do due minuti”. E uscì. Poi abbiamo le due versioni: quella dell’uccisione nella camera della scuola che era stata la sua cella per qualche giorno, e quella del “paseo” la breve passeggiata verso la sterpaglia. Il corpo fu esposto ai fotografi di tutto il mondo, le mani che avevano delle anomalie furono tagliate e mandate a Fidel Castro affinché si rendesse conto che il morto era proprio il Che. Poi con un ordine segreto il corpo fu sepolto in un luogo segreto e riesumato soltanto una decina di anni fa e chiuso, quel che resta delle sue ossa, in una piccola bara di mogano.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Gli amici Terroristi.

Ernesto Galli Della Loggia per il “Corriere della Sera” il 22 novembre 2020. Che cosa fu il terrorismo italiano? Che cosa accadde davvero nell' Italia negli «anni di piombo»? Sono queste le domande che pone il libro di Mario Calabresi sull' assassinio di Carlo Saronio Quello che non ti dicono con la discussione che ne è nata anche in seguito a un' intervista con Aldo Cazzullo. Domande allora e poi rimaste almeno in certo senso senza risposta. In verità di terrorismi, come si sa, in quegli anni ce ne furono due, uno nero e uno rosso. Ma del primo - tranne i suoi rapporti in parte tuttora oscuri con apparati deviati dei servizi di sicurezza, ciò che vale anche per l' altro - ormai sappiamo tutto quello quel che importa di sapere. È vero, su alcuni episodi anche gravissimi come l' attentato alla stazione di Bologna restano dei dubbi soprattutto circa eventuali collegamenti internazionali, ma in generale conosciamo i fatti e i nomi dei responsabili e dei loro referenti. Il terrorismo nero fu opera di gruppi di giovani militanti delle organizzazioni neofasciste e neonaziste e di alcuni loro capi, ma fatto salvo quanto ho detto sopra, dietro di esso socialmente c' era il nulla ed esso non ha lasciato nulla. Cosa ben diversa fu il terrorismo rosso. Perché dietro il terrorismo rosso ci fu un ambiente. Ci furono infatuazioni intellettuali diffuse, collusioni personali in buon numero, e un frequente voltarsi di molte «persone normali» da un' altra parte per poter dire di non aver visto né sentito. Tutto si svolse come in un crescendo. Prima degli atti terroristici veri e propri, infatti, e a lungo intrecciata con essi, ci fu una vasta e dura violenza di strada. Auspicata, preparata ed esaltata dai gruppi dirigenti extraparlamentari di Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia, il Movimento studentesco. La violenza dei cortei con le spranghe, con i caschi e i passamontagna, con le molotov; la violenza del ritornello «basco nero, basco nero, il tuo posto è al cimitero» gridato contro i carabinieri. Rapidamente nei luoghi sociali più inaspettati la legalità sembrò divenuta un optional. Tutto ciò che appariva contestazione, rottura delle regole, eversione iconoclasta, venne divulgato dai cataloghi delle migliori case editrici, approvato da stuoli d' intellettuali influenti, predicato da cattedre autorevoli. La rivoluzione insomma assurse a fatto di moda, e come si sa una rivoluzione senza almeno un po' di violenza non s' è mai vista. Fu questo clima che preparò la successiva omertà nei confronti del terrorismo che ci sarebbe stata per tutti gli anni a venire. La quale è stata sì, anche un' omertà generazionale, come ha scritto Giampiero Mughini, ma assai di più, mi pare, è stata un' omertà sociale e culturale. Un' omertà che ha visto protagonisti specialmente ambienti significativi di borghesia democratica laica e cattolica di alcune città simbolo del nostro Paese - Milano, Roma, Firenze, Torino - , la quale, direttamente o per il tramite dei propri figli, si trovò in varia misura a costeggiare fatti o protagonisti dell' eversione rossa. E anche a condividerne il retroterra ideologico; talvolta non sapendo né vedere né capire; più spesso, invece, vedendo e capendo benissimo ma restando zitta perché incapace di dirsi contro o perché percorsa dal pericoloso brivido della complicità. È a causa dell' atteggiamento di questi settori della classe dirigente - incaricata assai spesso di importanti ruoli di direzione culturale e intellettuale - che ha preso piede un meccanismo di rimozione di questo passato. E così, come già accadde dopo la fine del fascismo, anche questa volta è stata rimossa una fase cruciale della storia del Paese. È stato rimosso il deposito di suggestioni e di modi di pensare che negli anni 60 e 70 numerose élite intellettuali e molti esponenti di una certa borghesia colta fecero propri sotto l' influenza della sinistra di orientamento marxista. E insieme è stata rimossa tutta una serie di comportamenti conseguenti, vale a dire i molti casi di una condotta compiacente o benevolmente accomodante, quando non concretamente collusa, con la violenza e con lo stesso terrorismo, con le giustificazioni e gli attori dell' uno e dell' altro. Ma la rimozione evidentemente non poteva che valere per tutti. Per chi stava negli studi professionali, nelle aule universitarie o nei salotti, come per chi invece frequentava da militante le strade e le piazze. Nessuna meraviglia dunque se - come si legge nelle parole del figlio del commissario Calabresi che ha rifiutato di stringere la mano ad alcuni di loro incontrati casualmente - nessuna meraviglia, dicevo, se da molto tempo ci troviamo in mezzo a noi capi e sottocapi dei gruppi extraparlamentari i quali a suo tempo si fecero banditori di violenza o in vario modo non si tirarono indietro neppure davanti al terrorismo. Non solo indisturbati e magari con ruoli importanti in questo o quel settore (di preferenza giornalistico-culturale), ma magari anche pronti a farci lezioni di moralità e di civismo, a spiegarci le regole della democrazia. Naturalmente senza essere stati mai costretti a ricordare nulla, senza aver mai ammesso nulla, senza aver chiesto mai scusa di nulla. Fiduciosi per l' appunto nella generale rimozione scesa dall' alto sul passato della Repubblica. Un passato che tuttavia chi ha buona memoria e conserva in casa qualche libro e qualche giornale ricorda ancora benissimo.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2020. Mario Calabresi, già direttore de La Stampa e de la Repubblica, recentemente ha dichiarato di non aver stretto la mano a tre signori che in qualche modo avrebbero collaborato a uccidere suo padre, il famoso commissario vittima di un attentato terroristico ordito dai militanti di Lotta Continua negli anni Settanta. Ha ragione il nostro illustre collega, che delle proprie faccende familiari ne sa più di noi e ha il diritto di discuterne pubblicamente, manifestando sentimenti e perfino rancori. Il mio babbo morì giovane nel letto di un ospedale e non ho motivo di prendermela con alcuno, il destino è insindacabile, mentre gli assassini non possono essere dimenticati, tantomeno perdonati. Al posto di Calabresi sarei ancora più arrabbiato di lui, e oltre ai tre farabutti a cui giustamente ha rifiutato un saluto tradizionale, ce l' avrei anche con tutti coloro, numerosi, che all' epoca firmarono un documento ostile a suo papà, una specie di sentenza capitale che poi qualcuno provvide ad eseguire. Si trattava di intellettuali veri o presunti, ovviamente di sinistra spinta, i quali erano persuasi che l' onesto agente fosse responsabile del suicidio di Pinelli, un anarchico sospettato della strage di piazza Fontana, gettatosi, o gettato, dalla finestra della questura. Ovvio che il poliziotto non fosse colpevole, tuttavia a quel tempo le accuse alle forze dell' ordine si dispensavano un tanto al chilo, evitando con cura di dimostrarle. Cosicché Calabresi passò, complici giornali e giornalisti, per malvivente quando invece aveva la coscienza linda. E dopo un po', sulla spinta delle maldicenze che lo colpirono, fu ammazzato all' uscita di casa. Vabbè, transeat. Ora conviene rammentare che i firmatari del citato documento contro il commissario dovrebbero vergognarsi, invece continuano a concionare badando bene di non rievocare che sull' omicidio del funzionario pesarono i loro giudizi sommari. Ciò che va segnalato è il fatto menzionato ieri sul Corriere da Galli della Loggia, e cioè che i mandanti morali del delitto ancora oggi sono sulla cresta dell' onda, gente che ha saltato il fosso transitando dal filoterrorismo al Rotary, che occupa posti importanti nel settore della comunicazione e in quello politico, seguitando a predicare. Naturalmente non faccio nomi, però chi volesse approfondire il tema è in grado di recuperare su Internet il verdetto sottoscritto dalla banda filocomunista per additare al pubblico ludibrio l' eroico uomo dello Stato. Al cui figlio, rispettosamente, consiglio di allargare la cerchia dei brutti ceffi a cui non stringere la mano.

Come siamo usciti dal terrorismo. C’erano gli eroi come Dalla Chiesa e chi strizzava l’occhio ai brigatisti. Danilo Breschi il 27 Settembre 2020 su Culturaidentità. Tra il 1° gennaio 1969 e il 31 dicembre 1987 le vittime del terrorismo furono 491, i feriti 1181 e 14591 gli atti di violenza “politicamente motivati” contro persone e cose. Nel periodo di maggiore virulenza, tra il 1976 e il 1980, gli atti di violenza furono 9673, quindi una media di cinque episodi al giorno. Nel solo 1979 gli atti eversivi furono 2513, il che significa che la media toccò quota sette azioni di violenza politica ogni 24 ore. Nei soli primi tre mesi del 1980 si ebbero 437 attentati e atti di violenza politica, tanto che da gennaio a marzo furono assassinate 27 persone, ferite 94 e 340 i danneggiamenti alle cose. Insomma per circa diciotto anni l’attentato è stato una componente costante della vita pubblica nazionale. Ancora nel 1988 si ebbe l’assassinio del senatore democristiano Roberto Ruffilli e tra 1999 e 2003 gli omicidi di D’Antona, Biagi e l’agente Emanuele Petri ad opera delle “nuove Br”. Il fenomeno terroristico si palesò tra il 1969 e il 1973, seppure nella confusione e nell’incertezza su mandanti ed esecutori, dividendosi spesso su natura spontanea ed autonoma oppure artificiale ed eterodiretta di stragi, sequestri e attentati. Con ministro dell’Interno Taviani e della Difesa Andreotti, nel maggio del 1974 fu creato il primo nucleo antiterroristico all’interno del corpo dei carabinieri per iniziativa del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Questi colse l’aspetto più pericoloso e destabilizzante per le istituzioni dello Stato e la loro tenuta democratica: la “zona grigia”, quell’ampia rete di relazioni e contatti, simpatie e appoggi più o meno concreti, che circondavano il fenomeno della lotta armata. Come si comprende dalle memorie del maresciallo Antonio Brunetti (I 31 uomini del Generale, 2018), gli italiani di ieri e di oggi devono moltissimo a Dalla Chiesa e al suo ristretto nucleo di fidati collaboratori, un drappello di trentuno servitori dello Stato che seppero entrare nella testa dei terroristi, “pensare come loro”, penetrarne le logiche di ragionamento e di azione e così progressivamente sgominarli. L’anno successivo, il 22 maggio 1975, venne approvata la cosiddetta legge Reale, dal nome dell’esponente del PRI, ministro di Grazia e Giustizia nel IV governo presieduto da Aldo Moro. La legge sanciva il diritto delle forze dell’ordine a utilizzare armi da fuoco quando strettamente necessario anche per mantenere l’ordine pubblico. revedeva l’estensione anche in assenza di flagranza di reato del ricorso alla custodia preventiva, misura prevista in caso di pericolo di fuga, possibile reiterazione del reato o turbamento delle indagini. Si potevano effettuare fermi preventivi di quattro giorni, entro i quali il giudice doveva poi decretare la convalida. Fu ribadito che non si potevano utilizzare caschi o altri elementi che rendessero non riconoscibili i cittadini, salvo specifiche eccezioni. Nel 1982 sarebbe poi giunta la legge sui pentiti che contribuì in modo decisivo a scardinare un movimento terroristico che stava mostrando i primi segnali di incertezza e debolezza, di fronte ad una società in via di profonda transizione post-ideologica. La prima crepa dentro la vasta area di simpatie e sostegno attivo al movimento terroristico si ebbe con l’uccisione da parte delle Br dell’operaio e sindacalista comunista Guido Rossa a Genova nel gennaio 1979. Il coraggio nel denunciare un collega affiliato alle Br gli costò la vita. Altro esempio di eroe della nostra democrazia. Proprio quella ultradecennale, travagliata vicenda, piena di violenze e lutti, nonché i suoi prolungati strascichi, induce ad una necessaria riflessione contemporanea. Tra le pieghe della società italiana è circolata a lungo una mentalità refrattaria al senso dello Stato, un’attitudine psicologica anti-istituzionale, permeabile a culture politiche antisistema e apertamente eversive. La tattica adottata fu quella di una risposta graduale, tesa a non alimentare questa temperie ideologica, che una reazione più rapida, diretta e massiccia avrebbe probabilmente finito per convalidare. La scelta dei vertici della Dc e dei suoi alleati seppe tener conto della tesi brigatista, e dell’intero terrorismo di sinistra, che era poi quella dell’antica tradizione anarchico-rivoluzionaria, e poi terzinternazionalista, secondo cui lo Stato “borghese” ha un’essenza autoritaria, un volto “fascista”, che mostra solo se aggredito, nel qual caso si spoglia della maschera legalitaria e garantista rivelandosi per ciò che è, uno Stato di polizia. A ciò si associò una frazione importante della cultura cattolica più radicale, anticapitalistica e terzomondista. Va detto che il mondo della stampa non brillò all’epoca, comprese testate tradizionalmente distanti dall’estrema sinistra. Si avallò a lungo la formula delle “sedicenti” Brigate Rosse, preferendo far rientrare la crescente azione eversiva del terrorismo rosso nelle cosiddette “trame nere”, come se tutto fosse riconducibile a servizi segreti più o meno deviati. La formula “né con lo Stato né con le Br” espresse e sintetizzò tristemente una fase non breve di isolamento di chi operò anche a costo della propria vita per contrastare il fenomeno. Ci furono però anche lodevoli eccezioni e persino vittime del terrorismo tra i giornalisti, come Carlo Casalegno e Walter Tobagi. Proprio la stagione del terrorismo e le modalità con cui ne uscimmo ci suggeriscono alcune considerazioni su pregi e difetti del sistema politico della Prima Repubblica che, sotto molti aspetti, si è protratto sino ad oggi. In primo luogo l’Italia, come e più di altre nazioni europee, deve molti dei successi della propria storia politica all’intelligenza e abnegazione di autentici servitori dello Stato, come Carlo Alberto dalla Chiesa. Il suo stesso nome, ironia della storia, rievoca quello spirito risorgimentale che è filtrato tra le generazioni di uomini e donne che hanno contribuito a creare lo Stato nazionale e a preservarlo di fronte a immani sciagure. In secondo luogo buona parte della fase della Prima Repubblica che va dal centrosinistra in poi si è contraddistinta per una riposta della classe politica sempre più povera di atti di governo coraggiosi e incisivi per evitare l’impopolarità, preferendo modelli distributivi privi di altra strategia che non fosse quella di attutire la conflittualità. Fu questa la linea prediletta dalla DC morotea e andreottiana, con o senza il sostegno del PCI, che sul punto era però sostanzialmente convergente. Strategia che consentì alla maggioranza silenziosa di riprendere fiato e alla società italiana di riassorbire e spegnere negli anni Ottanta l’alta tensione ideologica innescatasi a fine anni Sessanta. Si esaurì l’opzione terroristica, anche per implosione del mondo comunista, ma restò il sottofondo culturale sensibile all’estremismo, che si sarebbe tramutato in antipolitica, giustizialismo e populismo tra anni Novanta e Duemila.

 Cossiga, le lettere agli ex Br: “Ormai la giustizia contro di voi è vendetta”. Alice De Gregoriis su  meteoweek.com il 7 agosto 2020. Il Corriere pubblica stralci di lettere segrete tra Cossiga e gli ex Brigate Rosse. Tra i nomi al centro della corrispondenza epistolare: Renato Curcio, Toni Negri, Prospero Gallinari, Paolo Persichetti e Fabrizio Melorio. A Paolo Persichetti, ad esempio, scrive: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura”. Siamo nel 1992, precisamente il 25 novembre, nel carcere di Rebibbia: l’ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontra Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. L’incontro tra i due avviene l’anno dopo il tentativo di Cossiga di concedere la grazia a quello che lui stesso definiva “un sovversivo di sinistra”. Un tentativo non andato a buon fine. Durante il colloquio, tra i tanti temi toccati (come il caso Moro), Cossiga spiega che quell’atto di clemenza (fallito) doveva rappresentare un primo passo verso il superamento di leggi di emergenza alla cui creazione lui stesso aveva partecipato. Ma quella manovra raccolse l’opposizione dei parenti delle vittime e di alcune forze politiche, come l’ex Pci. A fornire i dettagli dell’incontro, riportati dalle parole degli stessi partecipanti, sarebbe un resoconto conservato nell’archivio privato del presidente emerito, oggi riportato dal Corriere. Nel resoconto Curcio avrebbe scritto: “Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare“. Poi ancora: “Ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale… Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato”. Ma Cossiga non avrebbe intrattenuto rapporti epistolari esclusivamente con Curcio. A dimostrarlo è il suo archivio donato alla Camera dei deputati. Tra gli altri brigatisti al centro dello scambio di lettere ci sarebbero anche: Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, e anche esponenti dell’Autonomia operaia fuggiti in Francia come Toni Negri. Significativa la lettera che Cossiga scrisse a Prospero Gallinari, ex carceriere di Moro. Gallinari fu scarcerato per motivi di salute, e subito arrivarono gli auguri di Cossiga: “Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena”. Importante anche la lettera che nel 2002 Cossiga invia a Paolo Persichetti, ex Udcc appena estradato dalla Francia e arrestato: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato”. Non manca anche qualche lettera a Fabrizio Melorio, che partecipò all’omicidio del generale Licio Giorgieri. Cossiga scrive: “Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera… perché in fondo mi sento anche un po’ ‘colpevole’ della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori”.

Lo scontro via social tra padri "nobili" delle Br sulla cattura di Curcio. Per l'arresto Franceschini incolpa Moretti, ma per Zuffada alimenta soltanto "le ciance". Luca Fazzo, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Mara Cagol aveva provato a spiegare che quel Frate Mitra non la convinceva. Perché si era presentato alle Brigate Rosse dicendo di avere combattuto con la guerriglia in Bolivia. Ma a lei, che era trentina, quell'andatura non sembrava proprio quella di uno abituato a andare per i monti. Mara sentiva puzza di infiltrato e di trappola. Non le diedero retta. E fu così che Renato Curcio venne catturato. Sono passati quarantasei anni dal giorno in cui il fondatore delle Br fu arrestato grazie alla soffiata di Silvano Girotto, alias Frate Mitra. E un racconto inedito di quell'episodio cruciale degli esordi della lotta armata in Italia viene reso pubblico grazie allo scontro furibondo tra gli esponenti delle prime Br e un altro dei padri fondatori: Alberto Franceschini, cresciuto nel Pci di Reggio Emilia e nella mitologia della Resistenza tradita. Da tempo, Franceschini ha abiurato, oggi lavora all'Arci. E il 31 luglio ha rilasciato una intervista a Repubblica in cui ripercorre quegli anni. Parla anche dell'arresto di Curcio: perché insieme al leader venne arrestato anche lui. E dice una cosa brutale: che a farlo arrestare fu Mario Moretti, il tecnico della Siemens che sarebbe diventato il nuovo leader brigatista e l'inquisitore di Aldo Moro durante il sequestro. Tempo due giorni, e arriva la risposta. La firma uno del nucleo storico: Pierluigi Zuffada, 74 anni, uno che è sempre stato zitto. Ma che ora parla, anche a nome di altri veterani. È una risposta altrettanto brutale, perchè Franceschini viene accusato di alimentare le tante ciance senza fondamento sulle Br «eterodirette», comprese quelle su un Moretti al soldo dei servizi segreti o almeno «ambiguo». Ma Moretti, ricorda Zuffada, «sta ancora scontando una pena a 39 anni dal suo arresto, a riprova della sua presunta ambiguità». A Franceschini, l'ex compagno rinfaccia tante cose: dall'essere tornato all'ovile, lavorando per il partito da cui proveniva; alla più pesante, avere imposto all'inizio del sequestro Moro che le Br chiedessero in cambio dell'ostaggio la liberazione dei loro militanti detenuti, tra cui Franceschini stesso. Una richiesta impossibile, «un errore madornale che chiuse tutte le possibilità di manovra». Se Moro fu ammazzato, la colpa è di quella scelta. A colpire (e a suscitare almeno un interrogativo) è però soprattutto la ricostruzione dell'arresto di Curcio e Franceschini. Quest'ultimo, tanto per cominciare, a Pinerolo non doveva esserci, «doveva andare solo Renato». La notizia cruciale è che «alla colonna milanese arriva una soffiata: l'appuntamento tra Renato e Girotto era una trappola. Non siamo mai riusciti a arrivare alla fonte di quella soffiata, in quanto della notizia erano a conoscenza solo i carabinieri di Dalla Chiesa e la Procura di Torino». Ma la trappola scatta lo stesso. Perché nel settembre '74 non esistono telefonini, e avvisare Curcio è impossibile. Moretti «accompagnato da due compagni, inizia un folle viaggio nella notte alla ricerca di Renato. Non sapevano dove abitasse a Torino, per cui decidono di andare a Piacenza da Franceschini», che conosce l'indirizzo del capo. Ma Franceschini non è in casa, Moretti e gli altri lo aspettano fino all'una sperando che sia andato al cinema, visto che ha lasciato le finestre aperte. Niente da fare. Allora nel cuore della notte corrono nell'Astigiano a cercare la Cagol, che è la donna di Curcio e sa sicuramente dove si nasconda: ma anche lei non c'è. Intanto le ore passano. A quel punto i tre corrono a Torino, sperando che «un contatto del luogo» possa aiutarli. Invano. «A quel punto Mario e i due compagni prendono una decisione apparentemente folle: vanno al luogo dell'appuntamento a Pinerolo nella speranza di avvisare Renato prima dell'incontro con Girotto». Ma il luogo «pullula di agenti in borghese, la trappola era già scattata, i compagni riescono a svignarsela». Resta da chiedersi: chi fu a cercare di salvare dall'arresto il capo delle Br?

(LaPresse il 21 agosto 2020) - L'ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha chiesto scusa alle famiglie delle vittime di Cesare Battisti e ha detto che fu "un errore" concedergli l'asilo. Lula, in un'intervista rilasciata a TV Democracia, ha detto di non aver mai avuto rapporti diretti con Battisti ma gli garantì la protezione in Brasile perché l'allora ministro della giustizia Tarso Genro, "diceva che era innocente e che non c'erano prove di colpevolezza" contro di lui. Sentire l'ammissione di colpa da parte di Battisti "è stato molto frustrante", ha detto Lula.

Battisti: Torregiani, inutili le scuse di Lula. (ANSA Dagospia il 21 agosto 2020) "Le scuse di Lula? Meglio tardi che mai ma sono inutili": Alberto Torregiani, il figlio del gioielliere ucciso nel 1979 dai Pac in una sparatoria in cui lui stesso rimase ferito e perse l'uso delle gambe, commenta così con l'ANSA l'ammissione dell'ex presidente del Brasile di aver sbagliato nel concedere l'asilo a Cesare Battisti. "Adesso voglio vedere cosa dice chi aveva appoggiato la sua decisione. Perché dirlo oggi? Per fare notizia? Noi - ha aggiunto - non ce ne facciamo nulla delle sue scuse". Diversa la reazione di Maurizio Campagna, fratello di Andrea, poliziotto ucciso a 25 anni dal terrorista dei Pac. Maurizio aveva chiesto a chiare lettere le scuse di Lula. "Fa piacere che una persona come lui, che è stato presidente del Brasile, ammetta di aver fatto una valutazione errata. E questo gli fa onore. Certo le scuse sono arrivate un po' in ritardo, ma fanno piacere".

La replica dei parenti: "Non ce ne facciamo niente". Caso Battisti, Lula chiede scusa ai familiari: “Un errore concedere l’asilo”. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2020. È stato un errore aver concesso l’asilo a Cesare Battisti. A dirlo, in un’intervista al canale YouTube TV Democracia è stato l’ex presidente del Brasile e leader del Partito dei Lavoratori Luiz Inacio Lula da Silva. “Ha ingannato molta gente in Brasile, non so se ha fatto altrettanto in Francia, ma la verità è che c’erano molte persone che pensavano che fosse innocente. E se abbiamo commesso questo errore, ci scusiamo senza dubbio”, ha detto Lula. La famiglia di Alberto Torregiani, il gioielliere ucciso nel 1979 dai Pac, gruppo estremista del quale faceva parte Battisti, rimanda al mittente le scuse di Lula. “Le scuse di Lula? Meglio tardi che mai ma sono inutili”, ha detto all’Ansa Alberto Torregiani, figlio del gioielliere che rimase ferito nella sparatoria e che perse l’uso delle gambe. “Adesso voglio vedere cosa dice chi aveva appoggiato la sua decisione. Perché dirlo oggi? Per fare notizia? Avrà le sue motivazioni personali. Io – ha detto – resto basito. Ma su questa vicenda si torna ciclicamente. Se di Battisti non si parla almeno ogni tre mesi, inizio a preoccuparmi”. Certo, “noi – ha aggiunto – non ci facciamo nulla delle sue scuse”.

IL CASO – Battisti è stato condannato definitivamente in Italia per quattro omicidi compiuti negli anni Settanta. Dopo arresti per rapina in gioventù si unì al gruppo di estrema sinistra Proletari Armati per il Comunismo. Nel 1981 evase – dopo essere stato arrestato per possesso illecito di armi e banda armata – e lasciò l’Italia. Venne condannato in contumacia per quattro omicidi. Principale accusatore Pietro Mutti, collaboratore di giustizia. La fuga lo portò in Francia, in Messico, poi ancora in Francia protetto dalla dottrina Mitterand. In Brasile venne arrestato nel 2007 ma nel 2009 Lula concesse lo status di rifugiato politico. Il 13 dicembre 2018, con il governo di Michel Temer, è ordinato l’arresto di Battisti e firmato l’ordine di estradizione. Battisti è stato arrestato a Santa Cruz de la Sierra nel gennaio 2019.Fece discutere lo show mediatico messo in piedi dal governo M5s-Lega – e in particolare dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e di quello alla Giustizia Alfonso Bonafede – al suo ritorno in Italia all’aeroporto di Ciampino. Battisti sconta la sua pena al carcere di Massama di Oristano, in Sardegna, e denuncia l’illegalità del suo isolamento e il cibo di scarsa qualità.

Gp. R. per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2020. «Le scuse sono ovviamente ben accette, ma mi piacerebbe sapere come mai ha deciso di dire questa cosa proprio adesso e se oltre alle parole ha intenzione di compiere anche qualche gesto, di aiutarci a conoscere chi ha offerto appoggi e coperture a Cesare Battisti per tanti anni». Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso nel 1979 dai Proletari armati per il comunismo, ha saputo da poco delle parole dell'ex presidente brasiliano Lula a proposito dell'atteggiamento del suo governo durante la lunga latitanza dell'uomo che l'Italia aveva condannato anche per quel delitto. «Le scuse sono benvenute, meglio tardi che mai - dice Alberto Torregiani (foto), rimasto paralizzato per le ferite subite durante quell'agguato - ma non credo che Lula si sia svegliato al mattino e gli sia venuto in mente di dire queste cose: quindi ora mi aspetto che ci dia una mano a scoprire almeno gli italiani che stavano dietro quella latitanza. Quelli di altri Paesi ci interessano molto di meno, ma gli italiani sì. Sarebbe un bel contributo alla ricostruzione della verità su questa vicenda».

Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2020. «Ho sbagliato a concedere l'asilo a Cesare Battisti, perché ha commesso dei crimini e ingannato molta gente, chiedo scusa alle famiglie delle vittime». L'ex presidente brasiliano Lula per la prima volta definisce un «errore» la decisione presa nel dicembre 2010 di «ospitare» l'ex terrorista rosso. Una protezione che ha permesso all'ex ricercato speciale dei «Proletari armati per il comunismo» di rimanere lontano dalla giustizia italiana per dieci anni. Fino al 14 gennaio del 2019, quando è stato rinchiuso nel carcere di Oristano, dove tuttora sta scontando l'ergastolo per gli omicidi di Pierluigi Torregiani, Lino Sabbadin, Andrea Campagna e Antonio Santoro, commessi tra il 1978 e il 1979. L'ex leader brasiliano, in un'intervista al canale YouTube TV Democracia , ha raccontato i retroscena della sua decisione. Ha detto che non conosceva personalmente Battisti, ma di avergli dato asilo perché il suo ministro della Giustizia, Tarso Genro, diceva che era «innocente». «Tutta la sinistra brasiliana, i compagni e molti partiti e personalità di sinistra chiedevano che Battisti rimanesse qui», ha ricordato. In effetti fu l'ala militante del Pt, il Partito dei lavoratori da lui fondato, a mettere in difficoltà l'allora presidente spingendolo a dare protezione all'ex terrorista. Quella su Battisti, «non fu una decisione facile - ha raccontato - l'ex presidente Giorgio Napolitano e la sinistra italiana facevano pressioni perché il Brasile lo consegnasse». Lula ha parlato pubblicamente per la prima volta anche del rammarico provato quando scoprì di essere stato ingannato: «Ho sentito una grande frustrazione quando ho saputo che aveva confessato». Era il marzo 2019 quando Battisti, per la prima volta, ammise le sue responsabilità davanti al procuratore aggiunto di Milano, Alberto Nobili: «Fu una guerra giusta - disse - ma ora chiedo scusa alle vittime». Rispetto alle scuse tempestive di suoi ex sostenitori, tra cui Daniel Pennac, il mea culpa di Lula, a un anno e mezzo dal momento della verità, appare tardivo. «Poteva farla prima quest' ammissione di colpa, sono scuse superficiali, non le accetto», ha reagito Adriano Sabbadin, figlio di Lino, il macellaio ucciso nel 1979 a Santa Maria di Sala, in provincia di Venezia. Il rimpatrio di Battisti non è stata soltanto una questione di politica internazionale ma una carta che si è giocata l'attuale presidente di estrema destra Jair Bolsonaro fin dalla campagna elettorale, per distinguersi dai suoi rivali politici, definiti dalla propaganda «amici dei terroristi comunisti». Ora, secondo alcuni osservatori locali sentiti dal Corriere, Lula starebbe cercando di dare un segnale di moderazione in vista delle elezioni municipali di novembre, che nel Paese sudamericano sono un po' come le Midterm americane, cascano a metà del mandato presidenziale. Certo resta non candidabile Lula, travolto dallo scandalo Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, condannato per corruzione e riciclaggio e uscito di prigione a novembre dopo la sentenza della Corte Suprema che stabilisce indispensabili i tre gradi di giudizio per il carcere. Ma resta un'icona della sinistra e forse ancora l'uomo più temuto da Bolsonaro.

Battisti, il carcere e la storia del terrorismo sconfitto. Guido Salvini, magistrato, su Il Dubbio il 17 settembre 2020. La detenzione nel circuito di massima sicurezza è prevista per scongiurare il mantenimento dei contatti con l’esterno. Ma questo pericolo, almeno in relazione alla lotta armata, oggi per fortuna non esiste più. Non posso essere sospettato di simpatie o di indulgenza nei confronti di Cesare Battisti. Ho scritto in molti articoli che Battisti era un personaggio indifendibile e che il suo tentativo di dipingersi, per sottrarsi all’estradizione dal Brasile, come un innocente condannato dopo processi ingiusti e un perseguitato politico era risibile e poteva al più soddisfare gli intellettuali poco informati che lo avevano protetto. Del resto di quella mancata estradizione in Italia alla fine perfino l’ex Presidente del Brasile Lula ha parlato come di un errore. Tanto è vero che, una volta giunto in Italia Battisti ha confessato tutti gli omicidi e i ferimenti per i quali era stato condannato dalla Corte d’Assise di Milano. I Proletari Armati per il Comunismo, di cui Battisti fu uno degli “ideologhi” e fondatori è stato, nella sua breve vita alla fine degli anni ‘ 70, uno dei gruppi più sciagurati nel panorama della lotta armata in Italia. Un’accozzaglia di persone che per la loro insensata ferocia erano tenuti a distanza persino dalle Brigate Rosse e dai gruppi affini. Aggiungo che ricordo bene la storia e i processi dei Pac. Mio padre all’inizio degli anni ‘80 presiedeva la Corte d’Assise che pronunciò una delle sentenze per l’omicidio dell’orefice Torreggiani. Si viveva in un clima di paura. I Pac erano infatti specializzati più che nell’individuare, come le Brigate Rosse, obiettivi politici, nel porre a segno le loro vendette personali. Sparavano a commercianti che avevano reagito durante rapine, alle guardie delle carceri dove qualcuno dei loro militanti era stato detenuto, ai medici interni delle carceri che avevano fatto il loro mestiere. Li chiamavano i terroristi “giustizialisti”. Roba da serial killer. Scrivendo di questo caso non ho comunque dimenticato di esprimere le mie critiche allo spot pubblicitario organizzato dal Ministro dell’Interno in aeroporto al momento dell’arrivo di Battisti nel gennaio 2019 dalla Bolivia. Premesso tutto questo, le recenti decisioni in merito alla carcerazione di Battisti possono suscitare più di una perplessità e potrebbero suggerire soluzioni diverse. Il Ministero, respingendo le richieste dei difensori, ha confermato la classificazione di Battisti come detenuto destinato ad un carcere di Alta sicurezza e lo ha trasferito al carcere di Rossano in Calabria, molto lontano e che pone certamente difficoltà per effettuare i normali colloqui e altre limitazioni Certamente il Ministero e l’amministrazione penitenziaria possono applicare i regolamenti e classificazioni formali. Ma la lotta armata in Italia si è esaurita da più di 20 anni con la disgregazione di tutte le organizzazioni terroristiche, i crimini che Battisti ha commesso sono avvenuti 40 anni fa e il mondo in cui sono maturati è scomparso. Battisti non avrebbe più nessuno cui rivolgersi. Infatti nel carcere di Rossano, dove è stato trasferito, ci sono quasi solo terroristi islamici. La detenzione nel circuito di massima sicurezza è prevista per scongiurare il mantenimento dei contatti con l’esterno e la programmazione di nuove azioni criminose e anche per evitare il proselitismo nelle carceri ordinari, quello in cui i Pac si erano un tempo specializzati. Ma questo pericolo, almeno in relazione alla lotta armata, oggi per fortuna non esiste più. Una situazione ben diversa da quella dei mafiosi e degli appartenenti ad altri gruppi della criminalità organizzata che, anche se in carcere, mantengono ancora il controllo del loro territorio e sono in grado di impartire ordini a chi è rimasto fuori. È questo che giustifica il regime carcerario di cui all’art. 41 bis ed altre misure di massima sicurezza, ma di certo non riguarda Battisti. I familiari delle vittime hanno avuto finalmente piena giustizia. Tutti i componenti dei Pac sono stati condannati e nessun responsabile di quegli omicidi è oggi più latitante. Soprattutto quello in cui Battisti credeva e propagandava con le armi è stato sconfitto, questo è il messaggio che viene dal vento della Storia. È giusto che Battisti debba espiare, anche senza sconti, la pena che per tanti anni ha evitato. Ma forse sarebbe meglio trattarlo come un detenuto qualsiasi, anche per non parlarne più. Forse è meglio per tutti.

L'isolamento doveva durare 6 mesi. Cesare Battisti si ribella contro l’isolamento illegale: basta cibo e medicine. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Settembre 2020. Questa volta ci mette il suo corpo. Quello di un uomo di sessantacinque anni con qualche problema di epatite e di prostata. Da ieri Cesare Battisti rifiuta il cibo e le medicine. La notizia diffusa dall’avvocato Davide Steccanella con una lettera dello stesso ex terrorista, ha suscitato la solita valanga di commenti negativi, anche da quegli ambienti politici che ostentano il proprio “garantismo”. Uno solo sembra aver capito, il regista Marco Bellocchio, che vede l’aspetto positivo nella scelta non violenta, definendola «protesta legittima», soprattutto perché «penso che contraddica la condotta violenta della sua militanza terroristica. Per questo ha una sua nobiltà, in quanto non violenta». Una tenue eco delle parole di Marco Pannella, cui purtroppo si è sottratta Dacia Maraini, che ha preferito chiedersi «chissà se ha pensato alle vittime». Quel che colpisce, soprattutto nei commenti degli esponenti politici, è l’ignoranza. Cioè il disinteresse per i fatti, per le ragioni di una decisione così estrema. Come se, una volta catturata la preda, la persona non esistesse più, sprofondata in un buco nero, una sorta di piccola Guantanamo ad hoc. Eppure, non occorre essere avvocati per fare il punto della situazione. Cesare Battisti ha commesso reati molto gravi, ha ucciso, ha ferito, ha rapinato. Inoltre è rimasto latitante, lontano dall’Italia per circa quarant’anni. Per questo è stato condannato all’ergastolo, unico tra i suoi ex compagni. Non solo, ma la corte d’appello di Milano, quando nel 1993 ha emesso l’ultima sentenza di merito, gli ha inflitto come pena anche l’isolamento diurno per sei mesi. Ora, ci vuole una laurea in ingegneria per calcolare che dal giorno del suo arresto, il 14 febbraio 2019, si arriva più o meno a ferragosto dello stesso anno, data oltre la quale l’isolamento avrebbe dovuto cessare? Non è così, Cesare Battisti è sempre solo, a Oristano, in Sardegna. È passato oltre un anno e mezzo, e nessuno ufficialmente ha ancora risposto alle diverse istanze dei suoi difensori. Lui stesso ha addirittura presentato una denuncia per abuso d’ufficio alla procura della repubblica di Roma. Nei confronti di ignoti, o forse, tra le righe, degli ultranoti ministro di giustizia o capi del Dap. L’altro punto su cui basterebbe informarsi, per capire, è la scelta della collocazione della sua detenzione. Perché in Sardegna? Per punire lui oppure i suoi parenti e soprattutto i suoi difensori? Il suo giudice naturale, quello davanti al quale si sono celebrati i processi che lo hanno giudicato e condannato, è a Milano, dove ci sono tre carceri. Tutti questi “garantisti” che urlano e protestano, perché hanno tanta difficoltà a capire che non c’è bisogno di queste (di fatto) pene accessorie per fare scontare il giusto a chi ha commesso reati tanto gravi e li ha anche ammessi? A Milano esiste il carcere di Opera, dove sono detenute altre persone con condanne gravi. Non sarebbe un privilegio per l’ex terrorista essere trasferito lì. È un istituto ad alta sorveglianza. Invece no. Se vogliamo farne una questione formale infine, potremmo ricordare che l’arresto di Cesare Battisti è avvenuto in un aeroporto romano, dopo la sua estradizione. Se la memoria non ci inganna anche nella capitale ci sono un paio di carceri, Rebibbia e Regina Coeli, che non sono certo degli hotel. C’è un’altra questione infine, che dovrebbe suscitare qualche curiosità. Siamo sicuri che un anno e mezzo fa sia stato arrestato un terrorista? In Italia la lotta armata degli anni Settanta non esiste più, sono passati decenni, tutti sono cambiati e tutti i protagonisti di quei tempi sono più o meno liberi, compresi coloro che hanno rapito e ucciso Aldo Moro. Battisti ha indubbiamente goduto il privilegio della latitanza e ora deve scontare la sua pena, più che giusto. Ma è un terrorista? Ovviamente no, e anche se lo fosse, non avrebbe più la possibilità di avere relazioni con altre persone con le armi in pugno. Non ci sono altri come lui, nelle carceri italiane. Forse anche per questo (ma non è un buon motivo) lo lasciano così solo. Ma ci domandiamo per quale motivo debba restare in un reparto di massima sicurezza (AS2), quello riservato appunto ai terroristi. È una situazione insensata, che puzza troppo di vendetta, per poter passare inosservata. Mostra una volta di più la debolezza dello Stato e anche di questo governo. Il premier Conte vuol fare il piccolo Erdogan e portare un detenuto a mettere in discussione il proprio corpo, la propria salute e la propria vita, solo per intestardirsi a non applicare tre semplici regole? Glielo spieghiamo noi, ministro Bonafede, che cosa bisogna fare, per ristabilire la legalità: togliere il detenuto dall’isolamento, trasferirlo nel luogo del suo giudice naturale, declassificarlo dalla categoria di terrorista a quello di normale prigioniero. Lasciategli scontare in pace, se possibile, la sua pena. Non continuate a renderlo protagonista, ancora una volta, suo malgrado, di qualcosa di forte, di scandaloso, forse di tragico.

In isolamento da un anno e mezzo. Caso Battisti, dove è la destra garantista che dovrebbe combattere la sinistra giustizialista? Iuri Maria Prado su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Una chiacchiera garantista che dura da trent’anni, così abbondante e melodrammatica quando si tratta di proteggere la gente “per bene”, cioè gli appartenenti al clan, sta in perfetta armonia con la più retriva e incivile istanza illiberale quando non c’è da accusare una toga rossa e quando a soffrire l’ingiustizia è chi appartiene a categorie che non ricadono in quell’ambito di tutela. La destra – questa cosa che avrebbe potuto essere altro, questa cosa che ha avuto il tempo, il modo, il potere, l’accreditamento per poter essere altro – in argomento di giustizia non è mai riuscita e tuttavia non riesce a essere nient’altro: e cioè l’osceno, eterno complesso reazionario mobilitato a reclamare impunità o chiavi da buttare secondo che la giustizia infierisca di qui o di là. Il caso di Cesare Battisti, di cui in particolare questo giornale si è occupato, è solo l’ultima – ma molto significativa – riprova della genuina e inesausta natura illiberale di quella tradizione, che viene su come un catarro inguaribile nei discorsi indignati degli influencer di destra quando un detenuto chiede il trattamento costituzionale dei propri diritti. Non c’è solo il prevedibile Salvini, che rivendica il merito di aver «assicurato alle patrie galere» il «vigliacco assassino» e grida contro lo «sconto di pena» che peraltro nessuno ha chiesto. Ce lo ricordiamo bene, Salvini, nel sodalizio ripugnante con il ministro Bonafede, quello travestito da poliziotto e quest’altro a fare il film della “giornata indimenticabile”, con la musichetta. Una cosa buona nella Repubblica fondata su Piazzale Loreto: una vergogna in un Paese appena decente. Ma appunto: che cosa volevi che dicesse il capo della Lega? Ma c’è anche, in competizione indemoniata, la madre e cristiana d’Italia, Giorgia Meloni, che a proposito della faccenda dichiara: «Dopo averla fatta franca per decenni, il terrorista Cesare Battisti non concepisce l’idea di dover restare in galera per il resto dei suoi giorni a scontare la pena che la giustizia italiana gli ha inflitto». Dichiarazione stolida in primo luogo perché quel che Battisti concepisce o non concepisce non sono affari della Meloni e di nessun altro, e poi perché la pena inflitta non include il trattamento illegale di cui Battisti si assume vittima. Ma non è mica finita. C’è anche la signora Mara Carfagna, la quale non solo invita Battisti a «dimostrare dignità» (e chi è, una precettrice?), ma proclama: «In nome del popolo italiano è giusto che paghi per quello che ha fatto». Signora Carfagna: “paghi” come? Con l’isolamento oltre i termini previsti? Con il conto dei minuti d’aria? Con la privazione del diritto alle cure mediche? Con il diniego del lusso costituito da un piatto di riso in bianco? Magari alla luce degli insegnamenti della sua collega in libertà, la signora Santanché, la quale, a proposito delle scandalose pretese di Cesare Battisti, sbava: «Si affami pure, ma in cella!». Cara signora Carfagna, nessuna norma conferisce al popolo italiano, che lei vorrebbe onorare, il diritto di incattivirsi in quel modo su un detenuto. E semmai il popolo italiano dovrebbe vergognarsene: e lei che lo rappresenta dovrebbe spiegarglielo, anziché vellicarne la propensione aguzzina. Sarebbe la vostra, sarebbe questa l’alternativa alla sinistra “giustizialista” che dite di avversare?

Caso Battisti, la Cassazione autorizza: la tortura è legittima. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Settembre 2020. La Cassazione ha detto di sì: la tortura in Italia esiste ed è legittima. Può essere applicata anche per pura vendetta, non solo per esigenze investigative (cosa che avviene assai spesso) o di sicurezza. E dunque Cesare Battisti deve restare in regime di isolamento nel carcere duro di Oristano, non rompere le scatole, accettare democraticamente la sua pena, rischiare la vita perchè costretto a un vitto non compatibile con le sue condizioni di salute, e perdipiù pagare 3000 euro di ammenda per avere osato chiedere l’applicazione della Costituzione. La Cassazione ha stabilito che né la Cassazione né la dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo hanno la prevalenza sulle leggi speciali italiane. Varate per altro, come leggi di emergenza, al tempo della lotta armata, prima che la lotta armata si concludesse, nel secolo scorso. E’ così, niente da fare. Battisti sta scontando una pena all’ergastolo (sebbene in più occasioni la stessa Corte Costituzionale abbia messo in discussione la pena perenne) per alcuni reati gravissimi (omicidio) per i quali è stato condannato in contumacia (e con processi svolti in modo francamente assai discutibile e conclusi sulla base delle accuse dei pentiti) commessi circa 40 anni fa, quando alcuni dei giudici che oggi decidono su di lui non erano ancora nati o andavano alle elementari. Ha vissuto all’estero, latitante, per 37 anni, poi è stato arrestato dalla polizia boliviana e consegnato all’Italia. Per molti anni, prima le autorità francesi e poi quelle brasiliane, avevano negato l’estradizione perché avevano giudicato i processi italiani irregolari, e quindi irregolari le condanne. Battisti si è sempre dichiarato innocente, fino a quando è stato catturato. Poi, qualche mese dopo l’arresto – molto esibito dai ministri dei 5 Stelle e della lega che all’epoca governavano beatamente insieme, ispirati agli stessi principi giustizialisti che li spinsero a dichiarare ai giornalisti: «marcisca in carcere…» – Battisti rese invece un’ampia confessione davanti ai magistrati. La confessione ricostruì tutta la sua vicenda esattamente negli stessi termini nei quali l’avevano ricostruita le condanne. Neanche un dettaglio diverso. In questo modo, a norma di legge, Battisti ottenne la possibilità di essere ammesso ai benefici carcerari e agli eventuali sconti di pena che non sono ammessi per i condannati non pentiti e non rei confessi. La confessione, però, finora non è servita a molto. Battisti ha chiesto che finisca l’isolamento e quindi di poter scontare la pena in un regime carcerario normale, ma gli hanno detto di no. Ha chiesto una alimentazione compatibile con le sue condizioni di salute, ma gli hanno detto di no. L’altro giorno ha iniziato uno sciopero della fame e delle medicine, per rivendicare i suoi diritti – cioè i diritti che spettano agli esseri umani e che spesso vengono riconosciuti anche ai viventi non umani – senza che nessuna autorità ne prendesse atto e ottenendo – come ha osservato Iuri Maria Prado proprio qui sul nostro giornale – contumelie e insulti da una buona parte del mondo politico, soprattutto da parte della destra garantista. (Garantista? diciamo così: garantista…). Ora la Corte di Cassazione ha stabilito che le sue richieste sono contro la legge. E che Battisti può restare lì dov’è. Rivalutando in questo modo, e sdoganando, e dando valore giuridico alle dichiarazioni di Matteo Salvini delle quali abbiamo scritto poche righe fa: “Marcisca in carcere”. Nessuno può sperare che qualcuno si muova per difendere i diritti di questo detenuto, che da sempre è stato indicato, qui in Italia, come il male assoluto. Recentemente è stato scaricato, in modo un po’ goffo, anche dall’ex presidente Brasiliano Lula. Persino gli intellettuali italiani e francesi, che qualche anno fa avevano speso qualche parola a suo favore, e contro i processi sommari che si svolgevano in Italia degli anni ottanta, sono tutti spariti. Ora però la Cassazione pone un problema che va oltre la stessa sorte di Battisti (il cui destino e la cui vita, comunque, non possono essere abbandonati al disinteresse generale): la legittimità di regimi carcerari che possono essere paragonati alla tortura. A me è capitato varie volte, per esempio, di discutere con alcuni magistrati “rigorosi” del 41 bis. Mi è successo di farlo anche con un monumento della magistratura come Giuseppe Pignatone, qualche anno fa. Pignatone mi ha detto: «Il 41 bis è solo un regime di sicurezza che serve a impedire che i capi della mafia (o del del terrorismo) continuino a dirigere le loro organizzazioni». Dunque, motivi di sicurezza. Di protezione della società. Pignatone si è sempre rifiutato di chiamare il 41 bis “carcere duro” (cosa che invece fa, con una certa disinvoltura, il meno sofisticato Gratteri). Ecco, c’è qualcuno al mondo che può immaginate che ci sia il rischio che Battisti, dal carcere, diriga la lotta armata? Siccome non c’è, la teoria Pignatone ora svanisce. La Cassazione ha proclamato il diritto alla vendetta e alla ferocia.

Battisti arriva al carcere di Rossano. Resta in regime di “alta sicurezza”. Nonostante lo sciopero della fame l’ex leader dei Pac rimane in una struttura di alta sicurezza. Il Dubbio il 12 settembre 2020. Cesare Battisti sarebbe appena arrivato al carcere di Rossano, in Calabria, secondo quanto riferisce dall’Adnkronos. A nulla è valso lo sciopero della fame totale, annunciato da Davide Steccanella legale dell’ex leader dei Pac, iniziato per ottenere il trasferimento dal carcere di Oristano, dove ha trascorso il periodo di isolamento di sei mesi previsto dai provvedimenti giudiziari con cui è stato condannato, o  un declassamento dal regime detentivo (AS2), in quanto «non esistono più di fatto le condizioni di rischio che la giustificherebbero». L’ex leader dei Pac resta in un carcere di Alta sicurezza. Da oltre un anno e mezzo Battisti è in isolamento diurno nel carcere di Oristano in modo «del tutto illegittimo», secondo l’avvocato, visto che «la pena dell’isolamento diurno a suo tempo inflitta era di sei mesi per cui è stata scontata a giugno». Nella lettera che ha fatto avere ai suoi legali, Battisti ha affermato: «La morsa del Dap messa puntigliosamente in esecuzione dalla autorità del carcere di Oristano, ha resistito provocatoriamente a tutti i miei tentativi di far ripristinare la legalità, e la dovuta concessione dei diritti previsti in legge, ma sempre ostinatamente negati». A nulla sono valse le sue «rimostranze scritte o orali rivolte a questa Direzione, al Magistrato di Sorveglianza, all’opinione pubblica», e  «pretendere un trattamento uguale a quello di qualsiasi altro detenuto è una contesa continua, estenuante e che coinvolge gli atti più ordinari del mio quotidiano: l’ora d’aria; l’isolamento forzato e ingiustificato; l’insufficiente attendimento medico; la ritensione arbitraria di testi letterari». Nel maggio scorso Battisti ha presentato istanza formale per il trasferimento dal carcere di Oristan a quello di Milano-Opera o di Roma-Rebibbia. Nulla da fare, Battisti, a Rossano, rimarrà   collocato nel reparto Alta Sicurezza AS2 insieme ai terroristi islamici. La decisione di trasferire il leader dei Pac aveva subìto uno stop quest’estate perché nel carcere di Rossano le celle dove collocare temporaneamente Battisti per la quarantena anti Covid, erano ancora piene. «Battisti trasferito nel carcere di Rossano? Non ne so nulla», ripeteva fino a questa mattina l’avvocato Sollai. Due giorni fa, nel carcere di Oristano, Battisti ha ricevuto la visita del suo legale, al quale ha ribadito il perché dello sciopero della fame: «Sono sotto sequestro da gennaio dello scorso anno in Bolivia ed ora in Sardegna. Non mi hanno dato scelta, sono stato costretto ad uno sciopero totale della fame». L’ex Pac ha anche detto di «sentirsi prigioniero di una sporca guerra tra lo Stato e la lotta armata, e non, del periodo delle grandi contraddizioni sociali che hanno sconvolto l’Italia dalla fine degli anni ’60 agli inizi degli anni ’80». Infine ha aggiunto: «Lo Stato vuole sacrificare me in nome di una giustizia che non c’è, mi ha dichiarato guerra e questa si manifesta con la secretazione degli atti, con l’isolamento forzato e illegittimo e con una classificazione retroattiva di 41 anni. Siamo davanti alla vendetta dello Stato nei miei confronti a distanza di oltre 40 anni dalle contraddizioni sociali emerse con il ’68».

 Cesare Battisti sepolto vivo, ergastolo che sembra pena di morte. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Maggio 2020. I tempi sono quel che sono e l’immagine del detenuto è quel che è. Ma per quali motivi di alta sicurezza Cesare Battisti deve stare a Oristano, quando la sua destinazione era Rebibbia e le sue condanne definitive sono avvenute a Milano? Non c’è anche qualche violazione dei diritti della difesa nel tenere l’assistito a un migliaio di chilometri dal sua difensore di fiducia? E non c’è qualcosa di disumano nel costringere i suoi unici parenti, che vivono nel grossetano, a dissanguarsi per i soggiorni sardi? L’avvocato Steccanella non lo dice, ma possiamo farlo noi: o si decide che in Italia esiste una sorta di Guantanamo o Cesare Battisti deve esser tirato fuori da quel buco nero dove è sepolto da più di un anno. Sono due le richieste che il suo legale ha avanzato nei giorni scorsi al giudice di sorveglianza e al Dap: la declassificazione che porti il detenuto a un regime di normalità, e il trasferimento al Carcere di Opera o di Rebibbia.

Cioè dove avrebbe dovuto andare, secondo quanto scritto dalla polizia al suo avvocato fin da quando, alle 12,38 del 14 gennaio di un anno fa fu fatto sbarcare all’aeroporto di Ciampino in arrivo dalla Bolivia e portato nei locali del trentunesimo Stormo dell’aeronautica militare e preso in custodia dalla polizia penitenziaria di Rebibbia. «E lì associato», scriveva il funzionario di ps. Che cosa è successo da quel momento e mentre il ministro Bonafede viveva la sua “giornata indimenticabile” esibendo lo scalpo di Cesare Battisti? Chi ha deciso improvvisamente il trasferimento del detenuto da Roma a Oristano? Tra l’altro, a parte i sei mesi di isolamento, ormai scontati, decisi dalla corte d’assise d’appello di Milano in esecuzione di pena, questo ergastolano “non soggiace a regime diverso da quello ordinario, per il principio di irretroattività”, scrivono i magistrati. Quindi non è sottoposto al regime ostativo dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e neanche a quello del 41 bis. Però il Dap gli ha attribuito la classificazione Alta Sicurezza 2, in quanto terrorista. Ma terrorista di ieri ( il suo ultimo delitto risale al 19 aprile 1979, 41 anni fa) o terrorista di oggi? In ogni caso, resta il fatto che un detenuto classificato AS2 può incontrarsi solo con i suoi omologhi e che a Oristano non ce ne sono, e che quindi questo ergastolano sta vivendo un isolamento illegittimo. Di fatto, ma pur sempre illegittimo. La nuova dirigenza del Dap ha qualcosa da dire? E il giudice di sorveglianza? Prima di ricordare chi era Cesare Battisti ieri, vediamo chi è oggi. Ascoltiamo per prime le parole dei giudici. Per esempio quelle emerse dalla camera di consiglio dei magistrati di sorveglianza del 26 novembre 2019. Il detenuto, si dice, “ha dato prova di partecipare all’opera di rieducazione” e ha tenuto ”condotta regolare”. Per questo motivo gli sono stati riconosciuti i 45 giorni di riduzione di pena, per i primi sei mesi di detenzione, agli effetti della liberazione anticipata. Dopo queste parole, si può ancora ritenere attuale la pericolosità della persona, o la si deve ancorare per sempre a quel che è accaduto 40 anni prima? Anche la collaborazione spontanea con la magistratura (certo, tardiva, dopo 38 anni di latitanza) andrebbe presa in considerazione. Soprattutto se pensiamo che dei suoi sessanta coimputati nessuno è stato condannato all’ergastolo e sono ormai tutti liberi, in coincidenza anche con un bell’esercito di mafiosi assassini e “pentiti”. La confessione a Cesare Battisti è anche costata in termini di isolamento politico. Non tanto da parte degli intellettuali francesi che lo hanno sempre sostenuto, ma in terra italiana. Lo ha difeso solo Arrigo Cavallina, che aveva dieci anni più di lui, quando si erano conosciuti nel carcere di Udine e Battisti era un giovane rapinatore di famiglia comunista e con brevi passaggi nella Fgci e in Lotta Continua, e che lo aveva condotto per mano nei Pac, i proletari armati per il comunismo. In un libro recente Cavallina ha ricordato che fin dal 1981 il suo compagno Cesare era molto critico nei confronti della lotta armata. Sono lontanissimi quei tempi, e chissà quanti di quegli ex terroristi amano ancora il termine “compagni”. Pure, Cesare Battisti ha sentito il bisogno di scrivere quella lettera aperta a chi lo criticava. Lui vuole uscire da un vestito che da tempo non è più il suo, quello del “mito Battisti” che, dice, “è stato costruito per abbatterlo”. Un buon mito sventolato anche dai compagni. “E succede che, poco importa che quel mito sia fatto di carne e ossa, che non ne possa più di essere martirizzato…un martire da agitare, secondo i gusti, da un lato o dall’altro della barricata”. Non può che concludere con “un abbraccio a chi lo vuole”, sapendo che non saranno in molti a volerlo. Questo è oggi Cesare Battisti. Consentiamogli di uscire da quel “mito”, più negativo che positivo, e di diventare un ergastolano normale in un carcere normale. Si chiede troppo?

Battisti denuncia lo Stato, è in isolamento illegale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Luglio 2020. Che il suo isolamento fosse un abuso era sotto gli occhi di tutti, o di quei pochi che volevano vederlo, ma ora è arrivata la denuncia, scritta di pugno da Cesare Battisti alla Procura della repubblica di Roma. Risponda qualcuno dell’articolo 323 del codice penale, l’abuso di ufficio. Non ci sono nomi, ma possiamo fare qualche ipotesi: il ministro Bonafede e i capi del Dap, Petralia e Tartaglia. Cioè coloro che trattengono illegittimamente, nell’ultimo anno, in isolamento un detenuto senza che alcun provvedimento giudiziario lo imponga. Un gesto forte, chiedere un’iniziativa penale per abuso d’ufficio nei confronti di chi, contravvenendo a qualsiasi logica e procedura, ha buttato un detenuto ritenuto così speciale da pensare di poter fare qualunque cosa del suo corpo, in un buco buio e isolato di un carcere sardo lontano da tutto. Sì, il gesto è forte, ma lo è altrettanto una logica da carcere speciale, quella da “buttar via la chiave”, come fu quella dei tempi del terrorismo o dell’apertura di Pianosa e Asinara dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino. La denuncia, Battisti ha voluto assumerla di propria iniziativa, se pur presentandola tramite il suo avvocato di Cagliari Gianfranco Sollai, che lo assiste insieme al collega milanese Davide Steccanella. Ha resistito anche troppo, in realtà, dopo essersi sottomesso, come è giusto sia, a una sentenza che lo ha condannato a sei mesi di isolamento insieme all’ergastolo per reati che lui ha commesso e riconosciuto. Ma che non possono essere appesantiti, dopo i sei mesi e un altro anno, da una sorta di ulteriore pena accessoria non stabilita da nessun giudice. Date e fatti sono elencati puntigliosamente nella denuncia. Si parte dalla sentenza della Corte d’appello di Milano del 1993 che stabiliva, insieme alla condanna all’ergastolo, l’isolamento diurno del detenuto per sei mesi. Non vanno trascurati il luogo geografico e il distretto giudiziario di questo punto di partenza che segna la storia giudiziaria di Cesare Battisti. Cui avrebbe dovuto conseguire, per logica, la detenzione in una delle tre carceri milanesi. A occhio, con la preferenza per Opera, visto il tipo di reati. Ma andiamo al punto secondo. “Il sottoscritto veniva arrestato il 14-1-2019 presso l’aeroporto di Ciampino…”. Siamo a Roma, dunque. Tralasciamo la sceneggiata del ministro Bonafede da piccolo dittatore del sesto o settimo mondo, e focalizziamo di nuovo l’attenzione sul territorio. Dove portare il prigioniero? Se è troppo impegnativo trasferirlo subito a Milano, vediamo se c’è un posticino almeno in uno dei due istituti romani, Rebibbia e Regina Coeli. Invece no, si vola a Oristano, Sardegna. Chi lo stabilisce? Il Dap, si suppone, cioè il ministero di giustizia, cioè siamo di nuovo a Bonafede, a meno che, essendo lui troppo impegnato a esibire lo scalpo del prigioniero appena catturato, il misfatto non si sia compiuto a sua insaputa. Tremendo quel dottor Basentini, allora presidente del Dap, la cui nomina aveva fatto così tanto arrabbiare l’icona “dell’antimafia” Nino Di Matteo…Nel carcere di Massama, a Oristano, Cesare Battisti è in isolamento in un reparto di massima sicurezza (AS2), quello riservato ai terroristi, che non ci sono più, tranne quelli dell’Isis o di organizzazioni simili. I quali in ogni caso sono da un’altra parte, oltre a non aver nulla a che fare con coloro che negli anni settanta impugnarono le armi nel nostro Paese. Lui non si lamenta, le sentenze sono sentenze. Intanto, da quel 14 gennaio del 2019 i sei mesi dell’isolamento sono passati a occhio un anno fa, nel mese di luglio. Che cosa è cambiato da allora? Assolutamente niente. In novembre, e sono passati altri quattro mesi, il giudice di sorveglianza prende atto del fatto che il detenuto «ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione… e di condotta regolare». Lui nel frattempo, in due interrogatori con un procuratore di Milano, ha rivisto i suoi comportamenti e si è riconosciuto responsabile di ogni reato per cui sia stato condannato. Ma continua a rimanere classificato come “terrorista”, dopo quarant’anni dai fatti per cui è stato condannato. «Che agganci può avere oggi, visto che tra l’altro il terrorismo degli anni settanta non esiste più?», si domanda sconsolato l’avvocato Steccanella. Ma intanto, gli fa eco il suo collega Sollai, «questo suo status permane ancora e non è sorretto da alcuna legge né tanto meno da alcun provvedimento giudiziario». Che cosa è, allora? Vendetta? Sadismo? Intanto lo stesso Battisti si dà da fare. Chiede l’accesso agli atti per sapere che sorte abbia avuto l’istanza di declassificazione presentata dai suoi legali. L’Amministrazione penitenziaria risponde che non si può sapere. Si suppone sia stata rigettata, ma le motivazioni non sono note. Addirittura un ispettore di polizia penitenziaria cui si rivolge il detenuto per capire che cosa ci faccia a Oristano e in quella situazione, gli ha risposto che si troverebbe «in isolamento sia formale che di fatto». Eh no, con tutto il rispetto, signor ispettore, “formale” no, dopo un anno e mezzo! E allora, la pazienza ha un limite. E si presenta la denuncia. Che magari verrà archiviata. Ma qualcuno dovrà ben rispondere. Perché il detenuto Battisti è in isolamento? Perché non può andare per esempio a Opera? Perché deve stare su un’isola? Perché i suoi familiari, oggi costretti anche dal rischio Covid ai colloqui con il vetro, devono prendere l’aereo e attraversare il Tirreno per un breve incontro? Che cosa hanno da dire, dopo questa denuncia, il ministro Bonafede e la nuova dirigenza del Dap, arrivata fresca fresca dopo la defenestrazione del “cattivo” Basentini (che in realtà è stato cacciato perché ritenuto troppo buono)?

La ferocia di Salvini e Meloni su Battisti: non chiede caviale ma riso in bianco. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Luglio 2020. «Taci e digiuna, assassino comunista». «Era abituato al caviale… È dura la vita per gli assassini che pagano per i loro crimini». Non si sono certo tirati indietro Matteo Salvini e Giorgia Meloni con commenti che mai potrebbero apparire sulla bocca del loro alleato storico Silvio Berlusconi. L’assassino di cui parlano è naturalmente Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Pac che sta scontando la pena dell’ergastolo nel carcere di Massama, in Sardegna. La notizia è (dovrebbe essere) di ordinaria amministrazione carceraria: un detenuto il quale, durante una seduta del tribunale di sorveglianza, spiega il perché di una richiesta avanzata all’amministrazione penitenziaria. In questo caso si parla di salute, di un cittadino di 65 anni con diverse patologie che chiede un’alimentazione adeguata alla propria situazione sanitaria. Magari vorrebbe potersi cucinare un riso in bianco con una zucchina bollita. Oppure una patata lessa. Ma scoppia il finimondo. Perché, quando si parla di Cesare Battisti, la bava alla bocca si fa subito schiuma e le invidiuzze sociali si accompagnano a qualche frustrazione di chi si crede intellettuale e non riesce a convincere gli altri di esserlo. Quindi picchia duro sul più debole, il carcerato. Così, a uno sbrigativo Alberto Torreggiani che ha deciso essere l’alimentazione preferita di Battisti «ostriche e pasta alle vongole», si accompagna immediatamente l’insulto più sanguinoso, “gauche caviar”, l’equivalente francese del nostro “radical-chic”. Perché quello che infine si rimprovera a Cesare Battisti, mentre delle migliaia di terroristi che hanno rapinato e ucciso negli anni settanta nemmeno uno è in carcere, non è solo il fatto di aver assassinato, ma di esser diventato uno scrittore e di esser stato difeso da una parte consistente dell’intellighenzia francese di sinistra. Perché a Parigi, durante gli anni di latitanza protetti, i suoi come quelli di tanti altri, dalla “dottrina Mitterand”, lui ha pubblicato diversi noir e ha trovato la solidarietà di Fred Vargas (che sul suo caso ha anche scritto un libro), di Bernard Henry Levy e persino di Gabriel Garcia Marquez. Erano tutti convinti della sua innocenza? Difficile dirlo, come del resto della gran parte dei tanti italiani che in quegli anni si erano rifugiati in Francia. Ma una cosa è certa, che i giuristi francesi che avevano esaminato le leggi emergenziali e le procedure con cui si conducevano le inchieste sul terrorismo in quegli anni in Italia erano inorriditi. Largo uso dei collaboratori di giustizia, processi indiziari e celebrati, come nel caso di Battisti, in contumacia, non sarebbero mai stati possibili in Francia. E questo è il motivo principale per cui una persona pur condannata all’ergastolo (l’unico comunque tra i suoi ex compagni) ha potuto godere di un cordone protettivo durato molti dei quasi quarant’anni della sua latitanza. A nessuno interessa particolarmente del cittadino detenuto Cesare Battisti, neanche dei suoi diritti più elementari. Il giorno del suo arrivo in Italia e dell’arresto pareva un uomo piccolo e spaventato atterrato non sapeva dove. E il ministro Bonafede (ma si può definirlo “ministro” uno così?) si è fatto regista di un bel filmatino con tanto di musica rock per celebrare l’evento e umiliare il corpo di un prigioniero. Una volta arrestato e timbrato sulle mani lui è stato internato in un carcere sardo, ben lontano dal luogo dei suoi processi, Milano, in modo che si potesse torturare ben bene chiunque, parenti o amici, avesse la peregrina intenzione di andare a trovarlo. È in isolamento illegittimamente, mentre una sentenza diceva “sei mesi”, e lui è separato da chiunque altro da oltre due anni. Chiede di essere curato e gli danno voltaren e tachipirina. Nessuna visita specialistica, per lui. Non può cucinare perché i terroristi, come i mafiosi e altri ultimi della terra, non ne hanno diritto. Chiede infine che, oltre a tutti i problemi di salute che ha già, non gli si faccia venire anche un’ulcera perforante, e viene irriso: volevi il caviale, eh? No, volevo il riso in bianco. Gli fanno pagare le sue tante vite, perché da proletario e rapinatore è diventato terrorista e politico, e poi scrittore e amico di tanti intellettuali. E infine una sorta di migrante, in giro per il mondo, per sfuggire a quel che poi, infine, gli è capitato. In fondo a una lettera, che ha scritto quando gli è stata rifiutata la possibilità di scontare la pena, nei mesi per pericolo di contagio da Covid-19, a casa di suoi parenti, cita la famosa frase di Victor Hugo che consigliava, prima di dare il proprio giudizio sulla civiltà di un Paese, di visitare le sue prigioni. Pensate che scandalo se il pensatore francese avesse parlato anche del cibo! Taci e digiuna, miserabile, qualcuno avrebbe potuto dirgli.

Cesare Battisti seppellito vivo e linciato per aver chiesto scarcerazione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Ha chiesto la detenzione domiciliare per ragioni di salute e pericolo di contagio da Coronavirus. Cesare Battisti vive nel carcere di Oristano, sepolto in un buco nero, in un isolamento totale che nessun tribunale ha mai stabilito. I primi sei mesi, dopo l’arresto del gennaio 2019, erano in realtà previsti dalla sentenza che lo ha condannato all’ergastolo per quattro omicidi, ma l’anno successivo no. «Non si può vivere senza poter mai neanche parlare con nessuno – dice il suo legale, l’avvocato Davide Steccanella – queste sono forme di tortura». È un fatto apparentemente casuale, la condanna per fatti di terrorismo che l’amministrazione penitenziaria classifica con la sigla AS2. Poiché a Oristano non ci sono altri detenuti con quella classificazione, lui è destinato al silenzio di una tomba. Se lui esce per l’ora d’aria, per dire, gli altri devono rientrare. Neanche lui fosse un appestato. Il coronavirus ha fatto il resto. L’avvocato non lo vede da due mesi, l’ha sentito al telefono per pochi minuti (poi cade sempre la linea) giusto ieri mattina. Ma un mese fa lui è riuscito ad avere una comunicazione via Skype con il suo bambino brasiliano di cinque anni. Ha paura di essere dimenticato, tiene molto a mantenere la relazione, anche se da lontano e via etere. Le altre due figlie parigine e ormai adulte sono andate a trovarlo e così suo fratello che con la moglie si è offerto di ospitarlo qualora Battisti riuscisse ad avere la detenzione domiciliare. Non sarà facile, con il clima che si respira, nonostante siano ormai lontani gli anni sia del terrorismo che delle stragi di mafia. Pure si cerca sempre qualcuno cui farla pagare. «Gli rimproverano la latitanza», sospira l’avvocato Steccanella. Battisti è evaso insieme ad altri nel 1981. Dei suoi compagni del Pac (Proletari armati per il comunismo) in carcere non c’è nessuno. E neanche delle migliaia di giovani che negli anni Settanta ebbero la tragica idea di prendere le armi, si chiamassero Brigate rosse, Prima linea o altre sigle minori, come appunto i Pac. Certo, lui non è più lo spavaldo rapinatore che aderì in carcere alla lotta armata, né lo scrittore di noir vezzeggiato nei salotti intellettuali parigini e neppure il fuggiasco sudamericano. Oggi Cesare Battisti è, a sessantacinque anni, la somma di tutto ciò e anche qualcosa di più. È un uomo anziano, un pensionato, se non fosse in carcere, malato e preoccupato per un possibile contagio da Covid-19. Pur nella sua situazione appartata con la classificazione di alta sicurezza nel carcere di Oristano, contatti con il personale del penitenziario ne ha. Un vecchio uomo con epatite B e infezione polmonare qualche serio rischio potrebbe correrlo, qualora anche un solo agente tenesse un comportamento poco prudente. Per l’età e per il suo quadro clinico. Scrive, intanto, ha terminato e dato alle stampe, dopo otto anni dal suo ultimo libro, un altro noir, intitolato Indio, pubblicato da Seuil e che sarà nelle librerie francesi il 28 maggio. Il ricavato sarà devoluto alla ricerca sul Covid-19. Un altro capitolo della sua vita, come già i precedenti, quelli in cui raccontava il passaggio di un criminale comune alla politica (armata) o gli anni da “esule” (latitante per la legge italiana) in terra di Francia. Dove il suo caso, non diverso da quelli di tanti altri che godettero della “dottrina Mitterrand”, una sorta di salvacondotto accettato dall’Italia, destava scandalo in famosi scrittori e intellettuali come Gabriel Garcia Marquez, Bernard Henri Levy e Fred Vargas, che su di lui ha scritto il libro La verité sur Cesare Battisti. I francesi non hanno battuto ciglio, quando il loro pupillo, subito dopo l’arresto di un anno e mezzo fa, aveva chiamato il capo del pool antiterrorismo della procura di Milano Alberto Nobili e in due interrogatori aveva raccontato tutto, e ammesso i quattro omicidi che gli sono costati la condanna all’ergastolo. Solo lui ha avuto la pena massima. Nessuno dei suoi coimputati. Perché lui è stato processato in contumacia, perché dopo che per vent’anni nessuno lo aveva cercato, la sua notorietà come scrittore lo ha inseguito e sicuramente danneggiato. E sono subentrati qualche invidia, i moralismi e la voglia di vendetta, mai sopita, neppure oggi. Ma su una cosa, non secondaria, Cesare Battisti va difeso, e non ci stancheremo mai di farlo. I processi celebrati in clima emergenziale, spesso non più che indiziari e fondati non su prove ma su vociferazioni e interessate accuse da parte dei coimputati “pentiti”, hanno travalicato ogni regola dello Stato di diritto. Di questo erano indignati gli intellettuali francesi. Magari pensavano anche che il loro amico fosse innocente e ingiustamente condannato. Ma non era questo il problema principale. Forse loro non sanno che da allora, dai tempi dell’emergenza dell’antiterrorismo, in Italia i pubblici ministeri hanno avuto dalla politica una cambiale in bianco da riscuotere ogni giorno in nome dell’antimafia o dell’anticorruzione. Sempre in clima emergenziale. Un anno e mezzo fa Cesare Battisti è stato esibito come un trofeo dal ministro Bonafede, quello che poi si è lasciato insultare in tv da un pubblico ministero che lo ha accusato di essersi fatto intimidire dalla mafia. Il terrorista arrestato si è lasciato umiliare suo malgrado, mentre era ancora frastornato, messo in ceppi e fatto scendere da un aereo arrivato in mezzo al nulla, che poi era un aeroporto italiano, dove lo aspettava la Grande Gogna. Non era più pericoloso da 38 anni, ma lo scalpo è lo scalpo e il suo era un bel boccone per il governo gialloverde. Come si permette questo terrorista, dicono oggi in coro i grandi quotidiani, di chiedere la detenzione domiciliare? Nessuno però si domanda come mai in Italia si tenga un prigioniero da oltre un anno in una sorta di buco nero, in isolamento, a rischio impazzimento. E perché poi in Sardegna, lontano da tutti, dai parenti e dal legale, quando i suoi processi si sono tutti svolti a Milano, la città dove ci sono ben tre carceri, uno dei quali, Opera, è di alta sicurezza? Ha ragione l’avvocato Steccanella, questa è tortura. Cioè qualcosa di molto serio di cui chiedere conto al ministro Bonafede e ai nuovi vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. 

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 24 ottobre 2020. Litigano sempre su tutto, ma quando c'è da difendere un loro paladino fanno quadrato. La sinistra, senza vergogna, ha il coraggio di difendere uno come Cesare Battisti e di perdere tempo per lui in un momento storico come questo, dove i veri problemi ci pare siano ben altri. L'ex terrorista dei Pac, detenuto nel reparto di massima sicurezza del carcere di Rossano, in Calabria, ha chiesto al magistrato di sorveglianza il rinvio dell'esecuzione della pena con detenzione domiciliare. Battisti, 65 anni, avrebbe motivato la richiesta con motivi di salute. Tuttavia, da giorni rifiuta le visite mediche. La richiesta del rinvio di esecuzione pena con detenzione domiciliare è stata avanzata prima del trasferimento dell'ex terrorista nel reparto di massima sicurezza, avvenuto venerdì scorso. A questo proposito, stamani dalle 10.30 alle 12.30, è previsto un sit-in davanti al carcere per chiedere «dignità per tutti i detenuti», organizzato dall'avvocato Adriano D'Amico, consigliere comunale di San Demetrio Corone (Cosenza) e membro del comitato politico provinciale di Rifondazione comunista e da Francesco Saccomanno, segretario provinciale di Rifondazione comunista. Tra i primi firmatari dell'iniziativa c'è Franco Piperno, fondatore di Potere operaio e docente dell'Unical. Nel «manifesto» pubblicato sulla pagina Facebook di D'Amico si parla delle «privazioni» e «soprusi» che avrebbe subito Battisti, di «vile e inutile vendetta» dello Stato e di «dignità» da restituire all'ex terrorista. «Non c'è nessun assalto al carcere dice D'Amico - ma la richiesta di dignità e rispetto dei diritti dei detenuti, e nel caso specifico anche di quelli di Battisti, che magari sarà un detenuto un po' più particolare, un po' più attenzionato dai mass media e dalla stampa nazionale, ma in questo momento è un detenuto che purtroppo per lui è in un carcere di massima sicurezza per reati che avrebbe commesso». Di tutta risposta Maurizio Campagna, fratello di Andrea, agente della Digos di Milano ucciso dai Pac nel 1979 dice: «Che vergogna. Non si arrende mai. Queste cose dovrebbero far riflettere i giudici quando gli concedono i 45 giorni di sconto pena per ogni 6 mesi di buona condotta. Incitare persone a manifestare davanti a un carcere, per ottenere cose che non sono previste, a mio avviso, dovrebbe far decadere questi sconti. Ad Adriano D'Amico, Piperno e Saccomanno direi di aiutare le vittime del terrorismo e non i loro carnefici». Gli fa eco Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso dai Pac in una sparatoria nel 1979 e rimasto ferito lui stesso da un proiettile che gli ha fatto perdere l'uso delle gambe: «Ormai lo fanno passare per vittima. Sia chiaro, il diritto di ogni detenuto va rispettato, ma bisogna capire proprio cosa sta succedendo e dove si vuole arrivare. Mettere delle linee e dei paletti, perché continuando così, tra due mesi Battisti viene candidato a sindaco».

L’ex brigatista Barbara Balzerani ricorda ex compagno morto: la Digos indaga. Frank Cimini su Il Riformista il 10 Aprile 2020. La storia la scrivono i vincitori. Gli sconfitti si adeguano, ma da qualche parte dovrebbero conservare il diritto a dire la loro senza essere costretti a risponderne in tribunale. Il problema non certo nuovo si ripropone in questi giorni con la notizia che la Digos di Genova sta svolgendo accertamenti, secondo quanto scritto dal sito Genova Quotidiana e rilanciato dal Corriere della Sera, su un post Facebook dell’ex dirigente delle Brigate Rosse Barbara Balzerani, relativo alla morte di quattro militanti dell’organizzazione uccisi in via Fracchia il 28 marzo del 1980 dai carabinieri del generale Dalla Chiesa. “Fiori freschi memoria viva”, le parole del post accanto alla foto della tomba di Riccardo Dura, uno dei quattro Br uccisi. Va detto che la ricostruzione ufficiale era sta messa in dubbio anche due anni fa quando, sulla base di un esposto di un ricercatore universitario in cui si sosteneva la tesi di Dura finito con un colpo alla nuca, la procura di Genova aprì un’indagine per omicidio volontario. Ma alla richiesta di carte da parte della procura emergeva che l’intero fascicolo su via Fracchia era scomparso. Per cui il capo dei Pm avviava un’inchiesta per furto delle carte processuali. Insomma si tratta di una vicenda tuttora controversa a oltre quarant’anni dai fatti ma non è questo il punto. La discussione vera riguarda altro in linea più generale. Il diritto, definiamolo così, dei vincitori di scrivere la storia può e deve arrivare fino al punto di imporre la versione ufficiale e la ricostruzione storico-politica manu militari? Esiste o meno il diritto al dissenso che dovrebbe essere il sale di una democrazia? E qui entra in gioco la questione della memoria condivisa. I vincitori per memoria condivisa intendono il trionfo in eterno della loro verità senza contraddittorio. Siamo in un Paese in cui a 75 anni dal 25 aprile non si può dire vi sia una memoria condivisa sul fascismo la sua storia e la sua fine. Appare ancora più assurdo pretenderlo per fatti molto più vicini a noi e sui quali non c’è mai stato un dibattito politico serio in merito alle origini e alle cause di un fenomeno che portò nelle patrie galere migliaia e migliaia di persone. Il tutto è stato affidato agli atti giudiziari e alle commissioni parlamentari di inchiesta dove in verità si sono viste le cose peggiori con il dilagare della dietrologia che sul caso Moro ha finito per sfociare nel delirio puro. Con ogni probabilità la fotografia dell’impossibilità di una memoria condivisa sta nell’aiuola di fronte alla Banca Nazionale dell’Agricoltura dove ci sono due lapidi a ricordare l’anarchico Giuseppe Pinelli. Una, quella istituzionale, dice “morto” in questura; l’altra, di “studenti e operai milanesi”, dice “ucciso”. Non esiste possibilità di mediazione. Tornando a noi, con ogni probabilità gli accertamenti della Digos genovese non porteranno a iscrizione nel registro degli indagati delle 300 persone che hanno messo il like o condiviso il post di Barbara Balzerani. Il reato di like sarebbe eccessivo persino nella Repubblica penale che da decenni caratterizza il nostro Paese. E sarebbe sorprendente se si scoprisse che una procura impegnata in indagini importanti come quella del crollo del ponte Morandi e quella sui milioni della Lega Nord avesse tempo da perdere. Come del resto ben difficilmente l’inchiesta sulla scomparsa del fascicolo sui fatti di via Fracchia sembra destinata a ottenere risultati. Evidentemente chi l’ha fatta sparire sapeva che lo Stato ha qualcosa da nascondere e da “fedele servitore” ha fatto il suo mestiere.

Il nuovo libro dell'ex brigatista Barbara Balzerani. La rivoluzione è un fiore che non muore, serve oggi ancor più di ieri. Frank Cimini su Il Riformista il 15 Settembre 2020. «La rivoluzione si fa a Cuba o in Cina, non in un paese come il nostro, dove un popolo osannante non aveva aspettato neanche che il cadavere del Duce fosse diventato freddo per rinnegarlo. Tutti democristiani e comunisti del giorno dopo sotto le bandiere dell’antifascismo di parata e a baciare le mani caritatevoli del notabile di turno che distribuiva case ai più bisognosi». Questo disse papà Balzerani alla figlia Barbara durante il primo colloquio in carcere. Lei lo ricorda nel suo ultimo lavoro, Lettera a mio padre, uscito in questi giorni con Derive e approdi (12 euro, 122 pagine). Lettera a mio padre è un colloquio immaginario con il padre nel racconto di chi ha perso, come parte di una generazione che diede l’assalto al cielo. Balzerani dirigente delle Brigate Rosse, sei ergastoli legati al caso Moro, arrestata nel 1985 e tornata libera dopo 26 anni, nel 2011. Ora si confronta con il genitore che non c’è più, spiegando le ragioni di una storia politica che non viene rinnegata, ma guardata con spirito critico, ricordando che le ingiustizie sociali all’origine di quella scelta non solo non sono scomparse, ma si sono aggravate. Balzerani lo precisa con uno sguardo all’attualità e lo sforzo di ricercare nuovi sentieri di lotta per uscire finalmente dal ‘900, perché la rivoluzione è un fiore che non muore. E non muore perché a tenerlo in vita sono le diseguaglianze, le oppressioni e le negazioni dei diritti degli ultimi e dei penultimi. Per una di quelle case papà Balzerani, che pure votava i repubblicani «perché non fanno ne’ bene ne’ male», non fece domanda al notabile di turno. E l’autrice chiosa: «Conoscendoti non è strano, perché tu eri un lavoratore, non un pezzente al quale fare elemosine. Mai ti saresti fatto umiliare tanto neanche per quattro mura che un giorno, dopo averle pagate per mezza vita, sarebbero state di tua proprietà». Il papà non aveva capito le ragioni delle scelte politiche e di vita di sua figlia. «Ti sei solo preoccupato che non mi rompessi l’osso del collo, che non finissi così spesso sui giornali che non si dicesse che ero una criminale… Mi hai chiesto se era vero tutto quello che scrivevano di me. E io non ho avuto cuore di rassicurarti. Ostinatamente cercavo la tua complicità. Tu eri mio padre… che mi regalava biciclette e bambole costose in tempi di calze della Befana appese alla stufa piena di mandarini». «Come hai fatto a non riconoscerti in quel pezzo di paese che aveva rotto il patto dì fedeltà con la fabbrica, in quegli operai che si sono sottratti al comando di quello che tu identificavi come ‘il padrone’?» chiede ancora la figlia al padre. Balzerani cerca il padre fino alla fine. «Se tu ci fossi ancora sapresti spiegare l’inganno malcelato dietro le motivazioni industriali che dovrebbero ripulire l’aria dai gas venefici. Potresti spiegare come funziona un motore e di che si alimentano le tanto magnificate macchine elettriche ultima trovata dell’affarismo verde. Come se sotto il cavolo delle fiabe si trovassero le batterie che tutto hanno tranne la capacità di non inquinare». Balzerani denuncia: «Stiamo morendo sull’altare del Dio consumo». Il padre non avrebbe mai potuto crederci nei suoi anni di lotta per l’indispensabile. «Adesso che la furia della produzione capitalistica ha diradato tante nebbie, possiamo vedere quanto gli Stati con i loro confini le proprietà della terra con le loro recinzioni, la produzione con lo sfruttamento del lavoro e dei territori le biotecnologie abbiano messo in forse alla vita di continuare. Forse è il tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica è in grado di riesumare, di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma è questo il tempo. Per gli irregolari, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci metta all’altezza di un’altra storia interamente umana». L’autrice come si vede parla del presente e soprattutto del futuro. Parla di una speranza che non viene meno. Insiste sulla possibilità di trovare altre e nuove chiavi di interpretazioni della realtà perché quelle vecchie ormai non possono più funzionare. Ma si tratta sempre di reinventare un conflitto, di non rassegnarsi e quindi di non disperarsi, anche prendendo atto che da tempo i proprietari dei mezzi di produzione si sono rivelati gli unici in grado di praticare la lotta di classe, a differenza del tempo in cui temettero di perdere il potere. Attraverso l’immaginario colloquio col padre, sulla base della sua esperienza politica e umana, 26 anni in cella, sei Olimpiadi e qualche spicciolo, Balzerani ci ripete che un altro mondo è possibile. Dimostra a suo modo di avere ancora fiducia negli italiani, marcando la differenza dal papà, che non ne aveva e nella saletta di una galera indicava solo Cuba e Cina.

Un estratto del nuovo libro. “Lettera a mio padre”, critica di una figlia che non rinnega. Barbara Balzerani su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Eri già fuori gioco quando nuova linfa vitale è sgorgata dalle macerie del grande inganno del bene in sé della produzione. Hai fatto finta di non vedere la fine del tempo del lavoro. Ne saresti stato annientato, forse più di tua figlia in galera a vita. Sei invecchiato tristemente, senza più vitalità, col mondo ristretto ai tuoi bisogni immediati. Dovevi sentirti solo, anche se tu per primo chiudevi agli affetti, come se non avessi più nulla da dare. Come se il destino ti avesse presentato un conto immotivato. Neanche il giorno del tuo funerale sei stato risparmiato. Da me in catene e da un manipolo di uomini in divisa intenzionati a rendere impossibile l’inviolabilità di un estremo saluto. Sei scivolato via seguendo la parabola discendente della civiltà industriale. Mai sistema tanto decisivo quanto di vita breve. Ma c’eri ancora quando, seduto sulla tua seggiola, non potevi non accorgerti che una nuova classe di lavoratori stava affossando profitti e disciplina. Quelli che hanno cambiato la mia vita e oscurato la tua parlavano i dialetti dei migranti dalle nostre terre impoverite, sono stati cacciati dai bar delle città industriali e hanno dovuto dormire nelle stazioni dei treni. Ma tanto geniali e coraggiosi da prefigurare la giustizia in terra. Sono stati sconfitti dall’abbraccio mortale della politica dei padroni e dei loro servi sciocchi. Con loro siamo stati sconfitti tutti. Le macchine li hanno sostituiti ma le macchine non comprano e non consumano e i costi delle crisi si pareggiano azzerando i benefici conquistati, con le guerre e lo sfruttamento dei territori. E quando la manodopera locale non è più stata al gioco se n’è importata da ancora più lontano. Oppure sono state portate via le fabbriche. Dopo la sconfitta di quella rivoluzione a cui tu non hai mai creduto. Senza più nulla a impedirlo l’odio dei padroni si è scatenato sui nuovi migranti che parlano dialetti di terre ancora più a sud, messi alla catena subito dopo averli declassati a schiavi, per insufficiente grado di civiltà. E le macchine sono state portate altrove, dove ancora più umiliata è la genialità del fare, dove la forza del lavoro è pagata ancora meno e dove si continua a rapinare l’energia che ci è necessaria a far funzionare la nostra opulenta democrazia. Guerre, miseria e rapine, mai tanto devastanti. Il nuovo ordine mondiale può vivere solo sull’esclusione del conflitto degli sfruttati, braccia intercambiabili a diverse gradazione. Ma da un sud ancora più vasto possono arrivare la maestria delle grandi idee e il rimedio di un attrezzo in dotazione di quell’immensa officina sotterranea che sorregge la moderna tecnologia a forza di braccia e mezzi in disuso. Magnifici strumenti per l’opera di sabotaggio dell’attuale meccanismo riproduttivo di morte. È già successo, secondo prassi e tradizioni. E succederà ancora. Basta aprire un po’ di più lo sguardo. Delle tante promesse di viaggi che avremmo fatto insieme mi rimangono le tue ricche anticipazioni e, nell’attesa, le gite di pochi chilometri. Adesso, per non lasciare nulla in sospeso, posso portarti io a conoscere un mondo un po’ più grande. Anche se le mie storie non sono come le tue mappe di via di fuga individuali, buone per tirare il fiato nella durezza delle scarse possibilità di scelta. Sai che non provo grandi entusiasmi se non c’è un “noi” di mezzo.

E mi piace pensare che forse le nuove forme di resistenza sarebbero piaciute anche a te e che, fuori dal tempo, potremmo trovare uno sguardo comune. Ci guadagneremmo entrambi. Io mi sentirei ancora la tua figlia preferita e tu potresti riposare in pace. Non ho un concezione universale da proporti, quella è tramontata quando è stato oltrepassato il limite di senso che manteneva alla storia il tratto umano.

Schlein, la paladina delle Sardine al convegno con uno dei killer di Tobagi. La neo vice di Bonaccini nel 2018 all'incontro dei filopalestinesi con un ex terrorista del commando che uccise il giornalista. Alberto Giannoni, Mercoledì 12/02/2020 su Il Giornale.  Milano Buona, brava e naturalmente «coraggiosa», proprio come il nome della sua lista. Elly Schlein è la nuova stella della sinistra-sinistra, ha incassato il pieno di preferenze in Emilia-Romagna (22.098) e per questo ieri è stata nominata vicepresidente della giunta regionale. «Elly» è una sardina al cubo: ha nel suo sito una foto con Romano Prodi ed è sorridente come Mattia Santori, l'altro anti-Salvini, che ieri ha incontrato il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano e presto vedrà forse il premier Giuseppe Conte. Elly però di politica ne capisce: nonostante la giovane età l'ha masticata già parecchio nel mondo da cui arriva, quello a cavallo fra Nichi Vendola e Pippo Civati. Qualcuno quindi guarda alla sua santificazione con una buona dose di scetticismo, e pensa che se le sue priorità sono davvero i diritti, il femminismo e il contrasto dell'odio, Elly avrà il suo bel daffare anche fra compagni e amici dei compagni. Circola in questi giorni in rete il «volantino» della sua partecipazione al 16° convegno dei palestinesi in Europa, celebrato il 29 aprile 2018 ad Assago (Milano). Illustrando il programma ne aveva dato notizia l'imam di Segrate, Ali Abu Shwaima, noto per aver dichiarato che per una donna non è molto decoroso andare in bicicletta. L'imam aveva indicato fra gli organizzatori l'associazione dei palestinesi in Italia, la stessa che aveva organizzato le discusse manifestazioni anti-Israele del dicembre 2017 a Milano. Elly ad Assago era stata annunciata in un «panel» dedicato all'«ingerenza» di Trump e a «Gerusalemme capitale di Palestina», con altri deputati di sinistra, fra cui Maria Pia Pizzolante, che fra l'altro alla Camera aveva già convocato una conferenza stampa con una delegazione dell'Api di cui faceva parte Sulaiman Hijazi, apparso alla manifestazione delle sardine a San Giovanni. Fra i partecipanti al congresso di Assago, nel volantino ancora reperibile on line compare anche un referente del movimento Bds, quello che propone il boicottaggio dello stato ebraico. E compare l'«attivista» Francesco Giordano, che in questi anni si è messo in evidenza per gli appelli alla contestazione della Brigata ebraica al corteo del 25 aprile. Come hanno ricordato in una di quelle occasioni gli «Amici di Israele», Giordano ha fatto parte della «Brigata XXVIII marzo», responsabile dell'omicidio del giornalista Walter Tobagi. Sono passati 40 anni e Giordano ha scontato la pena. Di recente si era parlato di lui per un attacco a testa bassa rivolto a Lele Fiano, deputato Pd ed ex presidente della Comunità ebraica milanese, che resta bersaglio di farneticanti polemiche, come Roberto Cenati, presidente dell'Anpi Milano e come il sindaco Beppe Sala. Ma di recente ha definito la Schlein «una truffa». Oggi Giordano inneggia alle foibe e partecipa alle iniziative filo palestinesi e anti-israeliane, comprese quelle del dicembre 2017. Allora si parlava di Gerusalemme capitale d'Israele e il 9 dicembre, va ricordato, furono gridati slogan jihadisti e antisemiti, nonché insulti allo stato ebraico, come il 16 quando lo stesso Shwaima aveva parlato al megafono, infuocando i partecipanti e invocando una «intifada nuova contro questo progetto».

PaTa. per “il Giornale” il 23 gennaio 2020. La Cassazione apre uno spiraglio per Federica Saraceni, l'ex brigatista condannata per l' omicidio di Massimo D' Antona, il giuslavorista assassinato a Roma nel maggio del 1999. La prima sezione penale della Suprema Corte, infatti, dopo una camera di consiglio che si è svolta martedì, ha accolto il ricorso della difesa dell' ex terrorista annullando con rinvio l' ordinanza con cui lo scorso 3 luglio il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva dichiarato inammissibile la sua istanza di liberazione condizionale. La palla torna quindi allo stesso Tribunale di Sorveglianza, che dovrà esaminare nuovamente la richiesta. Questa volta l' esito potrebbe essere diverso e la Saraceni potrebbe finire di scontare la pena fuori di casa, rischiando così di rinfocolare le polemiche che accompagnano da sempre la vicenda di questa ex Br, figlia di Luigi Saraceni, che è stato presidente della quinta sezione del Tribunale di Roma nonché fondatore di Magistratura democratica, parlamentare e poi avvocato per difendere la figlia in appello. La Saraceni si trova adesso agli arresti domiciliari, dove le rimangono da scontare 4 anni della sua condanna definitiva a 21. Ad ottobre era tornata sotto i riflettori quando si è saputo che il suo nome risultava tra quelli che percepiscono il reddito di cittadinanza: 623 euro al mese, quasi la cifra massima del sussidio introdotto dai Cinque Stelle. La notizia provocò un putiferio, indignò i parenti delle vittime del terrorismo e anche la politica. Lega e Pd, soprattutto. Per quanto inopportuna la concessione del beneficio sarebbe stata legittima perché la condanna risale a oltre dieci anni prima della richiesta di sussidio, come previsto dai requisiti, e perché la donna, essendo ai domiciliari, non è a carico dello Stato. Appena calmate le acque, la Saraceni è tornata all' attacco chiedendo la libertà condizionale. Il no dei giudici non l' ha scoraggiata e il ricorso in Cassazione adesso le ha dato ragione. Il Tribunale di sorveglianza la scorsa estate avevano dichiarato inammissibile l' istanza della ex brigatista perché il reato per il quale è stato condannata è tra quelli considerati ostativo, in base alla legge sul 4 bis varata nel 2002. Davanti ai supremi giudici, però, i difensori dell' ex terrorista hanno rilevato che i fatti per cui la Saraceni sta scontando la sua pena sono antecedenti alla riforma. Tesi che sembrerebbe essere stata accolta dai giudici di Sorveglianza, anche se bisognerà attendere le motivazioni della Suprema Corte. I nuovi giudici dovranno tenerne conto per pronunciarsi nuovamente sulla possibilità di ottenere la libertà condizionale, un beneficio che permette di tornare in libertà, pur sottoposti a controlli e prescrizioni, a cui possono accedere i condannati per i quali è stato provato il ravvedimento e il percorso rieducativo e che abbiano un residuo di pena inferiore ai 5 anni.

Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 28 dicembre 2019. Nelle ultime settimane. Abbiamo visto porre in piazza Fontana la formella su cui è inciso che la bomba del 12 dicembre 1969 fu messa dai fascisti di Ordine nuovo. Abbiamo sentito il presidente Sergio Mattarella affermare che le indagini sulla strage sono state inquinate da depistaggi di Stato. Abbiamo ricordato Giuseppe Pinelli con la più allegra, musicale, anarchica e sconclusionata manifestazione mai vista a Milano. Abbiamo ascoltato il sindaco Giuseppe Sala chiedere scusa, a nome della città, a Pietro Valpreda e a Pino Pinelli, ingiustamente accusati. Ci sono voluti 50 anni, ma qualche passo avanti è stato fatto. Ora sappiamo - e in modo ufficiale - chi ha messo la bomba: i fascisti di Ordine nuovo e quel Franco Freda che gira libero per l' Italia, indicato come responsabile della strage da una sentenza della Cassazione che lo dice non più processabile perché già definitivamente assolto. Sappiamo chi ha depistato le indagini: gli apparati dello Stato che hanno indicato la pista anarchica (l' Ufficio affari riservati) e sottratto ai giudici testimoni e prove sulla pista nera (il Sid, Servizio informazioni difesa). Sappiamo che Pinelli non solo è innocente, ma è anche la diciottesima vittima della strage. Ora ci vorrebbe uno scatto. Non sappiamo ancora tutto. Non sappiamo i nomi dei neri entrati in azione quel 12 dicembre. Non abbiamo certezze sugli uomini dello Stato responsabili dei depistaggi e della morte di Pinelli. Qualcuno dovrebbe ora prendere la parola. Gli uomini ancora vivi di Ordine nuovo, per esempio. Il giudice Guido Salvini ha indicato nel suo libro su piazza Fontana i possibili componenti del commando che entrò in azione a Milano. E negli ultimi giorni si è avviato uno strano dibattito (a distanza) su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli tra Adriano Sofri, Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Guido Salvini. Sofri, sulle pagine del Foglio, il 14 dicembre 2019 ricorda la testimonianza dell' anarchico Pasquale Valitutti, fermato in questura dopo la strage di Milano, che continua a dire che non vide uscire Calabresi dalla stanza da cui Pinelli precipitò nella notte del 15 dicembre 1969, come invece stabilito dalla sentenza D' Ambrosio. Potrebbe non averlo visto: lo scrivono anche Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa) nel libro Pinelli. La finestra è ancora aperta. Sofri (condannato definitivo, insieme a Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per l' assassinio di Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972) chiede anche la riapertura delle indagini, sulla base - dice - di un fatto nuovo: nella questura di Milano, dal 12 dicembre 1969 al lavoro sulla pista anarchica, il questore Marcello Guida, il capo della squadra politica Antonino Allegra, il suo vice Luigi Calabresi erano "guidati" dagli uomini degli Affari riservati del ministero dell' Interno arrivati da Roma. A prendere la direzione delle operazioni è la "Squadra 54" guidata da Silvano Russomanno e Ermanno Alduzzi. È una "novità" che conosciamo, in verità, da qualche anno: la ricostruiscono proprio Fuga e Maltini nel loro libro scritto nel 2016, sulla base dei documenti sequestrati a metà degli anni Novanta in un armadio blindato del Viminale dal giudice Carlo Mastelloni, che rivelano anche l' esistenza della "Squadra 54". Il manovratore degli Affari riservati era il prefetto-gourmet Federico Umberto D' Amato, che aveva uno stuolo di informatori ("Le trombe di Gerico"), tra cui il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e l' infiltrato tra gli anarchici Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena), poi fondatore di locali milanesi (il Rolling Stone, il City Square, l' Alcatraz) e agente di Vasco Rossi. Proprio di D' Amato scrive Sofri, in due vecchi articoli pubblicati sul Foglio il 27 e il 29 maggio 2007: rivela che un ignoto "conoscente comune" lo mise in contatto con l' anima nera degli Affari riservati, il quale gli propose di compiere "un mazzetto d' omicidi", garantendogli impunità. Lo ricorda Benedetta Tobagi nella sua replica sul Foglio del 17 dicembre 2019, richiamando anche una mezza conferma di D' Amato, contenuta in un documento rinvenuto dopo la sua morte avvenuta nel 1996: un abbozzo d' autobiografia dal titolo Memorie e contromemorie di un questore a riposo, in cui D' Amato racconta dei rapporti amichevoli con personaggi "come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)". Tobagi ricorda che fu messa "in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio", ma "nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D' Amato sorseggiava alcolici d' annata, Sofri bevesse, che so, chinotto". Al di là delle bevande, sarebbe bello che l' allora capo di Lotta continua raccontasse chi era il misterioso "conoscente comune" e come sia stato possibile che D' Amato - lo stesso che manovrava la "Squadra 54" - gli abbia chiesto quel "mazzetto d' omicidi". Conclude Benedetta Tobagi: "L' ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia". Aggiunge il giudice Salvini, nascosto in pagina, sul Foglio del 27 dicembre: "Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita".

L’Italia chiede alla Francia l’estradizione di Pietrostefani, Parigi risponde: “No, qui c’è la prescrizione”. Piero Sansonetti il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. L’Italia torna all’attacco: vuole che Parigi le consegni i protagonisti della lotta armata degli anni 70 riparati in Francia. Sono stati lì molti anni coperti dalla dottrina Mitterrand e dai tanti dubbi sulla correttezza dei processi realizzati in Italia negli anni di piombo. La Francia non ha mai concesso l’estradizione. Ora la dottrina Mitterrand non c’è più, ma c’è un altro problema. La prescrizione. Sembra una maledizione, ma è così. Nonostante le tante dichiarazioni del ministro Bonafede e gli articoli di Travaglio, l’Italia è uno dei pochissimi Paesi occidentali dove è possibile punire un delitto di mezzo secolo fa. In Francia la prescrizione c’è eccome, ed è molto più breve della nostra. Con le regole francesi quasi tutti i militanti (o sospetti militanti) della ex lotta armata sono prescritti. A cominciare da Giorgio Pietrostefani, l’ex leader di Lotta Continua (condannato per l’uccisione del commissario Calabresi sulla base delle accuse di un unico pentito, che poi sarebbe il killer, e che in questo modo ha evitato il carcere). Pietrostefani è il più celebre degli esuli, e probabilmente è il “trofeo” che il governo italiano vorrebbe: ha poco meno di 80 anni, un fegato trapiantato, è accusato di un delitto di 48 anni fa, quando Macron non era ancora nato. Molto probabilmente è innocente. Cosa farà il presidente francese? Non lo avrebbe mai consegnato a Salvini, ma forse ora lo farebbe con il governo del Pd. Il problema è quello dei trattati internazionali. Esiste la Convenzione di Dublino che stabilisce che la prescrizione vale sulla base delle regole del Paese che richiede l’estradizione, cioè l’Italia; mentre prima di quella convenzione la regola era che valeva la prescrizione del Paese che ospitava gli imputati. L’Italia però non aveva mai firmato quel trattato. Lo ha fatto alla chetichella nei mesi scorsi. Ma la nuova regola può essere retroattiva? A occhio, no. Comunque in questi giorni si è saputo della novità e alcuni giornali (soprattutto Repubblica) hanno iniziato la campagna a favore della punizione di delitti di 50 anni fa. Che differenza c’è tra queste campagne e quelle del “Fatto”? Nessuna. Tutte due fondate su due valori: odio e vendetta.

Anais Ginori e Paolo Griseri per “la Repubblica” il 6 gennaio 2020. Svolta nel lungo braccio di ferro tra Roma e Parigi per l' estradizione dei terroristi italiani (diversi accusati di omicidio) finora protetti in Francia dalla cosiddetta "dottrina Mitterrand" che garantisce loro l' impunità in cambio della rinuncia alla lotta armata. Teoria che finora ha impedito all' Italia di ottenere giustizia nei loro confronti. Il quotidiano Le Parisien in edicola questa mattina spiega che nelle ultime settimane l' atteggiamento delle autorità francesi starebbe cambiando e che gli uffici del governo di Eduard Philippe starebbero preparando le carte per rispondere alle richieste italiane. "Prima ancora di ogni domanda proveniente da Roma - scrive il quotidiano parigino - i ministeri dell' interno, attraverso la sua unità antiterroristica, e il ministero della Giustizia hanno ripreso in mano i dossier". È accaduto infatti che l' Italia, con un ritardo di oltre vent' anni, ha ratificato la convenzione di Dublino sull' estradizione. "In virtù di quel testo entrato in vigore a novembre - spiega Le Parisien - non si applica più nei confronti dei terroristi la legge del Paese che li ospita ma quella del Paese in cui sono stati condannati". Dunque la prescrizione per i reati di terrorismo, che in Francia è di vent'anni, diventa più lungo, come vuole la legge italiana. Così cadrebbe anche l' ultimo ostacolo per l' estradizione. Perché Parigi non può più rifiutare, come ha fatto fino a pochi anni fa, di consegnare all' Italia i terroristi condannati. Con il limite della prescrizione a vent'anni tutti i 14 latitanti presenti nell' elenco sarebbero stati tutelati. Unica eccezione quella della brigatista Rossa Marina Petrella, condannata nel processo Moro ter e per aver compiuto l' omicidio di un poliziotto. Petrella era stata fermata durante un controllo di polizia in Francia nel 2007 e la corte d' appello di Versailles aveva disposto la sua estradizione. Che non venne eseguita per l'aggravarsi dello stato depressivo della donna e per la campagna in suo favore che coinvolse anche i familiari dell' allora presidente Sarkozy, dalla moglie, Carla Bruni, alla cognata Valeria. Quell'episodio aveva comunque fatto interrompere i termini di prescrizione. Con i nuovi conteggi legati al termine italiano di trent' anni, molti dei14 latitanti dovrebbero essere estradati. Il loro numero nel frattempo è sceso a 13 per la morte di Paola Filippi, dei Proletari armati per il Comunismo. La richiesta era stata avanzata l' ultima volta dal governo di Roma nel febbraio 2019, quasi un anno fa, in occasione di un incontro negli uffici del governo francese in place Vendôme a Parigi. Iniziativa nata per impulso dell' allora ministro degli interni Matteo Salvini subito dopo la riconsegna all' Italia del terrorista Cesare Battisti, anche lui dei Proletari armati per il comunismo, responsabile di ben quattro omicidi e rimasto a lungo in Francia al riparo della dottrina Mitterrand. Se Parigi a febbraio non aveva inteso procedere all' estradizione degli italiani utilizzando l' argomento della prescrizione, ora, grazie alla convenzione di Dublino, non potrà più farlo. Chi rischia dunque l' estradizione? Oltre a Petrella tra i nomi più noti quello di Giorgio Pietrostefani, mandante dell' omicidio del commissario Luigi Calabresi e per questo condannato a 22 anni di carcere con l'accusa di concorso morale in omicidio. Pietrostefani ha scontato solo due anni nelle carceri italiane e la sua condanna si prescriverà nel 2027. Un altro latitante protetto dalla Francia è Raffaele Ventura, insieme a Narciso Manenti destinatario già nel febbraio scorso di una richiesta di estradizione da parte del governo italiano. Le autorità di Parigi starebbero studiando in queste ore i singoli casi per capire quali sono i latitanti che possono essere estradati sulla base delle nuove norme. Alcune situazioni sono complesse. E per molti, come Petrella e Pietrostefani, bisogna tenere conto delle loro difficili situazioni di salute. Di fronte all' ipotesi di provvedimenti di estradizione attesi in Italia per molti anni e finora mai concessi, i legali dei latitanti intervistati da Le Parisien oppongono quella che è sempre stata la loro linea difensiva: anche chi ha commesso omicidi ha ormai chiuso con il suo passato, collabora con i servizi sociali, si è perfettamente inserito nella società (francese) e dunque ha acquisito il diritto di non scontare la pena in Italia. Si tratta ora di vedere quali conseguenze avrà la notizia della possibile estradizione: se qualcuno dei latitanti tenterà di fuggire o se i loro legali riusciranno a convincere le autorità di Parigi a desistere.

Con «Quello che non ti dicono», in uscita per Mondadori, torna alla luce la storia di Carlo Saronio, vittima degli anni di piombo. Morì il 15 aprile 1975 durante il suo rapimento. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 18/10/2020. Il ragazzo tradito e ucciso dagli amici che gli promettevano la rivoluzione. «Buonasera Dott. Calabresi, la leggo con piacere perché sono legato a lei dalla perdita di una persona cara a causa del terrorismo. Mi chiamo Piero Masolo, sono prete missionario in Algeria, sono nipote di Carlo Saronio, rapito e ucciso il 15 aprile 1975. Mi piacerebbe poterle inviare una mail per chiederle consiglio su come celebrare l’anniversario dello zio. La ringrazio di cuore». È la mattina del 3 ottobre 2019, quando Mario Calabresi riceve su Facebook questo messaggio dal deserto algerino. La ricerca ha inizio. Calabresi rintraccia rapidamente il nome e la storia: Carlo Saronio, erede di una delle famiglie più ricche di Milano, laureato in ingegneria, ricercatore all’Istituto Mario Negri, fu sequestrato nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1975 da un banda composta da criminali comuni e militanti dell’area di Potere Operaio, movimento per cui Saronio simpatizzava. La vittima morì nelle prime fasi del sequestro, per una dose sbagliata di narcotico. Aveva 26 anni. I rapitori finsero che fosse ancora vivo e riuscirono a ottenere una parte del riscatto. Il corpo sarà ritrovato solo tre anni e mezzo dopo.

La mail del missionario e l’incontro con Marta Saronio. Il 5 ottobre 2019 Calabresi riceve la mail del missionario: «In famiglia lo zio Carlo è sempre stato un tabù, non se ne poteva parlare... Con Marta Saronio, mia cugina e figlia naturale di Carlo, abbiamo finalmente pensato di ricordarlo». Calabresi si rimette a cercare; ma da nessuna parte, neppure nel formidabile archivio del Corriere, c’è traccia di una figlia di Carlo Saronio. Mercoledì 15 gennaio 2020, «a Lodi il mondo sembra ancora normale. Nessuno può sapere quello che sta per scoppiare, che tra quattro settimane il virus sceglierà proprio questa terra per sbarcare in Europa e cambiare le nostre vite» annota Calabresi. Che quella sera a Lodi presenta davanti a 900 persone il suo long-seller «La mattina dopo». Alla fine nella grande sala resta una lettrice, con il libro in mano. Dice soltanto: «Sono Marta». Mario non capisce. «Sono quella Marta». È la figlia di Carlo Saronio: nata otto mesi e mezzo dopo il rapimento e la morte di un padre che non ha mai conosciuto. Prima della tragedia, sua madre Silvia, allora fidanzata di Carlo, era rimasta incinta: e aveva deciso di tenere la bambina. Quando nacque si chiamava Marta Latini. Fu la nonna ad andare dall’avvocato Cesare Rimini per farla riconoscere. Quando aveva tre anni cambiò cognome e divenne Marta Saronio. Ora ha due figli e una vita felice. Ma le manca il padre; e le mancano la sua memoria, le notizie su di lui, e sui suoi assassini.

Il fascino delle idee rivoluzionarie e la vergogna di essere ricco. A questo punto Calabresi, che con «Spingendo la notte più in là» ha cambiato la nostra percezione degli anni Settanta, dando la parola alle vittime dopo che troppo a lungo avevamo letto e ascoltato soltanto i carnefici, avverte come un dovere morale ricostruire la vicenda di Saronio. Ritrova la sua foto di classe, che è diventata la copertina del libro («Quello che non ti dicono», in uscita martedì da Mondadori). Legge una lettera della sua insegnante, Alba Carbone Binda, che ricorda quando i compagni lo prendevano in giro dopo aver letto sul Corriere la classifica dei contribuenti milanesi (i Saronio venivano subito dopo i Rizzoli, i Crespi, i Pirelli, i Borletti, i Mondadori). Carlo a scuola era molto bravo, pieno di talento e di fiducia negli altri, ma tormentato da un senso di colpa. In un tema di quarta ginnasio, raccontò la domenica in cui era andato a fare una gita sulla Rolls-Royce di famiglia: quando era sceso dall’auto, tutti i bambini del luogo si erano affollati intorno a lui; e Carlo avrebbe voluto scomparire. Si vergognava di essere ricco. Anche per questo, lui che al liceo Parini si era avvicinato al movimento di don Giussani (Gioventù studentesca, poi divenuto Comunione e Liberazione) crescendo sentirà il fascino delle idee rivoluzionarie. Sceglierà di andare a insegnare alle scuole serali a Quarto Oggiaro. E per finanziare i compagni di Potere Operaio arriverà a simulare il furto della Porsche che gli avevano regalato i genitori, rimpiazzata con un’Alfasud.

Le riunioni clandestine e il Professorino. Il libro è il racconto dell’inchiesta condotta dall’autore, che passa il lockdown a lavorare sulle carte che la questura di Milano gli ha messo a disposizione, e su quelle custodite in un armadio di famiglia e ritrovate grazie al missionario. Si susseguono dettagli inattesi, coincidenze impressionanti, incastri a sorpresa. E si delinea la figura del colpevole. Del traditore. Carlo Fioroni, detto il Professorino, militante della sinistra extraparlamentare, vicino a Giangiacomo Feltrinelli. È stato lui a stipulare, a nome di una persona che non ne sa nulla, l’assicurazione del pulmino Volkswagen trovato sotto il traliccio su cui è morto l’editore rivoluzionario. La polizia lo cerca, Fioroni sparisce: è nascosto nella bella casa di Carlo Saronio, in corso Venezia. La madre di Carlo non ne sa nulla. Più tardi le viene presentato come Bruno, «un amico romano». E alla Mercurina, la cascina della famiglia Saronio nella campagna tra Lombardia e Piemonte, si tengono riunioni clandestine: per due volte si incontrano di fronte al camino Toni Negri e Renato Curcio. È l’alba dell’eversione, l’inizio degli anni di piombo. È possibile che già allora Fioroni abbia proposto di inscenare un falso rapimento, per spillare soldi alla famiglia; ma Carlo Saronio ha rifiutato. La macchina che porterà alla tragedia è già avviata. Certo, Fioroni avrebbe potuto e dovuto essere fermato. E viene quasi un brivido quando, leggendo il libro, si scopre che un investigatore lo stava cercando, prima di essere assassinato: il commissario Luigi Calabresi. Il padre di Mario.

Il ricordo della sua insegnante. Grazie a «Quello che non ti dicono», la figura di Carlo Saronio torna alla luce. Ora Marta ha conosciuto in qualche modo l’uomo che le ha dato la vita. Così lo ricordava la sua insegnante: «La luminosa promessa che era in lui fu soffocata da un ottuso tampone di cloroformio»; anzi, di toluolo, contenuto in uno smacchiatore o in un solvente comprato in colorificio, scelto perché più facile da trovare rispetto al cloroformio. «Carlo sbagliò a non sospettare la malizia di chi lo tradiva mentre gli chiedeva aiuto. Spero che non lo abbia saputo, che fino all’ultimo respiro lo abbia accompagnato la sua fiducia».

Giorgio Pietrostefani presto in carcere? L’arno-Il Giornale il 9 gennaio 2020. Il governo italiano è tornato alla carica chiedendo alla Francia l’estradizione di Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni di carcere insieme ad Adriano Sofri e Ovidio Bompressi per l’omicidio del commissario Calabresi. In Francia, dove la dottrina Mitterand (grazie alla quale molti terroristi italiani si erano rifugiati Oltralpe beneficiando della protezione di Parigi ai condannati politici) è ormai in soffitta, resta lo scudo della prescrizione. Che scatta più velocemente che da noi. In pratica quasi tutti i protagonisti della lotta armata italiana sono prescritti. E lo stesso vale per Pietrostefani, visto che l’uccisione di Calabresi risale al 1972. Ma c’è un dettaglio che può riaprire i giochi. Il governo francese starebbe preparando le carte per rispondere alla richiesta italiana, stavolta in modo positivo. L’Italia, infatti, di recente ha ratificato la convenzione di Dublino sull’estradizione. E il testo entrato in vigore a novembre prevede questo: “Non si applica più nei confronti dei terroristi la legge del Paese che li ospita ma quella del Paese in cui sono stati condannati”. Non bastano più venti anni per far scattare la prescrizione, come prevede la legge francese per i reati di terrorismo. Si deve tener conto della legge del Paese richiedente, in questo caso l’Italia. Quindi la Francia non può più dire no al nostro Paese. Nell’elenco degli estradabili oltre a Pietrostefani ci sono altre dodici persone che da anni vivono in territorio francese. L’ex dirigente di Lotta Continua ha scontato circa 2 anni di pena, ridotta a 16 anni da alcuni indulti. A conti fatti ne deve scontare ancora 14 anni. La pena si prescriverà nel 2027. Se la Francia dovesse consegnarlo all’Italia, prima di poter ottenere i benefici di legge previsti per motivi di salute (ha subito un trapianto di fegato dopo essersi ammalato di cancro) dovrebbe trascorrere un po’ di tempo dietro le sbarre. 

Mettere Pietrostefani in galera oggi sarebbe solo una vendetta. Frank Cimini il 7 Gennaio 2020 su Il Riformista. È persino inevitabile. Puntualmente ogni tot di tempo emerge il disastro che è stato fatto non arrivando a una soluzione politica per i cosiddetti “anni di piombo”. Ci troviamo di nuovo in uno di questi momenti perché nei mesi scorsi, sollecitato dalle autorità francesi a loro volta un po’ stufe delle insistenze italiane, il nostro Parlamento aveva ratificato la convenzione di Dublino 1996: in materia di estradizioni non prevale più la legge del Paese che riceve la richiesta ma quella dello Stato che presenta la richiesta. Quindi non conta più che i fatti di 40 anni fa per la Francia sono prescritti. In Italia non lo sono ancora e quindi 14 persone che a Parigi e dintorni si erano rifatte una vita rischiano adesso fortemente di essere imbarcate su un aereo e arrivare a Fiumicino per finire magari immortalati dagli iPhone di qualche ministro della Repubblica, come era accaduto a Cesare Battisti. E la “nuova” fase era iniziata proprio con la consegna dalla Bolivia all’Italia, in violazione di regole e trattati internazionali, dell’ex militante dei Pac. Perché il presidente Mattarella, quello che insieme al suo predecessore Napolitano non si era fatto scrupolo di graziare quattro agenti della CIA condannati per il sequestro e le torture ai danni di Abu Omar, prometteva: «E adesso gli altri». Così le autorità nostrane tornavano alla carica con i cugini di oltralpe. Riunioni e incontri a livello di servizi segreti e di polizia fino all’esplicito “consiglio” francese: ratificate Dublino 1996 e la risolviamo finalmente. I grandi giornali si accorgevano in ritardo della novità giuridica e con determinazione andavano all’attacco. Ora è il turno di Repubblica, un quotidiano che è sempre stato tra i più ostili a una soluzione politica dal momento che fu tra i tifosi più accaniti dello stato di eccezione praticato senza dichiararlo formalmente. Repubblica ha avviato una vera e propria campagna affinché questi settantenni, alcuni dei quali vicini agli ottanta, tornino «a saldare i loro conti» con la giustizia dell’emergenza. Della madre di tutte le emergenze. Iniziò allora la fine dello stato di diritto proseguita poi con i professionisti dell’antimafia di sciasciana memoria e la farsa di Mani pulite. Una soluzione politica per quei fatti che ora tornano di moda appare purtroppo sempre più lontana, molto di più di quando poteva essere trovata. Il clima politico non è favorevole. Anzi. Ma che giustizia è mettere in galera, tanto per fare, un nome Giorgio Pietrostefani a quasi 50 anni dal delitto Calabresi per il quale è stato condannato? È la vendetta di una politica che non ha mai voluto fare i conti con il passato per evitare che emergessero anche le sue responsabilità e quelle dello Stato davanti a una sovversione interna la cui risoluzione fu interamente delegata alla magistratura. Furono approvate leggi premiali imposte dalle toghe che fanno danni ancora oggi e che sono paradossalmente servite ai magistrati per aumentare il loro potere di casta nei confronti della politica. Ma il sistema paese sembra pronto a celebrare il ritorno in Italia e l’ingresso nelle celle di 14 anziani alcuni malandati di salute come una vittoria della democrazia.

Meloni contro l’ex Br Etro: "Insulta Rachele Mussolini e ha reddito di cittadinanza". Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. «Bullo da tastiera con il reddito di cittadinanza»: Giorgia Meloni attacca senza mezzi termini l’ex brigatista rosso Raimondo Etro dopo che quest’ultimo ha insultato su Facebook Rachele Mussolini, esponente di Fratelli d’Italia e consigliera comunale a Roma per la lista «Con Giorgia». «A lei la mia solidarietà - scrive su Facebook Meloni rivolgendosi alla collega di partito - , sicura che le parole di questo miserabile non la scalfiranno minimamente. Ma per voi è normale che gli italiani perbene debbano pagare con le loro tasche il reddito a questo «signore»?». Rachele Mussolini, dal canto suo ha già annunciato che querelerà Etro e chiederà che ne venga oscurato il profilo social. Raimondo Etro aveva pubblicato ieri un post su Facebook nel quale rivolgeva insulti sessisti ed espliciti a Rachele Mussolini elencandone le parentele con il fondatore del fascismo. Etro, 62 anni, è stato condannato in via definitiva a 20 anni e sei mesi per la partecipazione al sequestro Moro e alla strage della scorta di via Fani. Tornato in libertà, nel marzo del 2019 si è visto riconoscere dall’Inps l’assegno relativo al reddito di cittadinanza, diritto al quale può avere accesso poiché la sua condanna risale a più di dieci anni dall’entrata in vigore della legge. «Sono invalido e ho un tumore a un rene ma se ci saranno proteste sono pronto a restituirlo» aveva detto in un’intervista al Corriere nell’aprile dell'anno scorso. Rachele Mussolini è invece figlia di Romano Mussolini, ultimogenito di Benito , e sorella di Alessandra da anni figura di spicco della destra italiana. Del fascismo nha detto che «andrebbe consegnato alla storia» e sul 25 aprile «preferirei festeggiare altre date». E’ stata censurata da Facebook per avere postato un messaggio di auguri rivolto al nonno Benito.

Dal sequestro Moro al reddito di cittadinanza,  chi è l’ex br Raimondo Etro. Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 da Corriere.it. Un passato da brigatista, una condanna a 20 anni e sei mesi, un lungo periodo di oblio, poi lo scorso anno di nuovo sotto i riflettori quando si scoprì che aveva ottenuto il reddito di cittadinanza. Raimondo Etro, 63 anni, è stato uno dei protagonisti degli Anni di piombo. Partecipò all’organizzazione del sequestro di Aldo Moro e anche all’assassinio del giudice Riccardo Palma, ma all’ultimo momento si rifiutò di sparare. Nel 1998 nel processo Moro quinquies fu condannato dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma a 20 anni e 6 mesi. Nel 2019 il clamore per la richiesta e l’ottenimento del reddito di cittadinanza. In quell’occasione spiegò: «La mia vita l’ho buttata al vento, facendo però pagare il prezzo ad altri che non c’entravano niente. Perciò, se ci saranno proteste e il reddito di cittadinanza mi verrà ritirato, pazienza, non mi opporrò. Ho sempre considerato le pene che abbiamo avuto, io e tutti gli altri Br, fin troppo miti». Chiarì di aver chiesto il sussidio «perché sto affogando, sono un vero povero... Sono iscritto a un centro per l’impiego dal 2017, ma fino a oggi non mi è arrivata una chiamata. Accetterei di tutto: farei le pulizie, lavorerei in un call center. Ma forse il lavoro in Italia oggi non c’è».

Dagospia il 17 febbraio 2020. Raimondo Etro a La Zanzara su Radio 24: “Giletti? Prima di andare in onda mi ha detto di andare giù duro. Poco prima di andare in diretta mi ha detto: questa volta vai giù pesante”. Parenzo replica: “Questa è un’infamia, Giletti non lo farebbe mai”. “Chiedere scusa per la frase sulle mani sporche di sangue? No, non lo faccio”. “Piuttosto che essere Santanchè preferisco essere brigatista”. “Meglio un uomo piuttosto che andare con la Santanchè. Allora preferisco farmi Giletti”  Ex brigatista Etro: "Mi hanno tolto il reddito, ora andrò in carcere". L'ex Br ha confessato di non ricevere più il sussidio: "Le polemiche televisive non c'entrano niente. Ora l'unico modo per sopravvivere è il carcere". Giorgia Baroncini, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. Reddito di cittadinanza ai furbetti che lavorano in nero e anche agli ex brigatisti. Lo scorso anno, Raimondo Etro aveva ricevuto un messaggino dell'Inps che lo informava che la sua domanda per il sussidio era stata accolta. Un fatto che aveva creato non poche polemiche. E ora, a distanza di un anno, l'uomo ha fatto sapere che il reddito di cittadinanza gli è stato tolto. Condannato per aver partecipato al sequestro di Aldo Moro, Etro è tornato alla ribalta delle cronache pochi giorni fa per una frase pronunciata a Non è l'Arena di Massimo Giletti: "Meglio avere le mani sporche di sangue che di acqua, ma almeno provarci". Parole che hanno accesso una discussione e costretto il conduttore a cacciare il 63enne dallo studio. Dopo il duro scontro in diretta tv, Etro è tornato a parlare del suo reddito di cittadinanza spiegando di non riceverlo più da gennaio. "Ho avuto l'ultimo accredito - ha raccontato a Tpi -. Me lo hanno ritirato perché non ho comunicato una variazione di residenza. È una questione semplicemente burocratica". Il 63enne ha poi specificato che il sussidio non è stato tolto per quanto accaduto di recente: "Le polemiche televisive non c'entrano niente. Sinceramente neanche mi interessa di sanare la questione: dopo tutte queste polemiche, penso che vada bene così". "Le norme sul reddito di cittadinanza prevedono per la mancata comunicazione di residenza una pena da uno a tre anni, per la quale sono stato già interrogato dalla Guardia di Finanza - ha aggiunto Etro -. Mi sono dichiarato colpevole e chiederò di essere giudicato subito, con la speranza che mi condannino immediatamente, perché in questo momento, senza reddito di cittadinanza, non ho neanche la possibilità di sopravvivere". L'uomo ha spiegato che con il reddito prendeva 780euro al mese. Ora senza quei soldi l'unica soluzione sembra essere la prigione. "In questo momento non ho altra soluzione: non so come pagare i sei mesi di affitto arretrati - ha continuato -. Mi consegnerò per la seconda volta al carcere e almeno la pena da uno a tre anni la sconterò lì. Non è il luna park, ma l'unica alternativa è una scatola di cartone alla stazione Termini. Con le condizioni di salute che ho, almeno in carcere mangio tre volte al giorno, ho un posto dove dormire e l'assistenza medica". Dopo qualche lavoretto, il 63enne aveva chiesto il reddito di cittadinanza. "Non era per mantenermi a spese dello Stato. Io sono invalido al 67 per cento e sono regolarmente iscritto al Centro per l'impiego come disabile, ma non mi è mai arrivata nessuna chiamata. Volevo un lavoro, perché con 780 euro io non riuscivo a vivere". Infine Raimondo Etro ha parlato delle polemiche sorte dopo la sua frase a Non è l’Arena. "Non sono assolutamente pentito - ha spiegato -. Quella non era una frase apologetica riguardo al mio passato, dal quale ho già preso le distanze. La mia è stata una risposta alle provocazioni che per tre volte mi hanno fatto, invitandomi in una trasmissione con persone di un certo tipo. Quella frase era una citazione di Graham Green, semplicemente una frase. Senza alcuna intenzione apologetica. Io ho abbandonato le Brigate Rosse nel 1980 e non ho più avuto contatti. E ora mi ritrovo in questa posizione".

Enrico Mingori per tpi.it il 20 febbraio 2020. Raimondo Etro, 63 anni, ex Brigate Rosse, condannato per aver partecipato al sequestro di Aldo Moro, è tornato alla ribalta delle cronache nei giorni scorsi per una frase pronunciata in diretta tv: “Meglio avere le mani sporche di sangue che di acqua, ma almeno provarci”. Il conduttore di Non è l’Arena, Massimo Giletti, lo ha cacciato dallo studio e si sono scatenate grandi polemiche. Nei mesi scorsi Etro era già finito nel mirino perché si era scoperto che percepiva il reddito di cittadinanza. Ora ha fatto sapere che il sussidio glielo hanno tolto. TPI lo ha intervistato.

Etro, è vero che le hanno tolto il reddito di cittadinanza?

«Sì, ho ricevuto a gennaio l’ultimo accredito. Ma le polemiche televisive non c’entrano niente. Me lo hanno ritirato perché non ho comunicato una variazione di residenza. È una questione semplicemente burocratica».

Non c’è modo di sanarla?

«Non c’è modo. E sinceramente neanche mi interessa: dopo tutte queste polemiche, penso che vada bene così. Le norme sul reddito di cittadinanza prevedono per la mancata comunicazione di residenza una pena da uno a tre anni, per la quale sono stato già interrogato dalla Guardia di Finanza. Mi sono dichiarato colpevole e chiederò di essere giudicato subito, con la speranza che mi condannino immediatamente, perché in questo momento, senza reddito di cittadinanza, non ho neanche la possibilità di sopravvivere».

Vive solo?

«Sì, solo. Pago 800 euro al mese di affitto e con il reddito di cittadinanza prendevo 780 euro, che comunque non mi bastavano: 280 euro me li davano a titolo di contributo per l’affitto e gli altri 500 euro mi restavano per pagare bollette, fare la spesa e saldare i sei mesi di affitto arretrato e le rate del condominio arretrate. L’unico modo per sopravvivere, così, è il carcere. Il reddito di cittadinanza mi è costato una querela per diffamazione da parte dell’ex brigatista Federica Saraceni, una querela da parte della consigliera comunale di Fratelli d’Italia Rachele Mussolini e ora un’indagine per non aver comunicato questa variazione di residenza».

Può spiegarla meglio, questa variazione di residenza?

«Mio figlio e mia nipote, per necessità burocratiche, hanno chiesto la residenza qui a casa mia. Io gliel’ho data. Ma, dato che loro in realtà non risiedono qui, io non ho comunicato alcuna variazione. Tra l’altro mi sarebbe convenuto. Mio figlio è disoccupato e, con loro a carico, avrei finito per prendere anche più dei 780 euro mensili. Ma sarebbe stata una truffa, perché loro non hanno mai vissuto qui».

Lei quindi adesso dice provocatoriamente: meglio il carcere che restare libero a fare la fame…

«Non provocatoriamente. In questo momento non ho altra soluzione: non so come pagare i sei mesi di affitto arretrati.

Una soluzione sarebbe proclamarsi innocente e, magari, averla vinta.

E in quel caso? Tornerebbe a prendere il reddito di cittadinanza.

«Quand’anche lo prendessi, non riuscirei a pagarci l’affitto: è un circolo vizioso. L’unica soluzione è questa: mi consegnerò per la seconda volta al carcere e almeno la pena da uno a tre anni la sconterò lì».

Non ha paura di tornare in carcere?

«Non è il luna park, ma l’unica alternativa è una scatola di cartone alla stazione Termini. E sinceramente a fare il barbone non mi ci vedo. Con le condizioni di salute che ho, almeno in carcere mangio tre volte al giorno, ho un posto dove dormire e l’assistenza medica».

Non ha nessuno che potrebbe aiutarla? Un famigliare…

«Non ho nessuno. Ho un figlio che abita da qualche parte, con il quale non ho più rapporti.

Ma come? Non è stato proprio suo figlio che ha trasferito la residenza da lei, facendole perdere il reddito di cittadinanza?

«Me lo ha chiesto perché altrimenti non avrebbe potuto avere la carta d’identità».

Perché? Dove vive suo figlio?

«Vive in una casa popolare insieme alla sua compagna e a mia nipote».

E non potevano mettere quella come residenza?

«Sinceramente quello non l’ho capito neanche io… (ride). Credo sia anche quella una questione burocratica».

Lei ha mai lavorato?

«Dal 2006, quando ancora ero in libertà vigilata, avevo una piccola compravendita di libri, che nel corso del tempo è andata a finire perché i libri non li compra più nessuno. Mia zia, nel 2013, quando è morta, mi ha lasciato una piccola assicurazione sulla vita, con la quale sono andato avanti in questi sei anni».

Poi è arrivato il reddito di cittadinanza.

«Non era per mantenermi a spese dello Stato. Io sono invalido al 67 per cento e sono regolarmente iscritto al Centro per l’impiego come disabile, ma non mi è mai arrivata nessuna chiamata. Volevo un lavoro, perché con 780 euro io non riuscivo a vivere. Ce l’ho fatta in questi dieci mesi, ma senza pagare l’affitto».

Cambiando argomento, l’altra sera a Non è l’Arena ci è andato giù pesante: “Meglio le mani sporche di sangue che di acqua”… Pentito?

«Assolutamente no. Quella non era una frase apologetica riguardo al mio passato, dal quale ho già preso le distanze. La mia è stata una risposta alle provocazioni che per tre volte mi hanno fatto, invitandomi in una trasmissione con persone di un certo tipo. Quella frase era una citazione di Graham Green, semplicemente una frase. Senza alcuna intenzione apologetica. Io ho abbandonato le Brigate Rosse nel 1980 e non ho più avuto contatti. E ora mi ritrovo in questa posizione».

L’hanno chiamata “odiatore”.

«Una scemenza. Io sul mio profilo Facebook pubblico quello che mi pare su chi mi pare. E se qualcuno viene a spiare è un suo problema. Rachele Mussolini si è indispettita perché mi è apparsa una sua pubblicità a pagamento, ma, se paga per apparire sulle pagine altrui, deve anche accettare di ricevere dei “vaffanculo”».

Politicamente si rivede in qualcuno oggi?

«Assolutamente no. Ho simpatizzato per Salvini per disperazione, non esistendo più una sinistra. Poi si è messo a fare il buffone in spiaggia e ho capito che stiamo vivendo un momento di decadenza».

La politica sui porti chiusi la condivide?

«Sì, ma non perché i migranti ci tolgono il lavoro. Semplicemente perché c’è una tratta di schiavi che porta vantaggio alle cooperative rosse e al Vaticano. Salvini mi piaceva perché mandava affanculo il Papa e la Boldrini: la sinistra è arrivata davvero a un livello di idiozia. Ha fatto una battaglia sui matrimoni tra maschi: ognuno in camera da letto fa quel che vuole, ma vedere due maschi o due femmine che si sposano a me dà il voltastomaco».

Sulla sua situazione personale, vuole fare un appello alle istituzioni?

«No. La responsabilità è mia, ho sbagliato io e non me la posso prendere con nessuno».

Roberta Damiata per ilgiornale.it il 17 febbraio 2020. Scontro durissimo a “Non è l’Arena” dove l’ex brigatista Raimondo Etro era stato invitato da Massimo Giletti in un dibattito. Dopo aver attaccato duramente gli altri ospiti presenti, dicendo ad esempio a Rachele Mussolini di essere una zoccola, dice una frase che lascia tutti interdetti riferendosi alle stragi delle Brigate Rosse: “Meglio mani sporche di sangue piuttosto che di acqua”. Luca Telese presente in studio non ci sta, e chiede a Etro di ritirare immediatamente quella frase orribile, mentre lui ribatte che si tratta semplicemente di una battuta. “Noi non possiamo accettare battute su questo, c’è gente che è morta” risponde un infuriato Telese. “Questa era una battuta da un romanzo di Graham Greene che tu neanche conosci, e significa che meglio le mani sporche di sangue che lavarsi le mani come Ponzio Pilato, tu sei un ignorante, e comunque mi avete invitato voi, non ci sono venuto io” gli risponde altrettanto alterato Etro. Interviene Massimo Giletti, perché gli opinionisti presenti, tra cui anche Daniela Santanché, pretendono le scuse da parte dell’ex Brigatista trovando estremamente offensiva una frase del genere. Ma per tutta risposta lui non cede di un centimetro e anzi risponde: “Scusa al cazzo”. A questo punto il conduttore che fino a quel momento aveva cercato di mantenere la calma all’ennesima offesa, lo allontana dello studio. "Il taxi glielo pago di tasca mia però quella è la porta - le dice Giletti -Lei questa frase non doveva dirla, questo non è accettabile” e lo accompagna all’uscita. Poi rivolgendosi al pubblico dice: "Storicamente nella mia vita televisiva e mi rammarico di quello che avviene perchè non è mai piacevole, mi sono capitate due situazioni nelle quali non ho potuto far altro. La prima era quando una persona sorrise sulle leggi razziali e per me era una cosa su cui non si poteva sorridere, ma non si può neanche dire una cosa del genere pensando che a farlo è stato un protagonista di uno degli episodi più tragici della nostra democrazia: la morte di Moro, dei suoi uomini di scorta, questo non è accettabile. Quindi quando dice una frase del genere io speravo che capisse che le battute su certe cose non si possono fare. Si poteva tornare indietro. Mi spiace per Etro, ma io non avevo altra alternativa che indicargli l’uscita".

Giampiero Mughini per Dagospia il 17 febbraio 2020. Caro Dago, è lapalissiano che l’ex brigatista ospitato ieri sera e poi cacciato via da Giletti altro non fosse che un Cretino della Porta Accanto. Ossia un cretino come ce n’è a bizzeffe per le strade e nelle aule d’Italia. Un cretino talmente cretino da pensare di potere fare sua una frase di uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’inglese Graham Greene, che l’aveva messa in bocca al personaggio di un suo romanzo, ossia la frase che è meglio avere sulle proprie mani il sangue dell’azione che hai tentato che non l’acqua con cui Ponzio Pilato se ne lavò le mani e lasciò che la tragedia si avverasse. Quel poveraccio di ex brigatista ha pensato che la cosa scritta da Greene valesse per lui, per lui che aveva contribuito ad ammazzare a tradimento dei buoni e valorosi cittadini italiani. Un cretino com’erano tanti di quei brigatisti e guerriglieri da quattro soldi. Ho appena comprato in antiquariato un volantino del marzo 1976 che ci si erano messe due gang di delinquenti a firmarlo, le Brigate Rosse e i Nuclei Armati Proletari. Sono recto e verso due fogli dov’è contenuta una immane quantità di stupidaggini in nome dell’ “organizzazione” della “guerra di classe” che loro avrebbero condotto contro “le Multinazionali, Agnelli, Cefis, la Confindustria”. Lo annunciavano con grande enfasi “l’attacco allo Stato, la lotta armata per il comunismo” che sarebbe stata sferrata dai “proletari con il fucile in spalla”. E si vantavano, gli imbecilli, dei prodromi di quell’attacco, ossia di cinque o sei assalti terroristi a caserme di carabinieri di Torino, Genova, Napoli, Roma, Firenze. Attacchi a tradimento condotti da cretini e semianalfabeti. Solo che va spiegato com’è che nascessero tali fiori nel giardino della nostra repubblica democratica. Il fatto è che era immenso, tra Sessanta e Settanta, lo stagno in cui potevano nuotare questi delinquenti. Immenso lo stagno delle sottoculture di sinistra che erano compiacenti nei confronti delle porcate che loro pronunziavano. Lo so a puntino perché quelle porcate, per motivi generazionali ce le avevo tutt’attorno. Non è che ricordi soltanto le loro parole, ricordo le loro facce, il loro ghigno. Non faccio nomi e cognomi per pietà generazionale. Ve lo ricordate uno dei dischi più belli degli anni Settanta, un meraviglioso disco degli Area la cui copertina era sta confezionata dal grande Gianni Sassi e dov’era una pistola di cartone? Certo, quella di Sassi era arte, provocazione, invenzione geniale. Solo che nella realtà poi si muovevano i cretini, quelli come il Raimondo Etro di cui sto dicendo, i quali non lo avevano capito affatto che si trattava di arte e di provocazione. E che s’erano messi a giocare alla guerra, ad assassinare alle spalle gente che stava andando al lavoro. Povero Greene, in quali mani è finito.  

Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 18 febbraio 2020. Non l' avevo visto ma poi, raggiunto dai commenti sono andato sul sito Dagospia e ho guardato questo episodio televisivo torbido e purtroppo così autenticamente italiano, andato in onda domenica sera nella trasmissione di Giletti. C' era un tizio, ex brigatista rosso, di nome Raimondo Etro, arruolato nello spettacolo perché gode delle libertà civili che la Repubblica concede anche a chi ha sacrificato vite innocenti e se ne vanta. La sua migliore battuta, preparata con effetto draculesco è stata: «Io ho le mani bagnate di sangue, ma meglio bagnate di sangue che di acqua come Ponzio Pilato». La scena era accuratamente recitata con messa in mostra delle mani a vantaggio di telecamera. Che colpo mediatico. Che spettacolo. Tutta la città ne parla. Giletti, che forse è troppo giovane per ricordare e troppo narcisista per misurare quel che ogni tanto gli esce dalla bocca, a un certo punto ha ammannito la seguente bufala: «Un tempo, almeno, i brigatisti guardavano in faccia coloro cui sparavano». No: è che non sa la storia. Qualcuno lo avverta: le parole di Etro sono state stupide, ignobili, cialtrone e preparate ad arte, ma il sagace conduttore dovrebbe imparare che i brigatisti non hanno mai guardato in faccia le loro vittime. Non sono mai stati dei combattenti, dei guerriglieri in azione, ma dei carnefici che uccidevano soltanto quando erano sicuri che la loro vittima fosse indifesa e voltasse le spalle. Per questo, compivano lunghe e accurate «inchieste»: per poter assassinare senza rischiare altro che il loro onore, mai più recuperato. Giletti ha fatto questa notazione del tutto sbagliata soltanto per un' abbuffata di narcisismo, raccontando al suo pubblico di aver udito qualcuno che, nientemeno, gli avrebbe detto: «Se non stai attento, potrebbero spararti in faccia». E giù applausi. La Santanché protestava vanamente annunciando che non avrebbe più partecipato a una trasmissione di Giletti in cui ci fosse il brigatista Etro. Cosa che ci ha fatto sospettare che il brigatista tutto sangue e sapone, sia in realtà un poveraccio a contratto, benché appesantito dalla panza e dagli anni, per fare la sua parte, a condizione (fittizia) di mantenersi entro certi limiti che però, poi, se li scavalca, meglio ancora così facciamo ascolto e domani tutti ne parlano. E ha ragione. Infatti, siamo qui sia pure con rossore a parlarne. Ma non sappiamo scegliere se spendere parole per deplorare il vecchio con le mani all' acqua pazza, o dichiarare la nostra preoccupazione per le esibizioni incredibili del conduttore che si riscrive la storia, che peraltro non sa. Questo Etro ci ha fatto l' effetto di quegli orsi spelacchiati e incatenati che i domatori si portavano in un carro insieme alla donna cannone e il cane che parla per fare la loro corrida in piazza. L' orso doveva fare la faccia feroce e provocare riprovazione e paura, mentre il domatore doveva dar spettacolo della sua capacità di dominare una situazione pericolosa. Giletti, nel suo piccolo, l' ha fatto: ha raggiunto la sua acme quando si è esibito in un minacciosissimo (rivolto all' orso brigatista): «Lei se adesso se ne va via di qua, vorrà dire che il taxi lo pago io!». Onestamente, alla fine non sai più se stare con l' orso ammaestrato o con il domatore trombone, entrambi specchio triste di un Paese perduto. Probabilmente, si replica.

Estratto dell'articolo di Sarina Biraghi per “la Verità” il 18 febbraio 2020. (…) L' ex Br ha proseguito ieri la sua polemica sfrontata su Facebook: «Giletti, non c' è tre senza quattro; se mi inviti di nuovo vorrei parlarne con Daniela Santanchè per confrontarmi. A proposito, attendo il bonifico per le spettanze per la sceneggiata di ieri sera». Poi in un altro post ha aggiunto: «Certo che so' strani sti giornalisti. Prima ti invitano per fare audience, poi ti cacciano via per farne ancora di più in cambio del portafogli pieno e degli applausi dei deficienti a pagamento». Intervistato alla radio dalla Zanzara, ha attaccato ancora il conduttore: «Prima di andare in onda mi ha detto di andarci giù pesante. Non mi scuso per quello che ho detto e piuttosto che essere Santanchè preferisco essere brigatista». (…) L' indignazione durante la trasmissione, infatti, era già alta proprio perché Etro, 63 anni, organizzatore del sequestro Moro, incassa dallo scorso aprile il reddito di cittadinanza massimo: 780 euro. E come lui altri due ex terroristi ricevono benefici dallo Stato: 623 euro li prende Federica Saraceni, ai domiciliari per la condanna a 21 anni e sei mesi per associazione con finalità di terrorismo e per l' omicidio del giuslavorista Massimo D' Antona; 500 euro, dallo scorso agosto, vanno a Massimiliano Gaeta, ex operaio metalmeccanico e informatico, arrestato nel 2007, su richiesta della Procura di Milano, nell' operazione Tramonto, come esponente del cosiddetto Partito comunista politico militare, considerato, dalla pm Ilda Boccassini, un' organizzazione terroristica, l' ala movimentista delle nuove Br. Il romano Etro, ex terrorista ma anche ex agente pubblicitario, fotografo, commerciante di riviste e film hardcore, la scorsa primavera aveva detto: «Se ci saranno proteste e il reddito di cittadinanza mi verrà ritirato, pazienza, non mi opporrò. Ho sempre considerato le pene che abbiamo avuto, io e tutti gli altri Br, fin troppo miti. Io il 6 marzo scorso ho fatto domanda alle Poste perché sto affogando, sono un vero povero Il reddito per me è una boccata d' ossigeno». (…)

L’ex brigatista Etro perde il reddito di cittadinanza: «Così meglio tornare in carcere». Il Dubbio il 21 febbraio 2020. “Con le condizioni di salute che ho, almeno in carcere mangio tre volte al giorno, ho un posto dove dormire e l’assistenza medica”. Di lui si erano perse le tracce da anni, fino a quando il nome di Raimondo Etro, brigatista della colonna romana che partecipò al sequestro di Aldo Moro e per questo condannato a 20 e 6 mesi anni, da un anno a questa parte è tornato a riempire le cronache dei giornali. Prima, perchè  dal suo profilo Facebook ha insultato la consigliera comunale capitolina Rachele Mussolini (che lo ha querelato), poi per il fatto che percepisce il reddito di cittadinanza, infine per la frase pronunciata la settimana scorsa a un talk show di La7: “Meglio le mani sporche di sangue che di acqua”. Ora, in un’intervista a Tpi.it, Etro ha annunciato di non percepire più i 780 euro di reddito di cittadinanza: “Ho ricevuto a gennaio l’ultimo accredito. Me lo hanno ritirato perché non ho comunicato una variazione di residenza. È una questione semplicemente burocratica”. Ha spiegato che suo figlio disoccupato e mia nipote hanno dichiarato fittiziamente di abitare da lui e che lui non ha comunicato questa variazione, anche se paradossalmente non lo avrebbe in alcun modo penalizzato. E che non è possibile correggere la cosa “e sinceramente neanche mi interessa: dopo tutte queste polemiche, penso che vada bene così”. Poi aggiunge, “Le norme sul reddito di cittadinanza prevedono per la mancata comunicazione di residenza una pena da uno a tre anni, per la quale sono stato già interrogato dalla Guardia di Finanza. Mi sono dichiarato colpevole e chiederò di essere giudicato subito, con la speranza che mi condannino immediatamente, perché in questo momento, senza reddito di cittadinanza, non ho neanche la possibilità di sopravvivere”. Insomma, l’ex brigatista – invalido al 67% – preferisce tornare in carcere perchè tanto il reddito di cittadinanza non gli bastava per pagare 800 euro di affitto e sopravvivere: “Quand’anche lo prendessi, non riuscirei a pagarci l’affitto: è un circolo vizioso. L’unica soluzione è questa: mi consegnerò per la seconda volta al carcere e almeno la pena da uno a tre anni la sconterò lì”. L’unica alternativa, ha detto, sarebbe “una scatola di cartone alla stazione Termini. E sinceramente a fare il barbone non mi ci vedo. Con le condizioni di salute che ho, almeno in carcere mangio tre volte al giorno, ho un posto dove dormire e l’assistenza medica”.

·        Il Delitto di Vittorio Bachelet.

40 anni fa l’omicidio Bachelet, tifoso della Ue e nemico dei sovranisti. Stefano Ceccanti de Il Riformista l'11 Febbraio 2020. Domani ricorrono i quarant’anni dell’assassinio del professor Vittorio Bachelet, ucciso il 12 febbraio del 1980 nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza a opera delle Brigate Rosse. Molto si potrebbe dire su Vittorio Bachelet, in quel momento oltre che docente universitario anche vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura e in precedenza condirettore del periodico della Fuci Ricerca sotto la presidenza di Alfredo Carlo Moro e presidente dell’Azione Cattolica Italiana negli anni del Concilio Vaticano II. Una delle personalità chiave di quello che è stato definito il cattolicesimo democratico, che è stato particolarmente colpito dal terrorismo brigatista, come dimostrano anche i casi di Aldo Moro, di Piersanti Mattarella e Roberto Ruffilli. «Uccidono sempre gli stessi», fu il commento di Nilde Iotti a Maria Eletta Martini alla Camera dei Deputati il giorno dell’uccisione di Ruffilli. Rinvio per completezza al profilo tracciato dal professor Fulco Lanchester nel Dizionario Bibliografico Treccani, leggibile anche on line. Per questa occasione, per non ripetere cose scontate o che altri potrebbero dire molto meglio, ho pensato di rileggere il volume di Scritti Civili curato da Matteo Truffelli e pubblicato dall’Ave nel 2005 e devo dire che l’ho trovato particolarmente attuale. Il messaggio più forte che se ne ricava è quello di un superamento del nazionalismo esclusivista con una piena accettazione delle opzioni atlantica ed europea. Un dato per niente scontato in quella fascia generazionale in cui tra i giovani cattolici socialmente più aperti, compresi vari costituenti, notevoli erano le riserve sul rapporto stretto con gli Stati Uniti d’America (che si sarebbe rivelato alla distanza una scelta capace di integrare tutte le forze politiche democratiche), in particolare tra i dossettiani e i gronchiani, che si sommava alla diversa opposizione dei settori della destra curiale. Com’è noto, pur allineandosi nel voto finale d’Aula, questi settori espressero chiaramente le loro riserve nel dibattito interno al gruppo democristiano. Ma non era più tempo per Bachelet, né in chiave progressista né conservatrice, di opporsi a questo duplice legame, anche a quello atlantico. Ciò avrebbe di fatto significato, al di là delle intenzioni, riproporre «un residuo di venerazione per questo mito della assoluta sovranità nazionale, in cui si assomma il mito dello Stato inteso come valore assoluto e il mito della nazione ritenuta necessariamente e in perpetuum come autosufficiente politicamente» (“La patria nella comunità internazionale”). Era invece tempo per Bachelet di praticare il principio di sussidiarietà anche all’idea di Patria in una chiave, come diremmo oggi, multilivello: «La patria può essere il nostro paese, la nostra città, la nostra regione; può essere la nostra nazione radicata in un territorio e coincidente o non con lo Stato; può essere lo Stato stesso ma può essere una comunità di Stati; può essere (anche se man mano che i confini si dilatano può sembrare più difficile riconoscere negli uomini un vero e proprio sentimento di amore patrio) la comunità di tutti gli uomini» (Ivi). Soprattutto è l’Europa che va coltivata come «una comunità politica» poiché essa, appunto sulla base del principio di sussidiarietà, in questo caso verso l’alto, è «di dimensioni adeguate alla realizzazione del bene comune dei popoli europei nella situazione attuale del mondo» (“Gioventù europea”). Questo messaggio di fondo non portava comunque Bachelet a dogmatizzare le concrete istituzioni che si creano in un processo necessariamente dinamico e di lunga prospettiva: «le forme che storicamente hanno tentato di organizzare questa comunità su piano giuridico si sono dimostrate finora, com’è naturale data la complessità del problema, del tutto imperfette. Ciò ha prodotto nella opinione pubblica una certa sfiducia e un certo scetticismo…ma questo scetticismo…non riesce spesso a vedere che più che di inutilità delle organizzazioni internazionali dovremmo parlare di incapacità degli Stati nazionali a superare anche politicamente, e sia pure con la dovuta gradualità, una misura che quasi in tutti i casi è stata superata sia nel campo economico sia in quello più strettamente industriale, in quello demografico come in quello militare; e perfino scientifico» (La patria.., cit). Del resto era il medesimo pragmatismo con cui Bachelet si rapportava allo scarto, alla “notevole differenza” tra le due parti della nostra Costituzione: la prima «innovatrice e talora audace» e la seconda «ferma a un’impostazione di tipo pre-fascista, inadeguata quindi alle funzioni nuove dello Stato» (“Crisi dello Stato”). Del resto Bachelet aveva preso a modello nel suo slancio ideale il “senso concreto del possibile e del giusto” di Alcide De Gasperi che considerava il suo modello di riferimento. Quel senso concreto nel segno di una capacità riformista, di aggiornamento profondo della cultura e della politica che gli schemi ideologici chiusi del terrorismo individuarono allora, non a torto, come a esso radicalmente alternativo. Quel senso che dobbiamo riscoprire qui ogni giorno, come nostro dovere comune.

Vittorio Bachelet e la sua lezione di riformismo. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 28 Maggio 2020. Il professor Lanchester ci chiede come abbiamo vissuto il sacrificio di Vittorio Bachelet nel 1980 per condividere alcuni elementi di memoria. Quello era il mio ultimo anno di liceo e l’omicidio di Bachelet veniva dopo anni tormentati; in particolare era ancora dentro di noi il terribile ricordo dei cinquantacinque giorni del rapimento di Aldo Moro e della sua uccisione. Quel cognome mi era noto per due degli ambienti che allora con alcuni altri coetanei frequentavo assiduamente: il Movimento Studenti di Azione Cattolica e il gruppo locale Jacques Maritain federato alla Lega Democratica di Pietro Scoppola, Achille Ardigò e Paolo Giuntella. Dal primo avevo imparato il senso non intimistico della cosiddetta scelta religiosa implementata pochi anni prima da Bachelet, che portava con sé la necessità di conoscere approfonditamente i documenti del Concilio e la Costituzione, distinguendo, ma unendo in una doppia fedeltà, il ruolo di credenti e quello di cittadini. Dal secondo, soprattutto dallo splendido libro di Pietro Scoppola La proposta politica di De Gasperi, uscito nel 1977, avevamo colto alla luce del passato il senso degli anni della solidarietà nazionale: la collaborazione resistenziale era durata troppo poco, lacerata allora dalla Guerra Fredda, e c’era bisogno di un lavoro comune, non solo di Governo, ma anche molecolare, per dare spessore a una base condivisa, emersa positivamente nel riconoscimento di tutte le principali forze politiche della collocazione atlantica e di quella europea, che consentisse l’alternanza. Quella che Scoppola chiamava la “cultura dell’intesa”. Nel 1979 ad Arezzo si era svolto il convegno della Lega democratica su “La terza fase e le istituzioni” che aveva prospettato anche l’esigenza di accompagnare la possibile alternanza con riforme della Seconda Parte della Costituzione. Il senso di parole come distinzione, mediazione (nel doppio significato verticale, tra principi e realtà, e orizzontale, tra posizioni diverse), che segnano come spiegava Scoppola la liberazione umana come processo aperto, dialogico, si pensi alle belle pagine del volumetto successivo sul 25 aprile, non era però del tutto condiviso. Proprio nel 1977 si era sviluppato un eterogeneo movimento di protesta, che portava con sé esigenze ambigue, alcune positive in chiave libertaria contro gli eccessi delle culture doveristiche tradizionali che avevano strutturato il Paese, altre però distruttive che avevano portato consenso alle frange terroristiche residue. Gruppi che si ispiravano alla cultura della Rivoluzione, intesa come un punto fisso di arrivo, da raggiungere a tutti i costi per via di imposizione, l’esatto contrario del processo aperto di liberazione. Come ha spiegato Micheal Walzer in Esodo e rivoluzione ci sono due modelli politici e teologici diversi a seconda che si consideri la terra promessa da raggiungere come pura, o, viceversa, da scegliere solo perché migliore di quella presente, senza pretesa di perfezione. La violenza tendeva a opporre la Rivoluzione agli uomini che col proprio riformismo incarnavano davvero la possibilità di Liberazione. Negando la Liberazione dentro il sistema si illudevano di imporre la Rivoluzione. All’idea di Costituente incompiuta, di un Governo delle forze popolari troppo presto interrotto nel 1947 e da riprendere trent’anni dopo per consentire un’alternanza non traumatica, si opponeva il mito della Resistenza tradita che poteva compiersi solo con la Rivoluzione di una parte che si imponeva all’altra. In qualche modo, però, la contestazione alle idee di distinzione, di mediazione, di doppia fedeltà era contestata anche nella Chiesa. Quel cattolicesimo impersonato da Moro e Bachelet ad alcuni sembrava datato, troppo elaborato, e non nel senso scontato in cui ovviamente nessuna eredità non può essere solo passivamente ripetuta. Cosicché quando qualche settimana dopo l’omicidio, per l’appunto a Pisa, il 24 e 25 maggio, esattamente quarant’anni fa, in un convegno nazionale dei giovani della Lega Democratica che presero il nome della “Rosa Bianca”, l’allora presidente della Fuci Giorgio Tonini usò come parole chiave “mediazione culturale”, si ingenerò una dura polemica ecclesiale sull’opportunità o meno di archiviare per intero quell’eredità in nome di un approccio più immediato all’opzione religiosa, teso a svalutare anche la stagione della solidarietà nazionale e l’appartenenza comune alla Costituzione. Come nella contestazione terroristica riviveva la teoria della “Resistenza tradita” e la polemica estremista contro le forze di sinistra che avevano progressivamente accettato la collocazione europea ed atlantica, così nella Chiesa rivivevano alcune delle pulsioni intransigenti che si erano manifestate al momento dell’approvazione della Costituzione, vista come un cedimento ad altre impostazioni, delle elezioni municipali di Roma del 1952 con la cosiddetta operazione Sturzo, nelle dure opposizioni al primo centro-sinistra e nelle riserve verso lo stesso Concilio. Giacché i piani sono distinti, ma la connessione è sempre forte. Due opposizioni del tutto diverse, niente affatto assimilabili, ma entrambe tese a polarizzare, a privilegiare l’immediatezza sulla mediazione, la propria Rivoluzione alla Liberazione comune, la propria esperienza religiosa declinata in termini tradizionalistici come contrapposta alla cittadinanza comune. A tanti anni di distanza credo si possa legittimamente rivendicare che invece quella via di Liberazione, nel segno della mediazione e del riformismo, fosse l’unica portatrice di futuro, al netto della capacità di ciascuno di noi di saperla rinnovare costantemente.

Quegli otto colpi di pistola, il finto allarme bomba, la fuga dei terroristi sulla 131 bianca. La cronaca di allora. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Gian Antonio Stella e Bruno Tucci, Maria Serena Natale, Giovanni Bianconi. Quarant’anni fa moriva Vittorio Bachelet, professore di Diritto e vice presidente del Csm ucciso il 12 febbraio 1980 alla Sapienza. La cronaca dall’archivio del «Corriere» e l’eredità dell’intellettuale cattolico assassinato dalle Brigate rosse. Quarant’anni fa moriva Vittorio Bachelet, professore di Diritto, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura e figura di riferimento del mondo cattolico impegnato nel rinnovamento democratico del Paese, ucciso dalle Brigate rosse all’università La Sapienza. Oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella partecipa agli eventi commemorativi nella sede del Csm e nell’ateneo romano. Riproponiamo la cronaca di allora, firmata da Gian Antonio Stella e Bruno Tucci sulla prima pagina del «Corriere della Sera» del 13 febbraio 1980. L’attacco, questa volta, è nel cuore dell’università. Le Brigate Rosse colpiscono a freddo una delle più alte cariche dello Stato, il professor Vittorio Bachelet, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Quattro colpi all’addome, altri in testa mentre il docente è a terra agonizzante. Commenta a caldo il procuratore capo Giovanni De Matteo: «È il più grave attacco alle istituzioni nella storia della Repubblica italiana». Roma è sconvolta, decine di «gazzelle» e di «pantere» la percorrono in lungo ed in largo. Scattano posti di blocco, retate, perquisizioni. La città universitaria è isolata: nessuno può entrare o uscire senza aver lasciato un proprio documento d’identità. Lo potrà ritirare dopo gli accertamenti. Come una bomba, la notizia rimbalza dal Quirinale al Parlamento, dal Senato a Palazzo Chigi. La Roma politica rivive le ore angosciose della mattina di via Fani. Pertini è attonito, interrompe le udienze, s’infila un cappotto beige, si precipita all’università. Dinanzi al cadavere dell’amico, si commuove, scuote il capo, esce da una porta secondaria, forse per nascondere le lacrime. Lo seguono Amintore Fanfani, Nilde Jotti, Rognoni, Maria Eletta Martini, Luciano Lama, Bruno Trentin, Piccoli, Zaccagnini, Stammati, il sindaco Petroselli. I rituali di sempre: la commozione, lo sdegno, le parole di dolore, l’abbraccio alla vedova, ai figli. Poi la solita, ossessiva domanda: è proprio impossibile fermare questa drammatica escalation? Commenta De Matteo: «Per combattere il terrorismo, ci vogliono mezzi legislativi, di polizia, sostanziali. I decreti approvati recentemente sono solo il primo passo, ne debbono seguire altri». La facoltà di Scienze politiche è assediata, nell’aula magna di Giurisprudenza Luciano Lama parla ad una folla di studenti. È proprio qui che il segretario generale della CGIL, tre anni fa, fu contestato dai giovani. Dice: «Spero che questa volta ci sia una prova di unità tra lavoratori, insegnanti e studenti. In questo palazzo c’è un uomo morto, appartiene anche lui alla nostra famiglia, alla famiglia di coloro che non accettano la violenza. Che si battono per la vita contro la morte». Fuori, la città universitaria brulica di gente: giornalisti, fotografi, cineoperatori premono per sapere qualcosa, le notizie filtrano con il contagocce. La polizia e i carabinieri, barricati nell’androne dove è avvenuto il delitto, non lasciano entrare nessuno. A fatica si ricostruisce il film di questo barbaro assassinio. Soltanto a tarda sera, per esempio, si saprà da una dichiarazione di Rognoni alla Camera, che le BR avrebbero trafugato una borsa che Bachelet teneva sotto il braccio.Sono le 11.35 di una mattinata splendida. Il sole è primaverile, la temperatura è tiepida, nei viali dell’università gli studenti passeggiano con i libri sotto il braccio. Vittorio Bachelet, 54 anni, sposato con due figli, professore di Diritto amministrativo e di scienza dell’amministrazione, ha appena concluso la lezione. Esce dall’aula numero 11, dedicata ad Aldo Moro, e si avvia chiacchierando verso le scale che portano all’ingresso della facoltà. Sono con lui la sua assistente Bindi e due studenti. Bachelet sale le scale e si ferma nell’androne a parlare con la professoressa: «Sono indeciso se tornare a casa o fermarmi in ufficio a sbrigare alcuni lavori». Sul pianerottolo e sulle scale che conducono al secondo piano una quindicina di studenti discutono fra di loro. È il momento dell’agguato: i due terroristi sono sulla porta, la tengono aperta, sorvegliano, con disinvoltura, il professore e la piazzetta interna, cioè la via della fuga. Sono un uomo, snello, un metro e settanta, zuccotto in testa, baffi scuri e folti, giaccone sportivo chiaro, venticinque anni circa; e una ragazza, magra, un metro e sessantacinque, capelli ricci, baschetto chiaro, soprabito verde, pallida in volto, sui ventidue anni. Bachelet continua a parlare con l’assistente, la terrorista si innervosisce, decide di entrare in azione. Con freddezza, fa un paio di passi, raggiunge il professore che le volge la schiena, lo afferra per una spalla, lo gira e spara quattro volte. Quattro colpi all’addome da non più di trenta centimetri. Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura si piega su se stesso, barcolla, cerca istintivamente rifugio in un angolo a ridosso della vetrata. Interviene il secondo terrorista: si precipita verso Bachelet che sta crollando a terra. Preme per quattro volte il grilletto, il professore si affloscia su un fianco, perde gli occhiali. L’assassino si china su di lui e gli spara il colpo di grazia alla nuca. L’autopsia confermerà che gli assassini hanno usato una pistola calibro 32: otto pallottole che lo hanno centrato. Una al cuore, una alla nuca. «Scappate, scappate, ci sono le bombe», grida il killer. È un trucco per coprirsi la fuga. Infatti, si scatena un fuggi-fuggi generale: i terroristi ne approfittano, scendono nella piazzetta interna e raggiungono, a passo veloce, un cancello secondario di viale Regina Margherita che qualcuno ha aperto durante la notte, tranciando con un tronchese la catenella del lucchetto. I due assassini salgono su una 131 bianca che si perde nel traffico scomparendo verso piazza Bologna. In quella zona sarà trovata qualche ora dopo. Era stata rubata da un commando delle BR. Non è ancora mezzogiorno, dalla città universitaria l’allarme arriva in questura. Partono «gazzelle» e «pantere», parte pure un’ambulanza, ma inutilmente, perché Vittorio Bachelet è morto sul colpo. Dopo il terrore e lo smarrimento, si comprende quanto è accaduto. Si interrompono le lezioni, la vita dell’università si blocca, le aule si svuotano. Studenti e professori si precipitano alla facoltà di Scienze politiche. Stupore, sdegno, commozione. Dice il professor Adolfo di Majo, docente di Diritto civile e membro del Consiglio superiore della magistratura: «Hanno voluto colpire non l’uomo, ma l’istituzione». La notizia dell’agguato giunge nell’aula magna, dove si sta tenendo un dibattito sul terrorismo, condotto da Stefano Rodotà e da Luciano Violante. Il dibattito si trasforma immediatamente in un’assemblea aperta, carica di tensione.La facoltà di Scienze politiche viene «occupata» dal procuratore capo De Matteo, dagli ufficiali dei carabinieri e dai funzionari di polizia. Si fanno i primi rilievi, mentre ai centralini di due giornali arrivano le telefonate che rivendicano l’attentato. «Siamo le Brigate Rosse, abbiamo giustiziato noi il professor Bachelet. Seguirà comunicato». Delle quindici persone che hanno assistito all’omicidio, restano quattro testimoni: l’assistente di Bachelet e tre studenti che permettono alla polizia una prima ricostruzione. Si tenta anche un identikit, ma per il momento non c’è niente di ufficiale. Le indagini si presentano difficili, come sempre. «Vittorio, Vittorio, che cosa ti hanno fatto?». La moglie Maria Teresa Bachelet, giunta all’università insieme con la figlia Maria Grazia, si china sul corpo del marito. Piange, si dispera, continua a invocare il suo nome. «Glielo avevo detto che doveva stare attento, e lui mi rispondeva: è un rischio che dobbiamo calcolare». Arrivano gli amici, i conoscenti, i colleghi: dinnanzi alla vetrata chiusa la gente si accalca. Qualcuno dice: «Stanno uccidendo a caso». Un vecchio professore s’indigna, esclama: «Macché a caso! Per carità, non si prende di mira un Bachelet tanto per sparare nel mucchio. Sapevano bene chi avrebbero ucciso». La confusione è tale che gli esperti della scientifica bussano inutilmente per alcuni minuti. Entreranno dopo con non poca fatica. Nell’aula magna, gremita di gente, parla il rettore Antonio Ruberti. Pallido in volto, dice al microfono: «Non è più possibile stare alla finestra, perché quando si continua a non dare alcun peso alla vita umana e si colpisce persino dentro l’università vuol dire che si è giunti ad un punto di grave imbarbarimento dal quale è difficile uscire senza un serio, profondo impegno di tutti quanti». Gli fa eco l’onorevole Stefano Rodotà: «C’è un esplicito disegno di cancellare le libertà democratiche nel nostro Paese; c’è una strategia che tende a colpire ogni occasione di vita del Paese, a sostituire la discussione con la paura». Aggiunge il sindaco Petroselli: «Sono ormai dieci anni che il nostro Paese è vittima di questa catena di delitti. Diciamo ancora ai terroristi: non siete passati e non passerete. La democrazia italiana è e sarà più forte dei suoi nemici».A Roma si vivono ore di grande tensione: i controlli sono estesi finanche alla Camera ed al Senato, dove i commessi hanno l’ordine di perquisire chiunque entri o esca da Montecitorio e da Palazzo Madama. Oggi, per rispondere alla nuova sfida del terrorismo, l’Italia si ferma due ore per uno sciopero proclamato dalle organizzazioni sindacali. Le scuole apriranno con un’ora di ritardo. A Roma il blocco sarà di quattro ore: all’università è prevista una manifestazione a cui parteciperanno i massimi dirigenti della federazione unitaria. Nei tribunali di tutt’Italia saranno sospese le udienze. Il Consiglio dei ministri si occuperà di ordine pubblico.

Rosy Bindi: «Dietro l’agguato poteri occulti che volevano fermare il Paese». Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Beltramin. La mattina in cui fu ucciso Vittorio Bachelet, nei corridoi della facoltà di Scienze politiche della Sapienza c’era meno gente del solito. Il 12 febbraio di quarant’anni fa era un martedì, nell’aula magna si stava tenendo un incontro sul terrorismo — tra i relatori Luciano Lama, Stefano Rodotà e Luciano Violante — e qualcuno aveva diffuso la voce che c’era una bomba all’università: un’idea dei brigatisti per non trovare intralci durante la fuga. Terminata la sua lezione, Bachelet si era fermato a fare due chiacchiere sul mezzanino della scalinata che porta all’aula docenti, insieme alla sua assistente, Rosy Bindi, che quel giorno compiva 29 anni. Anche da vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, non aveva voluto rinunciare all’insegnamento. «Anzi, mi aveva confessato che attendeva con ansia la fine di quell’anno — ricorda Bindi —, quando avrebbe terminato l’incarico al Csm, e sarebbe tornato in Ateneo a tempo pieno».

Come racconterebbe, a uno studente di oggi, chi era Vittorio Bachelet?

«Era semplicemente un professore, nel senso più alto del termine. Il suo amore per i giovani era merce rara. Riusciva a trasmettere ai ragazzi la passione per il diritto perché non partiva mai dall’astrattezza, ma dai problemi reali del Paese».

E agli esami com’era?

«Era giusto. Se un candidato non era preparato, non lo poteva promuovere… Ma faceva sempre una domanda in più, per essere sicuro. Mi diceva: dobbiamo dare a tutti una possibilità di appello. A me, che seguivo i laureandi, aveva dato questa indicazione: con i più bravi puntiamo alla lode, ma anche gli altri devono arrivare al traguardo».

Come racconterebbe, a uno studente di oggi, perché l’hanno ucciso?

«È stato ammazzato perché, come tutte le altre vittime delle Br, era un autentico servitore dello Stato. Aveva competenza, intelligenza e rettitudine: è chiaro che per abbattere lo Stato, come volevano fare i brigatisti, bisognava privarlo dei suoi uomini migliori. È poi c’è un’altra ragione, più profonda».

Quale?

«La mia convinzione, maturata nel corso dei decenni, è che queste vittime non sono state uccise solo dalle Br, ma da poteri occulti, preoccupati perché la generazione allora al governo stava attuando davvero lo spirito della Carta costituzionale. Oggi molti lo hanno dimenticato, ma quelli sono stati anche anni molto belli, una stagione di autentiche riforme nel Paese: il servizio sanitario nazionale, l’istituzione delle Regioni, il diritto di famiglia, lo statuto dei lavoratori, fino ai consigli di quartiere. Contro tutto questo ci fu un doppio accanimento: da parte dei terroristi, e da parte dei poteri che usarono chi sparava nelle strade».

Lei guardò negli occhi la ragazza che sparò per prima a Bachelet.

«Quando arrivò, pensavo fosse una studentessa. Poi prese il professore alle spalle e vidi il volto di lui trasformarsi: capì cosa stava accadendo un istante prima di me. Dopo gli spari, corsi a cercare aiuto ma non trovai nessuno: i terroristi avevano pianificato tutto per lasciarci soli».

Il commando era composto da due brigatisti, Anna Laura Braghetti e Bruno Seghetti. Entrambi arrestati pochi mesi dopo e condannati all’ergastolo, ormai sono liberi da molti anni. Pensa che siano rimasti in carcere il giusto?

«Il compito di stabilire le pene è della magistratura, che ha applicato le leggi dello Stato. La penso come Giovanni, il figlio del professore, intervistato da Giovanni Bianconi sul Corriere. Come dice la Costituzione, la funzione della pena non è la vendetta ma la riabilitazione della persona. Quello che non avrei mai accettato, sarebbe stato un colpo di spugna: la tentazione c’è stata, ma per fortuna non è avvenuto. Una cosa è il percorso personale di ciascun terrorista, un’altra l’assoluzione storica del terrorismo. E quest’ultima sarebbe inaccettabile, perché il terrorismo va condannato, punto. Non ha alcuna possibilità di giustificazione. E poi c’è un altro problema decisivo. Il problema che la verità, i brigatisti, non ce l’hanno mai detta».

Lei cosa chiederebbe oggi a chi armò Seghetti e Braghetti?

«Se erano uno strumento consapevole o inconsapevole di altri poteri».

Braghetti ha dimostrato grandi doti di «comunicatrice»: ha scritto un libro molto auto-indulgente, «Il prigioniero», dal quale è stato tratto un film di successo, «Buongiorno, notte» di Marco Bellocchio. A lei è ispirato il personaggio interpretato da Maya Sansa, la brigatista presa dai dubbi, che sogna la liberazione del presidente Dc.

«Mi ha lasciata perplessa soprattutto il film. Come il mio professore, io sono tra chi scommette sempre nella possibilità che le persone si possano riscattare. Però mi chiedo: se ha avuto davvero tutti quei dubbi durante il sequestro Moro, come ha fatto due anni dopo a uccidere Bachelet con tanta freddezza?».

Il cardinal Martini ha definito Bachelet un martire laico. La Braghetti, invece, ha scritto di lui: «Un bersaglio facilissimo».

«Facilissimo proprio perché è andato consapevolmente incontro al suo martirio. Sapeva da tempo di essere un obiettivo delle Br ma aveva rifiutato la scorta, perché non voleva mettere in pericolo la vita di altre persone».

Le è mai capitato di pensare cosa sarebbe successo se due anni prima, durante il sequestro Moro, fosse passata la linea di Craxi, quella della trattativa con i sequestratori?

«Con i terroristi non si può trattare. Più che linea della trattativa, io la definirei preoccupazione di salvare la vita a Moro a tutti i costi. E non era certo una preoccupazione solo di Craxi, lo fu anche di alcuni democristiani come Fanfani. Io, che ero una semplice dirigente dell’Azione cattolica e ricercatrice precaria all’università, all’epoca ero per la linea della fermezza. Negli anni successivi mi sono convinta che noi invece avremmo dovuto salvare la vita di Moro. Perché lo Stato era comunque più forte dei terroristi. Quindi si poteva salvare la vita di Moro senza intaccare la forza delle istituzioni. Anzi, sarebbe stato necessario farlo».

Negli anni successivi, i terroristi facevano meno paura.

«Non è questo il punto. Il paradosso è che salvando Moro lo Stato sarebbe diventato più forte, e invece senza di lui si è indebolito. Rimasto solo, Berlinguer non è stato in grado di proseguire il percorso che avevano cominciato insieme. E presto si è aperta la stagione di Craxi. Le mie critiche a Craxi non dipendono dalla stagione di Tangentopoli, considero quella di Hammamet una tragedia umana. Sono legate a quello che accadde negli anni Ottanta: fu allora che avvenne una mutazione del ruolo dei partiti, e della leadership politica, i cui influssi negativi resistono ancora oggi. Tutto questo è accaduto perché è venuto meno il progetto di Moro. Ma purtroppo nel 1978 non era chiaro ai più quanto lungimirante e illuminante fosse per la democrazia italiana il progetto moroteo».

Al funerale di Bachelet, nella chiesa di San Roberto Bellarmino a Roma, suo figlio Giovanni disse una cosa enorme: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

«Fu un messaggio dirompente, di un’attualità straordinaria. Oggi si parla tanto di farsi giustizia da soli, nelle chat si inneggia alla pena di morte, si promuove un’idea di Stato che non pratica la giustizia ma la vendetta. C’erano anche allora questi sentimenti, e l’idea di sospendere le garanzie costituzionali per combattere il terrorismo. Ma il terrorismo fu sconfitto con la Costituzione, grazie anche a Vittorio Bachelet e alla sua famiglia. Per questo oggi vorrei che quella preghiera straziante venisse letta in tutte le scuole. Perché la democrazia non si conquista una volta per tutte, bisogna impegnarsi ogni giorno per preservarla».

Da studente universitario Bachelet, nei primi anni del Dopoguerra, scrisse nella rivista della Fuci: «Con nessuno dei nostri simili abbiamo il diritto di rifiutarci o di essere pigri nel gettare il ponte».

«Questa per me è l’essenza di Bachelet: un uomo di fede. In epoche di cambiamenti profondi, com’erano gli anni Settanta e ancora di più il mondo di oggi, il cristiano ha uno strumento in più da offrire alla società: il Vangelo. Da qui nasceva in Bachelet il grande rispetto nei confronti degli altri, la sua attitudine al dialogo, la sua capacità di unire. Questa era la sua intelligenza, la sua cultura, il suo carattere, ma soprattutto la sua autentica fede cristiana. Il cristianesimo non come fazione, ma come spirito di servizio al Paese. In tempi in cui l’odio sembra un sentimento sdoganato, perfino politicamente corretto, uomini come Bachelet ci mancano enormemente. Dobbiamo continuare a interrogarli, tramandare le cose che hanno scritto, il modo in cui hanno vissuto e in cui sono morti. La strada l’hanno tracciata. È faticosa, ma è davanti a noi».

Come ha deciso di trascorrere il giorno del suo compleanno?

«Ho quattro appuntamenti. La mattina sono alla cerimonia in memoria di Bachelet al Csm, poi alla celebrazione che si tiene alla Sapienza, entrambe alla presenza del presidente Mattarella. Nel tardo pomeriggio vado a messa. La sera mi aspetta una cena con la mia famiglia, tra mia mamma che di anni ne ha cento e una schiera di nipoti e nipotini».

Con la preghiera di suo figlio Giovanni la nostra generazione scoprì la vita pubblica. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. «Preghiamo anche per quelli che hanno colpito il mio papà...». Credo che la mia generazione si sia affacciata alla politica o, meglio, alla vita pubblica ascoltando quella frase, pronunciata da un ragazzo poco più grande di noi. Un ragazzo a cui avevano ammazzato il padre, e che mentre mezza Italia invocava la pena di morte perdonava gli assassini e, di più, pregava per loro. Le parole di Giovanni Bachelet al funerale di suo papà Vittorio non rappresentano solo il culmine del cattolicesimo democratico, di una certa idea di percepire la politica come «la più alta forma di carità» (Paolo VI) e il potere come verbo, non come sostantivo. Ebbero l’effetto di una scossa di commozione, di energia, anche di fiducia su bambini, ragazzini, adolescenti cresciuti durante gli anni di piombo, che fino a quel momento non avevano ben capito quel che stava accadendo.Ricordo quando la tv trasmise le immagini della strage dell’Italicus. Avevo sette anni. Chiesi a mio nonno Aldo: «Ma sono più le persone buone, come noi, o quelle cattive, che mettono le bombe sui treni?». Non ricordo cosa e se mi abbia risposto. Anche il nonno, che pure era passato attraverso la guerra d’Africa, il fascismo, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza, la ricostruzione, il nonno che mi parlava per ore della sua giovinezza grandiosa e terribile — Hitler, Stalin, Mussolini —, era senza parole di fronte a un orrore che sfuggiva alla sua comprensione. E poco importa che la bomba sull’Italicus l’avessero messa terroristi neri, e Vittorio Bachelet fosse stato assassinato da terroristi rossi. Era comunque un attacco vile a quella fragile democrazia che gli italiani delle generazioni precedenti erano riuscite a costruire. Poi vennero quelle parole. Pronunciate dal pulpito di una chiesa, da un ragazzo rimasto orfano. Fu allora che compresi una realtà forse lapalissiana, ma che aveva necessità di conferme: erano di più i buoni. E come accade non sempre, ma spesso, alla fine i buoni avrebbero vinto.

Il figlio di Vittorio Bachelet: «Papà morì per lo Stato.  I killer liberi? Gli andrebbe bene. Pregammo per loro». Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. «Preghiamo per i nostri governanti», esortò Giovanni Bachelet al funerale del padre Vittorio, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura assassinato due giorni prima dalle Brigate rosse. Dal pulpito della chiesa, durante l’orazione dei fedeli, fece i nomi del capo dello Stato Sandro Pertini e del presidente del Consiglio Francesco Cossiga, seduti in prima fila; poi citò «i giudici, i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia e quanti oggi, nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano a combattere in prima fila per la democrazia, con coraggio e amore». Parole da tempo di guerra, accolte dal silenzio commosso e teso di autorità, amici e semplici cittadini. Poi aggiunse: «Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza togliere nulla alla giustizia, che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Subito scattò un applauso, forse più di stupore che di convinta adesione, ma forse anche liberatorio. Come se si fosse svelata una nuova, possibile forma di resistenza all’imbarbarimento in cui il terrorismo stava risucchiando l’Italia. Era il 14 febbraio 1980, Vittorio Bachelet era stato ucciso il 12, all’università di Roma La Sapienza, dove insegnava Diritto alla facoltà di Scienze politiche. La stessa di Aldo Moro. Quarant’anni dopo suo figlio Giovanni — all’epoca venticinquenne ricercatore negli Stati Uniti — insegna pure lui alla Sapienza, ordinario di Fisica, dopo essere stato deputato del Partito democratico dal 2008 al 2013. E ricorda bene la genesi di quella preghiera. Sorprendente al punto da conquistare le prime pagine dei giornali, ma non per una famiglia credente e militante della Chiesa conciliare come quella costruita da Vittorio Bachelet, che prima di essere eletto al Csm fu presidente dell’Azione Cattolica e consigliere comunale a Roma per la Dc guidata da Moro e Benigno Zaccagnini. «Con mamma, mia sorella, gli zii — racconta Giovanni — decidemmo di provare a dire quello che avrebbe detto mio padre di fronte a persone non troppo abituate ad ascoltare il messaggio del Vangelo, per lui così importante. Purtroppo di funerali di Stato ce n’erano tanti in quel periodo e una volta, con il suo tono un po’ burlone, riferendosi a un paio di politici notoriamente non cattolici mi disse: “Certo sono situazioni tragiche, ma chissà che tutte ’ste messe non gli facciano bene...”. Noi tentammo di fargli fare una buona figura, riaffermando i valori della democrazia e della Costituzione a cui papà aveva dedicato la vita». Non era facile in quegli anni di assalto alle istituzioni, morti e feriti in strada, leggi d’emergenza: «Ma era anche una questione di coerenza. Quando fu trovato il cadavere di Aldo Moro andammo con qualche amico davanti alla sede della Dc, dove alcuni provocatori invocavano a gran voce la pena di morte. Gli intimammo di smetterla o di allontanarsi perché la storia di Moro, padre costituente e professore di Diritto penale, non era compatibile con le loro grida. Proprio sotto l’attacco del terrorismo era necessario spegnere le strumentalizzazioni antidemocratiche, sebbene ci fosse la sensazione di trovarsi sul ciglio del burrone». Pure Vittorio Bachelet era preoccupato per il clima di guerra che si respirava in Italia: «Guardava con inquietudine alla militarizzazione della vita quotidiana, perché temeva che fornisse ulteriori argomenti a chi protestava contro “lo Stato imperialista delle multinazionali”. Tanto più che tutte quelle scorte si rivelavano insufficienti a proteggere le persone, come dimostrò la strage di via Fani. A Moro era molto legato, fu lui a proporgli di andare al Csm. Durante il sequestro non volle prendere una posizione pubblica a favore o contro la trattativa con le Br; pensava che il compito di chi era nelle istituzioni fosse di lavorare in silenzio per liberare l’ostaggio. La lacerazione tra lo Stato e la famiglia fu un’ulteriore sofferenza per lui, amico e compagno di studi di Carlo, magistrato e fratello di Aldo». È probabile che anche Bachelet, in quel contesto, temesse per la propria vita: «Una sera vedemmo insieme un servizio del telegiornale sul processo torinese ai capi storici delle Br, con l’intervista a un giurato popolare. Il giornalista gli chiese se avesse paura, e papà ironizzò sull’intelligenza della domanda, peraltro davanti a una telecamera. Ma il giurato rispose: “La paura ce l’ho, ma me la tengo”, e mio padre commentò ammirato: “Ecco un uomo vero, senza retorica”. Dopo la sua uccisione pensai che forse s’era identificato in quell’uomo». L’omicidio del vice presidente del Csm arrivò al culmine di una carneficina di toghe e uomini in divisa: «Ricordo che alla camera ardente allestita al Csm c’era il registro con l’elenco dei visitatori, mi avvicinai e su una riga lessi le lettere Br. Difficile non immaginare una forma di rivendicazione giunta fin lì, camuffata tra centinaia di nomi; riflettei sul clima di omertà che circondava il terrorismo e la violenza politica, paventato anche da Moro, che permetteva a queste persone di muoversi e infiltrarsi senza timore di essere riconosciute. Come accadde pure all’università. Dopo il funerale io tornai subito negli Stati Uniti, dove vivevo da qualche mese e sarei rimasto un altro anno, senza avere tempo di assistere alle reazioni all’omicidio di papà, né a ciò che avevo detto in chiesa. La nostra famiglia non si costituì parte civile nel processo ai brigatisti responsabili del delitto, perché ritenemmo che la questione giudiziaria fosse di esclusiva competenza dello Stato, colpito nella sua persona. Fu una decisione consequenziale alla nostra preghiera». Da parecchi anni gli assassini di Vittorio Bachelet, scontate le pene, sono tornati liberi: «Hanno fatto il percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione, e ritengo che mio padre come Aldo Moro, due persone che hanno dato la vita per la Repubblica e lo Stato di diritto, non possano che rallegrarsi di ciò. L’incontro con i terroristi non l’ho mai cercato; l’ha fatto mio zio Adolfo, fratello di papà, che era un gesuita. A me è capitato casualmente, anni dopo, di stringere la mano alla donna che sparò a mio padre, e non ricordo particolari sensazioni. Nella legislatura in cui sono stato deputato, assieme a Sabina Rossa e Olga D’Antona (figlia e moglie di altre due vittime delle Br, ndr) presentammo un disegno di legge per interrompere la prassi di pretendere dagli ex terroristi un contatto con i familiari delle persone colpite, a riprova del loro “sicuro ravvedimento”; proponemmo che ad accertare “il completamento del percorso rieducativo” fossero solo giudici e operatori penitenziari, senza mettere in mezzo i parenti delle vittime. Ma la proposta non venne nemmeno posta in discussione». Restano, quarant’anni dopo, i ricordi e gli insegnamenti di un genitore che sebbene molto impegnato nella vita pubblica non fece mai sentire la sua assenza in famiglia: «Papà è sempre stato molto presente, anche dall’America continuavamo a scriverci e telefonarci, sebbene non con la frequenza consentita oggi da Internet. E ogni volta che gli chiedevo “come stai?” rispondeva: “Bene, quando ti sento”. Della sua morte mi avvisarono due amici, chiamati da mia sorella e da un giornalista legato a papà: in America vivevo da solo, i miei non vollero dirmelo al telefono. Io stavo ancora dormendo perché lì era l’alba o poco più, mi svegliarono bussando forte alla porta. Il primo pensiero fu di trovare un aereo per tornare a casa. Poi venne tutto il resto».

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il ’68 nasce nel 1960.

IL SESSANTOTTO? INIZIA NELL'ESTATE DEL 1960. 1960, L'ITALIA RISCOPRE LA PIAZZA. Marco Revelli per “la Stampa” il 29 giugno 2020. È il 30 giugno 1960. Genova. Sono da poco passate le 18, quando in Piazza De Ferrari scoppiano i primi incidenti tra i reparti della Celere arrivati da Padova e gruppi di manifestanti. Si è appena concluso il grande corteo convocato dall'Anpi (l'Associazione nazionale partigiani) e dalla Camera del lavoro che aveva proclamato lo sciopero generale cittadino per protesta contro il Congresso nazionale del neofascista Movimento sociale, convocato il 2 luglio nel centralissimo Teatro Margherita. La sfilata, aperta dai comandanti partigiani della Liguria e dai gonfaloni della città medaglia d'oro della Resistenza, si era snodata ordinatamente per concludersi in Piazza della Vittoria col discorso del Segretario della Cgil. Ma la folla non si era dispersa. Folti gruppi si erano trattenuti nelle strade, spingendosi fin dentro la «zona rossa», delimitata da uno schieramento impressionante di polizia e carabinieri, e giungendo fino alla piazza considerata da tutti il cuore della città, dove i reparti della Celere in tenuta antiguerriglia avevano tentato di disperderli con due idranti e i caroselli delle camionette, ottenendo tuttavia l'effetto contrario. Gli scontri si erano allargati. I dimostranti erano cresciuti di numero: ex partigiani (erano allora sui 40 anni), camalli del porto di tradizione e vocazione antifascista, soprattutto giovani, la vera novità dell'evento, le cosiddette «magliette a strisce» (le canottiere alla James Dean diventate simbolo del ribellismo di una generazione). E avevano resistito sfruttando la prossimità della rete di vicoli (i famosi carrugi), usando i mezzi di lavoro come strumenti (i ganci dei portuali lanciati per arpionare le camionette), contando sull'appoggio della popolazione che dai balconi bersagliava gli agenti con lanci di oggetti e vasi di fiori. Ad alimentare quella reazione, da molti non prevista e soprattutto sottovalutata dal governo, era il senso di provocazione subita da una città simbolo della Resistenza, quella dove era avvenuta la prima resa incondizionata dei tedeschi e che aveva pagato un pesantissimo tributo di sangue. Alimentava la rabbia la notizia che tra i missini presenti ci sarebbe stato quel Carlo Emanuele Basile, soprannominato la «Jena di Genova» per aver diramato nel 1944, in qualità di prefetto, i bandi che portarono alla deportazione di 2 mila operai di Sestri e Cornegliano. E che il governo aveva nominato per l'occasione questore quel Giuseppe Lutri che durante la Repubblica sociale si era distinto a Torino nella lotta alla rete resistenziale. Un sentimento d'indignazione, dunque, cui aveva dato voce due giorni prima, in un comizio «non autorizzato» ma molto partecipato, Sandro Pertini in un appassionato discorso, in cui aveva detto: «La polizia sta cercando i sobillatori di queste manifestazioni, non abbiamo nessuna difficoltà ad indicarglieli. Sono i fucilati del Turchino, di Cravasco, della Benedicta, i torturati della casa dello studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori». Un discorso che gli varrà l'appellativo di «u bricchettu», il fiammifero, per aver dato in qualche modo fuoco alle polveri di quelli che saranno ricordati come i «fatti di Genova». Prodromo di quella crisi che costituisce per molti versi uno spartiacque nella storia dell'Italia repubblicana e che va sotto il nome di «Luglio Sessanta», vera e propria cerniera tra il centrismo ormai esaurito e il centro-sinistra non ancora nato. All'origine dell'esplosione genovese non c'erano solo ragioni «locali». Si colloca nel pieno di una tormentatissima congiuntura nazionale costituita da quell'anomalia profonda che fu la breve, brevissima parabola del «governo Tambroni»: il governo monocolore presieduto dall'on. Fernando Tambroni, nato all'inizio di aprile 1960 dalle convulsioni interne a una Dc incapace di scegliere con chiarezza e dilaniata da lotte intestine. Un governo con un premier che sintetizzava l'ambiguità fatta persona nel proprio curriculum zigzagante tra destra e sinistra, promosso dal presidente Gronchi con l'intenzione di «fare da ponte» verso un centro-sinistra non ancora maturo (un monocolore con appoggio esterno socialista) e trasformatosi in aula nel primo governo democristiano nato con l'appoggio determinante dei voti neofascisti. Nella stessa contorta vicenda della sua nascita (costretto a dimettersi dallo stesso Presidente della Repubblica dopo un primo voto alla Camera per essere ripescato poco dopo e mandato alla fiducia al Senato per mancanza di alternative), si esprime il carattere bloccato dell'Italia di allora, paralizzata nel confronto tra un blocco conservatore indisponibile a qualunque apertura (un pezzo di Chiesa pre-conciliare, una Confindustria dominata dagli armatori, un apparato dello Stato ancora innervato dai postumi del fascismo, un forte potere della rendita) e le sempre più estese esigenze modernizzatrici favorevoli a un cauto riformismo. Si spiega così la ragione per cui, anche dopo la cancellazione del Congresso missino a Genova, la tensione non si estinse, ma anzi si estese e crebbe drammaticamente, con una disseminazione di morti, in Sicilia e soprattutto a Reggio Emilia, dove sotto il fuoco della polizia caddero 5 giovani. Il governo Tambroni si dimetterà, finalmente, dopo che la democrazia Cristiana ne decreterà la fine, il 19 luglio. E quelle dimissioni apriranno la strada al centro-sinistra, prima con la transizione fanfaniana, poi col primo governo Moro nel 1962. Sarà una nuova stagione, nella quale l'antifascismo tornerà ad assumere un ruolo costituente che la congiuntura precedente aveva tentato di rimuovere. Ma la vicenda ci dice quanto la confusione politica tenda carsicamente a riaffiorare nella nostra storia. E quanto difficile, e contrastato, sia stato il percorso della modernizzazione in questo Paese.

Mirella Serri per “la Stampa” il 29 giugno 2020. «Mi trovai di fronte a persone che correvano Mi fermai senza capire più nulla, quando sulla strada passò un camion carico di carabinieri Mi giro e vedo un carabiniere che punta il moschetto su di me. Mi piegai in due. Sentii aumentare la confusione, portai la mano al petto e la ritirai piena di sangue». È in ospedale che lo scrittore Carlo Levi raccoglie la testimonianza del sedicenne Giuseppe Malleo, il quale, a Palermo, trapassato dalle pallottole della polizia nel luglio 1960, morirà dopo sei mesi. Sono scoppiati i moti di protesta che come fuochi incontrollabili incendiano l'Italia e si oppongono al sostegno dato dal Msi (il partito che si richiama al fascismo) al governo Dc guidato da Tambroni. Sangue: da Genova a Torino a Reggio Emilia e Catania, scorre il sangue di chi vuole ostacolare l'entrata nelle istituzioni degli eredi di Mussolini. Furono molti i giovani che il regime del Duce non lo avevano conosciuto e che avvertivano la necessità di ribadire, insieme con i portuali di Genova, gli operai di Reggio Emilia e i manovali di Palermo, il fatto che l'Italia era un repubblica nata dall'antifascismo. La rivolta contro il governo Tambroni era divampata nella città della Lanterna ed era stata originata dalla decisione del Msi di tenere il suo congresso nella città medaglia d'oro della Resistenza. A dare voce a quello che stava accadendo si trovarono in prima linea anche gli scrittori e gli artisti, come Carlo Levi che nei bellissimi articoli per il settimanale «Abc» denunciò la repressione poliziesca e la passò liscia solo per caso: a Roma, in via Nazionale, i militanti neofascisti fecero esplodere l'auto da cui lo scrittore era appena sceso. La spinta antifascista nata nelle piazze insanguinate ispirò scritti e canzoni che, dopo anni di dimenticanza, fecero rivivere il ricordo della guerra civile. Nel 1957 era nato a Torino il gruppo Cantacronache, fondato da Fausto Amodei, Michele Straniero, Margot, Emilio Jona, Sergio Liberovici, a cui collaborarono letterati e poeti del calibro di Italo Calvino e Franco Fortini. A far da apripista alla canzone politica fu l'ispirazione un po' folle di Amodei che voleva dare una spallata al silenzio assordante che dalla fine della Seconda guerra mondiale circondava la Resistenza. Per violare l'oblio nasceva Partigiano sconosciuto e Partigiani fratelli maggiori: «Se cerchiamo sui libri di storia, / se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d'aria / non troviamo la vostra memoria». Fondamentale al radicamento del ricordo antifascista con il suo impatto emotivo fu però il canto Per i morti di Reggio Emilia, composto da Amodei all'indomani degli incidenti di luglio, dove vennero uccisi cinque operai reggiani iscritti al Pci. Il motivo musicale evocava il ricordo dei fratelli Cervi e auspicava un congiungimento ideale tra le lotte dei partigiani e quelle degli scioperanti. I ragazzi ostili a Tambroni si ritrovavano nei fulminanti versi di Fortini per Patria mia o per la Canzone della marcia della pace, mentre Calvino, con Oltre il Ponte, segnalava l'urgenza di un messaggio partigiano per il futuro (nel 1963 pubblicava La giornata d'uno scrutatore). Carlo Cassola faceva uscire nel 1960 La ragazza di Bube, molto criticato anche se ispirato agli ideali della Resistenza. Ma anche Pier Paolo Pasolini, che denunciava la nascita di un «realismo minore», fu folgorato da quel terribile mese, accecato da «quella luce di Luglio / che assorbiva ogni lacrima, e negli occhi / lasciava soltanto posto alla speranza». Con i versi pasoliniani e le canzoni di Cantacronache iniziava quel lungo viaggio dei più giovani verso l'antifascismo che giungerà al culmine nel Sessantotto.

Storia dell’estate 1960, quando Pertini accese la miccia che fece cadere il governo Tambroni. David Romoli su Il Riformista il  26 Giugno 2020. I percorsi della Storia sono meno lineari e meno trasparenti di quanto non venga poi restituito ai posteri dal mito. Il governo monocolore democristiano guidato da Fernando Tambroni e rimasto in carica per meno di 4 mesi, dal 26 marzo al 19 luglio 1960, è passato alla storia come il solo serio tentativo di ritorno al potere dei fascisti abbattuti 15 anni prima. Quel governo fu spazzato via da un’ondata di popolo, da una rivolta di piazza che dilagò in tutto il Paese nella quale l’eredità antifascista di un passato ancora recente si intrecciava con le prime scintille della grande rivolta operaia, giovanile e studentesca che avrebbe incendiato il Paese alla fine del decennio. Eppure alle origini di quella esplosione che insanguinò l’Italia non c’erano trasformisti di estrema destra che avevano camuffato l’orbace sotto il biancofiore in attesa del momento giusto per rivelarsi. C’era un capo dello Stato, Giovanni Gronchi, il primo democristiano a insediarsi sul Colle, che aveva solide radici nella sinistra Dc e brigava casomai perché il Parlamento imboccasse la direzione opposta, quella di una maggioranza di centrosinistra con i socialisti. Lo stesso presidente del Consiglio il cui nome è ormai indissolubilmente vincolato a quello del Msi, il partito neofascista i cui voti erano stati determinanti per la nascita del disgraziato governo, era stato sino a quel momento uomo della sinistra Dc, vicinissimo al presidente Gronchi, favorevole a un’apertura non a destra ma a sinistra. Non che i due uomini politici possano essere messi sullo stesso piano. Gronchi era uno dei padri del partito nato dalle ceneri del partito popolare di don Sturzo. Dirigente di quel partito, “aventiniano” durante la crisi Matteotti aveva abbandonato la politica negli anni del regime. Ma il 29 settembre 1942 era in casa dell’industriale milanese Falck, per la riunione ristrettissima da cui prese le mosse la nuova Dc, presente anche De Gasperi. Nella Repubblica era stato ministro e presidente della Camera. Capo dello Stato insofferente dei limiti istituzionali e favorevole a una impossibile “equidistanza” tra i blocchi, Gronchi era entrato spesso in conflitto anche molto duro con i vertici del suo partito, soprattutto per le iniziative solitarie e di solito fallimentari in politica estera. Ma era anche stato uno dei grandi sostenitori della politica terzomondista del presidente dell’Eni Mattei e tra i principali artefici dell’apertura al Psi. Fernando Tambroni, avvocato con natali ad Ascoli Piceno, 59 anni al momento della sciagurata avventura a palazzo Chigi, era una figura ben più torbida. Nel ‘26 era stato fermato per antifascismo e aveva capito al volo l’antifona. Si era iscritto al Pnf, era diventato ufficiale della Milizia, salvo passare dall’altra parte della barricata, senza però mai aderire alla Resistenza, in un momento imprecisato fra il 1943 e il 1945. Nella Dc era considerato quasi un corpo estraneo e aveva in effetti molto dell’avventuriero politico ma sapeva muoversi , portava in dote parecchi voti e si era legato proprio a Gronchi. Al Viminale, dove guidò il ministero degli Interni dal 1954 al 1959, la gestione Tambroni lasciò un segno destinato a condizionare poi a lungo la vita politica italiana. E’ lui il padre fondatore del dossieraggio, l’uso di accumulare dossier segreti sugli esponenti politici e poi usarli per condizionarne le scelte politiche. «Io a quello gli leggo la vita» era la sua frase abituale e non si trattava solo di millanteria. Quando l’ex ministro degli Interni ed ex primo ministro Mario Scelba preparava una scissione della Dc per protesta contro l’ipotesi di accordo con il Psi, Tambroni lo convinse a desistere grazie alle foto che lo ritraevano con l’amante. Sul suo tavolo finirono persino le sue stesse foto, con Sylva Koscina, sua amante e attrice in quel momento celebre. Quelle però finirono nel subito nel cestino. Nonostante la disinvoltura nell’abuso del dossieraggio e nonostante il pugno duro più volte dimostrato al Viminale, Tambroni resta sino all’ultimo esponente della sinistra. Al congresso Dc del 1959 è lui a incaricarsi del discorso più esposto a favore del centrosinistra e di una maggioranza con il Psi. Gronchi decise di incaricare lui di formare una specie di governo ponte, dopo la crisi del secondo governo presieduto dal democristiano e futuro presidente della Repubblica Antonio Segni. L’obiettivo era in tutta evidenza quello di permettere all’accordo con il Psi di maturare, evitando un vuoto di potere che sarebbe stato esiziale in quel 1960. Non era un anno come tanti. In agosto si sarebbero tenute proprio in Italia le Olimpiadi, occasione eccezionale di lasciarsi definitivamente alle spalle ogni ombra del passato per un Paese che era stato fascista e sconfitto in una guerra ancora recente. I lavori per mettere soprattutto Roma in grado di ospitare la XVII edizione dei giochi olimpici non potevano proseguire in una situazione di crisi prolungata. Gronchi, inoltre, subiva l’influenza del capo dei servizi segreti, il Sifar, generale De Lorenzo, che lo aveva addirittura convinto di essere al centro di una inesistente congiura per rapirlo e, nonostante le posizioni di sinistra, tendeva sempre più a fidarsi di figure come lo stesso De Lorenzo o appunto Tambroni. Fu quindi proprio quest’ultimo a ricevere l’incarico per dar vita a una specie di governo provvisorio, che avrebbe dovuto occuparsi solo di gestire le Olimpiadi e varare la legge di bilancio prima di passare la mano nell’auspicio che nel frattempo le resistenze interne alla Dc al governo con i socialisti sarebbero state vinte. L’8 aprile 1960 Tambroni presentò alle Camere il suo governo monocolore. Il suo discorso fu molto diverso da quello che ci si aspettava. Nessun richiamo al carattere “a termine” del suo esecutivo. Scomparsi i richiami all’orizzonte di un’alleanza con i socialisti. Insistenza sui temi della difesa della legge e dell’ordine. E’ probabile che Tambroni, arrivato alla guida del governo grazie al sostegno e alla fiducia del presidente della Repubblica, avesse in mente un suo autonomo schema di gioco. Di certo fantasticava su una impossibile maggioranza che escludesse solo i comunisti. Ottenne la fiducia, a Montecitorio, con soli tre voti di scarto. Il voto dei deputati del Msi alla Camera fu determinante. Non era in realtà la prima volta. Nel giugno 1957 il governo presieduto dal Dc Adone Zoli aveva ottenuto, per un solo voto, la fiducia, grazie all’appoggio del Msi. Aveva pertanto rassegnato le dimissioni ma, nell’impossibilità di dar vita a un nuovo governo, era comunque rimasto in carica sino alla scadenza della legislatura, nel 1958. Anche Tambroni rifiutò la fiducia inquinata dal voto missino, costretto in realtà a quel passo dalle immediate dimissioni di tre esponenti della sinistra Dc che figuravano nella sua lista dei ministri: Bo, Pastore e Sullo. Gronchi accettò le dimissioni dei tre ministri ma congelò quelle di Tambroni, che dunque aveva comunque in tasca la fiducia della Camera mentre restava in sospeso quella del Senato. Gronchi chiese a Fanfani di verificare la possibilità di ricomporre una maggioranza di centro con i partiti che erano stati alleati della Dc nel corso del biennio ‘50. Tentativo fallito. Fanfani potè solo registrare l’impraticabilità di quella strada. Tambroni si presentò dunque di fronte al Senato ma stavolta rese esplicito il carattere transitorio del governo sul quale chiedeva ai senatori di votare la fiducia. Affermò anzi che quel governo si sarebbe occupato solo dell’ordinaria amministrazione e fissò il varo della legge di bilancio come termine. Incassò la fiducia anche a palazzo Madama, con 128 voti contro 110.Il primo governo sostenuto, sia pur dall’esterno, dal Msi, provocò subito un’ondata di indignazione. Sarebbe durato poco comunque. Serviva una scintilla e fu proprio il Msi a offrirla, con la decisione, assunta il 14 maggio, di convocare il suo sesto congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Era già successo. Anche il precedente congresso del Msi si era svolto in una città medaglia d’oro della Resistenza, Milano, dove anzi il Msi faceva parte della maggioranza nel consiglio comunale dal 1956. Non c’erano state proteste in quell’occasione ma il clima, in pochi anni, era profondamente cambiato e non solo perché ora i missini erano per la prima volta nella maggioranza. Nel paese era montata una tensione sociale che iniziò a manifestarsi anche prima dell’apertura dell’assise missine a Genova, alla fine di giugno. Tra il 18 e il 22 aprile a Pisa e poi Livorno c’erano stati quattro giorni di scontri violentissimi tra manifestanti di sinistra da una parte, parà di stanza nelle città toscane e polizia dall’altro. Il 21 maggio la polizia interruppe a Bologna un comizio del dirigente del Pci Giancarlo Pajetta, innescando una rapida ma molto violenta battaglia tra la folla che assisteva al comizio e la polizia. Alla viglia del congresso del Msi la carica esplosiva era già accumulata. Il 28 giugno Sandro Pertini accese la miccia.

Storia dell’estate 1960, da Nord a Sud la polizia sparava e uccideva. David Romoli su Il Riformista il 30 Giugno 2020. In dialetto genovese “u brichettu” significa “il fiammifero”. A Genova definivano così il discorso che Sandro Pertini tenne a Genova, il 28 giugno, nella prima grande manifestazione contro il Congresso del Msi sul punto di aprire i battenti al teatro Margherita, il 2 luglio. Il futuro presidente della Repubblica era noto per l’eloquio incendiario. Per l’occasione superò se stesso: «Perché dopo 15 anni dobbiamo sentirci di nuovo mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso? Ci sono stati degli errori, primo fra tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose… Io mi vanto di aver ordinato la fucilazione di Mussolini… Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di 24 voti i fascisti sono di nuovo al governo». Il dirigente del Psi non voleva in realtà una battaglia in piazza. Subito dopo il discorso incendiario chiese al segretario dell’Anpi Giorgio Gimelli di adoperarsi per calmare un po’ le acque. A versare benzina ci pensarono però i missini e Tambroni. I giornali annunciarono la presenza al congresso di Carlo Emanuele Basile, odiatissimo prefetto di Genova durante i mesi della Repubblica di Salò. Il segretario del Msi Arturo Michelini annunciò di aver convocato a Genova, da Roma, «un centinaio di attivisti di quelli abituati a menare le mani». Tambroni scelse la prova di forza. Sostituì il prefetto Ingrassia, che aveva chiesto il pensionamento, con Giuseppe Lutri, un duro tra i più attivi nella repressione antifascista a Torino, negli anni del regime. Lutri, a propria volta, replicò alla richiesta del Pci e dell’Anpi di limitare la presenza delle forze dell’ordine convocando il più tosto battaglione della Celere di allora, il “Padova”. Il comandante generale dei Carabinieri Lombardi arrivò a sorpresa in città proprio alla vigilia dello sciopero per una “ispezione generale”. La miscela esplosiva era pronta. Gli ex partigiani avevano già tirato fuori le armi. Primo Moroni, allora giovane militante arrivato da Milano per la manifestazione, ricordava: «Avevano piazzato un cannoncino 120 montato su un camion degli ortolani a controllare la strada. C’erano armi che non sono state usate, non si è sparato, sono state usate come deterrente». La Uil si era dichiarata contraria allo sciopero generale dichiarato della Cgil, la Cisl aveva lasciato libertà di scelta, la partecipazione alla manifestazione era straripante. Nonostante le premesse il corteo si svolse senza incidenti. I primi incidenti partirono a manifestazione conclusa, quando alcuni dei manifestanti iniziarono a insultare e tirare sassi contro la polizia presente in forze in piazza Ferraro. La polizia rispose con gli idranti, poi con le cariche del battaglione Padova. I genovesi erano pronti alla battaglia. Se la aspettavano. Erano preparati. I portuali tirarono fuori i rampini, contrattaccarono precipitando nella fontana al centro della piazza i celerini. Uno dei comandanti rischiò di essere affogato: fu salvato di misura dagli stessi organizzatori del corteo. Gli scontri proseguirono nei carrugi, i vicoli di Genova. A reggere l’urto erano soprattutto i giovanissimi, passati alla storia per le magliette estive a maniche corte e strisce orizzontali. Non erano, come qualcun sospettò allora, “una divisa”. Costavano poco, erano di moda. Ma divennero in quei giorni un segnale preciso: quello di una nuova generazione piena di rabbia, non più impaurita come la classe operaia sconfitta del decennio precedente. Di fronte alla violenza degli scontri l’Anpi inizia a temere il peggio, cioè il ricorso alle armi da fuoco da parte della polizia. Il segretario Gimelli telefona in questura e trova conferma delle sue paure: «Mi rispose un funzionario della squadra politica, piangendo terrorizzato: “Ci ammazzano tutti!”». I dirigenti dell’Anpi convincono i manifestanti a tornare a casa. La giornata si conclude senza vittime ma la sera stessa viene proclamato un nuovo sciopero generale per il 2 luglio e gli ex partigiani formano un “comitato permanente” a cui vengono attribuiti gli stessi poteri del Cln durante la Resistenza. Già dalla notte tra il 30 giugno e il primo luglio il governo fa affluire nuove truppe a Genova. Stavolta nessuno si illude che la manifestazione del 2 luglio possa essere pacifica. I proprietari del Teatro Margherita si spaventano, negano i locali al congresso missino, propongono di spostare le assise al cinema Ambra di Nervi. Michelini chiama Tambroni e quando il primo ministro gli si rivolge chiamandolo per nome e dandogli del tu sbotta: «Che Arturo e Arturo… Mi dia del lei e mi chiami onorevole!». Ma la situazione è senza via d’uscita: al Msi non resta altro che cancellare il congresso. Intanto però le manifestazioni dilagano, a partire dalla Sicilia, dove la protesta contro il governo si intreccia con una situazione di crisi sociale durissima. A Palermo, nel corso dello sciopero generale, volano i primi colpi di fucile, ancora sparati in aria. Qualche giorno dopo, il 5 luglio, a Licata, va peggio. Scorre sangue, si conta il primo morto: Vincenzo Napoli, 24 anni. Non è una tragedia casuale. Tambroni si è convinto di essere di fronte a una manovra del Pci che mira a farlo cadere e ha deciso di rispondere col pugno di ferro. A Licata la crisi sociale morde a fondo. Il porto è fermo, l’unica fabbrica delle Regione appena chiusa, l’emigrazione fluviale. Nella giornata di sciopero i manifestanti occupano la stazione e bloccano i binari. La polizia interviene subito ma gli scontri diventano violenti solo nel pomeriggio, dopo cariche particolarmente violente. La stazione viene distrutta, la polizia passa ai mitra. Uccide Napoli e ferisce altre 7 persone senza riportare l’ordine. La guerriglia dura tutta la notte, con il ponte di ferro che collega Licata alla strada statale smantellato dai manifestanti. Il giorno dopo, 6 luglio, è convocata a Roma una manifestazione antifascista a Porta San Paolo, prima autorizzata, poi all’improvviso proibita. Si tratta solo di deporre due corone di fiori al monumento ai martiri della Resistenza e a occuparsene dovrebbero una cinquantina di parlamentari, trai quali Ingrao e Boldrini. La proibizione di manifestare è inspiegabile se non con la volontà di creare nuovi incidenti. Nel Pci circola già dalla sera prima la voce che siano pronti a intervenire addirittura i reparti a cavallo, tanto che i ragazzi della Fgci mettono insieme un branco di gatti, che dovrebbero mandare nel panico gli equini. Ci rimediano solo una quantità di graffi. Nel pomeriggio del giorno dopo, evidentemente su disposizioni che partono da palazzo Chigi e dal ministro degli Interni Spataro, la polizia carica e picchia i parlamentari. Arrivano davvero i carabinieri a cavallo guidati dai leggendari fratelli Raimondo e Piero D’Inzeo, campioni internazionali di equitazione. Affermeranno infatti di affrontare la vicenda “con spirito sportivo” e un mese dopo, alle Olimpiadi di Roma, vinceranno sia l’oro (Raimondo) che l’argento (Piero). I cavalli calpestano la folla che segue i 50 parlamentari, inizialmente limitata ma che si ingrossa sempre più dopo le cariche. Di fronte alla Piramide, gli antifascisti alzano una barricata, le cariche di cavalleria proseguono, poi, sciolta la manifestazione, la polizia si abbandona a una vera e propria battuta di caccia per le strade del quartiere limitrofo di Testaccio. Il 7 luglio è il giorno della strage. In tutta l’Emilia le manifestazioni contro il governo e contro i fascisti proseguivano da giorni. A Reggio Emilia c’erano già stati scontri con la polizia. Allo sciopero convocato dalla Cgil non aderiscono gli altri due sindacati ma gli iscritti si affollano lo stesso di fronte alla sala Verdi, per il comizio del segretario della Camera del Lavoro Franco Iotti. La questura ha concesso solo l’uso della sala, capienza 600 posti, non delle vie adiacenti, dove arrivano 20mila persone. La CdL chiede di disporre altoparlanti per far sentire a tutti il comizio. Le forze di polizia rispondono con l’ordine di sciogliere l’assembramento e subito dopo lanciano una serie di cariche direttamente con le camionette lanciate contro la folla, con un fittissimo lancio di lacrimogeni e con gli idranti. I manifestanti fuggono, cercano riparo nelle strade, poi si riorganizzano, contrattaccano, costringono la polizia a indietreggiare. È a questo punto che la polizia apre il fuoco ad altezza d’uomo. Falcia Lauro Ferioli, 22 anni e Marino Serri, 40 anni. Afro Tondelli, 35 anni, viene colpito a freddo e morirà nella notte. Cadono Ovidio Franchi, 19 anni ed Emilio Reverberi, 23 anni. Il questore proverà a giustificarsi affermando che i primi colpi erano partiti dai manifestanti ma la bugia non regge neppure poche ore. La polizia si schiera con le armi spianate intorno agli ospedali e respinge la folla che arriva per chiedere informazioni sulla sorte dei moltissimi feriti o donare il sangue. Il giorno dopo le manifestazioni e gli scioperi in tutta Italia sono innumerevoli ma la tensione più alta è di nuovo in Sicilia. C’è l’antifascismo, certo, ma c’è soprattutto, l’esasperazione di chi è stato tagliato fuori dal boom. Lo scopre Pio La Torre quando, all’inizio degli scontri, prova a redarguire un uomo impegnato a sradicare una panchina per farne bastoni. La Torre lo apostrofa a muso duro: «Ma sei pazzo?». L’altro non s’intimidisce: «No, sono un morto di fame che ha dimenticato il sapore di un piatto di pasta. Tu, segretario dei miei stivali, hai mangiato a pranzo e mangi pure a cena». Per 8 ore i dimostranti affrontano la polizia, resistono alle cariche, occupano il centro della città, tentano l’assalto al Municipio. La polizia spara di nuovo. Uccide un ragazzo di 16 anni, Giuseppe Malleo, il sindacalista Francesco Vella, un altro giovanissimo, Antonio Gangitano, 21 anni. Rosa La Barbera non partecipa alle proteste. Muore mentre si avvicina alla finestra per chiuderla ed evitare che il fumo dei lacrimogeni invada la casa. Ma dalle finestre piovono sulla polizia oggetti di ogni genere e la risposta sono i colpi di fucile contro le abitazioni, uno dei quali uccide la casalinga. Scene quasi identiche a Catania. Lo sciopero, le cariche, le barricate, i colpi che uccidono un altro ragazzo, Salvatore Novembre. Viene lasciato sul selciato per oltre un’ora prima che arrivino, troppo tardi, i soccorsi. Il giorno dopo le manifestazioni sono più imponenti che mai. Il governo tenta di fare quadrato. Il presidente del Senato Merzagora propone una tregua di 15 giorni: interruzione delle manifestazioni e consegna delle truppe in caserma. Viene respinta con sdegno. «La fiducia nello Stato potrebbe essere scossa da proposte del genere», s’imbizzarrisce Tambroni. Il comunicato del Consiglio dei ministri è bellicoso. Ruggiti a vuoto. Nel giro di 10 giorni Tambroni verrà costretto dalla Dc alle dimissioni. Lascerà il posto ad Amintore Fanfani con il compito di preparare la strada all’accordo con il Psi e al centro-sinistra. Non sarà più eletto e morirà di infarto tre anni dopo.

Storia dell’estate 1960, quando tra sassate e manganelli nacque il centrosinistra. Claudio Petruccioli su Il Riformista il 2 Luglio 2020. Millenovecentosessanta. Il governo Fanfani II è stato affondato dai “franchi tiratori”, democristiani a lui ostili. Il 9 marzo Segni è incaricato di formare il nuovo governo; il 21 rinuncia. L’incarico (per un governo “a tempo”, fino alla fine dell’anno) viene trasferito a Tambroni che ottiene la fiducia alla Camera con 300 voti favorevoli e 297 contrari; determinanti i voti del Msi. Per questo, l’11 aprile Tambroni si dimette. Ci prova di nuovo a Fanfani; il 22 dello stesso mese, però, rinuncia a sua volta. Gronchi invita Tambroni a presentarsi al Senato per completare l’iter della fiducia; la ottiene anche lì, sempre con l’appoggio dei missini. Il 30 giugno durissimi scontri a Genova fra la polizia e decine di migliaia di manifestanti scesi in piazza per impedire lo svolgimento del congresso del Msi nella città medaglia d’oro della Resistenza. Il 2 luglio l’annuncio che il congresso del Msi non si terrà a Genova. Il 5 luglio c’è un morto a Licata. Il 6 luglio nuovi scontri a Porta San Paolo a Roma. Il giorno dopo a Reggio Emilia la polizia spara sui manifestanti: cinque morti e decine di feriti tra la popolazione. L’8 due morti a Palermo e uno a Catania. Il 19 luglio Tambroni si dimette ed è sostituito, il 26, da Fanfani. Questa la cronaca. Il luglio 1960 fu un passaggio cruciale nella ​storia della politica​ della prima repubblica. È in questa ottica che si devono valutare quegli avvenimenti; altrimenti si corre il rischio di indulgere a letture propagandistiche e agitatorie, fotocopie più o meno sbiadite delle polemiche di allora. C’è chi si chiede – ad esempio – se la protesta delle forze dell’antifascismo democratico contro il connubio con il Msi non sia stata un favore al Pci, quindi di per sé un errore; come se fosse possibile fare la storia dell’Italia repubblicana cancellando il Pci. D’altra parte, non basta certo esaltarsi nel ricordo di una lotta popolare, di un “risveglio giovanile” che pure ci furono. La “Nuova resistenza” di cui allora si parlò, è uno slogan efficace, funzionale a una precisa strategia politica: portare a termine la rivoluzione democratica e antifascista, iniziata – appunto – con la Resistenza del 43/45: intento comprensibile e – se vogliamo – apprezzabile; certo non criterio di interpretazione storica. La specificità del luglio ‘60 è il confronto fra la Dc da una parte e ​tutte​ le sinistre dall’altra. Nel corso della prima repubblica è stata, forse, la sola occasione in cui ciò sia avvenuto sul terreno concretamente politico, e non come ipotesi propagandistica. Nel corso di quel passaggio si è dimostrato che la sinistra, riducendo la conflittualità al suo interno, poteva riuscire a condizionare la Dc; e la Dc ha sperimentato che, se non avesse dato una efficace risposta politica e strategica, avrebbe rischiato di perdere il primato politico e perfino di mettere in pericolo la sua unità. L’esito di quel confronto è stato la archiviazione definitiva del centrismo. L’antifascismo ebbe certamente un peso, alimentò un vasto moto di protesta. Ma il fattore antifascista fu una “complicazione” scaturita dalla estenuante ritrosia della Dc a dare corso alle nuove relazioni politiche di cui lei stessa vedeva la utilità e la ineluttabilità. Quando comincia la terza legislatura dopo il voto del 25 maggio 1958, repubblicani e socialdemocratici, ciascuno per motivi e con obiettivi propri, non sono più disponibili per il centrismo: lo hanno detto e dimostrato. In particolare i secondi si rendono conto che è impossibile sbarrare la strada al Psi che, dopo il 1956, non può più essere presentato come un partito “a sovranità limitata” rispetto al Pci. I protagonisti diretti, e tutti gli attori sulla scena non si domandano più ​se​ giocare la partita della “apertura a sinistra”, ma ​come​ farlo; cercano di posizionarsi e di equipaggiarsi nel modo migliore. Se ne ha la prova nei congressi del Psi, della Dc e del Pci, che si susseguono a pochi mesi uno dall’altro. Il Psi, nel XXXIII congresso (Napoli gennaio 1959) non dovette far altro che confermare e sottolineare quanto aveva già elaborato e detto negli anni precedenti. Quel congresso produsse, però, una novità significativa: la nuova direzione del partito (14 persone) fu composta solo da esponenti “autonomisti”, che condividevano, cioè, le posizioni di Nenni beneficiarie del 58% dei voti congressuali. Il Psi dice, così, di esser pronto, non solo politicamente, ma anche “operativamente”. A settembre, nel Comitato centrale dichiara che garantirà l’appoggio esterno a un governo che chiuda sul fianco destro. Il messaggio è rivolto al Congresso Dc che si riunirà qualche settimana dopo. Il 24 ottobre a Firenze, Moro, per la prima volta in veste di segretario della Dc, apre il VII congresso. Coloro che hanno determinato la caduta del governo Fanfani – che, avrebbe dovuto avviare l’apertura al Psi – vengono da lui bollati come «autori del tradimento non ad un uomo, per quanto benemerito, ma alla Dc, all’elettorato, al Paese che ha bisogno di tutta la forza della Dc». Il riscontro, per il Psi è sì positivo, ma anche molto impegnativo; Moro chiede ai socialisti di pronunciarsi chiaramente sul carattere ​politico​ della alleanza. Nenni lo capisce e, nel Comitato centrale dell’8 febbraio 1960, chiude il ragionamento: per evitare soluzioni a destra – dice – il Psi deve impegnarsi con le forze laiche e con la Dc nella costruzione di una maggioranza autosufficiente. Il IX Congresso del Pci si riunisce a Roma ai primi di febbraio del 1960. Togliatti, nella relazione, prende le mosse da una approccio rigorosamente “programmatico”. Una nuova maggioranza, dice, richiede si passi «dalle indagini astratte di possibili o impossibili combinazioni parlamentari, concessioni, tolleranze e così via, al suo vero terreno, che è quello della ricerca di un ​indirizzo​ programmatico.» – I programmi del Psi non sono lontani da quelli del Pci; che, dunque, nel perseguire la loro attuazione, può esercitare il massimo di influenza e far pesare la sua forza. Ed è conveniente per Togliatti distogliere l’attenzione dalle motivazioni politiche del convergere fra Dc e Psi, imbarazzanti da affrontare in quanto connesse con i motivi che rendono impraticabile al Pci la via del governo. Ma il Pci non può evitare di pronunciarsi anche sulla specifica questione politica che domina la scena nazionale e che ha occupato i lavori dei congressi socialista e democristiano. La mozione conclusiva del congresso, dopo aver elencato sei punti programmatici definiti irrinunciabili, afferma senza alcuna ambiguità: «i comunisti dichiarano di essere disposti ad appoggiare un governo che dia alle forze popolari garanzia di realizzare questo programma; ​anche se ad esso partecipi il Psi e non il Pci​». All’inizio del 1960, è dunque questa la dislocazione dei pezzi sulla scacchiera; con un particolare molto rilevante: i quattro “pianeti” alla sinistra della Dc (Pri, Psdi, Psi e Pci), muovendosi ciascuno sulla propria orbita, si trovano in quel momento allineati nell’intento, variamente motivato ma comune, di obbligare la Dc alla “apertura a sinistra”. Continuando nella metafora “astronomica” si può dire che, in quella posizione, le “forze gravitazionali” dei singoli corpi si sommano; cresce, dunque, obiettivamente la pressione sulla Dc, e si riduce la sua libertà di manovra. Nella storia della politica nell’Italia repubblicana questo allineamento non si era mai verificato. Per la Dc si trattò di “costrizione” o no? Vediamo. Nell’auto di Moro in Via Fani fu ritrovato – come si sa – un articolo destinato alla pubblicazione su Il Giorno. È l’ultimo scritto di Moro libero: si occupa di una discussione fra Amendola e me a dieci anni dal ’68, il cui resoconto era uscito da pochi giorni su l’Unità di cui ero, allora, condirettore. L’intento principale di Moro, è – come lui stesso scrive – di «rettificare il rilievo critico di Amendola circa le scelte a destra che la Democrazia cristiana avrebbe fatto dando il via all’esperienza Tambroni, bloccata dall’indomabile ripresa delle forze democratiche del Paese». Siamo a quasi venti anni di distanza; l’attenzione di Moro dimostra quanta importanza egli attribuisse a quel passaggio e alla interpretazione che se ne dava. E, ben comprensibile, perché la sua leadership nella Dc si è delineata e consolidata nel corso di quella prova, sulla base di un preciso giudizio strategico. Egli affermò allora che i caratteri, la funzione, la stessa esistenza della Dc dipendevano, alla fine dei conti, dalla disponibilità e capacità di impegnarsi in un confronto realistico e in una collaborazione consapevole e controllata con la sinistra; e di farlo insieme, uniti; in modo che la Dc esercitasse la massima “padronanza” possibile sulla situazione. La leadership di Moro si è svolta per un ventennio lungo questi binari con assoluta coerenza, dalla incubazione del primo centro-sinistra alle conseguenze estreme della solidarietà nazionale. Moro riconosce che nel luglio ‘60 possono esserci stati «errori anche gravi», ma non «una linea strategica diversa da quella che si venne, mano a mano, chiarendo e realizzando». La “rettifica” di Moro ad Amendola è fondata; la Dc con Tambroni non aveva inteso cambiare la strategia, che restava quella enunciata dallo stesso Moro poche settimane prima a Firenze. Ma uno «sviluppo tattico non ben calcolato – sono ancora parole tratte da quell’articolo – fece danno e provocò gravi e comprensibili reazioni». Ma – viene da osservare – proprio perché la strategia non mutava, si deve fornire qualche spiegazione per quello “sviluppo tattico” in contrasto così stridente con il fine di quella strategia oltre che “obiettivamente pericoloso”. La prima che viene in mente è una errata valutazione, da parte della Dc, della situazione; e delle posizioni, degli orientamenti delle forze in campo. È probabile che ci sia stata una sopravalutazione della offensiva – peraltro assai rumorosa e aggressiva – della destra clericale, che in alcuni momenti sembrò esprimere la posizione della Chiesa in quanto tale; Pio XII era morto alla fine del 1958 e gli orientamenti del nuovo pontificato non erano ancora ben percepibili. Sicuramente hanno avuto un peso le preoccupazioni per l’unità della Dc, alimentate dalla vicenda Milazzo che, all’inizio del 1960 si stava concludendo, ma che per l’anno e mezzo in cui era stata viva, aveva seriamente allarmato i vertici democristiani. Soprattutto, però, risulta evidente, da parte democristiana, una sottovalutazione dell’”allineamento congiunturale” che si era verificato sulla sua sinistra, e che le tolse quelle occasioni di manovra di cui, in altre circostanze, anche recenti, aveva potuto usufruire. Ecco le cause politiche degli “errori anche gravi” che Moro riconosce. Guardando, dunque, alla strategia che si era data e che non fu modificata, non si può dire che la Dc sia stata “costretta” da altri a porre fine nel “più breve tempo possibile” all’azzardo, all’errore Tambroni. Ma è indiscutibile che, non ci fosse stata la reazione popolare e la pressione convergente di tutte le forze della sinistra, le cose sarebbero andate diversamente, se non altro sul piano “tattico”; con tempi e modi certamente diversi. Quanto alle considerazioni di Amendola c’è – a mio avviso – più di quello che ci legge Moro. Penso – anche per essere stato nell’occasione il suo interlocutore – che Amendola non fosse interessato a schiacciare la Dc su una posizione di destra, quanto a valorizzare l’allineamento di ​tutte​ le forze della sinistra che si determinò nel luglio ‘60; allineamento che pesò – e come! – nella vicenda Tambroni. Penso che il giudizio positivo di Amendola su quel momento, come la valutazione critica sul ’68, derivino da un orientamento e da un ragionamento del tutto politico. Amendola avrebbe voluto che l’allineamento (cosa diversa dall’ “unità”) che influì in quel passaggio non fosse un episodio passeggero, congiunturale, ma divenisse la forma permanente delle relazioni fra le forze della sinistra, socialiste e laiche. Quando, nel 1978, ne discusse con me, sapeva bene che quel suo auspicio, quella sua strategia politica non aveva trovato riscontro nei fatti.  Il 1960 restò una eccezione. Sarebbe stato possibile diversamente? Cosa impedì che diventasse permanente? Che fosse preservato anche dopo che l’apertura a sinistra” aveva dato luogo al centro-sinistra “organico”; e dopo che questo si era – rapidamente – esaurito? È un altro capitolo della ​storia della politica​ nell’Italia repubblicana; forse, ormai, è possibile scriverlo senza che le passioni e gli scontri di allora prevalgano sulla serenità e obiettività della ricostruzione e del giudizio storico. PS – ​Il luglio ’60 io l’ho vissuto. Avevo diciannove anni, ero al secondo anno di università e indossavo anche io, come tutti i giovani di allora le “magliette a strisce”. Scrivendo queste note mi sono detto, come lo scoprissi all’improvviso: ma il ’60 è anche l’anno delle Olimpiadi di Roma! È la stessa estate! Passa appena un mese fra la caduta di Tambroni e il 25 agosto, quando si accende la fiamma della XVII Olimpiade. E mi sono reso conto che fatti così prossimi sono separati non solo – sorprendentemente – nelle cronache e nelle polemiche del tempo, ma nella mia stessa memoria. Eppure, io ero la stessa persona: a Porta San Paolo in mezzo alle cariche e ai lacrimogeni e – dopo poche settimane – a guardare le Olimpiadi, davanti all’apparecchio televisivo appena arrivato in casa mia, come in milioni di altre case italiane. Fra i morti di Reggio Emilia e l’inizio dei giochi passano meno di cinquanta giorni. Nel ricordo, sono come due epoche lontanissime. Perché? Me lo sono spiegato con la enorme distanza emotiva fra due esperienze: opposte, incompatibili. Cupa, drammatica, paurosa, la scena dei caroselli, degli spari, dei morti; noi che avevamo vent’anni, eravamo sbigottiti, angosciati all’idea di essere risucchiati nel passato. Uno squillo di gioia, di fiducia, un tuffo felice verso un futuro nel quale ogni orizzonte era aperto, ogni speranza si poteva realizzare, la scena di quel pomeriggio del 3 settembre, quando Livio Berruti (un mio coetaneo, come lo erano Lauro Farioli e Ovidio Franchi uccisi a Reggio Emilia) concluse il suo volo di inimmaginabile leggerezza e naturalezza sul filo di lana dell’Olimpico. Quanto di più lontano!! Due Italie opposte; eppure, contemporanee. La prima, purtroppo, l’Italia della politica; l’altra, l’Italia dell’intelligenza, dell’applicazione, dell’ottimismo, pronta a conquistare il suo ventesimo secolo. Quanto più lenta, più insicura, più cattiva la prima! Di tentativi per raggiungere la seconda, per avvicinarsi alla leggerezza di Berruti, ne ha fatti; ma non c’è riuscita. È uno dei motivi, forse, per cui oggi anche l’Italia di Berruti non riesce più a correre, e non ha neppure voglia di farlo. (Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Ragioni del Socialismo, fondata e diretta da Emanuele Macaluso)

Storia del luglio 1960, quando l’antifascismo divenne nuovamente un valore. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 5 Luglio 2020. “Avevamo vent’anni”, come nella splendida canzone di Italo Calvino e Sergio Liberovici, scritta un anno prima. Ma in quel luglio del 1960, noi non potevamo recitare la parte del padre partigiano, come nella ballata, bensì quella dei suoi destinatari. Eravamo «i figli che non sanno la storia di ieri», ma già non eravamo più la «ragazza color dell’aurora». In quei giorni, avevamo perso l’innocenza, ma avevamo scoperto la classe operaia. L’innocenza ce l’aveva rubata quello Stato che mandava sulle piazze della rinascita dello spirito repubblicano la polizia a picchiare, colpire, sparare per reprimere la rivolta contro un intollerabile oltraggio, per reprimere la speranza. Proprio quella della canzone di Calvino: «E vorrei che i nostri pensieri, quelle nostre speranze di allora rivivessero in quel che tu speri, o ragazza color dell’aurora». Siamo stati la generazione delle magliette a strisce, una definizione che la dice lunga sulla natura della stessa, quando è avvenuta l’irruzione sulla scena politica e sociale di un nuovo protagonista, che non si definisce per una bandiera, per un simbolo, un’appartenenza, quando pure la bandiera, il simbolo e l’appartenenza avevano una grande forza. Questo nuovo protagonista si definisce per la sua presenza fisica nella piazza, lì conosce e lì si riconosce. A comporre lo straordinario mosaico di quel Sessanta, sono tante le tessere: c’è il ritorno influente dei capi della Resistenza partigiana, Resistenza che sembrava lontana, ma da cui ci dividevano solo 15 anni; c’è l’impegno unitario dei partiti della sinistra, forse mai così determinati, come si evince dal Manifesto che a Genova invita alla mobilizzazione popolare, firmato insieme da comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani e dall’impegno dei radicali. C’è il protagonismo nuovo delle organizzazioni giovanili dei partiti della sinistra e delle realtà studentesche e universitarie, ma c’è potente anche la mobilitazione della Cgil, a partire dalla Camera del lavoro di Genova. Tanti fiumi affluiscono nel gran mare del conflitto che investe le strade e le piazze delle città che si uniscono alla rivolta di Genova, sono le piazze di una nuova Italia. Una composita marea montante che la repressione più violenta non riesce a fermare e che va fino alla vittoria. Vi concorrono molte storie diverse. Le grandi organizzazioni del movimento operaio, in primo luogo, ma due tratti caratterizzano e influenzano ogni sua componente: sono l’irruzione nel movimento di una nuova generazione politica e la rinascita essenziale per il movimento dell’antifascismo. È lì che si apre, nella storia del dopoguerra italiano, una linea di faglia incontenibile. Gli anni Cinquanta vengono chiusi e, con essi, l’assetto conservatore reazionario del centrismo, che aveva governato la politica del Paese. Tutto si riapre. Era accaduto l’imprevisto, proprio quello che, quando si produce, cambia il corso delle cose. L’aveva provocato, senza minimamente prevederlo, la scelta provocatoria e irresponsabile del Msi, sostenuta dal governo Tambroni, di tenere il suo congresso a Genova. Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, è la città nella quale il 25 aprile 1945 il generale tedesco Meinhold firma la resa del suo esercito nelle mani dell’operaio Remo Scappini. La scelta dei fascisti era di certo provocatoria e irresponsabile, ma non il frutto di una distrazione, di un errore. I fascisti, arrivati a sostenere il governo democratico-cristiano, alzavano la posta in gioco, tentando lo scacco definitivo ad un antifascismo indebolito dalle politiche dei governi e delle forze moderate e anche da un certo oblio (ricordate quel «I figli che non sanno più la storia di ieri»? Ma anche quel «Di chi si è già scordato di Duccio Galimberti» proprio nella canzone Per i morti di Reggio Emilia). La democrazia cristiana, perno del sistema politico e di tutti i governi, era attraversata da grandi e ancora incontrollate contraddizioni, era incerta e oscillante. Tambroni, il suo nuovo presidente del Consiglio veniva dalla sinistra Dc, ma accoglieva in Parlamento il voto dei fascisti per far vivere il suo governo. L’annuncio della sua autorizzazione al Congresso del Movimento Sociale Italiano a Genova è immediatamente contestato. Lo fa per primo, già il 2 giugno, Umberto Terracini, colui che era stato il Presidente dell’Assemblea Costituente. Il 5 giugno, l’Unità pubblica una lettera aperta di un operaio genovese che chiama la città alla ribellione; il 6 giugno c’è l’appello unitario a Genova di tutta la sinistra contro la “grave provocazione”. Il 13 giugno, la Camera del lavoro chiama i lavoratori alla mobilitazione, il 15 giugno è la prima grande manifestazione di piazza e già cominciano i primi duri scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti. Lo Stato dei governi neocentristi e le sue forze di polizia e i carabinieri non tollerano le manifestazioni e i manifestanti, non tollerano la democrazia partecipata. Il loro ordine è quello della morte civile. I manifestanti, al contrario, si riappropriano di «quella nostra speranza di allora» e la fanno rivivere nell’Italia che sta entrando nella grande modernizzazione del neocapitalismo. Lo scontro è senza possibili mediazioni, è aspro, potente, drammatico. Il suo centro è la piazza, il suo protagonista principale è il movimento di lotta, il suo canone è la rivolta. Dentro, accanto al protagonista politico-storico, ce n’è uno nuovo, c’è una nuova generazione politica. Bisogna ricordare e studiare quelle giornate per poterne intendere la forza della rottura, la potenza della piazza, la forza dei discorsi dei leader storici della sinistra. Bastino qui alcune date: il 25 giugno a Genova scendono in campo i portuali, sono la personificazione fisica della forza della protesta; il 28 giugno, Sandro Pertini riporta alla memoria il suo comizio in piazza del Duomo, nella Milano liberata il 25 aprile del ’45, è un discorso durissimo, sarà, diranno i genovesi, “u’ brichettu”, il fiammifero dell’incendio, quello che fa compiere il salto di qualità alle manifestazioni. Alla polizia che chiede di rendere pubblici i nomi dei “sobillatori” della manifestazione, Pertini risponde facendo i nomi dei fucilati partigiani delle montagne genovesi, dei torturati nella Casa dello studente e denunciando la ferocia dei loro torturatori fascisti. Lo ascolta una folla imponente. Il 30 giugno è il giorno dello sciopero generale proclamato dalla Camera del lavoro, la partecipazione è generale, le piazze e le strade di Genova si riempiono di operai, di donne, di uomini e di cittadini, i giovani le invadono, gli scontri sono violenti, la polizia fa ricorso, oltre che ai lacrimogeni, alle armi da fuoco. I caroselli delle camionette della celere imperversano nelle piazze, nelle strade, nei carrugi, ma i manifestanti non si fanno cacciare, non arretrano. Alcune camionette vengono persino bruciate sulla piazza, la lotta è senza precedenti e contagia il Paese, da Torino a Milano, a Roma, a Livorno, a Ferrara. Il governo Tambroni è ormai sotto l’assedio democratico. Il Primo luglio si producono nuovi scontri in diverse parti del Paese, a partire a Torino; il 2 luglio dovrebbe essere il primo giorno del Congresso del Msi a Genova. La Camera del lavoro convoca lo sciopero generale, il Msi, sotto una pressione ormai irresistibile, annulla il Congresso. Lo sciopero è fermato e il 3 luglio, una gigantesca manifestazione saluta il risultato con il ritorno dei padri: Luigi Longo, Umberto Terracini, Pietro Secchia, Franco Antonicelli, Domenico Riccardo Peretti Griva prendono la parola. Sembra il passaggio di testimone e per i tanti giovani che li ascoltano, quelli delle magliette a strisce, è l’inizio di una storia tutta da farsi, potendo però camminare sulle spalle dei giganti. Come sempre, quando si fa realtà l’imprevisto, politica, cultura, società e lotta di classe si mescolano fino a formare un materiale generatore di nuova soggettività politica e di cambiamento radicale. La lotta e gli scontri si moltiplicano ancora: il 5 luglio a Licata, un morto e 24 feriti, intanto sedi di partiti e case di antifascisti vengono presi di mira dai fascisti imbestialiti; a Roma, una manifestazione è vietata, ma ugualmente organizzata dalle forze di sinistra e viene cariata potentemente dalla polizia a cavallo. La polizia continua ovunque nella sua violenta opera di repressione. Il suo culmine tragico è il 7 luglio, durante un’imponente manifestazione sindacale a Reggio Emilia, la polizia e i carabinieri sparano sulla folla, provocando 5 morti. Lo shock è enorme. Il presidente del Senato Merzagora chiede e ottiene la tregua, mentre nello stesso giorno, ancora a Palermo, si registrano due morti e centinai di feriti, e un morto ancora a Catania. Ma per il governo dell’infamia, dopo la sconfitta sul campo dei fascisti, è ormai finita. Il 19 luglio il governo Tambroni si dimette. Della strage di operai a Reggio Emilia non si perderà la memoria grazie alla canzone di Fausto Amodei Per i morti di Reggio Emilia, che la fisserà insieme all’impegno di quelle generazioni. Ma chi erano quei giovani, prima che le loro magliette a strisce diventassero il simbolo di una nuova generazione politica? Erano ragazze e ragazzi immersi nel loro tempo, da questi se ne distanziava solo una minoranza critica che dall’Ugi ai movimenti giovanili dei partiti della sinistra, ai cineforum, ai luoghi della cultura altra, si veniva formando in autonomia. La gran parte di essi, invece, solo per essere dentro il suo tempo, era apostrofata perlopiù come poco interessata all’impegno e alla politica, o addirittura, come per una parte della popolazione studentesca con gli scioperi per Trieste italiana, considerata distante dalla politica della sinistra del Movimento operaio. Si scoprì sulla piazza che le magliette a strisce erano la gran parte degli studenti medi e universitari e tanti, tantissimi giovani operai. Un grande intellettuale, un maestro disse di loro, e certo non benevolmente, che si erano venuti assomigliando, eppure quell’evento li calamitò. Un’onda si sollevò da quel moto di piazza e li trascinò all’azione e li cambiò nel fondo. Incontrarono in piazza fisicamente gli operai e furono colpiti della loro unione, dalla loro forza, dagli ideali che li muovevano e che apparvero così giusti da essere condivisi e partecipati. Conobbero nello scontro le istituzioni del Movimento operaio, il sindacato di classe, il Partito operaio e parve anche a loro che non se ne potesse fare a meno. Donne e uomini che guidavano lo scontro di piazza, che organizzavano la partecipazione alle manifestazioni sembravano loro i nuovi eroi popolari. Le loro parole d’ordine, le loro insegne, le loro bandiere, i loro canti erano subito diventati anche i propri. Quando da quella moltitudine emersero i nuovi “quadri”, essi formarono organizzazioni come “La nuova Resistenza” e si incamminarono per la via di una “militanza organica”, “militanti a tempo pieno”, come si diceva allora. Entrarono nel sindacato e nel partito per restarvi. Troppo ambizioso rifarsi al titolo di un libro famoso di Giorgio Amendola, Una scelta di vita. Ma certo, quella generazione, nata dal luglio del Sessanta, portò con sé, oltre a una maglietta a strisce, quello che il Che chiamò la politica come “una passione durevole” e, come sempre in Italia nei momenti acuti, l’antifascismo tornava a proporsi come il campo di ricerca privilegiato e di lavoro politico. Avevano visto materializzarsi gli esempi umani e politici a cui riferirsi. Erano tornati lì, davanti e insieme a loro, i monumenti viventi della Resistenza, Terracini e, per altro verso, Pertini. A me piace ricordare Franco Antonicelli, un intellettuale raffinato, che era stato persino precettore degli Agnelli, un protagonista di quei licei torinesi da cui, durante il dominio fascista, uscirono tra i più straordinari uomini del carcere, del fuoriuscitismo e della Resistenza. Un uomo, Franco Antonicelli, che con una leggerezza calviniana e con la sua eleganza ci invitava e guidava alle dure manifestazioni di piazza. E attorno a noi, prima e poco dopo il Sessanta, prendevano corpo i semi del cambiamento che si annunciavano anche su altri terreni. Nel 1961 a Torino nascevano i Quaderni rossi, forse la più importante rivista di teoria e di pratica politica che, a partire dalla scoperta della centralità operaia, ha puntato a cambiare il paradigma stesso della sinistra politica per operare l’attualizzazione della rivoluzione. Ma sempre nella Torino dell’avvento dell’operaio comune di serie e immigrato, già nel ’57, nascevano i “cantacronache”, con la riscoperta dei canti di protesta del popolo e con una nuova produzione di canzoni contro. Il rovescio di Sanremo. Anche nel teatro e nel cinema si avvertiva che il vento poteva cambiare, Milano in testa. Era proprio il triangolo industriale del boom economico, come il Sud dei braccianti, che cominciava a non stare più nella pelle di quel sistema. La radicalmente innovativa lotta degli elettromeccanici a Milano portava i metalmeccanici in sciopero a fare, nel dicembre del 1960, in piazza del Duomo, il primo Natale diverso per il mondo del lavoro. Poco tempo dopo, nel 1962, gli operai della Fiat, dopo uno sciopero ancora fallito, tornarono per la prima volta, dopo 9 lunghi anni, allo sciopero riuscito con una partecipazione di massa, una vera svolta. Dovunque in Italia, prendeva corpo un nuovo conflitto sociale e politico, i vecchi assetti si incrinavano irrimediabilmente. Meriterebbe una riflessione approfondita, un rapporto che a prima vista potrebbe apparire paradossale, ma non lo è, quello tra la rottura del luglio del 1960, così profonda e radicale, e la nascita del più importante tentativo di riformismo dall’alto sperimentato in Italia, col governo di centrosinistra costruito sull’alleanza tra socialisti e democristiani negli anni immediatamente successivi. Anche chi, come chi scrive, è stato contrario a che il Psi si mettesse in quell’operazione, sembra ora impossibile mettere in dubbio il rapporto tra i due avvenimenti. Un rapporto che, tuttavia, dovrebbe essere indagato anche alla luce dell’esperienza di quel governo di centro-sinistra, sia rispetto alle sue importanti realizzazioni, dalla riforma della scuola media alla nazionalizzazione dell’industria elettrica, sia rispetto alla sua involuzione moderata, fino al suo fallimento strategico rispetto all’obiettivo della trasformazione della società. Sarebbe uno dei suoi più lucidi protagonisti, Riccardo Lombardi, ad offrirci a questo scopo ancora un buon punto di avvio per la ricerca. Ricerca che, peraltro, non si esaurirebbe nel rapporto che c’è tra il luglio del 1960 e la messa in campo dell’ipotesi riformista, ma che si allunga fino a doverci chiedere di indagare il rapporto con un ancora più grande imprevisto, quello che diede luogo al biennio rosso ‘68-’69, che verrà un decennio più tardi.

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it l'8 luglio 2020. Per raggiungere la nostra tomba di famiglia, nel cimitero palermitano di “Sant’Orsola”, occorre passare davanti alla sepoltura di Francesco Vella, sindacalista degli edili, militante comunista, “martire” dell’8 luglio 1960. A Palermo il ricordo di quei giorni è d’obbligo, almeno presso il mondo della sinistra storica. La data della ricorrenza nazionale racconta soprattutto la rivolta di Reggio Emilia, 7 di luglio, i suoi morti, antologizzati in un canto espressamente politico di Fausto Amodei che, pur senza indulgere alla retorica, ne solleva nomi e volti in strofe che suggeriscono una sequenza di foto mortuarie su ceramica, Franchi, Tondelli, Serri, Reverberi e Farioli. Martiri di un abbozzo di rivoluzione italiana a un passo dall’apoteosi del boom economico. Così occorre leggere i moti del luglio 1960, a 15 anni dalla guerra di liberazione dal fascismo, una data dal valore simbolico segnata in rosso nel calendario “civile” militante delle ricorrenze che, sebbene funebri, vivono intatte nella memoria dei “compagni”, un luglio da annoverare accanto ai morti di Modena del 1950, della lotta per l’occupazione delle terre del latifondo e la riforma agraria contro la mafia. I “ragazzi delle magliette a strisce”, più che un dato allegorico-politico, indicano visivamente l’istante che precede la pienezza fotografica sotto l’insegna Kodachrome, indumenti comuni, giunti dalla rinfusa dei banchi dei mercati popolari, le stesse che indossano Accattone, Cartagine e Il Balilla, occorrerà aspettare i Beatles per avere i primi marchi. I resoconti giornalistici raccontano che i moti scaturirono dalla “provocazione” del Msi che aveva indetto il suo congresso a Genova, “città medaglia d’oro della Resistenza”. Un insulto per la memoria antifascista cittadina, le nicchie lungo via XX Settembre custodiscono i nomi, a migliaia, del martirologio della Resistenza in Liguria. Si sappia: nel ’60 anche i partigiani erano ancora ragazzi. Su tutto, il volto del democristiano Fernando Tambroni, l’uomo verrà ricordato per la sua Caduta; i voti del partito neofascista ne puntellavano il governo. Pietro Ingrao ha raccontato le cariche della polizia a Porta San Paolo, a Roma, fra questi Raimondo D’Inzeo, tenente colonnello dei carabinieri a cavallo: “… gli uomini della Celere, intanto che colpivano noi dimostranti urlavano: ‘Porci comunisti, andatevene in Russia!’”. Lo stesso Ingrao, dopo essere stato manganellato, si ritrovò su un cellulare nonostante avesse mostrato la tessera di parlamentare. Aggiunge: “Erano gli ultimi sussulti di un vecchio mondo, le cose stavano mutando, da lì a qualche anno, caduto Tambroni, sarebbe nato il centro-sinistra”. “Ciccio” Vella veniva da piazza Montegrappa, tra ospedale “Civico” e cimitero, quartiere popolare. La sezione comunista vedrà il suo nome su una insegna così bella da sembrare una decorazione da luminaria o da carretto per il Festino di Santa Rosalia. Ancora nel 1971, accanto alla foto di Vella ritoccata all’anilina, lì dimorava il ritratto di Stalin. Con Vella, a Palermo, trovarono la morte due ragazzi, Giuseppe Malleo e Andrea Gangitano. Vincenzo Vasile racconta che “Malleo un qualche mestiere l’aveva, faceva il fontaniere per poche lire al giorno. Mentre Gangitano è venditore di ‘sponse’ di gelsomino. Malleo, colpito a un femore e alla colonna vertebrale, si spegne dopo sei mesi di agonia. Carlo Levi lo visita e ne raccoglie la storia: ’Esce dal lavoro alle 15 a causa dello sciopero dei trasporti va a casa a piedi... Politeama, Massimo, assiste alle cariche. In via Celso persone che correvano davanti e dietro di me, mi fermai senza capire più nulla, quando passa un camion carico di carabinieri. Mi giro e vedo un carabiniere che punta il moschetto contro di me. Mi piegai in due. Portai la mano al petto e la ritirai piena di sangue, mia madre mi ha detto poi di avere trovato tre buchi di pallottole nella maglietta. Quando mi hanno sparato non portavo in mano niente né correvo né gridavo, ‘La triste speranza’, Abc, 26 gennaio 1961”. All’imbocco di via Celso con via Maqueda, oggi, una targa li ricorda. Pier Paolo Pasolini, nel 1975, poco prima di morire all’Idroscalo, consegna a Einaudi il testo de “La Divina Mimesis”, sua rilettura del capolavoro dantesco, il testo include un’appendice fotografica - “Iconografia ingiallita” - ragazzi maschi degli anni ’50 che ballano i lenti, la tomba di Gramsci a Testaccio, una fila di partigiani, il Ninfeo di Villa Giulia durante il Premio Strega, i bambini di un villaggio africano, il volto del “martire” antifranchista Julián Grimau. In copertina campeggia però un’immagine della rivolta di Reggio Emilia, c’è un uomo che solleva un masso, un gesto sospeso tra Spartaco e Sisifo, che così trascende ogni dato di cronaca, diventando un simbolo dell’assoluto. Il tempo ha mutato il paesaggio urbano di Reggio Emilia, chi dovesse oggi visitare il luogo dell’eccidio non riconoscerà più i gradoni delle foto del ’60, il monumento che ricorda i combattenti della Resistenza idealmente però include accanto i “ragazzi” di sessant’anni fa. Piazza Cavour, dove si verificarono gli scontri, è stata ribattezzata piazza Martiri 7 Luglio. Dieci anni fa il sito ha subito una radicale “riqualificazione urbanistica”. Nei punti dove sono caduti i ragazzi si trovano ora le targhe con il loro nome e la data. Cinque platani ricordano i manifestanti uccisi. A proposito di continuità con la Resistenza: Serri era stato partigiano della 76ª SAP così come Tondelli, Reverberi commissario politico nella 144ª Brigata Garibaldi. “Compagno cittadino, fratello partigiano, teniamoci per mano in questi giorni tristi, di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia son morti dei compagni per mano dei fascisti,” così diceva la canzone. Sessant’anni, un’era. Tra i fiori che porto ai miei cari, uno è sempre destinato anche a Vella.

Il biennio rosso: l’autunno che scoppiò all’improvviso e durò dodici anni. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 24 Novembre 2019. Non si può ripensare il ‘69 senza il ‘68. Sessantotto – sessantanove due anni un solo evento. È stato chiamato il secondo biennio rosso, con più di una ragione. Il primo era stato quel 1919-1920 che in Italia finisce a Torino con l’occupazione delle fabbriche il settembre del 1920, quando sembra di essere stati alle soglie dell’insurrezione. Più vicino, molto più vicino, esso aveva avuto il Maggio francese, quando, di nuovo, tutto era sembrato possibile; poi così ha preso quella forma che ne ha consentito la definizione di Maggio strisciante. Un autunno caldo che dura anni e anni e che scorre tra rovesci e rapide per quasi un decennio. Studenti e operai ne sono i protagonisti assoluti. Edgar Morin, nel suo recente libro, Maggio ’68. La breccia, vede nella contestazione studentesca una chiamata al protagonismo operaio. Egli scrive, infatti, che «l’occupazione della Sorbona effettuava e mimava un atto fondamentalmente operaio» e che «la rivolta studentesca era permeata di ideologia operaista». E ancora: «Questa sorprendente rioperaizzazione della classe operaia, compiuta dagli studenti, ha potuto infine avere effetto solo grazie alla sorprendente desacralizzazione rappresentata dalla presa della Sorbona e dallo stato di isola insorta, di piccola comune affrancata dal potere, che il Quartiere Latino mostrava». Così in Francia, così in Italia. Mettete Palazzo Campana o la Statale, o l’Università di Trento al posto della Sorbona e il risultato è il medesimo. La comune studentesca richiama nell’immaginario l’origine del movimento operaio, rianima i suoi miti fondativi. La centralità operaia è attesa e chiamata. Questo studente e questi operai sono figure sociali precisamente definibili, sono lo studente di massa e l’operaio comune di serie. Il primo è il frutto della stagione nella quale, per la prima volta nella storia del Paese, anche i figli dei lavoratori hanno avuto accesso all’università; i secondi rappresentano il mutamento della composizione di classe, con la affermazione del fordismo-taylorismo e della catena di montaggio. Il panorama sociale del Paese è cambiato. Le due figure sociali hanno una caratteristica in comune. Entrambe vengono considerate dalla cultura e dalla sociologia del tempo inadatte, inidonee al protagonismo. Quegli studenti appartengono alle prime generazioni della società dei consumi e viene considerato come segnato dalla moda del momento, dai suoi costumi, dai suoi stili di vita, dalla sua colonna sonora, in cui essa si esaurirebbe. Si pensa che lo sciopero nella scuola, se mai accadesse, sarebbe per “Trieste italiana” e la canzone canta di loro come di chi “si è già scordato di Duccio Galimberti”. Belli e integrati. E integrata viene considerata pure la classe operaia. Essa, secondo la tesi prevalente, sarebbe diventata figlia della società opulenta, avrebbe mutato il suo pensiero comune sotto la spinta della società dei consumi. L’ accesso al la rivoluzione dell’automobile, ai beni durevoli, ne avrebbe distrutto con l’autonomia, l’ideologia classista e la propensione al conflitto sociale. Il suo nuovo orizzonte sarebbe stato, sarebbe diventato, quello piccolo borghese; in altre parole, l’integrazione nel sistema. Ancora nel 1967, a pochi mesi dalla rottura del ‘68, questa era l’interpretazione corrente. Ma anche a sinistra la nuova composizione sociale costituiva un problema. L’operaio comune di serie, “l’operaio-massa”, non aveva più le caratteristiche che avevano fatto della precedente figura centrale, l’operaio specializzato, il perno del conflitto sociale e della organizzazione del movimento operaio, il sindacato e il partito, cioè un mestiere che lo rendeva insostituibile nella produzione e una cultura che lo portava a essere, naturaliter, dotato di autonomia e di coscienza di classe. Questi, invece, erano senza tradizione industriale, senza qualifica, senza istruzione ed erano stati sradicati dalle terre del Sud. Peraltro nelle nuove cattedrali fordiste, da Mirafiori a Billancourt a Detroit, le iscrizioni al sindacato erano le più basse e alla Fiat per un intero ciclo gli scioperi fallivano. C’era chi per tutto il fi nire degli anni 50 e i 60 aveva coraggiosamente resistito (vedere Gli anni duri alla Fiat di Emilio Pugno e Sergio Gravarini) e chi con la nascita dell’operaismo era andato controcorrente, chi, cioè, aveva seminato: una straordinaria ma piccola minoranza. La cifra proposta era l’integrazione e la pace sociale. Accadde invece l’imprevisto. Il biennio ‘68-’69 è, prima di tutto, l’imprevisto. Improvvisamente da una scintilla prende fuoco l’incendio. Gli invisibili, come sempre nei grandi avvenimenti che si costituiscono come eccezione, diventano, di colpo visibili e occupano la scena. Nel secondo biennio rosso ancora una volta, l’ultima del ‘900, si riappropriano della tradizione rivoluzionaria e riaprono la grande contesa, contro l’ordine costituito e le sue istituzioni. L’esplosione investe le scuole e le fabbriche in un contagio inarrestabile. Chi leggesse oggi anche soltanto il calendario delle lotte operaie e studentesche di un mese qualsiasi dell’autunno caldo ne sarebbe sbalordito. Una reazione a catena che inanella scioperi e occupazioni in ogni città del Paese. Le parole d’ordine, le immagini che vengono issate sui cartelli e sui manifesti sono quelle che parlano della fantasia, della rivoluzione e della sua grande barba. Ma l’onda è mondiale. In un mondo nel quale si produce allora la rottura di una generazione. I giovani diventano una forza politico-sociale. Sono loro a costituire i ponti, le liaisons, fra l’università e la fabbrica, tra gli studenti e gli operai; una relazione sormontata, dalle istanze di una rivoluzione culturale permanente. Sono mille le rivolte nelle scuole e nelle fabbriche e mille tra loro diverse le esperienze che fioriscono nel mondo e in Italia, dove il biennio avrà una durata unica, tanto da dar luogo al “caso italiano”. Sono diverse le rivolte di Berkley, di Parigi, di Berlino. Praga richiede un discorso da sola. Sono diverse le vicende studentesche di Milano, Torino, Pisa, Venezia, Roma, Napoli e altre ancora. Sono diverse le storie operaie di Torino, Milano, Venezia, Genova, Roma e del sud del Paese. Ma unico è il movimento che le attraversava tutte. Esso forma le sue nuove istituzioni, l’assemblea, il comitato, il delegato, dà vita a un contropotere. Dove trova un qualche riscontro cambia anche le organizzazioni storiche del movimento operaio. In Italia nasce il sindacato dei consigli e dei delegati. Il conflitto si struttura e conquista la lunga durata. La critica all’autoritarismo si congiunge alla critica di massa all’organizzazione capitalistica del lavoro. La richiesta di una diversa qualità del lavoro e dello studio, montata nella contestazione dell’esistente, si miscela in un processo di desacralizzazione dell’autorità. Crolla il piedistallo su cui si ergevano il barone universitario e il capo reparto. Un potere arbitrario messo a presidio di una presunta scientificità che pretendeva che quel sapere fosse indiscutibile e a presidio di un sistema di fabbrica nel quale la presunta scientificità dell ’organizzazione del lavoro pretendeva di rendere indiscutibile un regime di sfruttamento e di alienazione dei lavoratori. L’egualitarismo e la rivendicazione di autogoverno, diventata un patrimonio di massa e il lievito di una lotta radicale, hanno aperto una crisi profonda nell’intero edificio, una crisi per la quale è passata una straordinaria capacità di conquista che in Italia ha cambiato il Paese, con le condizioni di vita delle masse e la sua cultura. Il biennio ‘68-’69 guadagna alla cultura del cambiamento, per il periodo della sua affermazione, della sua ascesa, l’egemonia. Un grande studioso della civiltà e dei cambiamenti a lungo termine, Fernand Braudel, nel suo lavoro, Espansione europea e capitalismo, ha scritto: «Il ‘68 ha scosso l’edificio sociale, infrangendo abitudini, vincoli e anche forme di rassegnazione, il tessuto familiare e sociale ne è stato a sufficienza lacerato da determinare il crearsi di nuovi generi di vita a tutti i livelli della società. In questo senso si è trattato di una vera e propria rivoluzione culturale». Un polo rivendicativo convive nel movimento con un polo rivoluzionario, un movimento cementato dal dilagare di un antiautoritarismo che cova istanze libertarie ed egualitarie. Lo spirito del suo tempo è radicale. Lo riassume lo slogan degli studenti parigini. Cosa vogliamo? «Vogliamo tutto». E tutto sembra possibile. Il movimento ha due diramazioni principali: la coscienza dello sfruttamento del lavoro e l’aspettativa di liberazione della persona, il noi e l’io. La prima genera un conflitto sociale senza eguali. Le rivendicazioni salariali di riduzione dei ritmi e dei carichi di lavoro, di controllo del processo di lavoro e produttivo dilagano in tutte le fabbriche e nelle campagne e alimentano la pratica e la domanda di un potere operaio. Emerge forte e diffusa la rivendicazione di una diversa vita lavorativa, di una diversa qualità della vita. La contestazione della presunta scientificità dell’organizzazione capitalistica del lavoro sopporta l’affermazione di una più generale e potente critica alla neutralità della scienza e della tecnica. L’intero impianto dei rapporti sociali ne è scosso dalle fondamenta. Il noi diventa movimento. Sull’altro lato si affacciano prepotentemente le aspirazioni individuali, le aspettative di liberazione della persona che si espandono con la contestazione dell’autorità. Con la ribellione alla società dei padri, nella scuola come nella famiglia. Quando il femminismo darà un orizzonte teorico-pratico a una nuova domanda di liberazione, sarà ancora una rivoluzione culturale. Nel grande fiume di una ribellione di massa si mescolano, e si contrastano anche, ma intanto si potenziano le istanze di liberazione, in un movimento che realizza grandi conquiste, che cambia la società. Più in generale, due componenti culturali e politiche sono presenti da sempre nel movimento, a partire dallo stesso biennio ‘68-’69, la componente rivoluzionaria e quella modernizzatrice, la tendenza anticapitalistica e quella contro la società dei padri, la tendenza che vuole trasformare la società capitalistica e la tendenza che vuole abbattere il mondo antico. Nel tempo dell’ascesa le due tendenze si mescolano e fanno più forte il movimento che dura e che, in una sua interpretazione sociale, durerà anni e anni. In Italia non lo blocca né lo stragismo né l’affacciarsi della crisi economica e del suo uso capitalistico. Subito dopo l’immensa manifestazione per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, nell’autunno del ‘69, mai Roma ne aveva visto l’eguale, c’è la strage di piazza Fontana che avvia la strategia della tensione, l’attivazione del doppio stato, un uso sistematico della violenza contro il movimento e la democrazia. Dopo il rinnovo del contratto del gennaio 1970 e, subito dopo, l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori, in una sequenza che colpisce al cuore il vecchio sistema di relazioni sociali, c’è l’apertura della crisi economica del 1971. Si comincerà a sperimentare lì l’uso politico da parte del sistema della crisi per ripristinare il regime della compatibilità messo in discussione dal movimento. L’operazione di sistema, che sarà ripetuta e potenziata in ogni successiva crisi economica, questa volta non riesce. Il movimento riprende il suo cammino verso le grandi conquiste sociali che negli anni 70 cambieranno l’Italia come mai era accaduto.

Biennio rosso: sfiorammo il cielo con un dito, poi arrivò la sconfitta. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 27 Novembre 2019. Nell’articolo di sabato scorso ho parlato del biennio rosso ’68-’69. Il movimento riprende il suo cammino verso le grandi conquiste sociali che negli anni 70 cambieranno l’Italia come mai era accaduto. L’uso capitalistico della crisi, la rivincita del sistema l’avranno vinta solo nell’80, quasi dieci anni dopo. Edgar Morin sottotitola il libro La breccia. La breccia è, io credo, ciò che effettivamente fu aperto nell’intero sistema dal biennio rosso. Resta ancora da studiare la natura della breccia e, compito ancor più difficile, da capire come siamo potuti giungere fino all’esito attuale, cioè a una società del ‘68-’69 capovolta, a cominciare dal rovesciamento del conflitto di classe, dall’annichilimento della democrazia, della politica e della sinistra fino ad arrivare alla società descritta nel film Joker. Certo, allora, la breccia fu effettivamente e potentemente aperta. La aprì il movimento e per quella sono passate rivendicazioni e istanze che fino ad allora era inimmaginabile che potessero passare e neanche che fossero concepibili. Ma i muri alti e possenti erano più d’uno. Almeno due, impastati l’uno nell’altro. Il più ravvicinato era quello che si erigeva a difesa di quel mondo antico ante ‘68, il mondo della tradizione, fatto di un sistema di relazioni umane, di costumi consolidati, di abitudini, di culture tradotte in modi di essere così forti da essere considerati naturali.  A presidiarli c’erano le istituzioni di quella società civile, la famiglia, la Chiesa, lo Stato. Era la società dei padri che si faceva forte del paternalismo, del patriarcato, del potere gerarchico. Il maggio strisciante abbatte questo muro, penetra nelle sue casematte, nelle sue istituzioni, le corrode dall’interno e lo fa crollare, passando per la breccia prima aperta e poi allargata. Le leggi e i referendum popolari sul divorzio e sull’aborto sanciscono, sul terreno istituzionale, l’affermazione di quel processo. L’abbattimento dei muri dei manicomi indicherà fino dove era potuto arrivare. Ma c’è l’altro muro, quello che difende l’intero sistema, il sistema capitalistico. Il biennio rosso in Italia investe tutti gli anni 70. Gli anni 70 sono gli anni della grande riforma sociale, quella che don Milani avrebbe augurato ai ragazzi di Barbiana. L’Italia non aveva avuto i riformatori dall’alto, i Bismark e i Beveridge, per avere un processo riformatore ci sarebbe voluta l’apertura di una straordinaria contesa sociale, l’insorgenza dal basso e un lievito rivoluzionario. Li fornisce il ‘68-’69. Gli anni 70 sono il tempo non breve delle sue conquiste che avvicinano il paese reale alla sua Costituzione. Gli aumenti salariali sono la leva più potente di una redistribuzione della ricchezza che è una riforma capitale. Alla metà degli anni 70 gli operai della Fiat, che erano partiti da un livello infimo, raggiungono retribuzioni superiori a quelle della Volkswagen.  I rapporti di potere in fabbrica misurano tutta la crescita di quello operaio, nutrito dalle assemblee, dai delegati e dai consigli di fabbrica dove aveva soffiato anche il vento del mondo («Il nostro Vietnam è la catena di montaggio»). Con la riforma delle pensioni, la sanità pubblica, le leggi sulla casa e sulla scuola, è un vero e proprio Stato sociale a essere conquistato. La grande trasformazione è invece sempre annunciata e mai realizzata. La crisi, prodotta insieme dal livello delle conquiste sociali e dalla crisi sulle materie prime, porta il sistema prossimo ad un aut-aut: o passi per la breccia aperta o ti esponi alla rivincita del sistema, già reclamata con ogni mezzo dai suoi sacerdoti. Si ricordi per tutti il monito della Trilateral. L’accumulo di elementi della diversa società, di un diverso modello di sviluppo e il mantenimento del paradigma del modello esistente stavano ormai in un’aperta contraddizione, da qui l’aut-aut. Dei due muri attraversati dalla stessa breccia, l’uno, quello del mondo antico, è crollato, l’altro, quello capitolo, è stato fatto arretrare, gli si è imposto un compromesso dinamico, ma ha resistito e ha poi ingaggiato uno scontro a fondo per avviare la sua rivincita che lo ha condotto fino a dar vita a un nuovo capitalismo, il capitalismo finanziario globale. Il suo totalitarismo vorrebbe anche essere un potente anticorpo contro qualsiasi nuovo biennio rosso, anche se cova la rivolta. Liberatosi del suo avversario storico, il 900, e del suo ultimo grande avversario, il ‘68-’69, il capitalismo è tornato alla sua antica propensione totalitaria. Tanto da divorare anche la modernità realizzata. Senza rivoluzione, la libertà viene sequestrata dal mercato e diventa liberismo; senza rivoluzione la modernizzazione fa strame della modernità, cioè della libertà. E, dunque, cosa resta del biennio rosso? Ad avere memoria e scienza non poco, anche se investita da una damnatio memoriae. Resta l’esperienza di vita di chi vi ha partecipato e che nulla e nessuno potrà cancellare, resta la vita vissuta. E restano due conquiste conoscitive decisive per ogni domani. La prima è che tutti i grandi eventi sono fondati sull’imprevisto, imprevisto che, come è accaduto, può accadere ancora. La seconda è che la rivolta è sempre possibile, come è possibile che si affacci, in qualche luogo, un’idea condivisa che il mondo si possa cambiare.

I Moti di Reggio, una storia eversiva: il 1970 e la pietra tombale sul futuro della Calabria. Pubblicato: 04 Agosto 2020 da Alessia Candito su lacnews24.it. Al netto della propaganda che ha accompagnato l'anniversario, la Rivolta di Reggio è stata un laboratorio politico e strategico in cui 'Ndrangheta, pezzi di borghesia, di intelligence, di massoneria e di istituzioni si sono presi reciprocamente le misure e hanno iniziato a lavorare insieme. Un sistema di potere che ha condannato la Calabria, il Sud, il Paese. Braccia tese, “presente” di prammatica, con un “Boia di molla” a condire. Non ci ha messo poi molto il “Comitato per il 50° anniversario della rivolta di Reggio Calabria” a confessare la clamorosa mistificazione che ha accompagnato ognuna delle iniziative organizzate per ricordare i mesi di guerriglia che nel 1970, dopo l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro, hanno messo a soqquadro la città calabrese dello Stretto.

Rivolta di popolo ma a braccia tese. Una salva di saluti romani di fronte al busto del dirigente missino Ciccio Franco ha polverizzato la lettura dei Moti di Reggio come “rivolta di popolo”, nelle ultime settimane contrabbandata a mezzo convegni, raduni e omaggi floreali da una galassia composita di tutte le sfumature della destra, dai fascisti dichiarati di Casapound, Tradizione partecipazione e Nfp agli istituzionali Fdi e Udc. E alla fine neanche troppo osteggiata da un riformismo rosè, a cui magari - in vista di imminenti appuntamenti elettorali – non dispiace per nulla un po’ di maquillage per nascondere presunte differenze. In fondo, il trasformismo è sport assai praticato. 

Silenzi significativi sugli avvocati della ‘Ndrangheta. Ma ancor prima di braccia tese e petti in fuori, a rivelare la gigantesca bufala sui Moti è soprattutto il silenzio calato – quanto meno in pubblico - su alcuni dei poco presentabili protagonisti di quella stagione. A partire dagli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati per concorso esterno ma rimasti – scrivono i giudici – figure «baricentriche» nella politica reggina fino al loro arresto nelle varie fasi della maxi-inchiesta Gotha. De Stefano ha rimediato 20 anni in abbreviato come elemento di vertice della direzione strategica della ‘Ndrangheta, Romeo è imputato per il medesimo reato ed altri a corredo. Ma questo, suggeriscono ambienti investigativi, non gli ha impedito di continuare a dispensare consigli in camera caritatis.

E sui principi dell’eversione nera. Stesso silenzio sembra essere caduto su soggetti altrettanto ingombranti come il principe nero, Valerio Junio Borghese, ex comandante della XMas e autore di un tentativo golpe fascista che l’8 dicembre del 1970 doveva partire anche da Reggio Calabria, e i suoi pronconsoli Stefano Delle Chiaie e Pierluigi Concutelli, all’epoca entrambi frequentatori abituali tanto della città calabrese dello Stretto, come delle zone aspromontane. Non certo per turismo e non solo nei giorni dei Moti.

I Moti di Reggio inesauribile miniera dei clan. Tutti sono protagonisti di un’unica storia e nelle recenti celebrazioni tutti sono stati vittime di un comune oblio. Per nulla casuale. Perché far sparire dalla narrazione ufficiale i nomi di uomini di ‘Ndrangheta e piccoli e grandi kapò della galassia nera, che in quegli anni con i clan hanno iniziato ad andare a braccetto, significa poter occultare una verità troppo scomoda per farne mito fondativo: i Moti di Reggio sono stati il capitale – relazionale, politico, sociale e finanziario – della ‘Ndrangheta nuova e la pietra tombale sullo sviluppo di Reggio e della Calabria.

I veri vincitori. Dove si ferma la narrazione storica strabica però arrivano le sentenze, che possono contare sulle voci di chi ha visto e vissuto quella stagione. Carte che raccontano una storia molto diversa dalla “revanche” formato cortile contrabbandata dai nostalgici. Sono le inchieste – divenute cosa giudicata - a raccontare che quei mesi di caos sono stati l’occasione per il salto di qualità dei clan reggini. Che le bombe e le proteste si sono fermate quando la ‘Ndrangheta dei tre mandamenti è stata certa di essersi messa in tasca gli investimenti compensativi previsti dal pacchetto Colombo. Che il decreto Reggio è diventato un rubinetto inesauribile di denari per noti e – all’epoca meno noti – casati mafiosi, con il cordiale assenso di una borghesia che ha scientemente deciso di andare a braccetto con i clan. Che le centinaia di affamati, disoccupati trascinati per le strade e sulle barricate con il pretesto del capoluogo non sono stati altro che carne da cannone utile solo per intavolare le trattative che hanno portato in tasca a famiglie di ‘Ndrangheta e grande imprenditoria denari, appalti, relazioni e potere.

Lo scippo non del capoluogo, ma del futuro. Ma soprattutto che il vero “scippo” a Reggio Calabria lo hanno fatto quelli che invitavano ad alzare barricate per difenderla. Ufficialmente, la destra più o meno nera, la grande imprenditoria ed ex nobiltà reggina – i Mauro, i Matacena, i Musco, gli Zerbi – gomito a gomito con gli agitatori nei “Comitati d’azione per Reggio capoluogo”, ufficiosamente la ‘Ndrangheta che già si progettava diversa e sperimentava la sua nuova “Santa”, settori dei servizi e della massoneria. Gente che fame non ne aveva per nulla, ma invitava alla necessaria rivolta per il pane che a loro non è mai mancato. Quando è arrivato, alla “gente” che aizzavano non hanno lasciato neanche le briciole.

L’equa spartizione del pacchetto Colombo. Ancor prima delle testimonianze di chi c’è stato e ha visto, a raccontarlo è la cronologia dell’epilogo dei Moti. I fuochi della rivolta si spengono meno di venti giorni dopo l’approvazione del pacchetto Colombo, un fiume di danari distribuito equamente fra la ‘Ndrangheta dei tre mandamenti: il centro siderurgico a Gioia Tauro poi diventato porto che i Piromalli hanno sempre chiamato “Cosa mia”, la Liquichimica, nata obsoleta a Saline Joniche, ma che tanti affari ha procurato ai Iamonte e ai clan della Jonica insieme all’inutile porto insabbiato, 600 miliardi di lire del Decreto Reggio per la città dei De Stefano, che nel loro cortile di Lamezia Terme hanno strappato anche un aeroporto internazionale e gli impianti Sir. Nel frattempo, dalla Calabria si è continuato ad emigrare per fame di lavoro. E la ‘Ndrangheta e chi l’ha emancipata ad attore di sistema, ad ingrassare.

Parola di Serpa. Una manovra – e non una casualità storica - preparata anche prima che la rivolta scoppiasse. A raccontarlo sono i testimoni diretti (e partecipi) di quella stagione, come il pentito Stefano Serpa. Uno cresciuto all’ombra degli arcoti e che per loro ordine ha partecipato ai Moti. «Non mi sono mai tirato indietro – ha raccontato in udienza al processo ‘Ndrangheta stragista - In particolare ho partecipato all’incendio degli uffici postali sul ponte Calopinace, in piazza Italia, ero presente quando è stato fatto brillare qualcosa in un palazzo vicino al ponte Calopinace, c’era un ufficio della Regione, poi ai disordini su Corso Garibaldi».

Le due riunioni di Montalto. Ma Serpa ha assistito con i suoi occhi anche ad un appuntamento. Assai riservato e decisamente più importante. Forse quello in cui sono state gettate le basi per quella strategia che nei Moti ha avuto una delle sue prime sperimentazioni. L’appuntamento era in Aspromonte ed oggi è conosciuto come il summit di Montalto. Ma non si trattava di un’unica riunione. In realtà, nello stesso posto e nello stesso momento se ne sono svolte due. Alla prima- ha messo a verbale Serpa - partecipava il gotha della ‘Ndrangheta dell’epoca e nel corso della discussione «dal gruppo ad un certo punto si allontanarono 4 o 5 persone» per andare a prendere degli “ospiti”.

Il matrimonio necessario con la politica. L’argomento – racconta- lo aveva messo sul piatto don Paolino De Stefano. Sosteneva – riferisce il pentito - «la necessità di avere dei nuovi alleati. Non altre cosche ma un comparto diverso, in particolare rivolto alla politica, che avrebbe potuto portare all’interno delle cosche perché “sta genti ‘ndi porta un saccu i sordi”. Avrebbero portato all’interno delle cosche possibilità diverse, ma anche contatti per poter disporre di armi». E un clan dalle ampie ambizioni come quello dei De Stefano – spiega il testimone – «aveva bisogno di tante cose». Inclusi quei politici con cui da tempo era in contatto e aveva invitato al summit di Montalto.

Il gotha nero al tavolo con i clan. Non erano tutti, solo «una rappresentanza» spiega il pentito. Ma i loro nomi sono quelli che hanno scritto, anche con il sangue, la storia dell’eversione e del terrorismo nero in Italia. «Quando ebbe l’ok da Zappia, De Stefano fece allontanare quattro-cinque persone che andarono a prendere i politici». E Serpa i nomi li ricorda tutti. Perfettamente. Graditi ospiti del summit di Montalto sarebbero stati Pierluigi Concutelli, terrorista nero e capo dell’organizzazione eversiva Ordine Nuovo, autore materiale dell’omicidio del giudice Occorsio e di altri fatti di sangue, latitante per anni in Spagna dove si è unito ai gruppi di repressione franchisti; Stefano Delle Chiaie, militante della prima ora del Msi e di Ordine nuovo, fondatore dei Gar (Gruppi di Azione Rivoluzionaria) e di Avanguardia Nazionale, latitante per diciassette anni in vari Paesi dell’America Latina, dove si è messo al servizio di dittatori di ogni risma, il cui nome è stato accostato alle grandi stragi degli anni Settanta, senza però mai rimediare una condanna; Junio Valerio Borghese, fondatore dell’organizzazione di destra eversiva Fronte nazionale e comandante mai pentito della Rsi, ideatore, organizzatore e capo del fallito golpe dell’Immacolata; il marchese Fefè Zerbi, indicato come uno dei principali finanziatori del fallito colpo di Stato dell'8 dicembre '70, animatore dei Moti di Reggio e principale referente in città di Avanguardia nazionale; Sandro Saccucci, ex paracadutista e membro dell’ufficio informazioni del corpo dei paracadutisti, luogotenente del Principe nero nel fallito golpe.

«Li ha portati don Paolo». Tutti espressione dell’eversione nera, tutti o quasi negli anni messi in relazione con servizi di varia natura e tutti legati a doppio filo agli arcoti. «I De Stefano avevano rapporti strutturati con questi soggetti – racconta Serpa - è stato don Paolo a portarli al summit di Montalto. I De Stefano avevano entrature dappertutto. Allora, ieri e ritengo anche adesso. Le ho vissute personalmente». E già allora gli arcoti avevano capito che per fare il salto di qualità, emancipandosi da mera organizzazione criminale a centro di potere, la ‘Ndrangheta doveva cambiare pelle e interlocutori. Il momento storico poi era quello giusto.

Il baricentro strategico e la partita internazionale. Portaerei naturale sul Mediterraneo, finita nell’orbita atlantica dopo la seconda guerra mondiale, a dispetto dei miliardi di dollari del Piano Marshall, l’Italia vantava il partito comunista più grande e più forte dell’Europa occidentale. Quello che sull’onda delle mobilitazioni del biennio rosso aveva strappato conquiste impensabili come lo Statuto dei lavoratori, l’abolizione delle gabbie salariali, la scala mobile. Quello che aveva i numeri per ambire a governare da solo. Una prospettiva che faceva paura alla borghesia nazionale e non solo. Serviva un esercito di riserva. Strutturato, gerarchicamente ordinato, diffuso su tutto il territorio nazionale grazie ai mille rivoli dell’emigrazione.

L’esperimento Reggio Calabria e quella strage senza colpevoli. Per questo Reggio Calabria è servita come esperimento. E la teca in cui è avvenuto sono stati i Moti. Guarda caso, dove per la prima volta sono scoppiate le bombe sui treni, dieci anni prima della strage di Bologna, dietro cui - si scopre oggi - si sono mossi gli stessi attori. Ma quando il 22 luglio 1970 a Gioia Tauro la Freccia del Sud è uscita dai binari nessuno ha voluto sentir parlare di bombe. E neanche dopo. Eppure, nel corso dell’inchiesta Olimpia, il pentito Giacomo Ubaldo Lauro – uno dei primi collaboratori della storia della ‘Ndrangheta, ha detto con estrema chiarezza: «Ho dato io l’esplosivo per la bomba al treno, a Moti inoltrati. La bomba è stata messa da Silverini Vito e Vincenzo Caracciolo e vi dirò che ho preso all’epoca tre milioni... da Silverini. I soldi gli sono stati forniti da Amedeo Matacena» il padre dell’omonimo ex parlamentare di Forza Italia che per salvarsi da una condanna definitiva come referente politico dei clan, da sette anni è latitante a Dubai grazie al valido apporto di uno “Stato parallelo” su cui la Dda di Reggio Calabria ancora indaga. Ma la strage del 22 luglio, costata la vita a 6 persone e gravi ferite a 150, dancora oggi non ha colpevoli.

L’esplosivo dei clan a Piazza della Loggia grazie al generale amico della Cia. La ‘Ndrangheta poi già allora aveva uomini e mezzi. E negli anni successivi si sono rivelati assai utili anche per stragi lontane da casa, come quella di piazza della Loggia del maggio '74. Dove a fare morti e feriti è stato l’esplosivo dei clan. «Era tritolo – dice il pentito Giacomo Ubaldo Lauro - In tutti gli attentati è stato usato il tritolo, l’unico esplosivo che si può bruciare anche senza innesco» arrivato da quella Laura C affondata di fronte alle coste di Saline Joniche e che per anni è servita da personale arsenale della ‘Ndrangheta. «La colpa della strage di piazza Loggia doveva ricadere sulla sinistra anarchica. La strategia era quella», racconta il pentito, sottolineando che «Delfino sarebbe dovuto intervenire in caso di possibili disguidi». Lo stesso ufficiale dei carabinieri, da più parti indicato come vicinissimo alla Cia, che Carmine Dominici, uomo di ‘Ndrangheta e storico militante di Ordine Nuovo, descrive al giudice di Milano, Guido Salvini, come «uno dei nostri». E con un compito preciso «curava il trasporto di timer ed esplosivi verso il nostro ambiente avanguardista calabrese. Non so il nome, ma so per certo che un ufficiale dei carabinieri a cognome Delfino, appartenente a una Loggia massonica, era legato ad Avanguardia nazionale.» Lo stesso che i pm individuano come il capitano Palinuro che ha partecipato al golpe Borghese, per poi dichiarare prescritto il reato.

L’ombra di Gladio. L’ennesimo filo che porta a Reggio, alla stagione dei Moti oggi contrabbandata come rivolta, magari utile collante a fini elettorali, ma in realtà tragico epitaffio di pezzi di storia della Repubblica, del Sud, della Calabria. E c’è anche chi chi crede, a dispetto di chi ha visto e vissuto quella stagione, quell’esperimento. E lo ha anche raccontato – forse da troppi inascoltato – in tempi non sospetti, indicando con precisione chi ha messo insieme i veri protagonisti e i veri obiettivi di quella stagione. Come il pentito Filippo Barreca che, in più di un interrogatorio ha detto e confermato, «sapevo da varie fonti che l’avv. Romeo è massone ed apparteneva alla struttura Gladio. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti ma non so dire in che modo. Egli però ebbe a dire ad un mio parente che aveva a disposizione i servizi». E Barreca sa anche spiegare a cosa di debba questo rapporto, di cui negli anni, con tanti ha discusso. «So che errano interessati i due Servizi, che... sia il SISMI che il SISDE». Ed «espressamente» si parlava – aggiunge – anche di Gladio «era una struttura che serviva anche per tenere a bada nel caso in cui ci fosse una entrata al Governo di Comunisti».

E il legame con l’eversione nera. Cose non poi così diverse da quelle che racconta Giovanni Gullà, che ai magistrati di Genova spiega che all’epoca «c’era un avvicinamento dei De Stefano alla destra attraverso l’allora studente universitario Paolo Romeo, presidente della Giovane Italia (organizzazione giovanile movimento sociale) diventato in seguito avvocato e socialdemocratico nonchè deputato». Negli anni Settanta – spiega Gullà – «Romeo favorì l’abboccamento tra alcuni settori mafiosi tipo i De Stefano con ambienti di estrema destra. L’occasione venne presa al balzo dall’estrema destra per un ulteriore avvicinamento alla ‘ndrangheta, in quel momento venne fuori il Marchese Zerbi rappresentante di Junio Valerio Borghese a Reggio Calabria esponente del ”Fronte Nazionale” espressione politica di Avanguardia Nazionale; proprio in quale momento vennero fuori esponenti romani dell’estrema destra tipo Delle Chiaie Stefano e Di Luia Bruno».

Quando don Paolino divideva il covo con Delle Chiaie e Concutelli. Anche Delle Chiaie era persona conosciuta fra gli arcoti e a – guarda caso – negli anni della sua latitanza romana, don Paolino De Stefano finisce per dividere il covo con lui Concutelli. Lo ha ammesso lo stesso terrorista nero, autore materiale dell’omicidio del giudice Occorsio, lo stesso a cui i 5 anarchici della Baracca stavano per consegnare un dossier sui rapporti fra ‘Ndrangheta, servizi, massoni e neri prima di morire in un incidente a cui nessuno ha mai creduto. Chiamato a testimoniare il 13 maggio del 1999 al secondo processo Olimpia, Concutelli racconta che nel settembre 1975, il latitante Paolo De Stefano ha trovato riparo «in via Sartorio a Roma, quartiere Ardeatino, in una casa frequentata da estremisti». La stessa che ospitava lui e Delle Chiaie. Non dà dettagli, ma finisce per ammettere che un rapporto c’era e «altrettanto lui (De Stefano ndr) si fidava, per fidarsi (a stare lì ndr)».

La latitanza di Freda a casa degli arcoti. Legami che tornano identici a distanza di tre anni, nel ’78, quando a Reggio, a casa dei De Stefano, trova ospitalità il terrorista nero Franco Freda, fatto fuggire da Catanzaro dove era a processo da uomini dei servizi. A raccontarlo è il pentito Barreca, che per conto degli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo ne ha dovuto curare la latitanza reggina. Un soggiorno per nulla casuale. A Reggio Freda aveva il compito e la missione di costituire – o meglio formalizzare una superloggia – una gemella veniva costituita nello stesso periodo a Catania, da Michele Sindona. «Una struttura di fatto costituita da personaggi eccellenti con la salda intesa di una mutua assistenza esisteva già da prima, e Freda – racconta Barreca- si limitò a formalizzarla nel contesto di quel più ampio progetto nazionale che alla realtà reggina improvvisamente attribuì un ruolo di ben più ampio significato e spessore. Non bisogna dimenticare che già da tempo esisteva la “Santa”», la prima struttura riservata nella storia dei clan.

Tutti gli uomini della superloggia. E Barreca che quelle riunioni le ha origliate e con Freda ci ha parlato sa perfettamente chi fossero i selezionatissimi fratelli. A farne parte –ha messo a verbale – politici come e notabili come «Lodovico Ligato, il marchese Genoese Zerbi, Il senatore Vincelli, il ministro Misasi, l’onorevole Nicolò, l’onorevole Pietro Battaglia, Giovanni Palamara, il fratello Marco», imprenditori come «Mauro, Amedeo Matacena Senior, l’ingegnere Domenico Cozzupoli», professionisti come «l’ingegnere Tripodi di Lazzaro, il professore Panuccio ed il fratello Alberto, il notaio Marrapodi», uomini delle forze dell’ordine e ‘ndranghetisti di rango, dagli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, «che dopo la partenza di Freda vennero incaricati di gestire la loggia», più i massimi boss dell’epoca. Guarda caso, molti sono stati protagonisti – palesi e occulti - della stagione dei Moti come della scena politica – variamente legata alla ‘Ndrangheta – di quella stagione. L’ennesima casualità.

Programma di guerra. O forse no. Perché il programma di quella loggia sembra essersi realizzato alla lettera. «Posso affermare con convinzione che a seguito di questo progetto, in Calabria la ‘ndrangheta e la massoneria (coperta — ndr) divennero una “cosa sola”». E questa “cosa sola” aveva un programma preciso, di natura dichiaratamente eversiva, che puntava – fra le altre – a «ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche – compresi gli appalti – della Provincia di Reggio Calabria; il controllo delle istituzioni a cui capo venivano collocati persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l’aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura; l’eliminazione, anche fisica, di persone “scomode” e non soltanto in ambito locale. In sostanza si era creato un “gruppo di potere” che gestiva tutto l’andamento della vita pubblica ed economica in sintonia con altri gruppi costituitisi in altre città italiane».

A scuola di massoneria in Calabria. Punti che riecheggiano nel programma della P2 di Gelli, mentre quel “comitato” ha fatto scuola. Non a caso – ha raccontato il pentito di Cosa Nostra, Gioacchino Pennino, figlio e nipote di mafiosi di rango del quartiere Brancaccio, massone e politico per volere del clan - è in Calabria che lo zio, uomo di punta dei palermitani, si recava per “studiare”. «Mi disse, che aveva messo insieme massoni, ‘Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile». Un gruppo di potere che anche per ordine del superboss Stefano Bontade, Pennino jr ha continuato a frequentare. «Pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale». Si concretizzerà con il medesimo schema nella stagione del boom delle Leghe regionali e poi in quella immediatamente successiva, che ha trovato la quadra nel prodotto politico Forza Italia.

La crisi degli anni Novanta e la violenta manifestazione del comitato. Negli anni i pentiti – siciliani e calabresi - hanno fatto riferimento a questo “comitato” con nomi diversi. Per i magistrati che lo hanno braccato è un «sistema criminale». E tredici anni dopo, all’alba degli anni Novanta - quando lo stravolgimento degli equilibri nazionali e internazionali ha rischiato di far traballare le fondamenta strategiche su cui ha costruito il proprio potere – è riaffiorato con tutta la sua violenza. Sono gli anni degli attentati continentali, a cui – ha dimostrato il processo ‘Ndrangheta stragista, conclusosi con l’ergastolo per il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima di Melicucco, Rocco Filippone – la ‘Ndrangheta, nei suoi massimi vertici, ha partecipato con sangue e convinzione. I tre attentati contro i carabinieri che fra il dicembre ’93 e il febbraio ’94 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e gravi ferite ad altri quattro militari – ha affermato la Corte d’Assise – vanno pienamente inseriti nella strategia eversiva con cui ‘Ndrangheta, Mafia siciliana, pezzi di massoneria legati alla P2 e servizi dell’area Gladio hanno imposto le proprie condizioni.

Caccia ai mandanti che esterni non sono. Con il crollo del muro e i mutati obiettivi politico-strategici internazionali mentre in Italia implodeva la democrazia bloccata, quel sistema di potere ha rischiato di perdere interlocutori e capacità di contrattazione. Ma ha resistito, con le bombe e le trattative che quelle bombe hanno dettato. Così hanno stabilito i giudici, affermando che anche la ‘Ndrangheta ha partecipato alla stagione degli attentati continentali. Ma le indagini non sono finite, perché adesso già è aperta la caccia a quelle altre componenti del sistema nate fra le pieghe dell’intelligence, della massoneria, dell’imprenditoria, della politica, delle istituzioni «che nel contatto con l’alta mafia – ha detto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel corso della sua requisitoria - diventano mafiose». I cosiddetti “mandanti esterni” che in realtà sono in tutto e per tutto intranei al sistema criminale. E magari è proprio nella stagione dei Moti che affondano le radici. Tratto da: lacnews24.it

Luglio ’70: la rivolta plebea che il Pci consegnò all’Msi. Reggio Calabria, i giorni caldissimi del “Boia chi molla”. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 luglio 2020. «Dal 14 luglio 1970 al 31 dicembre 1971 sono state denunziate 851 persone: di esse, 723 sono incensurate e circa 400 persone sono minori degli anni 25 mentre oltre 100 sono minori degli anni 18. Nello stesso periodo sono stati instaurati 144 procedimenti penali a carico di 269 persone» ( rapporto prefettizio del 21 luglio 1972). In realtà, nel dicembre 1975 risultavano ancora procedimenti giudiziari contro 562 persone. Non ci fu mai nessuna amnistia.

Dal 5 luglio al 13 ottobre 1970 si verificarono 103 scontri di piazza, più di uno al giorno. Ci furono cinque morti – tre di cui erano civili: Bruno Labate, un ferroviere di 46 anni iscritto alla SFI- CGIL, rinvenuto esanime il 15 luglio 1970 in una strada del centro, dopo un assalto di manifestanti alle sedi del Pci e del Psi, contrari alla protesta, e cariche della polizia; Angelo Campanella, 43 anni, autista dell’Azienda Municipale Autobus di Reggio, per colpi d’arma da fuoco, negli scontri con la polizia il 17 settembre; un giovane barista, Carmine Jaconis, 25 anni, che passava da lì, l’anno dopo, durante l’anniversario per la morte di Campanella e nuovi scontri con la polizia: si sarebbe dovuto sposare venti giorni più tardi. Dei due militari morti, uno ebbe un attacco cardiaco e l’altro fu colpito da un sasso lanciato contro un treno che trasportava poliziotti alla stazione di Reggio Lido il 12 gennaio 1971. A questi si possono aggiungere i sei morti per il deragliamento del treno del Sole alla stazione di Gioia Tauro il 22 luglio 1970 – benché le indagini iniziali fossero indirizzate verso un errore umano, e una sentenza definitiva abbia condannato tre persone decedute, tutte e tre crocevia di uno strano connubio tra estremismo neofascista e ‘ ndrangheta e agli atti del ministero dell’Interno risultino tra il 20 luglio 1970 e il 21 ottobre 1972, ben 44 gravi episodi dinamitardi, di cui 24 a tralicci, rotaie e stazioni ferroviarie. E si può assommare Giuseppe Malacaria, 33 anni, muratore socialista, ucciso da una bomba a mano sotto la sede del Msi il 4 febbraio 1971 a Catanzaro durante una manifestazione antifascista contro un attentato la notte precedente alla sede del Consiglio regionale. E Giuseppe Santostefano, commerciante di 50 anni e simpatizzante missino, rimasto ucciso il 31 luglio 1973, a Reggio Calabria, ai margini di tafferugli dopo un comizio del Pci. Il 6 febbraio 1971 fu decretata la sospensione di tutte le manifestazioni e per quasi un anno, fino al 24 dicembre, circa seicentomila persone in tutta la provincia di Reggio restarono prive di diritti civili e politici. Ma tra fine gennaio e inizio febbraio in città ci furono venti giorni consecutivi di sciopero generale cittadino. Furono inviati migliaia di carabinieri e poliziotti, alloggiati nelle scuole cittadine che quindi dovettero sospendere ogni attività didattica, con i loro mezzi cingolati, e l’esercito stabilì distaccamenti lungo la linea ferroviaria che da Villa San Giovanni portava a Lamezia Terme. Eppure, spesso lungo quella tratta ci furono manifestazioni o sabotaggi che bloccarono il traffico ferroviario e lo stesso accadde l’ 11 ottobre 1970 per i traghetti che viaggiavano dalla e per la Sicilia, isolandola. Barricate anche durature furono erette un po’ ovunque a Reggio e a Sbarre, uno dei suoi quartieri, per mesi sventolò la bandiera azzurra della neo- proclamata repubblica. E per mesi lanciò i suoi proclami e infiammò la mobilitazione, Radio Reggio Libera. Durante le “cinque giornate” di Reggio, dal 18 al 22 luglio 1970, venne assaltata e data alle fiamme la Questura e, in quel caso, il questore Santillo, che era giunto a Reggio nel 1967 e veniva dalla Squadra Mobile di Roma, dichiarò: «Possono bruciarci vivi ma noi non rispondiamo. Evacueremo l’edificio se necessario, ma non spareremo un colpo». Eppure, proprio alla brutalità della polizia in piazza si deve – secondo tanti – l’escalation della rivolta. Che di questo stiamo parlando, della rivolta di Reggio Calabria e di un bel e documentato libro di Luigi Ambrosi ( La rivolta di Reggio. Storia di territori, violenza e populismo nel 1970 – Rubbettino) che tutti questi dati e fatti contiene. E sono passati oggi cinquant’anni, ma tutto quello gnommero politico e sociale che la rivolta rappresentò sta ancora là. A interrogarci. Perché se per un verso la rivolta fu il precipitato di un disastroso “meridionalismo” clientelare che affondava nei decenni precedenti e delle politiche di centro- sinistra tra il 1962 e il 1968 e quindi del brutale disvelamento di un bisogno di cambiamento che veniva disatteso, per un altro vi si possono leggere ancora fenomeni politici e sociali che riguardano l’attualità: retorica populista, anti- politica, identità territoriale. Di certo furono a migliaia i cittadini, i giovani e giovanissimi, le tante donne, gli artigiani, i commercianti, i professionisti, i lavoratori, che vi parteciparono. Ambrosi lavora molto a dissipare i “luoghi comuni” sulla rivolta. Prima di tutto quello sul suo “campanilismo” – dato che fu innescata dalla decisione di eleggere Catanzaro capoluogo, nel varo dell’ordinamento delle Regioni a statuto ordinario – come se battersi per l’interesse territoriale, che poi poteva significare posti di lavoro, sviluppo, attività commerciale e imprenditoriale, fosse una sciocchezza plebea e non una forte motivazione e di carattere identitario, “sentimentale”, e di carattere lavorativo, economico. Poi, quella sul suo “segno fascista”: all’inizio, la protesta non aveva una forte connotazione di destra e anche la partecipazione fu trasversale – con giovani radicali di una parte e dell’altra ( Lotta continua, i marxisti- leninisti, gli anarchici) impegnati a “farsi interpreti” di una prospettiva più ampia, ma la sinistra istituzionale, dal Psi al Pci ai sindacati, fu decisamente ostile, invocando legge e ordine e posti di lavoro, anche a costo di una frattura con i suoi militanti: ne fa fede il comizio di Ingrao l’ 8 agosto, contestato dai suoi stessi compagni; per il Pci, si trattava di un “riflesso condizionato” come era stato di fronte ai moti d’Ungheria del ’ 56 e come sarà per i moti del Settantasette. La destra istituzionale, con il Msi, e quella eversiva, con Avanguardia nazionale e altri, invece, attraverso il Comitato d’agitazione, si pose alla testa della rivolta e ne disegnò un carattere irriducibile: il Boia chi molla! L’arco temporale va dal 14 luglio, primo sciopero cittadino convocato dal sindaco democristiano e da tutto il notabilato locale fino al 16 ottobre, quando, risolta la crisi di governo, il nuovo presidente del Consiglio Colombo tracciò le possibili linee di un “pacchetto per la Calabria”: a Cosenza sarebbe andata l’università, a Catanzaro il capoluogo e la Giunta regionale, a Reggio la sede del Consiglio e investimenti per il V Centro siderurgico ( che poi si sarebbe declinato nel porto di Gioia Tauro). Il carattere di massa della protesta iniziò a scemare, ma il rancore rimase e continuò a agire. È qui soprattutto che accade la “fascistizzazione” della rivolta, di cui godette la destra con le elezioni politiche del maggio 1972, con Ciccio Franco che entrò trionfale al Senato e il Msi che prese il 32 percento dei voti.

Poi, a ottobre del 1972, la grande manifestazione nazionale dei sindacati – Nord, Sud, uniti nella lotta – per un lato vissuta come “invasione”, per un altro come “recupero” di Reggio nell’alveo democratico. Insomma, lo Stato democratico rispose solo con la repressione in un avvitamento con la violenza di piazza – ridiscutere le politiche per il Meridione era compito troppo arduo. Cinquant’anni dopo la rivolta, la Calabria è sempre lì, abbandonata a se stessa: rimuovere la memoria della rivolta o limitarsi a stigmatizzarla è la cosa più semplice da fare.

Luglio 1970: cinquant'anni fa la rivolta di Reggio Calabria (storia e foto). Edoardo Frittoli il 10/7/2020 su Panorama. I nodi dell'antica divisione amministrativa della Calabria vennero al pettine cinquant'anni fa, nel luglio del 1970, in occasione della legge sull'istituzione delle Regioni dando il via alla più lunga rivolta locale dai tempi della seconda guerra mondiale. Le proteste e le violenze durarono per ben otto mesi e costarono sei morti e numerosi feriti. La storia amministrativa della regione era infatti molto particolare, essendo caratterizzata da una secolare bipartizione, tanto che nei documenti antichi la zona era indicata come "Le Calabrie", divise in due realtà amministrative indipendenti al Nord (Calabria Citeriore o Latina) con capoluogo Cosenza e al Sud (Calabria Ulteriore o Greca) con capoluogo Reggio e Catanzaro, che si avvicendarono alla guida della provincia sotto il Regno di Napoli e delle Due Sicilie.

Le "Calabrie" e la storica divisione amministrativa. L'Unità d'Italia non aveva sostanzialmente cambiato la situazione a livello locale, mantenendo una divisione amministrativa addirittura tripartita tra le città di Reggio, Catanzaro e Cosenza. La questione rimarrà sospesa anche nel secondo dopoguerra a causa del ventennale ritardo nell'applicazione dell'articolo 22 della Costituzione che prevedeva l'istituzione delle Regioni a causa di forti attriti politici. La legge n. 281 fu varata soltanto il 16 maggio del 1970. Le tensioni tra le città della Calabria erano tuttavia cominciate tempo addietro a causa dell'importanza dell'assegnazione dello status di capoluogo regionale, che avrebbe significato garanzia di sviluppo e di occupazione in una regione devastata dall'arretratezza del tessuto economico, dal crimine organizzato, dalla lunga piaga dell'emigrazione e dalle mancate riforme in campo agrario. La città di Reggio, che era stata la prediletta durante il ventennio ed aveva conosciuto in quegli anni un notevole sviluppo urbano (nel 1970 contava 180mila abitanti) oltre ad essere la più antica della regione, si vide scavalcata da Catanzaro a causa di un accordo interno tra i rappresentanti della Democrazia Cristiana e del Governo durante un incontro informale. A Catanzaro sarebbe stato assegnato lo status di capoluogo, a Cosenza la sede dell'Università mentre a Reggio sarebbe rimasta la promessa di un futuro sviluppo industriale tutt'altro che definito. La beffa per Reggio fu ulteriormente aggravata dal fatto che la Dc aveva assicurato ai cittadini il proprio appoggio alla candidatura, smentito dal voltafaccia dell'ultima ora.

La destra cavalca la battaglia per Reggio capoluogo. Bastarono pochi giorni all'inizio del luglio 1970 per fare esplodere la protesta, soprattutto in seguito alla notizia che il 13 dello stesso mese si sarebbe svolta a Catanzaro la prima seduta del Consiglio regionale della Calabria, mentre il Governo italiano viveva una crisi che porterà proprio in quei giorni alla caduta dell'esecutivo guidato da Mariano Rumor. Le prime avvisaglie di quanto sarebbe accaduto nelle ore successive si videro a poca distanza da Reggio il 12 di luglio, quando Amintore Fanfani fu duramente contestato in una terra che fu feudo della Dc, mentre presenziava all'assegnazione di un premio a Villa San Giovanni. In città il primo corteo è chiamato dal sindaco democristiano Piero Battaglia in occasione del comizio da lui organizzato per informare i cittadini riguardo alla gravità della decisione governativa e rivendicare le istanze di Reggio invitando i rappresentanti della politica cittadina a non partecipare alla prima seduta del Consiglio a Catanzaro. La manifestazione si concluderà senza particolari tensioni, ma già sulla città si addensavano le nubi di una tempesta sempre più vicina. Era il 5 luglio 1970. Le nubi della rivolta si scaricarono su Reggio appena qualche giorno più tardi, in un clima politico nazionale già fortemente segnato dagli effetti della strategia della tensione e da mesi di proteste e scioperi nelle fabbriche di tutto il paese creando una miscela esplosiva. Fino ai primi giorni del mese, infatti, le rivendicazioni di Reggio furono condivise in modo trasversale tra i partiti rappresentati in città e raccolte soprattutto dalla voce del primo cittadino. Il cambio di marcia avvenne in seguito alla costituzione del "Comitato d'Azione per Reggio Capoluogo", un comitato civico di aggregazione della protesta che ebbe origine nei popolare quartiere di Sbarre e capitanato dal segretario del sindacato ferrovieri della Cisnal Francesco Franco detto "Ciccio" e da un altro caporione già consigliere del Movimento Sociale Italiano della città, Fortunato Aloi.

Le molotov, le vittime, la strage di Gioia Tauro. Nei giorni a cavallo della prima seduta del Consiglio a Catanzaro il Comitato di Agitazione girò la città reclutando i manifestanti al suono dei megafoni montati sulle loro utilitarie, mentre il Pci e gli altri rappresentanti della sinistra si ritiravano dalla gestione della lotta per la Reggio "tradita" rifiutandosi in ultima istanza di partecipare ad una lotta di "campanile" lasciando così la folla inferocita nelle mani del neonato Comitato. Il 14 luglio 1970 viene occupata la stazione ferroviaria di Reggio Calabria Centrale e per tutta la giornata i manifestanti si producono in scontri durissimi con la Polizia, senza risparmiare le sedi dei partiti di sinistra e dei sindacati. Neppure la notte placa gli animi e per le vie di Reggio prosegue la guerriglia urbana, con la Prefettura attaccata a colpi di molotov e con le barricate costruite con carcasse di auto date alle fiamme e materiali rubati dai cantieri. La lotta spontanea di popolo fu così facilmente capeggiata dal "Comitato d'Azione per Reggio Capoluogo", data l'assenza dei partiti di sinistra ma anche di buona parte della Dc rimasta imbrigliata nelle lotte di potere e ritenuta responsabile di un tradimento nei confronti delle rivendicazioni popolari della città sullo Stretto. Il secondo giorno di battaglia, i "moti di Reggio" reclamavano la prima vittima. Si trattava di un ferroviere simpatizzante della Cgil di quarantasei anni, Bruno Labate, trovato agonizzante dalla Celere all'angolo di via Logoteta, una strada del centro della città battuta in giornata da scontri violentissimi. La sua morte, tutt'ora senza un colpevole, esacerbò ulteriormente gli animi mentre in città si rilevava la presenza del famigerato Terzo Reparto della Celere giunto da Padova per reprimere la rivolta con la forza. La battaglia prosegue per le due giornate seguenti con più di cento feriti e altrettanti arresti, con l'estensione del blocco ferroviario anche agli imbarchi per la Sicilia. Mentre per le vie infuria la battaglia a colpi di molotov, fionde, cariche e lacrimogeni, nel pomeriggio del 22 luglio il treno Palermo-Torino noto come il "Treno del Sole" (pieno di pellegrini in viaggio per Lourdes) si avvicinava alla stazione di Gioia Tauro ad una velocità superiore ai 100 km/h. Giunto a poca distanza dalla fermata, di colpo l'aria fu squassata da un boato seguito da una brusca frenata d'emergenza. Il convoglio si spezzava in tre tronconi e nelle carrozze centrali ribaltate sulla massicciata restavano sei morti e sessantasei feriti. L'associazione della sciagura con la situazione della vicina città di Reggio Calabria (diversi erano stati in quei giorni gli attentati dinamitardi alle infrastrutture della zona) fece immaginare a molti la presunta connessione dei moti con le trame eversive che come un'ombra aleggiavano sul Paese da alcuni mesi. Tuttavia gli inquirenti orienteranno le proprie indagini in direzione opposta, arrivando ad accusare alcuni addetti per presunte omissioni nella manutenzione. La tragedia che si consumò nei giorni della rivolta per il capoluogo rimarrà impunita, nonostante le dichiarazioni di alcuni pentiti della 'ndrangheta rilasciate alla riapertura del caso nel 1993 tra cui Giacomo Lauro che indicherà chiaramente l'infiltrazione della malavita organizzata e di elementi della estrema destra eversiva vicini al principe Junio Valerio Borghese . La strage di Gioia Tauro ebbe sì dei colpevoli, secondo la sentenza emessa nel 2001. Si trattava di Vito Silverini (vicino ad Avanguardia Nazionale), Vincenzo Caracciolo e Giuseppe Scarcella, ma quando arrivò la condanna erano tutti ormai deceduti.

Boia chi molla! La strage del "Treno del Sole", che significò una momentanea tregua in occasione dei soccorsi tra le forze dell'ordine e i membri del Comitato, non generò affatto la fine delle ostilità. Il 30 luglio si tenne il famoso comizio di Ciccio Franco, Fortunato Aloi e dell'industriale del caffè Demetrio Mauro (dichiaratosi apartitico) i quali, al grido della parola d'ordine "Boia chi molla!" parlarono di fronte a migliaia di reggini che iniziarono anche a contestare apertamente la linea considerata troppo morbida del sindaco Battaglia, mentre gli agitatori giunti dai rioni popolari tenevano sotto assedio le vie della città bloccate dalle barricate. Passano due settimane e, nei primi giorni del nuovo esecutivo guidato da Emilio Colombo, cade la seconda vittima dei moti. Accadeva al termine di una giornata di durissimi scontri presso il deposito ferroviario del rione Sbarre che registrò feriti da ambo le parti. Verso le ore 20 del 17 settembre 1970 nei pressi del ponte sul fiume Calopinace, mentre dalle onde di Radio Reggio Libera si susseguivano gli appelli alla rivolta, un gruppo di manifestanti del Comitato ingaggiava uno scontro a fuoco con la Polizia. Cadeva colpito dai proiettili l'autista dell'azienda municipalizzata Angelo Campanella, seguito poco più tardi dalla morte per collasso cardiaco del vice-brigadiere Vincenzo Curigliano. Reggio piombava nel caos, mentre nessuna soluzione politica pareva affacciarsi all'orizzonte a due mesi dall'inizio dei moti. Ciccio Franco veniva arrestato con l'accusa di istigazione a delinquere assieme all'ex partigiano Alfredo Perna per giorni a fianco del capopopolo sulle barricate, mentre i blindati della Polizia facevano irruzione nei quartieri di Santa Caterina e Sbarre rimuovendo le barricate. Il 26 settembre un altra sciagura contribuirà ad allungare un ombra inquietante sui mesi della rivolta. Lungo l'Autostrada del Sole all'altezza di Ferentino (una sessantina di chilometri da Roma) una Mini Minor con a bordo cinque giovani anarchici di Reggio Calabria (noto come il gruppo degli anarchici della "baracca") si schiantava contro un autotreno che procedeva molto lentamente nella stessa direzione, forse a luci spente. Gli inquirenti ipotizzarono inizialmente un possibile legame con la strage di Piazza Fontana in quanto una delle vittime, la diciottenne tedesca Annelise Borth, era stata inizialmente fermata e interrogata nell'ambito della pista che portò a Pietro Valpreda. Negli anni, ed ancora una volta grazie alle parole del pentito Giacomo Lauro, emergeranno particolari inquietanti sulla morte dei cinque giovani: Il camion coinvolto apparteneva infatti ad una società facente capo a Junio Valerio Borghese, mentre dalle deposizioni dei collaboratori di giustizia emerse la possibile intromissione di elementi della 'ndrangheta e l'ipotesi che i giovani stessero portando a Roma le prove che avrebbero dimostrato la natura terroristica dell'incidente del treno di Gioia Tauro. Questi documenti non saranno ritrovati all'interno dell'auto sulla quale i cinque trovarono la morte. I disordini continuarono a sconvolgere la città della Stretto ancora per mesi, fino alla decisione dell'intervento dell'Esercito con i carri armati inviati per rompere l'arroccamento dei fautori della protesta. Il 12 gennaio 1971 l'agente del Terzo Reparto Celere Antonio Bellotti veniva colpito da una sassaiola sul treno che avrebbe dovuto riportarlo a Padova dopo tre mesi di servizio a Reggio: spirerà dopo alcuni giorni di coma. Una soluzione politica per la questione calabrese fu avanzata dal Governo Colombo soltanto nel febbraio del 1971. Il cosiddetto "pacchetto" di riforme che prendeva il nome dal premier democristiano e che prevedeva una soluzione articolata: il capoluogo e la giunta della regione sarebbero rimasti a Catanzaro, mentre a Reggio Calabria sarebbe andata la sede dell'Assemblea regionale. Il compromesso era stato accompagnato da una serie di promesse d'investimento nel settore industriale, che porterà alla fallimentare realizzazione dei poli siderurgico (Gioia Tauro) e chimico (Saline Joniche).

Dal "pacchetto Colombo" ai treni per Reggio Calabria. L'annuncio del premier non riuscì tuttavia a placare la rabbia del Comitato, deluso fortemente dal compromesso e dalla conferma di Catanzaro capoluogo regionale. Numerosi scontri si verificarono per tutto l'anno 1971 culminati con un'altra vittima caduta nello stesso luogo dove esattamente un anno prima era morto l'autista Angelo Campanella. Ancora una volta sul ponte Calopinace, gli scontri a fuoco tra i manifestanti e le forze dell'ordine causarono la morte di un giovane barman, il venticinquenne Carmelo Jaconis. L'ennesimo episodio di violenza portò alla definitiva repressione della rivolta popolare, che nei mesi precedenti era arrivata a proclamare una sorta di zona autonoma, la cosiddetta "Repubblica di Sbarre", dal nome del quartiere più coinvolto nei moti. Gli otto lunghi e sanguinosi mesi della battaglia di Reggio Calabria si conclusero con il rumore dei cingoli dei carri armati e ancora una volta con il boato del tritolo. A un anno di distanza dai gravi scontri che causarono l'ultima vittima della rivolta i sindacati dei metalmeccanici scelsero Reggio Calabria come sede della vertenza nazionale. Ancora attivi erano gli esponenti del Comitato e la scelta della città era suonata come una provocazione, che fece tornare la tensione dei mesi precedenti. Il 22 ottobre 1972 dieci ordigni esplosero lungo la linea ferroviaria dove transitavano i treni speciali che portavano i delegati. Il bilancio fu fortunatamente lieve (cinque feriti) ma la notizia fece comunque molta impressione in Italia e all'estero. Per la città di Reggio Calabria si aprivano gli anni settanta, tra i più difficili per gli effetti della crisi economica e delle disattese promesse di sviluppo economico prospettate durante i mesi della battaglia, situazione solo parzialmente mitigata dalla ripresa degli anni ottanta nota come la "Primavera di Reggio".

I 50 anni dei Moti di Reggio e il mistero delle due spie. Così il questore Santillo disinnescò la rivolta "Boia chi molla". Decisivo il ruolo dell'arcivescovo. Felice Manti, Martedì 14/07/2020 su Il Giornale. Gente che protesta, picchetti e blocchi stradali contro il governo, blocco degli sbarchi, militari a riportare l'ordine pubblico. Sono passati 50 anni dai moti di Reggio Calabria e lo Stato non ha imparato niente. O forse sì. La rivolta nacque spontaneamente il 14 luglio del 1970 contro la decisione di spostare a Catanzaro - perché sede di Corte d'Appello - il capoluogo regionale. Dannunziano fu lo slogan della rivolta reggina, «Boia chi molla», il Msi con Ciccio Franco e Natino Aloi ci mise il volto, la 'ndrangheta si mise in mezzo per sabotarne gli esiti e ci riuscì. L'accordo contro la città firmato al ristorante «La Vigna dei Cardinali» a Roma dai politici di Catanzaro e Cosenza, Riccardo Misasi (ministro Dc), Ernesto Pucci (sottosegretario) e Giacomo Mancini (allora segretario Psi), avrebbe risarcito Cosenza con l'università e Reggio Calabria con l'illusoria promessa del «pacchetto Colombo»: il Quinto polo siderurgico (mai partito) e della Liquichimica di Saline Jonica (costruita ma mai entrata in funzione). Fu «il '68 dei terroni o la banlieu dei cafoni», per dirla con le parole di Marcello Veneziani. Ma fu anche una scintilla di rabbia spontanea, scritta con l'inchiostro rosso e nero della strategia della tensione e accesa nello stagno incendiario degli anni Settanta, l'unica rivolta civile scoppiata nell'Europa dell'Ovest. Alla fine i morti ufficiali saranno tre civili e due agenti. Ai quali vanno aggiunti i cinque «anarchici della Baracca» morti il 26 settembre 1970 in un misterioso incidente stradale mentre viaggiavano per Roma con in mano (si dice) le prove di una pista eversiva dietro la bomba sul treno Freccia del Sud di Gioia Tauro, come racconta Fabio Cuzzola nel documentato libro Cinque anarchici (Castelvecchi). Nel 1993 i pentiti di 'ndrangheta Giacomo Lauro e Carmine Dominici dissero al giudice istruttore milanese Guido Salvini che «quelle morti erano figlie di una convergenza tra ambienti di estrema destra e cosche». La guerra civile fu scongiurata solo grazie al coraggio di due uomini. Uno sbirro e un prete. Nella notte del 17 dicembre 1970 - con il placet del questore Emilio Santillo - l'arcivescovo di Reggio Giovanni Ferro grazie a un passaparola chiese alle centinaia di persone che avevano svaligiato un'armeria di riporre le armi sul sagrato di una chiesa. Uno «sgarro» che mezza città non gli perdonò, tanto che qualche mese dopo nell'ex «Repubblica di Sbarre», uno dei quartieri feudo della rivolta insieme a Santa Caterina, qualcuno gli lanciò delle monetine in faccia. Quello che però non si trova nella storiografia ufficiale o nei libri come il romanzo storico Salutiamo, amico di Gianfranco Turano (da vedere anche il film Liberarsi - figli di una rivoluzione minore), è che un ruolo decisivo nella trattativa tra lo Stato e la città lo ebbero anche due donne di cui si sa poco, pochissimo. Una si chiamava Wanda C, e si uccise con la pistola d'ordinanza del fidanzato carabiniere della figlia, non prima di aver sparato al marito. Colpevole probabilmente di aver scoperto il vero perché dei suoi viaggi tra Reggio e Roma, grazie alla carta d'identità della donna, smarrita in una pensione dalle parti del Viminale. «Era un'informatrice, una delle tante di cui Santillo si serviva per comunicare con Roma. Sapeva di essere seguito e pedinato», rivela al Giornale una fonte che ha ricostruito la delicatissima vicenda. Ma perché Santillo sarebbe stato pedinato? E da chi? «'Ndrangheta, 007... che differenza fa?». Ancora avvolta nel mistero il ruolo dell'altra donna, «anche lei pedina di Santillo», trovata morta sotto uno dei balconi del suo palazzo che dà sulla Via Marina. In rotta con il marito, notabile della città e proveniente da una storica famiglia di riscossori, avrebbe avuto una liason con un giudice che secondo la ricostruzione l'avrebbe dovuta aiutare a rifarsi una vita. «Non si sarebbe mai uccisa». Due pedine inghiottite dall'ennesima notte buia della Repubblica.

Il Tg2 fa revisionismo sui Moti di Reggio. E si "dimentica" fascisti e ndranghetisti. Il direttore (in quota leghista) Gennaro Sangiuliano e la sua redazione mettono in onda una ricostruzione dei fatti del 1970-1971 in salsa sovranista. Il popolo nobile e ingenuo contro lo Stato oppressore e democomunista. Nessuna menzione per la destra eversiva e la mafia. Gianfranco Turano su L'Espresso il 03 novembre 2020. La storia secondo Gennaro Sangiuliano, direttore salviniano del Tg2 con trascorsi nel Msi, è bella e tragica come un romanzo cavalleresco. È anche altrettanto semplice. Da una parte, ci sono i popoli oppressi da uno Stato carognesco. Dall'altra, incombe sulla loro autodeterminazione il fantasma del comunismo. I cinquant'anni dai Moti di Reggio Calabria, iniziati il 14 luglio 1970, erano un'occasione da non sprecare per ridurre la complessità a uno scontro da opera dei pupi fra paladini e saraceni. Sebbene con qualche ritardo, il primo novembre un servizio di Tg2 Storie a firma di Giuseppe Malara ha colmato la lacuna. In sei minuti e quarantatré secondi di filmato, gli oltre sette mesi guerra civile sulle sponde dello Stretto vengono ridotti a un "furibondo scontro fra popolo e Stato" concluso dall'arrivo dei carri armati dell'esercito italiano contro "padri di famiglia, donne, studenti che lottavano per vedere riconosciuto un loro diritto". Questo diritto era il capoluogo di regione che "fin dal 1947" doveva spettare a Reggio e che invece andò a Catanzaro per quello che Renato Meduri, ex senatore di Alleanza nazionale ed esponente missino passato sulle rive leghiste, definisce "un accordo di Mancini, Pucci, Mancini per spartirsi la Calabria con la benedizione dei comunisti". Il complotto fra democristiani, socialisti e comunisti scatenò "una rivolta squisitamente popolare". Il cronista però aggiunge una postilla. "Se è vero che la rivolta non ebbe colori politici, è innegabile che ebbe un leader in Ciccio Franco, sindacalista della Cisnal". In un servizio che riesce a non pronunciare mai la parola fascismo si mettono insieme le falsità riduzionistiche e negazioniste che accompagnano da cinquant'anni i Moti. Si dice per esempio che le vittime furono sei e si escludono dal conto i sei passeggeri del treno Palermo-Torino uccisi nella strage di Gioia Tauro del 22 luglio 1970 , rievocata quest'anno dal presidente Sergio Mattarella e messa in opera dai neofascisti di Avanguardia Nazionale con esplosivo procurato dalla 'ndrangheta. Si escludono anche i cinque anarchici morti in un autostrada il 26 settembre 1970 in un massacro che è rimasto un incidente come è rimasto un incidente per oltre vent'anni la strage di Gioia Tauro finché il processo Olimpia nel 1993 non ha ristabilito la verità giudiziaria e storica. Nessuna menzione per gli assalti, a poche ore dall'inizio dei Moti, contro la Camera del lavoro e la sede del Psi, di chiara marca neofascista. Nessuna menzione sul fatto che due settimane dopo l'inizio degli scontri, il 29 luglio 1970, Ciccio Franco e le forze della destra eversiva costituirono il Comitato d'azione per Reggio capoluogo con il motto "Boia chi molla" dell'ex parlamentare missino Roberto Mieville. Nessuna menzione che questo Comitato (altro slogan "Reggio è nera e nera resterà") divenne la direzione tattica dei Moti prendendo il sopravvento su ogni spontanea protesta popolare. Nessuna menzione per il fatto che l'università di Messina fu occupata dalle associazioni giovanili e studentesche di estrema destra (Fuan, Fdg) e che il leader della goliardia nell'ateneo siciliano fosse l'avanguardista Paolo Romeo, in seguito condannato per concorso esterno in associazione mafiosa nonché mentore del futuro sindaco Giuseppe Scopelliti, ex Msi e An, condannato per i bilanci falsi del Comune reggino. Nessuna menzione del blocco totale degli uffici pubblici e dell'economia ufficiale, mentre l'economia sommersa serviva a finanziare quintali di tritolo per gli ordigni che padri e madri di famiglia, tutti esperti artificieri, facevano brillare quotidianamente. Certo, in 6'43" è difficile condensare troppe nozioni. Il popolo, si sa, è di mente semplice e il tempo è tiranno. Così la ben nota organizzazione criminale calabrese fa capolino in zona Cesarini (6'19") dopo che si è detto come lo Stato "in cambio della fine delle ostilità offrì ai reggini il pacchetto Colombo per un piano di industrializzazione mai nato e la 'ndrangheta con la costruzione di quelle opere inutili iniziò un costante e progressivo arricchimento". Come passata di lì per caso, insomma, la 'ndrangheta che armava i Moti e che cooperava con i neofascisti si trovò in mano duemila miliardi dell'epoca, nonostante il capoluogo fosse andato a Catanzaro. E sì che i mafiosi reggini ci tenevano moltissimo. Ma non quanto ai soldi, evidentemente.

Reggio 70, i cortei spontanei e i “quartieri indipendenti” del 14 luglio. Da Iacchite il 14 Luglio 2020. Sono passati cinquant’anni dalla rivolta che infiammò Reggio Calabria e l’Italia intera, la più lunga e violenta del dopoguerra. I “Moti di Reggio”, ricordati anche più semplicemente come i “Fatti di Reggio” ebbero il loro periodo più caldo da luglio 1970 a febbraio 1971: otto lunghi mesi di guerriglia che lasciarono sul campo cinque morti (il ferroviere Bruno Labate, l’autista Angelo Campanella, gli agenti Vincenzo Curigliano e Antonio Bellotti e il barista Angelo Jaconis), circa 2.000 feriti, un migliaio di arresti e denunce, danni per miliardi di lire. Oltre a una scia di eventi dalla matrice dubbia, come il deragliamento “del treno del Sole” Palermo-Torino all’altezza di Gioia Tauro il 22 luglio 1970 (6 morti e circa 60 feriti) o l’incidente stradale che provocò la morte di cinque anarchici (26 settembre 1970)  su uno sfondo nel quale si è anche parlato di ‘ndrangheta, servizi segreti, neofascismo.

Il “furto” del capoluogo. Tutto ebbe inizio il 5 luglio quando l’allora sindaco, Piero Battaglia (Dc), con il suo “Rapporto alla città”, informò i reggini dell’accordo politico-istituzionale fatto a Roma, sull’asse Catanzaro-Cosenza, ai danni di Reggio Calabria. Al centro della questione la decisione, appoggiata da Roma, di scegliere Catanzaro come sede del capoluogo della Calabria, una decisione caldeggiata e favorita in particolare dai politici cosentini Riccardo Misasi e Giacomo Mancini, all’epoca influenti l’uno nella Dc, l’altro nel Psi, e ritenuti i veri responsabili di questo “furto del capoluogo”.  Fu la scintilla di una rivolta che diventerà inarrestabile all’indomani della decisione di convocare a Catanzaro la prima seduta del neo eletto Consiglio regionale della Calabria.  “All’inizio fu solo una protesta – racconta uno dei protagonisti di quei giorni, Fortunato Aloi, ex parlamentare e dirigente del Msi – che non riuscendo a trovare un interlocutore si trasformò presto in rivolta”. L’Italia in quei giorni era senza una guida. Dopo soli 131 giorni si era dimesso il III Governo Rumor e si dovette attendere il 6 agosto per avere un nuovo esecutivo, guidato dal dc Emilio Colombo, con Psi, Psdi e Pri in cui ricoprivano importanti ruoli esponenti della politica catanzarese e cosentina.

L’Italia divisa in due. La mattina del 14 luglio, un corteo spontaneo partì dal quartiere Santa Caterina. Lo guidava proprio Natino Aloi. Da sei che erano all’inizio, divennero trentamila. “Scelsi di difendere la città – spiega oggi Aloi – dal momento che tutti i partiti, nessuno escluso, per motivazioni di ordine regionale e nazionale, anche se il vero potere era concentrato tra Catanzaro e Cosenza, decisero di non pronunciarsi”. E così Reggio divenne teatro di una guerriglia urbana senza precedenti. Ci furono scioperi (19 giorni solo tra luglio e settembre), cortei, attentati dinamitardi, assalti a prefettura e questura, chiusure prolungate di uffici, negozi, scuole, poste, banche; e ancora il blocco di porto, aeroporto, navi, treni, strade e autostrade. In piazza confluivano giovani studenti, uomini e donne, papà, mamme, nonni, ma i cortei spesso sfociavano in scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Ci furono barricate, con i carri armati, gli M 13, che stazionavano nelle vie principali di Reggio e un afflusso di migliaia di militari (si parlò di diecimila) in assetto antisommossa. La città divenne un campo di battaglia, anche per la “durezza” con cui le forze dell’ordine provavano a placare le proteste.  In piazza scesero Demetrio Mauro, industriale del caffè, Amedeo Matacena, armatore privato dei collegamenti navali nello Stretto, e l’ex comandante partigiano Alfredo Perna. Fu anche la rivolta delle donne. Persino la Curia, con a capo l’Arcivescovo mons. Giovanni Ferro, tra polemiche e feroci attacchi, difese la protesta per il capoluogo. Molti quartieri si autoproclamarono indipendenti, come la ‘Repubblica di Sbarre’ e il ‘Gran ducato di Santa Caterina’, e non fu risparmiato il centro, teatro di roghi, assalti, scontri con la ‘Celere’ che culminarono con l’assedio e l’incendio della Questura (nell’evento morì per infarto Curigliano) e che solo grazie alla lungimiranza del questore Emilio Santillo, non si trasformarono in tragedia. I Moti di Reggio finirono sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. “Fu una rivolta di popolo, spontanea ed interclassista”, dice Aloi che assieme a Ciccio Franco, Renato Meduri e Antonio Dieni, ne fece la lotta del Msi. Alla fine rimasero i morti, cinque, tre civili e due poliziotti, i tanti feriti, gli arresti e i processi che continuarono per anni e le oscure vicende che fecero della rivolta di Reggio del ’70 una sorta di campo di addestramento di un più ampio progetto della destra eversiva, quella che voleva sovvertire l’ordine democratico, con la presenza di Junio Valerio Borghese, Franco Freda, Stefano Delle Chiaie. E i legami con oscuri settori massonici e della ‘ndrangheta in un sodalizio politico-criminale con numerosi attentati, come quello che il 22 luglio 1970 fece deragliare a Gioia Tauro il treno Torino-Reggio Calabria, provocando la morte di sei persone. I Moti di Reggio sono passati alla storia anche per il famoso slogan “Boia chi molla” e hanno visto nel sindacalista della Cisnal Ciccio Franco il leader riconosciuto. Ma era la gente a guidare la rivolta, a rivendicare diritti che sentiva svanire, a mettersi sotto il mantello di alcuni comitati (in particolare il Comitato unitario e il Comitato d’azione) di orientamento politico trasversale. Si andò avanti fino al 1971 quando Il Governo decise di chiudere la partita con la forza, inviando a Reggio reparti dell’esercito e decine di carri armati. Arrivarono le promesse: il famoso “Pacchetto Colombo”: Giunta regionale a Catanzaro, Consiglio regionale a Reggio Calabria, Università a Cosenza. E ancora: promessa alla città di Reggio della costruzione del centro siderurgico a Gioia Tauro e uno stabilimento della Liquilchimica a Saline Joniche (operativa solo per pochi mesi) con il miraggio di migliaia di posti di lavoro. Il tutto è rimasto negli anni solo un bel progetto mai realizzato.

Martedì 14 Luglio 1970 – Lo sciopero continua. La protesta si apre con i lunghi cortei attraverso il Corso Garibaldi. Gli uffici, i negozi e le banche sono chiusi. Mentre una parte della folla si ferma in piazza Italia ad ascoltare le parole del Sindaco e del consigliere provinciale Fortunato Aloi (MSI), tanti altri si danno da fare per innalzare le prime barricate: sul Corso, sul Lungomare, in prossimità della Stazione Centrale, in via Pio XI, al rione Sbarre, in via XXI Agosto, al rione S. Caterina. Lo scopo di intralciare il traffico è raggiunto. Il movimento dei veicoli è lentissimo, a volte impossibile. Un blocco stradale che pregiudica il collegamento del capoluogo con il versante tirrenico della provincia è attuato sull’autostrada, allo svincolo di S. Trada con alcuni autobus portati là nơn si sa da chi. Le barricate sono innalzate con quanto capita sottomano. Si saccheggiano i cantieri edili di sbarre di ferro, tavoloni, sacchi pieni di cemento; sul Corso vengono persino trascinate alcune panchine di ferro divelte alla Comunale. La polizia e i carabinieri si adoperano per rimuovere i blocchi, ma accade che, mentre essi si prodigano in una certa zona, altrove sorgono nuove barricate. Naturalmente restano fermi per tutto il giorno gli autobus, sia dell’Azienda municipale che delle autolinee private. Nel pomeriggio, i vigili del fuoco accorrono al Ponte Calopinace, dove i dimostranti hanno dato fuoco alle barricate. Ancora nel pomeriggio giunge notizia da Roma che il Presidente della Camera, Pertini, ha annunciato ai deputati l’avvenuta presentazione della proposta di legge dell’on. Reale, in base alla quale dovrebbe essere il Parlamento a indicare il capoluogo di regione. In serata la situazione precipita improvvisamente. I primi scontri si hanno nei pressi della pineta, in via Marina, tra un gruppo di dimostranti che occupa i binari della ferrovia e agenti di polizia. Nel corso degli incidenti si hanno feriti e contusi tra i dimostranti – che ricorrono alle cure dei medici privati, per evitare di venire identificati e quindi arrestati – e tra gli agenti. Vengono operati dieci fermi. La notizia percorre la città ed un’immensa folla si raduna in piazza Italia a protestare. Tramite la mediazione del Sindaco Battaglia, il Prefetto De Rossi fa rilasciare i fermati, dopo la denuncia a piede libero per vari reati (resistenza, oltraggio a pubblico ufficiale e blocco stradale e ferroviario). La folla, però, non si disperde e la polizia, verso le 21, opera cariche durante le quali cresce il numero dei feriti e contusi da ambo le parti. All’azione piuttosto decisa della polizia fa seguito la reazione dei dimostranti che con lancio di pietre cercano di frenare l’impeto dei tutori dell’ordine.

Scrive Gazzetta del Sud: «Dopo, il centro della città appariva come un campo di battaglia dopo un’aspra contesa. Dovunque pietre, sbarre di ferro, improvvisati manganelli di legno; numerose autovetture capovolte, qualcuna bruciata. Danneggiati l’edificio della Cassa di Risparmio, sul Corso, parte dell’impianto di illuminazione cittadina e distrutte e date alle fiamme le recinzioni dei cantieri edili». Intanto il numero dei fermati sale a venti. In serata, Battaglia rilascia la seguente dichiarazione: «La presentazione da parte dei deputati reggini e di altri parlamentari della proposta di legge per la definizione del capoluogo delle regioni a statuto ordinario, restituisce l’iniziativa al Parlamento sottraendola a qualsiasi compromesso…«Si afferma la linea di serena e responsabile azione perseguita in ogni momento dalla classe politica reggina. L’enormità del sopruso trova finalmente un argine nella iniziativa dei parlamentari. È amaro che incidenti di inaudita gravità abbiano turbato una pacifica manifestazione, che anche in futuro, ne siamo convinti, verrà condotta con serena e responsabile fermezza. «Nel mentre, esprimiamo un augurio affettuoso – continua Battaglia – ai cittadini rimasti feriti negli incidenti di stasera, reclamiamo una severa inchiesta per accertare le gravi responsabilità di chi ha determinato i gravi incidenti. Invitiamo la cittadinanza tutta a tenersi unita e serena nella severità della prova, avendo di mira l’obiettivo ultimo che è quello di salvaguardare gli irrinunciabili diritti di Reggio». La prima giornata di sciopero si conclude cosi con la totale adesione della popolazione; anche i ferrovieri aderiscono allo sciopero, abbandonando i convogli di manovra in maniera tale che nessun treno possa muoversi, si da paralizzare i collegamenti con la capitale e le città del Nord… 

I moti di Reggio del 1960, quando la Calabria ridiventò una colonia. Ilario Ammendolia su Il Riformista il 18 Luglio 2020. È passato mezzo secolo dalla rivolta di Reggio Calabria ma nella testa di chi ha vissuto quei giorni ancora rimbomba il grido: “Reggio capoluogo-boia chi molla”. E fu veramente una rivolta di popolo. L’ho vissuta dall’altra parte della barricata e ho dinanzi agli occhi i volti dei manifestanti per “Reggio capoluogo” che, quantomeno nella prima fase, non erano fascisti e men che meno mafiosi ma le donne e gli uomini della città. Appartenevano a tutti i ceti sociali e sfilavano sul corso Garibaldi. Tutto ebbe iniziò con le elezioni amministrative del 7 e 8 giugno del 1970 quando per la prima volta s’era votato per la Regione. Furono elezioni noiose. I risultati elettorali consegnavano, ancora una volta, una nettissima maggioranza di suffragi ai partiti di governo. Il Pci, dopo la sconfitta delle lotte per le terre, appariva sempre più come partito di apparato senza alcuna strategia meridionalista. Quindi non deve sorprendere se alle elezioni comunali di Reggio città, la Dc aveva conquistato ben 23 seggi rispetto ai 7 del Pci. A “Roma” si decise che Catanzaro doveva essere il capoluogo. Una decisione, frutto di un accordo tra i maggiorenti calabresi dei partiti di governo, che Reggio visse come l’ennesima mortificazione della città e della democrazia e il “capoluogo” divenne così un piccolo fiammifero casualmente caduto in un pagliaio ma in grado di sviluppare un pauroso incendio. Un mese dopo Reggio era un vulcano in eruzione non solo contro il governo ma anche contro lo “Stato” italiano. Dopo le prime pacifiche manifestazioni di massa, già il 15 luglio comparvero le prime barricate che crebbero di numero e dal corso Garibaldi si estesero ai quartieri popolari. A presidiarle la gente comune e soprattutto i più giovani. L’appello alla lotta venne lanciato dal “Comitato per Reggio capoluogo” presieduto dal sindaco della città Piero Battaglia, un democristiano, espressione della burocrazia cittadina storicamente egemone in città, e che avrebbe voluto mantenere i “moti” nel perimetro della legalità e dell’ordine costituito. Battaglia non riuscì nel suo intento di stipulare un “compromesso onorevole” col “governo di Roma” che, in quel momento, non era in condizioni di dare risposte concrete ai manifestanti. Intanto la sinistra, iniziando dal partito comunista, commise il tragico errore di sfilarsi dalla rivolta popolare bollandola come stupida contrapposizione di campanile o, peggio ancora, come una lotta per il “pennacchio”. Non si accorsero che sotto i loro occhi si stava sviluppando l’ultima rivolta del Sud ridotto a colonia interna. Non capirono che, grazie a quella rivolta, una “città invisibile” marcava la propria esistenza in vita e, contemporaneamente, i ragazzi delle periferie cittadine manifestavano tutta la loro voglia di esser protagonisti della loro storia. La “diserzione” della sinistra e l’ondivaga e timida presenza Dc, consentirono ai neofascisti di inserirsi alla testa dei “moti” in quanto disponibili a mettersi “fuori legge” e darsi alla latitanza così come fece Ciccio Franco, capo riconosciuto del “boia chi molla”. Non erano delinquenti. Molti di loro pensavano di reagire a un oltraggio contro la città. Alle manifestazioni pacifiche seguono le barricate, i sassi, le molotov, gli assalti alle federazioni del Pci e della Cgil. Poi gli scontri sempre più violenti con le forze dell’ordine. Cadono le prime vittime: il ferroviere Bruno Labate e l’autista Angelo Campanella e tanti altri ancora. La rivolta si inasprisce e diventa guerriglia urbana. Vengono mandati i carri armati a stazionare sul lungomare e, per la prima e unica volta nella storia della Repubblica, si registrò l’intervento dell’esercito e l’impiego dei blindati per la rimozione delle barricate. Seguono le bombe contro tutti i “luoghi- simbolo” dello Stato. Vengono spiccati i primi mandati di cattura contro i capi dei “moti” e i “guerriglieri” reagiscono dando l’assalto alle armerie cittadine. A questo punto c’è il rischio concreto che i sassi e le molotov vengano sostituiti dalle pallottole e che la rivolta diventi guerra armata anche perché nel frattempo qualcuno si muove nell’ombra e per fini diversi rispetto ai manifestanti, facendo “deragliare” dolosamente un treno a Gioia Tauro e provocando la morte di ben sei persone e di tantissimi feriti. Mentre uno strano incidente stradale provoca la morte di cinque giovani anarchici che si stavano recando a Roma con documenti scottanti da consegnare alla rivista “Umanità nuova”. La rivolta si va trasformando negli uomini e nei fini. Progressivamente cambiano i protagonisti e dalle barricate scompaiono i figli del ceto medio e della burocrazia reggina, non disponibili a rischiare il loro stato sociale e mettersi “fuori legge”, ma restano ancora i ragazzi delle periferie cittadine. Tra i nuovi “protagonisti”, i rampolli della ‘ndrangheta reggina che, come vedremo, avevano fatto già la loro inquietante comparsa nell’arena “politica” della città nel mese di ottobre al seguito del principe nero Junio Valerio Borghese. E già a fine settembre sono altri – rispetto a luglio – a dirigere i moti e a far in modo che la rivolta si trasformasse in un anello, sia pure importante, nella strategia della tensione iniziata con la bomba alla “Banca dell’Agricoltura” e che avrebbe dovuto avere come sbocco il golpe militare. Già nel mese di settembre del 1970 appare chiaro che i “moti” hanno i loro “capi” riconosciuti, soprattutto Ciccio Franco, ma sono privi d’ una classe dirigente all’altezza della situazione e di una strategia capace di portare il movimento al successo. I “boia chi molla” non sono in condizioni di accettare alcun “compromesso” perché prigionieri della rabbia della gente. Essendo neo fascisti, non credono nel “meridionalismo” e non rientra nei loro orizzonti la l’attuazione della Costituzione. Si trovano così in un vicolo cieco. In questo clima è più che ipotizzabile che il mese di “ottobre” sia stato lo spartiacque tra la protesta per il capoluogo e la svolta verso l’eversione nera. Probabilmente non preventivata e non calcolata dallo stesso Ciccio Franco e dai suoi più stretti collaboratori. C’è un episodio inquietante rimasto sempre sullo sfondo: il summit delle cosche reggine a Montalto, in pieno Aspromonte, del 26 ottobre del 1969. Il summit avrebbe dovuto decidere l’alleanza della ‘ndrangheta reggina con la destra eversiva del principe Junio Valerio Borghese. Significativo il fatto che nessuno abbia mai saputo l’identità di tre uomini incappucciati che avrebbero presenziato al summit senza prendere la parola. Il giorno successivo a Reggio, in seguito alla mancata autorizzazione a Borghese di tenere un comizio, si registrano scontri durissimi in cui rimangono feriti una trentina di appartenenti alle forze dell’ordine. E stranamente solo 4 manifestanti.

A sostenere gli scontri oltre agli aderenti al “Fronte” e ad “Avanguardia Nazionale”, i giovani delle cosche reggine che non si accontentano più di essere parcheggiati nell’anticamera e negli scantinati del “potere”. Chiedono di entrare nel salotto buono della città. Il principe Borghese indica ai più “fidati” tra i dirigenti della rivolta e ai capi cosca un obbiettivo a breve scadenza: il golpe militare programmato per la notte del 7 dicembre 1970 quando uomini armati penetrano, nei sotterranei del ministro dell’Interno. Il golpe viene bloccato prima dell’alba e la deriva eversiva e “fascista” verso cui era stata spinta la rivolta di Reggio causa un contraccolpo inaspettato in difesa della democrazia. Il 4 aprile del 1971 viene convocato nel teatro comunale il consiglio regionale della Calabria per l’approvazione dello Statuto. È una prova di forza anche dal punto di vista di un possibile scontro fisico. Il “comitato d’azione” proclama lo sciopero e la mobilitazione generale. Le forze antifasciste sanno bene di non poter contare sulle forze dell’ordine per la difesa della loro incolumità e per il loro diritto a manifestare liberamente. Nonostante ciò migliaia di persone confluiscono verso il teatro comunale. Alcuni verranno bloccati dai “neofascisti” nelle periferie cittadine, molti pullman danneggiati saranno costretti a ritornare indietro ma la maggioranza dei militanti antifascisti, raggiungeranno il teatro Cilea. Il “boia chi molla” ha perso in casa. La mobilitazione democratica farà da sponda alla borghesia cittadina intenzionata a rompere con le forze dell’eversione. Alla fine della manifestazione del 4 aprile, i partecipanti rifiuteranno la proposta della questura di defluire dalle porte laterali del teatro e usciranno a testa alta dall’ingresso principale malgrado la grandinata di pietre e monetine lanciate dai ragazzi di Reggio di cui ricordo perfettamente il volto teso e lo sguardo smarrito perché intuivano – e non a torto – di esser stati abbandonati al loro destino. Borghese aveva lasciato l’Italia. La borghesia cittadina avrà i suoi impiegati negli uffici del consiglio regionale. La ndrangheta verrà associata ai lavori del “pacchetto Colombo” e riconosciuta come una “forza” con cui fare i conti. Restano fuori dei nuovi equilibri di potere sia i generosi ragazzi delle periferie cittadine che hanno creduto nella “causa” di Reggio; quanto i loro coetanei che, con altrettanta generosità, si erano schierati contro la deriva “fascista”. Nel 1972, malgrado Reggio sia elettoralmente la città più “nera” d’Italia, i “boia chi molla” non hanno più il controllo della piazza.

Il comizio di Pietro Ingrao del 5 maggio e la grande manifestazione sindacale del 22 ottobre, che vede sfilare per le vie di Reggio “centomila” tra metalmeccanici e antifascisti, dimostrano che a Reggio è stata riconquistata la libertà di manifestare liberamente ed esporre le proprie idee politiche. Nel momento in cui bisognava resistere ai “boia chi molla” e contrattaccare, i partiti dell’arco costituzionale avevano solennemente giurato che nel Sud, ed in particolare in Calabria, nulla sarebbe stato più come prima. Finiti i moti nulla di quanto promesso fu mantenuto. La Calabria visse un periodo di autentica “Restaurazione” che andò via via peggiorando man mano che ai “vecchi poteri” venivano associati, sia pure in posizione di assoluta subalternità, i sindacati prima e l’opposizione di sinistra dopo. La “destra” si avvicinava all’area di governo e di sottogoverno fino a farne parte organicamente. La rivolta restava un ricordo da celebrare senza però analizzare e dar spazio alle ragioni vere che avevano spinto i giovani più poveri della città a salire sulle barricate. Per evitare altre “rivolte”, il governo, le banche, la Confindustria, danno la loro disponibilità a “concedere” alla Calabria fondi destinati soprattutto ai lavori pubblici che quasi sempre evaporano tra la distrazione degli organi preposti alla vigilanza. Ma soprattutto vengono “concessi” sussidi e migliaia di assunzioni artificialmente creati nella pubblica amministrazione. Pongono però come condizione “non negoziabile” la salvaguardia d’un sistema di sviluppo che avrebbe condannato inesorabilmente la Calabria al ruolo di colonia interna. È questo il cuore del problema a 50 anni dalla “rivolta”. La “Restaurazione” consentirà ai partiti politici di continuare a prendere i voti ma toglierà alla politica ogni autorità e ogni prestigio a favore dell’alta burocrazia, della magistratura (soprattutto di alcuni pm), delle banche, dei poteri occulti, tra i quali, certamente la ‘ndrangheta. Oggi, a 50 anni della rivolta, la Calabria non fa più notizia se non per le maxi retate che non sono casuali: sono un raffinato strumento di propaganda che un sistema di governo coloniale e mafioso utilizza per legittimarsi agli occhi dei cittadini. A ogni scuola o ospedale che chiude, a ogni giovane che parte, per ogni paese che si svuota si agita dinanzi agli occhi dell’opinione pubblica nazionale il dramma della ‘ndrangheta che è reale. Ma diventa l’alibi per nascondere il cinismo e gli interessi delle classi dirigenti. La Calabria resta un vulcano dormiente, e non pochi calabresi si augurano un’eruzione democratica che spazzi via l’insopportabile cappa che ha ridotto una terra ribelle in una colonia penale.

La controrivolta. Il giorno in cui i sindacati strapparono Reggio Calabria ai “boia chi molla”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 23 Agosto 2020. Una delle risposte alle lotte dell’autunno caldo, nel 1970, era stata l’istituzione delle Regioni. In quella circostanza, in Calabria, stabilirono che gli uffici del nuovo Ente dovessero essere a Catanzaro. A Reggio Calabria la decisione suonò come un insulto. In luglio, giusto mezzo secolo fa, vi furono vere e proprie sommosse popolari: ci scapparono persino due morti negli scontri tra dimostranti e Forze dell’Ordine (un ferroviere ed un brigadiere di Pubblica Sicurezza). Fatti analoghi si svolsero anche in Abruzzo, a L’Aquila, in seguito alla scelta di Pescara come capoluogo. La Federazione del Pci venne presa d’assedio: i dirigenti e gli impiegati vennero fatti uscire tra gli sputi e gli insulti. A Reggio Calabria i partiti si spaccarono: un pezzo della Dc (sindaco in testa) e le destre appoggiarono la rivolta. Il Psi si trovò nel mirino, dal momento che il suo segretario nazionale Giacomo Mancini era calabrese (anziano, prima di morire, è tornato a fare politica nella sua regione, come sindaco di Cosenza ed ha avuto e superato pesanti disavventure giudiziarie) e veniva accusato di aver tradito i reggini. Il Pci (insieme alla Cgil) tenne una linea di assoluta fermezza: bollò quei moti come se fossero populisti e fascisti. Per molti mesi non cedette di un millimetro; i militanti si asserragliarono nei locali della Federazione e fecero sapere che non era conveniente prenderli d’assalto. Nessuno osò provarci. La città scivolò nelle braccia del Msi che prese le parti della causa reggina. E nelle elezioni successive il partito di Giorgio Almirante raccolse un sacco di voti e mandò in Parlamento uno dei caporioni della rivolta: Francesco (Ciccio) Franco, già “condottiero vociante” delle guerriglia urbana, sindacalista della Cisnal (ha cambiato nome in Ugl e si è un po’ ripulita), militante del Msi da cui era stato espulso (e riammesso) almeno cinque volte. La sommossa proseguì anche nei primi mesi del 1971. In città c’era una sola fabbrica metalmeccanica di una certa consistenza: le Officine Omeca, produttrici di materiale ferroviario. Nelle prime ore, gli operai erano stati i primi a salire sulla barricate. Poi era cominciata una lenta azione di recupero. Per placare lo scontento, l’Assemblea regionale deliberò un progetto di dislocazione articolata degli uffici pubblici (la Giunta regionale a Catanzaro, il Consiglio a Reggio Calabria, l’Università a Cosenza). Dal canto suo, il Governo decise di costruire il V Centro siderurgico in provincia di Reggio Calabria, nella Piana di Gioia Tauro. Non era la prima volta che colossali insediamenti dell’industria di base dovevano servire a risolvere problemi sociali. La chimica sarda, ad esempio, fu pensata come alternativa al banditismo e all’industria dei sequestri. Ai sindacati il V Centro sembrava una grande opportunità; non così ai reggini. La storia e l’economia hanno dato ragione alla loro sfiducia. In quella località si sono distrutte rigogliose coltivazioni e si sono inseguiti progetti diversi. Sfumata l’ipotesi della siderurgia, si è pensato ad una Centrale dell’Enel, poi anche questa soluzione fu accantonata. È rimasto il porto. Doveva essere la struttura di servizio all’impianto siderurgico, invece ha trovato una sua interessante convenienza come porto vero e proprio. Pare che svolga anche una discreta attività: il suo problema sta nella fragilità del sistema stradale per raggiungere le banchine o per allontanarsi da esse. Ovviamente queste considerazioni valgono al netto delle infiltrazioni della criminalità organizzata. Al dunque, i reggini sapevano bene che gli uffici della Regione avrebbero portato occupazione “pesante” e garantita per alcune migliaia di persone. In qualche modo i fatti hanno dato loro ragione. Ma questa è tutta un’altra storia. Quella che vogliamo raccontare è la seguente: la Calabria fu teatro, nell’autunno del 1972, di un’altra importante manifestazione dei sindacati metalmeccanici, i quali decisero, con la solita spettacolarità delle loro iniziative, di collegare la piattaforma per il rinnovo contrattuale (nel frattempo venuto a scadenza) ad una “vertenza per il Mezzogiorno”. A Reggio Calabria doveva svolgersi un Convegno, seguito da una grande marcia di lavoratori provenienti da tutto il Paese. Vennero fissati i giorni del 20 e 21 ottobre per la prima parte e il 22 per la manifestazione. Appena annunciata, la cosa suscitò non poche perplessità. Nella città calabrese vi era una situazione molto tesa, si temeva la ripresa dei disordini di alcuni mesi prima, in presenza di un evento che aveva oggettivamente il sapore di una provocazione, agli occhi del ribellismo dei “Boia chi molla”, egemonizzato, con tanta fatica, dal Msi. Era forte la preoccupazione delle strutture sindacali e di partito delle Regioni del Sud. Tanto più che anche all’interno dei sindacati erano sorti dei problemi. La segreteria confederale della Cisl non approvò l’iniziativa; il che mise in una situazione delicata la Fim-Cisl di Carniti, anche perché la Cgil decise di partecipare in modo plenario, con tutti i 12 segretari confederali e i gruppi dirigenti di categoria e delle strutture orizzontali. In verità, anche nella Confederazione di Lama non tutto era stato pacifico. Come nel Pci. La questione si sbloccò in occasione di un Convegno sul Mezzogiorno che il partito comunista organizzò alcune settimane prima a L’Aquila. Svolse la relazione introduttiva Alfredo Reichlin e trasse la conclusioni Pietro Ingrao. Ma la svolta venne da un breve discorso (in tutto 17 minuti) letto da Enrico Berlinguer (allora vice segretario in attesa di prendere il posto di Luigi Longo): la manifestazione di Reggio Calabria andava –affermò – nella direzione giusta e avrebbe avuto l’appoggio del partito. Subito dopo l’aria cambiò: Pci e Cgil presero in mano l’organizzazione di quelle giornate. Allora si aveva veramente a che fare con una potente “macchina da guerra”. Aldo Giunti, il segretario organizzativo della Cgil, si piazzò a Reggio Calabria e volle seguire tutto di persona. Ovviamente, questa situazione pesava politicamente sulla Fim (ed anche sulla Uilm, benché la sua confederazione non si fosse tirata indietro), ma Carniti teneva duro, anche se volle esercitare attraverso i suoi più fidati collaboratori (a cominciare da Pippo Morelli) uno controllo politico molto stretto. La prova fu davvero durissima. Soprattutto nei giorni del Convegno i delegati vissero in una condizione da incubo. Ad ogni seduta si ritiravano le deleghe vecchie e se ne distribuivano di nuove, di un diverso colore, per giunta siglate da Antonio Mazzetti (un ex granatiere, divenuto responsabile per la Fiom della navalmeccanica), il quale stava all’ingresso della sala, col picchetto, a riconoscere senza eccezione alcuna il suo contrassegno. Finiti i lavori i delegati si ritiravano negli alberghi o nei ristoranti in comitiva, senza curarsi dei ragazzi in motorino che facevano la spola per insultarli. Gli alberghi della città non avevano la capienza sufficiente; così i partecipanti erano sparsi anche in località vicine, persino a Messina. Va detto che quasi tutto il gruppo dirigente sindacale di allora (compreso quello di talune federazioni di categoria della Cisl alleate della Fim) aveva voluto essere presente e testimoniare la sua solidarietà ai metalmeccanici. Ma della Cgil non mancava nessuno. Così, c’erano problemi nel garantire un equilibrio per gli interventi nel dibattito, al punto che la Fim pose il veto persino sul dare la parola a Luciano Lama. Nella notte volarono anche alcune coltellate e qualche delegato dovette essere ricoverato in ospedale. La città era in stato d’assedio; ovunque spuntavano poliziotti e carabinieri. Ma tanti erano anche i componenti del servizio d’ordine “rosso”. Il momento più delicato era atteso alla fine del secondo giorno di Convegno. In quelle stesse ore “Boia chi molla” aveva convocato un comizio di Ciccio Franco a trecento metri dal luogo dell’iniziativa sindacale. Fu deciso, allora, di evitare in ogni modo il contatto. Il Convegno terminò anticipatamente alle 14 e tutti si ritirarono negli alberghi. Il pomeriggio, per fortuna, fu battuto da un violento temporale. E non accadde nulla. I sindacalisti si recarono a dormire presto: i primi treni dalla Sicilia e dalla Puglia erano attesi all’alba; poi sarebbero arrivate le “truppe scelte” del Nord. Erano attesi centinaia di pullman da ogni dove. Decine di finti “cacciatori” (naturalmente armati) erano dislocati all’uscita dalle Autostrade e proteggevano il transito dei pullman lungo la viabilità locale e fino al loro arrivo nel punto di concentramento in città. La “macchina” organizzativa era pronta per affrontare il D Day. Purtroppo, accadde l’imprevedibile. Nel cuore della notte (tra il 21 e il 22 ottobre) arrivò la notizia che erano scoppiate delle bombe contro il treno degli emiliani dalle parti di Latina (si seppe dopo che si trattava di Cisterna). Nell’albergo che fungeva da quartier generale si ritrovarono in pochi minuti i “capi”: Lama, Scheda, Trentin, Ingrao, Carniti, Benvenuto e gli altri. Le notizie erano frammentarie: allora non c’erano i cellulari. Una bomba era scoppiata sulla linea ferroviaria; per fortuna non c’erano stati morti e feriti gravi. Il treno dei valorosi emiliani era fermo ed attendeva ordini. Bisognava decidere che fare. Nel gruppo si confrontarono due tesi: far proseguire i convogli o fermarli per svolgere una manifestazione a Roma. La discussione fu sbloccata quando si seppe che i compagni “bombardati” avevano deciso di proseguire (li guidava Giorgio Ruggeri, un "piccolo grande uomo" che ci ha lasciato da pochi mesi); la Direzione delle FFSS – o gran bontà dei cavalieri antichi ! – aveva garantito di far precedere i convogli da treni-civetta. Anche i ferrovieri furono meravigliosi in quella circostanza; diedero una prova impareggiabile di coraggio, abnegazione e senso democratico. Alle 4 del mattino la circolazione era ripresa. Ci fu appena il tempo per uno scampolo di sonno, poi i sindacalisti presero servizio nei punti loro assegnati nei concentramenti. La situazione apparve subito drammatica. Il traffico dal Nord era rimasto intasato e i treni avevano accumulato un ritardo di molte ore. Sul campo c’erano – e numerose – le delegazioni delle ragioni limitrofe, tanti siciliani e moltissimi calabresi, assai poco controllabili perché presi da una voglia di rivincita dopo mesi di amarezze e di rapporti di forza sfavorevoli. Dal Nord, al levar del sole, erano arrivati soltanto un centinaio di triestini (con un volo charter) e 500 genovesi, sbarcati da una nave. La classe operaia di Genova era la migliore del mondo. Fu una gioia degli occhi vederli sfilare ordinati e saldi come se fossero un Reggimento dei Fucilieri della Regina, con tanto di pifferi e cornamuse in testa. Ma si rischiava di non controllare la situazione: mancava completamente un servizio d’ordine sperimentato. Il problema era quello di controllare i militanti sindacali, non tanto gli “altri”, gli avversari, i “neri”, che pure avevano disseminato il percorso della manifestazione di barricate (invero piuttosto sgangherate) a cui era stato appiccato il fuoco. Tra il gruppo dirigente ritornò l’incertezza. In un primo momento si pensò di restare lì nel piazzale, rinunciando al corteo. Questo orientamento venne comunicato al Questore. Ma la decisione provocò una vera e propria ribellione dei lavoratori che non vollero sentire ragioni di sorta. Fu Rinaldo Scheda (un altro ‘’grande’’ dimenticato) il primo a rendersi conto della situazione. Avvicinò Lama, che sembrava ancora incerto, e gli disse: “Luciano, se c’è da fare a botte, non possiamo lasciare i lavoratori da soli. Se rinunciamo, questi vanno lo stesso. Non li ferma nessuno. Se scoppia una rissa finisce che ce le diamo tra di noi”. Poi, senza attendere risposta, disse ai dirigenti che stavano lì intorno: “Si va. Lo slogan è: “Avanti col popolo di Reggio !”. Il corteo si mosse preceduto dalla Polizia in assetto antisommossa (prima il Questore aveva preteso il via da Lama) che sgombrò la strada dalle barricate ostili. Intanto il sole era già alto nel cielo, la giornata era luminosa. Davanti al corteo dei lavoratori si apriva una via diritta e lunghissima. Da un lato, sulla sinistra, stradine perpendicolari che si inerpicavano in una leggera salita; dall’altro, a destra, il lungomare. Da ambedue le parti, case piuttosto basse (al massimo un piano o due) con terrazze e balconi su cui erano affacciate intere famiglie. I primi duecento metri furono percorsi con una tensione fortissima. Fino a quando il corteo mutilato non arrivò alle prime case. In tanti applaudivano e lanciavano fiori. I cuori si aprirono: ce l’avevano fatta. Certo non mancarono le provocazioni. Molti facevano il saluto fascista. Dalle viuzze laterali piovevano sassi. Bruno Fernex (il braccio destro di Bruno Trentin) si prese una sassata in uno zigomo che gli lasciò una cicatrice. Ad Adele Pesce, redattrice di Unità operaia, il mensile della Flm, arrivò una pietra su di un piede. Ogni tanto scoppiavano fragorosamente dei petardi. Praticamente non esisteva un servizio d’ordine: quelli che dovevano farlo erano i primi ad inseguire i provocatori lungo il dedalo delle viuzze. Come Dio volle il corteo arrivò nella piazza. In faccia alla stazione ferroviaria, in cui doveva svolgersi il comizio. Gli oratori ufficiali cominciarono a parlare. Con una frequenza man mano più ridotta, però, alla stazione di fronte arrivava un convoglio: i lavoratori scendevano e confluivano nel piazzale. Così ripartiva un altro comizio. Si andò avanti, in questo modo per ore, mobilitando tutti i possibili oratori. Centinaia di lavoratori, che avevano viaggiato tutta la notte e gran parte di quel maledetto 22 ottobre, fecero appena in tempo a scendere dal treno, mettere il naso in piazza, fermarsi un momento ad ascoltare qualche brano di discorso e risalire sulle carrozze per ritornare al più presto. Nel treno proveniente da Roma aveva viaggiato anche Giovanna Marini, cantautrice e militante di sinistra all’epoca piuttosto famosa: venne fatta salire sul palco affinché cantasse – stanca, ma con la solita grinta – alcune delle sue più celebri canzoni. Al gruppo dirigente nazionale le cose andarono meglio. Vasco Butini, il tesoriere della Fiom, solitamente orientato a risparmiare, si era lanciato nel noleggio di un volo charter che riportò, alla fine di quella radiosa giornata, il gruppo dirigente rapidamente a Roma. Sull’aereo Luciano Lama commentò la giornata con queste parole. “È andata bene; ma abbiamo camminato sull’orlo del precipizio”. E tracciò un segno immaginario con la canna della pipa lungo il bordo della poltrona davanti alla sua. Nel tono della voce non c’era alcun accenno di trionfalismo.

 Gioia Tauro, luglio 1970: storia di una strage fascio-mafiosa. Sei morti, decine di feriti e un depistaggio durato decenni. La Freccia del Sud, mezzo secolo fa, segna l'inizio degli attentati ai treni durante la strategia della tensione. Gianfrancesco Turano il 21 luglio 2020 su L'Espresso. Il  22 luglio 1970, dieci minuti dopo le cinque del pomeriggio, la Freccia del Sud partita da Palermo e diretta a Torino si avvicina alla stazione ferroviaria di Gioia Tauro. Il convoglio, formato da diciotto carrozze più un vagone destinato a bagagliaio, decelera nella zona degli scambi di entrata a una velocità poco sotto i 100 km/h. A qualche centinaio di metri di distanza il capostazione Isidoro Mazzù sente «un boato tremendo» e si dirige verso la zona da dove proviene il rumore. «Una colonna di fumo», dichiara il ferroviere, «si è subito innalzata alta dal convoglio deragliato. Una scena apocalittica. Il caos più completo. I passeggeri si buttavano giù dalle vetture, cercavano spasmodicamente di afferrare i loro cari, avevano il viso annerito dal fumo e le carni straziate dalle lamiere». Il resoconto finale è di sei morti, circa 150 feriti dei quali un terzo gravi. Le vittime, di età fra 22 e 68 anni, sono Andrea Gangemi di Palermo, Adriana Vassallo di Agrigento, Rosa Fazzari di Catania, Rita Cacicia di Bagheria, Letizia Palumbo e Nicolina Mazzocchio di Casteltermini. Cinque dei sei morti erano pellegrini in viaggio verso il santuario di Nostra Signora di Lourdes in Francia. Nella lista di orrori chiamata strategia della tensione l’attentato al Palermo-Torino è la prima fra le stragi ferroviarie che l’eversione nera ha perpetrato con la copertura degli apparati statali, impegnati nel conflitto a bassa intensità della guerra fredda.

Storia della rivolta di Reggio Calabria del 1970, altro che mafia…Gioacchino Criaco su Il Riformista il 15 Luglio 2020. La Rivolta di Reggio – 14 luglio 1970 – la più lunga rivolta urbana registrata in Europa, un passaggio quasi sconosciuto nella storia italiana, eppure ebbe un influsso straordinario nella Nazione, i cui effetti si sentono ancora. Ebbe a pretesto la scelta di Catanzaro a capoluogo di Regione, nella fase nascente degli enti regionali. In realtà si capì subito che era una rivolta di popolo: la rivendicazione di una serie infinita di diritti, la volontà di costruirsi un futuro senza emigrare. La libertà. Presto i partiti di sinistra la abbandonarono, lasciando orfani migliaia di manifestanti. Della piazza si impossessò la destra, sotto il nome di un allora sconosciuto sindacalista missino, Ciccio Franco. Da Reggio la rivolta era dilagata nella sua provincia, nella Locride, davvero si respirava un’aria nuova, si credeva in un mondo diverso. A dirlo ora non ci si crede, si va veloce, la maggior parte di chi legge si ferma al secondo rigo presumendo di aver già capito tutto. Si sta in superficie, con la mente, col cuore. Sono tempi di coscienza e conoscenza da pelo d’acqua. Sì, a dirlo adesso tutto sembra uno di quei cunti sdolcinati da braciere d’inverno. Eppure era un tempo in cui il furto era vergogna, il sopruso arroganza e nelle rughe di Africo t’insegnavano a non frequentare i peggiori, a San Luca pulsava la protesta operaia e Platì era la patria del cooperativismo contadino. E la mafia, che c’era stata, che c’era, si mangiava rancorosa il suo spazio, vedeva restringersi il proprio status. E tutti sognavano di far parte di un mondo nuovo, di potersi liberare in un colpo da un medioevo che opprimeva da un tempo infinito. Era il tempo in cui i poveri scoprirono di aver bocca, idee e di poter ambire ai diritti. Altro che mafia, che il suo appeal lo manteneva al massimo per consolare la solitudine dei pochi che si ostinavano a fare i pastori sparsi nell’Aspromonte. C’è stato un tempo in cui i figli si sono rivoltati contro i padri, i fratelli ai fratelli e poi tutti contro amici e compari, fino ad arrivare a lottare un destino che sin lì era apparso immutabile. Ma quando, dall’emancipazione culturale si è passato ai diritti, lo Stato ha scelto. E lo Stato è due cose: un’idea e le persone che lo rappresentano. Le persone che rappresentavano allora lo Stato, da Reggio a Platì hanno scelto la parte peggiore, hanno fatto Istituzione e classe dirigente il potere locale che da secoli opprimeva la povera gente. E i potentucoli hanno scelto paese per paese il peggio, per negare diritti e mantenere privilegi. Contro i diritti richiesti a gran voce è stata costruita una mafia nuova, fatta del peggio del peggio che c’era, si è data impunità, potere, autorevolezza alla feccia più affamata, aiutata con tutti i mezzi a debellare la protesta. Quella feccia ha azzannato al collo i guerrieri migliori e ha incanalato la protesta che restava in una strada puramente criminale. Quella feccia per decenni è stata nutrita, coccolata, protetta da chi rappresentava lo Stato. Nei paesi invece del sogno d’emancipazione si è insediato il bisogno e a ogni bisogno si è dato un referente sbagliato. La cultura del dirittismo ha preso il sopravvento su ogni preesistente principio morale, ha distrutto ogni norma di diritto naturale e ogni forma di solidarietà. E dove più forte era la protesta più forza quello Stato ha dato alla feccia. Non è vero che Africo, Platì, San Luca erano posti peggiori da sempre. Quello Stato, quel notabilato, quella feccia, li hanno fatti diventare. La gente normale, a furia di stare in piazza ad aspettare la cavalleria s’è stancata, ha rimesso le idee in testa e il cuore in petto e se n’è tornata a casa; il suo ricordo è stato completamente cancellato, ma non è che non ci sia mai stata, o che di gente così non ce ne sia ancora. La Rivolta di Reggio non è stata un fatto locale, gli accordi stretti nei suoi meandri hanno ammorbato la Calabria, e l’Italia non ne è uscita indenne.

Quando Aldo Moro salvò l’Italia, storia del luglio ’60. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Il luglio 1960 si è sviluppato come è stato descritto da Claudio Petruccioli e da Fausto Bertinotti. Si sarebbe però risolto in una tragedia peggiore (ci furono comunque manifestanti uccisi dalla polizia in varie città) se non ci fosse stato uno sbocco politico, quello offerto dal Psi con il centro-sinistra. Ciò è sottolineato nella ricostruzione di Petruccioli e in parte anche in quella di Bertinotti. Quello che non ricordano è che quello sbocco alle origini fu costruito non d’intesa, ma contro una parte cospicua del Pci e contro quella parte del Psi che poi ottusamente fece nel 1964 la scissione del Psiup, sulla quale torneremo. In quella vicenda un’autentica stranezza fu il comportamento assai contraddittorio del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Il vero artefice dell’elezione di Giovanni Gronchi contro il gruppo dirigente democristiano fu Pietro Nenni, che si mosse molto abilmente per aggiungere un tassello nella costruzione del centro-sinistra. Lo fece con una complessa manovra parlamentare che vide combinare insieme i voti di tutta la sinistra (Pci e Psi) e di una larga parte del centro-destra (destra democristiana antifanfaniana e missini). Tambroni era un uomo di Gronchi che gli diede l’incarico proprio nella logica di preparare il centro-sinistra. A loro volta sul terreno del gioco tattico e della manovra, la destra democristiana e quella missina non sbagliarono un colpo e ad un certo punto Tambroni, che era un mediocre avvocato di provincia, sfuggì sia alla gestione di Gronchi sia al controllo del gruppo dirigente democristiano che non voleva certo trovarsi in mezzo al decollo di una guerra civile. Ma Tambroni era stato per anni ministro degli Interni e in quel mondo opaco c’erano forze che in nome dell’anticomunismo, ideale che poi nel 1964 si tradusse in antisocialismo assai pratico, erano pronte. Tambroni sfuggì a tutti, non solo al suo originario sponsor Giovanni Gronchi, ma anche al gruppo dirigente democristiano. Sarebbero stati guai serissimi, con tutti quei morti per le strade ma anche con quella mobilitazione della polizia, se Moro non fosse stato in grado di proporre una soluzione di tregua che si fondava sul fatto che per il futuro era possibile una soluzione politica organica di stampo riformista, che era quella del centro-sinistra. Quello sbocco politico non ci sarebbe stato se a suo tempo, cioè dai tempi del rapporto segreto di Kruscev e specialmente dell’occupazione sovietica dell’Ungheria, da un lato Pietro Nenni non avesse rotto con il Pci e ricostruito l’autonomia politica e culturale del Psi e dall’altro lato Riccardo Lombardi, su questo totalmente concorde con Nenni, non avesse costruito, insieme ad Antonio Giolitti, agli amici de Il Mondo e a Ugo La Malfa i punti programmatici dell’eventuale intesa con la Dc, che aveva come punti chiave la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma urbanistica, la riforma della federconsorzi, la riforma della scuola. L’autonomia socialista fu riconquistata non d’intesa, ma contro larga parte del Pci e anche contro un bel pezzo di Psi che non a caso al Congresso di Venezia del Psi nel 1957 impallinò Nenni nell’elezione del Comitato centrale. Fortunatamente prima del luglio del 1960 c’era stato il Congresso del Psi nel 1959 vinto da Nenni per cui lo sbocco politico dal 1960 in poi era possibile, altrimenti l’esplosione del movimento del luglio del ’60 si sarebbe trovato in un tragico cul de sac. Certamente di fronte all’autentica provocazione di un monocolore democristiano con l’appoggio determinante del Msi, ma specialmente all’autentica provocazione costituita dalla convocazione a Genova del Congresso del Msi, nella città ligure si scatenò di tutto: quel pezzo di resistenza partigiana, molto forte in Liguria, che si sentiva “tradita” dalle vicende successive al 1945, i “camalli del porto”, forti nuclei di classe operaia, un’inattesa ribellione giovanile, anche vaste aree di ceto medio intellettuale: tutto ciò – espresso poi in modo icastico dal comizio di Pertini e dalla battuta di Riccardo Lombardi («non c’è il rischio di guerra civile, la guerra civile c’è già») – fece capire al gruppo dirigente democristiano che la coppia Gronchi-Tambroni aveva provocato una situazione pericolosissima per tutti da cui bisognava uscire. Ma se il Psi non fosse stato quello affermatosi (grazie a Nenni, a Riccardo Lombardi, a Fernando Santi e a molti altri) dai Congressi di Venezia e Napoli, ma fosse rimasto quello del 1955, lo sbocco politico non ci sarebbe stato, la situazione si sarebbe presentata senza via d’uscita e l’avventurismo di Tambroni e di tutto un mondo che stava alle sue spalle avrebbe potuto fare anche in presenza di quel movimento danni devastanti. Per capirci, già nel 1955 nel suo Congresso di Torino il Psi aveva parlato di “dialogo con i cattolici”, ma lo aveva fatto mantenendo in piedi il frontismo col Pci e anche lo stalinismo ideologico con effetti politici molto scarsi. Quindi quando si esaminano vicende assai complesse come quelle imperniate sul luglio 1960 bisogna porre in essere quella che Palmiro Togliatti ha chiamato «l’analisi differenziata»: un metodo di analisi che, però, a suo tempo egli ha adottato in modo assai discontinuo, assai serio quando lo ha applicato ai fascisti («il corso sugli avversari», Lezioni sul fascismo), del tutto reticente o addirittura inconsistente quando si è occupato dell’Unione Sovietica. Ma questa ricostruzione deve riguardare non solo ciò che avvenne prima del 1960, ma anche ciò che avvenne dopo, perché la sinistra ha commesso gravissimi errori non solo dopo il 1989, ne ha commessi di gravissimi anche prima. A proposito del centro-sinistra, Bertinotti parla sia delle sue importanti realizzazioni, sia della sua involuzione moderata e del suo fallimento nell’obiettivo di trasformazione della società. A nostro avviso comunque in centro-sinistra per un verso ha salvato la democrazia nel nostro paese, per altro verso ha contribuito a modernizzarlo, per un altro verso ancora è stato segnato da un’involuzione moderata. Esso è stato certamente pieno di contraddizioni e per molti aspetti gli anni ’64-’68 non sono stati brillanti, anche se riforme assai importanti furono fatte nella fase Rumor-De Martino, ma, messi nel conto tutti gli errori del gruppo dirigente socialista nelle sue molteplici articolazioni (Nenni, De Martino, Mancini, Lombardi, Giolitti), dobbiamo anche parlare degli incredibili errori (mi riferisco al Pci) e di qualcosa di molto peggio (mi riferisco al gruppo dirigente del Psiup) posto in essere dai suoi critici e oppositori di sinistra. Rispetto al centro-sinistra all’inizio Togliatti fece una perfetta analisi differenziata: «il centro-sinistra è un nuovo e più avanzato terreno di lotta, il suo sbocco può essere di stampo riformista o risolversi in un’involuzione moderata». Come in tante altre cose (la Fiat, il ’68, il sindacato) Amendola, a nostro avviso, sul centro-sinistra assunse una posizione giusta: egli partiva dal giudizio di Togliatti per dislocare il Pc in uno stretto rapporto con il Psi, La Malfa, con il sindacalismo cattolico. Invece per Ingrao il centro-sinistra era un’operazione di modernizzazione neocapitalista dell’Italia, le sue riforme erano tutte intrinseche al sistema, per cui la contestazione del Pci doveva essere globale. L’analisi di Ingrao era del tutto ideologica e astratta anche per cogliere la dialettica e le contraddizioni reali del centro-sinistra. In questo quadro Ingrao fu del tutto favorevole alla scissione del Psiup. Nella sostanza, poi, quasi tutto il Pci, tranne Amendola, nel corso di quegli anni si spostò sulla linea della contestazione frontale del centro-sinistra nel timore che, se fosse decollato il suo riformismo, il Psi avrebbe potuto modificare a suo vantaggio i rapporti di forza nella sinistra italiana. Così, quando ancora la partita era del tutto aperta sulla caratterizzazione riformista o moderata del centro-sinistra, la sinistra del Psi (quella di Valori e Vecchietti, ma anche di Basso e Foa) fece la scissione e fondò il Psiup nel 1964. Anche a tanti anni di distanza non posso fare a meno di rilevare che si trattò o di un atto di totale ottusità politica o di criminalità politica pura. Per definirla basta ricordare chi la finanziò: il Kgb e l’Eni di Cefis su sollecitazione di Antonio Segni allora in ottimi rapporti personali con Lelio Basso. È evidente che il Kgb lo fece per indebolire il Psi e aiutare il Pci. Quanto a Segni e a Basso chi vide giusto fu certamente il primo. Allora Segni, oltre che presidente della Repubblica, era anche il leader dei dorotei e quindi collocato oltre gli orientamenti della corrente della Dc moderata (tant’è che poco dopo, di fronte al piano Solo, anche Scelba gli disse di non essere per niente d’accordo con lui). Giustamente Segni, attraverso la scissione, voleva indebolire i socialisti e smontare il centro-sinistra riformista. Non sorprendono Valori e Vecchietti, legati al Pcus più dello stesso Pci, sorprende invece Lelio Basso che ai tempi del Psi staliniano fu addirittura perseguitato dagli sgherri morandiani (l’ha raccontato lui stesso nelle sue memorie, dicendo che solo Pertini, Lombardi e Santi lo salutavano e che dovette a Pajetta e ad Amendola se non fu espulso dal Psi, ma comunque escluso dalla Direzione e dal Comitato Centrale lo fu: stiamo parlando di un uomo della storia e dalla storia di Lelio Basso). Probabilmente Lelio Basso era troppo suggestionato dalla storia della Rivoluzione russa: pensava di viaggiare verso la rivoluzione sul treno blindato dell’esercito tedesco e invece, in quella circostanza, fu utilizzato dal leader della destra democristiana per indebolire gli odiati riformisti (Nenni e Lombardi). Come si vede, se si adotta davvero non solo per un pezzo il metodo togliattiano dell’analisi differenziata si scopre che la storia italiana non sopporta proprio nessuno schema prefabbricato e neanche la mitologia.

1980, l’autunno gelido della sconfitta operaia. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 23 Ottobre 2020. Era il 1980. È stato ancora d’autunno, ma giusto il contrario di quello del ’69, l’autunno caldo. È stato proprio il suo rovesciamento. Vale la pena di parlarne non solo per ricordare i vinti giusti, quel popolo dei delegati, dei consigli e dei lunghi picchetti davanti ai cancelli della Fiat che provò ad arrestare l’onda della restaurazione che lì si annunciava con i licenziamenti di massa. Sarebbe peraltro assai interessante indagare con loro come vivono oggi il tempo presente, loro che hanno vissuto la storia delle lotte, delle conquiste, del protagonismo degli operai e della speranza di allora. Vale la pena di tornare a parlare dei 35 giorni alla Fiat perché essi hanno segnato uno spartiacque tra due cicli sociali, politici e culturali diversi del Paese, tanto diversi da dover essere considerati opposti tra di loro. Sono in molti a datare la fine del secondo dopoguerra italiano con l’uccisione di Aldo Moro; altri, più attenti all’incidenza in esso del Movimento operaio e del Partito comunista italiano, datano quel passaggio col giorno del funerale di Enrico Berlinguer. Ma è la storia sociale del Paese che elegge quei 35 giorni e la loro conclusione a storico spartiacque. Il caso italiano, cioè il ciclo del cambiamento avviato con la rottura del biennio rosso del ’68-’69, finisce lì, con una rivincita di classe che avvia prima il ciclo della restaurazione capitalistica e poi, su quella base, quello della sua rivoluzione, che giunge sino alla globalizzazione e alla costituzione del capitalismo finanziario globale. Non c’è nulla di deterministicamente necessitato, intendiamo. Se siamo arrivati fin qui, sino a una crisi di civiltà, un processo gigantesco si è messo in moto e ha fatto il suo corso accidentato e non sempre prevedibile. Dentro ad esso, c’è anche la storia recente del nostro Paese e, in questo, della democrazia, delle sinistre e del conflitto sociale. Ma se si vuole rintracciare un inizio per questo nuovo ciclo, per quel che più direttamente riguarda quello che è stato chiamato “il caso italiano”, è proprio in quell’autunno dell’80 a Torino che esso deve essere trovato. Lì c’è la fine di un ciclo lungo un decennio. Per intendere la profondità della rottura, bisogna avere ben presente cosa c’era stato prima di essa. Se il ’68 nel mondo ha aperto la breccia di cui ha scritto Edgar Morin, in Italia il biennio rosso ha avviato il ciclo sociale e politico, incentrato sul conflitto sociale, e in esso sulla centralità operaia, sulla centralità della fabbrica. Il caso italiano, cioè l’attualità e la concretezza della trasformazione del modello di sviluppo, vede realizzarsi la riforma sociale e le conquiste dei diritti civili sulla base di uno spostamento grande del potere a favore dei lavoratori e sul controllo operaio sull’intero processo di lavoro. Questa, l’originalità del caso italiano. Il livello delle conquiste in fabbrica e nella società si è allora portato a un livello tale da divenire un fattore di crisi del modello di accumulazione capitalistica nel Paese, a sua volta attentato dall’esterno, dalla crisi petrolifera e dal costo delle materie prime. È maturato così un aut-aut: o si realizza il cambiamento o il processo in atto si espone al suo rovesciamento. Guido Carli avvisò la borghesia che anche per lei, sebbene in termini opposti, si poneva la stessa scelta radicale. Le istituzioni del Movimento operaio, per ragioni assai complesse e di lunga durata, invece, se lo sono negato e hanno cercato un compromesso fondato sullo scambio tra un freno alla dinamica salariale e una, peraltro impossibile, garanzia occupazionale. La tematica della produttività ha occupato il campo e ne ha travisato la posta in gioco. Per il sindacato sarà la svolta dell’Eur, per il Pci sarà il governo di unità nazionale. I protagonisti diretti della contesa restano così soli ed esposti a quel che Luciano Gallino chiamerà, più tardi, “il rovesciamento del conflitto di classe”, questa volta agito dai padroni contro i lavoratori. Il contesto in cui esso si produce è quello di una gigantesca ristrutturazione industriale che investe interi settori e in altri si approssima, dal carbone alla chimica, dal tessile all’automobile, interi comparti dell’economia sono investiti dal processo. La curvatura drammatica per le popolazioni lavorative che prende il conflitto di classe in tutto l’Occidente negli anni Ottanta non si capisce senza intendere la radicalità di questo processo, in cui si connettono gli aspetti strutturali con quelli soggettivi dello scontro. Lo intuirà alla Fiat il popolo della resistenza ai cancelli, quando inalbererà sulla propria rotta la gigantografia di Karl Marx. La borghesia imprenditoriale, nelle sue punte di lancia, ha fatto suo l’aut-aut e ha compiuto la scelta di andare fino in fondo nello scontro sul campo. Anche nella politica su scala mondiale sono venuti alla luce nuovi leader che si proponevano nell’economia e nello Stato di compiere la stessa scelta, dando avvio alla devastante stagione neoliberista. I loro slogan ne illustrano la portata controriformatrice: Reagan rovescerà la nozione dello Stato, indicandolo non più come opportunità, ma come problema; la Thatcher dirà che la società non è nulla e che l’economia è tutto. La svolta è imponente, le sue conseguenze sociali saranno acutissime. La controriforma non poteva trovare annuncio più potente, ma è sul terreno sociale che la svolta restauratrice prende maggiore evidenza. La contrattazione sindacale viene aggredita direttamente, le vertenze simbolo diventano quello che per il padronato si debbono concludere senza più nessun accordo sindacale, l’impresa nega il compromesso sociale. I lavoratori devono essere sconfitti. Il primato dell’impresa deve essere riconquistato senza più condizionamenti di sostanza. In una fase di qualche anno si consuma un’intera rottura. I 35 giorni alla Fiat sono nell’80, i controllori di volo sono piegati dal governo statunitense nell’81. Nello stesso tempo, i lavoratori degli storici cantieri navali nella Spagna dei Paesi Baschi sono costretti a subire i licenziamenti. Nel 1984, in Gran Bretagna, 140mila minatori, guidati da un grande sindacato come il Num e da un dirigente sindacale come Arthur Scargill, ingaggiano una lotta imponente contro la chiusura di venti pozzi di carbone. È una lotta operaia radicale, una lotta di popolo, come ci ha illustrato poi Ken Loach. I minatori perdono, ventimila lavoratori restano senza lavoro. David Peace, nel suo libro Gb84, dice che «allora si configura il nostro orribile oggi». In Italia, il conflitto, mentre la politica sfugge ancora alla sua radicale portata, tende ancora a non leggerne l’irriducibilità che ormai invece si è fatta rapporto sociale e il conflitto precipita direttamente in fabbrica, alla Fiat. Cesare Romiti, a capo di fatto dell’azienda, assume direttamente su di essa e in toto il compito attribuito all’intera classe imprenditoriale. La Fiat interpreta in prima persona la nuova linea di negazione dell’accordo sindacale e punta direttamente alla conquista della vittoria sul campo. In Italia, è dalla riconquista del comando padronale in fabbrica che si avvia il processo di una nuova affermazione dell’egemonia politico-culturale da parte dell’impresa e si avviano le condizioni per estenderla allo Stato e alla società. Il Neoliberismo da questa parte dell’Europa è cominciato da lì. Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro e intellettuale di rilievo, scrisse allora che la svolta della Fiat è stata «l’unico fatto politico vero degli ultimi dieci anni. Ha cambiato tutto il sistema delle relazioni industriali. Ha messo ko il sindacato. Ha ribaltato il rapporto tra la classe politica e quella imprenditoriale». Cambia, rispetto al nostro, radicalmente il giudizio di valore su quell’evento, ma di un evento in ogni caso si è trattato. In esso c’è a illuminarlo uno specifico sindacale di prima grandezza, ma lo segna dall’inizio della vicenda una contraddizione importante. La realtà in cui esso è immerso è quella che abbiamo schematicamente descritto, è quella dell’aut-aut. Le scelte politiche che guidano da parte istituzionale, da parte del comando d’impresa, i grandi conflitti di lavoro che caratterizzano la fase sono improntati sul rifiuto del compromesso, sul rifiuto dell’accordo. Proprio in questo c’è la novità, che i governi neoliberisti e il nuovo comando dell’impresa, quello che punta alla sua piena restaurazione, affidano alla fase che si sta aprendo. E qui c’è per il fronte operaio la prima contraddizione. Il suo protagonista principe è il sindacato, ma il carattere fondamentale che connota prioritariamente di sé il sindacato è la contrattazione, è la ricerca dell’accordo, quandanche il sindacato si sia fatto soggetto politico, come è accaduto per il sindacato dei consigli, la contrattazione resta la ragione della sua esistenza. Nello specifico sindacale c’era poi, in primo piano, le caratteristiche del tutto originali del conflitto operaio e della storia sindacale a Torino, alla Fiat. E proprio qui si apre una seconda contraddizione. Tutta la storia alla Fiat, prima della rinascita del sindacato, poi dell’affermazione del sindacato unitario dei consigli è fondata sull’articolazione dell’iniziativa operaia, sulla partecipazione diretta degli operai interessati alla definizione degli obiettivi e delle forme di lotta. Invece lo scontro dei 35 giorni non può che essere uno scontro centralizzato, perché si gioca sull’accettazione o sul rifiuto del licenziamento di massa. A Torino, alla Fiat la nascita del sindacato dei consigli e la sua crescita con la Slm si è fondata, piuttosto che sulla centralizzazione del conflitto, sulla sua articolazione, su un’articolazione reparto per reparto, lungo l’ispirazione della critica di massa dell’organizzazione capitalistica del lavoro e sull’affermazione del controllo operaio. Parole oggi lontane entrarono a far parte della grammatica di una straordinaria vicenda sociale, politica e culturale. Il gruppo operaio omogeneo, come veniva definito, era alla base di una nuova democrazia, quella sì una forma di democrazia diretta. Termini come “bilanciamento”, “saturazione”, “cottimo”, erano le parole di un rimpossessamento da parte degli operai di un sapere da cui prima erano stati esclusi. I cartelloni che fornivano ai lavoratori la conoscenza del processo produttivo stavano affissi sulle linee, come i libretti stavano nelle tasche dei lavoratori. Le forme di lotta che erano state praticate si erano venute sempre più articolando e differenziando fino all’invenzione della famosa scelta del salto della Scocca. Se l’aut-aut si era venuta proponendo, a livello di società, con l’affermazione del primato delle compatibilità economiche, lo stesso si era proposto a livello di fabbrica, attraverso la questione del potere dei lavoratori sull’organizzazione del lavoro contro la gerarchia aziendale. La festa organizzata dalla lega sindacale a Mirafiori, dopo l’accordo del luglio del ’77, che aveva conquistato finalmente anche alla Fiat la mezz’ora per la mensa, ha indicato, anche simbolicamente, un punto d’arrivo. La Fiat non regge più la sfida e va alla rottura. L’inizio lo realizza con il licenziamento di 61 lavoratori e lavoratrici, accusate senza prova alcuna di fiancheggiare il terrorismo. La Fiat cede così apertamente a un atto antisindacale e di aperta provocazione. Poi c’è l’annuncio della crisi aziendale, e infine c’è la scelta di prospettare i licenziamenti di massa alla Fiat. Una cosa inimmaginabile nella fabbrica e nella città fino al giorno prima dell’annuncio. L’annuncio di 14mila licenziamenti alla Fiat cambia la storia sociale del Paese e cambia la natura del conflitto sociale. La centralizzazione del conflitto diventa a quel punto obbligata, lo diventa ancora di più quando, alla caduta del governo Cossiga, che aveva avanzato una proposta di soluzione di compromesso della vertenza, la Fiat ritira i licenziamenti, ma mette in cassa integrazione a zero ore 24mila lavoratori. In realtà, è un preavviso di licenziamento. L’aut-aut si sposta dalla società al conflitto di fabbrica e ricade interamente sul sindacato e sui lavoratori. Anche la forma di lotta diventa obbligata: o subisci il violento sopruso e la cacciata dalla fabbrica di 24mila lavoratori, con la definitiva divisione tra salvati e persi, o tieni tutti i lavoratori uniti nel solo modo possibile, il solo modo possibile è rimanere tutti fuori dalla fabbrica, è quello di presidiare i suoi cancelli, per provare a ribaltare con la lotta la sentenza del padrone. Non c’era chi non vedesse la terribile difficoltà di quell’impresa, ma è stato un grande merito di quella compagine operaia, quello di aver scelto la via della lotta per loro e per gli altri. Si affacciava, anche nell’automobile, il tempo della fatturazione industriale, ma non si sarebbe dovuto confondere un disegno di lungo periodo dell’azienda per la demolizione del potere di contrattazione dei lavoratori con la crisi aziendale. C’erano, certo, anche problemi seri riguardanti la qualità delle vetture che la Fiat era venuta producendo, ma bisognava vedere che per l’azienda era diventato decisivo cambiare la composizione della compagine lavorativa, cacciando gli inabili, le donne, i combattenti e soprattutto, era diventato per lei decisivo riconquistare il comando, il monopolio del potere in azienda, ponendo fine al tempo in cui l’aveva dovuto condividere con i lavoratori. Quella lotta del popolo ai cancelli alla Fiat ha sfiorato l’impossibile. Ha convinto per esempio il Segretario del Pci, Enrico Berlinguer, a differenza della grande parte del gruppo dirigente di quel partito, che attraverso quella contesa stava riemergendo il grande tema delle radici di classe delle scelte politiche e delle radici di classe di una forza di sinistra. Quella lotta ha dato vita a un’esperienza di resistenza e di solidarietà di classe che resterà per chi, anche nei tempi più diversi e nei luoghi più lontani, riproverà a non accettare l’ingiustizia e il prepotere, anche quando i portatori dell’una e dell’altro sembrano essere invincibili, e in quel momento può persino essere che sia così. Ma non è detto che tutto ciò debba essere considerato ineluttabile, anche perché, quando accade che lo sia, questo può determinare conseguenze sociali, di democrazia e di civiltà, che poi pagheranno in tanti e per tanto tempo. Da noi, questo tempo non è ancora finito.

Il 1980 e il falso mito dei 40mila. Come la Fiat fregò gli operai, il falso mito della marcia dei 40mila. Giorgio Cremaschi su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. Nel 1994 incontrai a Torino alcuni dei partecipanti alla marcia dei quarantamila. La Fiat di Cesare Romiti, in una delle sue periodiche ristrutturazioni con taglio di personale, aveva deciso di liberarsi della preziosa collaborazione di impiegate e impiegati, capi e capetti che il 14 ottobre 1980 avevano manifestato contro la lotta ai cancelli, costringendo il sindacato confederale a firmare la resa. La riconoscenza del padrone non è mai infinita, e quattordici anni dopo migliaia di coloro che avevano sfilato furono dichiarati “esuberi” e espulsi dal lavoro. Finiva così la stagione dei “quadri”, cioè i capetti aziendali, che dopo la sconfitta sindacale alla Fiat sui mass media erano diventati la nuova figura sociale centrale, che la sociologia dominante esaltava al posto degli operai. Era il futuro del lavoro che era sceso in corteo a Torino e la vecchia sinistra della lotta di classe non aveva capito niente, attardandosi a difendere quei dinosauri degli operai della catena di montaggio. Questo fu il motivo guida ideologico che dominò la scena politica e sociale dopo il 14 ottobre 1980, la base delle laceranti autocritiche e delle epurazioni nei gruppi dirigenti sindacali e della svolta a favore delle imprese e del mercato da parte della sinistra. Una manifestazione di crumiri precettati e organizzati dal padrone, amplificata a dismisura nel numero e nel significato dai mass media, cambiava in pochi giorni il Paese e la sua politica, come fu possibile? Quel corteo fu una spallata reazionaria data al momento giusto, che riuscì a colpire con forza un sistema i cui gruppi dirigenti erano già predisposti o rassegnati alla restaurazione padronale e liberista che si stava diffondendo nel mondo. Un atto fortunato, perché proprio in quegli ultimi dei trentacinque giorni nei quali gli operai avevano bloccato la Fiat, il padrone stava per cedere. Cesare Romiti nelle sue successive memorie affermò che la famiglia Agnelli gli aveva concesso tre giorni per chiudere la vertenza, anche a costo di accettare un compromesso con il sindacato. Claudio Sabattini, allora segretario della Fiom responsabile dell’auto, anch’egli confermò che anche dal lato sindacale si raccoglievano segnali che quel compromesso fosse possibile. Perché, è bene ricordarlo, lo scontro non era tra una gruppo industriale in crisi e un sindacato che quella crisi negava. Lo scontro era su COME gestire quella crisi, se con i licenziamenti di massa oppure con la redistribuzione del lavoro e la solidarietà sociale. Anni dopo la Volkswagen, posta di fronte ad una crisi di sovrapproduzione analoga a quella della Fiat, avrebbe concordato la riduzione dell’orario proprio per non licenziare nessuno. Il compromesso era dunque praticabile e possibile, e in Fiat questo compromesso era la cassa integrazione a rotazione tra tutti i dipendenti, invece che l’espulsione definitiva di una parte di essi attraverso la cassa integrazione a zero ore. Che giustamente i lavoratori consideravano un licenziamento mascherato finanziato dallo Stato. Come del resto testimoniavano le stesse posizioni della proprietà, che nel giugno del 1980 in un’intervista a Repubblica di Umberto Agnelli, aveva chiesto la mano libera sui licenziamenti di massa (come Bonomi oggi) e la svalutazione della lira. Beniamino Andreatta, che dopo due mesi sarebbe diventato ministro del Tesoro e avrebbe con Ciampi guidato la svolta liberista nella politica economica separando la Banca d’Italia dal Tesoro, aveva risposto che la svalutazione della moneta non si poteva più fare, perché l’Italia era entrata nel processo di costruzione della moneta unica europea. Nessun accenno ai licenziamenti e così la Fiat si sentì autorizzata a procedere e alla fine delle ferie estive ne annunciò 14000. Dopo alcune settimane di lotta nei suoi stabilimenti e in tutto il Paese, con Berlinguer che agli operai ai cancelli portò l’appoggio del Pci anche se avessero occupato le fabbriche, il gruppo dirigente aziendale capì che non ce l’avrebbe fatta a passare. Allora la Fiat ritirò i licenziamenti, ma subito dopo mise in cassa integrazione a zero ore 24000 persone. Era una mossa feroce e furba, perché da un lato espelleva dal lavoro ancora più persone che con i licenziamenti, dall’altro però provava a dividere i lavoratori, puntando sul fatto che fosse più semplice la solidarietà con chi veniva anche formalmente privato del lavoro, rispetto a quella con chi stava a casa pagato dallo Stato. Ma la mossa non riuscì, la solidarietà e la lotta tennero nonostante tutto e quindi la vertenza si avviò verso quel finale dove avrebbe vinto chi avrebbe resistito un minuto di più. La marcia dei quarantamila spostò la lancetta dell’orologio dal lato del padrone. Era inevitabile? Certo che no, le forze sindacali e democratiche allora erano enormi e in pochissimi giorni centinaia di migliaia di lavoratori avrebbero potuto a Torino controbilanciare la marcia, come inizialmente minacciò Pierre Carniti. Ma fu un istante, perché poi tutto il gruppo dirigente sindacale, e quello del Pci, ebbero paura di essere coinvolti in uno scontro al di sopra delle proprie volontà. Allora, secondo le memorie di Cesare Romiti, Luciano Lama chiamò l’azienda e affermò: abbiamo perso, scrivete voi l’accordo. La cassa integrazione a rotazione non sarebbe certo stata indolore per i lavoratori, ma sarebbe stata un compromesso sociale nel quale le ragioni dell’impresa sarebbero state attenuate e bilanciate da quelle del lavoro. Che invece vennero totalmente soppresse con l’accordo che espelleva per sempre 24000 persone. Il compromesso sociale veniva negato alla radice: chi era fuori perdeva il lavoro, chi era al lavoro perdeva ogni diritto di fronte al potere dell’impresa. L’attuale sistema ricattatorio e spietato contro il lavoro nasceva allora. La successiva gestione sindacale della sconfitta la trasformò in disfatta. I consigli dei delegati e i lavoratori, in drammatiche assemblee, respinsero l’accordo, che però fu dichiarato approvato e firmato. Saltava così quell’equilibrio democratico tra organizzazione sindacale e lavoratori che si fondava sul ruolo centrale dei delegati aziendali, scelti liberamente da tutti i lavoratori tra tutti i lavoratori. Pochi anni dopo, con il taglio della scala mobile, i consigli di fabbrica furono definitivamente soppressi. La restaurazione del comando assoluto del padrone nei luoghi di lavoro, la fine del sindacato democratico e partecipato degli Settanta, accompagnarono la svolta liberista sul piano economico sociale, politico e culturale. Gli operai scomparvero da ognuno di questi piani, visto che la marcia dei quarantamila, per il pensiero dominante, ne aveva decretato l’estinzione. Diventava passatista e sovversivo non solo rivendicare i loro diritti, ma persino affermare che gli operai esistessero ancora. Al posto del lavoro, il centro di tutto diventava l’impresa e con l’impresa il mercato, il privato, il profitto. Il mondo liberista ingiusto, senza senso e senza futuro di oggi nasceva da noi con il successo della marcia dei quarantamila. Naturalmente è impensabile che un atto in fondo così limitato abbia potuto produrre effetti negativi così vasti, se non ci fosse stato un sistema predisposto ad amplificarne tutti gli effetti. Se non ci fosse stata una diga già lesionata in molti punti, la sapiente opera di un artificiere non sarebbe stata in grado di farla crollare. La marcia del 14 ottobre 1980 diede il via alla restaurazione del potere degli affari su quello delle persone, così come avveniva in tutto il mondo. Quella restaurazione poteva essere fermata? Probabilmente no. Poteva essere rallentata, attenuata, circoscritta? Sicuramente sì, ma qui fu il successo particolare della marcia: quello di smontare ogni motivazione alla resistenza, di renderla perdente prima ancora di essere esercitata, soprattutto nei gruppi dirigenti del sindacalismo confederale e della sinistra. Uno di coloro che avevano marciato nel 1980, quando fu messo in cassa integrazione nel 1994, mi disse: se avessi saputo cosa sarebbe successo dopo, non avrei partecipato. Non gli credetti molto allora, però oggi è ancora più chiaro che fare i conti con quel golpe sociale fortunato è necessario, per liberarci dalle sue conseguenze che quarant’anni dopo ancora ci fanno male.

·        Il Fumetto sul ’68.

Paulette, il fumetto di Wolinski che descrive la rivolta giovanile del ’68. Fulvio Abbate de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Non si può affermare di avere interamente cavalcato con lo sguardo l’onda lunga della rivolta giovanile del 1968, tra Parigi e Harlem e Tangeri, senza prima aver letto, anzi, visitato proprio con gli occhi l’avventura a china di Paulette, leggendario racconto disegnato: sì, un fumetto d’autore, opera feticcio realizzata a quattro mani da Georges Wolinski e Georges Pichard. E ora pubblicato da Oblomov Edizioni (euro 23). La nostra eroina, decisamente incline a una nudità prorompente, Paulette, è una ragazza, mi correggo, assai di più: una giovane ereditiera, rampolla di famiglia miliardaria con vista sul Boi de Boulogne, sorta di spermatozoo d’oro di Avenue Kléber, tra Arco di Trionfo e Madelaine, con spiccate, dichiarate, piccate simpatie doverosamente radical chic. Una irresistibile “gauchiste”, pronta a dondolare insieme ai suoi fianchi irresistibili tra i trotskisti della Ligue communiste révolutionnaire di Alain Krivine e i maoisti della Gauche prolétarienne con Dominique Grange, già caschetto biondo pop, che infine canta Les Nouveaux Partisans. E così via senza omettere gli echi del situazionismo. Il racconto, il vangelo erotico di Paulette, se osservato nel suo insieme di sarabanda, è la summa estiva e fantasmagorica di un decennio di rivolte giovanili che si accompagna alla più profonda memoria letteraria e grafica. In filigrana, si intuisce l’epopea mondana della Madrague di Brigitte Bardot a piedi nudi tra i vicoli di Saint-Tropez, le suggestioni della prosa filosoficamente infuocata del Marchese De Sade pubblicata dall’editore Jean-Jacques Pauvert a prezzo di processi e denunce per oscenità e blasfemia, forse anche la perfida Milady dei Tre moschettieri. Una Justine trasfigurata in bomba erotica e così pronta ad affiancarsi alla controcultura letteraria e visiva delle barricate del maggio nel Quartiere Latino: tra manifesti, arredi, abiti, cappelli piumati, motociclisti borchiati, trafficanti di fanciulle, vecchi bavosi, carcerieri, ogni cosa trasfigurata in una sorta di Art Nouveau rivisitata nel boudoir rivoluzionario. Paulette, sia pure a suo modo, nel tempo del “nude look” di Jane Birkin e del cestino di vimini sotto braccio come accessorio smart, va detto ancora, è decisamente collega, corrispondente, concessionaria parigina della creatura di Guido Crepax, la fotografa Valentina Rosselli, doppio a sua volta di Louise Brooks. Paulette tuttavia rinuncia all’evocazione onirica rarefatta per affermare decisamente, manifestamente, esplicitamente la propria irresistibile provocatoria essenza carnale. In Paulette sembra di ravvisare sia la letteratura tra “nero” e “gotico” del Monaco di Lewis, ma anche la pagina libertina, fino a giungere ai versi di Serge Gainsbourg che, ragionando proprio di B.B., giunge a definirla «la mia Rolls». Così tra prorompenza fisica ed esplicito miraggio erotico in un ideale villaggio turistico intitolato Ras-le-Bol-Ville, dove la traduzione viene da sé. Di Wolinski tutti noi, ricordiamo il disegno essenziale, pochi tratti a restituire i fianchi, una bocca di ragazza, accanto alle sue intemerate sulla politica nelle pagine di Charlie Hebdo e Hara Kiri, e ancor prima Action e perfino Rouge, per poi approdare a l’Humanité, al tempo di Marchais. Un perenne pendolarismo tra sesso e politica, che tuttavia nel caso di Paulette lascia da parte il segno “stenografico” (che lo fa assimilare al compagno di strada Reiser) per creare figure femminili ciclopicamente desiderabili, forse addirittura “bambole” del desiderio; non a caso, lo stesso Wolinski, proprio negli anni di Paulette, realizzerà delle piccole “poupée” a immagine e somiglianza di se stesso e della sua amata Maryse. Paulette sta alla storia delle “bande dessinée” come Le mille e una notte alla letteratura, con in più lo spirito di un manifesto della rivolta surrealista. Buon viaggio, meglio, buon trip, tra le sue pagine.