Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
INDICE PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Essere Aldo Moro.
I Nemici di Aldo Moro.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Essere Giulio Andreotti: il Divo Re.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Socialismo e scissioni.
La Biografia di Craxi.
La Ricorrenza della morte.
Craxi grande Statista. Dalle Stelle alle Stalle.
Craxi ed i Comunisti.
Craxi e l’impunità dei comunisti.
Craxi e l’ombra delle influenze esterne.
Craxi ed i Socialisti.
Craxi ed i Fascisti.
Craxi e Berlusconi.
Craxi e le Donne.
Craxi e la Famiglia.
Craxi ed i giornalisti amici.
Craxi ed i giornalisti nemici.
Craxi ed il finanziamento della Politica.
Craxi e Mani Pulite - Tangentopoli.
Prima della Morte.
Essere Bettino Craxi.
La pellicola su Bettino Craxi.
Ridateci i Leaders, anche se lupi famelici.
Non era Mafia, ma Tangentopoli Siciliana.
Quelli che…al tempo di Tangentopoli.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Imperituro.
Berlusconi e la Famiglia.
Berlusconi e le Donne.
Berlusconi e la Giustizia.
Berlusconi e la Mafia.
Berlusconi e l’Arte.
Chi lo ha accompagnato.
Quelli che l’hanno abbandonato.
Quelli con Problemi Giudiziari.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ai Tempi del Nazismo.
Quando arrestarono Garibaldi.
Dopo il Nazismo.
Prima del Fascismo.
Socialismo e scissioni.
L’Alba Rossa del Fascismo.
Le Corporazioni. Ossia: Il Sindacato del fascismo rosso.
I nemici del Duce.
I Peccati del Duce.
Mussolini ha fatto cose buone.
L’8 settembre: corsi e ricorsi storici.
Le Partigiane liberali che lottarono per un'Italia non rossa.
Il Vate: non era Fascista.
I Figli del Duce.
Dio, Patria, Famiglia Spa.
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Essere Aldo Moro.
Nicola Rana, il fedele custode dei segreti di Aldo Moro: nelle sue mani l'ultima lettera. Le parole finali: «Sapevo che non sarebbe finita bene». Giuseppe Mazzarino il 06 Settembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nicola Rana, scomparso venerdì all’età di 86 anni in Taranto, dove si era ritirato in giugno, ammalato, è stato a lungo il depositario dei segreti politici e delle confidenze private di Aldo Moro, del quale fu per 25 anni - fino alla strage di via Fani, ai 55 giorni ed all’assassinio del presidente della Dc da parte delle Brigate rosse - il capo della segreteria particolare. Accanto a Moro, del quale era anche assistente nella cattedra di Diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, negli anni del governo (presidenza del Consiglio dei ministri, ministero di Grazia e Giustizia, della Pubblica istruzione, degli Esteri) e del partito (segretario nazionale della Democrazia cristiana, poi suo presidente), Rana fu tra i pochissimi «amici di Moro» a non tradire lo statista nei giorni convulsi della prigionia di Moro nel «carcere del popolo» dei terroristi. Fu a lui ricevere, nello studio di Moro in via Savoia, la telefonata dei brigatisti che indicavano dove trovare le prime lettere dalla prigionia del leader Dc; o perlomeno le prime che le Br fecero recapitare: una indirizzata alla moglie Eleonora, una al ministro dell’Interno Cossiga, la terza proprio a Rana. E fu lui a ricevere l’ultima delle missive di Moro, prima della spietata esecuzione. Rana si adoperò in ogni modo per istituire un canale di comunicazione fra le Br e Moro loro prigioniero da un lato, governo e partito dall’altro; ma anche a cercare di costruire un ancor più complesso contatto biunivoco fra Moro e la sua famiglia. Purtroppo non vi riuscì.
Anche su quanto accaduto durante i 55 giorni Nicola Rana ha mantenuto uno stretto riserbo, mai divagando rispetto a quanto richiestogli nelle commissioni d’inchiesta. E soprattutto non ha mai fatto parola, se non per confermare pochi tratti caratteriali del «presidente», peraltro a tutti noti, del Moro privato. L’avrebbe considerato scorretto in assoluto, volgare da parte di chi di Moro era stato davvero amico e confidente. Avvocato, giornalista pubblicista, allievo prima di Moro all’Università di Bari, poi suo collaboratore al ministero di Grazia e Giustizia quindi assistente ordinario nella cattedra di Moro a Scienze politiche (la sera prima del rapimento, fra le altre cose, aveva discusso col presidente delle lauree alle quali, dopo il dibattito alla Camera sulla fiducia al governo Andreotti, Moro avrebbe dovuto presenziare come relatore), fu in seguito consigliere della Corte dei Conti (nomina governativa, sotto la presidenza Ciampi), della quale era presidente onorario. Chiamato nel 1978 alla presidenza dell’Agenzia giornalistica Italia (Agi), la seconda per importanza delle agenzie giornalistiche italiane, da Pietro Sette, presidente dell’Eni (proprietario dell’Agi), fu brutalmente estromesso nell’agosto 1989 dal presidente dell’epoca, Franco Reviglio, al culmine di una polemica per le pesanti intromissioni di Reviglio stesso nella conduzione aziendale dell’Agi, inclusa la nomina irrituale da parte dell’Eni di un direttore generale dell’agenzia («senza alcun rispetto - denunciò - delle regole giuridiche e del metodo democratico, svuotando di qualsiasi significato la funzione degli organi societari»); una «manovra da caserma», la definì Rana, avvenuta pochi giorni prima dell’assemblea degli azionisti (ovvero l’Eni) dove si sarebbe potuto procedere al cambio al vertice. Nei primi anni ’80 fu consigliere d’amministrazione dell’Edisud, la società privata che aveva rilevato nel 1978 la gestione della Gazzetta del Mezzogiorno dal Banco di Napoli (che rimase proprietario della testata fino agli anni ’90). Prima della nomina nella Corte dei Conti, Nicola Rana è stato a lungo negli anni ’70 ed ‘80 consigliere d’amministrazione del Formez, il Centro di Formazione e Studi per il Mezzogiorno voluto da Sergio Pastore, fondatore della Cisl e poi ministro per il Mezzogiorno, con il compito di formare classe dirigente pubblica e privata nel Sud. Nelle elezioni del 1979 fu candidato dalla Democrazia cristiana nel difficilissimo collegio senatoriale di Taranto: sfiorò l’elezione ed ottenne comunque il miglior risultato di sempre fra tutti i candidati lì presentati dalla Dc. Due anni fa, nel quarantennale del delitto Moro, aveva confidato a Famiglia Cristiana: «Fui il destinatario della prima e dell’ultima lettera del presidente. Nella prima busta, oltre al biglietto per me, c’erano anche una missiva per la moglie e una per Francesco Cossiga. Ricordo che da subito pensai che non c’erano molte speranze perché la cosa finisse bene. Per la verità lo avevo già pensato guardando come era stata assassinata la scorta di Moro. Non dimenticherò mai il corpo a terra di Iozzino, colpito in testa, con il sangue che ancora fluiva sull’asfalto. Mi sono detto che chi era stato capace di un gesto simile difficilmente avrebbe restituito vivo Aldo Moro».
Quando Aldo Moro salvò l’Italia, storia del luglio ’60. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Il luglio 1960 si è sviluppato come è stato descritto da Claudio Petruccioli e da Fausto Bertinotti. Si sarebbe però risolto in una tragedia peggiore (ci furono comunque manifestanti uccisi dalla polizia in varie città) se non ci fosse stato uno sbocco politico, quello offerto dal Psi con il centro-sinistra. Ciò è sottolineato nella ricostruzione di Petruccioli e in parte anche in quella di Bertinotti. Quello che non ricordano è che quello sbocco alle origini fu costruito non d’intesa, ma contro una parte cospicua del Pci e contro quella parte del Psi che poi ottusamente fece nel 1964 la scissione del Psiup, sulla quale torneremo. In quella vicenda un’autentica stranezza fu il comportamento assai contraddittorio del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Il vero artefice dell’elezione di Giovanni Gronchi contro il gruppo dirigente democristiano fu Pietro Nenni, che si mosse molto abilmente per aggiungere un tassello nella costruzione del centro-sinistra. Lo fece con una complessa manovra parlamentare che vide combinare insieme i voti di tutta la sinistra (Pci e Psi) e di una larga parte del centro-destra (destra democristiana antifanfaniana e missini). Tambroni era un uomo di Gronchi che gli diede l’incarico proprio nella logica di preparare il centro-sinistra. A loro volta sul terreno del gioco tattico e della manovra, la destra democristiana e quella missina non sbagliarono un colpo e ad un certo punto Tambroni, che era un mediocre avvocato di provincia, sfuggì sia alla gestione di Gronchi sia al controllo del gruppo dirigente democristiano che non voleva certo trovarsi in mezzo al decollo di una guerra civile. Ma Tambroni era stato per anni ministro degli Interni e in quel mondo opaco c’erano forze che in nome dell’anticomunismo, ideale che poi nel 1964 si tradusse in antisocialismo assai pratico, erano pronte. Tambroni sfuggì a tutti, non solo al suo originario sponsor Giovanni Gronchi, ma anche al gruppo dirigente democristiano. Sarebbero stati guai serissimi, con tutti quei morti per le strade ma anche con quella mobilitazione della polizia, se Moro non fosse stato in grado di proporre una soluzione di tregua che si fondava sul fatto che per il futuro era possibile una soluzione politica organica di stampo riformista, che era quella del centro-sinistra. Quello sbocco politico non ci sarebbe stato se a suo tempo, cioè dai tempi del rapporto segreto di Kruscev e specialmente dell’occupazione sovietica dell’Ungheria, da un lato Pietro Nenni non avesse rotto con il Pci e ricostruito l’autonomia politica e culturale del Psi e dall’altro lato Riccardo Lombardi, su questo totalmente concorde con Nenni, non avesse costruito, insieme ad Antonio Giolitti, agli amici de Il Mondo e a Ugo La Malfa i punti programmatici dell’eventuale intesa con la Dc, che aveva come punti chiave la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma urbanistica, la riforma della federconsorzi, la riforma della scuola. L’autonomia socialista fu riconquistata non d’intesa, ma contro larga parte del Pci e anche contro un bel pezzo di Psi che non a caso al Congresso di Venezia del Psi nel 1957 impallinò Nenni nell’elezione del Comitato centrale. Fortunatamente prima del luglio del 1960 c’era stato il Congresso del Psi nel 1959 vinto da Nenni per cui lo sbocco politico dal 1960 in poi era possibile, altrimenti l’esplosione del movimento del luglio del ’60 si sarebbe trovato in un tragico cul de sac. Certamente di fronte all’autentica provocazione di un monocolore democristiano con l’appoggio determinante del Msi, ma specialmente all’autentica provocazione costituita dalla convocazione a Genova del Congresso del Msi, nella città ligure si scatenò di tutto: quel pezzo di resistenza partigiana, molto forte in Liguria, che si sentiva “tradita” dalle vicende successive al 1945, i “camalli del porto”, forti nuclei di classe operaia, un’inattesa ribellione giovanile, anche vaste aree di ceto medio intellettuale: tutto ciò – espresso poi in modo icastico dal comizio di Pertini e dalla battuta di Riccardo Lombardi («non c’è il rischio di guerra civile, la guerra civile c’è già») – fece capire al gruppo dirigente democristiano che la coppia Gronchi-Tambroni aveva provocato una situazione pericolosissima per tutti da cui bisognava uscire. Ma se il Psi non fosse stato quello affermatosi (grazie a Nenni, a Riccardo Lombardi, a Fernando Santi e a molti altri) dai Congressi di Venezia e Napoli, ma fosse rimasto quello del 1955, lo sbocco politico non ci sarebbe stato, la situazione si sarebbe presentata senza via d’uscita e l’avventurismo di Tambroni e di tutto un mondo che stava alle sue spalle avrebbe potuto fare anche in presenza di quel movimento danni devastanti. Per capirci, già nel 1955 nel suo Congresso di Torino il Psi aveva parlato di “dialogo con i cattolici”, ma lo aveva fatto mantenendo in piedi il frontismo col Pci e anche lo stalinismo ideologico con effetti politici molto scarsi. Quindi quando si esaminano vicende assai complesse come quelle imperniate sul luglio 1960 bisogna porre in essere quella che Palmiro Togliatti ha chiamato «l’analisi differenziata»: un metodo di analisi che, però, a suo tempo egli ha adottato in modo assai discontinuo, assai serio quando lo ha applicato ai fascisti («il corso sugli avversari», Lezioni sul fascismo), del tutto reticente o addirittura inconsistente quando si è occupato dell’Unione Sovietica. Ma questa ricostruzione deve riguardare non solo ciò che avvenne prima del 1960, ma anche ciò che avvenne dopo, perché la sinistra ha commesso gravissimi errori non solo dopo il 1989, ne ha commessi di gravissimi anche prima. A proposito del centro-sinistra, Bertinotti parla sia delle sue importanti realizzazioni, sia della sua involuzione moderata e del suo fallimento nell’obiettivo di trasformazione della società. A nostro avviso comunque in centro-sinistra per un verso ha salvato la democrazia nel nostro paese, per altro verso ha contribuito a modernizzarlo, per un altro verso ancora è stato segnato da un’involuzione moderata. Esso è stato certamente pieno di contraddizioni e per molti aspetti gli anni ’64-’68 non sono stati brillanti, anche se riforme assai importanti furono fatte nella fase Rumor-De Martino, ma, messi nel conto tutti gli errori del gruppo dirigente socialista nelle sue molteplici articolazioni (Nenni, De Martino, Mancini, Lombardi, Giolitti), dobbiamo anche parlare degli incredibili errori (mi riferisco al Pci) e di qualcosa di molto peggio (mi riferisco al gruppo dirigente del Psiup) posto in essere dai suoi critici e oppositori di sinistra. Rispetto al centro-sinistra all’inizio Togliatti fece una perfetta analisi differenziata: «il centro-sinistra è un nuovo e più avanzato terreno di lotta, il suo sbocco può essere di stampo riformista o risolversi in un’involuzione moderata». Come in tante altre cose (la Fiat, il ’68, il sindacato) Amendola, a nostro avviso, sul centro-sinistra assunse una posizione giusta: egli partiva dal giudizio di Togliatti per dislocare il Pc in uno stretto rapporto con il Psi, La Malfa, con il sindacalismo cattolico. Invece per Ingrao il centro-sinistra era un’operazione di modernizzazione neocapitalista dell’Italia, le sue riforme erano tutte intrinseche al sistema, per cui la contestazione del Pci doveva essere globale. L’analisi di Ingrao era del tutto ideologica e astratta anche per cogliere la dialettica e le contraddizioni reali del centro-sinistra. In questo quadro Ingrao fu del tutto favorevole alla scissione del Psiup. Nella sostanza, poi, quasi tutto il Pci, tranne Amendola, nel corso di quegli anni si spostò sulla linea della contestazione frontale del centro-sinistra nel timore che, se fosse decollato il suo riformismo, il Psi avrebbe potuto modificare a suo vantaggio i rapporti di forza nella sinistra italiana. Così, quando ancora la partita era del tutto aperta sulla caratterizzazione riformista o moderata del centro-sinistra, la sinistra del Psi (quella di Valori e Vecchietti, ma anche di Basso e Foa) fece la scissione e fondò il Psiup nel 1964. Anche a tanti anni di distanza non posso fare a meno di rilevare che si trattò o di un atto di totale ottusità politica o di criminalità politica pura. Per definirla basta ricordare chi la finanziò: il Kgb e l’Eni di Cefis su sollecitazione di Antonio Segni allora in ottimi rapporti personali con Lelio Basso. È evidente che il Kgb lo fece per indebolire il Psi e aiutare il Pci. Quanto a Segni e a Basso chi vide giusto fu certamente il primo. Allora Segni, oltre che presidente della Repubblica, era anche il leader dei dorotei e quindi collocato oltre gli orientamenti della corrente della Dc moderata (tant’è che poco dopo, di fronte al piano Solo, anche Scelba gli disse di non essere per niente d’accordo con lui). Giustamente Segni, attraverso la scissione, voleva indebolire i socialisti e smontare il centro-sinistra riformista. Non sorprendono Valori e Vecchietti, legati al Pcus più dello stesso Pci, sorprende invece Lelio Basso che ai tempi del Psi staliniano fu addirittura perseguitato dagli sgherri morandiani (l’ha raccontato lui stesso nelle sue memorie, dicendo che solo Pertini, Lombardi e Santi lo salutavano e che dovette a Pajetta e ad Amendola se non fu espulso dal Psi, ma comunque escluso dalla Direzione e dal Comitato Centrale lo fu: stiamo parlando di un uomo della storia e dalla storia di Lelio Basso). Probabilmente Lelio Basso era troppo suggestionato dalla storia della Rivoluzione russa: pensava di viaggiare verso la rivoluzione sul treno blindato dell’esercito tedesco e invece, in quella circostanza, fu utilizzato dal leader della destra democristiana per indebolire gli odiati riformisti (Nenni e Lombardi). Come si vede, se si adotta davvero non solo per un pezzo il metodo togliattiano dell’analisi differenziata si scopre che la storia italiana non sopporta proprio nessuno schema prefabbricato e neanche la mitologia.
Che abbaglio tirare in ballo Moro…Marco Follini il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. Moro lanciò una sfida e rivendicò una politica. Non chiese complicità. Quella volta, in difesa di Luigi Gui sull’affare Lockheed, Moro scrisse inizialmente un testo anodino, tutto in punta di diritto, senza concessioni di sorta alla controversia politica del tempo. Fu il suo portavoce, Corrado Guerzoni, che era un consigliere discreto e influente, a convincerlo a dare uno spessore assai più politico e assai più controverso alle sue parole. Così andò, e il giorno dopo, viste le reazioni di mezzo mondo, Moro ebbe il dubbio di avere reagito in modo troppo forte. Punto e a capo. Ora, però, converrebbe evitare che l’eco di quelle parole lontane riempisse il vuoto della nostra attualità politica. Infatti, si può liberamente decidere di affidare Salvini alle cure della magistratura, oppure fargli da scudo in nome di una immunità parlamentare che ha le sue ragioni. Liberamente, appunto. Magari senza confondere gli anni Settanta con i nostri giorni, e il fu presidente della Dc con il leader della Lega. Moro lanciò una sfida e rivendicò una politica. Non chiese complicità. Mentre oggi sembra piuttosto che la ricerca della complicità venga prima del ritrovamento della politica. Questione di tempi, e di uomini. Basterebbe non mescolarli per avere riguardo degli uni e degli altri.
Gli anni del Male: quando eravamo democristiani. Fulvio Abbate de Il Riformista l'8 Novembre 2019. Nella romana cornice di marmo già littorio dell’ex GIL, in largo Ascianghi, a ridosso del non meno rinomato cinema “Nuovo Sacher”, angolo estremo di Trastevere comprensivo di piazzola destinata al parcheggio, luogo di rissa per gli irriducibili spettatori ritardatari di Nanni Moretti, nei giorni scorsi, nella luce incerta di ciò che Pasolini chiamava “Dopostoria”, si è svolto un significativo e decisamente crudele incontro dedicato all’eredità del più fantasmagorico settimanale di satira che l’ormai malconcio Stivale abbia mai conosciuto, Il Male, l’indimenticato. Un dibattito a compendio di una mirabile mostra che testimonia, tra gigantografie di leggendarie “false” prime pagine, disegni e manufatti originali, la ricostruzione del locale della stessa redazione, memorabilia e ogni altro feticcio della satira passata ormai agli alberi pizzuti della repubblica, un momento di assoluta vitalità nella battaglia delle idee e del necessario sarcasmo da contrapporre alle bassezze altrove dominanti dell’informazione. I protagonisti? Da Vincino a Pino Zac, e ancora Angese, Giuliano, Cinzia Leone, Angelo Pasquini, Sergio Saviane in veste di “fiancheggiatore”, Riccardo Mannelli, Vauro, Jacopo Fo, Alain Denis, Roberto Perini, Mario Canale, Vincenzo Sparagna, Jiga Melik, Piero Lo Sardo, Giovanna Caronia, i disegnatori Tamburini e Liberatore, e lo stesso Andrea Pazienza, già allora alle prese con il suo Pertini, fino a Carlo Zaccagnini, figlio di Benigno, in arte, per pudore familiare, Carlo Cagni. Questi i volti contenuti nell’ideale quadreria-albo d’oro dell’avventura che adesso si rinnovella nell’omaggio intitolato Gli anni del Male 1978-1982. A fronteggiare ogni tavola illustrata del sarcasmo trascorso, sotto bassorilievi che ancora adesso innalzano la gloria italica fin dai giorni delle sanzioni, quando Mario Appellius ebbe modo di coniare l’epiteto “Dio stramaledica gli Inglesi!”, ecco ora, irresistibile, indomabile, Paolo Cirino Pomicino, pronto a far rivista di sé tra disegni e ancora tavole; a seguirlo, Beppe Attene, ex direttore dell’Istituto Luce (e già questa, contemplato il luogo già caro al Ventennio, appare come metafora), distintivo massonico fieramente portato all’occhiello; il non meno eponimo Duca Conte radicale Roberto Cicciomessere; Sergio Staino, volto e postura da antico senatore romano, da attesa dei barbari, così come ne prefigurano l’implacabile arrivo i versi di Kavafis; l’esperto di cose disegnate Luca Raffaelli a moderare l’intera matassa, a contestualizzare fatti, azioni ed espedienti perfino drammaturgici orditi, sempre allora, dalla comitiva del Male, infine Filippo Ceccarelli, romano profondo, collezionista di spigolature, uomo saggio e di mondo, pronto a mettere anche lui ordine nell’ordito di un’avventura editoriale che oggi appare antica e insieme struggente per vitalità, per irritualità, per volontà anarco-situazionista, per ascesa editoriale e infine tracollo e rovina, così nel clima trascorso del compromesso storico in attesa del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro da parte delle ottuse Brigate Rosse… Perfino per irriproducibilità. Evocando la falsa prima pagina che annunciava lo scioglimento della Dc Cicciomessere auspica il ritorno del Male che presto «si contrapponga a La Bestia di Salvini». Attene, nostalgia canaglia del Garofano, ricorda invece che «i socialisti avevano più senso dell’umorismo di tutti gli altri». Viene addirittura evocata, come possibile Belfagor dell’evo politico trapassato, la “signorina” Enea, leggendaria segretaria di Andreotti, la si rammenta “in ciabatte” negli uffici di piazza San Lorenzo in Lucina. Andreotti, diversamente dai comunisti, era tuttavia tra coloro che richiedevano le vignette agli autori, così da metterle tra i trofei, accanto alle foto con i capi di Stato. Altre facce e faccine della cosiddetta prima repubblica si ritrovano intanto chiamate in causa, e così affiancate alle attuali per uno spareggio impietoso. Staino, dal suo ideale trono, evoca il Don Basilio, giornale anticlericale post-bellico che visse poche stagioni, Staino, con faccia da Bobo ormai in pensione, racconta ancora di quando, militante nel più oscuro partito marxista-leninista che la nostra penisola extraparlamentare abbia mai conosciuto, il P.c.d’I., stretta osservanza filocinese e addirittura filoalbanese al tempo di Enver Hoxha, reduce da un dibattito politico, ospite, a Treviso, di una “compagna”, chiese a quest’ultima se avesse, per caso, una copia, metti, di Tex Willer, delizie di lettura cui dedicarsi prima di andare a letto, e la infame militante irreprensibile, denunciò la gravità della richiesta al comitato centrale dell’organizzazione. Sfilano gli invitati davanti alla prima pagina di “Paese Sera” che annuncia Tognazzi essere il capo delle Br, il “grande vecchio” per l’amarezza dell’ex socio Vianello che tuttavia concede: «È pazzo, ma lo perdono». Sfila Stefano Disegni davanti ai falsi gialli Mondadori che insinuano una “tisana assassina” per la dipartita di Papa Luciani. Solleva il capo Luca Sossella ascoltando il racconto della rabbia dei repubblicani per il modo in cui il giornale titolò la scomparsa di Ugo La Malfa: «In fondo era solo una tartaruga». Durante il funerale, i militanti dell’Edera bruciarono addirittura le copie del Male davanti alla bara del leader. Paolo Cirino Pomicino, ’O Ministro, monotipo, pezzo unico, a fronte di una richiesta esplicita degli astanti, non si sottrae dal mettersi in posa, lui, andreottiano, proconsole di quest’ultimo nella Campania Felix, eccolo ora accanto al busto di Andreotti, lo stesso che il collettivo del Male si apprestava a piazzare lassù al Pincio, accanto ai simulacri dei padri nobili della storia nazionale, l’irruzione della polizia, capitanata dal commissario Pompò, consentì il sequestro immediato del manufatto marmoreo. Ne seguì perfino una sventagliata di denunce, nella rete cadde anche Roberto Benigni, lì in veste di “madrina” della cerimonia. Quarant’anni dopo, davanti al busto ritrovato, custodito nel frattempo in casa di Vincino, c’è, sorridente, inaffondabile, magistrale, Paolo Cirino Pomicino, qualcuno, poco prima, auspicava la possibilità che “rinasca la Dc”, lui, l’ex ministro del bilancio, già antologizzato ne Il divo di Paolo Sorrentino, nell’immensa interpretazione di Carlo Buccirosso, è lieto anche di mostrarsi accanto alle altre false prime pagine de l’Unità e di Paese Sera. “Basta con la Dc!” e “La Dc abbandona!”, fa intanto eco la seconda. Sogni infranti. C’era una volta la satira, c’è ancora Cirino Pomicino.
Caso Lockheed, 1977: Moro a difesa di Gui. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 9 marzo del 1977, il caso Lokheed (una storia di tangenti sull’acquisto di aeroplani americani) arriva alla Camera. Si tratta di decidere se processare due ex ministri: Luigi Gui, dc, e Mario Tanassi, Psdi. Aldo Moro, giusto un anno prima del suo rapimento, interviene con un discorso formidabile, di impronta davvero garantista, a difesa di Gui, soprattutto, ma anche di Tanassi. Rivendica l’autonomia e l’unicità della politica e il valore dell’impegno politico e dei partiti. Grida: «Non ci faremo processare nelle piazze». Però va in minoranza. I più duri contro di lui sono i comunisti e i radicali. Tanassi e Gui sono rinviati a giudizio davanti alla Corte Costituzionale. Che assolverà Gui e condannerà a 2 anni e 4 mesi di carcere Tanassi.
· I Nemici di Aldo Moro.
Il caso e le menzogne. Tutte le balle sul delitto Moro raccontate da Gero Grassi. Paolo Persichetti su Il Riformista il 13 Novembre 2020. Gero Grassi, l’ex membro della seconda commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro che ha chiuso i battenti nella passata legislatura, è incappato in una nuova querela dopo quella promossa da una coppia di coniugi indicati come i veri carcerieri di Moro nella loro abitazione di via dei Massimi 91, a Roma. A denunciarlo, stavolta è stata la giornalista Birgit Kraatz, corrispondente in Italia per oltre trent’anni delle più importanti testate giornalistiche tedesche. Nella denuncia per «diffamazione aggravata a mezzo stampa e internet» e per altri reati che la procura potrebbe ulteriormente individuare, la giornalista contesta a l’ex parlamentare di aver sostenuto in più occasioni la sua appartenenza al «gruppo eversivo tedesco denominato 2 giugno, noto specialmente in Germania per avere compiuto negli anni 70 atti di terrorismo», insinuando che nel 1978, quando la giornalista abitava a Roma, sempre in Via Massimi 91, avrebbe fiancheggiato «l’attività delle Brigate Rosse durante la prigionia dell’onorevole Aldo Moro», consentendo a Franco Piperno, suo amico, di controllare dalle finestre della sua abitazione l’arrivo nel garage della palazzina del commando brigatista con l’ostaggio. Affermazioni ribadite con ampio risalto in alcune pagine del volume (pp. 143 e 159) Aldo Moro: la verità negata, terza edizione, che Gero Grassi ha pubblicato nel dicembre 2019 col patrocinio della Regione Puglia (scaricabile gratuitamente anche dal suo sito: gerograssi.it). Un racconto grossolanamente falso e inverosimile, protesta la Kraatz che riassume la sua esperienza lavorativa ricordando di essere arrivata in Italia nel 1968 come corrispondente del settimanale Die Weltwoche; di aver successivamente lavorato per la Zdf (il secondo canale della televisione tedesca), nel 1976 per Stern e dal 1980 fino al 1990 per Der Spiegel. In seguito ha collaborato con Rai 3 in occasione del processo politico di riunificazione tedesca. Iscritta alla Spd dal 1974, la Kraatz ha di fatto ha curato i rapporti della socialdemocrazia tedesca con la sinistra italiana, in modo particolare col Pci, intervistando nel 1976 Enrico Berlinguer (è citata nella biografia scritta da Chiara Valentini). Ha pubblicato per Editori riuniti un libro intervista col premier e capo della socialdemocrazia tedesca fautore della Ostpolitik, Willy Brandt, Non siamo nati eroi. Nel corso della sua carriera ha intervistato Helmut Schmidt, Theo Waigel, Oskar Lafontaine e l’intero establishment della politica, della economia e della cultura italiana. Insomma una professionista affermata e molto conosciuta nei circoli della stampa e del mondo politico romano, compagna di Lucio Magri da cui ha avuto una figlia nel 1974. Nella denuncia, Birgit Kraatz precisa anche di «aver sempre abitato da sola in via dei Massimi 91, con la figlia Jessica, all’epoca di 4 anni, e la governante che accudiva la bambina quando era fuori per lavoro», sottolinea inoltre che all’epoca del sequestro Moro «non aveva alcun rapporto sentimentale con il prof. Franco Piperno che aveva conosciuto anni prima durante una intervista». In una intervista a Radio radicale del 22 ottobre scorso, Gero Grassi ha tentato una disperata difesa sostenendo di essersi limitato a riportare quanto sostenuto nella terza relazione della commissione, approvata dalla camera il 13 dicembre 2017 e dunque di non avere colpa se quanto vi era sostenuto non risponde al vero. Un tentativo di trincerarsi dietro l’immunità che protegge i lavori della commissione parlamentare. In realtà, le contestazioni mosse all’ex parlamentare dalla signora Kraatz fanno riferimento ad affermazioni e testi successivi alla decadenza del mandato parlamentare, ma soprattutto reiterate quando ormai era nota e comprovata la loro infondatezza. Nella querela Birgit Kraatz elenca i ripetuti tentativi fatti per informare il presidente della commissione Fioroni dell’errore commesso e chiedere la dovuta rettifica. Avuta notizia di quanto veniva affermato nei suoi confronti in alcune pagine della terza ed ultima relazione della commissione, il 22 febbraio 2018 Birgit Kraatz inviava una prima raccomandata al presidente Fioroni nella quale ricordava tra l’altro che dalle finestre della sua abitazione «l’entrata del garage di via dei Massimi 91 non era né visibile né raggiungibile, come sarebbe stato facile verificare con un semplice sopralluogo». La raccomandata non riceveva risposta. Il 26 aprile 2018 sul quotidiano il Dubbio appariva una intervista a Franco Piperno nella quale erano presenti numerose informazioni che smentivano le affermazioni della Commissione. Il 4 ottobre successivo in una dichiarazione fatta al Senato durante la presentazione del suo libro Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta, Giuseppe Fioroni spiegava che ad agosto 2018 era pervenuta una nuova informativa che escludeva il coinvolgimento della Kraatz nell’organizzazione 2 giugno. L’Ansa del giorno successivo ne riprendeva le parole. Il 18 ottobre 2018 gli avvocati di Birgit Kraatz inviavano una seconda raccomandata al presidente Fioroni contenente un documento della Bundeskriminalamt (Ufficio federale della polizia criminale). La più alta autorità pubblica tedesca in materia di polizia affermava che la signora Kraatz: «non ha mai avuto contati o altro legame col gruppo “2 Giugno” che vadano aldilà dell’attinenza del lavoro giornalistico allora svolto sull’argomento di sinistra in Germania e in Italia». I legali chiedevano anche di correggere i passi errati della relazione riferiti alla Kraatz e di far cancellare i medesimi passaggi dai motori di ricerca di Internet. Nonostante queste importanti rettifiche Gero Grassi rilanciava le sue accuse contro Birgit Kraatz nella terza edizione del suo libro su Moro, accuse che ribadita anche in una intervista all’Agi del 5 marzo 2020. Nel frattempo nessuna richiesta di scuse o gesto di cortesia perveniva alla signora Kraatz da parte dell’ex presidente della Commissione Moro 2. Al contrario, lo scorso 16 ottobre presso la biblioteca e archivio storico del Senato, in occasione della presentazione del libro di Gero Grassi oggetto della querela, Giuseppe Fioroni invece di correggere l’errore sulla Kraatz ribadiva che in via dei Massimi 91 «c’era di tutto e di più… c’era qualche fiancheggiatrice della 2 giugno».
Come siamo usciti dal terrorismo. C’erano gli eroi come Dalla Chiesa e chi strizzava l’occhio ai brigatisti. Danilo Breschi il 27 Settembre 2020 su Culturaidentità. Tra il 1° gennaio 1969 e il 31 dicembre 1987 le vittime del terrorismo furono 491, i feriti 1181 e 14591 gli atti di violenza “politicamente motivati” contro persone e cose. Nel periodo di maggiore virulenza, tra il 1976 e il 1980, gli atti di violenza furono 9673, quindi una media di cinque episodi al giorno. Nel solo 1979 gli atti eversivi furono 2513, il che significa che la media toccò quota sette azioni di violenza politica ogni 24 ore. Nei soli primi tre mesi del 1980 si ebbero 437 attentati e atti di violenza politica, tanto che da gennaio a marzo furono assassinate 27 persone, ferite 94 e 340 i danneggiamenti alle cose. Insomma per circa diciotto anni l’attentato è stato una componente costante della vita pubblica nazionale. Ancora nel 1988 si ebbe l’assassinio del senatore democristiano Roberto Ruffilli e tra 1999 e 2003 gli omicidi di D’Antona, Biagi e l’agente Emanuele Petri ad opera delle “nuove Br”. Il fenomeno terroristico si palesò tra il 1969 e il 1973, seppure nella confusione e nell’incertezza su mandanti ed esecutori, dividendosi spesso su natura spontanea ed autonoma oppure artificiale ed eterodiretta di stragi, sequestri e attentati. Con ministro dell’Interno Taviani e della Difesa Andreotti, nel maggio del 1974 fu creato il primo nucleo antiterroristico all’interno del corpo dei carabinieri per iniziativa del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Questi colse l’aspetto più pericoloso e destabilizzante per le istituzioni dello Stato e la loro tenuta democratica: la “zona grigia”, quell’ampia rete di relazioni e contatti, simpatie e appoggi più o meno concreti, che circondavano il fenomeno della lotta armata. Come si comprende dalle memorie del maresciallo Antonio Brunetti (I 31 uomini del Generale, 2018), gli italiani di ieri e di oggi devono moltissimo a Dalla Chiesa e al suo ristretto nucleo di fidati collaboratori, un drappello di trentuno servitori dello Stato che seppero entrare nella testa dei terroristi, “pensare come loro”, penetrarne le logiche di ragionamento e di azione e così progressivamente sgominarli. L’anno successivo, il 22 maggio 1975, venne approvata la cosiddetta legge Reale, dal nome dell’esponente del PRI, ministro di Grazia e Giustizia nel IV governo presieduto da Aldo Moro. La legge sanciva il diritto delle forze dell’ordine a utilizzare armi da fuoco quando strettamente necessario anche per mantenere l’ordine pubblico. revedeva l’estensione anche in assenza di flagranza di reato del ricorso alla custodia preventiva, misura prevista in caso di pericolo di fuga, possibile reiterazione del reato o turbamento delle indagini. Si potevano effettuare fermi preventivi di quattro giorni, entro i quali il giudice doveva poi decretare la convalida. Fu ribadito che non si potevano utilizzare caschi o altri elementi che rendessero non riconoscibili i cittadini, salvo specifiche eccezioni. Nel 1982 sarebbe poi giunta la legge sui pentiti che contribuì in modo decisivo a scardinare un movimento terroristico che stava mostrando i primi segnali di incertezza e debolezza, di fronte ad una società in via di profonda transizione post-ideologica. La prima crepa dentro la vasta area di simpatie e sostegno attivo al movimento terroristico si ebbe con l’uccisione da parte delle Br dell’operaio e sindacalista comunista Guido Rossa a Genova nel gennaio 1979. Il coraggio nel denunciare un collega affiliato alle Br gli costò la vita. Altro esempio di eroe della nostra democrazia. Proprio quella ultradecennale, travagliata vicenda, piena di violenze e lutti, nonché i suoi prolungati strascichi, induce ad una necessaria riflessione contemporanea. Tra le pieghe della società italiana è circolata a lungo una mentalità refrattaria al senso dello Stato, un’attitudine psicologica anti-istituzionale, permeabile a culture politiche antisistema e apertamente eversive. La tattica adottata fu quella di una risposta graduale, tesa a non alimentare questa temperie ideologica, che una reazione più rapida, diretta e massiccia avrebbe probabilmente finito per convalidare. La scelta dei vertici della Dc e dei suoi alleati seppe tener conto della tesi brigatista, e dell’intero terrorismo di sinistra, che era poi quella dell’antica tradizione anarchico-rivoluzionaria, e poi terzinternazionalista, secondo cui lo Stato “borghese” ha un’essenza autoritaria, un volto “fascista”, che mostra solo se aggredito, nel qual caso si spoglia della maschera legalitaria e garantista rivelandosi per ciò che è, uno Stato di polizia. A ciò si associò una frazione importante della cultura cattolica più radicale, anticapitalistica e terzomondista. Va detto che il mondo della stampa non brillò all’epoca, comprese testate tradizionalmente distanti dall’estrema sinistra. Si avallò a lungo la formula delle “sedicenti” Brigate Rosse, preferendo far rientrare la crescente azione eversiva del terrorismo rosso nelle cosiddette “trame nere”, come se tutto fosse riconducibile a servizi segreti più o meno deviati. La formula “né con lo Stato né con le Br” espresse e sintetizzò tristemente una fase non breve di isolamento di chi operò anche a costo della propria vita per contrastare il fenomeno. Ci furono però anche lodevoli eccezioni e persino vittime del terrorismo tra i giornalisti, come Carlo Casalegno e Walter Tobagi. Proprio la stagione del terrorismo e le modalità con cui ne uscimmo ci suggeriscono alcune considerazioni su pregi e difetti del sistema politico della Prima Repubblica che, sotto molti aspetti, si è protratto sino ad oggi. In primo luogo l’Italia, come e più di altre nazioni europee, deve molti dei successi della propria storia politica all’intelligenza e abnegazione di autentici servitori dello Stato, come Carlo Alberto dalla Chiesa. Il suo stesso nome, ironia della storia, rievoca quello spirito risorgimentale che è filtrato tra le generazioni di uomini e donne che hanno contribuito a creare lo Stato nazionale e a preservarlo di fronte a immani sciagure. In secondo luogo buona parte della fase della Prima Repubblica che va dal centrosinistra in poi si è contraddistinta per una riposta della classe politica sempre più povera di atti di governo coraggiosi e incisivi per evitare l’impopolarità, preferendo modelli distributivi privi di altra strategia che non fosse quella di attutire la conflittualità. Fu questa la linea prediletta dalla DC morotea e andreottiana, con o senza il sostegno del PCI, che sul punto era però sostanzialmente convergente. Strategia che consentì alla maggioranza silenziosa di riprendere fiato e alla società italiana di riassorbire e spegnere negli anni Ottanta l’alta tensione ideologica innescatasi a fine anni Sessanta. Si esaurì l’opzione terroristica, anche per implosione del mondo comunista, ma restò il sottofondo culturale sensibile all’estremismo, che si sarebbe tramutato in antipolitica, giustizialismo e populismo tra anni Novanta e Duemila.
Marco Gregoretti per il suo sito il 23 settembre 2020. Stanno per iniziare i lavori della Commissione Moro. Questo mio articolo del 2001/2002 racconta l’incontro con l’agente del Sid a Praga. Lo chiamavano dottor Franz e tutti credevano che fosse un dentista.
Prologo. Cabras, terra di bottarga di muggine e di spiagge colorate, di boschi impenetrabili a picco sul mare e di cuniculi sotterranei scavati dai Fenici. È la Sardegna dell’oristanese: bella e poco turistica. Un sabato di settembre la sala del museo civico si popola di uomini con facce particolari, segnate dall’esperienza, circospette in ogni minima postura. Nascoste da Ray-Ban neri. Molti di questi, sebbene arrivino da diverse parti d’Italia, in passato si sono già incontrati. Si salutano con battute strane, chiamandosi per sigla. Efisio Trincas, il sindaco di Cabras, sta presentando alcuni scrittori locali. Quando pronuncia il titolo “Ultima missione”, l’autore, Antonino Arconte, e la sigla G-71, quelle facce di agenti segreti, di ex agenti segreti, di uomini del controspionaggio italiano, si contraggono come per trattenere un: «G-71, sei tutti noi!». ”Ultima missione” è il libro di memorie dell’agente segreto scovato due anni fa da GQ. Più di 600 pagine sconvolgenti, con documenti inediti: da Gheddafi a Moro, da Bourghiba a Craxi, da Andreotti a Cossiga, racconta tutte le missioni segrete che lui (soldato della Marina militare, comsubin, gladiatore del super Sid) e altri militari in incognito hanno fatto in giro per il mondo per conto del governo italiano. G71 il suo libro se l’è scritto da solo, si è fatto da solo il progetto grafico, copertina compresa, e l’ha messo on line. Migliaia di copie vendute con il semplice tam-tam. Ammiratori in ogni continente, davvero. Posta elettronica intasata. E uno Stato, quello italiano, che lo perseguita e l’ha “cancellato” perché sa troppo e non vuole stare zitto. Ma questa è un’altra storia…
«Quello è del Sismi…». Mescolato tra i tanti colleghi ed ex colleghi, vicino al buffet offerto dal comune di Cabras, c’è uno che ha l’aria di essere, oltre G71, il pezzo da novanta. Lo capisci da come tutti “gli spioni” si rivolgono a lui. È sicuramente sardo, ma può sembrare arabo o, perfino, non è uno scherzo, tedesco. Parla il dialetto sardo, si esprime in arabo, conosce un tedesco perfetto, il cecoslovacco, l’inglese, il francese e lo spagnolo. Per gli Stati Uniti è laureato in medicina e fa il dentista. Per l’Italia no: è un abusivo. I modi e il look non sono appariscenti, ma si percepisce il carisma. Avvicinarlo, pur essendo in una sala piccola, è difficile. Capita sempre qualcosa sul più bello: uno che lo chiama, un altro che “involontariamente” lo urta e il bicchiere cade per terra, il cellulare che squilla, ma nessuno risponde. È lui, poi, che risolve la situazione: «So che le interessa sapere qualcosa sulle nuove Brigate rosse. Che poi sono le vecchie: non è cambiato nulla». Sussurra: «Sono Franz. Il dottor Franz. Per i servizi segreti di mezzo mondo questo nome di battaglia vuol dire qualcosa. Ma qui c’è troppa gente, non mi fido. Ci vediamo domani ad Alghero». Ma chi è il dottor Franz? «Un bravo dentista», dice lui. Ci vuole proprio una gitarella ad Alghero. Seduti intorno al tavolo della cucina, nell’appartamento di un amico che non c’è, Franz sembra più tranquillo. L’inizio del racconto è assai umano: «Sono entrato nei servizi segreti italiani per amore. Per amore di una donna dell’Est». Fino a quel momento Franz era un mozzo che lavorava sulle navi e guadagnava molto bene per i primi anni Settanta: un milione e mezzo al mese. «D’altronde dovevo mantenere una famiglia numerosa (mamma, due fratelli e tre sorelle), che dopo la morte di mio padre non aveva alcun sostegno».
«Ho visto Franceschini in Cecoslovacchia». Girando per il mondo conosce la figlia di un colonnello della Stasi, che vive in Cecoslovacchia. «Appena rientravo da un viaggio in nave, la raggiungevo al suo Paese. Così ho imparato la sua lingua e soprattutto a muovermi con grande disinvoltura in uno Stato così vicino, ma anche così lontano». Nel 1974 la proposta indecente. «Ero in via Colli della Farnesina, a Roma. Stavo bevendo qualcosa al bar vicino all’ambasciata. Mi avvicinano due tizi che non conoscevo. Che, invece, di me sapevano tutto. Uno era Antonio La Bruna, incaricato dal Sid di ingaggiare personale civile. Non sapevo che fosse la Gladio. Mi chiedono se voglio collaborare. Se voglio entrare nei servizi segreti. “Ci pensi un paio di mesi”, mi dice La Bruna con garbo, “poi mi chiami a questo numero”». Franz è un freddo. Passionale, ma freddo. Gli offrivano un milione al mese fisso per fare quella che lui riteneva una vacanza: vivere nel Paese della sua donna. «Dopo due mesi ho accettato. La Bruna mi ha convocato a Roma, in via XX settembre, presso l’ufficio decimo. E mi ha affidato i compiti: pedinare i terroristi che dall’Italia andavano in Cecoslovacchia per addestrarsi. L’ho fatto per cinque anni. Anche dopo il rapimento Moro. Ogni volta La Bruna mi chiamava da un telefono pubblico. Mi convocava. Mi segnalava tipo di macchina, targa e luogo di partenza… Neanche mia madre sapeva nulla». Per esempio. Il furgoncino targato… parte da Padova alle ore… «Io mi mettevo dietro. Lo seguivo, fino a Linz, alla frontiera austriaca con la Cecoslovacchia. Avevo notizia di chi proseguiva il pedinamento dopo di me, per non rischiare di perdere i terroristi al posto di blocco. Oppure li prendevo io a Ceske Budejovice, la prima città in Cecoslovacchia e gli stavo addosso fino a Brno. I campi di addestramento erano a Carlovi Vari, oppure vicino a Brno, a Litomerice, a ovest di Praga. Ufficialmente erano delle terme. Già, perché magari, dopo qualche rapina fatta in Italia, dovevano riposarsi un po’…». Una bomba! Francesco Cossiga ha appena detto, a proposito delle Brigate rosse, che non esiste alcuna connessione internazionale, che sono un fenomeno soltanto italiano. Ipotesi confermata anche dalle dichiarazioni di Mario Moretti e di Paolo Persichetti, l’ex Br recentemente estradato dalla Francia. Dottor Franz, ma lei è certo di quel che dice? «Io li ho pedinati e fotografati. Anche dopo il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. So da chi compravano le armi e l’esplosivo. Li ho visti entrare nei ristoranti popolari, mangiare senape e würstel. Li ho visti che si beccavano qualche cameriera. Non solo per copertura. Li ho visti parlare con i loro addestratori, tutti agenti del Kgb e con i terroristi della Raf, dell’Eta, e quelli libici. Noi seguivamo i loro. La polizia ceka seguiva noi. Come mai? Direi a Cossiga che ho lavorato per il mio Paese in condizioni difficili: pedinare in Cecoslovacchia un terrorista che ha la copertura del Kgb è quantomeno arduo. Non parlo a vanvera: il materiale scritto e fotografico io l’ho regolarmente spedito in Italia o consegnato ad agenti italiani. Uno, Tano Giacomina, è morto in uno strano incidente. Due mesi fa mi ha cercato Franco Ionta (il magistrato che indaga sul delitto Moro, ndr). Ho parlato con un maresciallo dei Ros, il reparto operativo speciale dei Carabinieri. Ma non è successo nulla». Incredibile: sono documenti che provano l’esistenza di un collegamento tra colonne delle Br e servizi segreti stranieri. E nessuno fa niente. Nomi? «Niet». Franz, dai. «Guardi che è pericoloso. Perché io ho pedinato e seguito gente che non è mai stata arrestata…». Qualcuno di quelli arrestati può dircelo? «Per esempio Alberto Franceschini. L’ho seguito e l’ho segnalato. Quindi non è vero, come è stato detto, che lui arrivava dalla Germania dell’Est. Lui arrivava da Praga. L’ho visto recentemente, in tv. Com’è cambiato: sembra un professore». Franz a Praga prende una casa in affitto da un dissidente: tra i suoi compiti c’era anche quello di aiutare gli oppositori o i perseguitati dal regime a scappare in Occidente. Per farlo rischia la vita. «Un giorno La Bruna mi dice: scusa, ma perché non metti su a casa tua uno studio dentistico come attività di copertura? Avevo molti pazienti. Anche la mia donna. Che essendo figlia di un generale della Stasi, mi dava un sacco di notizie… Per tutti diventai il dottor Franz. In realtà ero il responsabile della base di Gladio in Cecoslovacchia. La parola d’ordine era: ho male al dente numero…».
«Ieri si chiamava kgb, oggi Mafia russa». Questo pezzo di racconto è da shock. Sono le 11 di mattina e Franz si è già fumato mezzo pacchetto di sigarette. Nella sua mente investigativa si susseguono i pensieri. Spegne l’undicesima cicca. E dice secco: «È da un mese e mezzo che hanno ricominciato a minacciarmi. A farmi certi discorsetti via e-mail. Fanno così, “loro”. Poi, bum-bum. E tu sei morto. Come è successo a quei due, D’Antona e Biagi. E Landi, quella specie di hacker che aveva scoperto troppo. Suicidato, ma va’… Io i miei figli voglio vederli crescere in diretta. E non dall’alto dei cieli. Non voglio fare una brutta fine ed essere consolato da un ministro che si dimette. Ora mi sono rotto». Dietro la facciata aggressiva, strafottente e ironica, adesso si legge tanta paura. «Guardi, io lo so per certo: sia D’Antona che Biagi avevano ricevuto un sacco di minacce. Tutti e due stavano indagando sulla provenienza degli attacchi minatori. Avevano scoperto i mittenti. Sapevano chi sono i terroristi e chi li protegge. Ma sono stati fatti fuori». Franz racconta un fatto davvero inquietante che riguarda il presunto strano suicidio (giovedì 4 aprile 2002) del tecnico informatico Michele Landi. «Poco prima di morire aveva mandato un’e-mail a un mio amico che era nei servizi con me. C’era scritto che aveva scoperto la provenienza delle rivendicazioni dell’omicidio Biagi. Arrivavano dal computer di un ministero». Ecco perché ha paura il dottor Franz: lui sa tutto quello che sapevano le tre persone uccise. E forse anche molto di più. Sa per esempio nomi e cognomi. Conosce le connessioni internazionali. Su un fatto il nostro uomo è certo: «Dietro ci sono sempre gli stessi. Ieri si chiamava Kgb. Oggi si chiama mafia russa. Il terrorismo non può vivere senza una potenza alle spalle. E il disfacimento dell’Urss ha fatto sì che fosse messo in vendita l’arsenale di una superpotenza» . “Loro” sarebbero ex agenti del Kgb, che nel frattempo sono diventati miliardari della mafia russa, che partecipano al gioco mondiale della destabilizzazione finanziando e fornendo armi ai terroristi occidentali. «Che agiscono insieme ai terroristi islamici: niente è cambiato. Ho visto documenti esplosivi che lo dimostrano. Come quello che riguarda il mitico Sciacallo. Non ci sono nuove Br, nuova Eta, nuova Ira. Ci sono Br, Eta e Ira. Usano le armi di ieri e l’esplosivo di ieri: i kalashnikov e il Semtex, fabbricato, guarda caso, in Cecoslovacchia. L’unica differenza è che hanno stretto un patto d’acciaio tra loro». Tanta paura? «Sì, ma anche lei deve averne: le ho parlato di fatti che non ho voluto dire neanche ai Ros».
Proiettili, volantini, divise. Dal sottosuolo riemerge il deposito segreto delle Br. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2020. Il segreto viene svelato dal fischio intermittente del metal detector, e dal braccio meccanico che scava tra sassi, terra e arbusti fino a scoprire una lastra di ferro diventata ruggine. Dalle viscere di un bosco nell’alto Lazio, nel cuore della Sabina, riemergono frammenti di storia del terrorismo italiano: documenti e volantini delle Brigate rosse, mangiati dal tempo e dall’umidità; munizioni e proiettili per pistole e mitragliatori; indumenti militari e giubbotti antiproiettile, targhe, timbri e altri reperti di difficile identificazione perché troppo deteriorati. È un deposito clandestino dell’organizzazione che più ha imperversato negli «anni di piombo», interrato da qualche militante quando ancora i brigatisti tentavano «l’attacco al cuore dello Stato»; i documenti leggibili si fermano al 1977, prima del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro. Sono resti della lotta armata che ha insanguinato l’Italia nel secolo scorso, spuntati dal sottosuolo com’è accaduto in passato con i residuati bellici della Seconda guerra mondiale, o le armi dei partigiani durante e dopo la Resistenza. La polizia li ha trovati dopo aver ricevuto una segnalazione e cercato per quasi due giorni, riportando alla luce il materiale probabilmente spostato da qualche covo brigatista nelle vicinanze e occultato per essere recuperato a tempo debito. Ma quel tempo non è mai arrivato, e dopo più di quarant’anni era ancora lì, forse dimenticato pure da chi ce l’aveva nascosto; calpestato nel corso dei decenni da ignari cacciatori di animali e cercatori di funghi, amanti del trekking, villeggianti e abitanti del borgo antico di Poggio Catino e dintorni, durante le loro passeggiate in questa selva di querce.
Digos in azione. I segnali delle apparecchiature e la perlustrazione palmo a palmo, con l’aiuto di una ruspa dei Vigili del fuoco e dei cani delle unità cinofile, hanno condotto gli investigatori della Digos di Roma ad aprire due pozzetti rivestiti di eternit, in altrettante radure in mezzo alle querce, distanti venti metri l’uno dall’altro. Nel primo, custoditi in una busta di plastica, c’erano i documenti cartacei firmati con il simbolo della stella brigatista a cinque punte chiusa nel cerchio: uno scritto nel dicembre ’75 dai «compagni militanti detenuti» nel carcere di Torino; uno del comitato rivoluzionario toscano in data 2 giugno ’77, quando le Br spararono alle gambe di Indro Montanelli e altri nella campagna contro «i giornalisti di regime»; una scheda informativa sul leader democristiano Antonio Bisaglia, completa dell’indirizzo della casa di Rovigo «dove abita con la sorella», il nome dell’autista, i passaggi della sua carriera politica e gli incarichi ricoperti a partire dal 1954; uno schema intitolato «attuale organigramma del potere», che parte dal presidente del Consiglio e arriva al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, all’epoca responsabile della sicurezza nelle carceri, passando per la magistratura. Molti fogli sono illeggibili o attaccati uno all’altro, e servirà il lavoro della Polizia scientifica per provare a separarli e vedere se ancora si può decifrare qualcosa tra ritagli di giornali e pubblicazioni di altro tipo. Assieme al calco in legno di una chiave, per aprire chissà quale porta.
Munizioni e artificieri. Dalla stessa buca, in mezzo all’acqua infiltratasi nel sottosuolo durante gli anni, saltano fuori varie scatole con centinaia di proiettili per armi lunghe, ossidati e arrugginiti, e involucri sigillati con lo scotch da pacchi. Per capire che cosa ci fosse dentro sono arrivati gli artificieri, che hanno analizzato il contenuto ai raggi X, riconosciuto altre cartucce e aperto i pacchetti. Si tratta di proiettili per pistole e fucili, calibro 7,65 e 308, conservati un po’ meglio grazie alla maggiore cura di chi li aveva riposti. Tra i brandelli di una borsa di cuoio, forse da postino, ecco un timbro della motorizzazione civile, vecchi punzonatori per documenti, buste di plastica con altri reperti di difficile interpretazione. Nessuna arma, così come nell’altro pozzetto dissotterrato poco più avanti. Se nel primo il metal detector suonava a causa delle cartucce, qui è per via di una targa svizzera del Canton Ticino, risalente a chissà quando e finita chissà come nelle mani dei brigatisti. Era dentro un bidone con i resti di alcune divise: si distinguono una camicia militare, una tuta da benzinaio con il logo della «Fina», il nero della stoffa forse delle uniformi dei carabinieri (separato c’è anche un fregio con il simbolo dell’Arma), un giubbotto antiproiettile con placche da infilare negli appositi spazi, per proteggere i punti vitali.
Il vecchio covo. Tutto il materiale è stato repertato dagli agenti della polizia scientifica, per essere analizzato capo per capo, alla ricerca di tracce e indizi che possano far risalire con maggiore precisione all’epoca dell’interramento e magari ai brigatisti che all’epoca crearono e riempirono i nascondigli. In questa zona — a Vescovio, quindici chilometri più a nord — nel 1979 venne scoperto un covo delle Br con pistole, mitra, munizioni, documenti e materiale per la prigione di un ostaggio. Chissà se questi due nascondigli, presumibilmente inviolati per oltre quarant’anni, sono collegati a quella base brigatista; e chissà se e quanti altri depositi nascosti dai terroristi sono ancora interrati, da queste parti e altrove. La ruspa dei pompieri e gli uomini della Digos hanno continuato a scavare ancora, in altri tratti limitrofi, ma senza successo. Le ricerche sono finite, l’indagine per provare a svelare il mistero su questi residuati da guerriglia urbana va avanti.
Br, il deposito segreto riemerge dal boschetto con divise e proiettili. Il deposito delle Br è stato scoperto grazie ad una segnalazione in un bosco nell’alto Lazio. All’interno armi e documenti per la "guerra" allo Stato. Gabriele Laganà, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. Erano così ben nascosti sotto terra che per oltre 40 anni nessuno li ha mai rinvenuti. Di tempo ne è passato: chi conosceva l’ubicazione del nascondiglio non li ha più recuperati. Ma oggi sono stati riportati alla luce grazie ad una segnalazione. Non sono oggetti comuni né un tesoro sepolto da banditi bensì armi, documenti e altro materiale in possesso delle Br, le Brigate rosse, negli "anni di piombo". Strumenti che servivano per "l’attacco al cuore dello Stato". Non si sa se siano mai stati utilizzati. Quel che è certo è che il ritrovamento fa ritornare alla mente il periodo più buio della storia recente italiana. Un periodo segnato da una violenza folle condotta dagli estremisti di sinistra e vergato dal sangue di innocenti. Come racconta il Corriere della Sera, il deposito clandestino della spietata organizzazione terroristica è stato scoperto in un bosco di Poggio Catino nell’alto Lazio, nel cuore della Sabina. Un luogo tranquillo dove la natura è la sola protagonista. Eppure qui, tra sassi, terra e arbusti ecco quei frammenti di storia italiana che hanno segnato, nel male, un’epoca. Munizioni e proiettili per pistole e mitragliatori, indumenti militari e giubbotti antiproiettile, targhe, timbri e altri reperti di difficile identificazione perché troppo deteriorati. I documenti leggibili si fermano al 1977. Una sorta di capsula del tempo che contiene oggetti usati, o conservati per essere adoperati, da criminali per la loro guerra allo Stato in nome della "stella rossa". La polizia li ha trovati dopo aver ricevuto una segnalazione. Nonostante l’indicazione, alle forze dell’ordine sono serviti quasi due giorni per individuare il punto esatto dove erano interrati. Nella caccia sono stati impegnati anche i Vigili del fuoco e i cani delle unità cinofile. Poi ecco che gli investigatori della Digos di Roma sono riusciti ad aprire due pozzetti rivestiti di eternit, in altrettante radure in mezzo alle querce, distanti venti metri l’uno dall’altro. Nel primo c’erano alcuni documenti cartacei firmati con il simbolo delle Br tra cui uno scritto nel dicembre ’75 dai "compagni militanti detenuti" nel carcere di Torino. Un altro testo era del comitato rivoluzionario toscano in data 2 giugno ’77 (quando i terroristi spararono alle gambe di Indro Montanelli e altri nella campagna contro "i giornalisti di regime"). Inoltre vi erano una scheda informativa con informazioni dettagliate sulla vita privata e pubblica del leader democristiano Antonio Bisaglia, uno schema intitolato "attuale organigramma del potere" che parte dal presidente del Consiglio e arriva al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, all’epoca responsabile della sicurezza nelle carceri, passando per la magistratura. Molti fogli sono illeggibili. Ma non tutto è perduto. Ora tocca alla Polizia scientifica cercare di individuare qualche altra informazione utile. Poi ci sono le armi. Ecco che dalla stessa buca spuntano diverse scatole con centinaia di proiettili per armi lunghe e involucri sigillati con lo scotch da pacchi. Per capire cosa contenessero sono arrivati gli artificieri che hanno analizzato il contenuto ai raggi X: al loro interno proiettili per pistole e fucili, calibro 7,65 e 308 in uno stato di conservazione leggermente migliore rispetto al resto dell’altro materiale. Dal deposito clandestino sono spuntati anche un timbro della motorizzazione civile, vecchi punzonatori per documenti, buste di plastica con altri reperti mal conservati. Con sorpresa è stata rinvenuta anche una targa svizzera del Canton Ticino: si trovava dentro un bidone con i resti di alcune divise tra cui una camicia militare, una tuta da benzinaio con il logo della "Fina", il nero della stoffa forse delle uniformi dei carabinieri, un fregio con il simbolo dell’Arma, un giubbotto antiproiettile. Ciò fa supporre un buon grado di preparazione dei terroristi. Tutto il materiale è stato repertato dagli agenti della polizia scientifica allo scopo di essere analizzato successivamente. Non va dimenticato che nel 1979 a Vescovio, quindici chilometri più a nord dal luogo di questo ritrovamento, venne scoperto un covo delle Br con pistole, mitra, munizioni, documenti e materiale per la prigione di un ostaggio. Probabile che sparsi in altre zone d’Italia ci siano altri depositi usati dalle Br per nascondere armi e altri strumenti utili per la loro guerra. Al momento non si sa se esiste un collegamento tra questo nascondiglio e quello rinvenuto nella zona a fine anni '70. Forse anche su questo si concentrerà il lavoro degli investigatori. L’odio rosso ha macchiato la terra di sangue innocente ma, per fortuna, non ha trionfato.
Caso Moro, non dimentichiamo cosa (non) fece Berlinguer. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Sul Corriere della Sera del 20 giugno è comparsa un’intervista di Walter Veltroni a Claudio Signorile sul tentativo socialista di salvare Moro facendo compiere allo Stato “atti autonomi” che mettessero le Br in una condizione di difficoltà politica nell’eseguire la condanna a morte che esse avevano proclamato. L’intervista è molto bella per merito di entrambi, dell’intervistatore e dell’intervistato, e rompe un singolare silenzio dei media che aveva circondato l’azione socialista sulla trattativa. In seguito al valore positivo dell’intervista, interloquiamo con alcune affermazioni fatte da Signorile. Il dato di fondo che Signorile e Veltroni non affrontano è il seguente: Aldo Moro non era uno dei tanti dirigenti della Dc. Aldo Moro, dopo De Gasperi, è stato il più significativo esponente della Dc che ha guidato quel partito a fare unitariamente le sue due scelte politiche più importanti dopo quella centrista, cioè prima il centro-sinistra e poi la strategia dell’attenzione nei confronti del Pci con i governi Andreotti di unità nazionale. A un leader politico di quella caratura è stato riservato dallo Stato, dal governo, dagli apparati un trattamento inusitato: prima, ma, cosa ancor più grave, anche dopo l’uccisione di Moro, non c’è stato governo italiano che non abbia “trattato” in caso di rapimenti. Anche dopo Moro infatti, fino ai giorni nostri, lo Stato italiano ha sempre “trattato” spesso pagando riscatti. Addirittura, per preservare l’Italia da futuri atti terroristici, abbiamo liberato terroristi palestinesi che già avevano fatto azioni sul nostro territorio. Quello che provocò “la pazzia” di Moro durante la sua prigionia è stata la lucida consapevolezza che nel suo caso questo criterio non veniva seguito, anzi veniva rovesciato. Non a caso più volte nelle sue lettere egli chiese che venisse richiamato in Italia il colonnello Giovannone che aveva in diverse occasioni messo in atto l’opzione trattativista e che aveva rapporti con tutti i gruppi palestinesi che, insieme ai servizi cecoslovacchi (ricordiamo la battuta di Pertini), avevano rapporti con i brigatisti anche perché li rifornivano di armi. Moro, poi, non poteva sapere che dopo il suo assassinio questa linea della trattativa sarebbe stata interamente ripristinata in primo luogo dalla Dc, come dimostrò tutto quello che ha fatto per salvare Cirillo, un assessore regionale campano che faceva parte del sistema di potere di Antonio Gava. Sul piano internazionale, poi, molti Stati non seguono una linea rigida, ma sono molto pragmatici, come la Germania e Israele, a seconda delle circostanze e degli interlocutori. I più ipocriti sono tuttora gli Stati Uniti: negano in linea di principio come Stato qualunque trattativa e pagamento di riscatto, poi aggirano questi proclami attraverso le assicurazioni private e i contractor. Ma come mai a Moro, e solo a lui, è stato riservato questo trattamento? Sia Veltroni che Signorile tendono a evitare il nodo: fondamentale fu l’atteggiamento del Pci. Berlinguer e Pecchioli furono molto chiari in primo luogo con Andreotti presidente del Consiglio e con Zaccagnini e Galloni, segretario e vicesegretario della Dc: al primo accenno di trattativa il governo sarebbe saltato. Quindi Andreotti non ebbe l’atteggiamento notarile che Signorile gli attribuisce: no, Andreotti fu attivo nell’impedire o bloccare sul nascere ogni ipotesi di trattativa. Giustamente Veltroni ricorda che egli intervenne anche per infilare due parole nell’appello che Paolo VI rivolse ai brigatisti e che sostanzialmente lo vanificò: le due parole furono «senza condizioni». Invece Paolo VI, che dai tempi della Fuci negli anni ’30 aveva con Aldo Moro un rapporto profondissimo, fece di tutto per salvarlo e, disperato, morì qualche mese dopo. Quindi Andreotti remò contro raccogliendo in modo totale l’ultimatum di Berlinguer-Pecchioli (un autentico tandem in quella vicenda), mentre Cossiga, ha ragione Signorile, si mosse tenendo conto della posizione americana di cui, giorno per giorno, si faceva latore al ministero dell’Interno quell’inquietante professor Steve Pieczenik, ingaggiato come “esperto”: ma era un esperto o un controllore/supervisore forse dello stesso tipo di quello o di quelli che, sull’altro versante, diede ordini decisivi a Moretti? Come ricorda Signorile anche tutto il contesto internazionale era contro Moro, non per ragioni personali (è noto che a Kissinger Moro stava proprio antipatico), ma per il tipo di operazioni che egli stava portando avanti: l’ingresso del Pci nell’area di governo in un paese come l’Italia che allora (non è il caso attuale) rivestiva una grande importanza sia in Europa sia nel Mediterraneo. È agli atti la presenza alle lezioni di Moro di un singolare studente di nome Sokolov che attirò l’attenzione dello stesso Moro e del caposcorta Leonardi. Perché anche questo avvenne: Moro e Leonardi prima dell’attacco erano molto inquieti perché avvertirono pedinamenti e altro. Ma non ottennero (da Andreotti e da Cossiga) un’auto blindata mentre non possiamo non dire che la scorta era tecnicamente e quantitativamente inadeguata. Non a caso l’idea originaria dei brigatisti era quella di rapire Andreotti, ma dalle loro “inchieste” ricavarono il giudizio che il presidente del Consiglio era “blindato” e che invece il presidente della Dc era vulnerabile. La dottrina della fermezza impostata da Berlinguer-Pecchioli si tradusse nella prassi della sciatteria e dell’inerzia. Clamoroso il caso Gradoli. Prodi aveva avuto dal suo “piattino” (che probabilmente era il corrispettivo dell’autonomia bolognese di Piperno e di Pace) la “dritta” giusta: se le forze dell’ordine fossero allora arrivate a via Gradoli comunque il rapimento di Moro sarebbe finito molto prima, visto che lì alloggiavano Moretti e la Balzarani e di tanto in tanto passava anche la Faranda. Comunque, è chiaro che, dal lancio del documento apocrifo del lago della Duchessa, scesero in campo altri soggetti che interloquivano per loro conto con le Br. Ciò detto, sarei più cauto di Signorile nella descrizione dei rapporti di forza all’interno del Psi che allora erano molto bilanciati: nessuno, né Craxi né Signorile, aveva in tasca una maggioranza certa. Direi piuttosto che a influenzare molto la situazione interna del Psi sia stato il comportamento del Pci e quello che poi, nel 1980, accadde nella Dc. Pesò molto lo schematismo e il settarismo di Berlinguer. Non vorrei scandalizzare Veltroni, ma a mio avviso, paradossalmente, vista la linea politica che Berlinguer portava avanti nei confronti della Dc e del mondo cattolico, proprio lui avrebbe dovuto sostenere la linea scelta da Craxi per salvare Moro. Nel momento di maggiore difficoltà della Dc, Berlinguer avrebbe dovuto darle una sponda, non metterle il coltello alla gola come invece fece e come teorizzò nelle sue lettere Tatò. Berlinguer avrebbe dovuto anche fare i conti con un dato elementare: tutta la sua strategia si fondava sulla persona di Moro. Senza Moro, nella Dc non andava avanti nulla, a maggior ragione in una Dc prima costretta a rinchiudersi nella linea della fermezza, poi scioccata dall’uccisione del suo leader. Lo stesso schematismo fu adottato dal Pci nei confronti del Psi a partire dal comportamento sull’incarico di formare il governo dato a Craxi da Pertini nel 1979. Personalmente ho il ricordo nitido di un incontro che con Signorile avemmo con Barca e Chiaromonte: «proprio perché la Dc si sta esprimendo contro il tentativo di Craxi è auspicabile una vostra apertura che avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra il PSI e il PCI». Non cavammo un ragno dal buco anche perché Berlinguer su Craxi e su tutti noi aveva gli stessi garbati giudizi espressi da Tatò nei suoi appunti. In effetti proprio Berlinguer scelse di piegare la Dc ad una totale subalternità (ma la Dc non era Galloni) e di marcare il suo giudizio sul Psi guidato da Craxi (una banda di avventurieri della politica). In questo modo Berlinguer diede un contributo decisivo alla determinazione della fase politica successiva, quella del pentapartito e della rottura fra il Psi e il Pc.
Beppe Pisanu: «Per salvare Moro Zaccagnini incontrò Craxi. Come poterono le Br passare inosservate?» Walter Veltroni il 2 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. L’ex dc: «Uno Stato democratico più forte avrebbe accettato la trattativa e poi affrontato le Br». Signorile: «Convinsi Fanfani ad aprire alle Br per salvare Moro. Poi accadde qualcosa». L’onorevole Beppe Pisanu è stato, nel 1978, capo della segreteria politica di Benigno Zaccagnini. È quindi un testimone privilegiato di quei mesi di travaglio e dolore vissuti a Piazza del Gesù.
Che ricordo hai dei giorni del rapimento Moro?
«Li ho vissuti come un’unica interminabile giornata scandita da paure, incertezze, tribolazioni e qualche barlume di speranza».
Zaccagnini come attraversò quel periodo?
«Lo visse drammaticamente perché lacerato: da un lato il desiderio di salvare la vita del suo più grande amico, leader politico del suo partito e dall’altro l’esigenza di salvaguardare lo Stato e di rispondere adeguatamente alla sfida sanguinosa delle Brigate rosse. Un fenomeno che oggi forse abbiamo inquadrato dopo tanti anni di analisi e ricerche, ma che allora sembrava militarmente organizzato e capace di portare i suoi attacchi in tutta Italia, persino durante i cinquantacinque giorni. Era una forza sconosciuta, che aveva consensi evidenti nelle fabbriche, nel mondo della cultura, nei giornali...».
Il tuo 16 marzo? Dove eri, come sapesti la notizia?
«Stavo uscendo di casa per andare alla Camera, quando mi raggiunse la telefonata di una mia segretaria che mi diceva confusamente di una aggressione a Moro, che era stato sequestrato, che c’erano dei morti e di andare subito a Palazzo Chigi dove mi attendeva Zaccagnini. La voce era talmente alterata che mi apparve uno scherzo di cattivo gusto, mi sembrava quasi che la segretaria ridesse, invece stava piangendo».
Perché le Br scelsero il 16 marzo?
«Io credo perché eravamo alla consacrazione parlamentare del progetto politico di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer».
Tu credevi in quel progetto?
«Sì, ci credevo profondamente. Va ricordato che avevamo, col Pci, approcci diversi. Io ovviamente condividevo quello moroteo, la solidarietà nazionale. Berlinguer sottolineava invece l’importanza del compromesso storico come l’esito della riflessione sulla vicenda cilena di Allende, ed esplicitava un richiamo chiarissimo al primo storico compromesso, che era quello della Costituzione. E quel compromesso aveva affascinato Moro. Lui parlava della Costituente con una nostalgia da innamorato. Ricordava i confronti appassionanti, specialmente sui primi tre articoli, tra Dossetti, lui, La Pira da un lato e dall’altro Togliatti, Marchesi, Lelio Basso, Nilde Iotti. E lo ricordava come un periodo politicamente felice, di grandi architetti che diedero vita, nonostante la durezza estrema dei conflitti politici del tempo, alla bellissima Costituzione italiana».
Hai mai avuto la sensazione che ci fosse la reale possibilità che Moro fosse liberato?
«Più che la sensazione, la speranza. E il momento almeno per me più positivo, fu la lettera di Paolo VI agli uomini delle Brigate rosse. Mi illusi che, avendo ottenuto un’interlocuzione così alta, i brigatisti potessero considerare raggiunti gli scopi politico propagandistici della loro impresa e quindi desistere dall’andare oltre. Però al di fuori di quel momento, no, non ci fu mai nulla di così convincente da far sperare nella sua liberazione».
La prospettiva di Moro e quella di Berlinguer non piacevano né agli americani, né ai sovietici...
«Questo era un dato consolidato. Del resto Berlinguer e Moro avevano ricevuto entrambi pressioni veementi, persino minacce. L’uno da Mosca e l’altro da Washington e da almeno altre due capitali dell’alleanza atlantica. Quella operazione politica faceva saltare a gambe all’aria la logica di Yalta, che aveva retto fino ad allora gli equilibri mondiali. E quindi c’erano interessi fortissimi contro questa operazione: dal punto di vista di Mosca avrebbe accreditato l’eurocomunismo, o meglio l’idea berlingueriana del socialismo nella libertà, affrancando definitivamente da Mosca il più grande partito comunista dell’occidente mentre da parte americana si intravedeva il rischio che i comunisti si avvicinassero pericolosamente ai centri di decisione della Nato».
E da questo punto di vista il lago della Duchessa che segnale era?
«Sulle prime al lago della Duchessa ci credemmo un po’ tutti perché era ritenuto un esito possibile. Almeno noi a piazza del Gesù, altri non so».
E poi?
«E poi si scoprì che era un bluff, ma qui parliamo del senno di poi. Io sto cercando di parlare di quei momenti col senno di allora».
Però poi apparve abbastanza rapidamente che era una manovra...
«Era un’operazione orchestrata. È stata rivendicata come un espediente per stanare le Brigate rosse. Ma è lecito dubitare delle intenzioni e dell’efficacia».
Che impressione ti fa che il comitato che indagava attorno a Cossiga fosse composto per la stragrande maggioranza da iscritti alla P2 e che in quei giorni si aggirasse questo singolare consulente americano che sembrava avere a cuore solo il desiderio di vedere Moro morto?
«La scoperta successiva di questi due elementi a me ha provocato grande inquietudine, sapevo dell’ostilità diffusa che c’era in certi ambienti nei confronti della segreteria Zaccagnini e di Moro. Moro ci aveva trasmesso la percezione chiara che nel Paese c’era una destra profonda, annidata negli angoli bui della società e delle istituzioni, contraria ad ogni forma di rinnovamento e pronta ad intervenire con ogni mezzo. Cossiga era un amico di Moro e non aveva nulla da spartire con quel mondo. Certamente fece degli errori e fu lui il primo a riconoscerli quando si dimise da ministro dell’Interno e assumendosi la responsabilità politica di errori e limiti non suoi come quelli degli apparati di sicurezza. Ma da qui a gettare ombre sulla sua rettitudine, ne corre. E ben lo seppero i grandi elettori che, sette anni dopo, lo elessero presidente della Repubblica alla prima votazione».
Le lettere di Moro, fin dall’inizio, vengono fatte passare come totalmente estorte. Invece a leggerle c’è tutto il filo del modo di ragionare, della visione del mondo di Moro. Perché fu fatta questa operazione di cordone, di muro attorno a quelle lettere?
«Parlando sempre col senno di allora, noi avemmo la sensazione che fosse in corso un’azione subdola volta a screditare l’immagine morale e politica di Aldo Moro. Poi la rilettura critica fatta in sedi storiografiche degne di rispetto ha dimostrato che questa operazione le Brigate rosse la fecero veramente, mentendo ripetutamente a Moro e revisionando anche i testi. Questa era allora la nostra preoccupazione. Ma oggi penso che tra i disorientamenti di quei giorni, questo sia stato uno dei più dolorosi. Perché in realtà Moro, a parte i condizionamenti delle Brigate rosse, stava facendo vivere esattamente le idee che aveva sempre sostenuto sul primato della persona umana e sul suo irrinunziabile valore».
C’è una frase nelle lettere di Moro che mi ha molto colpito. In una delle lettere non consegnate e poi ritrovate a Monte Nevoso, ad un certo punto lui dice, te la cito testualmente: «Spero che l’ottimo Giacovazzo si sia inteso con Giunchi». E chi sono Giacovazzo e Giunchi? Erano i due medici che lui si era portato in America e che lo curarono dopo che lui ebbe quel drammatico incontro con Kissinger. Quindi è come se lui stesse dicendo alla moglie che quella era una chiave. È un’interpretazione corretta la mia?
«Non so se è corretta, però è degna di ascolto. I due non si intendevano. Kissinger manifestava rudemente l’insofferenza per Moro. E Moro lo considerava un maleducato. E per uno come lui, che era sempre sorvegliato e gentile, a me suona come un giudizio severissimo».
Lui ti raccontò mai quell’incontro?
«No. Però ne ho sentito parlare dai suoi stretti collaboratori. Corrado Guerzoni ha lasciato testimonianze scritte inequivocabili. Furono incontri duri, dai quali Moro uscì provato, soprattutto quello del G7 di Santo Domingo quando non solo gli americani, ma gli europei, soprattutto i tedeschi, gli fecero capire chiaramente che, con la solidarietà nazionale, sarebbe venuto meno il sostegno dell’Europa all’economia italiana. Il Paese era in gravissime difficoltà: il Pil a meno 4, l’inflazione che marciava verso il 20%, le strade insanguinate dal terrorismo. Gli fecero capire che gli aiuti sarebbero arrivati solo se lui avesse desistito dal progetto politico che stava coltivando. E Moro fu talmente impressionato che esortò i suoi collaboratori a far sapere che stava pensando seriamente di lasciare la politica».
Tu credi alla versione delle Br sull’assassinio di Moro in quel garage di via Montalcini?
«Io credo molto poco a tutto quello che hanno detto i brigatisti rossi. Ho sempre avuto, e ho ancora, l’impressione che abbiano concordato tra di loro una versione comune dell’intera vicenda tacendo più spesso e altre volte mentendo, ma dopo aver concordato silenzi e menzogne anche con loro referenti esterni».
Che quindi esistevano?
«Mi sovviene qui la mia esperienza politica complessiva. Come fa un fenomeno come quello delle Brigate rosse a passare inosservato agli occhi di Servizi segreti oculatissimi e presenti in Italia massicciamente fin dagli inizi della guerra fredda? Non ho nessun elemento concreto per accampare sospetti, penso però che non sia casuale il fatto che terroristi italiani potessero tranquillamente viaggiare da Roma a Parigi, da Parigi al Nordafrica e dal Nordafrica magari in Nicaragua. E che dire di quell’opaca dottrina Mitterrand che consentì a pluriassassini di passare tranquillamente per esuli politici in Francia? Come si fa ad ignorare tutte queste cose? Ripeto io non ho nessun elemento, ma proprio nessuno, per affermare, tanto per essere espliciti, che le Brigate rosse siano state pilotate dall’estero, però mi sembra molto difficile che non avessero collegamenti esterni. E mi spiego perfettamente il fatto che di questo si siano guardati bene dal parlare».
Moretti chiama casa Moro pochi giorni prima dell’assassinio e dice che per evitarlo è necessaria una posizione chiarificatrice di Zaccagnini. Quale fu la su reazione?
«Non si capiva in che cosa doveva consistere la posizione chiarificatrice, c’era molta vaghezza. Quando il Partito Socialista ruppe il fronte della fermezza emerse l’idea che era possibile una qualche forma di trattativa con le Brigate rosse. Quello che ricordo bene è che il 26 aprile Zaccagnini, nonostante i pareri dei capigruppo dc Piccoli e Bartolomei e di altri amici, decise di andare lui da Craxi per chiedergli che cosa esattamente si potesse proporre. Fu piuttosto deluso: Craxi ipotizzò solo la possibilità di concedere la grazia a tre terroristi che non si fossero macchiati le mani di sangue. Questo passo di Zaccagnini suscitò anche critiche da altre parti politiche, dal Partito repubblicano al Partito comunista, che temettero un’intesa tra Craxi e Zaccagnini. Era un tempo di sospetti politici che avvelenavano la ricerca di una soluzione: mentre Pci e Pri temevano una convergenza tra Dc e Psi in casa socialista si temeva invece che l’intesa sulla linea della fermezza tra Zaccagnini e Berlinguer potesse stringersi come una morsa politica sul Partito socialista italiano. Ci furono istanze umanitarie ed esigenze politiche che si intrecciarono ovviamente, talvolta però anche con giochi di più modesta portata».
Come si muoveva in questo labirinto un galantuomo come Zaccagnini?
«In questo intreccio di istanze politiche e umanitarie Zaccagnini tenne una linea rigorosa nel senso che umanamente pensò non bisognasse lasciare nulla di intentato — uso un’espressione che lui dettò a me personalmente — per restituire Aldo Moro alla famiglia e al suo partito. E al tempo stesso si attenne lealmente alle intese che si raggiunsero sulla linea della fermezza nella convinzione politica profonda che non ci fosse alternativa a questa linea. Siamo chiari: l’apertura di una qualche trattativa da parte della Dc avrebbe provocato la caduta immediata del governo e il probabile collasso delle istituzioni già fortemente debilitate. Lasciami aggiungere col senno di poi che uno stato democratico più forte e con una più solida maggioranza parlamentare forse avrebbe accettato la trattativa per la liberazione di Moro e poi avrebbe regolato a suo modo i conti con le Br».
È vero che Leone era disponibile a firmare?
«Per quel che mi risulta al ministero di Grazia e Giustizia si stava studiando il modo di formulare una proposta di grazia senza che ci fosse la richiesta. Si ipotizzava infatti un gesto unilaterale dello Stato, non conseguente ad una trattativa. Si cercò anche di individuare dei brigatisti detenuti che fossero in cattive condizioni di salute. Ed è vero che Leone disse “Ho la penna in mano”».
E la Dc era d’accordo su questo?
«Si lavorò a questa ipotesi ma non fu mai definita perché si percepiva che in tutto questo gran parlare di possibilità di salvezza di Moro, non c’era nulla di concreto. C’erano le sollecitazioni che arrivavano dalle Br e poi le notizie che di rimbalzo giungevano dal Partito Socialista che sembrava avere una sua linea di comunicazione con i brigatisti. Abbiamo appreso dopo che faceva capo a Pace e Piperno. Solo fumi, niente che ci potesse far immaginare a quale gesto avrebbe corrisposto davvero la liberazione di Moro».
Quella di Signorile sull’intenzione di Fanfani di prendere posizione nella riunione della direzione dc del 9 maggio è una ricostruzione che ti convince?
«Non ne sapevo nulla allora e non vorrei far polemiche adesso. Non so cosa Fanfani avrebbe detto in Direzione. La riunione si fece, ma purtroppo fu interrotta perché arrivò la notizia. Arrivò a me. Mi chiamarono al telefono e mi comunicarono che avevano trovato la Renault rossa a via Caetani. Rientrai subito nella sala della Direzione e balbettai qualcosa all’orecchio di Zaccagnini. (A questo punto Pisanu si ferma, commosso). Lui si alzò, pronunziò poche parole. Si fece silenzio e la riunione finì. Sono comunque certo che se Fanfani avesse indicato una via praticabile Zaccagnini lo avrebbe assecondato. Di questo ho la certezza morale».
Voi sapevate che Fanfani stava per fare un discorso di questo tipo?
«No, io almeno non lo sapevo. Può darsi lo sapesse Zaccagnini però negli anni successivi non me ne ha mai parlato. Per la verità era diventato difficilissimo parlare di quelle vicende tra di noi, perché la ferita faceva male davvero. In molti rimanemmo feriti, ma Zaccagnini fu ferito a morte».
Perché la sinistra Dc perde il Congresso dell’80?
«Essenzialmente perché non c’era più Moro. Noi morotei eravamo esattamente l’8,5 per cento della Dc, la corrente più piccola del Partito. Ma Moro era l’equilibratore supremo della vita interna della Democrazia cristiana. Con la sua morte noi zaccagniniani e anche le altre sinistre interne perdemmo la guida vera. La segreteria Zaccagnini era stata una geniale invenzione di Moro, con l’accordo di Fanfani. E tutta l’esperienza di Zaccagnini, fino a via Caetani, fu ispirata dal pensiero di Moro. Zaccagnini era il capo del popolo democristiano, Moro era il leader più prestigioso e aveva già lasciato segni indelebili lungo i primi trent’anni della storia repubblicana. Dalla costituente alla ricostruzione, dal centrismo al centrosinistra e infine alla solidarietà nazionale, Moro fu sempre, all’interno della Dc e nei rapporti con gli altri partiti, l’uomo del dialogo e del confronto. Ma innanzitutto fu un cattolico di profonda fede con un senso alto della laicità della politica e dello Stato. Era stato capace di far evolvere, Dio solo sa con quali resistenze, la politica italiana verso la prospettiva di una democrazia dell’alternanza. Per questo ha pagato. Nessuno può dimenticarlo».
È vero che nel 2006, quando il risultato delle elezioni era incerto, fosti sollecitato, come ministro dell’Interno, a dichiararle non valide?
«Diciamo che ci furono chiacchiere molto confuse da parte di gente che non sapeva che il ministro dell’Interno non aveva alcun potere per interferire sulle procedure elettorali, perché i risultati delle elezioni si proclamano soltanto nelle apposite sezioni delle Corti d’Appello. Non a caso il nostro ordinamento affida alla magistratura e non al ministero dell’Interno la gestione dei processi elettorali. Ci mancherebbe altro, se fosse così saremmo in una dittatura».
Ti chiedo infine di ricordare un momento vissuto con Zaccagnini.
«Un giorno gli chiesi perché mai nel testo di un discorso che doveva di lì a poco pronunciare avesse cancellato per tre volte la parola disoccupazione e l’avesse sostituita con la parola disoccupati. Mi rispose: “Perché disoccupazione evoca astrattamente una questione sociale, mentre disoccupati evoca un padre di famiglia che una sera torna a casa e dice a moglie e figli “ ho perso il posto di lavoro, da domani dobbiamo stringere la cinghia, finché non ne trovo un altro”. Era l’umanità della politica. Era Zaccagnini».
Claudio Signorile: «Convinsi Fanfani ad aprire alle Br per salvare Moro. Poi accadde qualcosa». Walter Veltroni il 20 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. La ricostruzione dell’ex socialista: «Cossiga mi chiamò nel suo ufficio e poco dopo fu informato del ritrovamento del corpo. Mi sono chiesto perché io fossi lì, dei sospetti li ho». Claudio Signorile era, nel tempo del rapimento Moro, vicesegretario del Psi. È stato tra i più impegnati nella ricerca di una soluzione politica che salvasse la vita del presidente della Dc. Per questo incontrò più volte esponenti dell’autonomia romana. Qui racconta la sua convinzione, maturata negli anni. Qualcuno ha accelerato la fine di Moro perché consapevole che la mattina del 9 maggio, alla direzione Dc, Amintore Fanfani avrebbe fatto quell’apertura che le Br, in una telefonata di Moretti alla famiglia Moro, avevano richiesto come condizione per non eseguire l’assassinio dello statista. Signorile aveva convinto nei giorni precedenti Fanfani ed altri esponenti Dc a fare un passo. Con lui torniamo a quelle ore. «Quella che avevamo concordato non sarebbe stata una posizione isolata di Fanfani. Altri, come Donat Cattin, Bisaglia, Emo Danesi mi avevano garantito che avrebbero sostenuto quella linea. Ciò avrebbe prodotto una modifica degli orientamenti precedenti e avrebbe messo le Br in una condizione di difficoltà. E insieme un segno di attenzione per quello che stavano facendo i socialisti. Sarebbe stata una riunione importante, molto importante».
Chi avrebbe potuto sostenere la linea di Fanfani?
«I dorotei non erano amici di Moro, però Bisaglia era amico di un rapporto con i socialisti: in politica si intrecciano le convergenze più complesse. Un comportamento ispirato ad una preoccupazione umanitaria corrispondeva anche, in quel momento, ad una logica politica».
L’impressione che tu avesti dai colloqui con Piperno e Pace fu che questa posizione di Fanfani sarebbe stata sufficiente?
«In quel momento ero convinto di sì. Perché ti dico in quel momento? Perché in questi anni mi sono convinto che Piperno pensasse di sapere delle cose che probabilmente non sapeva. Cosa voglio dire? Che forse il tavolo sul quale si stavano giocando le carte era cambiato. Ecco perché io insisto molto sugli ultimi giorni del rapimento. Dopo il lago della Duchessa io comincio ad avere non dei dubbi sulla buona fede di Piperno che si comportò correttamente, ma sulla reale capacità di orientamento delle decisioni da parte del gruppo cosiddetto politico. Per questo è sbagliato, nel ricostruire le cose, affidare tutto al rapporto nostro con Piperno e Pace. Perché molto probabilmente già allora si era stabilito un intreccio fra il sistema dei Servizi e la realtà del brigatismo».
Stai dicendo una cosa importante...
«Faccio una riflessione: nell’estremismo italiano, all’inizio, noi abbiamo due componenti: il braccio armato delle Brigate rosse al cui interno c’è anche una dialettica e poi Autonomia operaia, Potere operaio, cioè le formazioni politiche. Ad un certo punto, prima del rapimento Moro, avviene una rottura. Autonomia operaia, Potere operaio o comunque il gruppo che si forma, di cui Piperno è uno dei portatori, ha una visione, un obiettivo politico, eversivo ma politico, mentre il braccio armato, le Br, coloro che scelgono la lotta armata, hanno bisogno di un alleato che sia in condizioni di dare loro armi e denaro. È quasi fatale, è una verità storica. Non mi metto neanche a discuterne, è fatale».
Quali Servizi?
«Lo dico per l’esperienza diretta di quegli anni. L’Italia era nel cuore di un sistema di Servizi che l’un l’altro si controllavano, si intersecavano, si combattevano. Ma era un sistema. L’Italia è troppo importante strategicamente. Lo è per il suo essere un Paese Nato, per la sua collocazione nel Mediterraneo, per la presenza di un partito comunista al trenta per cento. Io credo che già nel momento dell’organizzazione del rapimento ci sia stata una forma di sostegno, o di aiuto. Tutta la vicenda dei cinquantacinque giorni va letta con un doppio riferimento: i brigatisti che direttamente, fisicamente, compiono l’operazione — anche con una dialettica interna tra la componente più politica e quella militare — e le forze internazionali intenzionate ad assicurare una determinata evoluzione di quel passaggio storico. Quando avviene il depistaggio della Duchessa è chiaro che quel Sistema sta dando un segnale. È il segnale che è cambiata la gestione. L’ho pensato e poi mi è stato confermato. Un cambio di gestione. Da quel momento tutto scivola rapidamente verso l’assassinio».
E tu cosa fai?
«Cosa potevo fare? Vado avanti. Ho convinto Fanfani a fare il passo. Pensavo, forse ingenuamente, che avessimo, comunque, a che fare con un soggetto politico. Le Br avevano chiesto esplicitamente un gesto chiarificatore della Dc e quello si stava per determinare. Loro potevano anche pensare che comunque l’obiettivo fosse stato raggiunto. Dare un colpo alla solidarietà nazionale, ricevere una legittimazione e delegittimare Moro che, anche libero, sarebbe stato politicamente finito. Ma questo era un atteggiamento politico, invece scattarono altre logiche e altri interessi. In quelle ore pensavo ancora che una posizione della Dc, dopo la telefonata di Moretti a casa Moro, non poteva essere ignorata. Bisognava stringere i tempi. Io continuo a ritenere di essere stato intercettato, quando chiamai Craxi dal telefonino della macchina per raccontargli dell’incontro con Fanfani. Tutti noi eravamo seguiti e ascoltati. Forse, sapere che la Dc si stava muovendo, ha spinto chi lo voleva morto a stringere i tempi. È il grande quesito che mi porto dentro. Dopodiché qualcuno ha sparato».
Che idea ti sei fatto sulle ricostruzioni dell’assassinio in via Montalcini?
«Te lo dico onestamente, qualsiasi ricostruzione io abbia visto fino adesso non riesce ad essere convincente. La ricostruzione fatta dai brigatisti non convince, non è palesemente vera, risulta da tante cose. Ci può essere stato un intervento terzo».
Craxi ad un certo punto dice «È venuto qualcuno da fuori»...
«Un intervento terzo. Se sono vere le cose che ti sto dicendo, perché no? Si ha a che fare con figure tipo Moretti che sono assolutamente subalterne, borderline, forse anche più di borderline. È una situazione in cui i Servizi, diversi, conflittuali ma guardiani dell’equilibrio di Yalta, convergono nella volontà che la vicenda si concluda con la morte di Moro, considerato l’artefice della politica di solidarietà nazionale che nessuno dei due blocchi poteva accettare. Anche se, per esempio tra gli americani, esistevano due posizioni diverse, allora. Più contrario il Dipartimento di Stato, più favorevole, sembra incredibile, la Cia. Io ero andato negli Stati Uniti ad ottobre del ’77. Cerco lì di spiegare le cose: ripeto a tutti una frase apparentemente banale: “Il Partito Comunista Italiano, con Berlinguer, ha preso una posizione importante sulla Nato. Ed è il più grande partito comunista dell’occidente? È un bene o un male che questo avvenga?”. Loro ammettono: “Un bene”. Allora di cosa stiamo parlando?».
Perché secondo te tutti, compreso Maccari in punto di morte, sono rimasti su quella posizione? Cioè perché non c’è mai stata una smagliatura?
«Ti faccio una domanda: perché avrebbero dovuto? Con una smagliatura si riapre tutto. Senza quella smagliatura si chiude tutto. Io preferisco morire non lasciando strascichi dietro di me. Messa così si capisce meglio. Tutto si è chiuso, come una porta blindata. Oggi chi vuole la verità?».
Perché la polizia non ha seguito Piperno e Pace che evidentemente, dopo i colloqui con voi, riferivano a qualcuno il contenuto?
«Perché aveva avuto indicazione di non farlo».
Da Cossiga?
«Da chi poteva dargli queste indicazioni. Non lo so, quindi non mi permetto di fare illazioni. Certamente è incredibile che, sapendo che noi avevamo questi incontri, in quei giorni nessuno abbia predisposto pedinamenti... Eravamo sotto uno stretto controllo. Pensa che allora ci davano una pistola per difenderci...».
Rino Formica mi ha detto che «non è vero che non avessimo avvertito, Cossiga e Leone erano informati».
«Leone sì, con Cossiga non avevo un rapporto allora. Non gli parlai mai di queste cose perché non mi fidavo di lui. Leone, per aver dimostrato disponibilità a cercare strade per la liberazione di Moro, ha pagato un prezzo altissimo».
Parlami di Cossiga e Andreotti in questa vicenda. Andreotti sembra sempre defilato...
«È garante dello statu quo, non è defilato. Se si creano le condizioni per la liberazione di Moro lui non le ostacola, ma non fa niente per produrle».
Mette mano all’appello di Paolo VI per chiudere ogni spiraglio...
«Lui è presidente del Consiglio di un governo che non può andare in Parlamento perché non ha maggioranza parlamentare. Andreotti era leale verso gli alleati. In tutta la vicenda non fa nulla in favore di una soluzione. Non facilita, non ostacola. La posizione di Cossiga è diversa. Più che allievo di Moro, lui mi sembrava allievo di se stesso. Cossiga ha sempre avuto un rapporto con i Servizi. Forse era naturale che fosse così. Ma in quel periodo avviene un radicale mutamento degli assetti dei Servizi. È un fatto storico che gran parte dei vertici furono inquinati dalla P2. E non ho mai capito l’uso di quel consulente americano che ha sempre dichiarato esplicitamente di avere come unico obiettivo quello di assicurarsi che Moro non uscisse vivo dalla prigione Br. Cossiga in quel periodo sta costruendo il suo futuro politico. Se Andreotti è il garante dello statu quo, Cossiga è il garante del divenire, di quello che si sta preparando».
La morte di Moro è stato un demone che non lo ha mai lasciato, c’era in lui un dolore autentico...
«Era Presidente della Repubblica. Parlando una volta del 1978 mi capita di dire: “Poi bisogna andare a guardare in quelli che sono i santuari, perché esistono”. La mattina dopo arriva una telefonata del capo dello Stato. “Ti voglio dire subito che questa telefonata è intercettata”. Ho risposto: “Francesco è tuo diritto farlo, fallo, cosa c’è?”. “Volevo dirti che queste cose che tu hai detto non corrispondono a verità”. Ho replicato: “Guarda che tu non c’entri, non c’è nessun riferimento a te”. Insomma mi fa capire che lui allora avrebbe potuto tirare fuori delle altre intercettazioni del periodo dei nostri tentativi. Allora io chiudo: “Non pensavo a te, non ho nessuna intenzione di fare reati di lesa maestà nei confronti del Presidente. Quindi finiamola qui”. C’erano delle cose sulle quali lui era reattivo in maniera impressionante. C’è una circostanza che non finisce di turbarmi. Quando mi chiama da lui la mattina dell’assassinio, prima del momento in cui viene trovato Moro, perché lo fa? Io allora ho pensato che volesse commentare ciò che stava per accadere nella Dc quella mattina. Vado lì, ma lui non fa nessun cenno a questa cosa. Allora penso: forse lui ha la notizia che l’hanno liberato o lo stanno liberando. Se no perché mi ha chiamato? Fa in maniera che io sia lì quando si apprende di Via Caetani. Nel suo ufficio c’era una cicalina collegata con il Prefetto e il capo della Polizia. “È stata individuata un’automobile, andiamo a vedere”. Un attimo di silenzio e poi: ”È la nota personalità”. Cossiga diventa bianco, dice: “Mi devo dimettere”. “Devi farlo”, gli dico. Ci abbracciamo, me ne vado. Perché mi ha fatto andare lì quella mattina? Me lo chiedo ancora oggi».
Tu che spiegazione ti sei dato?
«Non me la sono voluta dare. Però il pensiero peggiore è che lui consapevole che la vicenda si stava concludendo volesse un testimone inattaccabile in grado di dare conto della sua sorpresa e del suo sgomento. Devo pensare questo. Non ne ho mai parlato, non ho mai aperto polemiche su questo. Ma Cossiga, in quel tempo, guardava “oltre”».
Quando Craxi parla del grande vecchio a chi si riferisce?
«Non a una persona, a un sistema. È il destino disgraziato di questo Paese di frontiera attraversato dagli interessi pesanti della Guerra fredda. Eravamo in piena Seconda Guerra fredda, alla fine degli anni Settanta. C’è Ustica due anni dopo, e gli euromissili...».
Cosa morì, politicamente, con l’uccisione di Moro?
«C’è stata sempre confusione su questo. La solidarietà nazionale non finisce subito dopo il 9 maggio. Resiste due anni. Perché Berlinguer, che non era un estremista irresponsabile, voleva chiudere il percorso iniziato in quella legislatura. Nel Psi il fatto che io avessi la maggioranza poteva scongiurare l’idea di un governo senza il Pci, suggestione che pure si faceva strada. Berlinguer voleva essere il leader del Pci che completava la legittimazione del suo partito, che apriva la strada alla praticabilità di quella democrazia dell’alternanza che era la sola formula possibile per la governabilità italiana. Non l’alternativa, non la semplice solidarietà nazionale, ma uno schema nel quale Dc e sinistra — che avrebbe regolato all’interno il tema dei rapporti di forza tra socialisti e comunisti — potevano tornare a competere. Un disegno lucido. Era quello di Moro, “la terza fase”. Per questo la storia del rapimento è finita in quel modo. Quel progetto, utile per la democrazia italiana, era incompatibile con gli equilibri della Seconda Guerra fredda».
E la Dc?
«Dc e Pci vanno alle elezioni, nel 1979, pensando che ne uscisse un risultato non dissimile da quello del 1976 e questo consentisse di continuare quel processo politico. Ma non fu così. Persero voti ambedue. A quel punto Berlinguer comincia a cambiare rotta ma, soprattutto, comincia a cambiare rotta Craxi. Io ho ancora la maggioranza nel partito, De Michelis non ha ancora fatto il passaggio con gli autonomisti. Dopo le elezioni c’è l’incarico a Craxi, il primo incarico. L’idea era Craxi presidente con la maggioranza di Moro. Io mi faccio il giro del mondo, visti i precedenti, per convincere. C’è il sì di tutti, meno della Dc. Il Pci non si oppone, forse pensando che la cosa sarebbe morta per l’opposizione democristiana. Nel 1980 il congresso della Dc si apre con la maggioranza di Moro. Nel senso che la relazione di Zaccagnini parla di emergenza senza alternative: voleva dire governo di solidarietà nazionale. La maggioranza sulla carta c’è: Zaccagnini, Andreotti, e i dorotei che portano a casa il segretario del partito, Piccoli. Galloni, che era vicesegretario uscente, convince invece i suoi ad andare da Zaccagnini per dire che la sinistra dopo la morte di Moro non poteva accettare un segretario che non fosse della sinistra, cioè lui. Si sfascia così la maggioranza. I dorotei capiscono l’aria, prendono armi e bagagli e fanno l’accordo con Donat Cattin e con Forlani. La stupidità fu non aver capito, cosa che a me era chiara, che i dorotei erano il punto di interlocuzione. Se il congresso della Dc si fosse chiuso come si era aperto, cioè con la maggioranza Andreotti, Zaccagnini, dorotei, probabilmente parleremmo di un’altra storia nazionale. Poi la domanda vera è: avrebbe retto la Dc senza un leader forte? Fatto sta che nasce, senza il Pci e con l’appoggio esterno del Psi, un governo Cossiga. Il garante dell’avvenire».
In una puntata della bellissima trasmissione di Zavoli «Notte della Repubblica» tu, parlando delle riunioni di quei giorni con la Dc, dici: «Mi fermo perché dovrei raccontare episodi imbarazzanti».
«In quell’incontro tra le due delegazioni, Zaccagnini non aprì bocca, disse solo a Craxi: “Vuoi bere qualcosa? Portate due bottiglie d’acqua”. Tutto qui, in una riunione di sette ore. Disse solo questo perché parlava sempre Galloni. Lui non profferì parola. Era una riunione inutile, nella quale loro si tenevano accuratamente lontani dal problema».
Come interpretasti il loro atteggiamento?
«Non potevano far nulla perché avevano, come priorità, il rapporto col Pci come rapporto dominante. Non rendendosi conto, così dicevo a Bisaglia, “che se i socialisti dicono di no, voi non potete fare niente con il Partito comunista, neanche andare a prendere un caffè. Senza il Psi non potete avere un rapporto con il Pci”».
Faccio a te, in conclusione, la stessa domanda che ho rivolto a Hollande. Il socialismo, egemone in Europa negli anni Novanta, è stato consumato dagli scenari del nuovo millennio?
«No, assolutamente. Abbiamo vissuto una lunga stagione di globalizzazione economica finanziaria in cui il mainstream culturale è stato il neoliberismo. Siamo stati tutti, in qualche modo, vittime o comunque partecipi di questo. Siamo entrati ora in una globalizzazione della sopravvivenza nella quale è il socialismo quasi necessariamente il punto di riferimento culturale ideologico. Quello che è morto è il socialismo classista, antagonista, autoreferenziale. Quello che sta crescendo è invece un socialismo umanitario, comunitario. È la globalizzazione per la sopravvivenza e non per il puro profitto. La globalizzazione comunitaria sul piano sanitario, sociale, ambientale. Un mondo nuovo».
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Novembre 2019. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui. Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre perseguito una linea dura antisovietica, ma per quanto possibile riformista e anche apertamente di sinistra purché schierata contro l’Urss. Al Dipartimento di Stato americano interessava aver la certezza che il personale di governo in Italia non andasse a spifferare ai russi segreti di natura militare e strategica. Ciò che invece era accaduto in alcuni casi con il personale specialmente democristiano. Le informazioni che sto cercando di ordinare hanno le loro fonti in alcuni testi fondamentali, ascoltati negli anni della mia presidenza della Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle influenze sovietiche in Italia, nel lavoro che ho svolto in quanto appartenente, per molti anni, alla delegazione parlamentare italiana presso la Nato. D’altra parte, il racconto che sto per fare non contiene alcun segreto ma solo molto buon senso e può essere facilmente verificato e confermato con ricerche accessibili. Cominciamo da Michail Gorbaciov. Chi era costui? Era il pupillo, il prescelto e selezionato dall’uomo più intelligente, anche spietato, ma molto ben informato dirigente che l’Unione Sovietica abbia avuto. Stiamo parlando di Yuri Andropov, che fu prima il sovrano direttore del KGB per ben quindici anni, dal 1967 al 1982, anno in cui successe a Leonid Breznev, l’uomo immobile dalle enormi sopracciglia. Andropov vide che la partita fra Urss e Stati Uniti con i loro alleati, era in prospettiva una partita persa. E allevò, come suo successore e uomo di fiducia, Gorbaciov, che aveva un appeal di tipo occidentale per vivacità intellettuale, età e anche per avere una moglie elegante come Raissa che poteva fare bella figura sulla scena internazionale. Poi le cose si svolsero in maniera convulsa e imprevista perché Andropov morì prematuramente il 9 febbraio 1984, troppo presto per consolidare la successione del suo candidato Gorbaciov, sicché le vecchie cariatidi del Cremlino insediarono il più immobilista della loro cerchia, Konstantin Cernienko. Gorbaciov fu costretto a saltare un turno e aspettare la morte di costui per salire sul podio più alto del governo sovietico. Per comprendere la natura della politica militare di quella fase, che riguardò direttamente la politica italiana per la vicenda dei cosiddetti Euromissili, occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo. Bisogna cioè risalire all’inizio della Guerra Fredda, quando i Paesi occidentali si erano riuniti nell’Alleanza Atlantica della Nato e quelli dell’Est, sotto stretto comando sovietico, nel Patto di Varsavia da cui si sfilò soltanto la Romania di Ceausescu, che pagò con la vita il suo sgarro in epoca gorbacioviana. Esiste un libro che si chiama A Cardboard Castle? – An inside story of the Warsaw Pact 1955-1991, che nessun editore italiano ha trovato conveniente tradurre e pubblicare. Questo testo, certificato dai documenti originali, lo si può acquistare via Internet e vale quel che costa. Il volume contiene, insieme a due eccellenti saggi, tutti i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, dalla prima – 1955 – all’ultima – 1991 – seduta. Se si ha la pazienza di leggere, si scopre che ogni riunione ripete con alcune varianti, lo stesso schema: le potenze occidentali attaccano proditoriamente il blocco dell’Est che, dopo aver fermato l’aggressione, prontamente contrattacca penetrando nell’Europa occidentale con operazioni velocissime e brutali, e uso di un buon numero di armi atomiche tattiche (cioè relativamente piccole ma capaci di polverizzare una città) per sigillare le coste atlantiche e rendere uno sbarco americano impossibile. Per questo il Patto di Varsavia aveva bisogno di missili “a medio raggio” (cioè non in grado di attraversare l’Atlantico e colpire gli Stati Uniti) ma capaci di mettere a tacere le difese europee. Qualcuno si chiederà a quale scopo l’Urss e i suoi satelliti avrebbero compiuto una tale azione. Sia Gorbaciov che Eltsin hanno fornito la spiegazione, ben illustrata anche dall’intellettuale dissidente russo residente a Londra Vladimir Bukowski, mio caro amico scomparso da poco, che scrisse un magistrale Urss, come l’Unione Sovietica voleva inghiottire l’Europa dopo essere stato internato proprio da Yuri Andropov in un lager in cui i prigionieri venivano mantenuti in stato di sonnolenza perenne. In breve, il programma che Andropov tentò disperatamente di spingere e che poi fallì, prevedeva una conquista fulminea dell’Europa occidentale, Italia compresa naturalmente, in cui sarebbero stati instaurati dei governi fantoccio ma con finte coalizioni precotte con ecologisti, finti socialdemocratici, non troppi comunisti per dare una parvenza “democratica”. I missili SS20 a testata multipla furono installati dai russi nei Balcani e in Italia si scatenò un inferno politico contro l’installazione di missili Cruise e Pershing 2 in Sicilia, capaci di contrastare tali armi. L’installazione cominciò nel 1983 e in Italia, come nei principali Paesi europei, le sinistre e i movimenti pacifisti dimostrarono duramente contro questi missili di risposta. Nella lotta politica che si svolse in Parlamento e sulla stampa, oltre che nelle piazze, il Pci dopo alcuni contorcimenti e qualche dissenso interno, si schierò sulla linea gradita all’Unione Sovietica. Questo causò una frattura molto profonda anche nell’Italian Desk di Washington, dove gli americani avevano sperato a lungo che il Partito comunista italiano seguisse l’indicazione di Berlinguer, che nel frattempo era scomparso, secondo cui ci si sentiva più protetti sotto l’ombrello della Nato. Ma anche con questa frattura, peraltro prevista realisticamente, non furono annullati i rapporti speciali tra la frazione filoamericana del Partito comunista e Washington.
Dagospia il 28 maggio 2020. (estratti dal libro “Moro, il caso, non è chiuso”, LINDAU , 2019, di M.Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni). La strage di via Fracchia, a Genova, che si svolse in piena notte il 28 marzo del 1980, rappresenta una delle vicende più complesse della storia delle Brigate Rosse e delle azioni che le contrastarono, lasciando molti interrogativi sul reale svolgimento dell’irruzione, divenuto poi un evento cui si riferì simbolicamente la lotta armata, con la costituzione di un gruppo milanese denominato appunto «XXVIII marzo». Fu la Brigata “XXVIII marzo” che uccise l’inviato del «Corriere della Sera», Walter Tobagi, proprio a due mesi dall’irruzione di Genova da parte degli uomini del generale Dalla Chiesa, il 28 maggio 1980. Domani, vent’anni fa. Il «Corriere della Sera», il 2 aprile 1980, negli articoli che illustravano l’irruzione in via Fracchia segnala che sarebbe stata trovata nel covo br una cartellina con un appunto «materiale da decentrare sotto terra». I giornalisti presenti erano Antonio Ferrari inviato a Genova dal direttore Franco Di Bella insieme a Giancarlo Pertegato e Tobagi, appunto, cattolico, socialista, vicino al segretario Bettino Craxi, che ebbe un ruolo nella «trattativa» milanese del segretario del Psi Bettino Craxi, durante il sequestro Moro, emersa solo negli ultimi anni grazie alle indagini della Commissione Moro2 che ha chiuso i battenti nel dicembre 2018. Facendo emergere tanti fatti e circostanze che illuminano gli ultimi anni della vita di Tobagi, e forse, anche della sua morte. Perchè la conoscenza di quegli anni è molto progredita, portando alla luce fatti sorprendenti. Lo dobbiamo alla memoria di Walter, un grande giornalista.
L’impegno di Walter Tobagi per salvare Moro. Umberto Giovine, iscritto al Psi sin da ragazzo, militando nella Federazione milanese, aveva avuto incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista ed era divenuto direttore di «Critica Sociale» alla fine degli anni ’60, ha dichiarato alla Commissione d’inchiesta Moro2 che: l’input per cercare d’intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il sequestro, a Torino, durante il congresso del Psi. “Ebbi modo di parlare con Walter Tobagi che conoscevo da molti anni e mi disse che secondo lui avrei potuto e dovuto fare qualcosa attraverso «Critica Sociale» visto che lui personalmente, data la sua posizione al «Corriere della Sera» non poteva agire”. Questa attività milanese era speculare ad un’attività con le medesime finalità e medesimi contenuti, una vera trattativa, che era stata avviata a Roma dal segretario Craxi. “Craxi - continua Giovine - in ogni caso poteva contare sull’appoggio e il contributo del generale Dalla Chiesa che era responsabile nazionale delle carceri di massima sicurezza e che in tale veste poteva muoversi anche in modo indipendente e senza specifiche autorizzazioni del Governo. In quelle settimane non ebbi incontri personali con Craxi ma solo colloqui telefonici protetti in quanto lo chiamavo nel ristorante dove andava a pranzo o a cena”.
Il “tesoro” di Genova: tutte le carte di Moro. Massimo Caprara scriverà più volte, in date diverse: «Disse a caldo (dopo l’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia, NdA) l’allora procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: “La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi… Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”». I due articoli sono stati pubblicati anni dopo la barbara uccisione di Tobagi, nel numero 1 di «Pagina», del 25 febbraio 1982, e nel periodico «Illustrazione Italiana», n. 32, luglio 1986. La rivelazione di Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, è precisa e circostanziata. Ma di quelle trenta cartelle «meticolosamente scritte da Aldo Moro», indicate dal magistrato che nel 1980 era al vertice della Procura del capoluogo ligure, non è stata trovata alcuna traccia agli atti del processo. I lavori della Commissione Moro 2 sono partiti da qui. La quantità e l’importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) che reca un impressionante elenco di 753 reperti, che certamente dal punto di vista investigativo poteva essere considerato un «tesoro». Tenuto conto degli interrogativi che sono nati dai parziali ritrovamenti documentali avvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano (nel 1978 e nel 1990) , la citata esternazione di Squadrito, è apparsa meritevole di serio approfondimento, anche alla luce delle indicazioni sul ruolo che la colonna genovese guidata da Riccardo Dura ha giocato, secondo la Commissione, nel sequestro Moro. Solo agli inizi degli Anni Duemila, sono cominciati ad emergere nuovi fatti. Nell’articolo intitolato “Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone, pubblicato venerdì 13 febbraio 2004, firmato da Simone Traverso sul Corriere Mercantile, storico quotidiano della città della Lanterna, vengono riportati i ricordi raccolti dalla «gente del civico 12», tra cui quello di «un uomo misterioso, forse Riccardo Dura , che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole». Testimonianza questa che descrive una caratteristica peculiare del covo: la presenza anche di un giardino di pertinenza, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, e che conduceva alla parte posteriore dell’edificio. «Un giardino che, incredibilmente – annota la Commissione Moro 2 – non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento». Che sia stato effettuato uno scavo nel giardino pertinenziale è stato confermato ai consulenti della Commissione Moro 2 da Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell’operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno. Anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Maffeo.
L’agente tedesco nella palazzina di Tobagi, le carte “segrete” di Moro. Umberto Giovine (che ha illustrato da qualche anno il ruolo di Tobagi nella trattativa per Moro) ha anche parlato della opaca vicenda di Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro.
6 informative del Sisde che lo riguardavano sono state desecretate dall’AISE (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017. In particolare, dagli atti del nostro servizio segreto – solo ora resi noti – risulta che Weingraber giunse a Milano nel febbraio 1978 e che si mise in contatto con diverse persone, tra cui il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero. L’informativa del 6 novembre 1978 precisava inoltre che «la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive». La fonte – continua la citazione – «ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione». Ma «la fonte infiltrata» – come risulta da un’altra lettera desecretata del 2 novembre 1990 inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi oggi desecretata – altri non era che proprio Weingraber, il quale lavorava in un’operazione congiunta del Sismi e dei servizi segreti tedesco e svizzero. Risulta inoltre che Weingraber – come confermato dal colonnello Giorgio Parisi al giudice Priore il 28 settembre 1990 – entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion. Va pure segnalato che Weingraber alloggiò a partire dal 1978 in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980. Ma poi fu lo stesso Strano a denunciare Weingraber pubblicamente come un infiltrato, dopo che al valico del Brennero vennero sequestrati a quattro cittadini tedeschi 800 fogli di documenti: ciò accadde poche settimane prima della seconda scoperta di materiale proveniente dal sequestro Moro nel covo di via Monte Nevoso 8, a Milano, nel novembre 1990”. Moro per sempre, dunque. Il caso non è chiuso!
Aldo Moro e la pietas di Sciascia, medicina contro stalinisti e forcaioli. Filippo La Porta su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Il 9 maggio del 1978 veniva trovato il corpo senza vita di Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, abbandonata in via Caetani, a conclusione di 55 giorni di prigionia da parte delle Brigate Rosse: uno degli episodi cruciali e più drammatici della storia della nostra Repubblica. Riparliamo di Moro prendendo spunto da un interessante articolo di un blog e da un libro utile e accurato. Nel blog Minima & Moralia Virginia Fattori si occupa di uno dei testi più belli di Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, scritto nei giorni del sequestro. Dal punto di vista letterario si tratta di un felice ibrido tra pamphlet, diario in pubblico, reportage, meditazione morale. Un esempio unico di filologia morale, scritto con una lingua riflessiva e acuminata, memore del Manzoni della Colonna infame, dell’esprit volterriano e della prosa labirintica di Borges. Com’è noto Sciascia fu uno dei pochi a difendere la autenticità delle lettere di Moro dal carcere (ben 97), insieme ai familiari, sfidando gli anatemi di Scalfari e Amendola, o la linea ufficiale dei capi democristiani. Certo lettere “condizionate” (dal contesto), ma moralmente e intellettualmente autentiche. A ben vedere tutti i personaggi di Sciascia si progettano come uomini in rivolta, dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all’avvocato Di Blasi del (meraviglioso) Consiglio d’Egitto, dall’ispettore Rogas del Contesto fino allo stesso Moro in carcere, e tutti verranno ammazzati. In rivolta contro che? Contro il potere, che proprio sulla morte – limite oscuro dell’esistenza – costruisce il suo spaventevole edificio di bugie e soprusi. Fattori osserva che Sofri, benché schierato dalla parte di quel libro, definisce Sciascia e Moro intellettuali meridionali, dunque disincantati, «poco fiduciosi nell’agire umano contro l’immanenza della realtà». Poi chiosa: eppure «chi potrebbe negare ad Aldo Moro l’assoluta fiducia nel riformismo della sua In Amare il nostro tempo. Appunti sul giovane Moro (Domani d’Italia) Lucio D’Ubaldo, ex senatore della Margherita e nella Dc vicino ai morotei, ricostruisce il pensiero dello statista a partire dalla formazione giovanile, a metà degli anni ‘40: originalità nella lettura della società italiana, tensione costante tra utopia e realismo, riformulazione personale di certi apporti (l’“umanesimo integrale” di Maritain diventa “cristianesimo umano”) e di categorie nate in ambiti diversi (il “postfascismo di Carlo Rosselli”, fondatore del movimento “Giustizia e Libertà”, come radicale riforma, morale e politica, della società italiana), e soprattutto l’idea che la politica “non deve essere una tecnica arida del potere, ma un omaggio reso quotidianamente alla verità e alla bellezza della vita” (enunciata nel 1977, tuttavia impregnata della formazione giovanile di Moro). D’Ubaldo rivela la sua genuina vocazione di storico delle idee, totalmente a suo agio con la ricostruzione della filosofia cattolica che ispira gli orientamenti politici (ad esempio il ruolo di Del Noce e Rodano), ma anche con opere letterarie (sorprendentemente Il giovane Holden di Salinger), con Pasolini, con la teoria critica della società dei francofortesi e dell’epigono Marcuse. Indispensabile la meticolosa ricostruzione dell’atteggiamento dei cattolici e della Dc verso il ‘68, la comprensione delle sue istanze più radicali, il riferimento a un convegno delle Acli del 1967, con la critica della società opulenta che vi fu espressa. Ma non bisogna occultare la vera natura del libro di D’Ubaldo, il suo essere una proposta politica “militante” per l’oggi, un tentativo di rilancio del centrismo, a partire dal crollo della Dc dovuto a immobilismo e perdita di motivazioni ideali, e dal rifluire dei cattolici nell’“universo fluttuante della società civile”, tra volontariato e assistenza. E il centro si rilancia a partire da Moro (al di fuori di qualsiasi mitologia), dal suo appello (nel 1944) alla sensibilità di ogni cattolico, che “non può sopportare di convivere con l’ingiustizia”. Concludo sull’Affaire Moro di Sciascia (purtroppo non citato da D’Ubaldo). Un libro non solo letterariamente sperimentale (virtuosistico montaggio d’autore di materiali giornalistici) ma a suo modo “religioso”, intriso di pietas e conoscenza dell’animo umano, che volle denunciare lo “stalinismo” delle Brigate Rosse e anche del “partito della fermezza” e insieme difendere la dignità offesa di Moro. Sciascia volle mettersi dalla parte di Moro, e poi di Enzo Tortora, dalla parte degli inermi e degli indifesi, di chi ha paura e viene calunniato, in nome della parte di infermità e debolezza che è cristianamente in ogni essere umano.
ALDO MORO, L’ASSASSINIO 42 ANNI FA. “Ma la verità deve ancora venire a galla”. Davide Giancristofaro Alberti su Il Sussidiario il 9.05.2020. Aldo Moro venne ucciso oggi 42 anni fa: era il 9 maggio del 1978 e il suo corpo venne ritrovato in una Renault 4 in via Caetani a Roma. Quattro decadi di misteri, silenzi e omissioni. Il 9 maggio di 42 anni fa, era il 1978, veniva ucciso Aldo Moro, ex numero uno della Dc. Sono passati più di quattro decadi da quella giornata, considerata fra le pagine più buie della storia della Repubblica, ma la verità non è ancora venuta a galla in toto. Molti sono infatti quelli convinti che vi siano ancora diversi aspetti della vicenda da chiarire, a cominciare da Roberto Della Rocca (all’epoca dei fatti, direttore del personale di Fincantieri, oggi numero uno dell’Aiviter, l’Associazione italiana vittime del terrorismo), ferito in un agguato dalle Brigate Rosse due anni dopo la morte di Moro: «La morte di Aldo Moro – le sue parole riportate oggi dall’edizione online de La Stampa – fu uno spartiacque terribile per la lotta al terrorismo. La verità ancora non è dietro l’angolo e sinceramente non so se ci arriveremo mai: è passato troppo tempo, ci sono state cose che sembrano inverosimili. Ma dobbiamo capire, sapere se sia stato un fenomeno endogeno, esclusivamente italiano, o se non sia stato anche un qualcosa che veniva da fuori, in termini di possibili mandanti». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)
ALDO MORO, 42 ANNI FA L’ASSASSINIO, IL SEQUESTRO, LA PRIGIONIA DI 55 GG, L’UCCISIONE. Esattamente oggi, 9 maggio, 42 anni fa, era il 1978, moriva Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana. Venne rapito dalle Brigate Rosse poi ucciso, e il suo corpo venne ritrovato all’interno di una Renault 4 posteggiata in via Caetani a Roma. Fu una delle pagine di cronaca nera più toccanti e segnanti della storia moderna dell’Italia, con Moro che venne assassinato da un commando che l’aveva sequestrato in via Fani, dopo aver sterminato a colpi di mitra la sua scorta. Il sequestro era avvenuto 55 giorni prima, quasi due mesi di prigionia durante i quali l’allora leader della Dc, il partito numero uno in Italia, fu sottoposto ad una sorta di processo, perchè “colpevole”, stando ai brigatisti, di voler “unire” Dc e Pci. Nonostante trattative varie, alla fine non si riuscì ad ottenere la liberazione di Moro, e le Brigate Rosse decisero quindi di giustiziare l’onorevole, provocando una crisi politica senza precedenti. Per ricordare Moro, in Italia è stata istituita una giornata speciale dal 2008, in cui vengono appunto ricordate le vittime del terrorismo.
ALDO MORO, IL MESSAGGIO DI MATTARELLA: “BARBARIE BRIGATISTA GIUNSE ALL’APICE”. «Il 9 maggio è il giorno in cui Aldo Moro venne ucciso – la nota di oggi del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel Giorno della memoria per le vittime del terrorismo – la barbarie brigatista giunse allora all’apice dell’aggressione allo Stato democratico. Lo straziante supplizio a cui Moro venne sottoposto resterà una ferita insanabile nella nostra storia democratica. Respinta la minaccia terroristica – ha aggiunto il Capo dello Stato – oggi ancor più sentiamo il dovere di liberare Moro e ogni altra vittima da un ricordo esclusivamente legato alle azioni criminali dei loro assassini». Raffaele Iozzino, fratello di uno degli agenti della scorta di Moro assassinati, ha invece commentato in maniera polemica: «Sono stati scritti libri, si è parlato tanto, eppure la verità è così lontana – afferma all’agenzia Adnkronos – il giorno della sua morte e quello del ritrovamento del corpo di Moro sono gli unici due giorni in cui ci chiamano. Mi piacerebbe che le Istituzioni si ricordassero di noi familiari, non che ci riservassero un canale preferenziale, per carità. All’epoca siamo stati aiutati, oggi ho ancora due ragazzi a casa che con questa crisi non lavorano. Spero si aggiustino le cose, per tutti i ragazzi che qui rischiano di finire in mano alla malavita». Questa mattina, come si evince dal video che trovate più in basso, i Corazzieri dei carabinieri, con rigorosa mascherina, hanno posto una corona di fiori della Presidenza della Repubblica in via Caetani.
ALDO MORO. E la lettera a Craxi che svela il disegno perverso dell’ideologia italiana. Gianluigi Da Rold su Il Sussidiario il 09.05.2020. Il 9 maggio 1978 veniva ritrovato in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. La posizione di Craxi non fu strumentale, quella della Dc, sì. La vicenda del delitto Moro, di cui oggi, 9 maggio 2020, ricorre il 42esimo anniversario del tragico epilogo, dell’esecuzione e del ritrovamento del cadavere, rappresenta sempre, nel ricordo che è stato fatto dalla maggioranza della cosiddetta “intelligencija” e dei “detective politicizzati per caso”, uno degli aspetti più perversi di quella che si può definire “ideologia italiana”. Commissioni di inchiesta di durata interminabile e conclusioni tutte approssimative e spesso mescolate ad altre realtà. Deposizioni surreali su presunti “pendolini” che lasciano esterrefatti. Quindi i processi e le rivelazioni improvvise, promosse subito a “verità storiche”, dettagli ripescati qua e là, ma mai, ripetiamo mai, un quadro sufficientemente chiaro e complessivo della ricostruzione dettagliata, delle cause, della ragione autentica, del perché di tutta quella tragedia italiana. Non è ancora ben chiaro, dopo tutti questi anni, in quanti parteciparono all’azione del rapimento e della strage della scorta di Moro il 16 marzo 1978 in via Mario Fani, e neppure chi veramente sparò al leader della Dc, prima che fosse ritrovato sulla Renault rossa in via Caetani il 9 maggio dopo 55 giorni, è stato identificato con sicurezza. Lasciamo poi perdere “le voci e le certezze” sull’appartamento-covo di via Montalcini, lo scambio piuttosto ambiguo tra via Gradoli a Roma e Gradoli paese, con l’escursione di forze dello Stato sul Lago della Duchessa. In questi 42 anni, accanto ai volumi editi, ai discorsi, ai ricordi “volgari” (quello della statua a Maglie dedicata al leader democristiano con l’Unità sotto il braccio, come se fosse un simpatizzante comunista), ci sono state le tesi depistanti confezionate in modo grossolano, quelle ideologiche appena più falsamente raffinate, quelle opportuniste, quelle dettate solo dalle mistificazioni cocciute e ripetute. Tutto questo, in fondo, è il nocciolo vero, appunto, dell’“ideologia italiana”: rimuovere, manipolare, improvvisare, creare dietrologie e tenersi sempre lontani dalla verità. Sembrerà paradossale, ma un passo avanti si è fatto con l’ammissione che furono le Brigate rosse a rapire e uccidere Aldo Moro. Per anni, infatti, famosi giornalisti hanno scritto su giornali importanti le “cosiddette Brigate rosse”, alludendo a manovre di servizi segreti, più o meno deviati. Più avanti, e ancora adesso, si fa una distinzione tra le prime Brigate rosse, quelle “pure” di Renato Curcio, Mara Cagol e Alberto Franceschini, da quelle, “meno pure” e magari “infiltrate”, di Mario Moretti, Prospero Gallinari, Adriana Faranda e Valerio Morucci. In realtà, come ha scritto nel trentesimo anniversario del delitto Moro su Critica sociale uno storico come Ugo Finetti, le due principali mistificazioni sarebbero queste: da un lato Moro sarebbe stato ucciso dalla Cia su istigazione di Henry Kissinger per evitare che portasse i comunisti nel cuore della Nato; dall’altro il leader Dc “sarebbe stato soppresso dal Kgb per evitare che destabilizzasse il sistema di potere dell’Urss portando al governo l’euro-comunista Berlinguer”. Sono due tesi senza fondamento, di comodo e di opportunismo politico da basso livello, formulate senza tenere conto della realtà. Nel 1978 Kissinger non aveva alcun potere, dopo la caduta di Nixon e il Watergate; alla Casa Bianca ci stava il democratico Jimmy Carter e il nuovo segretario di Stato era Cyrus Vance. Il Cremlino di Breznev era in tutte altre faccende affaccendato: con i problemi che aveva in casa sfoderava il suo aspetto imperiale, mettendosi all’offensiva in Africa e in Asia. Quanto ai rapporti tra Berlinguer e l’Unione Sovietica, dopo alcune distinzioni anche tollerate, nel 1977, in occasione del 60esimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre l’eurocomunismo era in crisi e stava letteralmente evaporando. A Mosca, il segretario comunista francese Georges Marchais non andò; allo spagnolo Santiago Carrillo non venne concessa la parola; Enrico Berlinguer parlò invece per 6 minuti e 32 secondi, per dire che intendeva difendere “tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose”. Dichiarazioni che nemmeno i sovietici potevano permettersi di contestare. Non ci sono più polemiche nel discorso di Berlinguer, ma un riavvicinamento sancito dall’onore che gli tributano i dirigenti sovietici con la successiva pubblicazione del suo intervento sulla Pravda. Due anni dopo, nel novembre del 1979, Berlinguer parlerà in pieno comitato centrale dell’attualità delle lezioni del leninismo e griderà furente a Giorgio Amendola “Non capisci nulla di marxismo–leninismo”. Ma se dal contesto internazionale si passava a quello italiano, la realtà era ancora più concitata. Moro aveva risposto duramente ai comunisti nel 1977, in occasione dello scandalo Lockheed: “Non ci faremo processare da voi nelle piazze”. Poi a novembre, il repubblicano Ugo La Malfa apre una crisi e invoca l’ingresso del Pci nella maggioranza di un nuovo governo. Moro trova una situazione di compromesso con un accordo con Craxi: un governo monocolore democristiano, con i comunisti in maggioranza, ma senza i “tecnici” che il Pci richiede e che provocano reazioni sia in Berlinguer che in Pajetta. Lo sfondo politico che porta al governo del 16 marzo 1978 è questo, ma viene sempre dimenticato, smarrito, confuso, Potenza dell’“ideologia italiana”, che in quel momento a tutti i livelli è innamorata del catto–comunismo. Capitano spesso queste sbandate a chi si è dimenticato persino il nome del capo della Resistenza. Chissà se i nostri valenti insegnanti di storia e i nostri studenti conoscono la figura di Alfredo Pizzoni, mai onorato in tutti i 25 aprile? Recentemente un “guitto” italo–bulgaro parlava in televisione di un’Italia liberata dal nazifascismo per la grande tenuta dell’Urss di Stalin contro Hitler, dimenticandosi ovviamente della V e dell’VIII armata anglo–americana che risalivano l’Italia e pagavano pure la diaria ai partigiani dopo i patti di Roma del novembre 1944 (Harold Macmillan, Diari di guerra 1943–1945, il Mulino). Ma la potenza della disinformazione dell’ideologia italiana è travolgente. Quando il 16 marzo 1978 Moro è “nella prigione del popolo”, scompare dalla terza pagina di Repubblica questo titolo: “Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro segretario della Dc”. Migliaia di copie del quotidiano progressista vengono mandate al macero, ma qualcuno ne mantiene copie per un ricordo indelebile della vergogna. Nella stessa mattinata Ugo Pecchioli, uomo del Pci che si è sempre occupato dei rapporti (anche della rete di radio clandestine) con l’Urss, si presenta nella sede della Dc e sentenzia: “Per noi è morto”. Traduzione: nessuna trattativa. Dal “carcere del popolo” Moro comincia a scrivere lettere che invocano una trattativa e poi lancia accuse ben precise. La risposta degli intellettuali di matrice cattolica compare con una lettera e un lungo elenco di firme e spiega: “Moro non è responsabile di quello che scrive”. Praticamente viene abbandonato e visto come una specie di pazzoide. Una vergogna infame. A questo punto la politica italiana si spacca. Bettino Craxi, il leader del Psi, suggerisce una trattativa. Si unisce a questa iniziativa anche Marco Pannella. Naturalmente la proposta di Craxi è vista come una manovra per rompere l’asse catto–comunista e guadagnare consensi, sparigliare un inevitabile processo di unità nazionale tra Pci e Dc. È un’altra mistificazione oscena. Moro ha scritto 51 lettere. Nella dodicesima, inviata il 12 aprile a Craxi, e recapitata nella sede del Psi in via del Corso a Roma, Moro è disperato: “Caro Craxi, poiché ho colto, pur tra le notizie frammentare che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare e anzi di accentuare la tua importante iniziativa”. Moro implora una trattativa. Scrive ancora: “Ogni ora che passa potrebbe renderla vana. E allora ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica direzione giusta, che non è quella della declamazione”. Più avanti spiega: “Anche la Dc sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi subito. Non c’è un minuto da perdere”. Quando Craxi legge queste parole su un foglietto di quaderno a quadretti non trattiene le lacrime e ricomincia la sua battaglia. Ma contro di lui c’è il blocco del “fronte delle fermezza”, costituito dai maggiori partiti e da quelli laici, ma soprattutto dalla grande stampa. Si contendono il primato del “fronte della fermezza” il Corriere della Sera, che in quel momento era mantenuto e più o meno al servizio dal “maestro venerabile” Licio Gelli, e la rampante Repubblica dell’ex fascista Eugenio Scalfari, poi diventato azionista, forse radicale, quindi socialista e infine filo–berlingueriano. Un uomo di coerenza! Nella visione di Craxi non c’era un calcolo politico di smarcamento, ma soprattutto di un principio della nostra Costituzione, che non è “la più bella del mondo”, ma è almeno figlia del compromesso di Yalta. Fu proprio il giovane giurista Aldo Moro, ai tempi della Costituente, a difendere il principio che le persone vengono prima dello Stato, che la ragione di Stato non si baratta con una vita umana. Quello Stato del 1978 che alla fine si arrese all’esecuzione di Moro da parte delle Br senza trattare per non riconoscerle formalmente, venne ben descritto nel libro di Leonardo Sciascia L’affaire Moro, dove il grande scrittore paragonava quello Stato a una sorta di moribondo che sta in un letto di ospedale e all’improvviso impettisce, scende in strada e minaccia sfracelli, andando inevitabilmente verso il disastro annunciato.
PS: Chi scrive questo articolo non cambia idea da 42 anni. E ancora oggi è fiero di aver ritirato la firma dal Corriere per un anno, proprio per come era stato descritto il caso Moro. Quello che accadde si può vedere da un comunicato Ansa dell’epoca.
Servizi di sicurezza, a che servono se non ci sono problemi specifici incombenti? Frank Cimini de Il Riformista il 19 Marzo 2020. La preoccupazione maggiore dei nostri apparati di sicurezza sembra rivolta a una lettura diversa dei cosiddetti anni di piombo rispetto alla storiografia ufficiale che rischia di trovare consensi “nell’uditorio giovanile”. Usano proprio questo termine gli apparati nella loro relazione annuale al Parlamento presentata nei giorni scorsi con un po’ di ritardo e che è passata inosservata sui giornali soprattutto perché mancavano indicazioni su pericoli specifici incombenti. Ma è meglio lasciare direttamente la parola ai “servizi” prima di spiegare la ragione di queste povere righe. «L’attività di costante monitoraggio informativo assicurata dal comparto intelligence ha rilevato in linea di continuità con gli ultimi anni il proseguire dell’impegno divulgativo specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti. La propaganda si è in particolare rivolta in un’ottica di proselitismo a un uditorio giovanile con un occhio di riguardo alla composita area dell’antagonismo di sinistra sulla cui sensibilità risulta tarata una lettura trasversale in chiave rivoluzionaria dell’antifascismo dell‘antimilitarismo e dell’antiimperialismo nonché delle questioni correlate al disagio sociale dall’emergenza abitativa a quella migratoria passando per le criticità del mondo del lavoro». Bisogna ricordare che nel nostro paese esistono apparati costosissimi e spropositati rispetto alla bisogna dal momento che ormai da molto tempo quel po’ di conflitti sociali in essere non sembra in grado di costituire “un pericolo per la democrazia”. Ma di queste strutture e soprattutto dei loro costi appare pressoché impossibile parlare nel senso di suscitare un dibattito pubblico sui mezzi di informazione. Vige una sorta di segreto di stato di fatto che nessuno è disposto dentro il circuito istituzionale a mettere in discussione. Gli apparati al fine di giustificare sia loro esistenza sia il privilegio di disporre di quantità molto rilevanti di fondi scriverebbero qualsiasi cosa e sanno benissimo che il solo evocare il tentativo di rivoluzione, il più serio nel cuore del capitalismo occidentale, fallito quarant’anni fa li mette al riparo da qualsiasi osservazione critica. Succede tanto per fare un esempio che il raggruppamento speciale dei carabinieri arrivi a chiedere di investire l’attività del mitico Ris di Parma per rilevare il Dna di un gruppetto di ventenni responsabile di uno striscione pro-palestinesi davanti alla sede del Corriere della Sera. Nel caso specifico pare che la procura di Milano non abbia dato seguito all’iniziativa. E parliamo della procura che di recente ha in pratica azzerato le lotte per la casa con misure cautelari e reati associativi per un collettivo dì militanti pur specificando che il tutto non aveva scopo di lucro. Da tempo siamo in presenza di una repressione di tipo preventivo che ha il compito di ammazzare nella culla eventuali azioni “sovversive”. Di questo quadro si giocano i nostri apparati di sicurezza dove chi ne fa parte teme di veder finire la vita nella bambagia e di essere “mandato a lavorare”. Ma si tratta di rischi puramente teorici sia perché la politica è debole incapace di prendere decisioni forti sia perché gli uffici inquirenti le procure anche quando non danno seguito agli input degli apparati (con i quali dovrebbero avere nulla a che fare ma tutti sanno che non è così) però ne coprono le gesta perché tra poteri come dicono a Napoli “si apparano”. In tempi di spending review non sarebbe male avviare una discussione seria in merito. Ma ricordiamo che siamo nel paese in cui a quarant’anni dai fatti sono andati con il laser in via Fani per stabilire se a sparare alla scorta di Moro erano state solo le Br. L’esperimento portò a concludere che sì solo le Br. E tutto si chiuse con 18 righe sul Sole 24 ore. Quanti soldi nell’occasione buttati dal balcone? Impossibile saperlo dalla commissione parlamentare e dalla procura generale di Roma. Ma si sa che il procuratore generale di Roma poi è diventato il pg della Cassazione. Insomma se la cantano e se la suonano. Tutto in famiglia.
Scoop dei dietrologi: risolto il caso Moro, è stato ucciso da un barista. Frank Cimini de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Abbiamo a che fare con le dietrologie incrociate sulle quali disserta frequentemente il Manette Daily alias Cappio Quotidiano. «Bologna, strage crocevia di due storie criminali» è il titolo dell’ultimo articolo sul tema. Le due storie legate tra loro dalla chiusura indagine sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 sono il crac del Banco Ambrosiano e il sequestro Moro. E con pezze di appoggio da far tremare i polsi e accapponare la pelle: «Sia i soldi mancanti della bancarotta dell’Ambrosiano sia il brigatista Alessio Casimirri che non ha scontato un giorno di carcere negli stessi anni trovarono il loro “paradiso sicuro” in Nicaragua». Un paese del quale il figlio di Licio Gelli (condannato sia per il crac sia per il depistaggio sulla strage) è da anni ambasciatore prima in Uruguay e poi in Canada. E solo oggi sappiamo, è la tesi del Fatto, perché esiste un documento desecretato dal governo nel 2014, che Tullio Olivetti, proprietario dell’insolito caffè di via Fani a lungo copertura di un grosso traffico di armi con mafia terrorismo interno e internazionale, era presente nel capoluogo emiliano il giorno della strage della stazione, ma non fu mai interrogato. Da sempre i dietrologi di mezzo mondo favoleggiano di questo famoso bar Olivetti raccontando che ci andavano i mafiosi a far colazione perché aveva i migliori maritozzi della capitale. “L’insolito caffè di via Fani”, comunque, la mattina del 16 marzo del 1978, come è stato infinitamente accertato, era chiuso… Ma i cultori del mistero legato al bar Olivetti non demordono. Sul caso Moro tutto vale, anche la panna dei maritozzi. Se l’informazione si è ridotta a questo non può meravigliare che chiedendo ai liceali di adesso chi mise la bomba in piazza Fontana arrivi la risposta inevitabile a sto punto: le Brigate Rosse. E ormai le Br sarebbero responsabili anche della strage di Bologna e pure della bancarotta dell’Ambrosiano. Alla confusione sul tema hanno dato un rilevante contributo le commissioni parlamentari di inchiesta sul caso Moro che tra l’altro ascoltarono, dandogli dignità di oracolo, Raimondo Etro “pentito” e dietrologo acquisito, balzato recentemente agli onori della cronaca perché cacciato dallo studio tv di Giletti. Un paese che rifiuta di fare i conti con il tentativo di rivoluzione fallito a cavallo degli anni 70 e 80 non può che continuare a dare spazio a una dietrologia troppo interessata a nascondere la verità e di cui la sinistra appare più responsabile di altre fazioni politiche. Insomma a sinistra non hanno ancora digerito che in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda gridò in faccia al Pci che le Brigate Rosse erano comuniste con due famosi articoli sull’album di famiglia. E oggi a sinistra si sollazzano leggendo il Manette Daily.
Dieci anni senza Francesco Cossiga. A differenza di altri, fu un vero presidente della Repubblica. Carlo Marini domenica 16 agosto 2020 su Il Secolo D'Italia. «Talvolta ho gridato, ma se ho gridato è perché soltanto temevo di non farmi sentire». Sono le parole di Francesco Cossiga, morto il 17 agosto di dieci anni fa, nel suo messaggio agli italiani, prima di lasciare il Quirinale. Un presidente unico nella storia della Repubblica, che ha avuto il coraggio di dire cose scomode alla sinistra. Che dalla sinistra è stato combattuto con ogni mezzo. E che ha sempre messo l’interesse degli italiani al di sopra di tutto. Impossibile non rimpiangerlo. E, nei tempi che stiamo vivendo, il rimpianto è ancora più forte.
Francesco Cossiga, da studente prodigio a politico. Francesco Cossiga ha avuto una carriera formidabile. Non solo politica. Maturità a 16 anni, laurea in giurisprudenza a 20 anni. Professore ordinario all’Università di Sassari, a 30 anni. Fate il paragone con uno dei ministri, uno a caso, del governo Conte. La carriera politica è stata conseguente. E altrettanto formidabile. Deputato dal 1958 al 1983, poi senatore; sottosegretario, ministro dell’Interno durante i drammatici giorni del sequestro Moro. Poi, presidente del Consiglio, quindi del Senato. Infine, nel più alto incarico istituzionale, quello di Presidente della Repubblica.
Da presidente notaio a picconatore. Eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977. Passò da presidente notaio a picconatore, Cossiga è stato un Capo dello Stato unico nel suo genere nella storia della Repubblica, fuori dagli schemi fino a quel momento conosciuti, diverso dai suoi predecessori e dai suoi successori soprattutto per il modo con cui, specialmente negli ultimi due anni del settennato, ha trattato e affrontato i temi della vita politica e dei partiti. «È vero, io facevo cose un po’ strambe, ma le facevo – raccontò a Claudio Sabelli Fioretti – perché non avevo dietro di me potentati economici, né potentati politici, né potentati culturali. Ero stato abbandonato anche dalla Dc. Per farmi ascoltare dovevo fare follie, dovevo dire cose che avevano la forma della follia».
Le due presidenze di Francesco Cossiga. La presidenza Cossiga ha avuto dunque due fasi distinte. La prima, contraddistinta da una rigorosa osservanza delle forme dettate dalla Costituzione: Cossiga, essendo tra l’altro docente di diritto costituzionale, fu il classico “presidente notaio” nei primi cinque anni di mandato, dal 1985 al 1990. Poi, dopo la caduta del Muro di Berlino, Cossiga capì che Dc e Pci avrebbero subito gravi conseguenze dal mutamento radicale del quadro politico internazionale, convinto che i partiti e le stesse istituzioni si rifiutavano di riconoscerlo. Da quel momento iniziò una fase di conflitto e polemica politica, spesso provocatoria, che portò al Cossiga “grande esternatore” e, negli ultimi due anni al Quirinale, al “picconatore”, un appellativo che non l’avrebbe più abbandonato.
La coraggiosa difesa di Gladio. Il mito del Picconatore nacque anche sull’onda emotiva di due vicende che hanno segnato la vita politica italiana all’inizio degli anni Novanta: Gladio e Tangentopoli. La scoperta dell’organizzazione segreta della Nato, creata per rispondere ad un eventuale attacco portato dall’Unione sovietica, colpì l’opinione pubblica e la classe politica italiana. E Cossiga assunse una posizione che fu all’origine di fortissime polemiche, difendendo i “gladiatori” e sostenendo che essi andavano onorati come i partigiani, perché il loro obiettivo era quello di difendere l’indipendenza e la democrazia in Italia.
“Occhetto, lo zombie coi baffi”. E proprio la vicenda di Gladio costò a Cossiga la richiesta di messa in stato d’accusa da parte della minoranza parlamentare, nel dicembre del 1991. Il Comitato parlamentare, però, ritenne tutte le accuse manifestamente infondate, come si può leggere negli atti parlamentari, e la Procura di Roma chiese l’archiviazione a favore di Cossiga, richiesta poi accolta dal Tribunale dei ministri. Su Tangentopoli, Cossiga non negò l’esistenza del malaffare, ma nello stesso tempo nel corso degli anni si chiese perché “inchieste da anni dimenticate” fossero “state di colpo lanciate tra i piedi del ceto politico”.
Francesco Cossiga lasciò il Quirinale il 25 aprile. Forse perché, ipotizzò, qualcuno, non solo in Italia, voleva liberarsi di un sistema politico “logoro e dal loro punto di vista ormai inservibile”. Con dieci settimane d’anticipo sulla scadenza naturale del mandato, il 28 aprile del 1992, Cossiga si dimise dalla Presidenza della Repubblica, per evitare all’inizio dell’undicesima legislatura l’ingorgo istituzionale, legato all’elezione del suo successore e alla nascita del nuovo governo. L’annuncio in un discorso televisivo di 45 minuti, pronunciato simbolicamente il 25 aprile, Festa della Liberazione. Perché Cossiga non faceva niente per caso. Un presidente che, dieci anni dopo, manca ancora di più a tutti noi.
Il primato della Politica e il teatrino del potere. Andrea Cangini, senatore di Forza Italia, Lunedì 17/08/2020 su Il Giornale. Nei giorni scorsi, a dieci anni esatti dalla morte, ho avuto nostalgia della passione con cui Francesco Cossiga difendeva il primato della Politica. Difendeva, cioè, la qualità della democrazia, l'efficacia dei governi, la forza dello Stato. Perché quando la Politica perde il suo primato altri poteri, poteri illegittimi, ne occupano gli spazi vitali: la democrazia diviene così oligarchia, i governi divengono impotenti e gli Stati si svuotano di sovranità. «Ma il presupposto perché il primato della Politica sopravviva è che le forze e le alleanze politiche esprimano una qualche cultura politica», diceva il Presidente. Parole sante, anche se in evidente contrasto con lo spirito dei tempi; tempi caratterizzati da narcisismo, improvvisazione, sradicamento, perdita di memoria... Parole che trovano conferma nell'inefficacia e nell'inefficienza degli ultimi due governi, quello gialloverde come quello giallorosso. Governi non a caso imperniati su partiti e personalità del tutto privi di qualsivoglia cultura politica. Canne al vento, situazionismo politico. Non poteva andare diversamente. Senza un'idea precisa della Storia e della natura umana, senza un'idea radicata di società e di sviluppo la politica perde la bussola, smarrisce la rotta e, fatalmente, si avvita su se stessa vivacchiando alla giornata. Durare diventa l'unico obiettivo possibile, tutto diventa possibile pur di durare. Anche smentire la propria natura dichiarata, anche ribaltare principi ed alleanze, anche indossare barbe e baffi finti per assumere oggi identità politiche in antitesi rispetto a quelle assunte ieri. L'ipocrita camaleontismo del Movimento 5stelle e la triste condizione di «utile idiota» di un partito fondato da un comico in cui si è voluttuosamente calato il Pd sono lì a testimoniarcelo. Che cultura politica ha il Movimento 5stelle? A quale cultura politica intende oggi riferirsi il Partito democratico? Su quale cultura politica comune si baserà la loro annunciata alleanza strategica? Domande senza risposte, misteri insondabili. L'inconcludenza dei governi e il conseguente declino dell'Italia sono e ancor più saranno la logica conseguenza di questo stato di cose. Il vecchio «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» non porta ad alcuna certezza. Occorre ribaltarne i termini: dimmi chi sei, e, forse, ti dirò con chi andrai.
Dieci anni fa moriva il presidente Cossiga “il picconatore”. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 17 Agosto 2020. La missione costante che emerge nell’attività politica di Francesco Cossiga è la difesa dell’interesse nazionale, che per essere perseguita ha bisogno di rappresentanti con il senso dello Stato, chiamati a svolgere funzioni istituzionali dopo avere maturato una serie di competenze. Non si può dimenticare la sua illuminante capacità di analisi e previsione, quell’ intuizione mentale continua che gli consentiva di prevedere un futuro, seppure lontanissimo. Cossiga già prevedeva come sarebbe stato il mondo di oggi, anche se erano pochi coloro in grado di dargliene atto. Era il 17 agosto 2010 quando il nostro amato ed indimenticabile presidente Francesco Cossiga chiuse per l’ultima volta i suoi occhi, lasciando un segno indelebile ed indimenticabile nella politica italiana. Francesco Cossiga nasce a Sassari il 26 luglio 1928, si diploma al classico a 16 anni, si laurea in giurisprudenza a 20, diventando prima libero docente di diritto pubblico e poi professore di diritto costituzionale regionale all’Università di Sassari. Da giovanissimo aderisce alla Dc e capeggia la rivolta dei “giovani turchi” che il 19 marzo 1956 conquista inaspettatamente il partito della sua provincia, sconfiggendo Antonio Segni, uno dei leader nazionali dello scudo crociato. Nel 1958 viene eletto deputato e nel 1966 sottosegretario alla Difesa nel III governo guidato da Aldo Moro, che ne apprezza le doti e lo valorizza. Nell’occasione si occupa del Piano Solo e della trasformazione del SIFAR in SID. Cossiga è stato ministro dell’Interno durante quei drammatici giorni del rapimento e poi omicidio di Aldo Moro da parte dell Brigate Rosse. Poi presidente del Consiglio dei ministri, presidente del Senato della Repubblica, arrivando a ricoprire il più alto incarico istituzionale dello Stato, diventando Presidente della Repubblica, eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977 votanti. Da “presidente notaio“, Cossiga viene ricordato per essere stato il “presidente picconatore” interpretando il suo ruolo di Capo dello Stato unico per le sue caratteristiche nella storia della nostra Repubblica, fuori dagli schemi tradizionali, differente il suo stile da quello dei predecessori e successori. Sono passati dieci anni dalla morte di Francesco Cossiga, maestro prezioso a cui non mi permisi mai di dare di dare del tu (come lui mi chiese più volte, e che per me restò sempre “il presidente”, anzi “il mio presidente” come mi piaceva chiamarlo quando mi telefonava per parlare dei nuovi computers Apple, che era una delle sue passioni segrete, chiedendomi di accompagnarlo in un negozio di via Flaminia che era un pò la sua Disneyland informatica. Cossiga non c’è più, e, oggi più di ieri, non si può dimenticare la sua illuminante capacità di analisi e previsione, quell’ intuizione mentale continua che gli consentiva di prevedere un futuro, seppure lontanissimo. Cossiga già prevedeva come sarebbe stato il mondo di oggi, anche se erano pochi coloro in grado di dargliene atto. “Il Brigadiere a titolo onorifico dell’Arma dei carabinieri Francesco Cossiga non era un conformista, non si allineava al pensiero unico e tantomeno al politically correct e restano indimenticabili alcune sue dichiarazioni e apparizioni tv. “Facevo il matto per farmi ascoltare dal mondo politico” raccontò in un libro, dice Giorgia Meloni, leader di Fdi, ricordando Francesco Cossiga. “Lui è stato un capo dello Stato unico nel suo genere, fuori dagli schemi fino a quel momento conosciuti, diverso dai suoi predecessori e dai suoi successori. A Cossiga -conclude – va riconosciuto di aver difeso con forza e amore le istituzioni e, semmai, ha picconato giustamente la cattiva politica con coraggio e sottile ironia”. “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si trovò dietro la porta me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore ma anche al Csm e voleva andare all’Onu, a Vienna, ma Cossiga lo fermò e gli disse che si doveva prima occupare del maxiprocesso”. A raccontare l’aneddoto all’agenzia Adnkronos è l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ricordando l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga alla vigilia dell’anniversario della sua scomparsa. “Cossiga – racconta Mannino – fu il vero artefice della nomina di Giovanni Falcone agli Affari penali al Ministero della Giustizia. Pur rendendo onore a Claudio Martelli, a cui va riconosciuta la nomina, fu un pensiero di Cossiga, una proposta dell’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli che era, però, alla fine del suo mandato perché venne nominato giudice costituzionale”. “Cossiga è stato un personaggio scomodo sia con gli amici che con gli avversari, capace di grande generosità e di incredibili scene di ira. Il suo carattere era tutt’altro che facile.. Però è stato una personalità capace di leggere il segno dei tempi prima degli altri”. Ha detto l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini ricordando Cossiga. “Visto con gli occhi di oggi – aggiunge Casini – è stato l’uomo politico della Dc che ha capito prima di tutti le conseguenze della svolta epocale che stava avvenendo con la caduta del muro di Berlino e dell’Unione sovietica. Ha capito che nel momento della maggiore vittoria politica della Dc rischiavano di venirne fatalmente meno le condizioni dell’egemonia nella società italiana”. “Un paradosso, quello della Dc che ha dovuto abbandonare il campo (e non l’ha abbandonato per Tangentopoli) per esaurimento dell’obiettivo che aveva raggiunto. Mentre noi festeggiavamo Cossiga diventava sempre più preoccupato e ha cercato in qualche modo di prevenire la fine della Dc con le sue picconate ma non è stato assecondato da nessuno”, continua Casini. Poi, l’ex presidente della Camera, pupillo di Arnaldo Forlani, ricorda un episodio: “Cossiga ha sempre raccontato del mio invito al Crest Hotel a Bologna per fare il primo discorso pubblico dopo le sue dimissioni da ministro dell’Interno, rompendo il silenzio in cui si era ritirato e in una città che aveva visto la scritta “Kossiga” sui muri (lui aveva mandato blindati per l’ordine pubblico). La storia di Cossiga è piena di ferite, ma anche di grandi intuizioni e generosità”, conclude l’ex presidente della Camera. “Di mio padre ho ricordi allegri, così come ricordi tristi, ma il Cossiga politico io non lo conosco, non c’ho avuto molto a che fare, non sono un “cossigologo”. Ricordo, però, che ha mandato al diavolo De Mita ma mai Andreotti”, ricorda Giuseppe Cossiga figlio del Presidente emerito. Una figura, quella di Francesco Cossiga, che ha sempre diviso, “ma io, in questo senso, mi colloco nel limbo del completo disinteresse”, evidenzia il figlio di Cossiga, “nel senso che non so dire se è stato una grande presidente della Repubblica o un pessimo ministro dell’Interno, so solo che è stato mio padre, quindi ai posteri l’ardua sentenza, però io non faccio parte né dei denigratori né degli adulatori, non di mio padre”. “Non è mai stato un notaio né una persona facile da capire – prosegue -, in più, com’è noto, era bipolare, lo diceva anche lui, e quindi è ovvio che anche quello che ha fatto o non ha fatto venga percepito in maniera diversa, e siccome siamo una democrazia ognuno si fa un’idea ed emette un giudizio”. Quanto al nome di Cossiga scritto con la K sui muri negli anni ’70, il figlio Giuseppe non ha dubbi: “Beh, lui mandava i Carabinieri coi blindati a fare gli sgomberi, quindi per quei giovani era un nazista, e il suo nome scritto anche con la doppia esse delle SS naziste era divertente, tanto che mia sorella ha fatto anche una mostra su quelle foto”. La missione costante che emerge nell’attività politica di Francesco Cossiga è la difesa dell’interesse nazionale, che per essere perseguita ha bisogno di rappresentanti con il senso dello Stato, chiamati a svolgere funzioni istituzionali dopo avere maturato una serie di competenze. Il suo è stato un messaggio per tutti noi ma soprattutto per le giovani generazioni. Infatti, nelle dimissioni da Presidente della Repubblica ricordava: “Ai giovani voglio dire di amare la Patria, di onorare la Nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese”. È un invito ad affidarsi alla democrazia quanto mai attuale, perché la democrazia non è solo la meno imperfetta forma di governo, ma anche la meno imperfetta forma di giustizia sociale. E non a caso Cossiga sosteneva che “Questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio”. Con le sue parole ci stava mettendo in guardia su quanto potrebbe presto accadere. Ed è accaduto. Impossibile non ricordarlo. E capire quanto mi manchino le sue telefonate, e quanto manchi allo Stato italiano un uomo ed un politico come lui. Ciao Presidente.
Marzio Breda per corriere.it il 17 agosto 2020. Oggi ricorrono i dieci anni della morte di Francesco Cossiga. Per ricordare il presidente emerito, ecco un’intervista a sua figlia Anna Maria. Signora Cossiga, poco prima di morire suo padre confessò al «Corriere» che se avesse potuto tornare indietro non avrebbe più usato il piccone, perché quella profezia della catastrofe fu un’ingenuità: «Il potere non vuole rigenerarsi». Era davvero pentito? «Non ne sono convinta. Infatti, anche dopo esser uscito dal Quirinale ha continuato a lanciare presagi alla sua maniera mordace. Quando gli contestavo i toni troppo veementi, mi smontava con un sorriso sornione e il giorno dopo ricominciava. Insomma: escludo passi indietro, nella sua critica alla partitocrazia. Quell’intervista con il Corriere era un atto d’orgoglio, semmai. Un modo per sollecitare un’analisi finalmente senza pregiudizi della sua “scossa” al sistema. In troppi non avevano voluto capirne il significato, al di là delle picconate».
Allude allo snobbato messaggio alle Camere?
«Certo. Era un testo importante, più di 80 pagine nelle quali proponeva una riforma di sistema, per offrire una chance di sopravvivenza a una Repubblica già malata. Lo considerarono un progetto ad alto rischio democratico, ignorando che nella stesura babbo aveva coinvolto Mino Martinazzoli e Giuliano Amato, non proprio sospettabili di “frenesie autoritarie”, come si disse di lui. Mio padre ci teneva molto, perciò si sentì tradito. Specie dalla Dc, cui aveva dedicato tutto sé stesso e che da quel momento abbandonò».
Lo deluse pure la richiesta d’impeachment del Pci, che era il partito di Berlinguer, vostro cugino. Che rapporti avevate?
«Non i rapporti che di solito si hanno tra parenti, ma babbo parlava sempre di Enrico con rispetto e stima, ricambiati dal cugino pur stando loro in campi politici diversi. Io ho conosciuto Bianca più tardi ed è stata molto affettuosa quando mio padre è mancato».
Che tipo di padre è stato, Cossiga?
«Apparteneva alla generazione che aveva qualche impaccio con i bambini, quindi pure con me e mio fratello Giuseppe quando eravamo piccoli. Un rapporto destinato comunque a evolversi. Presto volle coinvolgerci in discussioni con lui — su storia e religione, ad esempio, meno invece sulla politica — affinché sviluppassimo la capacità critica. Da cattolico fervente, su alcune cose era rigido e severo, distinguendo tra maschi e femmine. Per capirci: io non potevo andare in discoteca, mentre mio fratello sì, anche se era più giovane di me».
Era presente, in famiglia?
«Dipendeva dagli incarichi che ricopriva. Ricordo dei pranzi bellissimi, che si trasformavano in dibattiti infiniti. Io, che sono sempre stata piuttosto apolitica, in una certa fase sviluppai un interesse per la sinistra. E lui, pur senza censurarmi o pretendere d’impormi le sue idee, prese a stuzzicarmi chiamandomi “bolscevica”».
Lei non lo seguì mai nei viaggi da presidente.
«Stavo all’estero da anni, in Inghilterra e in America, per studio e lavoro. Perciò era lui a venirmi a trovare, in particolare a Londra, da dove spesso ci spostavamo in Irlanda. Amava l’atmosfera dei piccoli villaggi sul mare e insisteva spesso per andare a pranzo in un ristorante appena fuori Dublino, nel quale la gente si esibiva in canti e balli tradizionali. Un episodio curioso accadde a New York, dove lavoravo all’Onu...».
In che senso curioso?
«Una mattina mi telefonò per avvertirmi che stava per scoppiare quella che sarebbe stata la prima Guerra del Golfo. “Sei sicura di voler restare lì?”. Non lo ero, perché si respirava un clima pesante. Quando glielo spiegai, mandò da Roma una scorta a prendermi. Tempo dopo scoprii che aveva battezzato quel mio viaggio di rientro “Operazione Biancaneve”, perché — ecco come la presentò agli agenti — la bimba torna a casa e bisogna proteggerla. Rispecchiava un po’ la sua mania di giocare con i servizi segreti».
Cosa provò, negli anni di piombo, vedendo sui muri delle città il suo cognome storpiato con la K di amerikano, nel senso di golpista, e la doppia esse runica, alla nazista?
«Avevo 16 anni e in famiglia cercavamo di scherzarci su e sdrammatizzare, con la sventatezza dell’età giovanile. Non era facile cancellare il problema: andavamo a scuola scortati ogni giorno con una macchina diversa e seguendo itinerari mai uguali. Tutto cambiò con il delitto Moro, che mi fece preoccupare, per babbo, perché aveva un enorme affetto per Moro, che era stato il suo maestro politico».
Infatti la sua storia resta associata a quel dramma e ad altri misteri italiani. Che cosa le raccontò di questo?
«Per un lungo periodo non ne ha parlato. Lo capivo: si fa fatica a confidarsi con i figli quando sono ragazzi. Ma il suo dolore era visibilmente somatizzato: i capelli gli diventarono bianchi, la pelle macchiata dalla vitiligine. Si sentiva responsabile di quella morte. E sì, capitava che di notte si svegliasse dicendo: “L’ho ucciso io”».
Colpisce ancora oggi il suo dialogo con i terroristi.
«Li aveva combattuti, da ministro degli Interni. Passata la stagione del sangue, dopo che lo Stato aveva vinto, voleva comprenderne le ragioni e avviare la pacificazione del Paese».
Negli ultimi tempi trasmetteva un’immagine di uomo tormentato, solo e sofferente. Come lo aiutavate a tenere sotto controllo la sua fragilità da ciclotimico?
«Chi gli aveva dato del matto, quand’era al Quirinale, si sarà magari sentito confortato nella propria ipocrisia. Per noi non era una tragedia di cui vergognarci: lo consideravamo un disturbo al pari di tanti altri. E sapevamo che c’erano momenti nei quali bisognava stargli più vicini. Lui stesso non nascondeva nulla della malattia. Ha dimenticato che coniò la metafora dell’Omino nero e dell’Omino bianco?».
Già, il primo ipercritico, pessimista e distruttore. Il secondo impegnato a piacere, divertirsi e sedurre.
«Sapeva di avere una personalità ambivalente e ne aveva fatto una tecnica di combattimento politico. Gli ho regalato un mio disegno con questo suo doppio ritratto».
Che cosa pensò quando, dopo 5 anni da presidente-notaio, cominciò a picconare? Vi aveva anticipato la svolta?
«No. Tanto è vero che stupì anche noi. Gli telefonai da Londra e gli domandai: “Ba’ (diminutivo di babbo, alla sarda, ndr), ma che succede?”. “Nulla di preoccupante, Anna. Cerco di divertirmi e dico tutte le cose che penso, in libertà”. Considerato quel che è accaduto dopo, non so quanto si sia divertito, ma ha almeno saputo guardare lontano. Come la profetessa Cassandra, condannata a non esser mai creduta e sulla quale scrivemmo un libro a quattro mani».
Il decennale della scomparsa. L’addio a Cossiga è stato l’inizio dell’antipolitica. Luigi Compagna su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. Il decennale della scomparsa di Francesco Cossiga rischiava di svolgersi nel modo peggiore. Opposte fazioni di storiografi improvvisati e improvvisatori si preparavano a scendere in campo. Giancarlo Caselli, prevenuto accusatore di ieri e di oggi, andava adoperandosi per risvegliare ogni desiderio di menar le mani. Solo la compostezza di argomenti e la finezza di sentimenti con cui la figlia Annamaria, in una bella intervista al Corriere della sera di agosto, ha saputo poi diradare il pessimo clima che si annunciava. Certo, la riflessione su un personaggio controverso e perfino contraddittorio, ma tutt’altro che indegno, meritava pacatezza, intelligenza e profondità di riflessione, sempre più difficile nell’Italia di oggi. Lo riconosceva Rino Formica sul Domani di ieri avvalendosi dell’equilibrio democristiano, nel senso meno angusto del termine, della commemorazione sassarese di Sergio Mattarella il 24 settembre. Entrambi, Mattarella e Formica, hanno reso onore alla memoria di Cossiga prendendo le mosse soprattutto dal messaggio impegnativo e coraggioso con cui l’allora presidente della Repubblica si era rivolto alle Camere il 26 giugno del ’91. Con buona pace dei cultori di due fasi distinte e diverse della presidenza Cossiga, una anteriore e l’altra successiva a quel messaggio, una cosiddetta demitiana e berlingueriana e una, invece, esplicitamente forlaniana e craxiana, quel messaggio conteneva e anticipava il dramma della nostra storia nazionale. A rileggerlo a tanti anni di distanza, grazie alle citazioni proposte da Mattarella e Formica, vengono quasi i brividi. Vi si rivendicava la piena continuità con il mandato assunto sin dal suo insediamento al Quirinale e che dalla metà degli anni ottanta imponeva l’apertura di una nuova fase costituente: senza adeguato rinnovamento istituzionale sarebbero venute meno le basi della nostra convivenza. Vi si dischiudeva una prospettiva di politica costituzionale che superasse i ruoli di presidente notaio o presidente imperatore (per dirla con Ludovico Ortona). Il Parlamento non volle far sentire la sua su quel messaggio, bloccando ogni prospettiva che qualche mese prima si era dischiusa nella Commissione Bozzi. Cossiga venne rubricato fra i presidenzialisti (con evidente scortesia per presidenzialisti veri come il suo amico Zamberletti), mentre il senso del messaggio era soltanto di massima libertà di soluzioni e di modelli. In realtà quello del presidenzialismo fu, un po’ come per Craxi, l’alibi per evitare un confronto di idee e per inoltrarsi nello scontro di demonizzazione degli avversari politici. Si approdò così a una stagione che contemplava il trionfo dell’esercizio dell’azione penale più puro e più duro, ci si liberò della politica e dei partiti. A suo modo ci si inchinò precocemente alla forza dell’antiparlamentarismo prossimo venturo. Cossiga fece in tempo a comprenderlo e a vivere ancora una stagione di sofferenza interiore. Per lui fra i mali dell’Italia repubblicana c’era stata anche una degenerazione “andreottiana”. Nel suo “ex-partito” il profilo degasperiano si era appannato. Ma la sua furia anti-Andreotti ebbe sempre il limite di un grande rispetto, e forse affetto, per le ragioni che anche ad Andreotti erano pur sempre da riconoscere. Da quando aveva iniziato a muoversi la procura di Caselli, Cossiga decise di astenersi da ogni esternazione contro Andreotti. Era il suo modo, profondo e autentico, di voler bene alla Costituzione, all’Italia.
Paolo Guzzanti per “il Riformista” il 17 agosto 2020. Un’Italia senza Cossiga è un teatro vuoto, anche se affollato. Sono dieci anni che se ne è andato e io ho avuto questo privilegio, per sua scelta, di essergli vicino e poi amico, anche se non poche vote mi ha mandato fuori dai gangheri quando gli prendevano certe sue piccole manie che derivavano dalla sardità, da una parola che non ricordo ma che vuol dire comportarsi come hidalgo, come cavalieri di punta e di taglio, cose così. Ma Cossiga va ricordato perché è stato il profeta in patria (pessima posizione) e perché, come dice la nota favola, aveva visto da tempo che il re era nudo anche se tutti facevano finta che fosse vestito. Quale re? Lo schema di gioco della politica ai tempi della guerra fredda, quando l’Italia faceva un bel po’ il porco comodo suo giocando con l’Est e con l’Ovest, con il Sud e con il Nord del mondo, approfittandosi della posizione di cerniera, quando era una cerniera. Con la caduta del sistema sovietico l’Italia si è ritrovata nuda come un verme e sotto i fari. È’ stato il momento in cui il sistema italiano è crollato a domino: la Democrazia cristiana non aveva più ragione di esistere, il Partito comunista cambiava nome indirizzo e ragione sociale, i socialisti facevano la fine dei dinosauri, tutto saltava e cambiava ma tutti facevano finta di niente. Cossiga non era un esperto di spionaggio, come si dice: nella materia era un dilettante pasticcione, con una passionaccia adolescenziale per i giocattoli tecnologici. Ma era esperto di intelligence che non vuol dire spionaggio, ma capacità di lettura di ciò che non è scritto. Aveva imparato quel mestiere lavorando con Aldo Moro, il quale era certamente un grande maestro di intelligence internazionale e di cui Cossiga era il braccio destro nel ministero degli Interni, o come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Come in un romanzo di John LeCarrè trattava la guerra fredda come un grande gioco in cui la prima regola è: ama il tuo nemico come te stesso, se vuoi carpire i suoi segreti. Cossiga amava i comunisti e provava un certo risentimento per suo cugino Enrico Berlinguer il quale gli diceva gelidamente che con i cugini “al massimo si mangia l’agnello a Pasqua”. Il cugino Berlinguer non esitò a metterlo in stato d’accusa davanti al Palamento perché il Parlamento era il grande tempio della democrazia e anche dei sacrifici umani, non quella specie di bocciofila da bingo che è adesso, sotto la gestione dei nemici della Repubblica e della democrazia parlamentare. Ai tempi della Repubblica Italiana la politica era una religione complicatissima con riti, regole, opacità, delitti, reticenze, urla e odi ravvicinati. Cossiga fu ministro degli interni durante il rapimento Moro che restò prigioniero sotto interrogatorio dei suoi carcerieri per quasi due mesi. Non sappiamo e non sapremo forse mai che cosa accadde realmente in quelle settimane, ma Cossiga dovette schierarsi col cosiddetto “partito della fermezza” che voleva Moro morto, piuttosto che Moro liberato dopo uno scambio. Io penso che scambi ci furono e che riguardassero questioni di altissima strategia militare perché troppi documenti scomparivano e ritornavano nelle casseforti e Moro fu ammazzato come un cane, disteso nel portabagagli di una Renault, con gli assassini che gli puntavano le pistole al cuore, solo, la barba lunga, spaventato ma in perfetta dignità. Quando Cossiga ebbe la notizia del ritrovamento a via Caetani ebbe un attacco nervoso, o meglio un crollo, uno shock che di colpo gli fece imbiancare i capelli. Il suo volto si riempì di eruzioni per la vitiligine psicosomatica. Come se quella morte ampiamente prevista e attesa, lo avesse sorpreso. Lui e Andreotti non credo che abbiano mai detto tutto ciò che fecero e ciò che omisero. So però che Cossiga, dopo la chiusura dell’evento che mise la parola fine al tentativo di Compromesso Storico (in cui Moro avrebbe dovuto agire da garante nei confronti degli alleati occidentali, insediato al Quirinale) andò a visitare uno per uno tutti i brigatisti rossi in galera e alla fine di questo accurato pellegrinaggio certificò che i brigatisti rossi erano in fondo dei bravi ragazzi, i “boy scout” della rivoluzione che avevano sbagliato e che si erano dissociati se non pentiti. La questione non è stata chiusa e io voglio ricordare (con lui ne parlai molte volte) che quando guidai una rogatoria internazionale a Budapest dove la Procura generale ci aveva promesso i documenti chiusi in una valigia verde con le prove delle connessioni fra alcuni brigatisti, la Stasi tedesca, il terrorista Carlos che viveva in Ungheria e il Kgb sovietico, nessuno fiatò e tutti anzi fischiettavano guardando da un’altra parte. Cossiga mi disse che quelle erano cose ormai andate come erano andate e non mi volle dire di più, anche se in Senato mi difese coraggiosamente quando fu decisa la mia “character assassination” che consistette nel sigillare i risultati enormi e per nulla segreti o segretati, raggiunti dalla Commissione Mitrokhin che, in origine e per scelta di Massimo D’Alema, doveva essere presieduta proprio da Francesco Cossiga. Morì molto solo e la sua fine fu triste perché lo abbandonarono tutti. Eugenio Scalfari mi raccontò di essere stato lui a suggerire a Ciriaco De Mita di recuperare Cossiga disoccupato e depresso, quando Amintore Fanfani lasciò la presidenza del Senato per formare un ultimo governicchio estivo. Bisognava trovare un nuovo presidente del Senato e chi meglio dell’ex primo ministro, ministro degli Interni e sodale di Moro? Così lui accettò e fu eletto con numeri plebiscitari. E quando si dovette fare il Presidente della Repubblica, la scelta del suo nome fu morbida e matematica: altro plebiscito, poi il silenzio. Dentro al Quirinale stava zitto. Che fa? Che pensa? O che dice? Non si sapeva. In realtà stava detestando e analizzando tutto il sistema di potere, in particolare quello dei magistrati e del Consiglio superiore della magistratura. Poi cominciò a togliersi i sassi dalla scarpa e fare cose che non erano nel protocollo. Alla fine si permetteva licenze metafisiche come intervenire nella trasmissione della Latella che aveva ospite Palamara e dire al magistrato che la sua faccia non gli piaceva, che non gli piaceva il suo nome da tonno e lo insultava e provocava sfidandolo col, suo accento sardo dalle doppie: “Ah, dimenticavvo: lei se vuolle può anche querellarmi, lo sa, verro? che può querellarmi?”. E quello, basito, diceva: grazie. Al Csm mandò i carabinieri in tenuta antisommossa e attaccò frontalmente il sistema trovandosi sotto il tiro di tutta la stampa liberal. I suoi vecchi amici Scalfari e De Benedetti erano ora i suoi nemici, benché a casa di Scalfari usasse andare a pranzo una volta alla settimana. Io, che come cronista della vicenda mi trovavo incredibilmente sotto tiro, vedevo gli amici che, al vedermi, cambiavano marciapiede. Ricordo Tullio de Mauro, con cui ero in rapporti d’amicizia che mi sibilò: “Ma che cazzo scrivi?” e mi tolse il saluto, come decine di altri. Caddi in disgrazia come narratore scrupoloso e non cretino di quel che accadeva, mentre quasi tutti si dilettavano a insistere sulla pazzia di Cossiga, sulle sue pastiglie di liquerizia, i suoi antidepressivi al litio, le sue piccole manie. E io che spiegavo che non era pazzo: potete odiarlo, ma l’uomo ha le idee chiarissime e voi lo sapete. Tentarono di buttarlo fuori dal Quirinale con un certificato medico psichiatrico che ne dichiarasse l’inabilità fisica e riuscimmo a bloccare il tentativo. Dico riuscimmo, perché non ero solo: tutte le teste matte, specialmente di sinistra, erano con lui anche quando non lo dicevano: al Quirinale alle sette del mattino partecipavo ad alcune prime colazioni con cappuccino e cornetto, dove trovavo Valentino Parlato, Andrea Barbato, Alessandro Curzi e a rotazione tutte le teste d’uovo della sinistra della Repubblica. Il sistema crollò come Cossiga aveva previsto e predetto ma la Dc non ebbe la forza di cambiare, come fece Occhetto che trasformò il Pci in Pds, uscendo incredibilmente indenne dalla furia dell’operazione Mani Pulite che scatenò l’odio italiano per il Parlamento, odio che da allora si è sviluppato passando per le monetine a Craxi, i processi a Berlusconi, le campagne d’odio scatenato con il sistema che Sansonetti ha descritto molto bene come coda vivente dello stalinismo italiano: la prosa del procuratore Viscvinski che mandava a morte tutti coloro che Stalin voleva liquidare. La furia che distrugge, il processo senza prove, quel genere di aggressione che il nazional socialismo tedesco hitleriano copiò e imitò con l’introduzione di alcuni accorgimenti come quello di mandare gli imputati davanti al giudice senza cintura dei pantaloni in modo che gli cadessero le braghe, prima della forca. Tutto ciò Cossiga lo sapeva, l’aveva predetto, aveva sempre citato Viscvinski e conosceva i suoi polli e anche le sue volpi. Scrissi il giorno dopo la sua morte un raccontino in cui dicevo di averlo contattato nell’aldilà grazie ad uno dei suoi aggeggi spionistici. Come va dall’altra parte? Chiedevo. Sono molto dissorgannizzatti, rispondeva. Il check in è lentissimo. Non sappevvo che tutto fosse così scalcagnatto.
LA BIOGRAFIA
26 luglio 1928 – Francesco Cossiga nasce a Sassari. Suo nonno è cugino del nonno di Berlinguer.
1956 – Fonda un gruppo politico di giovanissimi democristiani che si chiameranno i giovani turchi. Danno l’assalto ai vertici del partito sardo e lo conquistano.
1958 – Cossiga, a trent’anni, è eletto deputato.
1966 – Entra nel governo Moro III come sottosegretario alla difesa. Ha un ruolo probabilmente nel porre gli omissis nel rapporto Manes sul piano Solo. Il piano Solo è stato un tentativo (agosto 64) di imporre all’Italia una svolta autoritaria o addirittura di realizzare un colpo di Stato. Fu denunciato dall’Espresso di Scalfari. Cossiga resta sottosegretario fino alla fine della legislatura.
1976 – C’è il vero salto politico. Cossiga, corrente di Base (cioè Marcora) ma molto vicino a Moro, diventa ministro dell’Interno nel primo governo (Andreotti III) sostenuto dall’astensione del Pci.
1977 – In Italia la situazione dell’ordine pubblico è tesissima. I movimenti dell’estrema sinistra hanno in mano le piazze. Cossiga è il loro nemico. Sui muri scrivono il suo nome con il K. Lui organizza la repressione, ha la mano dura. Il 12 maggio a Roma viene uccisa una militante radicale durante una manifestazione. Pannella accusa Cossiga di avere mandato agenti provocatori e dice che son loro ad aver sparato.
9 Maggio 1978 – Le Br fanno ritrovare il cadavere di Aldo Moro, rapito 55 giorni prima. Per Cossiga è una tragedia politica e umana. Si dimette.
4 agosto 1979 – Dopo un periodo dietro le quinte torna alla ribalta. È presidente del Consiglio dopo il fallimento del governo di unità nazionale.
Luglio ‘80. E’ accusato di aver favorito la fuga in Francia di un militante di Prima Linea figlio di Carlo Donat Cattin.
12 luglio 1983 – È eletto presidente del Senato.
Estate 1985 – È eletto presidente della repubblica a 57 anni. Il più giovane di sempre.
Primi anni 90 – Inizia a rilasciare continuamente dichiarazioni politiche polemiche. La Dc lo definisce il presidente picconatore. Il 5 aprile del 92 si dimette.
Dal 92 fino alla morte – diventa il più lucido analista della politica italiana. Sostiene alcuni governi di centrosinistra.
Critica in modo feroce la magistratura. Muore il 17 agosto del 2010.
TRA GLI ITALIOTI UOMO SOLO CONTRO LO STRAPOTERE DELLA MAGISTRATURA.
Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm (con l'appoggio del Pci). Accadde nel '91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull'assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell'Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Sono le 17,20 del 14 giugno 1991, quando, del tutto inaspettata, l'Alfa 164 blindata di Cossiga si presenta al portone del Consiglio superiore della magistratura, scrive Franco Coppola su “La Repubblica”. Un consigliere in maniche di camicia incontra il presidente in attesa dell'ascensore. Un po' di imbarazzo, un rapido saluto e il capo dello Stato raggiunge al terzo piano, proprio a fianco all'aula Bachelet, la sua stanza, quella di cui aveva chiesto la disponibilità, senza però mai occuparla, alla fine dell' '89, dopo averla lasciata per anni al comitato di presidenza. In quella stanza lo hanno preceduto e ora lo aspettano i mobili nuovi, arrivati proprio in mattinata, divani e poltrone damascate, segnale inequivocabile di una occupazione nello stesso tempo concreta e simbolica, di un volersi riappropriare del ruolo anche se, negli auspici di Cossiga esternati nel plenum di mercoledì, si fa strada l'ipotesi della provvisorietà della cosa. E' la seconda volta in ventiquattr'ore che Cossiga varca il portone di palazzo dei Marescialli. E questa mattina ci sarà una terza volta. Lo attende una seduta del tribunale dei giudici, quella sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che, mercoledì, comunicando ufficialmente di voler sostituire il vicepresidente Giovanni Galloni a tutto campo, il capo dello Stato ha deciso di presiedere. E la visita di ieri va messa in relazione proprio a questo impegno. E' entrato nel suo studio, ne ha verificato l'arredamento, si è messo a studiare gli atti relativi ai processi disciplinari previsti per oggi, si è aggirato per i corridoi, ha chiesto spiegazioni ai funzionari addetti alla sezione, si è incontrato con l'ex presidente della corte costituzionale Antonio Saja, ha convocato i componenti la disciplinare per oggi alle 9,15, mezz'ora prima dell'inizio della seduta. Non commettere errori procedurali. Si tratta di studiare i processi, ma soprattutto di non commettere errori procedurali. Infatti, la decisione del capo dello Stato di presiedere anche la disciplinare trascina con sé, inevitabilmente, un carico di problemi. Proprio di fronte al più delicato di questi, Cossiga ha ceduto di un passo, permettendo che Galloni presieda uno dei processi in calendario ed evitando così un immediato e pericoloso braccio di ferro. Il primo problema faceva riferimento al fatto che, secondo le norme, se un processo è stato già incardinato, il collegio giudicante non può essere cambiato. All'ordine del giorno di oggi sono iscritte sette pratiche, quattro processi e tre camere di consiglio, cioè decisioni da prendere senza una preventiva discussione pubblica. Uno dei processi, quello contro il consigliere della corte d'appello di Genova Vincenzo Ferraro, è segnato a ruolo in prosecuzione della seduta del 13 maggio 1991. Quella seduta era presieduta, come sempre, da Giovanni Galloni. Oggi, la pratica avrebbe dovuto essere rinviata a nuovo ruolo oppure si sarebbe dovuto annullare quanto già fatto e ricominciare tutto daccapo. Cossiga ha preferito farsi da parte e così Galloni presiederà quell'unico processo. Il secondo problema, il meno importante, lo sottolinea Franco Coccia, consigliere eletto su indicazione del Pds, che della disciplinare è vicepresidente: I ritmi di lavoro della disciplinare appaiono difficilmente conciliabili con le incombenze ordinarie del presidente della Repubblica. Lunedì scorso, la sezione è stata impegnata per circa dodici ore e le sue sedute, generalmente, sono molto impegnative. Anche l'ordine del giorno della prossima seduta è assai denso. Legittimità costituzionale Terzo problema: non più tardi di undici mesi fa, nel primo dei due messaggi sulla giustizia (il secondo è di febbraio) inviati alle Camere, Cossiga scriveva: Per quanto riguarda la presidenza della sezione disciplinare da parte del presidente della Repubblica, l'articolo 18 della legge del 1958 sul Csm attribuisce al capo dello Stato la facoltà di convocare e presiedere la sezione disciplinare in tutti i casi in cui lo ritiene opportuno. Questa norma non può non apparire quanto meno sospetta sotto il profilo della sua legittimità costituzionale, dato che consente di alterare la composizione di un collegio che esercita funzioni giurisdizionali senza che, a fondamento di tale modifica della composizione, vi siano oggettive esigenze o soggettive incompatibilità normativamente predeterminate, ma tutto lasciando ad una scelta discrezionale del presidente della Repubblica. E allora? La sezione disciplinare potrebbe sollevare la questione di costituzionalità, proprio sulla base delle obiezioni di Cossiga. O l'iniziativa potrebbe essere presa da Cossiga in persona. Sul conflitto, o bisticcio che dir si voglia, che separa Cossiga da Galloni si saprà qualcosa di più mercoledì prossimo, quando le clamorose conseguenze minacciate dal capo dello Stato dopo l'intervento del suo vice in difesa dell'indipendenza della magistratura dovranno concretizzarsi. Il presidente vorrebbe risolvere il problema insieme con il Consiglio tutto, che, benché una volta tanto incolpevole, rischia di pagare a duro prezzo le incomprensioni tra i due. La linea emersa tra i consiglieri è semplice: siamo solidali con Galloni, ma i contrasti insorti tra lui ed il capo dello Stato non ci riguardano e non possono costituire motivo di scioglimento. E' nel potere di Cossiga di assumere direttamente la presidenza, è stato detto ma se poi per altri impegni non può essere sempre presente, che non addossi a noi la colpa di un eventuale scarso funzionamento, per poi considerarlo motivo di scioglimento del Consiglio.
Qualche anno fa nel corso di una delle periodiche aspre polemiche fra alcuni partiti politici ed il Consiglio superiore della magistratura Francesco Cossiga con un'un'intervista invitava senza mezzi termini il capo dello Stato ad intervenire: "Come feci io", scrive “Il Velino”. Il 5 dicembre del 1985, quando stava per essere votata una mozione di censura del presidente del Consiglio dell'epoca, Bettino Craxi, aveva inviato una lettera al vice presidente del Csm, (Giancarlo De Carolis) nella quale l'allora inquilino del Colle, esprimeva la ''ferma opinione sulla inammissibilità di un dibattito o intervento del consiglio su atti, comportamenti o dichiarazioni del presidente del Consiglio dei ministri''. Dibattito sollecitato da alcuni magistrati di Milano "a difesa" in relazione alle polemiche sul processo per l'omicidio di Walter Tobagi e sulla condanna di alcuni esponenti socialisti querelati dal sostituto procuratore di Milano, Armando Spataro, che in quel processo fu pubblico ministero. "Io minacciai - raccontava Cossiga nell'intervista - di recarmi di persona al Csm e di estrometterlo com'era mio diritto dalla presidenza e, se avesse opposto resistenza, dall'aula; di rifiutarmi di porre l'argomento all'ordine del giorno, ritenendolo inammissibile, e dove fosse ammesso, cancellarlo, dopo avere espulso tre o quattro membri del plenum. E se avessero per protestato occupato l'aula, avrei fatto sgombrare il Palazzo dei Marescialli. A tal fine, avuta l'intesa del procuratore della Repubblica di Roma e del ministro dell'Interno (Oscar Luigi Scalfaro), feci schierare un battaglione mobile di carabinieri in assetto antisommossa, al comando di un generale di brigata". Cossiga raccontava ancora: "Avevo l'appoggio del Pci. Giunsero al Quirinale il giudice della Corte costituzionale Malagugini e il presidente dei senatori comunisti Perna a dirmi che avevo perfettamente ragione e che non mollassi: Altrimenti quelli lì ci travolgono tutti". Nella storia repubblicana con Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, è stato il presidente che più ha tentato di arginare lo strapotere del Csm. Uno strapotere che da presidente emerito ancora qualche che anno fa così denunciava: "Il CSM continua imperterrito nel cercare di affermarsi pericolosamente quale terza Camera del Parlamento nazionale, non elettiva, non democratica, ed anche nel cercare di affermarsi quale organo Costituzionale, posto al vertice del potere giudiziario. E su questa strada, chiaramente più che incostituzionale, in realtà potenzialmente eversiva. Il Consiglio è sostenuto da costituzionalisti democratici, un tempo largamente rappresentati, ahinoi, anche nella Corte Costituzionale e ... da non pochi elementi della sinistra giudiziaria dell'Unione prodiana" . Nel corso dei suoi quasi sette anni al Quirinale, Cossiga non soltanto minacciò l'intervento dei carabinieri per far si che il plenum non trattasse ordini del giorno da lui non approvati, ma con Giovanni Galloni, nel '91, ricorse perfino alla sospensione temporanea della delega a presiedere i lavori del Csm e a Cesare Mirabelli, vicepresidente del Csm un anno prima di Galloni, ribadì che l'Organo di autogoverno non era un "potere dello Stato" come invece lo intendevano già settori della magistratura e le correnti più politicizzate dell'Anm.
Citazioni Celebri di Francesco Cossiga:
I sardi rimangono amici anche se uno commette reati.
Lo Stato è in ritardo.
L'Italia è sempre stato un Paese "incompiuto": il Risorgimento incompleto, la Vittoria mutilata, la Resistenza tradita, la Costituzione inattuata, la democrazia incompiuta. Il paradigma culturale dell'imperfezione genetica lega con un filo forte la storia dello sviluppo politico dell'Italia unita.
Sono certo che questa circostanza della riunione della Gran Loggia potrà offrire alla massoneria italiana l'opportunità di confermare e consolidare il nobile impegno, sempre testimoniato dal Grande Oriente, per l'elevazione spirituale dell'uomo, condotta attraverso la difesa e la promozione dei valori di libertà, di giustizia e di solidarietà.
Sono depresso: nessuno intercetta le mie telefonate.
So tutto su Gladio: come era fatta e come non era fatta. Per filo e per segno. E quindi, quando ne parlo, ne parlo con perfetta cognizione di causa. E mi sono immediatamente sbracciato per garantire che era una cosa perfettamente lecita, anzi doverosa, e senza doppi fondi, esponendomi in prima persona.
Si potrebbe fare un libro con i nomi dei sovrani inglesi decapitati per aver attentato alla Costituzione. Magari aggiungendoci Francesco Cossiga, perché ha firmato il decreto di arruolamento per Gladio.
Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro.
I gladiatori sono stati additati al pubblico ludibrio dei patrioti. Brava gente che qualcuno ha tentato di confondere con stragisti. e questa è un'altra delle vergogne nazionali.
Di questa questione della P2 non mi sono mai impicciato, non so di cosa si tratti, non mi sento vincolato dalle risultanze della commissione parlamentare di tre legislature fa, così come non mi sento vincolato dalla commissione parlamentare sui fatti di Lissa e dell'ammiraglio Persano. Rispetto molto di più gli uomini, le persone, il principio della certezza del diritto, la presunzione d'innocenza e sono in attesa di conoscere i giudizi definitivi della magistratura su questo problema. Io non so se alcune persone che sono state messe nelle liste ci fossero o no, io ho detto semplicemente che alcune di quelle persone le conosco, sono dei grandi galantuomini e per i servizi che hanno reso, essendo io al governo del paese, sono dei patrioti.
Craxi è un balente, da "balentia", che in sardo significa coraggio, sposato con la capacità e l'abilità, e con il senso dell'onore.
[Sulle proteste degli studenti universitari] Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città.[...] Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. [...] Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano.
Se fossi ministro dell'interno darei incarico ai servizi segreti di controllare l'Anm in base alla legge sull'associazione eversiva.
Di Pietro dice che è tornata tangentopoli? Lui è un famoso cretino e gli voglio molto bene perché voglio bene ai cretini e lui è sempre più cretino. Però ora sta diventando presuntuoso, crede di essere diventato anche un politico. Ha aumentato i consensi? Quando dissero a Churchill che c'erano cretini in Parlamento, lui rispose "meno male, è la prova che siamo una democrazia rappresentativa". Vuol dire che i cretini in Italia, cioè quelli che votano l'Italia dei... disvalori, è bene che emergano.
Veltroni si intende di cinema e Africa. Non costringiamolo a capire anche questa cosa. Lui è il ma anche, è per il giustizialismo e l'antigiustizialismo, per il freddo e per il caldo.
[Perché le piace tanto D'Alema?] Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura.
Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla.
Noi galantuomini stiamo con la Pompadour.
Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui [Silvio Berlusconi]. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln.
In Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi.
Io relativizzo tutto quello che non attiene all'eterno.
Totò Cuffaro è stato condannato per un reato ridicolo.
Nominare Di Pietro Ministro della Giustizia, altrimenti arrestano anche la moglie del Presidente del Consiglio.
[Rivolgendosi al segretario dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara] I nomi esprimono la realtà. Lei si chiama Palamara e ricorda benissimo l'ottimo tonno che si chiama Palamara. [...] Io con uno che ha quella faccia e che ha detto quella serie di cazzate non parlo. Maria, fai tacere quella faccia da tonno.
La Nunziatella, oltre ad essere un luogo di formazione militare, è un luogo di grandissima formazione culturale e civile. Qui è racchiusa la storia di tutto il nostro Paese. Io credo che l'Italia Repubblicana deve far tesoro di tutte quelle che sono le grandi tradizioni militari e per ciò stesso civili che si sono formate in tutto il paese anche quando questo non aveva raggiunto l'unità politica. La mia presenza alla Nunziatella vuol dire dunque onorare l'Italia in tutta quella che è la sua storia.
[In risposta ad una dichiarazione della Bruni] Anche noi italiani siamo ben lieti che Carla Bruni non sia più italiana, anzi siamo addirittura felici. Chissà che un giorno Carla Brunì non sia costretta dalla sua burrascosa vita a richiedere la cittadinanza italiana.
Un'efficace politica dell'ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti[...]l'ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita[...]io aspetterei ancora un po' e solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di Bella ciao, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell'ordine contro i manifestanti.
Non accetto lezioni di etica politica dalla Bindi: è brutta, cattiva e cretina.
[Parlando di sé] Italiano per volontà come sono tutti i sardi.
[A proposito del caso Visco-Speciale] Cosa sarebbe l'Italia senza Arlecchino e Pulcinella.
[Sull'11 settembre] Tutti gli ambienti democratici d'America e d'Europa, con in prima linea quelli del centrosinistra italiano, sanno ormai bene che il disastroso attentato è stato pianificato e realizzato dalla Cia americana e dal Mossad con l'aiuto del mondo sionista per mettere sotto accusa i Paesi arabi e per indurre le potenze occidentali ad intervenire sia in Iraq sia in Afghanistan.
Il Vaticano è filoarabo perché ha necessità di tutelare gli spazi e l'esistenza dei propri fedeli che risiedono in quei paesi. Del resto la vecchia tradizione popolare cattolica è sempre stata intrisa di antiamericanismo, ed ha disprezzato innanzitutto ciò che sapeva di protestantesimo.
Fra Prodi e i DS scelgo cento volte i DS, perché i DS so chi sono, Prodi non so chi è.
Dopo le famiglie distrutte da mani pulite senza nessun contributo alla moralizzazione del Paese, ora con gli stessi attori non avremo grazie a calciopoli nessuna moralizzazione: o se la danno i club o non sarà certamente Borrelli a darla loro. E corriamo il rischio di avere un'altra sequela di suicidi, tentati suicidi e famiglie distrutte. I ragazzi della nazionale stanno reggendo a questa persecuzione psicologica ed hanno retto anche al dolore per la vicenda di Pessotto. Per questo dico loro bravi.
Di Pietro ha le qualità morali per andare al Quirinale.
Di Pietro è un ottimo investigatore e un buon politico. Vedrei bene per lui un seggio in Parlamento.
I magistrati di Mani Pulite hanno e avranno il mio appoggio.
Rovinerò Bossi facendogli trovare la sua automobile imbottita di droga; lo incastrerò. E quanto ai cittadini che votano per la Lega li farò pentire: nelle località che più simpatizzano per il vostro movimento aumenteremo gli agenti della Guardia di Finanza e della Polizia, anzi li aumenteremo in proporzione al voto registrato. I negozianti e i piccoli e grossi imprenditori che vi aiutano verranno passati al setaccio: manderemo a controllare i loro registri fiscali e le loro partite Iva; non li lasceremo in pace un momento. Tutta questa pagliacciata della Lega deve finire.
[Gianfranco Fini] È il migliore. Porta avanti il suo gioco politico con una buona lucidità. Ma è privo dei supporti dottrinari. Non so se legga qualche libro. So che mischia un po' tutto: Evola e il liberismo, la conservazione e il libertarismo.
Nel 1993 in Italia c'è stata una rivoluzione inutile, anzi un colpo di Stato. Purtroppo la DC non capì o sottovalutò la situazione, impegnata com'era a dare giudizi sul mio presunto stato mentale. Oggi direi che Di Pietro potrebbe essere un bravo dirigente di squadra mobile, uno di quelli a cui si perdonano certi eccessi. Quanto alla morale, se io alla sua età, quando ero sottosegretario alla Difesa, avessi accettato denaro da amici... cosa mi sarebbe successo?
Le intercettazioni hanno ormai il posto che avevano prima i pentiti. Ma i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia.
La battaglia contro la magistratura è stata perduta quando abbiamo abrogato le immunità parlamentari che esistono in tutto il mondo e quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato i pantaloni scrivendo sotto dettatura di quell'associazione tra sovversiva e di stampo mafioso che è l'Associazione nazionale magistrati.
Questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l'incendio.
Craxi e Martinazzoli avrebbero dovuto riconoscere che la DC e il PSI sono i soci fondatori di Tangentopoli.
Gesù è chiamato, nella tradizione musulmana, il "Soffio di Dio nella Madonna", ma l'aspetto temporale della nascita di nostro Signore è una donna che dice Fiat!
Alla mia veneranda età accade di dover essere alle prese con i medici. Ma la malattia finisce per essere una cosa bellissima, quando aiuta ad allontanare la tentazione della politica.
Vorrei sapere quanti omicidi devono compiere i pentiti per essere credibili.
I magistrati fanno bene quando da pubblici ministeri fanno i pubblici ministeri e non i poliziotti o i giudici; quando da giudici fanno i giudici e non i pubblici ministeri o i poliziotti; quando rimangono indipendenti ed evitano anche di non apparirlo; quando rispettano gli altri poteri dello Stato e non cercano vie pseudogiudiziarie a discutibili riforme politiche; quando difendono la loro indipendenza, ma non camuffano da indipendenza i loro interessi corporativi; quando agiscono su, fatti e non su teoremi.
Io non sono, comunque, uno di quelli che crede che la giustizia sia estranea alla cultura, tanto meno alla cultura politica.
L'uomo viene ucciso più dal cibo che dalla spada, ma le istituzioni vengono uccise dal ridicolo.
L'esercizio delle funzioni di magistrato dell'ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero incide così profondamente e talvolta irreversibilmente su i diritti della persona e sulla sua stessa vita psichico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera.
Il Csm è il braccio armato, il killer dell'Associazione nazionale magistrati.
Lo sciopero (dei magistrati) che si terrà domani è un vero e proprio atto di eversione contro la Costituzione cui purtroppo nè noi, nè il governo, nè il Parlamento abbiamo finora voluto e saputo reagire.
Cosa direbbe Cossiga del circo giudiziario allestito dalla Boccassini, si chiede Alessandro Nardone su “L’Intraprendente”. Non sono mai stato un ultrà berlusconiano e, anzi, dalla nascita del PdL in poi, non ho di certo lesinato critiche all’ex premier. Perché? I motivi sono essenzialmente due, inscindibili e consequenziali: il primo riguarda il sostanziale fallimento (per altro da lui stesso ammesso) della realizzazione di quello che veniva presentato come il vero e proprio “core business” dell’esperienza di governo del centrodestra, ovvero la rivoluzione liberale. La seconda ragione che, poi, a mio modestissimo avviso, è la madre della prima, riguarda i criteri – certamente non meritocratici – di selezione della classe dirigente del suo partito. Questi, però, non sono certo argomenti in nome dei quali gettare il bambino con l’acqua sporca, cascando nel trappolone di un antiberlusconismo becero e aprioristico, negando la realtà di una leadership – quella del Cav. – ancora in grado di calamitare una fetta importantissima di consensi. Operazione folle e suicida se vista da sinistra, figuriamoci per chi, come noi, ha in animo di ricostruire il centrodestra. Insomma, credo che chiunque si assuma l’onere di rappresentare una visione realmente onesta intellettualmente, non possa assolutamente permettersi di essere obiettivo ad intermittenza. Tutto questo per dire che mi fanno sorridere coloro i quali, anche a fronte degli accadimenti degli ultimi anni, si ostinano a non ravvisare un disequilibrio tra il potere politico e quello della magistratura. Ce lo spiega benissimo il compianto Presidente Cossiga che, in un libro – intervista di Andrea Cangini (Fotti il potere, Aliberti Editore) ci spiega, con il suo consueto modo assai esplicito, alcuni passaggi a mio avviso fondamentali per meglio mettere a fuoco una questione che, prima o poi, qualcuno dovrà farsi carico di risolvere. Ve li riporto di seguito. Buona lettura.
L’ideale dei magistrati è che le leggi le facciano loro.
Dal potere, informale, della massoneria, al potere a volte arbitrario della magistratura. Organo nei confronti del quale il Presidente nutre un’istintiva diffidenza figlia di quel primato della politica cui ama spesso richiamarsi. È così diffidente, Francesco Cossiga, che non appena gli si chiede del potere dei giudici sulle cose della politica cita Carl Schmitt: “Il quale scrisse che l’invenzione della Corte costituzionale era una solenne sciocchezza, nonché un pericolo perché un giudice che può giudicare le leggi è, di fatto, un organo politico. Di più: è un organo politico superiore all’organo politico per eccellenza, il Parlamento. Non a caso i due Paesi che nel Novecento per primi si diedero una Corte costituzionale furono tutti e due travolti: prima l’Austria della dittatura antitedesca ma patriottica del fascista Eglebert Dollfuss, poi la Germania di Weimar, sulle cui ceneri nacque il Terzo Reich. La gente non sa che negli Stati Uniti vi è una durissima polemica contro la Corte Suprema, e i più critici sono i cattolici teocon, gli ebrei praticanti, i battisti e gli altri evangelici che fanno capo alla rivista First Think. Ambienti diversi, ma accomunati dalla preoccupazione per un organismo giustamente accusato di emettere sentenze “politiche”. Personalmente, ho sempre sostenuto che la Corte costituzionale italiana è un organo di arbitraggio politico esercitato in finta forma giurisdizionale”. Tutto questo, ragionando in termini generali. Ma secondo Cossiga il caso particolare italiano è anche peggiore dei casi di scuola. È peggiore perché “da noi la magistratura s’è arbitrariamente trasformata da ordine in potere”. La conversione risale ai tempi di Mani Pulite e gli elementi che l’hanno resa possibile sono due: “La conclamata crisi del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica ed il fatto che buona parte del Pci/Pds fece da sponda a quell’operazione ritenendo di trarne vantaggi politici”. Ma la responsabilità di tutto questo, naturalmente, è a monte. Quando un ordine o un potere tracimano e invadono gli spazi vitali dei poteri limitrofi è sempre perché gli argini hanno ceduto. E in questo caso gli argini sono rappresentati dalla politica. I politici erano deboli, i partiti annichiliti e i magistrati ne hanno dunque invaso i territori con facilità. “Oggi” dice Cossiga, “l’ideale dei magistrati è che le leggi le devono fare loro. Devono farle loro perché loro sono i migliori. Punto e Basta. Cos’era, del resto, il proclama del pool di Milano, “ribalteremo l’Italia come un calzino”, se non un programma politico?”. Le avvisaglie, però, ci furono per tempo. Ma come spesso accade non furono colte. Per Francesco Cossiga il primo “segnale emblematico” fu quel che accadde nel ’73 durante l’iter parlamentare della legge Breganzone. “Quella legge che” spiega, “previde l’avanzamento in carriera dei magistrati per pura anzianità “senza demerito”. Senza demerito, capisce? Il merito non conta e l’eventuale demerito del magistrato puo’ essere rilevato solo da altri magistrati, cosa che di conseguenza non accade. Beh, ricordo che alla Camera parlarono contro solo il repubblicano Reale, l’onorevole Ricci, poi sequestrato in Sardegna e ucciso, Peppino Gargani e io. Ricci, Gargani e io, tutti democristiani, fummo immediatamente convocati al gruppo parlamentare del partito, dove un membro della Direzione ci ingiunse di votare a favore e di tacere “perché se no – disse esibendo i polsi – ci arrestano tutti”. Non si piegarono. Il repubblicano e i tre sparuti democristiani furono gli unici a votare contro. “Ma ciò nonostante” sorride il Presidente, “fummo tutti arrestati lo stesso”. Il problema è che da allora la politica non ha più trovato un equilibrio col potere giudiziario: non si è corretta, ne è riuscita a imporsi. “Oggi tocca infatti a Silvio Berlusconi: un outsider, per i poteri forti del Paese; una staffetta del grande corruttore Bettino Craxi, per i giudici. Dunque, una preda due volte ghiotta. Ma è bene non dimenticare che è storia recente la crisi di un governo (quello presieduto nel 2008 da Romano Prodi) innescata da un’inchiesta giudiziaria (quella contro il guardasigilli Clemente Mastella). Per non dire dell’imbarazzo del Viminale di fronte a una sentenza del Consiglio di Stato che, se non fosse stato ritirato il ricorso, avrebbe seriamente messo in discussione la data delle scorse elezioni politiche. Per tutelare il diritto di uno pseudo partito dello 0,2 per cento, la Democrazia cristiana di Giuseppe Pizza, si sarebbe così irrimediabilmente danneggiato l’interesse generale incidendo sui tempi, e dunque sul risultato, di quello che della la democrazia è il momento supremo: le elezioni, appunto. Giochetto recentemente riproposto nel Lazio in occasione delle elezioni regionali…”. “Vicende ai limiti del golpe”, è il commento del Presidente.
Sarebbe uno scontato eufemismo dire che Cossiga non lascia un buon ricordo a Palazzo dei Marescialli, scrive Paolo Menghini su “Il Corriere della Sera”. Ma anche quello secondo cui il Capo dello Stato non verserà lacrime di commozione nel separarsi da molti dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, ai quali è apparso legato in questi anni da "profonda disistima". Nessun altro organismo istituzionale è mai riuscito a mandarlo fuori dai gangheri come ha fatto il Consiglio superiore della magistratura e nessun governo dei giudici si è mai lamentato tanto del suo presidente. Insomma un'incompatibilità di fondo che si è manifestata in frizioni continue, guerre di nervi, fragili tregue, molti scontri plateali. Si lasciano, il Consiglio e il suo presidente, cui i temi della giustizia sono stati particolarmente a cuore e ne ha fatto oggetto di due messaggi al Parlamento, proprio col ricordo fresco di un ennesimo "corpo a corpo" avvenuto una settimana fa: alcuni consiglieri annunciano di voler disertare la seduta dedicata al caso Sicilia, presente il Capo dello Stato, Cossiga s'infuria, dice che il Csm "e' una delle ultime sacche di socialismo reale del nostro paese", e ai protagonisti dello sgarbo dà dei "maleducati". Record, questo tormentato rapporto ne ha battuti parecchi. Non era mai successo che un componente del Csm si dimettesse per protestare contro il Presidente della Repubblica: Elena Paciotti, di "Magistratura democratica" se ne andò nel giugno del 1990 dopo che Cossiga aveva accusato il Csm di volersi assumere compiti non suoi. Non era mai successo che venisse revocata dal Capo dello stato al vicepresidente del Csm la delega conferita al momento dell'elezione. Non era mai successo che un presidente "sconvocasse" una seduta del Consiglio perchè la maggioranza dei componenti aveva deciso di inserire all'ordine del giorno cinque pratiche giudicate da Cossiga fuori dalla competenza del plenum. Non si era mai sentita infine tanta durezza di linguaggio nell'affrontare i contrasti scoppiati tra Quirinale e Palazzo dei Marescialli. Eppure le premesse sembravano le migliori. Il Presidente della Repubblica, nella sua qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, non aveva esitato a sottoscrivere, all'atto del suo insediamento, una delega più ampia di quella concessa dai suoi predecessori al vicepresidente del Csm. A Giovanni Galloni, dunque, piena fiducia. Quando, poi, dopo gravi incomprensioni, si riappropriò delle sue prerogative, lo ha fatto in maniera clamorosa e dirompente per sottolineare in maniera anche "scenografica" tutto il suo disappunto. Un camion partito dal Quirinale, un pomeriggio del giugno 1991, consegnò a Palazzo dei Marescialli un arredo completo per lo studio di Cossiga che aveva deciso di installarsi nel suo ufficio dopo aver ovviamente ritirato la delega a Galloni anche per la normalissima amministrazione. Alcune date scandiscono le tappe più importanti della storia del Csm e del suo presidente. Dicembre 1985: il plenum vuole replicare all'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi che aveva criticato alcuni giudici. Cossiga lo impedisce E cominciano i contrasti sull'interpretazione da attribuire alle funzioni del Csm. Il Capo dello Stato segue la corrente di pensiero secondo cui l'organo di autogoverno dei giudici debba svolgere funzioni di alta amministrazione mentre altri, soprattutto i togati, difendono il ruolo anche politico e di indirizzo generale di palazzo dei Marescialli. Marzo 1990: Cossiga blocca la discussione sulla mancata promozione di un giudice bolognese iscritto ad una loggia massonica. Luglio 1990: il presidente rinnova i suoi dubbi sui poteri del Csm e non partecipa alla elezione di Galloni. Novembre 1990: anche il "caso Casson", il giudice che aveva chiesto la testimonianza di Cossiga per Gladio, diventa motivo di contrasto: può il vicepresidente del Csm porre in discussione argomenti senza il previo assenso del presidente? Il quesito diventa pressante e nel febbraio 1991 il Capo dello Stato decide di affidare ad una commissione di studio, presieduta dall'ex presidente della Corte costituzionale Livio Paladin, il compito di valutare eventuali correttivi alle regole sul funzionamento del Consiglio. Una data storica è sicuramente giugno 1991. I rapporti precipitano. Il Quirinale giudica offensive una serie di dichiarazioni di Galloni. Il vice aveva polemizzato con Cossiga che aveva deplorato l'abitudine di mandare contro la criminalità organizzata i giudici ragazzini sostenendo invece che bisognava essere grati a quei giovani. E poi a Vasto, al congresso nazionale dei magistrati, Galloni aveva affermato che non si era mai dato il caso di rivoluzioni guidate dai vertici delle istituzioni. La rabbia di Cossiga sale a mille. Parla di "demagogia eversiva" e di "inaudito attacco personale al Capo dello Stato". E chiude minaccioso: "L' episodio non rimarrà senza conseguenze". La lite si conclude con la revoca della delega e con l'attesa, vana, da parte di Cossiga delle dimissioni di Galloni. Successivamente, anche per interventi esterni al Consiglio, il dissidio viene sanato ma i contrasti non tardarono a riaffacciarsi sul medesimo tema: chi al Consiglio ha il potere di formare l'ordine del giorno. Una volta, per bloccare una seduta, Cossiga non esitò a minacciare il Csm: "Mando i Carabinieri".
La prima volta mi fece chiamare al telefono dell’Espresso dalla Batteria del Viminale, che era il febbraio o il marzo del ’68, e io e Scalfari eravamo appena stati condannati dal Tribunale di Roma per aver diffamato il generale Giovanni De Lorenzo attribuendogli il tentativo di eversione del “Piano Solo”, scrive Lino Jannuzzi su “Il Foglio”. Dopo la sentenza, Scalfari aveva pubblicato sull’Espresso una durissima lettera aperta al presidente del Consiglio Aldo Moro, accusandolo di aver nascosto la verità ai giudici cancellando con i 71 omissis le denunce dell’inchiesta del generale Manes. Francesco Cossiga era sottosegretario alla Difesa e al telefono fu secco e perentorio: “Devi dire a Scalfari che sbaglia a prendersela con Moro. Gli omissis li ho messi io, Moro non capisce niente di queste questioni, e, fosse stato per lui, avrebbe messo in piazza i segreti più delicati della Repubblica”. Un anno dopo, nel frattempo io e Scalfari eravamo stati eletti in Parlamento, ed era stata costituita la commissione d’inchiesta sui fatti dell’estate del ’64 Cossiga venne a pranzo da me, in via della Croce, e si vantò due volte: “Io li ho messi, gli omissis, quando ho mandato il rapporto Manes al tribunale, e io li ho tolti, ora che ho rimandato il rapporto alla commissione. Ma questo non servirà a dare ragione a te e a Scalfari”. In effetti, la relazione di maggioranza della commissione ci trattò benissimo, riempiendoci di elogi per le nostre qualità di grandi giornalisti, ma in sostanza confermò l’assoluzione di De Lorenzo. E Cossiga non ha mai più cambiato idea. In occasione del suo settantasettesimo compleanno, nel luglio del 2005, quando lo intervistai e annunciò che dal primo gennaio 2006 si sarebbe ritirato dalla politica e fece un rapido bilancio di cinquant’anni di vita, gli chiesi: “Se un giornalista riprendesse e rilanciasse oggi la famosa inchiesta di quarant’anni fa sul ‘colpo di stato’ del generale De Lorenzo, riscenderebbe in campo per difendere il generale e l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni, suo conterraneo e maestro?”. E lui: “Certamente, e accuserei quel giornalista di essersi inventato tutto… Il che non mi impedirebbe di diventare suo amico e di rimanerlo per quarant’anni, e di levarmi a parlare in Senato, riscuotendo la solidarietà di tutti i settori, in sua difesa, quando lo volessero arrestare per le sue sacrosanti critiche ai professionisti dell’antimafia…”. Per l’occasione, Cossiga fece di più. Quando mi condannarono e il Tribunale di sorveglianza decise che avrei dovuto trascorrere in carcere due anni e quattro mesi, affittò un aereo per venirmi a prendere a Parigi, dov’ero per una riunione del Consiglio d’Europa: “Ti riporto io a Roma e ti accompagno fino a Regina Coeli…”. Non ero entusiasta della generosa proposta, e per fortuna mi tolse d’imbarazzo la grazia concessami dal presidente Ciampi, appena in tempo. L’ultimo suo anno al Quirinale, mi chiamava alle sette del mattino perché andassi a far colazione da lui e, di solito, mi anticipava le sue “picconate”. Come quella volta che doveva andare al Palazzo dei Marescialli a presiedere il Csm e mi recitò, mentre si faceva la barba, il discorso che avrebbe fatto ai pm. Il Consiglio aveva posto all’ordine del giorno una “censura” al presidente del Consiglio dei ministri, che era Craxi, che si era permesso di criticare i magistrati che non avevano indagato a sufficienza sull’assassinio del giornalista Tobagi. Cossiga tolse la delega a presiedere la riunione del Csm al vicepresidente e preannunciò che ci sarebbe andato lui. Mentre si faceva la barba, fece chiamare il comandante dei carabinieri del Quirinale e gli ordinò di precederlo e di “circondare” con i suoi uomini il Palazzo dei Marescialli e di “tenersi pronti a intervenire” se, dopo il suo discorso, il Consiglio non avesse tolto dall’ordine del giorno la minacciata “censura” a Craxi. Ce l’aveva con tutti Cossiga, e non lo mandava a dire, ma ce l’aveva soprattutto coi magistrati. Undici anni dopo quella volta dei carabinieri al Csm, si ripassava dinanzi allo specchio, sempre facendosi la barba, il discorso che avrebbe fatto al Senato per dimettersi da senatore a vita “per difendere il potere del Parlamento, minacciato dall’arrendevolezza e debolezza della classe politica nei confronti della cosiddetta “magistratura militante”, dell’Associazione nazionale dei magistrati e dello strapotere del Consiglio superiore della magistratura…”. Ci tenne a spiegarmi la differenza con la storia dei carabinieri al Csm di undici anni prima: “Allora protestavo direttamente contro i pm e bloccai lo strapotere del Csm. Oggi, che sono solo un senatore a vita, senza patria e casa politica e che non ho alcuna forza politica accanto, vado in Senato per l’ultima volta a protestare contro i ‘politici’, quei politici arrendevoli che non sono stati capaci di arginare lo strapotere dei magistrati militanti, come feci io allora”. E’ la cosa che maggiormente Cossiga rimproverava ai governi di Silvio Berlusconi, quella di polemizzare tanto a parole con i magistrati e di promettere e preannunciare di continuo le riforme della giustizia, ma in pratica di non riuscire a concludere niente, mentre il potere abnorme della magistratura e il suo sconfinamento sui poteri del governo e del Parlamento non facevano che aumentare. E spesso, anche negli ultimi tempi, mi ricordava di una cena che avevo organizzato a casa mia tra lui e Silvio Berlusconi, qualche mese prima che il Cavaliere annunciasse ufficialmente la sua discesa in campo. Per tutta la cena Cossiga non fece altro che sconsigliarlo: “La politica è una cosa maledettamente seria, diceva, e non è per Lei, la faranno a pezzi…”. Berlusconi lo guardava sorridente e rispettoso, ma si capiva che ormai aveva deciso e che non avrebbe tenuto in nessun conto i suoi consigli. Quando, il 27 novembre del 2007, presentò veramente in Senato le sue dimissioni da senatore a vita, Cossiga, più che con i magistrati, se la prese con “quel losco figuro del capo della polizia che si chiama Gianni De Gennaro”, definendolo “un uomo insincero, ipocrita, falso”, e “un personaggio cinico e ambiguo che usa spregiudicatamente la sua influenza”: “Un uomo che è passato indenne da manutengolo dell’Fbi americana, che è passato indenne dalla tragedia di Genova, è passato indenne dopo aver confezionato la polpetta avvelenata che ha portato alle dimissioni di un ministro dell’Interno…”. Passarono settanta giorni senza che nessuno, a cominciare dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Interno, che era Giuliano Amato, rispondessero pubblicamente a Cossiga, finché, il 31 gennaio del 2007, il Senato mise all’ordine del giorno le dimissioni di Cossiga e il senatore a vita dimissionario si alzò dal suo banco nell’Aula, al tavolo delle commissioni, e disse: “Soltanto ieri il ministro dell’Interno ha risposto per iscritto e credo che egli, per quello che sa, abbia detto la verità. A motivo del contenuto della risposta del ministro dell’Interno ritengo mio dovere politico e morale chiedere pubblicamente e formalmente scusa al prefetto Gianni De Gennaro per le dure critiche o accuse da me più volte rivoltegli in quest’Aula e fuori di quest’Aula”. Poi ha confermato le sue dimissioni, che furono respinte a maggioranza. Ma nessuno ha mai saputo, da allora, che c’era scritto in quella misteriosa lettera del ministro dell’Interno, e che ha indotto Cossiga a fare le sue scuse a De Gennaro. Tra tanti misteri, veri o presunti, che Francesco Cossiga si sarebbe portato nella tomba, questo è l’ultimo, ed è forse il più inquietante. A me, che glielo chiesi, rispose: “Ti posso solo dire che quello che mi ha scritto Amato è più grave e scandaloso di tutto ciò che ho rimproverato a De Gennaro”. L’ultima volta sono stato a casa sua a chiedergli di dire qualcosa su Giulio Andreotti,un breve contributo da inserire in un’intervista della Rai, nel programma “Big”, all’ex presidente del Consiglio, e ne disse più bene che male. Ci ripromettemmo di fare l’intervista anche a lui, per lo stesso programma. Non abbiamo fatto in tempo. Sulle questioni che si sono imposte alla cronaca e che non cessano di generare polemiche sia tra i poli sia tra uomini di governo e magistratura, il VeLino con Mauro Bazzucchi ha interpellato l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, i cui rapporti con il Csm, durante il suo mandato, hanno vissuto momenti di conflitto aperto, culminando, circa dieci anni fa, nell'ultimo sciopero proclamato dai magistrati prima di quello previsto per il prossimo 6 giugno. E Cossiga ha risposto da par suo, come un fiume in piena, prendendo spunto proprio dalla recente decisione dell'Anm per contestare la condotta della magistratura associata: "Penso sia una decisione eversiva - dice Cossiga - alla quale l'Anm è giunta anche per la tolleranza benevola di Ciampi e per la debolezza del Governo, aggravata dalle rodomontate del presidente del Consiglio Berlusconi e dalla benevolenza tollerante del presidente della Camera dei deputati Casini. È una decisione eversiva con la quale si vuole affermare, da parte della magistratura militante, che non si vuole rinunciare al potere politico indebitamente conquistato anche per colpa dell'ultima Democrazia Cristiana. La Dc dei Mancino e dei D'Elia, che credevano così di salvarsi dalla valanga giustizialista. Ad aggravare le cose c'è la richiesta di colloquio-confronto fatta dal presidente della Repubblica e dal presidente della Camera tra legislativo ed esecutivo da una parte (unica espressione della sovranità popolare) e la cosiddetta magistratura, che nient'altro è che un corpo di impiegati dello Stato cui un concorso vinto largamente per cooptazione da parte di nonni, padri, zii e cugini o correnti di magistrati non può conferire nessun titolo di sovranità. E allora perché non invitare al confronto-colloquio costruttivo con il legislativo e l'esecutivo la classe degli ufficiali per stabilire quale debba essere la nostra politica militare? Perché non sollecitare il confronto-colloquio costruttivo con la carriera diplomatica per stabilire quale debba essere la politica estera del Paese? E perché non sollecitare anche un summit tra le forze di polizia da una parte e mafia, camorra e 'ndrangheta dall'altra, per delineare la politica della giustizia?"
Su come si è giunti a questa decisione, Cossiga ha pochi dubbi: "La decisione dell'Anm è stata presa, come sempre, da un connubio tra la sinistra non garantista (quella che ha portato alla morte di Coiro e all'ingiusta incriminazione di Misiani, fondatore di Magistratura democratica, agli inizi bandiera del garantismo) e la magistratura corporativa (quella, per intenderci, dei Maddalena e dei Cicala), uniti dalla volontà di potere politico senza rischio elettorale. L'ordinamento giudiziario è antidemocraticamente inquinato da costoro, di fronte ad una stragrande maggioranza di magistrati seri, indipendenti e non da teatro. L'ordinamento giudiziario sono i giudici e i Pm e la sovrana funzione giudiziaria è affidata a ciascuno di loro (i quali infatti costituiscono un ordine e non un potere) e non alla 'magistratura' né tantomeno a quel modesto, piccolo consiglio d'amministrazione del personale che vuole scimmiottare il Parlamento che è il Csm". Le prerogative del Csm e le polemiche sulla riforma recentemente approvata evocano a Cossiga alcuni retroscena: "È una vergogna che si faccia passare per riforma contro l'indipendenza del Csm il ritorno al Csm come era prima che la dabbenaggine del Psi non imponesse alla Dc ("non opponetevi", disse un ministro democristiano a me e a Gargani, "altrimenti ci mandano tutti in galera!) il sistema proporzionale, che implicò l'aumento della composizione del plenum, il più numeroso di quelli esistenti in Europa. Le correnti - prosegue Cossiga - hanno corrisposto da un lato all'affermazione di una concezione giacobina o al limite leninista della giustizia e dall'altro alla fame corporativa di una parte dei magistrati, che la Dc ha creduto di comprare con l'introduzione degli automatismi della carriera e con impensabili livelli retributivi, perché non ci mettessero tutti in galera. Ma intanto in galera, nonostante i regali, molti di noi ci sono finiti lo stesso, da Carra a Gava, da Mannino a Mazzotta e, se avessero potuto, da Andreotti a Forlani. Dire di voler combattere per l'indipendenza della magistratura e poi difendere a spada tratta le legittimità delle correnti significa affermare cose contraddittorie o false, perché o le correnti sono piccole consorterie corporative che servono a spartirsi la torta dei posti e delle prebende, o sono gruppi ideali e quindi politici, ognuno portatore di una concezione della politica, della giustizia e dell'amministrazione di essa, e cioè di differenti concezioni politico-ideologiche che contraddicono l'indipendenza della magistratura, la quale postula l'unità di concezione della giustizia secondo le leggi approvate dal Parlamento". Cossiga ha qualche suggerimento da dare anche per le modifiche in discussione, come le riforme della sezione disciplinare e l'introduzione della Scuola della magistratura: "Per quanto riguarda la sezione disciplinare, l'unica riforma possibile è quella di far giudicare i magistrati da un'apposita sezione della Corte costituzionale, così come avviene in Germania, integrata da giudici disciplinari eletti dal Parlamento. Per la Scuola, penso che l'introduzione sarebbe un'utile cosa ma penso anche che questa dovrebbe essere sottratta al controllo e all'influenza dell'Anm, che ne farebbe scuola di arruolamento per la magistratura militante e corporativa. Perché ormai, se un giovane vuole avere successo in magistratura, deve prima iscriversi ad una corrente poi, con l'appoggio di questa, vincere il concorso e quindi, per far carriera, iscriversi all'Anm e fare il galoppino elettorale per i dirigenti delle correnti". Critico e ferocemente ironico il giudizio di Cossiga sulla politica del governo riguardo alla questione della separazione delle carriere: "Alla separazione delle carriere il Governo ha già rinunciato, e la proposta di separazione delle funzioni, a quanto capisco, consisterebbe nella diversificazione di wc per i giudici e per i Pm, pare anche senza differenza di sessi, per dare un carattere avanzato alla riforma.". I ritardi e le lungaggini del nostro sistema giudiziario danno lo slancio all'ex presidente per polemizzare ancora una volta col capo dello Stato: "Basta leggere le sentenze della Corte di giustizia di Strasburgo, dove siamo condannati, quando ci va bene, almeno due volte al giorno. D'altronde, l'Italia europeista, euroentusiasta e perfino eurofantastica di Prodi e Ciampi ha battuto il record di condanne e reprimende per la non applicazione dei principi europei. Un film della serie. 'Siamo europeisti, nessuno lo è più di noi, ma dell'Europa ce ne fottiamo'". Un ultimo fendente Cossiga lo riserva al ministro della Giustizia Castelli, sul cui operato preferisce, sarcasticamente, non pronunciarsi: "Chi se ne intende dice che è un buon fisico acustico".
Da Gladio alla Guerra del Kosovo. Cossiga è stato un Presidente contro tutte le ipocrisie della sinistra, scrive Carlo Panella su “L’Occidentale”. Incontrai Cossiga per la prima volta l’8 febbraio del 1992, in una serata gelida, a Udine, nel mio primo servizio politico per la televisione. Nella prefettura della città, il Presidente incontrò, formalmente, ufficialmente, tutti gli uomini di Gladio, di Stay Behind ancora in vita. Gesto provocatorio, schiaffo in faccia al Pds di Occhetto che, assieme a tutta la sinistra lo aveva formalmente messo in stato d’accusa aprendo la procedura di Impeachement il 6 dicembre del 1991. Un’azione clamorosa, basata su molte accuse fasulle, tra cui spiccava quella di avere sostenuto la piena legittimità della Organizzazione Gladio, la struttura Nato, assolutamente legittima, che aveva il compito di organizzare una resistenza democratica in caso di tentativo di sovversione da parte del Pci – largamente etero diretto e finanziato dall’Urss – ritenuta invece associazione sovversiva e illegale dalla sinistra (e dalla magistratura, in primis dal Pm Felice Casson, oggi non casualmente senatore del Pd). Uno ad uno, vidi uscire quegli anziani signori, tutti sorridenti e felici dell’onore che Cossiga aveva reso loro e parlando con loro, scoprii quel che tanti sapevano, ma che i media di sinistra e il Pds sprezzantemente ignorava. Quasi tutti loro erano stati partigiani “bianchi” della Divisione Osoppo (composta da militanti della Dc, del Partito d’Azione e del Psi) che durante la guerra e avevano combattuto sia i nazifascisti, che i “partigiani” di Tito del IX Corpus che intendevano annettere Trieste, Gorizia e Udine alla Yugoslavia, strappandole all’Italia dopo averle occupate manu militari. Il giorno dopo era prevista una visita alle malghe di Porzùs, dove Cossiga voleva rendere omaggio ai 20 partigiani della Osoppo che erano stati trucidati barbaramente dai partigiani titini, al comando del comunista italiano Mario Toffanin. Un eccidio spregevole, perché i titini si erano presentati alle malghe come amici, ma poi avevano ucciso a freddo, a tradimento, il comandante della Osoppo Francesco De Gregori, il Commissario Politico (del Partito d’Azione) Gastone Valente, Giovanni Comin e Elda Turchetti. Poi, avevano imprigionato gli altri 18 partigiani e per due giorni, li avevano maltrattati e posti di fronte all’aut aut: o passavano col IX° Corpus yugoslavo e combattevano per occupare e annettere le provincie giuliane e Trieste alla Yugoslavia, o li avrebbero fucilati. In 16 rifiutarono di tradire l’Italia e furono trucidati, tra loro Guido Pasolini, il fratello amatissimo di Pierpaolo, solo due accettarono di tradire e passarono con i titini, assassini dei loro compagni. In quella tragedia era nascosta nel modo più oscuro, violento, ma completo, inquietante la verità, il senso dello scontro politico che si sarebbe combattuto in Italia – per fortuna solo sul piano politico – tra le forze democratiche e un Pci legato a Mosca e alle sue mire, nonostante le mediazioni di Palmiro Togliatti. La tragedia dell’eccidio di partigiani democratici per mano di partigiani comunisti metteva in crisi la teoria di un Pci che si voleva egemone nella lotta di Liberazione in piena funzione nazionale, mostrava di quali veleni, di quali terribili militanti come Toffanin, era composta, anche, la storia dei comunisti italiani. Infatti di Porzùs, fino a quel 9 di febbraio del 1992 non si era mai più potuto parlare in Italia (tranne che nel processo, che si tenne nel 1952), era proibito, il Pci e la sua presa sui media erano riusciti non solo a occultarlo. Ma ora, i discendenti di quei comunisti (che continuavano a percepire i loro stipendi grazie all’”Oro di Mosca) arrivavano alla sfrontatezza di accusare Cossiga e il militanti della Gladio, cioè i partigiani della Osoppo, di avere tramato contro la Repubblica, col solido supporto dei magistrati alla Casson. Ma Cossiga non riuscì ad andare alle malghe di Porzùs, lo scandalo di quella “visita di Stato”, di quell’omaggio a quelle vittime del comunismo, era tanto grande che la ebbero vinta i suoi consiglieri che quasi gli imposero di rinunciare a quel gesto di verità. Capii, in quelle ore, quel che già avevo intuito subito dopo il rapimento Moro: Francesco Cossiga aveva la statura, la forza, la vivacità, ma anche le contraddizioni, le angosce dei grandi personaggi di Shakespeare. Ora era Banco, la vittima di Machbeth, ora re Lear, ora, di uno dei tanti re messi in scena a Stratford on Avon che incarnano il dramma del potere esercitato, della sofferenza nel condurre le trame cui l’esercizio del comando obbliga, follia inclusa. Francesco Cossiga era uscito distrutto, umanamente, dall’esperienza del rapimento Moro, perché aveva creduto di dover sacrificare la vita dell’amico, al superiore interesse dello Stato, aveva ceduto al diktat del Pci, che negava la trattativa. Poi, subito dopo, aveva scoperto che era stato solo un gioco sporco, che c’era qualcosa di profondamente oscuro nel sacrificare la vita di un uomo – e che uomo era Aldo Moro! – all’interesse dello Stato e il senso di quella tragedia lo ha perseguitato per tutta la vita, non ultima componente di quella atroce depressione di cui ha da allora sofferto e che ora l’ha portato alla morte. Disse, anni dopo: “Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro”. Ma Francesco Cossiga era un uomo retto e forte e, riprese le forze, si ributtò subito nell’agone politico: presidente del Consiglio nel 1979, poi presidente del Senato nel 1983, infine, nel 1985 Presidente della Repubblica (con voto unanime del Parlamento, il primo). E’ fondamentale oggi ricordare le accuse che il Pci e la sinistra gli lanciarono nel 1991 per chiederne l’Impeachement. E’ fondamentale proprio oggi, quando tanta parte dei media politically correct e del Pd menano tanto ipocrita scandalo per le polemiche contro il presidente Giorgio Napolitano che provengono dal Pdl. I firmatari delle mozioni di accusa (ovviamente cassata dal Parlamento nel 1993) – è bene ricordarlo, perché fu un episodio indegno - erano Ugo Pecchioli e Luciano Violante, i massimi responsabili del Pci per i “Problemi dello Stato” e la “Giustizia”, poi Marco Pannella (sì, proprio lui), Nando Dalla Chiesa, Giovanni Russo Spena, Sergio Garavini, Lucio Libertini, Lucio Magri, Leoluca Orlando, Diego Novelli.
Queste le accuse:
a) l'espressione di pesanti giudizi sull'operato della commissione di inchiesta sul terrorismo e le stragi;
b) la lettera del 7 novembre 1990 con la minaccia di «sospendersi» e di sospendere il governo onde bloccare la decisione governativa riguardante il comitato sulla Organizzazione Gladio;
c) le continue dichiarazioni circa la legittimità della struttura denominata Organizzazione Gladio benché fossero in corso indagini giudiziarie e parlamentari;
d) la minaccia del ricorso alle forze dell'ordine per far cessare un'eventuale riunione del consiglio superiore della magistratura, nonché del suo scioglimento in caso di inosservanza del divieto di discutere di certi argomenti;
e) i giudizi sulla Loggia massonica P2, nonostante la legge di scioglimento del 1982 e le conclusioni della commissione parlamentare d'inchiesta;
f) la pressione sul governo affinché non rispondesse alle interpellanze, presentate alla Camera nel maggio 1991 da esponenti del PDS;
g) l'invito ad allontanare il ministro Rino Formica dopo le sue dichiarazioni sulla Organizzazione Gladio;
h) la rivendicazione di un potere esclusivo di scioglimento delle Camere e la sua continua minaccia;
i) la minaccia di far uso dei dossier e la convocazione al Quirinale dei vertici dei servizi segreti;
l) il ricorso continuo alla denigrazione, onde condizionare il comportamento delle persone offese e prevenire possibili critiche politiche.
E’ questa una eccellente sintesi, non delle malefatte, ma, al contrario, dei grandi meriti della presidenza Cossiga, non solo nella difesa intransigente della appartenenza atlantica dell’Italia (che il Pci ha sempre contestato, nonostante le ambiguità di Berlinguer, anche perché finanziato dal Pcus sino alla caduta dell’Urss nel 1989), perché dimostrano che Cossiga aveva perfettamente colto il nodo della anomalia italiana che già si era raggrumato attorno allo strapotere politico di tanta parte della magistratura. La sua minaccia di inviare i Carabinieri per impedire al Csm di discutere un ordine del giorno che lui, che era presidente del Csm, aveva rifiutato (come era nei suoi poteri) e di procedere al suo scioglimento, dimostra che aveva compreso per primo che c’era un varco nel nostro assetto costituzionale che aveva permesso alla magistratura l’assunzione di poteri impropri, tanto dall’essere riuscita trasformare il Csm in una vera e propria “terza Camera”, che si arrogava e si arroga il diritto di fatto eversivo, di impedire alle altre due Camere di legiferare. Il tutto, nella chiara, esplicita, convinzione, che l’intero assetto politico, così come quello costituzionale, del paese fosse ormai inadeguato, che non rispondesse più alle esigenze dell’Italia, che andasse riformato, magari a colpi di piccone (a Cossiga piacque sempre la definizione di Picconatore che gli era stata affibbiata negli ultimi due anni della sua presidenza). Un solo errore – a nostro parere – commise in quegli anni: la sottovalutazione del ruolo eversivo di Mani Pulite. Quelle sue dimissioni anticipate non furono un gesto di correttezza istituzionale (erano motivate dal fatto che avrebbe dovuto formare un governo, subito dopo le imminenti elezioni politiche, in scadenza di mandato, condizionando così il suo successore), ma un gesto politico contro l’accordo che Bettino Craxi e Arnaldo Forlani avevano siglato, che lui non condivideva, e che avrebbe portato il primo alla presidenza del Consiglio e il secondo alla presidenza della Repubblica. Cossiga non comprese, in quel frangente, che quell’assetto di potere incardinato sui due forti leader del Psi e della Dc, sarebbe stato l’unico in grado di impedire alla Procura di Milano non già le indagini contro i corrotti della Prima Repubblica, bensì di ergersi a dominus del quadro politico, eliminando per via giudiziaria la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi e il Pli, risparmiando però solo il Pci-Pds, che pure di quella corruzione era pienamente parte, come risultò plasticamente nel formidabile discorso che tenne Bettino Craxi alla Camera il 29 aprile del 1993: “I Partiti specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo (ndr. nessuno si alzò): presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”. Abbandonata per alcuni anni la vita politica, Francesco Cossiga intravide nel 1998 la possibilità di riprendere il grande schema di Aldo Moro, che auspicava la collaborazione della grandi forze nazionali di matrice “popolare” e di quelle della sinistra post comunista nella gestione del governo. Mise il suo prestigio e la sua straordinaria capacità di manovra, assieme a Mino Martinazzoli, al servizio del “ribaltone” che sottrasse parlamentari (guidati da Mastella e Rocco Buttiglione) dal Polo della Libertà che li aveva eletti e li portò a garantire quella maggioranza al governo di Massimo D’Alema che non aveva nella sinistra la forza parlamentare per ottenere la fiducia. Indicativa dell’uomo e della sua vocazione, fu la scelta del nome del partito che i transfughi formarono: Udr, Unione Democratica per la Repubblica. L’identica sigla del partito Udr fondato in Francia nel 1971 da Charles de Gaulle, la figura di leader europeo che più sentiva vicina e tra le più ammirate. Fu però un'esperienza effimera e rovinosa, la sua Udr ebbe vita confusa e grama (si trasformò nell’Udeur di Clemente Mastella, dall’inglorioso percorso), trascinata nel vortice di uno dei governi più scialbi, inconcludenti e rovinosi della storia repubblicana che si concluse dopo appena due anni nelle ingloriose dimissioni di Massimo D’Alema. Un obbiettivo però era stato colto dal genio politico del Picconatore: con quella spregiudicata manovra, Cossiga era riuscito ad evitare che il nostro paese provocasse una vera e propria crisi –vergognosa, per come si stava profilando – sul terreno internazionale. Per sua forte, determinata pressione, anche sul piano personale, Massimo D’Alema, obtorto collo, accettò di fare entrare l’Italia a pieno titolo (ma sempre con molte ipocrisie), nella guerra del Kosovo. Guerra in cui la sinistra non voleva assolutamente entrare (Fabio Mussi, capogruppo dei Ds alla Camera, riuscì a far firmare da ben 253 parlamentari della sinistra una mozione più che critica contro la nostra partecipazione bellica) e in cui una defezione italiana sarebbe stata sotto gli occhi del mondo a causa della collocazione strategica del nostro paese (gli aerei Nato decollavano da Aviano), provocando irrisione, irritazione e la ingloriosa fine, di fatto, della appartenenza atlantica dell’Italia. A differenza del Verde tedesco Joschka Fischer che ebbe la statura e la limpida forza di un leader della sinistra che rivendicava apertamente la necessità di inviare la Luftwaffe a bombardare Belgrado, Massimo D’Alema mandò sì la nostra aviazione nelle missioni contro la Yugoslavia, ma con indegna ipocrisia mentì al Parlamento e al paese e sostenne che avevano solo e unicamente un ruolo di ricognizione, mentre invece parteciparono direttamente alle operazioni belliche, bombardamenti inclusi. Chiusa quell’esperienza, Cossiga si ritirò definitivamente dall’agone politico, ma continuò a divertirsi (era fantastico cogliere il senso dell’ironia e dell’intelligenza nei suoi dissacranti sarcasmi), commentando episodi politici e dettando all’amico di sempre Paolo Guzzanti memorie dissacranti, quanto autentiche. Nelle ultime settimane, la “belva”, quella terribile depressione che l’ha sempre perseguitato, si è impadronita di lui, chiuso in se stesso e al mondo come non mai. Infine, l’ha preso, ha vinto, definitivamente e ci ha tolto un uomo, forse l’ultimo in Italia, a cui guardare per capire e capirsi. Con profonda, acuta, divertita, scanzonata “intelligenza” degli uomini e dei fatti. Chapeau! Presidente.
Nostalgia per il Picconatore lungimirante che aveva la Questione meridionale nel cuore. «Aveva un’attenzione costante alla disoccupazione e ai problemi del Mezzogiorno». Fabrizio Rizzi su Il Quotidiano del Sud il 25 settembre 2020. Forse 10 anni sono l’età giusta per lo storico, per sedimentare polvere e (pre)giudizi, valutarne in controluce le qualità ed esprimere lo spirito riformatore attraverso la lungimiranza della prospettiva. Sono passati 10 anni dalla morte di Francesco Cossiga e Sergio Mattarella lo ha ricordato all’Università di Sassari, come uomo legato ai problemi dello sviluppo e del lavoro. Che nel Meridione manca ed è un affare di arretratezza decennale. Ieri, come oggi. La classe dirigente di allora aveva profondamente a cuore – dice Mattarella – i grandi problemi che assillano l’Italia. “Aveva un’attenzione costante alla disoccupazione e alla questione meridionale”. Qualcuno ha letto questo passaggio come una critica ai governanti di oggi. Forse non lo è. Ma se non è una critica è, quantomeno, un incitamento nel fare di più, per dare più lavoro, perché è questa la chiave di volta del problema. Una chiave che ha radici antiche. Quando divenne presidente della Repubblica, “nel discorso di insediamento, Cossiga aveva assunto la gente comune come punto di riferimento per saldare passato e futuro, auspicando una nuova solidarietà per valori non solo personali”. Anche questa sembra una critica agli egoismi di oggi che si traducono nella chiusura sociale. Il presidente mette l’accento su come Cossiga vedeva nei valori di solidarietà un bene collettivo. Anzi, auspicava che per il bene collettivo si sviluppasse una nuova solidarietà, basata su “valori non solo personali ma soprattutto comunitari”. Disse anche che per avere “speranza civile c’è bisogno di una giustizia sociale che non sia calata dall’alto, ma condivisa e prodotta dai cittadini. Aggiungendo che lo sviluppo non si traduce in speranza civile se non si unisce alla capacità di risolvere i due grandi problemi nazionali, disoccupazione e arretratezza delle aree meridionali. Mattarella osserva che malgrado le critiche dell’epoca, “Cossiga avvertiva l’esigenza di riforme costituzionali in Italia e si riassume in questo la ricerca e l’ evoluzione dei rilievi che, dapprima in modo assolutamente misurato e, via via in modo molto più vivace, rivolse sulla questione che animava anche il dibattito tra le forze politiche. Il presidente partiva dalla considerazione che nuocesse al Paese una visione che giustificasse le istituzioni esistenti, fragili, perché in attesa di riforma, richiamando al rispetto di una indeclinabile finalità: le riforme istituzionali – disse nel tradizionale messaggio di fine anno dell’87, devono condurre all’obiettivo essenziale di promuovere la crescita della democrazia”. C’è uno spartiacque nella vita del “Picconatore”: il sequestro e assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. “Il ministro Cossiga – rileva Mattarella – si adoperò per la liberazione di Moro, suo amico e punto di riferimento politico, ma gli sforzi non giunsero al risultato sperato. E la sofferenza fu acuita dal susseguirsi di lettere di cui ebbe a riconoscere tratti di autenticità”. Ci fu il ritrovamento del corpo e Cossiga si dimise da ministro dell’Interno, “assumendosi la piena responsabilità politica dell’operato del dicastero”. Quindi c’è la difesa delle istituzioni democratiche contro l’attacco terrorista, “cercando di preservare, come bene indispensabile, l’unità delle forze democratiche nella lotta al terrore e all’eversione”. Quindi l’affondo: “Il ricorso a norme e strumenti nuovi restò sempre iscritto nel solco della difesa dei valori e dell’ordine costituzionale. E il contrasto alle vulgate insurrezionaliste, così come alla inaccettabile predicazione equidistante dei fautori del Né con lo Stato, Né con le Br, fu da parte di Cossiga sempre netto e scevro da ipocrisie e opportunismi”. Successivamente c’è il riconoscimento a Cossiga “cresciuto alla grande scuola della Dc” che tendeva a ricomporre i conflitti del Paese, piuttosto che a esasperarli. Nel suo dichiararsi “cattolico liberale c’era un ossequio, un rispetto per la casa comune e per la sovranità delle istituzioni della Repubblica, che non concedeva spazio a tentazioni confessionali o integralismi di sorta”. Quindi un accenno alle origini. E a quella famiglia che fin da giovane gli ha consentito di coltivare la passione per la politica, “palestra nella quale si è allenato al pluralismo, al confronto, alla laicità delle scelte e dove, l’antifascismo era un fatto discriminante non solo dal punto di vista politico, ma morale”. Infine c’è un ricorso personale di Mattarella che è stato “tra gli elettori di Cossiga”. Ricorda che nel 1983 votò per lui alla presidenza del Senato. “Cossiga si fece apprezzare per solidità e imparzialità, premessa all’elezione della presidenza della Repubblica, avvenuta 2 anni dopo.
Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 17 agosto 2020. Dieci anni fa Francesco Cossiga se ne andò in silenzio, solo e malato, lasciando per sempre la scena che aveva occupato con una personalità spropositata ed eccezionale, che stupì tutti. Indignò molti ma che scaturiva da una personalità straordinaria, in grado di prevedere e anticipare le conseguenze che avrebbe avuto in Italia la dissoluzione dell'impero sovietico. Quella dissoluzione avrebbe spodestato il nostro Paese dalla comoda posizione di «cerniera» fra Est e Ovest, che era stata la sua rendita per quasi mezzo secolo. I due grandi protagonisti - la Democrazia cristiana e il Partito comunista - si sarebbero estinti come dinosauri se non si fossero brutalmente modificati anticipando i tempi, o sarebbero stati travolti. Il Pci si trasformò in corso nel Pds, pronto a ricevere l'eredità di un potere ormai disfatto, mentre la Dc tendeva a disperdersi o a congiungersi con la sinistra. Cossiga aveva visto in tempo questa bufera e cominciò a dare segnali di insofferenza e altri di raccomandazione per evitare la catastrofe. Ma poiché nessuno è amato se tenta di essere un profeta in patria, Cossiga fu attaccato specialmente da tutta la sinistra - politica ed editoriale - inventando la bestia nera da uccidere o almeno da imbavagliare ed estromettere. Cossiga aveva un temperamento bizzarro noto a tutti, ma assolutamente non era «matto». La nostra amicizia iniziò quando La Stampa mi mandò a Gela per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, per vedere quale altro show il presidente avrebbe messo in scena, come aveva già fatto diverse volte in quei giorni. Io andai un po' di malavoglia e ignoravo che la sera precedente fosse andata in onda una mia intervista con Catherine Spaak nel suo programma settimanale. Cossiga mi prelevò dalla selva dei cronisti confinati dietro le transenne e mi portò con sé nella sala in cui pronunciò un'invettiva contro il giornalista Giorgio Bocca che aveva attaccato i carabinieri coinvolti nei delitti della Uno Bianca. Io pensai che era molto fervente e aggressivo, ma non matto. E lo scrissi senza rendermi conto di avere infranto un tabù, anzi un tacito patto fra giornalisti e politici secondo il quale tutti dovevano dire scrivere e denunciare scandalizzati che il presidente della Repubblica era impazzito per indurlo alle dimissioni o dichiararlo mentalmente inadatto a svolgere il suo ruolo. La giornalista dell'Economist Tana de Zulueta fu portata in trionfo per avere scritto che Cossiga era matto come la lepre marzolina di Alice nel Paese delle meraviglie e l'Italia diventò un Paese molto più matto di quanto lo fosse Cossiga, che non era matto affatto. Cossiga era stato in silenzio per alcuni anni duranti i quali aveva assistito dalle finestre del Quirinale al disfacimento della Repubblica e aveva visto con molta lucidità il piano che prevedeva, con il tifone di Mani Pulite che tagliò la testa a tutti i partiti tranne che al Pci, la sostituzione per via rivoluzionaria della vecchia classe dirigente democristiana, socialista e laica. Fu a quel punto che l'imprenditore Silvio Berlusconi - dopo avere vanamente fatto il tifo per Mario Segni che non fu sostenuto dal segretario democristiano Mino Martinazzoli, che aveva raccolto moltissimi consensi sulla sua linea di rinnovamento - decise di tagliare il nodo gordiano scendendo in campo lui stesso con un partito nuovo di zecca strutturato sull'organizzazione di Publitalia, che raccoglieva la pubblicità per le sue televisioni. Il resto è noto: nacque una coalizione di centrodestra che metteva insieme leghisti ed ex missini, senza farli incontrare, poi la vittoria e l'immediata guerra delle procure e degli avvisi di garanzia. Cossiga non fu neutrale in questa guerra e si schierò sempre contro lo strapotere politico dei magistrati, attirandosi l'odio crescente della sinistra. Ma per la sinistra istituzionale («quei signori comunisti di una volta») cercò sempre di mantenere rapporti personali stretti e rispettosi. Questa fu per lui la maggiore delusione perché tutti coloro che da sinistra, lo avevano eletto e lodato, adesso erano i suoi nemici più feroci. Cossiga era stato per molti anni l'uomo di Aldo Moro che lo aveva voluto con sé per occuparsi dell'intelligence e dei rapporti in particolare con gli americani e gli inglesi e per valutare in maniera intelligente le mosse del Partito comunista, eternamente in mezzo al guado perché non riusciva mai a compiere il passo conclusivo per l'atteso ma mai arrivato «strappo» dall'Unione Sovietica. Si sentì profondamente ferito dall'atteggiamento di suo cugino Enrico Berlinguer, segretario del Pci e autore del progetto di «compromesso storico», il quale rispose alle sue manifestazioni di affetto dichiarando che con i cugini al massimo «si mangia l'agnello a Pasqua». Berlinguer non esitò a metterlo in stato d'accusa davanti al Parlamento quando aiutò Carlo Donat Cattin, capo della corrente sindacale democristiana, a rintracciare suo figlio che era un militante terrorista di Prima Linea. Diventò ben presto un uomo solo, abbandonato da tutti, democristiani e comunisti in particolare. Io scrissi un libro, Cossiga uomo solo per Mondadori e lui venne alla presentazione in via Sicilia a Roma dove inaugurò un termine del tutto nuovo per la politica: il verbo «picconare». Disse di avere svolto il duro mestiere del picconatore per rimuovere gli ingombri della vecchia repubblica e dei suoi parassiti e che stava pagando il prezzo per questa opera di bonifica o, come si direbbe oggi, di sanificazione. Divenne così «il Picconatore», il suo soprannome e la sua funzione repubblicana: colui che abbatteva edifici fatiscenti e pericolosi. Si rivolse con grande dignità alla nazione in uno dei suoi rari messaggi presidenziali, spiegando con competenza e cultura costituzionale i rischi che stava correndo il Paese. Poi venne la stagione delle stragi di mafia e delle strategie politiche a esse connesse. Incaricò, d'accordo con Andreotti presidente del Consiglio, Giovanni Falcone di indagare, con credenziali diplomatiche (Falcone non era più un procuratore ma dirigeva le carceri) sulla fuga del tesoro dell'Unione Sovietica che secondo l'ambasciatore Yuri Adamishin veniva riciclato in Italia con tangenti di entità mostruosa. La fine di Falcone è nota e anche dell'inchiesta. Io accompagnai Cossiga nel suo esilio in Irlanda quando decise di dimettersi con qualche giorno d'anticipo sulla data di scadenza prevista. Mi portò con sé a Dublino e fu un viaggio piuttosto mesto. Ci siamo poi rivisti molte volte, anche come senatori della Repubblica. Quando lo andai a trovare l'ultima volta per prima cosa mi disse: «Guarda che il tuo telefonino è di un modello vecchio. Io ho appena ricevuto il nuovo». Poi mi portò nello studio che era il sancta sanctorum dei suoi oggetti tecnologici e bandiere del regno di Sardegna.
La storia della brutta cena tra i cugini Cossiga e Berlinguer. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Agosto 2020. Il 22 luglio del 1980, giusto 40 anni fa, il senatore comunista Gerardo Chiaromonte promosse una cena politica “trasversale”. La organizzò a casa di un suo collega di partito, Ugo Pecchioli. Chiaromonte lo fece per ragioni politiche e scelse Pecchioli come ospite perché Pecchioli aveva buoni rapporti con uno dei due invitati di lusso. I due invitati erano due lontani cugini sardi, di Sassari. Enrico Berlinguer e Francesco Cossiga. I loro nonni erano cugini. Berlinguer era il capo carismatico del Partito comunista. Cossiga, esponente della sinistra democristiana, era in quel momento Presidente del Consiglio. Ed era nei guai. Si era scoperto che due mesi prima aveva avvisato uno dei suoi colleghi, e cioè Carlo Donat Cattin vicesegretario della Dc, che uno dei suoi figli era ricercato dalla polizia perché militante di Prima Linea (cioè di un gruppo terroristico) e coinvolto in alcune azioni armate. Forse Cossiga aveva anche aiutato Donat Cattin ad ottenere un passaporto per suo figlio, ma questo non fu mai dimostrato. Non fu mai provato nemmeno che Carlo Donat Cattin avesse avvertito il figlio o lo avesse aiutato a fuggire in Francia. L’opposizione chiese di mettere Cossiga in stato di accusa, cioè di mandarlo a processo. In commissione Inquirente (la commissione parlamentare che funzionava da giudice istruttore per i ministri) la richiesta non passò. Ma l’ultima parola era dell’aula. Cinque giorni di discussione infuocata: il Pci, che era all’opposizione, voleva il processo. Chiaromonte però, che faceva parte dell’ala migliorista del Pci, aveva forti dubbi. Voleva cercare un accordo. Chiaromonte è stato nel Pci per anni uno dei capifila più convinti e autorevoli della pattuglia garantista. Il voto era fissato per la mattina del 23 luglio. La cena da Pecchioli fu il 22 luglio. Fu una cena allegra, spensierata, quasi cameratesca. Cossiga era in forma, Chiaromonte si sforzò di tenere un clima fraterno. Scherzava, raccontava aneddoti. Pecchioli, piemontese austero, dava corda a Chiaromonte. Non si parlò però del merito della questione. Si aspettava il gelato per andare al dunque… Berlinguer taceva. Tacque tutta la sera, ma a lui capitava spesso di tacere quando era in compagnia. Mangiò gli spaghetti, mangiò il brasato, teneva il tovagliolo al collo. Un paio di volte, assaggiando il piatto che arrivava in tavola, commentò: “buono”. Poi silenzio. Finito il gelato Berlinguer finalmente alzò gli occhi dal piatto, guardò il cugino, e pronunciò poche parole, quasi sottovoce, col suo accento sardo forte che faceva saltare tutte le doppie: «Francesco, ti informo che domani mattina il partito comunista italiano voterà la tua messa in stato di accusa». Fu il gelo. Chiaromonte smise di parlare. Cossiga di scherzare. Pecchioli muto. Berlinguer si alzò, si salutarono. Molto formalmente. Forse da allora Berlinguer e Cossiga non si sono più parlati.
P.S. Questo racconto, proprio così come l’ho scritto, me lo ha fatto tanti anni fa Gerardo Chiaromonte.
P.S. 2. Il giorno dopo la cena, la Camera votò a scrutinio palese. La maggioranza fu compatta e il Pci quindi fu sconfitto. Il governo si salvò. Vivacchiò ancora un paio di mesi appena, poi saltò perché i franchi tiratori impallinarono Cossiga sulla legge finanziaria. La carriera di Donat Cattin, gran protagonista delle lotte sociali e sindacali e della politica italiana negli anni Sessanta e Settanta, finì di colpo. Il figlio fu arrestato in dicembre. Condannato a 7 anni. Ne scontò 5 in cella, poi ottenne la semilibertà. Fece un figlio. Una notte, nell’estate del 1988, si fermò sull’autostrada per soccorrere dei feriti in un incidente. Provò a fermare il traffico. Lo travolsero: morì a 35 anni, con un figlio di otto mesi.
DAGONOTA il 17 agosto 2020. Il decennale della morte di Cossiga non poteva non riaprire la botola dei misteri d’Italia. Ma c’è poco da chiarire se si analizza la politica al di là del proprio ombelico. Per anni ho frequentato Cossiga, che intervenne frequentemente su Dagospia allorché non solo i giornali ma perfino le agenzie di stampa decisero che era un “pazzo con piccone” e non andava più pubblicato. Correvano i primi anni Duemila e il Gattosardo mi venne a trovare accompagnato da Barbara Palombelli. Francamente io non avevo mai avuto in testa la politica, né mi interessava averla. Anzi, da sempre curavo rubriche di costume ed ero intenzionato a continuare a coltivare il mio orticello di ficcanaso. E invece, dopo i primi contatti con lui, capii che erano gli altri ad avere bisogno di un prodotto editoriale come Dagospia. In quei primi tempi mi facevo tradurre i suoi pezzi scritti in “cossighese” dall’amico Fernando Proietti, giornalista del Corriere, per decifrarli. Finché un bel giorno mi trovai “promosso” nel suo salotto di via Quirino Visconti, tra Zanda e Savona, Naccarato e Ciccio Bongarà, generali e barbefinte, che per me si trasformò in un corso accelerato di formazione politica. Cossiga mi spiegò che la vera anima della politica italiana non è quella che si vede sui giornali e in televisione. I processi decisionali che stanno alla base di molte scelte che condizionano e coinvolgono il Paese hanno origini e iter diversi. Insomma la parte che non emerge, silente e potente, quello che oggi chiamiamo “Deep state”. Dai servizi segreti (a cui Cossiga in un certo senso era legato storicamente) agli apparati militari, passando per il Viminale e la Consulta e ambasciate varie, massoneria e Vaticano compresi. Di qui l’insegnamento metodologico: appresi che le informazioni non andavano mai chieste ai politici, bensì ai funzionari, agli uomini dell’apparato. E ciò che ho imparato dal Gattosardo è che la politica non si esaurisce nella semplice lettura degli interessi nazionali. E’ geopolitica perché occorre mettere sempre in gioco il posto dell'Italia in Europa e nel mondo. Il mistero della non trattativa e della morte di Aldo Moro sta tutto lì: geopolitica. Il Bel Paese nell’anno 1978 non era un'oasi; non viveva in dorato isolamento; l’Italia aveva perso la seconda guerra mondiale, il patto di Yalta sanciva una separazione netta tra le zone di competenza di Occidente e Oriente, a Berlino per saldare lo stato della Guerra Fredda l’Unione Sovietica tirò su un minaccioso muro. I governi delle nazioni sconfitte, Italia e Germania, non potevano illudersi d'improvvisare senza pagare un prezzo salato. La Nato, all’epoca, non era la tigre di carta di oggi. Il rapimento di Moro vide il duello tra chi era favorevole a una trattativa con le Brigate Rosse (socialisti e democristiani) e chi si opponeva (comunisti di Berlinguer e il nascente partito di “Repubblica” con in testa Scalfari. Fino a quel momento nel mondo l’unico terrorismo era incarnato dal fronte palestinese di Arafat che in Italia godeva, anche economicamente, del supporto di Craxi e Andreotti. Cosa che irritava profondamente Washington (con l’assassinio di un cittadino statunitense ebreo sulla nave da crociera Achille Lauro e il fattaccio di Sigonella, il rapporto con gli Stati Uniti si trasformò poi in piena ostilità). Veniamo al punto dolens. Sul terrorismo all’italiana l’intelligence americana aveva idee dure e ben chiare: non si colpisce una cellula ma si deve estirpare tutta la rete. Intervenire in via Gradoli – dove erano asserragliati Moretti e Balzarani, come suggerito dal ‘’medium’’ di Prodi – avrebbe innescato secondo i cervelli dell’FBI una reazione: quella di fortificare le altre cellule, infiammando ancor di più il terrorismo delle BR. Occorreva sacrificare la vita di Aldo Moro per un piano più articolato e definitivo. (Ancora oggi alcuni apparati dell’intelligence americana non perdonano la decisione di Obama e di Hillary Clinton di far fuori Bin Laden, avendo ottenuto poi come risultato la fine di Al Qaeda e la nascita di un terrorismo globalizzato chiamato Isis, con le conseguenze per l’Occidente di una vita a rischio bomba). Ecco perché la figlia Annamaria, nella sua bellissima intervista di oggi sul “Corriere”, racconta che ‘’il suo dolore era visibilmente somatizzato: i capelli gli diventarono bianchi, la pelle macchiata dalla vitiligine. Si sentiva responsabile di quella morte. E sì, capitava che di notte si svegliasse dicendo: “L’ho ucciso io”. All’epoca ministro degli Interni, Cossiga era a conoscenza di tutto e ben consapevole, come racconta meglio di me Paolo Guzzanti nel pezzo che segue, che l’Italia fascista uscita sconfitta dalla Seconda guerra Mondiale, alleata per vent’anni con il nazismo, non era e non poteva essere un paese sovrano, tant’è che la Nato riempì di basi militari la penisola, da Aviano a Bagnoli, dalla Maddalena fino a Sigonella. E il Gattosardo divenne il Gattoperdo quando si dovette rassegnare alla decisione dei vincitori della guerra e lasciare al suo terribile destino il suo compagno di partito e maestro politico.
Mannino: “Fu Cossiga a volere Falcone agli Affari penali”. Elvira Terranova su Il Dubbio il 16 agosto 2020. “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si trovò dietro la porta me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore ma anche al Csm e voleva andare all’Onu, a Vienna, ma Cossiga lo fermò e gli disse che si doveva prima occupare del maxiprocesso”. “Fui io a portare il giudice Giovanni Falcone all’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Una mattina alle 8 Cossiga aprì la porta e si trovò dietro la porta me e Falcone. Il magistrato era molto amareggiato per la mancata nomina a giudice istruttore ma anche al Csm e voleva andare all’Onu, a Vienna, ma Cossiga lo fermò e gli disse che si doveva prima occupare del maxiprocesso”. A raccontare l’aneddoto all’Adnkronos è l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, ricordando l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga alla vigilia dell’anniversario della sua scomparsa. “Cossiga – racconta Mannino nell’intervista – fu il vero artefice della nomina di Giovanni Falcone agli Affari penali al Ministero della Giustizia. Pur rendendo onore a Claudio Martelli, a cui va riconosciuta la nomina, fu un pensiero di Cossiga, una proposta dell’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli che era, però, alla fine del suo mandato perché venne nominato giudice costituzionale”. “L’allora ministro Vassalli portò a Giulio Andreotti la lettera di proposta di Falcone che l’ex Presidente del Consiglio accettò in silenzio, senza avere nulla da ridire – dice ancora Mannino – poi Vassalli andò via e fu sostituito da Claudio Martelli che, in un primo momento, pur con la volontà di portare avanti l’iniziativa di Vassalli, si trovò di fronte alle esitazioni di Giovanni Falcone, che furono superate e il 21 febbraio del 1991, il Consiglio dei ministri, presieduto da Giulio Andreotti, nominò Giovanni Falcone direttore generale degli Affari penali al Ministero della Giustizia”. “Tutto questo non fu considerato da Cossiga una ciambella di potere a Falcone – aggiunge -: si era reso conto che la fine del maxiprocesso avrebbe rappresentato una ragione di reazione di Cosa nostra, perché conosceva i rapporti tra Cosa nostra e altri mondi”. E “nella prospettiva di questo rischio altissimo, Cossiga è il vero artefice della nomina di Falcone a direttore degli Affari penali”. Per Mannino, oggi “manca uno come Cossiga”, e servirebbe “in un periodo come questo”. “Basterebbe andare leggere il passaggio che fece al Parlamento sulla crisi istituzionale, sulla crisi del rapporto tra Parlamento e governo e, soprattutto, la crisi del rapporto legislativo, esecutivo e giudiziario. Cossiga era un costituzionalista per cultura e formazione, un costituzionalista liberal. E’ stato un liberale degasperiano”. Francesco Cossiga “aveva una dimensione di personalità singolare, straordinaria”, dice Mannino. “Giovanissimo, giunto in Parlamento, entra nel circolo dei leader, per i rapporti con Segni, con Taviani, ministro della Difesa di quel tempo, un personaggio importante”. “E stabilisce anche un rapporto con Aldo Moro, del quale diviene se non un prediletto, un alunno molto apprezzato di cui si fida moltissimo”. rà la ragione per cui nel momento in cui si deve formare un appoggio del Partito comunista, Aldo Moro manda Cossiga al Viminale”, dice ancora Mannino. “Quasi a volere sottolineare che è una persona di fiducia non solo nel rapporto personale: sa che conosce i meccanismi del mondo che integrano l’Italia a una parte del mondo o la contrappongono a un’altra parte del mondo. Fuor di metafora, Cossiga conosce benissimo la Nato, la Cia, l’Fbi e conosce benissimo Londra, quindi è un uomo non sprovveduto, provvisto di conoscenza ed esperienza e sensibilità”. “Questo rapporto con Aldo Moro è poi essenziale ai fini della strategia politica. Fino a quando il rapporto prevalente di Cossiga è stato con Segni e Taviani si è mosso nell’area dei Dorotei, lo erano Segni e Taviani ma anche Moro in un primo momento”, racconta. E poi c’è la vicenda dolorosa del sequestro e la morte di Aldo Moro. ”Cossiga ha avuto dal destino purtroppo affidata la vicenda del sequestro e l’uccisione di Moro – dice -molte volte nelle periferie disinformate o malamente informate si mette in discussione il ruolo di Cossiga durante il sequestro Moro, e parlo per testimonianza personale e non de relato”. E’ stato il ruolo di chi, prigioniero del sistema di condizionamento del Ministero degli Interni, che non era un sistema di condizionamento che prescindesse dai forti legami e dei vincoli dalle conseguenze della guerra e del trattato di pace. La Cia non era un ospite, era appartenente al sistema nel quale l’Italia era inserita”, dice. “Cossiga ha vissuto il sequestro con una terribile disperazione e una terribile speranza, di chi si rendeva conto che il sistema non consentiva margini e con la speranza di trovare, invece, il bandolo della matassa. Nessuno più di lui ha saputo interpretare le lettere di Moro e ne ha colto lo spirito”. “Certamente né Moretti né Morucci hanno raccontato quello che dovevano o che potevano raccontare – dice ancora Mannino – perché non lo hanno raccontato. Hanno reso sicura la propria sopravvivenza fisica. Quindi Cossiga ha fatto i conti con questa drammatica realtà. Ha sperato molto lungo la linea del rapporto che non poteva essere esposto o esibito, evidenziato, lungo la linea di Papa Montini. Che in ragione della sua autorità di Stato ha operato i tentativi possibili, non solo mettendo a disposizione delle Br un bel tesoretto ma cercando di dialogare con quelle opposte forze di apparato e di sistema che convergevano nella destinazione tragica della vita di Moro”. “La mattina dell’8 maggio Cossiga sperava di vedere tornare Moro a casa e come tutti ha avuto il dolore di via Caetani e lì ha capito quello che c’era da capire”. “Cossiga ha cercato di svolgere un ruolo che ha un compendio essenziale nella Presidenza della repubblica – dice – All’inizio punta molto la sua presenza nella crescita della dimensione politica ed elettorale del Psi come premessa per una revisione dell’area di Sinistra dello stesso Pci che alla fine qualche sbocco doveva trovarlo, non poteva rimanere il Partito comunista. Ha cambiato nome solo perché è caduto il muro di Berlino”. E poi ribadisce: “Oggi manca tanto uno come Cossiga, ma proprio tanto”.
Dieci anni fa la morte di Cossiga: il presidente-picconatore che fustigava la magistratura. Il Dubbio il 16 agosto 2020. Su Tangentopoli, Cossiga non negò l’esistenza del malaffare, ma nello stesso tempo nel corso degli anni si chiese perché “inchieste da anni dimenticate” fossero “state di colpo lanciate tra i piedi del ceto politico”. Sono passati dieci anni dalla morte, il 17 agosto del 2010, di Francesco Cossiga, deputato dal 1958 al 1983, poi senatore; sottosegretario, ministro dell’Interno durante i drammatici giorni del sequestro Moro; presidente del Consiglio, del Senato, fino a ricoprire il più alto incarico istituzionale, quello di Presidente della Repubblica. Eletto al primo scrutinio con la cifra record di 752 voti su 977, grazie alla regia dell’allora segretario della Dc, Ciriaco De Mita, che riuscì a far convergere sul suo nome sia le forze della maggioranza pentapartito che il Pci. Da ‘presidente notaio’ a ‘picconatore’, Cossiga è stato un Capo dello Stato unico nel suo genere nella storia della Repubblica, fuori dagli schemi fino a quel momento conosciuti, diverso dai suoi predecessori e dai suoi successori soprattutto per il modo con cui, specialmente negli ultimi due anni del settennato, ha trattato e affrontato i temi della vita politica e dei partiti. “E’ vero, io facevo cose un po’ strambe, ma le facevo -racconta nel libro-intervista di Claudio Sabelli Fioretti “L’uomo che non c’è”- perché non avevo dietro di me potentati economici, né potentati politici, né potentati culturali. Ero stato abbandonato anche dalla Dc. Per farmi ascoltare dovevo fare follie, dovevo dire cose che avevano la forma della follia. Ho fatto, dunque, anche il matto. Per attirare l’attenzione, quando non mi stava a sentire nessuno”. La presidenza Cossiga ha avuto dunque due fasi distinte. La prima, contraddistinta da una rigorosa osservanza delle forme dettate dalla Costituzione: Cossiga, essendo tra l’altro docente di diritto costituzionale, fu il classico ‘presidente notaio’ nei primi cinque anni di mandato, dal 1985 al 1990. Poi, dopo la caduta del Muro di Berlino, Cossiga capì che Dc e Pci avrebbero subito gravi conseguenze dal mutamento radicale del quadro politico internazionale, convinto che i partiti e le stesse istituzioni si rifiutavano di riconoscerlo. Da quel momento iniziò una fase di conflitto e polemica politica, spesso provocatoria, che portò al Cossiga ‘grande esternatore’ e, negli ultimi due anni al Quirinale, al ‘picconatore’, un appellativo che non l’avrebbe più abbandonato. Il mito del Picconatore nacque anche sull’onda emotiva di due vicende che hanno segnato la vita politica italiana all’inizio degli anni Novanta: Gladio e Tangentopoli. La scoperta dell’organizzazione segreta della Nato, creata per rispondere ad un eventuale attacco portato dall’Unione sovietica, colpì l’opinione pubblica e la classe politica italiana. E Cossiga assunse una posizione che fu all’origine di fortissime polemiche, difendendo i ‘gladiatori’ e sostenendo che essi andavano onorati come i partigiani, perché il loro obiettivo era quello di difendere l’indipendenza e la democrazia in Italia. E proprio la vicenda di Gladio costò a Cossiga la richiesta di messa in stato d’accusa da parte della minoranza parlamentare, nel dicembre del 1991. Il Comitato parlamentare, però, ritenne tutte le accuse manifestamente infondate, come si può leggere negli atti parlamentari, e la Procura di Roma chiese l’archiviazione a favore di Cossiga, richiesta poi accolta dal Tribunale dei ministri. Su Tangentopoli, Cossiga non negò l’esistenza del malaffare, ma nello stesso tempo nel corso degli anni si chiese perché “inchieste da anni dimenticate” fossero “state di colpo lanciate tra i piedi del ceto politico”. Forse perché’, ipotizzò, qualcuno, non solo in Italia, voleva liberarsi di un sistema politico “logoro e dal loro punto di vista ormai inservibile”. Con dieci settimane d’anticipo sulla scadenza naturale del mandato, il 28 aprile del 1992, Cossiga si dimise dalla Presidenza della Repubblica, per evitare all’inizio dell’undicesima legislatura l’ingorgo istituzionale, legato all’elezione del suo successore e alla nascita del nuovo governo. L’annuncio in un discorso televisivo di 45 minuti, pronunciato simbolicamente il 25 aprile, Festa della Liberazione.
Caselli “processa” Cossiga anche da morto: “Parlò con i brigatisti”. Il Dubbio il 17 agosto 2020. L’ex procuratore rimprovera all’ex capo dello Stato morto dieci anni fa di aver intrattenuto rapporti espistolari con gli ex Br. Ma la “guerra” era finita da un pezzo. Al Corriere della Sera è capitato di ospitare fra la prima e la diciannovesima pagina, come in un’aula di tribunale o in un ufficio di Procura, un processo a Francesco Cossiga nel decimo anniversario della sua morte. Ha cominciato a Ferragosto il magistrato in pensione Gian Carlo Caselli a pagina 19 contestando all’ex capo dello Stato di avere intrattenuto rapporti epistolari con i brigatisti rossi, compresi alcuni autori materiali del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, gratificandoli di quel “riconoscimento” pur negato durante la prigionia del presidente della Dc dallo stesso Cossiga e dal governo di cui faceva parte, anche a costo di procurare la morte dell’ostaggio. Di cui i terroristi volevano lo scambio con alcuni detenuti, negoziato come tra controparti in guerra. A Caselli – implacabile nella sua funzione di pubblico accusatore anche ora che i suoi 81 anni ne fanno un ex – ha risposto in difesa del padre Anna Maria Cossiga, che quell’epistolario ha consegnato alla Camera con tutto l’archivio dell’ex presidente della Repubblica, o di quella parte ritenuta forse utile alla comprensione delle vicende politiche di cui lui fu protagonista nelle varie funzioni svolte durante la sua lunga carriera pubblica. «Li aveva combattuti da ministro degli Interni. Passata la stagione del sangue, dopo che lo Stato aveva vinto, voleva comprenderne le ragioni e avviare la pacificazione del Paese», ha detto la figlia di Cossiga spiegando gli incontri e le lettere scambiate fra il padre, il fondatore delle brigate rosse Renato Curcio e persino Prospero Gallinari. Che nel 1978 non era stato solo il carceriere ma anche l’esecutore materiale della sentenza di morte contro Moro emessa dal fantomatico “tribunale del popolo”, sparandogli per primo al cuore la mattina del 9 maggio nel bagagliaio dell’auto che sarebbe stata poi lasciata in sosta fra le sedi della Dc e del Pci. D’altronde, di quella curiosità di conoscere le “ragioni” della lotta armata e di chiuderne il capitolo con atti di “pacificazione” ,Cossiga si era pubblicamente assunto la responsabilità già quando era al Quirinale, prima ancora di incontrare e scrivere da ex presidente della Repubblica ai protagonisti di quella disgraziata stagione. Egli aveva tentato, per esempio, di concedere la grazia a Renato Curcio, che espiava da 17 anni la sua condanna per terrorismo senza avere tuttavia ammazzato personalmente nessuno. A impedire di fatto la grazia, avvertendone tutta la impopolarità, era stato l’allora ministro socialista di Grazia, appunto, e Giustizia Claudio Martelli con disquisizioni di natura politica e giuridica finite davanti alla Corte Costituzionale per iniziativa dello stesso Martelli. Nella sua intervista al quirinalista del Corriere della Sera, Anna Maria Cossiga ha tenuto, fra l’altro, anche a ricordare il tormento procurato al padre sino alla morte dalla vicenda del sequestro e dell’assassinio di Moro. Cui Cossiga doveva la sua crescita politica, essendo stato da lui promosso nel suo ultimo governo da ministro della riforma burocratica a ministro dell’Interno. Si sentiva responsabile di quella morte. Capitava che di notte si svegliasse dicendo: «l’ho ucciso io», ha raccontato la figlia. Di questo tormento sono stato personalmente testimone nel suo ufficio al Quirinale assistendo allo scoppio di un pianto ininterrotto una volta che parlammo di Moro, del suo sequestro, della lunga e penosa prigionia e di quel gesto «inutilmente riparatorio» -mi disse- di dimissioni da ministro dell’Interno annunciate a conclusione della tragedia. E che non erano valse neppure a placare la famiglia di Moro, convinta delle responsabilità della Dc, del governo di allora appoggiato esternamente dal Pci e di Cossiga personalmente per l’assunzione della cosiddetta “linea della fermezza” dopo il sequestro e poi anche per la sua gestione. I rimorsi di Cossiga col tempo aumentarono, anziché ridursi. Ciò accadde, in particolare, quando si accorse da ormai ex presidente della Repubblica, durante i lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo presieduta dal senatore post-comunista Giovanni Pellegrino, di essersi avvalso durante il sequestro Moro di alcuni consulenti fra i quali uno rivelatosi poi tra i possibili esponenti della direzione strategica delle brigate rosse che si riunivano in quel periodo a Firenze. Era stato proprio un magistrato fiorentino, Tindari Baglione, a rivelare davanti alla commissione Pellegrino la “comunanza di consulenti” fra lo Stato e l’organizzazione terroristica. Non parliamo poi dell’amarezza procurata ancor prima a Cossiga dalla scoperta dell’appartenenza dei vertici militari e di sicurezza di quel periodo alla loggia massonica P2, forse non molto interessata -diciamo così- a garantire il salvataggio di Moro. In questo curioso processo postumo a Cossiga promosso dalle reazioni di Giancarlo Caselli ai rapporti, epistolari e non, avuti dall’ex presidente della Repubblica con i terroristi dopo la loro sconfitta – come ha giustamente precisato la figlia- mi ha sorpreso anche come lo stesso Caselli si sia lasciato sfuggire il peso di questioni personali nella sua ostinazione accusatrice. Egli non ha solo ricordato le indagini da lui condotte come magistrato a Torino nel 1980 che rischiarono di tradursi in un processo all’allora presidente del Consiglio davanti alla Corte Costituzionale per l’affare del figlio terrorista del collega di partito Carlo Donat-Cattin: processo svanito per la protezione garantita a Cossiga dalla maggioranza del Parlamento, convinta che egli non avesse voluto favorire la latitanza del figlio dell’amico rivelandogliene la posizione. Caselli ha anche rinfacciato a Cossiga, per quanto morto da dieci anni, di avere mandato o fatto mandare per posta, ridotta in coriandoli in una busta, la ricevuta di ritorno di una lettera raccomandata scrittagli dalla moglie del magistrato in difesa del marito che l’allora presidente della Repubblica soleva criticare pubblicamente, forse non dimentico di quella vicenda del 1980.
“Non vi fu nessun rapporto tra le Br e i Servizi segreti”. Il documento che smonta il complotto del secolo. Il Dubbio il 17 agosto 2020. Il documento sul caso Moro firmato da 23 tra storici e scrittori di origini, percorsi e orizzonti diversi punta a spazzare via una volta per tutte la ‘fake news’ che vuole esistente un legame occulto tra il SISDE e le Br. È una presa di posizione pacata, piena di informazioni concrete, che fa appello alla logica e alla ricerca scientifica e scritta con lo stile di chi conosce una materia, il documento sul caso Moro firmato da 23 tra storici e scrittori di origini, percorsi e orizzonti diversi. (Matteo Antonio Albanese, Gianremo Armeni, Andrea Brazzoduro, Frank Cimini, Marco Clementi, Andrea Colombo, Silvia De Bernardinis, Christian De Vito, Italo Di Sabato, Eros Francescangeli, Mario Gamba, Marco Grispigni, Davide F. Jabes, Nicola Lofoco, Carla Mosca, Paolo Persichetti, Giovanni Pietrangeli, Francesco Pota, Ilenia Rossini, Elisa Santalena, Vladimiro Satta, Giuliano Spazzali, Davide Steccanella, Ugo Maria Tassinari). La lettera aperta punta a spazzare via una volta per tutte la ‘fake news’ che vuole esistente un legame occulto tra il SISDE e le Br: legame, in realtà, “sempre smentito dalle ricerche storiografiche e dalle risultanze processuali”, si spiega nel documento. Anzi, “l’attività giudiziaria e delle diverse commissioni d’inchiesta ha accertato che Moro non è mai stato tenuto sotto sequestro nei locali di via Gradoli, che fungevano invece da base per due brigatisti, Mario Moretti e Barbara Balzerani”, scrivono i 23 ricercatori e storici, sottolineando che “‘ultima Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Moro ha addirittura effettuato un’indagine Dna sui frequentatori dell’appartamento di via Gradoli, constatando l’assenza di tracce genetiche riconducibili ad Aldo Moro”. Insomma, il documento in questione farà discutere, perché lancia un sasso notevole nel “mare magnum delle dietrologie” che, a loro avviso, “hanno deformato le ricostruzioni sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, spesso facendo riferimento al covo brigatista di via Gradoli”. “Purtroppo via Gradoli è stata al centro di falsi misteri e montature – commenta Vladimiro Satta, già archivista del Senato e autore di numerosi saggi sul tema (tra cui ‘Odissea nel caso Moro’) -Si tratta di falsificazioni che hanno tratto in inganno molti, anche a causa della leggerezza con cui talvolta la stampa le ha diffuse”. Netto il parere di Elisa Santalena, professore associato di Storia italiana all’Università di Grenoble (Francia). “È sempre più incomprensibile come le fake news (perché altro non sono), continuino a spadroneggiare sulla vicenda del sequestro Moro. Eppure sono passati più di quarant’anni. In ambiti universitari si sdrammatizza il tema, lo si attribuisce alla ‘sensibilità giornalistica’, dunque a criteri sensazionalistici e grossolani. Tutto vero. Ma c’è anche una responsabilità di quei docenti e accademici che hanno supportato, o comunque non adeguatamente contrastato, le ricostruzioni falsate. La partita adesso è suscitare negli studenti una giusta capacità critica, che privilegi la verità alle fandonie dei falsi misteri. Tra i firmatari della lettera aperta c’è anche Davide Steccanella, scrittore (suo il saggio ”Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata”, Bietti Editore) e penalista di rango (difensore, tra gli altri di Cesare Battisti e Renato Vallanzasca) con il gusto di mettere in fila le contraddizioni: “Dunque, qui ci troviamo di fronte a un tipico fatto che non sussiste. In due righe, tre falsità. Non ci sono i tempi, non ci sono i soggetti e non ci sono le correlazioni. Come mai una cosa così sgangherata ha avuto così tanto spazio? È avvilente come, a distanza di 42 anni, il nostro Paese non sia ancora stato capace di raccontare un periodo importante della propria storia senza ricorrere continuamente a quelle mistificazioni che solleticano il gusto italico per misteri e complotti. Viene da pensare che questo non sia solo frutto di superficialità ma di una volontà ben precisa: ridurre un importante e lungo conflitto sociale (peraltro mondiale) a terrorismo avulso e teleguidato”. Ulteriori precisazioni arrivano da Paolo Persichetti, ricercatore indipendente (ed ex Br oggi in fine pena), che spiega attraverso quali meccanismi sia oggi possibile fare ricerche più valide sul fronte della lotta armata di quarant’anni fa: “Alcuni recenti aggiornamenti normativi hanno reso più democratico l’accesso agli archivi e quindi alle fonti storiche. Oggi è possibile consultare quei documenti che un tempo erano accessibili solo alla magistratura, alle commissioni parlamentari e una scia di consulenti di partito. Una circostanza che in passato ha favorito una certa opacità e a volte anche la manipolazione, in cui le carte scomode venivano omesse o citate solo in parte. Quel tempo è finito! Una nuova generazione di studiosi non è più disposta ad accettare il ricorso a narrazioni che utilizzano tecniche argomentative come il metodo dell’amalgama, la confusione di tempi e luoghi, l’uso del sentito dire, le correlazioni arbitrarie, le affermazioni ipotetiche, i sillogismi e le false equazioni. Per decenni l’accesso riservato alle carte è stato un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, per tracciare una narrazione ostile alla storia dal basso, con l’obiettivo di negare la capacità dei soggetti di muoversi e pensare in piena autonomia secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale. Così si è finiti ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico”. Più laconico, ma anche più definitivo, il giudizio di Marco Clementi, storico dell’Università di Cosenza e autore di monumentali saggi sulle Brigate Rosse. “Un Paese è libero quando cerca la verità storica. Per farlo serve metodo; il costante riscontro delle ipotesi nelle prove disponibili ne è una parte fondamentale”. n particolare, nella lettera aperta, i 23 ricercatori segnalano alcune chiare evidenze emerse in Corti di Assise in ordine all’episodio dell’affitto di via Gradoli. 1. L’ingegner Borghi/Moretti ha affittato i locali di via Gradoli 96 a seguito di normale annuncio pubblicitario nel dicembre del 1975, come risulta agli atti; 2. I locatori erano i signori Giancarlo Ferrerò e Luciana Bozzi, proprietari dell’appartamento dal rogito avvenuto in data 01/07/1974; 3. È accertato che si è trattato di una transazione tra privati, senza coinvolgere la figura dell’amministratore; 4. Il SISDE, il nuovo servizio segreto civile, è stato creato nel 1977, cioè due anni dopo la stipula del contratto di affitto per la base brigatista. 5. È evidente che il contratto d’affitto tra brigatisti e coniugi Ferrerò non poteva perciò essere implicato con il SISDE, del resto inesistente in quel momento. 6. Occorre peraltro ricordare che, com’è noto, la base Br di via Gradoli 96 ha cessato di essere ”un covo” nel 1978, proprio durante il sequestro Moro. Per evitare contiguità immotivate e fuorvianti, va sottolineato che la base dei Nar era invece al civico 65 di via Gradoli e comunque il loro soggiorno risale al 1981. Un altro estremista di destra aveva in realtà abitato in via Gradoli 96 – Enrico Tomaselli di Terza Posizione – ma nel 1986, cioè molti anni dopo i fatti in oggetto. Per completezza documentale, va comunque precisato che non si trattava dello stesso vano occupato a suo tempo dalle Br. Infine, risulta che ad affittare il monolocale al Tomaselli non sia stato l’amministratore Catracchia ma un altro estremista di destra figlio di un magistrato di Cassazione: Andrea Insabato, proprietario del piccolo appartamento e peraltro futuro attentatore alla sede del Manifesto nel dicembre 2000. 8. In ogni caso, anche i presunti 24 appartamenti legati a diverse società immobiliari – che in modo sbrigativo e arbitrario vengono attribuite ai Servizi – sono acquisiti negli anni successivi al sequestro Moro. 9. In particolare, sono agli atti le proprietà immobiliari di Vincenzo Parisi, nel 1978 questore di Grosseto, dal 1980 in organico al SISDE (di cui diventa direttore nel 1984) e nel 1987 capo della Polizia. 10. L’intensa attività immobiliarista del dirigente Parisi, con gli appartamenti intestati alle figlie Maria Rosaria e Daniela, non sembra richiamare reconditi misteri. Ad ogni buon conto, sono fatti notarili riguardanti il civico 75 che ricorrono una prima volta un anno e mezzo dopo il rapimento Moro mentre i successivi, inerenti al civico 96, avvengono nel 1986-87: ben quattro e undici-dodici anni dopo la stipula del contratto di affitto del 1975 da parte delle Brigate Rosse. 11. Quando si tratta dell’immobile di via Gradoli queste date abitualmente non vengono segnalate ai lettori. E invece la precisione sui tempi cronologici è necessaria per un’interpretazione ponderata dei fatti ispirata al metodo storico. Un’analisi corretta dei tempi, delle fonti e del nesso causa-effetto smentisce seccamente ogni possibile coinvolgimento di entità non riconducibili alla lotta armata intrapresa dalle Br nel lontano 1970. Denunciamo pertanto il mancato rispetto dei più elementari criteri di verità e di logica nella ricostruzione di eventi e circostanze, una degenerazione particolarmente grave della e nella stampa italiana.
Cossiga, il politico lucido che combatteva e rispettava le Brigate Rosse. David Romoli su Il Riformista l'11 Agosto 2020. Cosa ha stupito nella scoperta del carteggio tra l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga e alcuni ex militanti armati, definiti abitualmente (per una convenzione alla quale Cossiga non si uniformava) “ex terroristi”? Non certo l’esistenza del carteggio stesso. Ci sono altri casi di scambi di lettere, per esempio, tra ex brigatisti e parenti delle vittime o con celebri giornalisti come Giorgio Bocca o Rossana Rossanda, ma non con esponenti politici. Tuttavia l’interesse dell’ex ministro degli Interni, ex premier, ex presidente della Repubblica a dialogare e anche incontrare i nemici vinti era notissimo. Neppure sorprendono i toni degli ex brigatisti e autonomi che si erano proposti l’attacco al cuore dello Stato, o comunque la distruzione dello stesso. Negri che, dandosi del tu con l’ex presidente come si conviene a un accademico comunque di chiarissima e internazionale fama, chiede una spintarella per poter andare in vacanza. Curcio che esalta l’impatto profondissimo della stretta di mano con il democristiano che non moltissimi anni prima lui, e in realtà tutto il movimento armato o meno degli anni ‘70, avevano considerato il nemico numero uno: Kossiga con tanto di K. Nei frangenti dati, quelle esagerazioni, quelle iperboli, quelle sbavature sono non solo comprensibili ma inevitabili: nell’ordine delle cose. No, quello che a distanza di anni ha lasciato molti sbigottiti, e che avrebbe suscitato fragoroso scandalo se le lettere fossero state rese note nel momento in cui furono scritte, agli inizi degli anni ‘90, è il tono di profondo rispetto che Cossiga adopera. Dialogare con gli ex terroristi, spingerli a riconoscere i loro errori, recuperarli alla vita civile, soprattutto indurre pentimento, inteso non nell’accezione delatoria ma in quella morale del termine, tutto questo andava e va benissimo. È anzi meritorio. Segnala e sottolinea la superiorità morale tra la Repubblica e i suoi nemici. Cossiga, cioè il leader politico che più di ogni altro aveva fronteggiato l’emergenza armata, spezza questa visione unanime. Dice apertamente quel che non si poteva e non si doveva dire ai tempi del sequestro Moro e non si è più potuto dire in seguito: che da una parte c’era lo Stato democratico ma dall’altra non c’erano pazzi sanguinari, folli che inseguivano una chimera nefasta, mostri che possono solo emendarsi riconoscendo la loro turpe follia. C’era un movimento rivoluzionario che va inscritto a tutti gli effetti nella storia dei movimenti rivoluzionari del secolo scorso. C’erano giovani e giovanissimi che mettevano in gioco la pelle e accettavano la certezza di passare buona parte della vita in galera per un’idea politica. C’erano gruppi formati non da nihilisti col culto dell’azione fine a se stessa ma da operai rivoluzionari e comunisti formatisi nel ciclo di lotte operaie, senza pari nell’occidente post-bellico, dell’Italia degli anni ‘70. Tutto ciò era evidente già all’epoca dei fatti, e lo aveva indicato con lucidità estrema, già nel corso dei 55 giorni della prigionia di Moro, Rossana Rossanda, in un famoso articolo sull’ “album di famiglia” nel quale si spingeva anche oltre, riconoscendo le affinità tra la principale organizzazione armata, le Br, e la cultura del Pci nei decenni precedenti. Le ricerche storiche e sociologiche hanno da allora puntualmente confermato. E tuttavia quel dato di realtà non poteva essere riconosciuto dalla politica. I “terroristi” dovevano essere inscritti nelle categorie del crimine comune o della follia sanguinaria e questo obbligo si dimostrò tanto tassativo da spingere il Palazzo, e la stampa tutta, a sacrificare Aldo Moro pur di non concedere ai suoi rapitori quel “riconoscimento politico” che lo avrebbe probabilmente salvato. Cossiga, come il Moro prigioniero e probabilmente anche in conseguenza della scelta bugiarda fatta allora, straccia questa narrazione falsa e falsificante. Tratta gli ex terroristi con rispetto. Il che, sia chiaro, non significa affatto dargli ragione. Né lui né lo stesso Moro si espongono mai all’accusa di dar ragione, anche solo parzialmente, al movimento armato. Cossiga non rinnega mai la sua posizione di allora. Non smette mai di considerare la lotta armata un nemico che lo Stato democratico aveva il dovere di fronteggiare. Un nemico, però, dotato della sua dignità. Un nemico che si poteva e doveva combattere ma anche rispettare. Lo Stato italiano ha fatto una scelta diversa. Si è comportato, nei fatti, con la piena consapevolezza di quale fosse la realtà. Si è adoperato, a emergenza conclusa e lotta armata sconfitta, per liberare i nemici vinti. A patto però di non doverne mai riconoscere la dignità politica. Quando Cossiga si scambiava lettere con gli uomini e le donne a cui lui stesso aveva dato la caccia, all’inizio dei ‘90, sembrava possibile superare davvero quella fase storica, restituendole anche nel discorso pubblico i suoi caratteri reali. Non solo Cossiga ma anche Pecchioli, il “ministro degli Interni” del Pci all’epoca del sequestro Moro, e molti democristiani erano favorevoli a un’amnistia. Ha invece prevalso una linea di continuità assoluta con la versione imposta all’epoca dei fatti. La verità di Cossiga è stata sbrigativamente fatta passare per stranezza, eccentricità, frutto di depressione e sensi di colpa mai davvero superati per la morte del prigioniero di via Montalcini. Cossiga è stato fatto passare per pazzo. Proprio come era capitato ad Aldo Moro nei 55 giorni della sua prigionia.
Cossiga, le lettere agli ex Br: “Ormai la giustizia contro di voi è vendetta”. Alice De Gregoriis su meteoweek.com il 7 agosto 2020. Il Corriere pubblica stralci di lettere segrete tra Cossiga e gli ex Brigate Rosse. Tra i nomi al centro della corrispondenza epistolare: Renato Curcio, Toni Negri, Prospero Gallinari, Paolo Persichetti e Fabrizio Melorio. A Paolo Persichetti, ad esempio, scrive: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura”. Siamo nel 1992, precisamente il 25 novembre, nel carcere di Rebibbia: l’ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontra Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. L’incontro tra i due avviene l’anno dopo il tentativo di Cossiga di concedere la grazia a quello che lui stesso definiva “un sovversivo di sinistra”. Un tentativo non andato a buon fine. Durante il colloquio, tra i tanti temi toccati (come il caso Moro), Cossiga spiega che quell’atto di clemenza (fallito) doveva rappresentare un primo passo verso il superamento di leggi di emergenza alla cui creazione lui stesso aveva partecipato. Ma quella manovra raccolse l’opposizione dei parenti delle vittime e di alcune forze politiche, come l’ex Pci. A fornire i dettagli dell’incontro, riportati dalle parole degli stessi partecipanti, sarebbe un resoconto conservato nell’archivio privato del presidente emerito, oggi riportato dal Corriere. Nel resoconto Curcio avrebbe scritto: “Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare“. Poi ancora: “Ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale… Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato”. Ma Cossiga non avrebbe intrattenuto rapporti epistolari esclusivamente con Curcio. A dimostrarlo è il suo archivio donato alla Camera dei deputati. Tra gli altri brigatisti al centro dello scambio di lettere ci sarebbero anche: Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, e anche esponenti dell’Autonomia operaia fuggiti in Francia come Toni Negri. Significativa la lettera che Cossiga scrisse a Prospero Gallinari, ex carceriere di Moro. Gallinari fu scarcerato per motivi di salute, e subito arrivarono gli auguri di Cossiga: “Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena”. Importante anche la lettera che nel 2002 Cossiga invia a Paolo Persichetti, ex Udcc appena estradato dalla Francia e arrestato: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato”. Non manca anche qualche lettera a Fabrizio Melorio, che partecipò all’omicidio del generale Licio Giorgieri. Cossiga scrive: “Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera… perché in fondo mi sento anche un po’ ‘colpevole’ della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori”.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2020. Un anno dopo il fallito tentativo di concedergli la grazia nell'estate 1991, l'ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontrò Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Il colloquio avvenne a quattr' occhi, nel carcere romano di Rebibbia, il 25 novembre 1992, quando Cossiga aveva lasciato il Quirinale da sei mesi. Parlarono di molte cose, dal «carattere sociale e politico del fenomeno armato», che l'ex capo dello Stato non definiva terrorismo bensì «sovversivismo di sinistra», al caso Moro, alla vicenda della grazia abortita. Cossiga spiegò che nelle sue intenzioni quell'atto di clemenza unilaterale doveva essere un primo passo per superare le leggi di emergenza a cui lui stesso aveva contributo, prima da ministro dell'Interno e poi da presidente del Consiglio, quando le Br avevano lanciato il loro «attacco al cuore dello Stato». I vertici delle forze di sicurezza erano d'accordo, ma i parenti delle vittime no, al pari di alcune forze politiche; in primo luogo l'ex Pci divenuto Partito democratico della sinistra. «Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare», ha scritto Curcio in un resoconto dell'incontro conservato nell'archivio privato del presidente emerito. Insieme e a un biglietto inviato al fondatore delle Br per ringrazialo dell'incontro che «è stato per me di grande interesse politico, culturale, e soprattutto umano». Risposta dell'ex brigatista: «Debbo dirle che dopo anni di fuoco, non solo metaforico, e di K (nell'estrema sinistra il ministro dell'Interno del '77 veniva chiamato Kossiga, con la doppia S stilizzata come il simbolo delle SS naziste, ndr ), ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale... Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato». Curcio comincerà a uscire dal carcere solo l'anno successivo, in un periodo in cui Cossiga (non più Kossiga bensì il «picconatore» del sistema di cui era stato parte) ha intrattenuto rapporti epistolari e diretti con molti ex terroristi. In prevalenza di sinistra, ma non solo. Nel suo archivio donato alla Camera dei deputati, oltre al carteggio con Curcio ci sono le lettere inviate ad altri brigatisti come Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, militanti dell'Unione dei comunisti combattenti, pentiti come Marco Barbone e l'ex di Prima linea Roberto Sandalo, esponenti dell'Autonomia operaia fuggiti in Francia per evitare il carcere, a cominciare da Toni Negri. Il quale, una volta rientrato in Italia per finire di scontare la pena, si rivolse all'ex presidente per chiedere una buona parola con un dirigente della Digos. Su sollecitazione di Cossiga, in virtù di un'antica conoscenza personale e «come primo effetto della reciproca smobilitazione ideologica», Negri gli dava del tu, e il 12 aprile 1998, giorno di Pasqua, gli scrisse per fargli gli auguri e «per chiederti di intervenire eccezionalmente in mio favore». Dopo un primo diniego, il professore detenuto aspirava a ottenere un permesso per «una brevissima vacanza», però serviva che la polizia «dichiarasse insussistente, come in realtà è, il pericolo di fuga». Così Negri s' era rivolto al presidente emerito: «Mi permetto di insistere con te perché, se ti è possibile, tu faccia questo intervento. Ti ringrazio fin d'ora per quello che potrai fare». All'ex carceriere di Moro Prospero Gallinari, scarcerato per motivi di salute, Cossiga scrisse il 5 maggio '94: «Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena». Aggiungendo il rammarico perché nell'ex Pci c'era chi considerava le Br «uno strumento della Cia e della P2! Che vergogna e che falsità, che viltà e che malafede! Ma non se la prenda. Se viene a Roma me lo faccia sapere». In una lettera a Mario Moretti, il «regista» del caso Moro, l'ex presidente lo ringrazia per il libro sulla storia delle Br scritto nel 1994, e ribadisce la sua idea di un fenomeno «radicato socialmente e radicalmente nella società e nella sinistra italiana, e collegata alla divisione ideologica dell'Europa». È per questa sua analisi che Cossiga, morto dieci anni fa, è stato e continua ad essere pressoché l'unico politico apprezzato dagli ex militanti della lotta armata di sinistra. Compresi i giovani aderenti alla fazione brigatista che nel 1987 uccisero il generale Licio Giorgieri, come Francesco Maietta e Fabrizio Melorio. «Le sue esternazioni hanno avuto per me lo stesso effetto di rottura e di nuovo punto di partenza delle considerazioni del professor De Felice in materia di fascismo e resistenza», gli scrive Maietta dalla cella nel 1993; cinque anni dopo Cossiga sarà ospite al matrimonio dell'ex brigatista, uscito dal carcere. E al suo compagno di cella Melorio, che all'ex presidente aveva raccontato il passaggio dall'essere suo nemico giurato nel '77 a «condividere molte delle cose che lei sostiene», Cossiga confida: «Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera... perché in fondo mi sento anche un po' "colpevole" della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori». Nel 2002 il «picconatore» manda una lettera a Paolo Persichetti, altro ex dell'Udcc appena estradato dalla Francia e chiuso in prigione: «Ormai la cosiddetta "giustizia" che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o "vendetta" o "paura", come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato». In un altro faldone, insieme a documenti e atti parlamentari e giudiziari sulla strage di Bologna di quarant' anni fa, sono conservate alcune lettere inviate a Cossiga da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, quando ancora erano sotto processo per la bomba alla quale si sono sempre proclamati estranei. Dopo la condanna nell'appello bis, a luglio '94, gli scrisse pure la mamma di Francesca Mambro: «Io e i miei figli Le chiediamo aiuto per la ricerca della verità, perché chi è dalla parte della Giustizia si senta anche dalla parte della difesa di Francesca e Valerio». Ma un anno dopo arrivò l'ergastolo definitivo».
Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 25 luglio 2020. Gli sarebbe piaciuto. Il «Premio Cossiga per l'Intelligence» promosso dalla Società italiana di Intelligence, assegnato al prefetto Carlo Mosca dalla giuria presieduta da Gianni Letta, con vicepresidenti Giuseppe Cossiga e Mario Caligiuri, lo avrebbe molto divertito. La prima edizione si svolgerà in modalità virtuale il 17 agosto, in occasione del decennale della scomparsa di Francesco Cossiga. Avrebbe voluto certamente premiare lui il Prefetto Carlo Mosca, ma c'è suo figlio. L'ultima volta che lo andai a trovare a casa sua, Cossiga era un po' malandato, ma mi avvertì subito che il mio telefonino Sony non eravamo ancora agli smart e gli iPhone, era un modello superato. La sua casa era piena di soldatini, di truppe sarde di piombo, di carabinieri in alta uniforme, ma non era un museo, era piuttosto la casa di un grande piccolo patriota. Quando mi chiamò per avvertirmi che avrebbe lasciato il Quirinale, lo andai a trovare con la mia compagna di allora e il suo bambino Andrea. A lui consegnò, con estrema solennità, la bandiera di combattimento: «A te che rappresenti le nuove generazioni». Poi io lo seguii fino in Irlanda. Ma la sua passione per i giocattoli dell'Intelligence era molto più di una mania da collezionista. Cossiga aveva imparato già negli anni Cinquanta che cosa significasse far parte dell'Intelligence Community, e per giunta di lingua inglese. Non so quanto fluente fosse in inglese, ma lo capiva bene e scherzavamo sul fatto che in inglese per dire «rapporto sessuale» si dica sexual intercourse. Lo faceva ridere. Ma era un lettore scaltro di informazioni diplomatiche e aveva protetto e difeso con le unghie e coi denti l'organizzazione della Nato Stay behind (dietro le linee) che in Italia era stata curiosamente ribattezzata «Gladio» ma che esisteva tale e quale in tutti i Paesi della Nato. Era una organizzazione partigiana che si sarebbe dovuta attivare nel caso di occupazione sovietica. Quello fu il suo vero war game che finì malissimo quando Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, consegnò le chiavi dell'organizzazione segreta al giudice Casson, sicché tutto finì in piazza e in uno scontro politico rovente. Come sardo, si sentiva più vicino agli irlandesi che agli inglesi, ma era molto bravo nell'usare i codici, decifrare un rapporto diplomatico e saper trattare le materie di intelligence anche con gli ambasciatori. Ricordo la sua grande amicizia con l'ambasciatore sovietico e poi russo Adamishin che gli dette informazioni essenziali sulla più grande operazione di riciclaggio del tesoro sovietico di cui si occupò poi Falcone, non più procuratore, ma suo delegato personale e subito prima di essere ucciso. Cossiga mi diceva sempre che il suo vero maestro di Intelligence era stato Aldo Moro: il criptico intellettuale e professore che si sentiva perennemente tenuto d'occhio dal Kgb in Italia. Cossiga era il supervisore italiano del passaggio di denaro fra Mosca e il Partito comunista italiano, come ministro o rappresentante del governo, in compagnia di due agenti del Tesoro americano che controllavano soltanto la genuinità dei dollari che da Mosca arrivavano a Roma e che Cossiga (sue personali confidenze) faceva cambiare in lire alla banca dello Ior vaticano (Istituti Opere Religiose) da Monsignor Marcinkus. Che non era proprio uno stinco di santo. Conosceva perfettamente gli schieramenti di missili europei di media gittata sovietici, gli SS20 e quelli di teatro americani Pershing e Cruise. Adorava, letteralmente adorava gli avversari sovietici con un sentimento che lo accomunava a John LeCarré: «Quei distinti signori che erano i grandi comunisti di quei tempi», mi diceva. E poi, sì, c'era anche l'apparato giocoso: le microspie, i rivelatori di microspie (gli portai un detector che avevo comprato a New York che faceva molti ronzii quando lo accostavamo ai suoi muri, cosa di cui era orgoglioso). Il suo amore possessivo per l'Arma dei Carabinieri dipendeva anche dal fatto che i Carabinieri sono sia polizia militare che civile, forza combattente e di intelligence, all'occorrenza polizia stradale. Che è anche il motivo per cui i Carabinieri sono stati sempre molto apprezzati anche dagli americani per le operazioni di peace keeping all'estero. Adorava le uniformi, i gradi, le mostrine e mi regalò solennemente un maglione blu della Marina militare che conservo come una reliquia. Non aveva per natura un portamento militare, ma aveva una passione per la Storia e i suoi dettagli. Non si trattava solo di soldatini di piombo, ma di combattenti cibernetici. Mi regalò anche un grande album dell'intelligence con tutte le armi che si usavano trent' anni fa, introvabile nelle librerie. Da vero uomo di intelligence, ascoltava con piacere anche i pettegolezzi e si informava con curiosità dei particolari piccanti delle relazioni amorose nel mondo politico. Aveva una straordinaria collezione delle bandiere di combattimento di reggimenti e divisioni del passato, ma anche lettere che certificavano la sua competenza anche tecnica che gli permetteva di riconoscere una operazione mediatica da una «fabbricazione» che è una sostituzione del falso con il reale. Sapeva molto di più di quello che possiamo immaginare e tutti speriamo che abbia lasciato scritto da qualche parte ciò che ancora ci manca per ricostruire quel che accadde, come e agito da chi, perché e quando. Lui lo sapeva, Andreotti anche e oggi il teatro politico è molto disadorno senza questi due personaggi. Specialmente senza Cossiga.
Francesco Cossiga, un cattolico liberale in un partito di affaristi. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. Era ancora l’altra Italia, quella precedente. Sì, c’era stato il muro di Berlino, molto rumore e accesi dibattiti, ma ancora non si sapeva dove si sarebbe aperta la crepa. Un indizio c’era, ma non andava molto oltre l’aspetto in apparenza buffo, aneddotico e magari leggermente psichiatrico del solo fatto degno di nota: il signor presidente della Repubblica in carica, Francesco Cossiga, che per anni se ne era stato buono e tranquillo anzi invisibile e misterioso dietro le tende del Quirinale, improvvisamente era diventato matto. Fu creato un verbo per indicare le sue azioni verbali: «Esternava». Mandava all’esterno del suo corpo e della sua mente ciò che vi albergava da tempo, represso come in un fucile ad aria compressa. Da mite e ossequioso, istituzionale e quasi invisibile, si era fatto aggressivo, e diceva che doveva togliersi i sassi che aveva nelle scarpe e menava botte da orbi a destra e a manca, più a manca che a destra. Io ero appena approdato a La Stampa diretta da Paolo Mieli, condirettore Ezio Mauro che sei anni dopo sarebbe diventato direttore di Repubblica, da cui io provenivo dal giorno della fondazione. Questa è la storia di come, per puro caso, diventai non soltanto il confidente del presidente della Repubblica ma colui che, con pochi altri, difese persino la sua follia e vide che – a parte qualche eccesso in liquerizia e qualche compressa di litio – il primo cittadino era non soltanto sano di mente, ma probabilmente vedeva più lontano di tutti gli altri. E che aveva tirato l’allarme facendo suonare tutte le sirene e quasi sbandare il convoglio istituzionale. Erano dunque i primi di gennaio del 1990, nei giorni in cui ogni anno le singole Procure inaugurano l’anno giudiziario. Mi chiamò Ezio Mauro e mi disse: «Perché non vai a Gela? Domani Cossiga inaugura l’anno giudiziario e probabilmente farà il matto anche lì». Per puro caso la sera prima era andata in onda, ma non lo sapevo, la registrazione di una puntata di Harem di Catherine Spaak. In quella trasmissione Catherine mi aveva chiesto notizie di mia figlia Sabina che muoveva i suoi primi e gloriosi passi nella satira televisiva. Io non lo sapevo, ma Cossiga, che era un animale televisivo informatissimo, sì. A Gela un servizio d’ordine poliziesco piuttosto brusco aveva confinato la fastidiosa massa dei cronistacci e dei paparazzi in un androne dell’ingresso, mentre la macchina del presidente della Repubblica e della sua scorta arriva con stridore di gomme e luci lampeggianti. Io non avevo mai visto Cossiga e dunque quando lo vidi dirigersi a passo di carica verso di me, mi chiesi se ci fosse qualcosa di molto strano. Cossiga mi afferrò per un braccio portandomi via dalla mischia, dicendomi col suo accento sardo che gli raddoppiava tutte le consonanti: «Non sapevo che lei avesse una figlia attrice. Mi sembra anche molto bella e molto brava». Capii allora che aveva visto la mia intervista dalla Spaak e risposi con parole di circostanza, mentre il presidente mi trascinava sui gradini di una scala con tutto il codazzo di guardie del corpo e dignitari, fra cui il sindaco di Gela disperato per essere stato estromesso dal suo posto di accompagnatore ufficiale con fascia tricolore del presidente, il quale lo ignorava e invece seguitava a parlarmi. Il sindaco, furibondo, si aggrappò allora alla giacca della mia grisaglia e la aprì verticalmente in due lasciandomi in maniche di camicia e brandelli come in un film di Charlie Chaplin. Cossiga non mi mollò e il sindaco mi prese a gomitate molto decise all’altezza dello stomaco. E non mollai neanche io. Arrivammo nell’aula e io restai incollato a Cossiga in una ressa senza ossigeno, ma colma di rancori. Il presidente fece il suo discorso e senza alcun preavviso attaccò Giorgio Bocca, uno dei principi del giornalismo italiano. Erano i tempi dei delitti della banda detta della “Uno Bianca” in cui erano stati implicati alcuni carabinieri. Bocca aveva scritto quel giorno un articolo in cui sosteneva più o meno che i carabinieri erano storicamente degli eversori (alludendo al famoso “Piano Solo” ai tempi del generale De Lorenzo, accusato di propositi golpisti) e Cossiga diventava una belva se qualcuno gli toccava i “suoi” carabinieri di cui si considerava il supremo protettore. Dunque, fra l’altro, pronunciò una invettiva contro Bocca molto dura, accusandolo di vilipendere. Io prendevo nota su un piccolo notes. Il punto su cui ero chiamato a render conto ai miei lettori era: Cossiga è matto o no? Sembrava davvero preda di un delirio fuori controllo, oppure diceva semplicemente cose che molti consideravano sgradevoli? Fra pazzia e divergenze d’opinione, c’è un abisso. Così, ricordo che mi dedicai al suo body language, i movimenti minimi che potevano suggerire segni di agitazione e scompostezza e potevo farlo perché ero attaccato a lui come una cozza, in una ressa irrespirabile. Ricordo in particolare i suoi radi capelli bianchi che erano composti e immobili. La voce era alta, ma secca, con un tono sprezzante costante. Non isterico. Poi ci salutammo, ci separammo e corsi in albergo per scrivere un pezzo in cui facevo la cronaca dell’accaduto dando conto di parole e fatti (non della mia sventurata giacca) ignorando di compiere in questo modo un gesto eversivo. Il giorno successivo infatti quasi tutti i giornali titolavano sulla follia presidenziale, l’evidente patologia mentale e il fatto – che di lì a poco sarebbe emerso come fatto istituzionale – che Cossiga non sarebbe stato nelle condizioni mentali per reggere il suo ufficio: «Not fit» per l’Economist e una celebre giornalista inglese lo definì matto come le lepri di marzo quando vanno in amore, un’espressione ripresa da Lewis Carroll nel Tè del Cappellaio matto (una lepre) in Alice in Wonderland. Tutti avevano scritto che Cossiga era matto, tranne me. Ero forse matto io? Fu così che mi accorsi per la prima volta (ne sarebbero seguite molte altre) che alcune persone preferivano cambiare marciapiede quando mi incontravano per strada. Cossiga non usava ancora il verbo «picconare» (l’avrebbe inaugurato alla presentazione del mio libro su di lui Cossiga uomo solo) ma assestava colpi micidiali al suo partito e ai partiti che lo avevano eletto quasi all’unanimità. Che cosa gli era preso? Me lo spiegò man mano che il nostro rapporto si trasformava in amicizia. Ma fu un processo lento. Dopo alcuni giorni dal mio primo articolo mi telefonò all’alba allarmando il bambino della mia compagna il quale mi svegliò scuotendomi: «Che cosa hai fatto a Bush?». A Bush?, chiesi «Sì, c’è il presidente al telefono e ti vuole parlare subito». Per un bimbo di cinque anni l’unico presidente noto era quello americano. Andai al telefono e mi sentii chiedere: «Che cosa sa lei dei cattolici liberali?». E mi impartì una dottissima lezione il cui significato era: io sono l’unico cattolico liberale in Italia, sono solo come un cane in un partito di affaristi o integralisti. Gli mandai per corriere (non esistevano ancora le e-mail) un articolo in cui ricostruivo la nostra conversazione chiedendogli l’autorizzazione a pubblicarlo. Mi rispose: «No, ma venga domattina alle sette a fare colazione al Quirinale». Andai e trovai la crème de la crème della sinistra italiana: Andrea Barbato, Sandro Curzi, Valentino Parlato e mezza redazione de il manifesto con qualche scampolo de l’Unità. Tutta gente intelligentissima, un po’ anarchica ed eretica impegnata fra cappuccini, cornetti e uova strapazzate con cui Cossiga aveva una familiarità molto giocosa. Quello sì, che sembrava il Tè del cappellaio matto. Ma allora erano tutti matti, o così sembrava. Lo stesso Cossiga che veniva scudisciato sulla carta stampata, era il beniamino di un bel gruppo di intelligentissimi e spiritosissimi pensatori e giornalisti. Non c’era Eugenio Scalfari, che era in quel momento uno dei suoi principali avversari e questo faceva soffrire molto Cossiga perché per anni – mi diceva – era stato a pranzo da Eugenio una volta alla settimana. Eugenio stesso mi aveva raccontato di aver lui stesso suggerito a De Mita il nome di Cossiga per succedere come presidente del Senato ad Amintore Fanfani che si era giocato la poltrona pur di fare un governicchio estivo. Poi, dopo mille premesse, promesse ed emozioni, venne il momento della prima intervista ed era allora un vero scoop, perché tutti speravano di poterlo intervistare. Mi spiegò il senso della sua azione, che era la semplice presa d’atto di quel che stava per accadere: «L’Italia, con la fine della Guerra Fredda – disse – ha perso il suo potere di ricatto sugli americani e gli altri alleati. Non contiamo più niente e coloro che ci hanno dovuto sopportare con tutti i nostri tradimenti, ricatti, ruberie e arroganze, stanno per presentarci il conto e sarà salatissimo. Sto cercando di fare capire ai democristiani e ai comunisti (che considerava come i carabinieri, dei suoi parenti, vista la cuginanza con Enrico Berlinguer il quale gli rispondeva che «con i parenti si mangia l’agnello a Pasqua» e lo mise in stato d’accusa) che nel nuovo mondo tutte le regole sono cambiate ed è mio compito traghettare l’Italia nella nuova realtà storica». Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Ma la Dc di Ciriaco De Mita, e non solo, non aveva alcuna intenzione di farsi rieducare da Cossiga, il quale vantava – con parecchia millanteria – una frequentazione nelle altissime sfere dell’intelligence mondiale delle segrete ruote che governavano il pianeta. Aveva un caratteraccio, questo è indubbio. Era certamente un po’ paranoico (la paranoia consiste nel vedere complotti e veleni, ma è una sindrome utile se si vive in un’epoca di complotti e veleni), era soggetto ad accessi di collera che erano però più di natura sarda che psichiatrica: il codice cavalleresco dei gentiluomini sardi impone delle furie di facciata che soltanto i veri sardi possono capire. Ed è una furia fredda, che non fa salire la pressione, anche se siamo nell’antropologia e nel nazionalismo sardo, perché Cossiga era anche un nazionalista sardo più o meno come lo sono i corsi. Fu così che le mie interviste con il presidente della Repubblica, da formali e in pompa magna si fecero frequenti e convulse. Decise di darmi del tu e di chiamarmi “A Guzzà”. Recalcitravo alla richiesta di fare altrettanto ma non fu contento finché non passai a un improbabile “A Francé”. Si palpava benissimo il desiderio della nomenklatura italiana di levarselo dalle scatole e rimuoverlo con acrobazie procedurali accompagnate da comitati di psichiatri che avrebbero dovuto proclamare un reggente finché il Parlamento non avesse eletto un successore. Per fortuna non ero solo nel difendere il presidente che aveva previsto Mani Pulite e l’assalto alla cittadella e che senza pensarci due volte, aveva mandato una legione di carabinieri in assetto anti-sommossa a Palazzo dei Marescialli per mandare un segnale inequivocabile al Consiglio superiore della Magistratura riunito nel Palazzo dei Marescialli, di cui lei era il presidente, anche se nel Csm chi governa è il vice presidente, ai tempi Giovanni Galloni. Dovetti a un certo punto scoraggiarlo dalla sua pretesa di affidare a me tutte le sue punzecchiature contro gli altri politici. Ma era un’impresa quasi disperata. Un giorno pretese di farmi scrivere che Achille Occhetto era «Uno zombie coi baffi». E io mi rifiutai: «Non è da te, presidente, io non lo scrivo». Poco male: il giorno dopo «Occhetto è uno zombi coi baffi» era un titolo de il Messaggero. Mi aveva bypassato senza tragedie e meglio così. Quando si dimise mi volle al Quirinale fra le sue scartoffie, consegnò la bandiera di combattimento al bambino che gli aveva risposto al telefono raccomandandogli di custodirla per la generazione dei futuri patrioti e mi chiese di accompagnarlo in esilio in Irlanda. Mi mandò al 33mo Stormo di Ciampino dove lo attendeva il jet presidenziale e gli fui accanto mentre il pilota metteva la prua sull’Irlanda. Parlammo poco e lui si lasciò vincere da una lacrima o due. Io gli detti una goffa pacca sulla spalla. Poi andammo in taxi fino al monastero dove lo attendevano e dove il bibliotecario era sulla soglia a braccia aperte per discutere con lui i libri dei pensatori cattolici irlandesi. La porta si richiuse e finì così la mia straordinaria avventura giornalistica con un presidente molto speciale che poi ho sentito solo poche volte per telefono e che visitai una sola volta nella sua casa al quartiere Prati, ormai abbandonato da tutti.
Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 29 Novembre 2019. “Ma certo che mandai i carabinieri!”. Mi disse Cossiga quando diventammo amici: “Mandai un generale di brigata con un reparto antisommossa, pronti a irrompere nel palazzo dei Marescialli”. Oggi fa impressione riascoltare nelle registrazioni la voce del “matto” Cossiga quando attaccava lo strapotere di alcuni magistrati e lo faceva spavaldamente come un Cyrano de Bergerac, odiato da tutti nel 1985 – trentaquattro anni fa – quando invece aveva ragione. Il Consiglio superiore della magistratura si è recentemente infangato con l’inchiesta di Perugia che ci ha fatto assistere in diretta al mercato delle procure, alla vendita del diritto.Tutto già parte di un vizio d’origine contro cui oggi pochi hanno il fegato di combattere. Cossiga mi aveva invitato a fare colazione al Quirinale. C’era il meglio del giornalismo di sinistra a inzuppare il cornetto nel cappuccino di quelle stanze mentre Cossiga raccontava. A quei tempi era ministro dell’interno Oscar Luigi Scalfaro, che sarebbe diventato il suo successore e il suo principale nemico. Ricorderemo ancora Scalfaro quando, assestando il colpo dell’asino a Cossiga dimissionario, urlò stentoreamente in aula “Viva il Parlamento!” come se lui fosse stato il Parlamento. Allora era ministro degli interni e quando Cossiga decise di far intendere chi comandasse sugli abitanti del Palazzo dei Marescialli (di stile fascista, curiosamente decorato con teste di Mussolini con l’elmetto), il ministro del Viminale disse di sì. Dissero di sì anche i comunisti che poi si scatenarono contro Cossiga. Erano con lui il giudice costituzionale Malacugini e il senatore Perna, capo del gruppo comunista al Senato. I membri del Csm allora pretendevano di comandare come terza camera dello Stato, in barba della Costituzione. Volevano colpire il presidente del Consiglio Bettino Craxi che aveva polemizzato sulle inchieste seguite all’assassinio del giornalista socialista del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso dalla Brigate Rosse, che Craxi considerò sempre interne ai salotti milanesi di sinistra. Il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati, i quali godono di una autonomia prossima all’extraterritorialità, salvo poi trasformare tanta autonomia in un mercato di interferenze e abusi talmente terrestri da produrre fatti come quelli messi a nudo dall’inchiesta di Perugia che hanno inferto alle istituzioni delle ferite probabilmente non rimarginabili. L’organo di autogoverno fu concepito come massimo baluardo del servizio pubblico della giustizia- e non come privilegio degli operatori togati della giustizia – allo scopo di garantire ai cittadini un servizio di assoluta indipendenza da poteri esterni a cominciare da quelli politici. Il presidente del Csm è il Capo dello Stato, ma è una carica solo formale perché chi comanda è il vicepresidente del CSM. Cossiga ingaggiò nel 1985 un braccio di ferro istituzionale in cui, malgrado i suoi colpi, alla fine fu lui ad essere disarcionato. La sua battaglia contro il vicepresidente Giovanni Galloni (un radicale rappresentante storico della sinistra cattolica che detestava apertamente tutto ciò che Cossiga rappresentava) espose Cossiga ad un vero massacro mediatico. Le camionette dei carabinieri erano a piazza Indipendenza. I carabinieri in assetto antisommossa, con gli elmetti calati in testa, pronti a sfondare il portone se solo il presidente Cossiga, in quanto Capo dello Stato, lo avesse ordinato. La carica non avvenne, il portone restò integro, ma lo schieramento delle forze che rappresentavano lo Stato – i carabinieri in questo caso – contro un ridotto nelle mani di chi si riteneva di essere separato dallo Stato, in quanto organo separato dello Stato, rappresentò uno schieramento concreto, militare, non diverso – per qualità istituzionale – a quello che lo Stato rinunciò ad opporre nel 1922 alla marcia su Roma di Mussolini. Non che esista una comparazione tra la marcia su Roma e il conflitto affrontato da Cossiga, ma restano i comuni termini di una difesa anche militare contro l’eversione. Cossiga individuò nell’arroganza di un ristretto gruppo di magistrati la formazione di un potere insurrezionale “ultroneo” rispetto a quelli previsti dalla Costituzione e dunque un nucleo eversivo. Il punto allora era politico: il Csm usurpava il diritto – non contemplato tra le sue funzioni – di muovere critica o censura alle parole o alle azioni del presidente del Consiglio dei ministri. Cossiga sospese la delega a Galloni, cioè lo degradò sul campo strappandogli le spalline, sia pure temporaneamente. E dopo aver disarmato quello che riteneva il leader di una corrente eversiva, impose che si prendesse atto di un punto fermo: l’organo di autogoverno dei magistrati è soltanto l’organo di autogoverno dei magistrati e mai, in alcun modo, un potere dello Stato. Come invece pretendevano allora le correnti politiche dell’Anm che Cossiga accusava di usurpazione contro lo Stato.
Il libro di Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni. Trovare Moro si poteva, ma nessuno lo cercò. Fabrizio Cicchitto de Il Riformista il— 29 Novembre 2019. La seconda edizione del libro di Maria Antonietta Calabrò, nota giornalista, e di Giuseppe Fioroni, presidente della seconda commissione Moro Il caso non è chiuso. La verità non detta aggiunge altri interrogativi assai inquietanti ad una vicenda, quella del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, che ha segnato l’inizio della crisi della Dc e della Prima Repubblica. «Il mio sangue ricadrà su di voi» scrisse Moro in una delle sue ultime lettere rivolgendosi al gruppo dirigente della Dc. Partiamo, però, dalle origini della vicenda. Subito dopo il rapimento fu netta la sensazione che il gruppo dirigente del Pci, guidato con mano ferrea da Enrico Berlinguer, riteneva che ormai Moro era un uomo morto. Di rimbalzo, del tutto simile era l’orientamento del gruppo dirigente della Dc (il presidente del Consiglio Andreotti, il ministro degli Interni Cossiga, il segretario formale della Dc Zaccagnini, il segretario sostanziale l’onorevole Galloni). Berlinguer riteneva che le Brigate Rosse con molteplici legami internazionali, dai palestinesi ai cecoslovacchi, si muovevano non solo contro il compromesso storico, ma contro la strategia di fondo del Pci. Di conseguenza, non bisognava in alcun modo trattare con essi dando la sensazione di un qualche riconoscimento del “partito armato”. Berlinguer notificò subito alla Dc che il Pci avrebbe fatto cadere il governo al primo accenno di trattativa. Andreotti, Cossiga, Zaccagnini, Galloni, Gava per i dorotei, si uniformarono a questa scelta per due ragioni: salvare il governo e mantenere in piedi la politica di unità nazionale. Tutto ciò però si tradusse in modo paradossale per ciò che riguardava le indagini e la ricerca del luogo dove Moro era tenuto prigioniero, cioè nell’inerzia. In effetti, né fu fatta la trattativa né furono sviluppate indagini serie e reali, specie dopo le prime e polemiche lettere di Moro. Poi, sui tempi lunghi, dopo quasi due mesi, le Br dovevano chiudere una partita che durava già da troppo e l’unico modo era quello di consegnare Moro cadavere anche perché le Br non gradivano esser messe di fronte a mosse politiche che la complicavano sul piano politico e mediatico. Non a caso fecero trovare il cadavere di Moro a via Caetani quando seppero che alla direzione della Dc Fanfani avrebbe “aperto” sulla trattativa. Ben diversa sarebbe stata la partita se le Br si fossero trovate subito di fronte ad un’iniziativa dello Stato sulla trattativa. Ma lo Stato non agiva in modo incisivo e aggressivo neanche sul terreno delle indagini. Anzi da quel punto di vista avvennero cose incredibili: clamoroso fu l’errore commesso quando Prodi diede l’indicazione di Via Gradoli. Nessuno, anche a distanza di tempo, ha chiesto a Prodi di rivelare quale fu la fonte autentica che gli fece quella rivelazione perché non è credibile la storia della seduta spiritica. Comunque sia se le forze dell’ordine si fossero recate in via Gradoli, il caso Moro avrebbe avuto una svolta dopo pochi giorni: a via Gradoli c’era il covo segreto di Moretti e della Balzarani. Invece le forze dell’ordine ai recarono a Gradoli, un paese del viterbese. Ora, c’è un limite al grottesco anche perché esiste lo stradario. Evidentemente non lo si voleva trovare e di fronte ad una “mossa” esterna imprevista quale fu la rivelazione di Prodi gli apparati e chi li guidava non esitarono ad andare incontro ad una figura ridicola per altro non sottolineata da una stampa succube di un potere che andava dalla Dc al Pci. La seconda vicenda inesplicabile riguardò quello che accadde quando Craxi e il Psi si dichiararono a favore della trattativa. Non è questa l’occasione per riaprire il dibattito politico su quella iniziativa ma invece è interessante ricostruire ciò che accadde e ciò che non accadde. Bettino Craxi incaricò Claudio Signorile e Antonio Landolfi di prendere tutti i contatti possibili per accertare se le Br erano disponibili o meno ad una trattativa e a quali condizioni. Signorile e Landolfi fecero la cosa più ovvia di questo mondo: presero contatto con Lanfranco Pace e Franco Piperno, due personalità che provenivano da Potere Operaio e che erano borderline con il mondo dell’estremismo armato. Fecero subito centro: Pace e Piperno stabilirono il contatto con Valerio Morucci e la Faranda che erano i postini delle Br. Orbene, dei servizi degni di questo nome, avrebbero dovuto seguire da tempo, dall’inizio della vicenda, Pace e Piperno, e a maggior ragione avrebbero dovuto farlo da quando essi furono interpellati da Landolfi e Signorile che tenevano informato il governo di tutti i loro passi. Terza stranezza: quando Morucci e la Faranda ruppero con le Br perché erano contrari all’assassinio di Moro essi si rifugiarono a casa di Giuliana Conforto che era la figlia del decano degli agenti del Kgb in Italia, Giorgio Conforto che fu presente anche al momento del loro arresto, ma che fu subito “dimenticato”? Altra domanda: perché Giorgio Conforto si fece trovare lì, dove erano anche la scorpion e altre armi? Detto tutto ciò, per mettere ulteriormente in chiaro quello che avvenne nella realtà, bisogna ricordare che invece, in occasione del rapimento del generale Dozier da parte delle Br, gli apparati dello Stato (polizia carabinieri servizi) divennero dei fulmini di guerra. Anche se ciò è stato sempre negato allora fu usata anche la tortura: i brigatisti catturati dissero subito dove era Dozier, i Nocs intervennero e, senza spargimento di sangue, liberarono Dozier e arrestarono i rapitori: una operazione da manuale. Calabrò e Fioroni mettono in evidenza il retroterra di ciò che abbiamo descritto nelle sue manifestazioni più visibili. Questo retroterra era il cosiddetto lodo Moro che, a onor del vero, avrebbe dovuto essere chiamato “lodo Moro e Andreotti”. Dopo che l’Italia era stata colpita alcune volte da attentati, gli apparati italiani, con un dovuto consenso politico (appunto “lodo Moro e Andreotti”) fecero una intesa con le organizzazioni palestinesi (sia l’Olp di Yasser Arafat, sia il Fplp di George Habash) secondo la quale essi avevano libertà di transito (di uomini e armi) sul nostro territorio, ma non avrebbero più fatto attentati. Si è trattata di una sorta di patto con il Diavolo che era gestito dal colonnello Giovannone (il cui intervento non a caso fu invocato da Aldo Moro in una sua lettera). Le Br, però, avevano diretti rapporti con queste organizzazioni che le rifornivano di armi e, stando ad una battuta di Berlinguer a Sciascia, poi da lui smentita, anche coi servizi cecoslovacchi. Di conseguenza il lodo Moro-Andreotti evitò che i palestinesi continuassero a fare attentati sul nostro territorio ma non evitò che essi rifornissero di armi anche le Br che per parte loro sparavano a uomini politici, a magistrati, a esponenti delle forze dell’ordine, a imprenditori, a professori universitari. Cioè, indirettamente, per un tragico paradosso “il lodo Moro” consenti ai brigatisti di attrezzarsi per determinare il “caso Moro”. Le cose non si fermano qui. Stando a quello che è riportato nel libro di Calabrò e di Fioroni il giudice Armati, in una testimonianza resa davanti alla Commissione, ritenne assai probabile che il colonnello Giovannone rivelò a George Habash che i giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni si stavano recando a Beirut (1980) per indagare sul traffico d’armi fra l’Italia e il Libano. Da allora De Palo e Toni sono scomparsi. Secondo Armati, Giovannone avvertì Habash che la De Palo e Toni andavano a Beirut a rompere le scatole e Habash ne trasse le conseguenze. D’altra parte ricordiamo le proteste e le minacce dei dirigenti palestinesi quando per caso Daniele Pifano e alcuni militanti del Fplp furono arrestati perché su un’auto trasportavano addirittura un missile. Giovannone paventò ritorsioni. Non parliamo poi di tutti gli interrogativi ancora aperti sulla strage di Bologna che potrebbe essere stata determinata dall’esplosione fortuita di ordigni che venivano trasportati in una valigia avendo altra destinazione. Tanti sono gli interrogativi ancora aperti, tra cui quello assolutamente banale sul perché Moro non avesse una macchina blindata: non dimentichiamo che in un primo momento i brigatisti avevano scelto Andreotti come obiettivo, ma poi avevano desistito perché troppo protetto. Altro interrogativo è costituito dal fatto che dopo l’uccisione di Moro e le polemiche sviluppate dalla famiglia Moro. Ci fu una sorta di anticipazione di Mani pulite e Sereno Freato, l’uomo che si occupava dei finanziamenti della corrente morotea, fu colpito sul piano giudiziario e demonizzato. Lo stesso che avvenne a Baffi e a Sarcinelli quando non ottemperarono alle richieste di Andreotti e di Evangelisti per aiutare Sindona. Da tutto ciò emerge che la storia italiana dagli anni Cinquanta in poi è piena di interrogativi ai quali è difficile dare risposta perché quello che è avvenuto “sotto il tavolo” è stato talora più decisivo di quanto non è avvenuto “sopra il tavolo”, cioè alla luce del sole. Oggi solo gli scemi possono pensare che le cose vanno diversamente, solo che c’è una ulteriore modernizzazione tecnologica grazie all’uso del trojan e all’uso politico di internet attraverso il quale Putin sta smontando le democrazie occidentali.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Essere Giulio Andreotti: il Divo Re.
SALVATORE DAMA per Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Chi è Giulio Andreotti? Se lo chiedi all'adolescente medio, probabilmente risponderà roteando gli occhi e prendendosi un tempo x per cercare su Google. I più informati, invece, condizionati da certa narrativa e filmografia, lo accosteranno ai processi per mafia che lo hanno visto coinvolto nell'ultima parte della sua vita. In realtà Andreotti è stato (anche) altro. Presidente del Consiglio per sette volte e ministro per trentadue. Un record ineguagliato. E, forse, ineguagliabile. Nel tentativo di storicizzare la figura politica del Divo Giulio, i figli Serena e Stefano hanno autorizzato e curato la pubblicazione dei Diari segreti paterni, compresi tra il 1979 e il 1989 (Edizioni Solferino, 19 euro). Il titolo è un filo enfatico. I "segreti" di Andreotti - ammesso ve ne siano - riposano con lui dal 2013, anno della dipartita. I "Diari" sono appunti, anche gustosi per nostalgici della Prima Repubblica, ma non sono destinati a cambiare la lettura della storia. Per come ci è stata raccontata. Niente giudizi sprezzanti, niente narcisismo, niente verità svelate o esoterismi. Sono frasi. Messe giù su carta per fare memoria all'autore di fatti e personaggi. Ma sempre in stile andreottiano. C'è un velo di ironia, però nulla di pruriginoso nelle descrizioni. Soprattutto appartengono a un'altra epoca. Analogica. Senza pc, senza telefonini, senza Whatsapp, senza note vocali e senza tutto l'ambaradan che abbiamo oggi per tenere archivio dei nostri pensieri. Meglio, peggio? Chi lo sa.
APPARATO DI STATO. Ripercorrendo quella storia, si ha la sensazione di leggere delle cronache marziane se rapportate all'oggi. La Democrazia cristiana, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, era di fatto un apparato dello Stato. Qualcosa di inusitato rispetto alla volatilità dei partiti contemporanei. E l'epicentro della Dc, a prescindere da chi si alternava alla segreteria, era Andreotti. Dal suo studio passavano tutti. Da Gianni Agnelli all'ultimo questuante ciociaro del suo collegio elettorale. La narrazione dei Diari si sofferma soprattutto sulle relazioni internazionali andreottiane. Uno, perché, in quegli anni, il Divo fu prima presidente della Commissione Esteri di Montecitorio e poi titolare della Farnesina; Due, perché - comprensibilmente - gli eredi hanno voluto puntare sulla caratura transnazionale di Andreotti, finita tra parentesi, nei decessi successivi, a causa delle vicende giudiziarie. Andreotti - spiegano i figli - «aveva preso l'abitudine a prendere appunti personali già nel 1944 su consiglio di Leo Longanesi». Questo per tenere memoria delle proprie riflessioni a distanza di tempo, quando gli capitava di incontrare le stesse persone o di rivivere le stesse situazioni. Emergono i rapporti stretti con la curia romana, di cui Giulio era la quinta colonna al di qua del Tevere. Sono annotate le visite continue di cardinali a casa. Al riguardo, sono interessanti due aneddoti. Quando Andreotti si adopera per evitare che escano sulla stampa le foto di Giovanni Paolo II in piscina. E quando il politico dc si preoccupa della sicurezza del Pontefice, condividendo sue informazioni riservate su un possibile attentato dei terroristi armeni. È il settembre 1980. Di lì a poco l'aggressione al Santo Padre ci fu davvero, nel maggio del 1981, ma a opera di Ali Agca, un turco. Andreotti, nei suoi appunti, si lamenta di quanto la politica italiana fosse concentrata sul proprio ombelico. Sulle faccende domestiche. A un ricevimento con il premier greco Karamanlis, ricorda nel diario, nessuno sembrava interessato all'ospite d'onore. Si ritrovarono tutti attorno al Divo Giulio per parlare di affari interni. Emerge una passione ossessiva per la politica (e per il potere). La cura del collegio elettorale. Andreotti passava da un vertice internazionale a una riunione con gli elettori di Frosinone. Così, senza fare una piega. Giulio, in quegli anni, è il pivot della politica. È un riferimento, a prescindere dal ruolo ricoperto. Tutti lo cercano. Uomini di partito, funzionari, esponenti della società e del mondo economico, cardinali. Il Divo è un passe-partout per chiunque voglia interagire con la Dc. E dunque con il potere. Andreotti annota le visite regolari che riceveva da Gianni Agnelli; le relazioni continue con Berlinguer e il Partito comunista. Il cui tramite spesso è il catto-comunista Adriano Ossicini. Segue con interesse morboso i rapporti tra Pci e Mosca, parla con gli ambasciatori sovietici a Roma e incontra dirigenti dell'URSS. Nota subito con interesse l'ascesa di Gorbaciov. Andreotti è inoltre il tramite dei messaggi che gli americani vogliono recapitare al mondo arabo. Qua e là si trova anche un po' di aneddotica divertente. Il Capo dello Stato Sandro Pertini, ad esempio, che definisce Fanfani «il sempre più piccolo». L'ira verso il Messaggero che attribuisce ad Andreotti una villa a Gaeta. Il pregiudizio verso gli avellinesi come De Mita («Se dai loro un dito, si prendono tutto»), l'incontro con Beppe Grillo per il Telegatto e un pranzo da Gianni Letta finito in tragedia: «Un crampo allo stomaco mi obbliga a chiamare il mio medico curante».
Dietro le quinte di Andreotti. Note a caldo e indizi di cambiamenti sociali. Escono il 27 agosto per Solferino «I diari segreti» del politico democristiano, curati dai figli Serena e Stefano. Massimo Franco il 26 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Pechino, marzo 1988. Giulio Andreotti annota: «Al ricevimento all’Ambasciata d’Italia il vescovo di Pechino mi dice: “Se ha modo di riferire al Papa personalmente lo faccia; è maturo il tempo per un contatto con il governo, che preluda ad un’intesa e poi ad un Concordato. Si tratti riservatamente...”». L’alto prelato è un esponente della «Chiesa patriottica», legata al regime comunista e non riconosciuta dalla Santa Sede. Ma il messaggio consegnato all’allora ministro degli Esteri italiano non è caduto nel vuoto. Trent’anni dopo, nel settembre del 2018, Vaticano e Cina hanno stretto un accordo storico quanto misterioso, perché i contenuti sono rimasti sconosciuti, che sarà rinnovato nelle prossime settimane su uno sfondo di grandi tensioni. Difficile non scorgere in quell’episodio del 1988 uno dei semi con i quali è stata nutrita nell’ombra la mediazione finale tra Papa Francesco e il presidente Xi Jinping; e sottovalutare gli appunti privati di Andreotti: un lungo filo di episodi «minori» che evocano una ragnatela di rapporti a ogni livello, di impressioni, di dinamiche che riemergono come preziose pietre grezze della storia.
«I diari segreti» di Giulio Andreotti sono curati dai figli Serena e Stefano ed escono il 27 agosto per Solferino (pp. 683, euro 19): l’introduzione è di Andrea Riccardi.
Coglie nel segno lo storico Andrea Riccardi quando nell’introduzione sottolinea che I diari segreti testimoniano soprattutto il «segreto» dell’azione politica di Andreotti: «Un’immensa tessitura di relazioni nella politica italiana, a Roma, e sullo scenario internazionale…», col secondo largamente prevalente. E pensare che non erano destinati alla pubblicazione. Dopo la sua morte nel 2013, i quattro figli li avevano stipati in uno sgabuzzino dell’appartamento in corso Vittorio Emanuele. I due che si dedicano a riordinare gli archivi, Stefano e Serena, per mesi non li hanno neanche aperti. A muovere la loro curiosità è stata la piscina di Castelgandolfo nella quale Giovanni Paolo II fu fotografato nel 1980. Il Vaticano chiese ad Andreotti se poteva bloccare la pubblicazione di istantanee, considerate «scandalose», di un papa in costume da bagno. E Umberto Ortolani, esponente della Loggia P2 di Licio Gelli, anni dopo attribuì il merito della mediazione al capo massone implicato in alcune delle trame italiane più sporche: avrebbe portato lui le foto a Andreotti, che le aveva consegnate al pontefice. «Tirammo fuori, per nostra curiosità — raccontano Stefano e Serena Andreotti nella Nota dei curatori all’inizio del volume — quanto vi era scritto sulla vicenda delle fotografie scattate a Giovanni Paolo II nella piscina di Castelgandolfo, per la quale era stata data, sulla base di testimonianze di allora, probabilmente interessate, una ricostruzione ben diversa dall’andamento dei fatti e dell’apporto di nostro padre». I diari segreti raccontano in dettaglio quel capitolo oscuro, confermando Andreotti come crocevia delle mediazioni più riservate e controverse del Vaticano. Tra le carte spunta perfino un appunto sui voti ricevuti da ogni cardinale nel Conclave del 1978 che aveva eletto Karol Wojtyla. Viene restituita la complessità di un politico capace di attraversare con lo stesso passo felpato corti pontificie, congressi democristiani, cancellerie occidentali, dittature di ogni latitudine e ambienti torbidi. Episodi del genere se ne incrociano a decine, nel volume in uscita domani per Solferino, e che copre il decennio dall’agosto del 1979, quando finì il quinto governo Andreotti, quello col Pci nella maggioranza, fino al 22 luglio del 1989, esordio del suo sesto esecutivo. È solo un frammento, per quanto corposo, della sterminata ragnatela andreottiana. L’abitudine a prendere appunti cominciò nel 1944, «su consiglio di Leo Longanesi», ricordano i curatori. «Il motivo principale era quello di potere, a distanza anche di notevole tempo, rileggere gli appunti registrati a caldo, che considerava utilissimi al di là dei documenti ufficiali…». I diari, in gran parte tuttora inediti, finiscono nel 2009. Ma non bisogna pensare a un materiale ordinato, perché riflettono un caos metodico. Oltre a una calligrafia minuta e sempre più illeggibile con l’età, Andreotti aggiungeva note a mano, inseriva lettere e documenti. Insomma, decifrare quegli scritti è stata una grossa fatica, per i figli. Ogni anno i fogli finivano in un raccoglitore con la dicitura «diario». E in una delle lettere post mortem ritrovate in un cassetto di casa Andreotti, l’ex premier dava istruzioni per evitare che la pubblicazione de I diari potesse nuocere a qualcuno. Colpisce la conferma di un rapporto con la moglie Livia profondo, complice, viene da dire affettuoso, aggettivo che pure si attaglia poco a un «animale» a sangue freddo come Andreotti. E diventa ancora più stupefacente la sua capacità di proteggere la sfera familiare da qualunque intrusione. Ogni riga si sviluppa sempre sul crinale di una scrittura controllata, minimalista, scevra da qualsiasi enfasi. Ci sono solo fatti, impressioni, brevi commenti venati al massimo da una punta di ironia. «L’uso dell’archivio in politica — osserva Riccardi — ricorda il metodo di lavoro della Curia o della Segreteria di Stato vaticana». I diari si rivelano strumenti di un professionista della memoria scritta, al servizio di quell’attività di governo e di potere che Andreotti non ha mai interrotto. Da ministro, da premier, da semplice parlamentare, è stato una sorta di ambasciatore permanente dell’Italia e della Santa Sede: alla frontiera tra Occidente e comunismo, e nel Terzo Mondo. Ma era ascoltato, e usato, perché manteneva sempre un ancoraggio indiscusso alle alleanze europee e atlantiche. Almeno fino a quando c’è stata la Guerra fredda, quell’aderenza è stata una bussola precisa per guidare il protagonismo segreto e spregiudicato di Andreotti. Poi le coordinate sono cambiate. I diari del decennio 1979-1989 si fermano proprio alla soglia di quel cambiamento epocale. Rimane un interrogativo: queste memorie svelano tutto di lui? Viene naturale ricordare quanto sosteneva lo stesso Andreotti: «Chi non vuole fare sapere una cosa, in fondo non deve confessarla neanche a sé stesso». E tanto meno scriverla.
Giulio Andreotti, diari e segreti di Stato: la foto scandalosa e censurata di Papa Wojtyla in piscina. Salvatore Dama Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Chi è Giulio Andreotti? Se lo chiedi all'adolescente medio, probabilmente risponderà roteando gli occhi e prendendosi un tempo x per cercare su Google. I più informati, invece, condizionati da certa narrativa e filmografia, lo accosteranno ai processi per mafia che lo hanno visto coinvolto nell'ultima parte della sua vita. In realtà Andreotti è stato (anche) altro. Presidente del Consiglio per sette volte e ministro per trentadue. Un record ineguagliato. E, forse, ineguagliabile. Nel tentativo di storicizzare la figura politica del Divo Giulio, i figli Serena e Stefano hanno autorizzato e curato la pubblicazione dei Diari segreti paterni, compresi tra il 1979 e il 1989 (Edizioni Solferino, 19 euro). Il titolo è un filo enfatico. I "segreti" di Andreotti - ammesso ve ne siano - riposano con lui dal 2013, anno della dipartita. I "Diari" sono appunti, anche gustosi per nostalgici della Prima Repubblica, ma non sono destinati a cambiare la lettura della storia. Per come ci è stata raccontata. Niente giudizi sprezzanti, niente narcisismo, niente verità svelate o esoterismi. Sono frasi. Messe giù su carta per fare memoria all'autore di fatti e personaggi. Ma sempre in stile andreottiano. C'è un velo di ironia, però nulla di pruriginoso nelle descrizioni. Soprattutto appartengono a un'altra epoca. Analogica. Senza pc, senza telefonini, senza Whatsapp, senza note vocali e senza tutto l'ambaradan che abbiamo oggi per tenere archivio dei nostri pensieri. Meglio, peggio? Chi lo sa. Apparato di Stato - Ripercorrendo quella storia, si ha la sensazione di leggere delle cronache marziane se rapportate all'oggi. La Democrazia cristiana, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, era di fatto un apparato dello Stato. Qualcosa di inusitato rispetto alla volatilità dei partiti contemporanei. E l'epicentro della Dc, a prescindere da chi si alternava alla segreteria, era Andreotti. Dal suo studio passavano tutti. Da Gianni Agnelli all'ultimo questuante ciociaro del suo collegio elettorale. La narrazione dei Diari si sofferma soprattutto sulle relazioni internazionali andreottiane. Uno, perché, in quegli anni, il Divo fu prima presidente della Commissione Esteri di Montecitorio e poi titolare della Farnesina; Due, perché - comprensibilmente - gli eredi hanno voluto puntare sulla caratura transnazionale di Andreotti, finita tra parentesi, nei decessi successivi, a causa delle vicende giudiziarie. Andreotti - spiegano i figli - «aveva preso l'abitudine a prendere appunti personali già nel 1944 su consiglio di Leo Longanesi». Questo per tenere memoria delle proprie riflessioni a distanza di tempo, quando gli capitava di incontrare le stesse persone o di rivivere le stesse situazioni. Emergono i rapporti stretti con la curia romana, di cui Giulio era la quinta colonna al di qua del Tevere. Sono annotate le visite continue di cardinali a casa. Al riguardo, sono interessanti due aneddoti. Quando Andreotti si adopera per evitare che escano sulla stampa le foto di Giovanni Paolo II in piscina. E quando il politico dc si preoccupa della sicurezza del Pontefice, condividendo sue informazioni riservate su un possibile attentato dei terroristi armeni. È il settembre 1980. Di lì a poco l'aggressione al Santo Padre ci fu davvero, nel maggio del 1981, ma a opera di Ali Agca, un turco. Andreotti, nei suoi appunti, si lamenta di quanto la politica italiana fosse concentrata sul proprio ombelico. Sulle faccende domestiche. A un ricevimento con il premier greco Karamanlis, ricorda nel diario, nessuno sembrava interessato all'ospite d'onore. Si ritrovarono tutti attorno al Divo Giulio per parlare di affari interni. Emerge una passione ossessiva per la politica (e per il potere). La cura del collegio elettorale. Andreotti passava da un vertice internazionale a una riunione con gli elettori di Frosinone. Così, senza fare una piega. Giulio, in quegli anni, è il pivot della politica. È un riferimento, a prescindere dal ruolo ricoperto. Tutti lo cercano. Uomini di partito, funzionari, esponenti della società e del mondo economico, cardinali. Il Divo è un passe-partout per chiunque voglia interagire con la Dc. E dunque con il potere. Andreotti annota le visite regolari che riceveva da Gianni Agnelli; le relazioni continue con Berlinguer e il Partito comunista. Il cui tramite spesso è il catto-comunista Adriano Ossicini. Segue con interesse morboso i rapporti tra Pci e Mosca, parla con gli ambasciatori sovietici a Roma e incontra dirigenti dell'URSS. Nota subito con interesse l'ascesa di Gorbaciov. Andreotti è inoltre il tramite dei messaggi che gli americani vogliono recapitare al mondo arabo. Qua e là si trova anche un po' di aneddotica divertente. Il Capo dello Stato Sandro Pertini, ad esempio, che definisce Fanfani «il sempre più piccolo». L'ira verso il Messaggero che attribuisce ad Andreotti una villa a Gaeta. Il pregiudizio verso gli avellinesi come De Mita («Se dai loro un dito, si prendono tutto»), l'incontro con Beppe Grillo per il Telegatto e un pranzo da Gianni Letta finito in tragedia: «Un crampo allo stomaco mi obbliga a chiamare il mio medico curante»...
Luigi Mascheroni per il Giornale il 13 gennaio 2020. Bettino Craxi al cinema, regia: Gianni Amelio. E Giulio Andreotti e il cinema, Deus ex machina: Tatti Sanguineti. La rivincita della Prima Repubblica sul grande schermo? Sul piccolo, Sky Arte, martedì 14 gennaio sera, in un' imperdibile maratona storico-politico-cinefila, andranno in onda, uno dopo l' altro, due film diretti da Tatti Sanguineti - Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema - frutto della più lunga e minuziosa intervista di sempre cui lo statista democristiano si sottopose fra il 2003 e il 2005, rispondendo alle domande dell' incontentabile e curiosissimo critico e documentarista («Alla fine mi sono ritrovato con 50 ore di girato», dice Tatti) alla ricerca di racconti, aneddoti, rivelazioni e retroscena per ricostruire, con un pugno di fotogrammi inediti, un pezzo di storia del Paese. L' opera è unica, ma in due parti. Una racconta l' Andreotti giovane, che imparò ad amare e a usare politicamente il cinema. La seconda l' Andreotti che invecchia col cinema che non può più seguire come un tempo ma che ricorda film, registi, polemiche. Il cinema visto da vicino fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2014. La politica del cinema ebbe invece la sua prima al Festival del cinema ritrovato di Bologna nel 2015. Oggi - dopo dieci anni... - finalmente tutti, non solo cinéphiles e addetti ai lavori, possono vederli, insieme. E insieme i due film-documentario narrano (fedelmente, appunti e ricordi del Presidente alla mano) di come un giovanissimo Andreotti, ragazzo povero di campagna in un decennio, tra gli anni Venti e Trenta, in cui il cinema diventa adulto, sopravvive alle dittature e vive trasformazioni epocali - il sonoro, le grandi produzioni americane, l' affermarsi dei generi, dal western al musical, il divismo - scopre oscenità e meraviglie (quando Andreotti - il Mefistofele, il Divo - dice che vedendo a tredici anni Dr. Jekyll e Mr. Hyde rimase «incantato», c' è da credergli). E poi di come Andreotti cresce mentre il cinema fiorisce, e ne coglie, politicamente, il frutto. Una carriera fabbricata dalla Fuci e da Giovanni Battista Montini, futuro Papa, e un incarico di segretario factotum di Alcide De Gasperi, Andreotti è destinato al cinema. Nel giugno del 1947 è nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo. Poltrona - nel Palazzo e nella sua saletta privata - che terrà per sei anni e quattro governi centristi, fino al '53. E nel '56 è il politico con il maggior numero di preferenze del Paese. Aveva capito che il cinema può formare una nazione, ma è (anche) un enorme serbatoio di voti. Oltre a una insostituibile fonte di piacere personale (le domeniche pomeriggio passate a vedere con pochi amici, e la moglie, i film più belli tra quelli che, per tutta la durata del suo incarico, deve visionare come Commissione censura). Andreotti visionò, vistò, censurò. Ma soprattutto, di fatto, salvò l' industria cinematografica nazionale. A conflitto appena finito capisce tre cose. Che il cinema deve contribuire a chiudere la mattanza della guerra civile: e proibisce che i nuovi film siano ambientati durante il fascismo, per non gettare altra benzina sull' odio. Che il nostro cinema va aiutato economicamente: e costringe le grandi produzioni americane a reinvestire gli incassi nel Paese. E che bisogna salvaguardare il vero miracolo italiano - il genio di artisti imprevedibili e unici come Rossellini, De Sica e Visconti (a cui pure era lontanissimo) - dall' egemonia culturale comunista da una parte e dall' invasione produttiva americana dall' altra. Lo fece. Poi, tutto il resto. Che è storia. Andreotti salva l' Istituto Luce e il suo archivio. Favorisce grazie a sgravi fiscali la rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Fa riprendere l' attività negli studi di Cinecittà (il primo film girato è Cuore di Duilio Coletti, da De Amicis, con Vittorio De Sica). Nel '47 partecipa alla sua prima Mostra del Cinema di Venezia, che si tiene in città, riportandola l' anno dopo al Lido. Nel '49 emana la Legge di sostegno sul cinema, che porta il suo nome. Attraverso l' imposizione di una tassa al momento del doppiaggio, in gran parte di film americani, la cui importazione era stata vietata nel '38, consente l' incremento di risorse economiche dall' estero. Compra 4mila proiettori 16 millimetri e apre altrettante sale parrocchiali, il 30% del totale nazionale. Alla cessazione dell' incarico, nel 1953, Andreotti però continua a frequentare il mondo del cinema, e resta amico di produttori, registi, attori. Dei quali gli restano centinai di ricordi e giudizi (e Tatti Sanguinetti è un maestro a tiraglieli fuori tutti). Poi al suo posto capita Oscar Luigi Scalfaro, meno sognatore e più bigotto («Non capiva molto di cinema», dice Tatti, «lui è quello che schiaffeggiava le signore dalle scollature importanti»), e il rapporto tra politica e cinema cambia per sempre.
E oggi? «Oggi - dice Tatti Sanguineti - le tre maggiori Film Commision, Toscana, Lazio e Puglia, hanno polverizzato il potere decisionale, mentre il cinema ha bisogno di un po' di cervello centrale. Non dev' essere abbandonato ai cacicchi locali». Ma ai politici il cinema italiano interessa?
«Non so quanto». Tatti ha appena visto Pinocchio («Ma non ne sentivo il bisogno») e Tolo Tolo («Mi ha depresso»). Ed è convinto che il cinema italiano sia ormai irrilevante. «Oggi si fanno 400 film all' anno, più o meno come ai tempi di Sergio Leone. Ma allora si esportavano ovunque: da Macao a Nairobi, dall' Europa all' America latina. Il nostro cinema popolare lo vedevano e lo volevano tutti. Oggi la più marginale delle pellicole sudcoreane o israeliane è più importante del nostro film più celebrato». Forse Tatti esagera. Ma forse Andreotti sarebbe d' accordo con lui.
Luca Pallanch per La Verità il 13 gennaio 2020. Tatti Sanguineti, geniale incursore della tv e della radio, tra il 2003 e il 2004 realizzò un ciclo di interviste di cinquanta ore con Giulio Andreotti per rievocare la sua militanza nel cinema italiano come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, dal 1947 al 1953. Il 14 gennaio, a 101 anni dalla nascita del politico, Sky Arte manderà in onda un programma in due puntate (92' ciascuna), Il cinema visto da vicino e La politica del cinema, che contengono le parti più salienti di quelle interviste, in cui «il becchino del cinema italiano», come fu definito all' epoca, dispensa aneddoti, battute e confessioni inedite, sovvertendo con ironia i luoghi comuni attorno alla sua figura. Un programma che Andreotti non fece in tempo a vedere, malgrado sia morto a distanza di dieci anni dalla prima intervista. E che oggi vede finalmente la luce dopo anni di misterioso oblio.
Quando lo conobbe?
«Nel 1989 il mio maestro Alberto stava preparando il catalogo della retrospettiva sul neorealismo per il festival di Torino. Ci siamo accorti che da molti decenni Andreotti, che era stato il dominus del cinema italiano, non aveva più parlato. Gli abbiamo scritto chiedendogli la disponibilità a raccontare questa vicenda».
Vi rispose?
«Ci rispose con molta cortesia, ma la cosa non si concretizzò. Pubblicammo una lettera che ci inviò. Qualche anno dopo tornai alla carica, quando ormai Alberto se n' era andato. Dissi ad Andreotti che avrei voluto porgli delle domande su quel periodo. Lui mi rispose che l' idea gli piaceva e che nessuno si era preso la briga di intervistarlo al riguardo. Usò una metafora che aveva già utilizzato nel passato: figlio di un maestro elementare, si sentiva nel mondo del cinema come l' asino nella stanza dei suoni. È un modo di dire delle campagne, che vuol dire un incompetente nella stanza dove l' orchestra prova. Una frase felliniana».
Avevate accordi iniziali?
«Ci vedevamo il sabato mattina e mi affidai alla sua segretaria, Lina Vido, che prendeva tre autobus per andare in ufficio a piazza di San Lorenzo in Lucina. Una sola cosa non gli chiesi: di indossare un abito di scena. Sarebbe stato opportuno, per ragioni di montaggio, usare una mantellina, una giacca, una toga, ma io non ebbi il coraggio di chiederglielo. Qualcuno adesso sostiene che il fatto che sia vestito diversamente sia una scelta felice».
È curioso vedere Andreotti indossare una maglietta di un noto marchio di abbigliamento sportivo, non credo che si sia mai visto!
«Sembra un mannequin! Sfila con ogni abito addosso».
Ha avuto ritrosia a farsi riprendere dalle telecamere?
«Assolutamente no. Nessuna ritrosia né vanità».
Quanto durava una seduta?
«Le sedute duravano tra le due ore e le due ore e mezza e in tutto furono ventidue. Quando gli comunicai che avevamo finito, Andreotti mi disse che se ne dispiaceva molto e mi chiese se non potevo inventarmi qualche trucco per farla durare un po' di più perché aveva ricevuto un "grande balsamo". Una volta mi disse una frase che mi colpì molto: il giudice più severo se lo trovava in camera da letto. Era la moglie! La mia intervista era un' oasi felice, un momento di pace, di appagamento, di fuga. Nel 2007 facemmo una coda sulle vignette che lo demonizzavano. Alla fine gli chiesi di interpretare una sua caricatura: l' Andreotti censore, com' è stato consegnato alla vulgata ignorante della storia del cinema, l' Andreotti che scambia un centimetro di pelle delle natiche con una battuta contro il governo. Lui ebbe l' intelligenza, la spiritosità di accettare di incarnare questa lieve parodia di se stesso, come una sorte di censore a vita».
Ci sono temi che Andreotti non ha voluto affrontare?
«Nessuno. Ho passato un anno prima di fare questo ciclo di interviste, consultando un migliaio di documenti con il più formidabile archivista del cinema italiano, Pier Luigi Raffaelli. Tutto quello che si dice è documentato. La sola cosa non concordata accadde quando mi raccontò del suo primo viaggio in America, nel dopoguerra, in cui sconfinò senza passaporto in Canada per vedere le cascate del Niagara. Io gli avevo già preannunciato che avrei messo delle immagini del film Niagara di Henry Hathaway con Marilyn Monroe. Quando smetteva di parlare, era solito abbassare la testa come per scaricarsi e prepararsi per la successiva domanda, io in quell' occasione non staccai la telecamera e poi gli dissi: "Presidente, che giudizio si è fatto della morte di Marilyn Monroe?". Non era una domanda premeditata, mi è venuta spontanea sapendo che era un tema che lo aveva intrigato molto. Lui mi guardò per un attimo con uno sguardo severo di riprovazione, poi si chiuse un attimo in silenzio e replicò: "Marilyn Monroe... bè, diciamo che non è morta vecchia". Lo ringraziai e mi scusai, dicendogli che avrei voluto conservare questo scambio e lui mi dissi di sì. Ma in quei due-tre secondi mi fulminò!».
Sono passati 17 anni dalla prima intervista...
«Sapevo che mi occorreva del tempo, ma non avrei mai immaginato che le interviste sarebbero durate venti mesi e che la messa in onda avrebbe preso più di dieci anni dalla fine del montaggio. È stato proiettato una volta un episodio a Bologna, una volta un episodio alla Mostra di Venezia, ma non è mai stato visto tutto assieme, questa è la prima volta. Dal momento che il programma non andava mai in onda, nel 2012, due o tre settimane prima di morire, la signorina Vido mi telefonò e mi disse che, se l' intervista non andava in onda per un problema di soldi, si dichiarava disposta a consegnarmi tutti i suoi risparmi, "tanto a me di là non mi servono". Io le risposi: "Le fa onore questa offerta, ma non posso finire questo programma con i soldi suoi". Una delle due puntate è dedicata a Farassino, l' altra proprio a lei. Aveva intuito che qualche cosa non andava per il verso giusto. Lo aveva intuito anni prima anche Andreotti, il quale mi disse di andare a nome suo da Gianni Letta. Questi mi ricevette a Palazzo Chigi e mi accolse con una frase che so a memoria: "Ora che l' ho conosciuta di persona capisco perché il presidente Andreotti la tenga in tanta simpatia". Mi sarebbe piaciuto che Mediaset, per cui lavoravo, trovasse il coraggio di mandare in onda l' intervista, ma mi dissero che c' erano "difficoltà insormontabili". È chiaro che questo programma sta sulle scatole agli esperti di Andreotti: mi sono stupito che Massimo Franco o Marcello Sorgi, due dei massimi andreottologi, non abbiano chiesto di vederlo. Chi l' ha visto ha una reazione di stupore e di benevolenza. La cosa che impressiona è la sua totale disponibilità, la sua ironia, il suo rimpianto, la sua tenerezza verso se stesso giovane, lui che non è mai stato giovane».
Viene fuori una confidenza che pochi hanno avuto con lui e traspare un' umanità che oggi è difficile da ammettere. «Viene fuori un Andreotti simpatico: è il motivo per cui il programma non è andato in onda. Non si può dire che Andreotti fosse simpatico, non si può dire che fosse dotato di senso dell' umorismo, non si può dire che conosceva il cinema molto di più di Dario Franceschini o di Nicola Zingaretti o di Gigino Di Maio!».
Fa più comodo consegnare ai posteri l' immagine di Andreotti ne Il divo di Paolo Sorrentino.
«Certo, perché non è Andreotti, è Topo Gigio!».
I dieci anni di oblio sono dovuti alla scoperta di un Andreotti fuori dai canoni?
«Dal fatto che Andreotti resta simpatico. Chi vede questo programma non può non riconsiderare tutto quello che è stato il suo operato anche fuori dal cinema. La sua grande invenzione è stato di proibire film ambientati durante il Ventennio. Il solo girato nell' era Andreotti è Gli sbandati di Citto Maselli, che non a caso non vinse niente con il pretesto che Lucia Bosè era stata doppiata».
Emerge poi una passione sincera per il cinema.
«Andreotti soffriva molto di non poter più andare alle anteprime o alle proiezioni organizzate dal suo amico Italo Gemini nella saletta vicino a Montecitorio. Andreotti aveva amato molto il cinema, come tutta la generazione nata alla vigilia degli anni Venti, che ne aveva conosciuto la lussuria, la peccaminosità, e in adolescenza aveva assistito alla nascita del sonoro, quando il cinema era esploso con le gemme del paradiso terrestre. Quando chiesi a Rodolfo Sonego, il cervello di Sordi come l' ho definito nel mio libro su di lui, chi mi potesse spiegare quello che è successo nel cinema italiano negli anni Cinquanta, lui mi rispose: Andreotti. Il cervello più lucido, l' organizzatore più capace, il potere più assoluto e le idee così ferree. E altrettanto mi disse Dino Risi. Mi venne tardi l' idea, nel programma radiofonico Hollywood Party che ho condotto per anni, di far dialogare telefonicamente Risi e Andreotti, che non si erano mai conosciuti. Si fecero quelli che Andreotti chiamava i «salamelecchi», complimentandosi vicendevolmente».
Non ci aspetta che Risi, dopo aver preso in giro Andreotti definendolo «uno dei grandi italiani insieme a Leonardo da Vinci, Garibaldi e Federico Fellini», dimostri ammirazione sincera nei suoi confronti.
«Se rivedo l' intervista, mi dico: "Se ti portavi dietro Dino Risi". Un' ora di Risi con Andreotti vale più di cinquanta ore di Tatti Sanguineti!».
Contento del prodotto finale?
«Non lo so, non ho il coraggio di vederlo. So che abbiamo fatto il massimo, ma che non è bastato. Mentre Andreotti poteva desiderare di vedere quello che aveva fatto cinquant' anni prima, per me è un grande dolore. Ho sbagliato nel credere che se ero sopravvissuto a Walter Chiari, sul quale sto finendo un libro cominciato molti anni fa, sarei riuscito a sopravvivere ad Andreotti. Un barlume di hybris, di superbia contro gli dei. Ho buttato via la proposta di fare un libro su Andreotti perché voglio liberare la mia vita. Ho perso la motivazione. Voglio occuparmi di Lino Banfi, di Zalone, del nuovo cinema eritreo!».
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 17 gennaio 2020. Per anni, Giulio Andreotti è stato la «grande ossessione» di Tatti Sanguineti, così come in precedenza lo erano stati la tesi di laurea sul linguaggio del '68, il poderoso lavoro su Walter Chiari, la raccolta di manifesti di cinema, il rapporto con Piero Chiambretti, il libro su Rodolfo Sonego Ogni ossessione è per sua natura disordinata, spesso caotica, ma la magia dell' estremo la rende ricca di contenuti. Sanguineti freme continuamente per l' ansia di inseguire l' oggetto del suo desiderio (un desiderio è tale se non ha fine) e regolarmente vi si perde, mostrandone però l' infinita varietà e potenza. Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema sono due documentari, trasmessi da Sky Arte, che nascono dalla più lunga intervista che Andreotti abbia mai concesso. Ora divertito, ora sorpreso, ora caustico (sempre comunque lucido, forte di una vivida memoria), Andreotti viene trasportato nel periodo compreso fra il 1947 e il 1953, quando era Sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo. Furono molte le iniziative intraprese dal politico per dare nuovo impulso all' arte cinematografica: dal salvataggio dell' Istituto Luce e del suo archivio alla legge di sostegno sul cinema, dalla restituzione al Lido della Mostra del Cinema di Venezia alla rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Gli aneddoti e le spigolature che si susseguono sono molti (dalla polemica sui «panni sporchi» alla lotta con l' integralista Luigi Gedda, dai rapporti con il Centro Cattolico Cinematografico ai tagli delle scene definite «stazioni di monta taurina») e la sensazione è che, alla fine, il politico soverchi il cinefilo, secondo la raccomandazione di Sonego: «Voi non avete capito niente di niente. Se volete capire cosa è successo veramente in quegli anni dovete andare da Andreotti. Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti fare cinquemila».
Mattia Feltri per la Stampa il 10 gennaio 2020. Una sfilata da luci della ribalta: il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lassù innalzato anche da Bettino Craxi perché «fu il mio fedele ministro dell' Interno», diffonde una nota sulle sue responsabilità di garante della Costituzione, e dunque un condannato è un condannato, che ci posso fare? Il premier Massimo D' Alema va dal procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, e il procuratore ascolta, e ascolta, e poi, anche lui col faro della legalità a illuminargli il cammino, dice niente da fare, un condannato è un condannato, fate un decreto e assumetevene la responsabilità; ma siccome non erano più i tempi - e non lo sarebbero più stati - del primato della politica, D' Alema non procedette oltre il baciamano all' ordine costituito. Il capolavoro di situazionismo fu del segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano, che dopo aver accolto in profonda contrizione le suppliche della figlia Stefania, trasse di tasca due rosari e glieli porse, perché ne facesse dono al padre, insieme all' assicurazione di un posto di privilegio nelle sue preghiere. Così Bettino Craxi restò a morire ad Hammamet, nella latitanza dorata il cui culmine fu la sfacciataggine (ironia, per chi non l' avesse capito) d' essere operato per il cancro al rene nello squallore dell' ospedale militare, dove un medico del San Raffaele si incaricò di reggere la lampada per fare luce sul lavorio chirurgico nelle viscere dell' ex presidente. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, sul Bettino Craxi che ventuno anni prima era stato sorpreso da Gennaro Acquaviva con la testa tra le mani, in lacrime, sotto gli occhi una lettera di Aldo Moro spedita dalla «prigione del popolo». Si era decisa, essenzialmente dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, la linea della fermezza, che poi era la linea dello star fermi nel senso di non far nulla. Riuscì benissimo, tutti fermi mentre Moro veniva processato e assassinato dalle Brigate rosse, e mentre Craxi in solitaria (di già) predicava una trattativa che lo portò più vicino ai sequestratori di quanto non sia riuscito ai servizi segreti, probabilmente impegnati nella stessa interpretazione della fermezza proposta dal governo. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, fino a questo libro asciutto e opulento di Marcello Sorgi (Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi, Einaudi, pp. 111, 20), di cui l' esempio è il breve e fulminante ritratto dei due protagonisti - Bettino Craxi in conferenza stampa interpellato vanamente dall' esordiente Sorgi: non risponde e chiede se ci siano altre domande (era un suo crudele modo di svezzare i giovani interlocutori), e Aldo Moro che riceve a Palazzo Chigi don Riboldi e una delegazione di bambini reduci del terremoto del Belice, a cui non promette nulla di quanto non possa mantenere, poiché la politica non è mestiere per fanfaroni. La tesi del libro arriva quando deve arrivare, piazzata al termine del racconto di vite parallele con spietatissima noncuranza: «Entrambi finiscono schiacciati, stritolati in un meccanismo che non si accontenta di distruggerli politicamente, ma presuppone la loro eliminazione fisica. Salvarsi non gli è consentito». È l' ignominia di uno Stato capace di venire a patti coi peggiori ceffi del pianeta per spuntarne un vantaggio purchessia, e di colpo intriso di rigore etico se si tratta di tendere la mano - per umanità e amor proprio, mica per altro - a due leader sbilanciati sull' abisso. Ma se per Moro lo si sa, e lo si è scritto spesso, dirlo di Craxi è un passo verso l' assennatezza perduta ventotto anni fa, quando all' arresto di Mario Chiesa e all' apertura della falsa rivoluzione giudiziaria si decise - nel senso più biblico dell' iniziativa - di fare del capo socialista «il grande capro espiatorio», come scrive Sorgi con una secchezza irrimediabile. Il suo cadavere per la nostra catarsi: che oscenità. Ciechi e autolesionisti, ci si è tutto riversato addosso, com' era prevedibile e previsto: con Craxi, spiega Sorgi, si «consegna alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una pietra sopra». La politica che non sa più resistere a un procuratore, ceduta al servaggio dell' opinione pubblica, svilita a materiale di controllo via social ora per ora, e dunque immeschinita e disarmata, in balìa del capriccio. Una repubblica fondata sulla menzogna e che, in un mare di menzogne, naufraga amaramente.
Gian Carlo Caselli per il “Corriere della Sera” del 06 gennaio 2020. Quarant’anni fa, la mattina del 6 dicembre 1980, Cosa nostra uccideva a Palermo Piersanti Mattarella, esponente di rilievo della Democrazia cristiana , convinto sostenitore di una fase politica di apertura a sinistra. Come presidente della Regione Sicilia aveva avviato una coraggiosa campagna moralizzatrice all’interno del suo partito. Con l’obiettivo di allontanare i personaggi più compromessi con la mafia e di ripristinare la legalità nella gestione della pubblica amministrazione, specie in materia di appalti. Il delitto rientra nella impressionante sequenza degli omicidi “politico-mafiosi” degli anni Settanta-Ottanta con cui i corleonesi di Riina puntavano ad una egemonia totalizzante. La decapitazione sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali. Una terribile ecatombe di politici, magistrati, funzionari di Polizia, ufficiali dei Carabinieri, giornalisti, uomini della società civile. Mai, in nessun paese al mondo, vi è stato qualcosa di simile. L’omicidio Mattarella si caratterizza perché assume i contorni di uno psico-dramma di cui la classe dirigente nazionale appare come la vera protagonista e destinataria, rivestendo tutte le parti del dramma. Quella ( facente appunto capo a Mattarella) di chi vorrebbe inaugurare una nuova stagione di auto-riforma della politica, rescindendo ogni rapporto con la mafia ed i suoi alleati. Quella opposta, formata dai peggiori esponenti della corrente andreottiana della D.C. regionale, fra i quali i cugini Salvo e l’on. Lima ( che insieme a Giulio Andreotti – come accertato nel processo di Palermo a suo carico – addirittura parteciparono a summit con i vertici di Cosa nostra per discutere il “caso” Mattarella). Quella pavida o anche solo rassegnata alla sua impotenza, che fu lo stesso Mattarella a dover constatare , quando – pochi mesi prima di essere ucciso - si recò a Roma per denunziare il suo progressivo grave isolamento, ricavandone la sensazione di essere ormai consegnato al suo destino di morte ( di ciò ha testimoniato nel 1981, nel processo per l’omicidio Mattarella, la sua capo di gabinetto). Aspetto – quest’ultimo – intuito con acume e ben messo a fuoco da Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio riflettendo sull’omicidio Mattarella ebbe a sostenere che “si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato” (intervista rilasciata a Giorgio Bocca il 10 agosto 1982, pochi giorni prima della strage mafiosa di via Carini del 3 settembre , nella quale il generale-prefetto di Palermo fu ucciso insieme alla moglie e all’autista). L’omicidio Mattarella smentisce tragicamente i ricorrenti tentativi di leggere i rapporti fra mafia e politica ispirandosi a schemi di riduzionismo se non proprio di negazionismo. Per ridurre tali rapporti a fenomeno localistico, quasi un capitolo di folklore regionale, addebitabile agli appetiti di pochi esponenti del ceto politico-amministrativo. O addirittura liquidandoli parlando di indagini “creative” o in mala fede, donde un sillogismo semplice quanto pericoloso: se le indagini sono inquinate, il nesso mafia-politica si può tranquillamente demolire. Per contro, la realtà, processuale e storica, non sancisce affatto una modesta configurazione periferica, ma i tempi della storia del Paese. Tessere di un mosaico nazionale segnato anche da orride cadenze di morte. In questo contesto l’omicidio di Piersanti Mattarella risulta essere un catalizzatore storico del rapporto mafia-politica, perché racchiude ed esalta in sé tutti i connotati storici ( le “invarianti strutturali” di tale rapporto), dall’Unità i giorni nostri. E si ricongiunge, con una inquietante linea di continuità, al primo omicidio politico mafioso di rilievo nazionale della storia unitaria, quello di Emanuele Notarbartolo già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia. Un omicidio che (al pari di quello di Mattarella) portò appunto alla luce - proiettandolo sullo scenario nazionale- il rapporto mafia-politica, come elemento strutturale del fenomeno mafioso e asse portante degli equilibri politici nazionali.
Stefano Andreotti: “1979-1989 periodo irripetibile? Speriamo di no, ma…”. Gennaro Grimolizzi il 23 Settembre 2020 su culturaidentita.it. Da poche settimane in libreria e subito tra i libri più venduti I diari segreti di Giulio Andreotti (ed. Solferino) consentono di conoscere meglio il decennio 1979-1989, forse il più tormentato della storia d’Italia dopo la Seconda guerra mondiale. A curare questa pubblicazione i figli del leader della Democrazia Cristiana, Stefano e Serena Andreotti. In questa intervista rilasciata a CulturaIdentità Stefano Andreotti ricorda alcuni aneddoti del passato, momenti irripetibili per l’Italia e per l’Europa. Altre persone, altra storia.
Dottor Andreotti, nei diari di suo padre e da poco pubblicati si offre uno spaccato della storia italiana dal 1979 al 1989. Quali le pagine più belle e quali quelle meno belle per il nostro Paese?
«I Diari Segreti contengono dieci anni di vita del nostro Paese visti da un testimone certamente privilegiato e spesso protagonista. Di cose belle e brutte ne sono descritte a centinaia. Per il nostro Paese direi che le peggiori siano quelle legate agli atti di terrorismo e agli omicidi di mafia che riguardarono tante vittime innocenti, le più belle i successi nella strada della distensione Est-Ovest e nella ricerca della pace in tanti conflitti in ogni parte del mondo. Mio padre era orgoglioso di aver potuto spesso dare un grande contributo a questi successi».
Negli anni in cui Giulio Andreotti è stato Presidente del Consiglio e leader della Dc l’Italia era un paese rispettato. Quel periodo storico è irripetibile?
«L’Italia, risorta dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, fece grandi progressi, divenne, anno dopo anno, anche se fra tanti problemi, uno dei primi paesi industrializzati del mondo, negli anni Ottanta di cui ci siamo occupati nei diari superò addirittura al quarto posto la Gran Bretagna della Thatcher, con un buon livello di occupazione e un buon tenore di vita largamente diffuso, con una riconosciuta visibilità internazionale dentro e fuori dall’Europa. Come Presidente del Consiglio, come ministro e comunque come politico di primo piano fu uno dei protagonisti di quel periodo che durò fino agli inizi degli anni Novanta, per poi imboccare una strada in discesa che mi pare non veda ancora oggi la fine. Periodo irripetibile?Speriamo di no, ma le premesse per una inversione di tendenza fatico a vederle».
Chi era il leader europeo che suo padre stimava di più?
«Con tantissimi leader europei ha avuto grandi rapporti. Forse quelli con cui ha maggiormente legato vi furono Schmidt, Genscher e Gorbaciov. Fuori dall’Europa fra i tanti un rapporto particolare fu quello con Schultz, il Segretario di Stato americano nella presidenza di Reagan, con il quale condivise tante iniziative di pace verso il blocco sovietico e i conflitti nel Mediterraneo. Vorrei citare comunque anche una figura che magari non è proprio giusto indicare come leader: Giovanni Paolo II».
Lei e sua sorella avete curato la pubblicazione dei diari segreti. Come vi siete mossi per selezionare l’enorme mole di materiale a disposizione?
«Abbiamo rimesso assieme, decifrando fra l’altro una calligrafia spesso di difficilissima lettura, quello che nostro padre considerava come diario e raccoglieva in un contenitore annuale. Innanzitutto notazioni da lui scritte giorno dopo giorno su una agenda o su tanti fogli sparsi, lettere ricevute o da lui spedite, documenti, articoli di giornale che riteneva di particolare importanza. Ne è venuto fuori un voluminoso scritto, l’unica nostra selezione è stata quella di eliminare per esigenze editoriali, dalle oltre mille pagine siamo dovuti purtroppo scendere alle comunque oltre 670 della pubblicazione, una parte delle notazioni che riguardavano eventi familiari o eventi di secondaria importanza».
I diari di Giulio Andreotti si fermano al 1989. Tre anni dopo assisteremo ad uno stravolgimento della storia anche politica e dei partiti. Abbiamo definitivamente voltato pagina?
«La pagina l’abbiamo voltata, come rilevato prima, all’inizio degli anni Novanta, ma credo che troppo spesso si dimentica l’Italia dei primi quarant’anni con i suoi successi dentro e fuori i confini. Certamente i tempi sono cambiati e sono mutati gli equilibri nel mondo, ma non credo che molti possano dirsi soddisfatti della pagina che l’Italia sta da ormai decenni scrivendo».
Lettera di Stefano Andreotti al “Corriere della Sera” l'8 gennaio 2020. Caro direttore, leggo sul Corriere del 6 gennaio, fra gli articoli relativi al quarantesimo anniversario della tragica morte di Piersanti Mattarella, che il dottor Caselli nuovamente parla di incontri di mio padre con i vertici di Cosa nostra «come accertato nel processo di Palermo a suo carico». Tali incontri sarebbero avvenuti in due occasioni nel 1980 secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Marino Mannoia. Il racconto non fu ritenuto attendibile nella sentenza di primo grado che giunse all’assoluzione, mentre una diversa valutazione ne fu data dai giudici di secondo grado, che si pronunciarono essenzialmente proprio su tale base in modo diverso. La sentenza di Cassazione che scrisse la parola fine alla vicenda processuale sostiene che «i giudici dei due gradi di merito sono pervenuti a soluzioni diverse», ma non rientra tra i compiti della Cassazione «operare una scelta tra le stesse»; la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi nella sentenza della Corte di Appello «è stata effettuata in base ad apprezzamenti ed interpretazioni che possono anche non essere condivisi», sicché agli apprezzamenti e alle interpretazioni della Corte d’Appello «sono contrapponibili altri dotati di uguale forza logica». Ne consegue che dalla lettura integrale delle sentenze non si arriva alle conclusioni di certezza sopra richiamate. Si può aggiungere poi che il sopra menzionato racconto di Marino Mannoia (personaggio detto il chimico per la dimestichezza nel trattare la droga e autore di un numero non precisato di omicidi) contiene affermazioni davvero infamanti anche della figura di Piersanti Mattarella, che «dopo aver intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate, ai quali non lesinava i favori» successivamente avrebbe «mutato la propria linea di condotta», dichiarazioni che chi ritiene veritiero quanto riferito su mio padre si guarda bene dal riportare nella loro interezza. Un cordiale saluto.
Dagospia il 12 gennaio 2020. LETTERA DI GIAN CARLO CASELLI A DAGOSPIA. Il 6 gennaio, anniversario del feroce omicidio di mafia che 40 anni prima aveva colpito a Palermo l’onesto e coraggioso presidente della regione Piersanti Mattarella, il “Corriere della sera” ha pubblicato un mio articolo al riguardo. Il figlio del senatore Giulio Andreotti, Stefano, è intervenuto a sua volta con una lettera pubblicata dal “Corriere” l’8 gennaio, nella quale mi si addebita, in sostanza, di aver omesso di riportare alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia. Di questa lettera “Dagospia” si è occupato due volte, dapprima riproducendola integralmente come “bombastica”, poi riprendendo un articolo di Simone Di Meo per “La verità” che sviluppa quanto scritto da Stefano Andreotti. In questa sede mi limito ad osservare (tralasciando ogni altra possibile considerazione) che nell’articolo pubblicatomi dal Corriere, come si può constatare dal testo che allego, di Francesco Marino Mannoia non si fa neppure il nome. Mi sembra quindi evidente come non vi sia materialmente spazio per anche solo ipotizzare - in tale contesto - una qualche omissione di sue dichiarazioni. RingraziandoLa per l’attenzione, saluto cordialmente Gian Carlo Caselli.
Simone Di Meo per “la Verità” il 9 gennaio 2020. Il pentito della discordia. Con una lettera pubblicata ieri dal Corriere della Sera, Stefano Andreotti, figlio del Divo Giulio, ha contestato all' ex procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, una ricostruzione unilaterale della storia giudiziaria del papà in occasione del quarantennale della tragica uccisione (6 gennaio 1980) di Piersanti Mattarella, fratello del capo dello Stato, Sergio. Caselli ha ricordato due presunti incontri di Andreotti con i vertici di Cosa nostra - «come accertato nel processo di Palermo» - sulla base delle dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia, ex trafficante mafioso (soprannominato «mozzarella») considerato tra i più attendibili collaboratori di giustizia siciliani. Incontri diversamente valutati dai giudici di primo grado (che assolsero il politico Dc) e da quelli d'Appello (che invece lo condannarono). Sulla impossibilità di stabilire - a differenza di quanto sostiene Caselli - la veridicità di quei summit, il figlio di Andreotti ha ricordato che il racconto di Marino Mannoia «contiene affermazioni davvero infamanti anche della figura di Piersanti Mattarella» di cui Caselli ha però evitato di parlare. Quali? Stefano Andreotti non dice di più, ma La Verità è in grado di rivelare i contenuti di un verbale, risalente al 3 aprile 1993, in cui l'ex boss parla del fratello del presidente della Repubblica proprio all' allora procuratore di Palermo. L'incontro tra Mannoia e Caselli, accompagnato dal pm Guido Lo Forte, avvenne presso l'Us attorney's office del distretto meridionale di New York alla presenza del procuratore Patrick Fitzgerald. Il pentito spiegò che «già Bontate Paolino (ex capo di Cosa nostra prima dell' avvento dei Corleonesi, ndr) intrattenne rapporti con Mattarella Bernardo (il papà di Sergio e Piersanti, ndr), il quale era assai vicino a Cosa nostra, anche se non ricordo se fosse un uomo d'onore [] Successivamente sfruttando il canale rappresentato dai cugini Salvo Antonino e Ignazio - uomini d'onore della famiglia di Salemi, essi pure «riservati» -, Bontate instaurò intimi rapporti anche con Mattarella Piersanti [] Escludo comunque che quest' ultimo fosse un uomo d'onore, poiché altrimenti l'avrei appreso». Per Marino Mannoia, l'ex presidente della Regione Sicilia fu ammazzato perché Mattarella «dopo avere intrattenuto rapporti amichevoli con i cugini Salvo e con Bontate Stefano, ai quali non lesinava i favori, successivamente aveva mutato la propria linea di condotta [] voleva rompere con la mafia, dare "uno schiaffo" a tutte le amicizie mafiose e intendeva intraprendere un' azione di rinnovamento del partito della Democrazia cristiana in Sicilia». Attraverso Salvo Lima, «del nuovo atteggiamento di Mattarella» - si legge ancora nel verbale - fu informato anche «l'onorevole Giulio Andreotti» che «scese a Palermo, e si incontrò con Bontate Stefano, i cugini Salvo, l' onorevole Lima, l' onorevole Nicoletti». La riunione - aggiunse il collaboratore di giustizia - «avvenne in una riserva di caccia». Successivamente, Bontate avrebbe raccontato a Marino Mannoia che «tutti quanti si erano lamentati con Andreotti del comportamento di Mattarella, e aggiunse poi: "Staremo a vedere" [] Alcuni mesi dopo, fu deciso l'omicidio». Al papà del capo dello Stato fa riferimento pure un altro collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo. Sentito in un processo per diffamazione a mezzo stampa, come riportato dal Fatto quotidiano e da Antimafia2000, Di Carlo ha rivelato che «il vecchio Bernardo Mattarella, padre del capo dello Stato, mi fu presentato come uomo d' onore di Castellammare del Golfo. Me lo presentò tra il '63 e il '64 il dc Calogero Volpe, affiliato alla famiglia di Caltanissetta, che aveva uno studio a Palermo». Il verbale del 3 marzo 2016 riprende alcune dichiarazioni già rese nel corso degli anni Novanta dall' ex padrino considerato pienamente attendibile dalla sentenza per l'omicidio del giornalista Mauro Rostagno. A un altro fratello dell'inquilino del Quirinale, Antonino Mattarella, si fa riferimento invece in una vecchia misura di prevenzione a carico di don Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana. «La transazione (per l'acquisto di un immobile nella Capitale, ndr) risulta essere stata effettuata tramite il curatore del fallimento Mattarella Antonino, legato al Nicoletti per gli enormi debiti contratti col proposto (dalla documentazione rinvenuta dalla Guardia di finanza di Velletri emerge che il Nicoletti disponeva di titoli emessi dal Mattarella, spesso per centinaia di milioni ciascuno)», è scritto nel provvedimento giudiziario così come riportato dal Fatto quotidiano nell' edizione dell' 11 febbraio 2015. Antonino Mattarella non è però mai stato indagato in quel procedimento. Tranchant il giudizio di Stefano Andreotti, contattato dal nostro giornale: «Citare l'incontro di mio padre riferito da Marino Mannoia, che va a raccontare queste balle anche su Mattarella, mi lascia un po' sbalordito... ma no, non voglio dire sbalordito. Non credo sia molto aderente ricordare le cose così, ecco».
Andreotti, politica e pellicole. Che bravo il "Divo" fra i divi. Censure, leggi ad hoc e passione: il rapporto tra il cinema e lo statista democristiano raccontato da Tatti Sanguineti. Luigi Mascheroni, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. Bettino Craxi al cinema, regia: Gianni Amelio. E Giulio Andreotti e il cinema, Deus ex machina: Tatti Sanguineti. La rivincita della Prima Repubblica sul grande schermo? Sul piccolo, Sky Arte, martedì 14 gennaio sera, in un'imperdibile maratona storico-politico-cinefila, andranno in onda, uno dopo l'altro, due film diretti da Tatti Sanguineti - Giulio Andreotti. Il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti. La politica del cinema - frutto della più lunga e minuziosa intervista di sempre cui lo statista democristiano si sottopose fra il 2003 e il 2005, rispondendo alle domande dell'incontentabile e curiosissimo critico e documentarista («Alla fine mi sono ritrovato con 50 ore di girato», dice Tatti) alla ricerca di racconti, aneddoti, rivelazioni e retroscena per ricostruire, con un pugno di fotogrammi inediti, un pezzo di storia del Paese. L'opera è unica, ma in due parti. Una racconta l'Andreotti giovane, che imparò ad amare e a usare politicamente il cinema. La seconda l'Andreotti che invecchia col cinema che non può più seguire come un tempo ma che ricorda film, registi, polemiche. Il cinema visto da vicino fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2014. La politica del cinema ebbe invece la sua prima al Festival del cinema ritrovato di Bologna nel 2015. Oggi - dopo dieci anni... - finalmente tutti, non solo cinéphiles e addetti ai lavori, possono vederli, insieme. E insieme i due film-documentario narrano (fedelmente, appunti e ricordi del Presidente alla mano) di come un giovanissimo Andreotti, ragazzo povero di campagna in un decennio, tra gli anni Venti e Trenta, in cui il cinema diventa adulto, sopravvive alle dittature e vive trasformazioni epocali - il sonoro, le grandi produzioni americane, l'affermarsi dei generi, dal western al musical, il divismo - scopre oscenità e meraviglie (quando Andreotti - il Mefistofele, il Divo - dice che vedendo a tredici anni Dr. Jekyll e Mr. Hyde rimase «incantato», c'è da credergli). E poi di come Andreotti cresce mentre il cinema fiorisce, e ne coglie, politicamente, il frutto. Una carriera fabbricata dalla Fuci e da Giovanni Battista Montini, futuro Papa, e un incarico di segretario factotum di Alcide De Gasperi, Andreotti è destinato al cinema. Nel giugno del 1947 è nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo. Poltrona - nel Palazzo e nella sua saletta privata - che terrà per sei anni e quattro governi centristi, fino al '53. E nel '56 è il politico con il maggior numero di preferenze del Paese. Aveva capito che il cinema può formare una nazione, ma è (anche) un enorme serbatoio di voti. Oltre a una insostituibile fonte di piacere personale (le domeniche pomeriggio passate a vedere con pochi amici, e la moglie, i film più belli tra quelli che, per tutta la durata del suo incarico, deve visionare come Commissione censura). Andreotti visionò, vistò, censurò. Ma soprattutto, di fatto, salvò l'industria cinematografica nazionale. A conflitto appena finito capisce tre cose. Che il cinema deve contribuire a chiudere la mattanza della guerra civile: e proibisce che i nuovi film siano ambientati durante il fascismo, per non gettare altra benzina sull'odio. Che il nostro cinema va aiutato economicamente: e costringe le grandi produzioni americane a reinvestire gli incassi nel Paese. E che bisogna salvaguardare il vero miracolo italiano - il genio di artisti imprevedibili e unici come Rossellini, De Sica e Visconti (a cui pure era lontanissimo) - dall'egemonia culturale comunista da una parte e dall'invasione produttiva americana dall'altra. Lo fece. Poi, tutto il resto. Che è storia. Andreotti salva l'Istituto Luce e il suo archivio. Favorisce grazie a sgravi fiscali la rinascita di un cinegiornale nazionale, la Settimana Incom. Fa riprendere l'attività negli studi di Cinecittà (il primo film girato è Cuore di Duilio Coletti, da De Amicis, con Vittorio De Sica). Nel '47 partecipa alla sua prima Mostra del Cinema di Venezia, che si tiene in città, riportandola l'anno dopo al Lido. Nel '49 emana la Legge di sostegno sul cinema, che porta il suo nome. Attraverso l'imposizione di una tassa al momento del doppiaggio, in gran parte di film americani, la cui importazione era stata vietata nel '38, consente l'incremento di risorse economiche dall'estero. Compra 4mila proiettori 16 millimetri e apre altrettante sale parrocchiali, il 30% del totale nazionale. Alla cessazione dell'incarico, nel 1953, Andreotti però continua a frequentare il mondo del cinema, e resta amico di produttori, registi, attori. Dei quali gli restano centinai di ricordi e giudizi (e Tatti Sanguinetti è un maestro a tiraglieli fuori tutti). Poi al suo posto capita Oscar Luigi Scalfaro, meno sognatore e più bigotto («Non capiva molto di cinema», dice Tatti, «lui è quello che schiaffeggiava le signore dalle scollature importanti»), e il rapporto tra politica e cinema cambia per sempre. E oggi? «Oggi - dice Tatti Sanguineti - le tre maggiori Film Commision, Toscana, Lazio e Puglia, hanno polverizzato il potere decisionale, mentre il cinema ha bisogno di un po' di cervello centrale. Non dev'essere abbandonato ai cacicchi locali». Ma ai politici il cinema italiano interessa? «Non so quanto». Tatti ha appena visto Pinocchio («Ma non ne sentivo il bisogno») e Tolo Tolo («Mi ha depresso»). Ed è convinto che il cinema italiano sia ormai irrilevante. «Oggi si fanno 400 film all'anno, più o meno come ai tempi di Sergio Leone. Ma allora si esportavano ovunque: da Macao a Nairobi, dall'Europa all'America latina. Il nostro cinema popolare lo vedevano e lo volevano tutti. Oggi la più marginale delle pellicole sudcoreane o israeliane è più importante del nostro film più celebrato». Forse Tatti esagera. Ma forse Andreotti sarebbe d'accordo con lui.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Socialismo e scissioni.
La nascita del Partito Comunista scisso dal Partito Socialista e dal Partito Fascista.
Chiedimi chi erano i comunisti. Simonetta Fiori su La Repubblica il 19 novembre 2020. Lo strappo coi socialisti un secolo fa ha segnato per sempre il Pci e poi la sinistra. Una "dannazione" dice Ezio Mauro. Che in un libro racconta un pezzo della nostra storia. E qui anche un po' della sua. Il grande romanzo della sinistra italiana comincia da un peccato originale che Ezio Mauro nel suo ultimo libro ha chiamato "dannazione". È un sortilegio, una coazione a dividersi, che cent'anni fa - il 21 gennaio del 1921 - trovò la sua culla simbolica nel Congresso di Livorno, con la scissione dei socialisti e la nascita del partito comunista d'Italia. La sua storia è consegnata a un'ampia bibliografia, ma nessuno l'ha raccontata con lo sguardo di un grande giornalista che torna nei luoghi, i passi che dividono il Teatro Goldoni dal vecchio Teatro San Marco, cerca nei palchi a sinistra, nascosto nell'ombra, il busto di Gramsci e in platea, a destra, la barba lunga di Turati. "È una lezione che arriva da Nabokov", dice Mauro dal suo studio romano, alle spalle una parete di libri dedicata alla Russia. "Sono i dettagli a trasformare un materiale inerte in qualcosa che merita di essere letto: li definiva "note a piè di pagina nel volume della vita" che rappresentano "una forma suprema di consapevolezza"". Alle giornate congressuali, ricostruite sotto una luce inedita grazie a un'aggiornata ricerca archivistica, fa da controcanto la tumultuosa storia del socialismo italiano, all'ombra del pericolo fascista che avanza. Una vicenda drammatica che, nell'eterno conflitto tra radicalità e riformismo, avrebbe segnato l'intero Novecento. E dove le ragioni della storia faticano a trovare quelle della politica. A questa epopea della sinistra non è estraneo l'autore, direttore prima della Stampa e poi per vent'anni di Repubblica, di cui è oggi editorialista. "Posso dire di aver sempre cercato la sinistra. L'ho cercata soprattutto attraverso il mio lavoro".
Partiamo dalle convulse giornate di Livorno. Il congresso rappresentò una novità nella politica italiana.
"Per la prima volta comparve una cinepresa a un congresso di partito. E, davanti al teatro Goldoni, i leader venivano immortalati dal fotografo ufficiale con i lampi di magnesio. Fu un grande spettacolo nazionale, ma soprattutto fu una pagina inedita della storia politica: non era mai accaduto che una rivoluzione venisse discussa in pubblico, sotto gli occhi di migliaia di carabinieri, soldati e guardie regie che presidiavano il campo".
Nel libro riveli che c'erano molti agenti segreti in azione. È un aspetto che non è mai stato raccontato.
"Ci fu un intenso lavorìo tra prefettura, questura e ministero degli Interni per intercettare le conversazioni telefoniche dei congressisti accorsi a Livorno. Dovettero dirottare il controllo sulla centrale di Pisa perché nella sede telefonica di Livorno la maggior parte dei lavoratori era iscritta "ai partiti estremi". Questo fa capire come il potere considerasse i socialisti degli eversori. E d'altra parte, indipendentemente dalle correnti - riformista, massimalista e comunista - , non c'era nessuno che non si considerasse rivoluzionario".
La rivoluzione russa era arrivata con una forza irresistibile.
"Era stata una formidabile spallata ai tempi della storia, come se improvvisamente si fosse accorciato l'orizzonte socialista e la rivoluzione fosse a portata di mano. Anche Filippo Turati non aveva saputo resistere al fascino rivoluzionario di Kerenskij, come dimostrano le lettere scambiate tra il 1917 e il '18 con la compagna Anna Kuliscioff. Poi entrambi avrebbero preso le distanze dalla fase bolscevica".
Fu Lenin a chiedere l'espulsione della corrente riformista. La scissione nasce da questo.
"In larga maggioranza il partito votò contro l'ultimatum di Mosca e la frazione comunista abbandonò il Teatro Goldoni per andare a fondare il nuovo partito nel vicino Teatro San Marco. La cosa sorprendente è che il congresso sembra ipnotizzato da se stesso, incapace di capire ciò che accade nel Paese: lo squadrismo fascista è già molto attivo ed è singolare che rimbalzi pochissimo dentro il teatro. Nel profluvio di parole che i congressisti si scagliano addosso, il concetto di libertà non appare quasi mai. In pochi avvertono il pericolo fascista che avanza".
Quasi tutti pensavano che fosse un fuoco di paglia destinato a spegnersi. Solo due anni dopo, in una lettera a Togliatti, Gramsci definirà la scissione di Livorno il "trionfo della reazione".
"Lo dice anche Giacinto Menotti Serrati in una lettera inedita a Jacques Mesnil che ho trovato negli archivi della Fondazione Feltrinelli: "Ci divoreremo tra di noi e la borghesia finirà per avere qualche poco di pace". Non sappiamo se la storia avrebbe cambiato il suo corso, ma certo le divisioni all'interno del movimento operaio favorirono l'ascesa del fascismo. Nel 1919 Mussolini aveva avuto un risultato elettorale deludente".
A Livorno viene sancito un destino permanente della sinistra italiana che è la condanna a dividersi. Un sortilegio che si ripeterà nel tempo.
"In realtà la dannazione si era presentata fin dal principio: già nel 1892 a Genova, nel congresso che dà origine al Partito dei lavoratori, Turati e Prampolini avevano invitato gli anarchici ad andarsene. E ancora nel 1912 c'era stata un'altra scissione con la cacciata dei gradualisti tra cui Bissolati e Bonomi".
Il conflitto tra riformismo e radicalità è una costante della sinistra. Vittorio Foa tendeva a rappresentarla con la sua consueta ironia: tra riformisti e rivoluzionari non c'è alcuna differenza perché i riformisti non fanno le riforme e i rivoluzionari non fanno la rivoluzione.
"Foa è stato uno dei miei punti di riferimento. Ma ora mi viene in mente la battuta di un dirigente locale: "Il socialismo è quello che il suo tempo lo fa". È la storia che di volta in volta privilegia la componente riformista o quella "intransigente". Se uno reinterpreta quegli accadimenti con il senno di poi - ma è troppo facile! - le ragioni della storia sono dalla parte di Turati, del suo gradualismo riformista. Il problema è che il leader socialista non riesce a tradurle in una pratica politica. E queste ragioni non gli vengono riconosciute nel momento in cui vive".
È evidente la tua simpatia per Turati.
"Sì. Ma sono affascinato anche da una figura per molti aspetti agli antipodi che è Antonio Gramsci. Entrambi non sono solo dei militanti, ma provano a mettere in campo una teoria politica. Quella gramsciana dei consigli di fabbrica incontrò molte diffidenze nel partito e nel sindacato. Fu messo sotto accusa per il fallimento della stagione rivoluzionaria con l'occupazione delle fabbriche a Torino. Ed è anche per queste critiche che Gramsci non parlò al congresso. Nonostante il suo nome sia stato invocato più volte dalla platea, preferì non sporgersi dal palco".
A proposito della dannazione, tu scrivi che è come se la dinamica dei corpi sociali fosse indipendente dalla teoria. I socialisti predicano fratellanza e solidarietà ma non riescono a praticarla, dividendosi costantemente in fazioni.
"Il socialismo è stato un'infaticabile fabbrica di teorie e di modelli sociali, ma ha finito per prevalere il settarismo: ogni corrente ha ritenuto che il proprio modello ideale fosse migliore di quello degli altri. Da qui deriva la tragedia della sinistra italiana: gli avversari dentro lo stesso campo politico diventano i principali nemici. Ed è un destino che ha colpito anche la mia generazione".
Nel libro racconti come nasce la scintilla socialista. Ma in te quando è scoccata la fiammella della sinistra?
"Il primo a parlarmi di politica è stato uno zio che abitava accanto a casa mia a Dronero. Era anticlericale come mio padre e lo ricordo seduto in poltrona immerso nella lettura dell'Espresso formato lenzuolo".
Un liberale di sinistra?
"No, decisamente un uomo di sinistra. Poi sono andato avanti confusamente per conto mio. Con un vantaggio enorme rispetto alla leva precedente: la mia generazione è arrivata alla politica adulta con il Sessantotto e l'invasione della Cecoslovacchia per cui non ha dovuto sciogliere il nodo del sovietismo. Ci siamo tutti battezzati alla politica diventando contemporaneamente di sinistra e antisovietici".
Tu facevi politica?
"No, non direttamente. La facevo attraverso i giornali che inventavo ovunque io fossi: prima in collegio, poi al liceo, e nel mio paese, dove ancora escono regolarmente alcune di quelle testate. La prima volta fu in terza media: ero compagno di classe del figlio del tipografo di Dronero che aveva un ciclostile. Ma la preside mise fine bruscamente all'avventura".
Cosa voleva dire essere di sinistra?
"Nella parte d'Italia dove vivevo, nel basso Piemonte al confine con la Francia, significava stare all'opposizione rispetto al potere politico: era una zona fortemente democristiana che in questi ultimi decenni ho visto mutare dai toni felpati della Dc all'urlo leghista. Allora lo scudocrociato era il nostro avversario. Con i miei amici passavamo ore a sfigurare i loro volantini in sostegno di questo o quel sindaco: al posto del "sì" incollavamo un "no" e poi facevamo volantinaggio nel segno del rovesciamento".
Un incontro che ti ha segnato?
"Norberto Bobbio, professore di Filosofia del diritto: è stato il primo corso che ho seguito alla facoltà di Legge, a Torino. Una volta entrò in classe buttando la cartella sul tavolo: erano appena accaduti i fatti di Avola e Battipaglia, le rivolte contadine soffocate dalla polizia nel sangue. Ha cominciato a camminare su e giù davanti alla cattedra e con uno dei suoi scatti nervosi si è rivolto a noi: ma insomma, alla vostra età e con quel che è successo, non avete niente di meglio da chiedermi che farvi lezione? Fece una dissertazione sulla violenza".
Poi hai approfondito l'amicizia grazie al lavoro.
"Mi ricordo la lunga lettera che gli scrissi nel 1990 durante il volo da Mosca a Torino. Ritornavo alla Stampa come condirettore accanto a Paolo Mieli, dopo tre anni di corrispondenza in Urss per Repubblica. Sentivo il bisogno di raccogliere i vari pezzi della mia esperienza giornalistica - cronista del terrorismo, giornalista parlamentare, il lavoro in Russia durante la perestrojka - per impostare la fase nuova che mi aspettava. La Stampa rappresentava un potere forte, la Fiat. Ed era radicata nel quotidiano la linea culturale dell'azionismo. A me interessava l'autonomia del giornale dalla politica, e l'autonomia della politica dai poteri forti. Avvertivo l'urgenza di dialogare su questo con Bobbio. Si può dire che ho sempre cercato la sinistra. Anche attraverso il mio lavoro".
Sulla Stampa, sotto la tua direzione, le voci dell'azionismo erano molto presenti in prima pagina.
"Era giusto che trovassero libera espressione. E anche Repubblica è stata il tentativo di unire la cultura liberalsocialista agli altri pezzi della sinistra italiana. In questi lunghi anni è capitato che qualcuno per insultarmi mi abbia detto: azionista! Io tra me e me rispondevo: magari...".
Nel libro racconti la Torino del primo Dopoguerra dove avviene l'incontro tra Gramsci e Gobetti, tra la matrice comunista e la cultura liberale che si apre al socialismo. Quanto ha contato la memoria storica di Torino nella tua formazione?
"Moltissimo. È qui che è cominciato il mio lavoro di cronista. La Gazzetta del Popolo è stato un grande amore dove ho fatto anche il sindacato: chiuso nel 1974, il giornale continuò a uscire grazie a una cooperativa di giornalisti e poligrafici. Lavoravamo di giorno e di notte occupavamo la redazione, con grandi avventure, grandi amori, grandi amicizie. Quello che ho imparato politicamente lo devo al mestiere. Soprattutto negli anni del terrorismo, che è stata la guerra della mia generazione".
In che modo ne è uscita fortificata la tua coscienza di sinistra?
"Nell'ottobre del 1977 le Br gambizzarono Antonio Cocozzello, un consigliere comunale democristiano che era stato protagonista delle lotte contadine in Basilicata. Aveva studiato grazie al sindacato. Arrivai quando i soccorritori gli stavano tagliando i pantaloni: lo vidi a terra, dolorante, le mutande da mercato che poteva avere mio nonno. Mi indicò una cartellina di plastica marrone: per favore, portala alla Cisl, dentro ci sono le pratiche di due pensionati. Tornato al giornale, lessi il comunicato dei terroristi che lo indicava come "servo delle multinazionali". Il giornalismo mi ha messo sempre davanti i fatti, aiutandomi a capire come stanno veramente le cose".
Hai sempre votato a sinistra?
"Sì, ma ponendomi ogni volta una domanda: cosa serve al Paese che io faccia? E la risposta è sempre stata il voto a sinistra".
Hai avuto rapporti più stretti con qualcuno dei leader storici del Pci?
"Ho incontrato molte volte Giancarlo Pajetta, sia a Torino che a Mosca. E ho avuto un buon rapporto con Enrico Berlinguer, anche se intorno a lui si formava sempre un semicerchio di rispetto: la sua estrema riservatezza ti obbligava a un passo di distanza. Ma alla fine di un'intervista, nella sua stanza di Botteghe Oscure, mi sorprese parlandomi di Juventus".
Chi speravi fosse il suo successore alla guida del partito?
"A un certo punto ho sperato in Luciano Lama, un leader dalla personalità carismatica. Mi ricordo le lunghe chiacchierate davanti alla sua scrivania di ferro. Quando Lama morì, l'avvocato Agnelli mi raccontò di essere andato a trovarlo nei giorni della malattia e che lo fece sedere sul suo letto. "Oggi posso dire quello che disse mio nonno quando morì Bruno Buozzi: è morto un galantuomo"".
Li hai frequentati sempre per lavoro?
"Sì. Anche se posso dire di aver visto Alessandro Natta in pigiama. Lo seguii in Cina per una visita a Deng Xiaoping, che ci apparve con una potenza scenica straordinaria. Una notte arrivò dall'Italia la notizia del conflitto su Sigonella tra il presidente del consiglio Craxi e l'amministrazione americana. Ci precipitammo a svegliare il segretario del Pci. Ma Natta si rifiutò di fare dichiarazioni".
Quando hai visto cambiare i comunisti?
"Il cambiamento era cominciato nel 1981, con lo strappo da Mosca. Ma purtroppo non li ho visti cambiare abbastanza. Berlinguer ha fatto il passo più importante, ma era tutto interno all'orizzonte comunista. È una questione che ho discusso con Gorbaciov a Mosca: anche il segretario del Pcus era riuscito a dare una spallata decisiva al sistema sovietico, ma ne è rimasto dentro. Non è stato capace di trovare l'apriscatole che lo proiettasse fuori".
Dalla Russia ti sei portato indietro amicizie comuniste?
"L'unica fotografia che conservo è quella insieme a Sacharov, il fisico dissidente riabilitato da Gorbaciov nell'86. Ci vedevamo spesso a casa sua, in cucina, insieme alla moglie Elena Bonner. Si sarebbe potuto accomodare nel ruolo dell'ex perseguitato omaggiato dal mondo, invece aveva a cuore il cambiamento radicale del sistema sovietico, con la battaglia per i diritti: immune da qualsiasi spirito vendicativo, guardava in avanti".
Oggi lamenti che la sinistra in Italia non abbia un nome e un'identità.
"I due nomi che l'hanno definita nel secolo precedente sono durati uno troppo a lungo, il comunismo, finito solo dopo il crollo del Muro di Berlino, e l'altro troppo poco, il socialismo, suicidatosi in una pratica politica condannata da Tangentopoli. I socialisti avevano le ragioni della storia, ma non le hanno sapute tradurre nella politica. I comunisti hanno avuto la forza politica senza avere le ragioni della storia. E non sono stati capaci di fare il rendiconto conclusivo. Per anni ho sperato che socialisti e comunisti risolvessero la loro dannazione, ma così non è stato".
Che cosa significa per te essere di sinistra?
"Significa credere nella possibilità di un cambiamento, mettendosi dalla parte di chi ne ha più bisogno. Ho gli stessi amici dai tempi del liceo e ogni volta ci diciamo: ci siamo tutti - più o meno - e siamo ancora intatti, nel senso che siamo rimasti fedeli a un'identità che è anche la cifra del nostro stare insieme".
A chi guardi per il futuro della sinistra italiana?
"Tanti anni fa mi sono augurato un papa straniero. Oggi spero che una nuova figura venga da quella che Turati definiva la "borghesia del lavoro": qualcuno che voglia spendere le sue esperienze di vita e le sue competenze nell'avventura della sinistra italiana. Il problema è che se questo potenziale leader vuole cercare la casa del partito della sinistra italiana fatica a trovarla. Probabilmente non c'è il campanello sul pianerottolo e, se bussa alla porta, nessuno va ad aprirgli. Ma io finisco il mio libro con una ragazza che cuce il simbolo sulla bandiera rossa. Forse è arrivata l'ora del grande rammendo allo strappo del 1921". Sul Venerdì del 20 novembre 2020
A cent'anni dal congresso di Livorno. Croce, Labriola e Gentile sono i veri fondatori del Partito Comunista Italiano. Biagio De Giovanni su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Quello strano animale politico che è stato il PCI nacque storicamente come Pcd’I nel 1921 dalla scissione di Livorno, ma politicamente si costituì nel 1926 quando gli ordinovisti, e soprattutto Gramsci e Togliatti, ne presero la direzione. Esso non sarebbe stato quel potente e non illusorio ircocervo che è stato, se il suo vero atto di nascita culturale non fosse stato in quel dibattito, che si svolse tra fine 800 e primo 900, tra Antonio Labriola, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con il quale Marx entrò nella cultura italiana. Azzardo una ipotesi: una delle ragioni per le quali l’Italia non ha mai salutato la nascita di una socialdemocrazia è proprio in questo passaggio indicato, quanto mai decisivo: Marx non è entrato in Italia attraverso un Bernstein, come in Germania, pensatore che mobilitò il revisionismo riformista e socialista, ma attraverso la potenza di due “categorie” schiettamente legate a una filosofia della forza e del destino della storia: Materialismo storico, con Antonio Labriola; Marx filosofo del rovesciamento della prassi, con Giovanni Gentile, quest’ultimo considerato da Togliatti, ancora nel 1919, “il maestro delle nuove generazioni”. La cultura può avere un effetto dirompente sulla nascita delle formazioni storiche, e il dibattito che ho ricordato, lo ebbe sulla forma e sulla storia del PCI, e determinò largamente la sua originalità, unico partito comunista dell’Occidente governato da una grande e colta aristocrazia politica, non pochi dirigenti educati pure da Benedetto Croce; unico, arrivato alle soglie del governo, e con un ruolo decisivo nella storia d’Italia e nella sua cultura. Con Labriola fu introdotta la concezione materialistica della storia dotata di una raffinata “previsione morfologica” sul destino mondiale del comunismo; con Gentile entrò Marx filosofo della prassi, valorizzato al massimo con la traduzione delle marxiane “Tesi su Feuerbach” operata dallo stesso Gentile, che almeno in parte hanno orientato anche i “Quaderni” di Gramsci e l’insieme del dibattito italiano per lungo tempo. Croce, nel 1917, ripubblicando i suoi scritti su Marx, vide, nella idea di potenza e di genuinità della forza, il contributo decisivo che Marx aveva dato alla nuova elaborazione della politica, liberandola “dalle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità”. Dove poteva trovar spazio ideale una socialdemocrazia? Il partito nascente si liberò del comunismo di sinistra antibolscevico e antistalinista di Bordiga, e si collocò nella cultura di uno storicismo pensato nella prospettiva di un destino necessario, carico di influenze “idealistiche”. La filosofia della prassi di marca gentiliana operò, pure oltre i suoi rigetti ufficiali, inevitabili dopo le scelte politiche del filosofo, come una filosofia del rovesciamento della prassi, tema intorno al quale si svolse la discussione sul marxismo in Italia, oltre i nomi ricordati, fino a Giuseppe Capograssi e Rodolfo Mondolfo. Al centro del dibattito originario non fu “Il Capitale”, se non per la tesi neutralizzante di Benedetto Croce sul significato della teoria marxiana del “valore-lavoro”. Il partito che rinacque nel dopoguerra, con la guida di Togliatti, fu, insieme, stalinista nella visione del destino della storia e “ultra-culturale”, se così si può dire, nella centralità che diede al rapporto con gli intellettuali e a una elaborazione relativamente autonoma sul destino della rivoluzione in Occidente, soprattutto dopo la pubblicazione dei “Quaderni” di Gramsci. Un ircocervo, capace di contribuire alla elaborazione della costituzione e a una forma di governo costante della società italiana, ma che restò irrimediabilmente legato al destino dell’Unione sovietica, tanto che morì insieme ad essa dopo il 1989: simul stabunt, simul cadent, la sempre riaffermata e anche reale autonomia non aveva la forza per opporsi a questo destino. Qui ancora si rivelava qualcosa dell’atto di nascita del partito, spesso irriconoscibile sotto la spinta degli eventi: un materialismo storico dotato di un destino necessario che era nella vittoria mondiale del 1917, l’umanità finalmente liberata; e una filosofia della prassi che doveva, democraticamente, rovesciare il senso di continuità della storia. Ortodossa la visione generale, che impedì ogni vero distacco dall’Unione sovietica, seguendo i ritmi di quella storia, legando ad essa, solo qualche volta problematicamente, il suo destino; tutt’altro che ortodossa la prassi politico-parlamentare e il pensiero che le corrispose, secondo la doppia natura dell’ircocervo. E su questo punto va detto qualcosa di più, per completare quella che chiamerei la prima puntata di una riflessione. Mai il Pci fu una socialdemocrazia, mai penetrato dalla sua cultura; il suo “riformismo”, per quel che operò fortemente nella società italiana, voleva sempre essere “di struttura”, ossia capace di toccare la radice di un rovesciamento della prassi che nessuna socialdemocrazia aveva pensato di smuovere. La democrazia in occidente implicava la lotta per la conquista dell’egemonia, un gran principio innovatore della scienza politica fondata da Gramsci, onde anche l’enorme lavoro culturale e i dibattiti filosofici degli intellettuali legati in forme varie al partito, che formarono il ricco filone del marxismo italiano. Una egemonia che, vincente, avrebbe trasformato la democrazia in “democrazia progressiva”, verso comunismo realizzato, problema tutto da discutere, ma che faceva intravedere una difesa concettualmente strumentale delle istituzioni com’erano. Una “doppiezza” che non va criticata moralisticamente, dato che quella parola si definisce con una vera valenza storica, legata al destino previsto per la storia del mondo. Tema che aprirebbe un altro capitolo, rinviato, Direttore permettendo, a una seconda puntata.
La fine di un mondo. Maledetta Livorno: aveva ragione Turati, non Gramsci. Bobo Craxi, Riccardo Nencini su Il Riformista il 28 Novembre 2020. Il 21 gennaio del 1921, a Livorno, il Congresso del Partito Socialista si concluse con una scissione. La frazione comunista, guidata da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci, si staccò dal partito e fondò il Partito Comunista. “E quando avrete fatto il Partito Comunista Italiano, quando avrete impiantato i Soviet in Italia, se vorrete fare qualcosa che sia rivoluzionaria per davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, perché siete onesti, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe…”. Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del PSI, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi. C’è dell’altro da considerare. Il Congresso si tiene nel momento del fascismo nascente. La strage di Palazzo d’Accursio del novembre 1920, a Bologna, rappresenta l’aurora dello squadrismo armato. Eppure, a Livorno, solo in pochi si avvedono del cambio di passo. Matteotti, Vacirca, Turati. La corrente comunista giudica il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo. Anche Gramsci la pensa così. Siamo all’esordio di una storia nuova, terribile, e solo un pugno di delegati, tutti riformisti, ne ha piena contezza. Superfluo ricordare chi avesse ragione. Non fu una rottura ideologica, Turati continuava a professare e ad attuare una inclinazione marxista adattata ai tempi e alle condizioni del Paese ma assieme alla sua corrente “riformista” del PSI si differenziava nella valutazione dei processi che avrebbero condotto a maturazione la società socialista. E la sua fu una differenza radicale che condusse i riformisti, molto tardi nella Storia, ad avere ragione e gli scissionisti che generarono il Partito Comunista Italiano torto. Si contestavano tre punti essenziali: 1) l’uso della violenza 2) la dittatura del Proletariato 3) la coercizione del dissenso. In sintesi “il culto della violenza” eretto a prassi e dottrina politica, cultura che si è tramandata a lungo nella storia della sinistra italiana che prese le mosse dalla scissione del Partito Socialista a Livorno. La vecchia mentalità insurrezionalista, blanquista, giacobina che si era riaccesa durante la Prima guerra mondiale e che fu indiretta causa della illusione rivoluzionaria che causò la prevedibile reazione. (Non sappiamo giudicare se la cosiddetta “rivoluzione italiana” degli anni Novanta abbia prodotto il medesimo effetto, vista l’insorgenza di una robusta destra reazionaria ai giorni nostri: però qualche sospetto ci è venuto). Turati non poté che ribadire a Livorno nel 1921 il valore del riformismo e del gradualismo come metodo, di fronte a un mito, quello della Rivoluzione russa, destinato prima o poi a svanire come tutte le illusioni, e le sue solenne considerazioni rimangono scolpite come una delle più grandi profezie della Storia politica italiana. Le pagine della Storia devono essere rilette perché esse illuminino il futuro, d’altronde è cambiato il secolo, si è trasformata la politica e potremmo dichiarare definitivamente tramontata la stagione delle diatribe e delle divisioni nel campo della sinistra italiana. Tuttavia, se non fossero perdurati a lungo i miasmi della lunga stagione di divisione storica fra il socialismo democratico e il comunismo, in Italia si potrebbe affermare che da tempo la cosiddetta scissione di Livorno sta alle nostre spalle. La verità è che stanno alle nostre spalle le ragioni contemporanee che la produssero ma non le identità che da essa generarono quella scissione che fu un atto di nascita, quello del Comunismo italiano e la sua separazione dal Socialismo. E se lo strappo dal Comunismo mondiale, un minuto dopo e non un minuto prima che accadesse il drammatico decesso, vide la nascita di un’esperienza politica che ne cancellò le insegne, tuttavia non si sanò mai la frattura consumatasi all’interno del percorso materno che resta quello del Socialismo italiano. Rifiutata l’ipotesi del “ritorno al futuro” ovvero del ricongiungimento formale e sostanziale nell’alveo del Socialismo italiano, ciò che fu generato attraverso il mancato superamento e revisionismo della scissione comunista di Livorno fu una perpetua partenogenesi di organizzazioni e movimenti politici senza definita identità e per giunta progressivamente annacquati nell’alleanza e fusione con gruppi e movimenti non consanguinei della storia del Movimento operaio e socialista. Ora la questione che si pone nella sinistra democratica, che si definisce “riformista” nel mondo moderno, riguarda ancora questioni di fondo, di metodo e di prassi nella lotta politica e di interpretazione dei modelli di società, a maggior ragione oggi che nella società globale aggredita dal medesimo incubo pandemico si stagliano all’orizzonte delle esperienze che riecheggiano le mitologie dei primi del secolo scorso. Non è forse “comunista” la potenza che si è affacciata nel mondo con il suo dinamismo e approccio truffaldino, ovvero quel vero e proprio ircocervo ideologico che è rappresentato dalla sintesi cinese di un turbo-capitalismo liberista per giunta guidato dal partito unico e dal suo comitato centrale? E quale rapporto si intende instaurare con le nuove esperienze che non nascondono la propria identità “socialista”, che sono state decisive nella vittoria dei democratici americani, attardatisi negli anni a difendere fallimentari “terze vie” che avrebbero dovuto superare i modelli socialdemocratici e le virtù più che mai attuali della capacità dello stato di essere decisivo negli orientamenti economici, proprio in presenza di un’aggressiva e onnivora ondata capitalista? Affrontiamo quindi l’occasione della celebrazione della nascita del PCI come un’occasione di riflessione politica e ideologica opportuna, nel rispetto e nella considerazione che si deve a una forza politica che è stata essenziale nell’affermazione dei valori nazionali e nella costruzione della Repubblica italiana, che è stata tanta parte della sinistra e che orienta ancora a un secolo di distanza una fetta consistente del suo popolo, dei lavoratori e delle giovani generazioni. La sua attualità, oggi come allora, sta nell’essere argine al populismo e ai nuovi autoritarismi, purché non ne assuma, come è accaduto in diverse fasi della politica del Paese, delle sembianze spurie. Non diciamo che il vento del populismo che spazza l’Europa e le Americhe sia fascismo tour court. No. E però esso va combattuto con tenacia e determinazione correggendo anzitutto gli errori che anche la sinistra ha commesso al tramonto del secolo scorso. Pensiamo all’Italia. La vulgata che lo Stato fosse onnivoro non era una falsità, e però una cosa è limarne le unghie, altro è smantellare pezzi di sanità pubblica e svendere aziende di Stato in settori strategici come è stato fatto dalla Sinistra al Governo. Una cosa è tagliare sedi universitarie in eccesso, altro non scommettere fino in fondo su ricerca e istruzione. Una cosa infine è il rispetto della legalità, altro è l’esaltazione dell’arbitrio giudiziario senza garanzie per gli imputati e l’utilizzo sistematico delle vicende giudiziarie per annientare e umiliare l’avversario politico. Quel che serve oggi, tanto più di fronte all’emergenza da pandemia, è uno Stato umanizzato, un canone sì riformista, dunque quanto mai rivoluzionario, che corregga le distorsioni della globalizzazione guidata da multinazionali e alta finanza, che restituisca all’Europa il ruolo che ebbe al tempo dei pionieri perchè possa inserirsi a pieno titolo nella competizione mondiale arrecandovi i valori del suo canone secolare: libertà, welfare, conoscenza, che, infine, si preoccupi di creare ricchezza senza dimenticare la massa crescente e disperata degli ultimi. Padre di questa storia e di questo futuro è il Socialismo umanitario. Per questa ragione, da socialisti ribadiamo le attualità prevalenti del metodo riformista, e intendiamo continuare a riflettere assieme a tutti coloro che mantengono vivo l’ideale e l’obiettivo di una società più giusta, più libera, solidale e moderna e vogliono richiamarsi ai valori più alti di un Umanesimo socialista adatto ai nostri tempi di cui più che mai sentiamo il bisogno.
La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».
La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.
L'anniversario della nascita del Pci. Il problema non fu la scissione, ma i socialisti massimalisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Dicembre 2020. In vista del Centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia sono schierati ai nastri di partenza storici, saggisti, commentatori, testimoni, politici, pronti a rivisitare la storia di quello che fu il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (alla morte di quest’ultimo venne meno la “sacralità” del segretario generale) e che svolse – nel bene come nel male – un ruolo fondamentale nell’Italia del XX Secolo, non solo nella vita istituzionale, politica e amministrativa. La sua influenza condizionò la cultura, le arti, l’accademia, il sindacato, l’associazionismo, la magistratura e ogni espressione della società. La sua ideologia e la sua prassi orientarono milioni di concittadini che trovarono in quella militanza politica una ragione di lavoro, di vita e di speranza, riuscendo a formare e a selezionare gruppi dirigenti forgiati nello studio, nella lotta e nella disciplina. Eppure nello scenario politico attuale il Pci (questo è il nome che il Partito –ça va sans dire – assunse nel dopoguerra) ha avuto il medesimo destino di Atlantide: un continente scomparso senza lasciare traccia se non nel mito e nella leggenda. Quanti hanno vissuto quella storia – sia pure senza mai essere stati comunisti – non possono non provare un senso di smarrimento al cospetto della fine di un’epopea che non ha lasciato tracce di sé, i cui eredi hanno persino rifiutato di accettare un’eredità tanto gravosa, precipitandosi all’anagrafe della politica a cambiare le generalità. Il Pci, nonostante i giochi di parole delle “prese di distanza”, non ruppe mai con il sistema sovietico, se non quando l’Impero di Mosca, dopo il crollo del Muro di Berlino, si dissolse nel volger di pochi anni. Il partito seppellì il comunismo sotto le macerie e assunse un’altra identità, evitando accuratamente di rientrare nel filone del socialismo da cui era uscito nel 1921. La fine dell’Urss fu come la morte del dio di una religione laica, anch’essa corredata di dogmi, di teologia, di Sacre Scritture, di Santi, Martiri ed Eroi; persino di un catechismo atto a diffondere la dottrina tra le masse popolari. Il comunismo, nato dalla Rivoluzione d’Ottobre, come una Chiesa, condannò le eresie, catechizzò con la violenza intere popolazioni, promosse Concili, istituì la Santa Inquisizione per debellare le deviazioni, privò miliardi di persone della libertà in nome di una promessa di giustizia che non trovò mai posto sulla terra. Eppure, davanti alla miseria della politica e della sua classe dirigente di questa fase storica, anche gli avversari del Pci non possono che constatare – come il poeta davanti alla quercia caduta – «Or vedo era pur grande». Ma ci saranno tempo e occasioni per parlare del comunismo e del Pci; soprattutto argomenti. Con questo scritto vorrei dialogare con l’articolo degli amici e compagni Bobo Craxi e Riccardo Nencini, quando scrivono su Il Riformista: «Filippo Turati, il leader della corrente di minoranza del Psi, sconfitto ma non domo ammoniva i compagni della corrente “comunista unitaria” nel tumultuoso Congresso del 1921, e profetizzava che presto o tardi l’illusione di poter fare “come a Mosca” e trasferire la rivoluzione proletaria si sarebbe trasformata in una catastrofe proprio per coloro nel nome della quale essa si era compiuta, e che il Socialismo si sarebbe potuto inverare attraverso altre strade e altri mezzi». È vero la storia ha dato ragione a Turati («gli scorcioni non servono; la via lunga è anche la più breve, perché è la sola che esista»). Ma non al Psi del 1921, il partito che nell’ottobre del 1922, al Congresso di Roma, espulse la corrente riformista. Dopo la scissione (il pretesto fu trovato nella mancata espulsione dei riformisti in ossequio al diktat della III Internazionale) il PCd’I si rivelò, ben preso, una forza di minoranza. Pochi mesi dopo, nella competizione elettorale del 15 maggio 1921, il Psi ottenne 123 seggi (molti meno dei 156 delle elezioni del 1919), mentre il nuovo partito, nato a Livorno, elesse solo 15 deputati. Ma il dramma della sinistra non fu la scissione del gennaio 1921: Filippo Turati e Antonio Gramsci rappresentavano due minoranze di un Psi in mano ai massimalisti che fu il vero responsabile degli errori che in poco più di un anno aprirono – con la connivenza della Corona, dei poteri istituzionali ed economici – l’accesso al potere del Fascismo (nelle elezioni del 1919 il partito di Benito Mussolini si era presentato solo a Milano e non era riuscito a raggiungere neppure 5mila voti). Anche per la maggioranza del Psi il fascismo non era che «il fenomeno passeggero, il singulto della borghesia, la dimostrazione della crisi irreversibile del capitalismo». E l’obiettivo del «proletariato» in Italia era «fare come la Russia». Basta leggere il resoconto di quel Congresso (nel 1963 la Biblioteca socialista diretta da Lelio Basso pubblicò gli atti dei Congressi socialisti dal 1892 al 1937) che si svolse tra polemiche, contestazioni e interruzioni (Paul Ley nel suo saluto a nome del Partito socialista unificato tedesco affermo che ‘’l’unità del partito non è sempre un bene per il proletariato»). Il dibattito si concentrò subito (anche grazie ad una inversione dell’odg votata a maggioranza) sul punto 6) Indirizzo del Partito, Rapporti con l’Internazionale. Il Psi aveva chiesto l’adesione alla III Internazionale comunista e doveva quindi condividere i 21 punti che ne condizionavano l’accettazione. Tra questi il punto 7 obbligava i Partiti candidati «a riconoscere la completa rottura con il riformismo e con la politica di “centro” e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia politica comunista». Nel sollecitare «incondizionatamente e ultimativamente l’effettuazione di questa rottura – proseguiva il testo – l’Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori quali Turati, Modigliani, Kautsky (più un’altra seria di nomi, ndr) abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale». La frazione che si definiva dei “comunisti unitari” (ne facevano parte i maggiori leader massimalisti), non era determinata ad espellere i “concentrazionisti”, pur richiamandoli ad una più severa disciplina specie nel gruppo parlamentare (lo farà nel Congresso di Roma nell’ottobre 1922 poche settimane prima della Marcia fascista sulla Capitale). La mozione finale (a firma di Giacinto Menotti Serrati ed altri) riconfermava la «piena spontanea adesione alla III Internazionale» ed accettava i 21 punti intendendo che potessero essere interpretati «secondo le condizioni storiche e ambientali del paese’» e chiedendo perciò una sorta di esonero da Mosca. Per questi motivi Amedeo Bordiga (mozione comunista pura) prese la parola ed affermò che la maggioranza del Congresso si era posta fuori della III Internazionale; così invitava i delegati della frazione comunista ad abbandonare l’aula e a recarsi – al canto dell’Internazionale – nel Teatro San Marco dove sarebbe stato costituito il Partito comunista. Molto significativo, in proposito, l’intervento di Antonio Graziadei il quale rimproverò ai massimalisti di separarsi «dai più vicini per andare coi più lontani». Benché, dopo la vittoria socialista nelle elezioni amministrative, alcuni mesi prima a Bologna – il fatto è ricordato anche da Craxi e Nencini – fosse stato espugnato Palazzo d’Accursio ad opera delle squadracce fasciste, l’eco delle violenze, delle distruzioni delle Camere del Lavoro, delle sparatorie e delle spedizioni punitive, si avvertiva casualmente, a Livorno, all’interno di un dibattito di un partito impegnato a guardarsi l’ombelico e a cucirsi addosso un’ideologia che non gli apparteneva, ma i cui capisaldi erano già inseriti nel preambolo dello Statuto: la conquista violenta del potere politico e la dittatura del proletariato in vista della realizzazione del comunismo e della scomparsa delle classi sociali. Ma la sottovalutazione della minaccia fascista non era un limite della sinistra massimalista e comunista in Italia. Anche in Germania, il partito socialdemocratico – che diversamente dal Psi – era la colonna portante delle Repubblica di Weimar, il giorno prima di quello in cui Hitler ricevette l’incarico di formare il governo (30 gennaio 1933), aveva organizzato una grande manifestazione al grido di “Berlino è rossa”, mentre il giornale della socialdemocrazia, il Wortwars, scriveva: «La Germania non è l’Italia, Berlino non è Roma, Hitler non è Mussolini (questa considerazione, in senso inverso e a pelosa difesa del Duce, l’abbiamo sentita troppe volte da noi, ndr). Sbaglia di grosso – continuava il giornale – chi ritiene che qualcuno possa imporre un regime dittatoriale sulla nazione tedesca».
La ricostruzione del Pci. Togliatti, Gramsci e un’assenza: la svolta di Occhetto. Nino Bertoloni Meli su Il Riformista il 20 Novembre 2020. Articolo gentilmente concesso dalla rivista “Ytali”, diretta da Guido Moltedo. Complice il centenario della nascita del Pci (Pcd’I per la precisione) di qui a pochi mesi, è tutto un pullulare di studi, saggi e rievocazioni di quel 21 gennaio del 1921 destinato a segnare le sorti del Paese e di alcuni personaggi che quella storia segnarono e da quella storia furono segnati. A differenza che in altri Paesi, dove di comunisti e comunismo si è spenta ogni eco da tempo (chi si ricorda più di Marchais in Francia, di Carrillo in Spagna, o di Cunhal in Portogallo?) da noi la storia del Pci continua a produrre effetti, a segnare studi e attualità, se non è proprio viva, comunque non è morta. «Perché proprio in Italia nacque, continuò a crescere e produsse storia e politica il più grande Partito comunista dell’Occidente?», è l’interrogativo che si pongono Mario Pendinelli e Marcello Sorgi nel loro Quando c’erano i comunisti per i tipi di Marsilio. La risposta, l’asse attorno al quale ruota l’intero volume, è che da noi ci sono stati un certo Antonio Gramsci e un certo Palmiro Togliatti, più il primo che il secondo, ma comunque entrambi hanno segnato dapprima l’esistenza, quindi la resistenza e ancora dopo il radicamento nella società italiana, attraverso quell’arcinota e ultrastudiata interpretazione del marxismo completamente inserita nella storia e nella migliore tradizione del Paese (la triade De Sanctis, Croce, Labriola), facendo del Pci non tanto lo strumento per una presa del potere en attendent la fatidica ora X, ma un partito utile almeno a una buona parte della società italiana, perfettamente e sapientemente inserito nelle dinamiche politiche e sociali del Paese. Già, ma quale ruolo, quale strategia, quale gramscismo, infine, mettono in rilievo i due autori, giornalisti politici di lungo corso che nella maturità si cimentano con i temi della storia più che della cronaca, come accade sovente ai giornalisti di razza? Il primo capitolo del volume si intitola, a sorpresa, “Gramsci e il banchiere”. Oibò, non è che la vulgata del Pd, in parte erede di quella storia, come partito dei petrolieri, dei banchieri e di élite da ztl risale addirittura al fondatore? No no, il libro di Pendinelli e Sorgi apre con la descrizione dell’Ordine nuovo, il giornale fortemente voluto e diretto da Gramsci, le scale della cui redazione vengono percorse da personaggi che si chiamano Benedetto Croce, Piero Gobetti. E Raffaele Mattioli, il banchiere appunto, che aveva conosciuto il sardo Antonio rimanendone colpito come tanti altri, e che un ruolo di primo piano avrà in seguito nella salvaguardia dei Quaderni, assieme all’altro economista amico fraterno di Gramsci, Piero Sraffa. Mattioli impersona quel tipo di banchiere alfiere di un “capitalismo riformatore”, non rampante e men che meno selvaggio, un capitalismo umano e umanistico. Ne discende l’assunto del libro: quando i comunisti, al di là dell’ideologia, si sono cimentati con i problemi di riforma del capitalismo, anziché declamarne l’abbattimento salvo poi doverci fare i conti anche stando all’opposizione, allora la storia del Pci (e dell’Italia) ha offerto grandi sviluppi, importanti passaggi, si è riusciti insieme, capitalismo e finanza “buoni” assieme a quanti provenivano dal Pci, a tagliare le unghie al capitalismo “cattivo”, famelico, più rendita che investimenti, “l’anarco-capitalismo”, come lo chiamano i due autori. È la politica tenacemente perseguita da Ugo La Malfa che aveva orecchie attente e interlocutori a Botteghe Oscure in leader come Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano, e per altri versi anche in Alfredo Reichlin, per citare i più noti. Nel libro c’è anche dell’altro, ovviamente, molto altro. Ci sono i primi anni del Pcd’I strettamente intrecciati con Mosca e l’Internazionale da una parte, e l’avvento del socialista Mussolini, dall’altra. C’è Lenin in formato bunga bunga che nel treno che lo porta in Russia per poi scatenare la rivoluzione porta la moglie e anche l’amante, piombata anch’essa; lo stesso Lenin che ritroviamo poi bacchettone a stigmatizzare l’amore extra coniugale come «deviazione piccolo borghese». C’è Gramsci in formato latin lover, che sposa Giulia Schutz ma che si scopre essere andato a letto anche con la sorella Eugenia (altri storici gossipari giurano anche di una storia con Tatiana, la terza sorella Schutz che lo seguì in Italia fino alla fine). A coronamento del volume, la ripubblicazione dell’intervista di Pendinelli a Umberto Terracini, del 1981, che da sola vale un volume di Spriano. Ci sono poi le testimonianze degli eredi di Gramsci e Togliatti: Veltroni, D’Alema, Fassino, Zingaretti, Salvi, e anche Gentiloni. Balza agli occhi un’assenza vistosa: Achille Occhetto. La svolta della Bolognina, che chiuse il Pci per dar vita al Pds, non trova nel volume particolare trattazione. Alla svolta sono dedicate tre paginette, e per ribadire la nota tesi dalemiana del “grande coraggio” di Occhetto non accompagnato però da un’adeguata cultura politica, la Bolognina come atto di coraggio ma scarso di elaborazione. Eppure è là, in quel 12 novembre del 1989, a pochissimi giorni dalla caduta del Muro, che il Pci decise di sopravvivere, ma con una diversa cultura politica, che si lasciava alle spalle categorie quali la fuoriuscita dal capitalismo, lo scontro capitale-lavoro, il proporzionale come tabù da non infrangere, tralasciava l’alternativa di sistema per approdare alla più occidentale e perseguibile alternanza. Come poi è stato. E propedeutica a tutto questo, la svolta fu accompagnata da una significativa, e contrastata, de-togliattizzazione, proprio a sottolineare che il Pds si lasciava alle spalle tutto un bagaglio da alternativa di sistema. «Togliatti non ha più nulla da dirci», scandì Occhetto, raggelando i Natta, Ingrao, Iotti, D’Alema, Tortorella. Sicché forse è l’ora di ribaltare la vulgata della svolta coraggiosa ma fragile culturalmente: il coraggio che mancò fu quello di sbaraccare l’apparato, la vecchia nomenclatura resistente e conservatrice, mentre le basi culturali permisero ai comunisti italiani di affrontare il mare aperto seguito alla caduta del Muro (e del resto, quali elaborazioni più alte ci sono state dopo la Bolognina, al di là dei programmoni dell’Ulivo prima e dell’Unione dopo, paginate e paginate di elenchi della spesa?).
A spianare la strada furono i socialisti. Marcia su Roma, le responsabilità della sinistra nella presa di potere dei fascisti. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Il 28 ottobre 1922 fu la giornata della Marcia su Roma (“e dintorni” come Emilio Lussu volle intitolare il racconto di quell’evento). L’organizzazione paramilitare del fascismo – sotto la guida del cosiddetto quadrumvirato, costituito il 16 ottobre, composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi e stanziato a Perugia – iniziò a mobilitarsi il 27 con l’ordine di occupare le Prefetture, gli Uffici postali e telegrafici e le reti telefoniche. “L’esercito delle camicie nere” disponeva di un armamento raffazzonato e non sarebbe stato in grado di reggere uno scontro con le truppe regolari, scaglionate sulle strada di accesso alla Capitale agli ordini del comandante di quella piazza, il generale Pugliese. La mattina del 28 Luigi Facta (il presidente del “nutro fiducia”) portò al sovrano il decreto sulla proclamazione dello stato d’assedio, ma Vittorio Emanuele III non lo volle firmare; così le squadre fasciste entrarono indisturbate a Roma (vi furono tuttavia degli scontri nel Quartiere di San Lorenzo), mettendo a sacco le sedi sindacali, socialiste e comuniste. Nei giorni immediatamente successivi intervennero alcuni tentativi di mediazione, respinti da Mussolini; il Re decise allora di convocare il Duce per conferirgli l’incarico di formare il governo. Cosa che avvenne il 30 ottobre. Mussolini si presentò al Quirinale in camicia nera, scusandosi con il sovrano per non aver potuto indossare un abbigliamento più consono, in quanto – disse – “reduce dalla battaglia” (in verità Benito Mussolini, durante la parata delle sue squadre, si era ritirato a Milano, a un passo dalla Svizzera, dove intendeva rifugiarsi se l’avventura fosse fallita). Rivolgendosi al Re (quando era direttore dell’Avanti! lo definiva il signor Vittorio Savoia) affermò: «Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria e sono il fedele servo di Vostra Maestà». La Marcia su Roma fu l’epilogo di quello che gli storici definiscono il “biennio nero” (1921-1922), il periodo in cui cominciò a dilagare – incontrastata – la violenza fascista, con la complicità palese degli apparati dello Stato e il sostegno politico ed economico di ampi settori della borghesia, del mondo dell’impresa e dagli agrari. Il Partito socialista aveva sprecato la grande capacità di lotta che le masse operaie avevano espresso nel biennio precedente (“il biennio rosso”) culminato nell’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920. Il gruppo dirigente non era stato in grado di far valere, sul versante istituzionale, il grande successo elettorale ottenuto nel novembre 1919, quando per la prima volta si votò col suffragio universale riconosciuto a tutti gli uomini che avevano compiuto 21 anni o, se più giovani, partecipato al conflitto bellico. Gli iscritti alle liste elettorali erano passati da 8,6 milioni a più di 11 milioni. Le diverse componenti liberali ottennero 178 seggi contro i 310 del 1913; i socialisti massimalisti 156 seggi contro i 52 precedenti; i popolari – al primo cimento elettorale – 100 deputati (il PPI era stato fondato da don Sturzo nel gennaio 1919); 39 i radicali, 27 i socialisti riformisti, 20 gli ex combattenti e 9 i repubblicani. I fascisti si presentarono solo a Milano ma ottennero circa 5mila voti e non elessero alcun parlamentare. Dopo le elezioni amministrative del 1920 in occasione delle quali i socialisti conquistarono più di 2mila comuni (1600 i popolari), nella successiva competizione politica, svoltasi il 15 maggio 1921, già si poteva intravvedere l’inizio del declino del Psi che ottenne 123 seggi (vi era già stata all’inizio del 1921, al Congresso di Livorno, la scissione del Pc d’I che elesse 15 deputati), mentre i popolari guadagnarono 8 eletti in più. I fascisti conquistarono 35 seggi, 10 i nazionalisti (coalizzati nei cosiddetti blocchi nazionali insieme alle liste liberali). Questi risultati del voto sono la prova che il Pnf costituiva una minoranza del Paese e che solo la violenza dello squadrismo e la benevolenza dei poteri economici aprirono a questo partito le porte del potere. Ma enormi furono gli errori e gli ostacoli incontrati dai socialisti e dai popolari a presentarsi come una reale alternativa. Se i popolari dovettero fare i conti con la Chiesa cattolica interessata alla linea di conciliazione offerta da Mussolini e ovviamente ostile al “pericolo rosso”, i socialisti fecero tutto da sé (anche se è innegabile che le milizie fasciste avevano usato il pugno di ferro contro il Partito e la Cgl). A cominciare dalla richiesta di aderire alla III Internazionale. Il loro programma consisteva nel “fare come la Russia”, istituire la Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, socializzare i mezzi di produzione e di scambio e quant’altro passava il convento del “mito bolscevico”. Pertanto, nel nome della rivoluzione proletaria, veniva respinto, dalla maggioranza massimalista, ogni possibile intesa con altre forze. A testimonianza dell’impotenza settaria che esprimeva allora il Psi, basterebbe leggere gli atti del XIX Congresso nazionale svoltosi a Roma dall’1 al 4 ottobre 1922 (ossia poche settimane prima della Marcia su Roma) e prendere atto dell’ordine del giorno con cui era stato convocato: “Situazione interna del Partito e sua attività politica nel Paese e nel Parlamento. Appoggio a indirizzo di Governo e partecipazione al potere nell’attuale regime”. Ballando ormai sull’orlo del precipizio, i socialisti portarono a termine quella scissione che era nelle cose da tempo (che era stata evitata a Livorno e a Milano). I massimalisti decisero di espellere la corrente riformista e quella centrista in ossequio ai diktat della III Internazionale (“Il partito socialista, eliminato dal suo seno il blocco riformista-centrista, rinnova la sua adesione alla III Internazionale”). Gli esiti del voto (32mila per i massimalisti contro 29mila per gli unitari) spaccarono il Partito a metà. Il dibattito si caratterizzò per le accuse contro i riformisti (e i loro interventi di difesa). Le prime critiche vennero già nella relazione del segretario Fioritto, il quale attribuì agli avversari interni la responsabilità dell’insuccesso dello sciopero generale del 30 luglio (uno sciopero politico per chiedere alle autorità di contrastare le violenze fasciste): «I riformisti (il gruppo dirigente della CGL, ndr) proclamando tale sciopero all’inizio della crisi e sospendendolo alla sua conclusione e definendolo legalitario, lo avevano fatto apparire al proletariato come uno strascico montecitoriale, snervando le masse più accese». Dopo il segretario intervenne Giacinto Menotti Serrati: «Il nostro compito non è quello di aiutare la borghesia a risolvere la propria crisi, ma quello di trarre dalla crisi i vantaggi rivoluzionari». Per i riformisti Modigliani ironizzò: «Se i riformisti erano colpevoli di aver impedito la rivoluzione, non si sarebbe dovuto aspettare tanto tempo per espellerli». Poi, l’oratore in polemica con Serrati – come è scritto nei resoconti – negò l’esistenza di una crisi del sistema capitalista e borghese, sottolineando la necessità di distinguere fra ristretti gruppi plutocratici (…) e la borghesia democratica. Lazzari, poi, preconizzò che al Partito si apriva un campo d’azione nuovo e illimitato; deplorò l’autonomia del gruppo parlamentare chiedendo una severa punizione per i deputati che avevano trasgredito. I massimalisti criticavano, in particolare, Filippo Turati perché aveva accettato l’invito del sovrano a recarsi al Quirinale per consultazioni. A nulla servirono le argomentazioni di Claudio Treves, il quale smentì che i riformisti volessero cercare una collaborazione permanente con altre forze con le quali sarebbe stata tuttavia possibile una alleanza temporanea per “impedire che la reazione finisse per distruggere le conquiste e il patrimonio del proletariato”. Dopo Giacomo Matteotti, era di nuovo intervenuto Serrati sostenendo che «la logica del collaborazionismo avrebbe portato coloro che di esso si facevano fautori a collaborare col fascismo verso il quale andavano in quel momento le forze della borghesia». La mozione approvata riprendeva questo concetto e deliberava che «tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Psi». Il discorso di addio venne svolto da Filippo Turati: «Mentre noi ce ne andiamo rientra il comunismo». A Turati rispose Serrati: «Il discorso di Turati ha dimostrato quanto l’operazione fosse necessaria». La mattina del 4 ottobre i riformisti si riunirono e fondarono il PSU, eleggendo segretario Giacomo Matteotti; intanto, il XIX Congresso proseguiva all’insegna del delirio e del compiacimento per la pur tardiva “operazione chirurgica”, avendo la “malattia trascurata per un biennio provocato un danno incalcolabile all’organismo del Partito”. Nel prosieguo del dibattito Giacinto Menotti Serrati fece notare – è scritto nel resoconto – che, indipendentemente dalla pressione reazionaria (tanti municipi governati dai socialisti erano stati attaccati e distrutti, ndr) il Partito non poteva più condividere le responsabilità politiche dei Comuni con i partiti estranei». Per quanto riguardava il sindacato, i Comitati sindacali socialisti erano invitati a portare avanti politiche «per le quali il concetto di classe e di espropriazione economica e politica delle classi dominanti devono essere preminenti». Pochi giorni dopo la Marcia su Roma Menotti partì per partecipare al IV Congresso dell’Internazionale comunista che iniziò a Pietroburgo il 5 novembre.
Lo Stato etico di Gentile è anche un po' socialista. Nel suo testamento spirituale del 1943 il filosofo colloca la collettività davanti all'individuo. Corrado Ocone, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Due belle notizie in una: riprende l'attività la storica casa editrice Vallecchi e subito esce per i suoi tipi la nuova edizione di una delle più importanti opere della filosofia italiana del Novecento: Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, di Giovanni Gentile (pagg. 262, euro 18, introduzione di Marcello Veneziani). Diciamo subito che si tratta di un'opera molto particolare, per più motivi: prima di tutto perché segna per Gentile un ritorno alla speculazione dopo vent'anni di impegno soprattutto politico-culturale; poi perché, per molti aspetti, essa rivolta il senso del suo sistema di pensiero «neoidealistico», così come era andato delineandosi soprattutto nei due primi decenni del secolo. Inoltre perché, giungendo alla fine della sua vita, essa suona quasi come un testamento, e anzi come tale fu scritto, quasi di getto, a Tonghi, presso Firenze, da un Gentile che presagiva la morte. Era il 1943 e il filosofo, che sarebbe stato ucciso da un agguato partigiano il 15 aprile dell'anno successivo, si mise a lavorare per scrivere l'opera subito dopo aver pronunciato a fine giugno un lirico Discorso agli italiani in Campidoglio. In esso, egli proponeva una conciliazione nazionale in grado di far ripartire il Paese dopo la guerra civile che lo stava spaccando in due. A Mario Manlio Rossi, un suo allievo antifascista e che da filosofo farà una strana carriera in Scozia nel dopoguerra come docente di letteratura italiana, Gentile, mostrando il manoscritto finito dell'opera, così disse: «i vostri amici possono uccidermi ora se vogliono, il mio lavoro nella vita è concluso». Quale sia la novità di Genesi e struttura della società è presto detto: l'emersione della comunità all'interno di un pensiero che, per come era stato elaborato, poteva subire facilmente torsioni individualistiche. Se è infatti evidente che l'individuo idealistico non è quello empirico, è pur vero che è nell'uomo concreto in carne e ossa che si consuma tutto il dramma di un Atto puro che, come il fuoco, consuma il combustibile che gli viene dato e trascende sempre le pratiche realizzazioni umane. Ne consegue che, per paradossale che possa sembrare, l'attualismo di Gentile è un «idealismo senza idee», come ebbe a definirlo Vittorio Mathieu, e quindi è molto prossimo al nichilismo e al relativismo. Con questa prospettiva, veniva però a contrastare tutta l'esperienza fascista, e in fondo la stessa voce di Gentile all'interno di essa. Il nazionalismo, l'appello allo Stato etico, l'organicismo, tutti quelli che erano gli elementi essenziali a cui, non senza contrasto con le altre anime del regime, il filosofo di Castelvetrano aveva praticamente aderito, trovano ora una giustificazione teoretica, ma anche una rivisitazione critica. Si fa perciò ancora più forte il distacco di Gentile dal liberalismo, da quella che lui considera hegelianamente una visione atomistica e astratta della società umana. Il «noi» precede l'«io», e l'individuo è un risultato e non un dato. Ed emergono con ancora più nettezza i caratteri del regime politico ideale come Stato etico. Uno Stato, cioè, con una propria religione, un insieme forte di valori da trasmettere ai singoli pedagogicamente e paternalisticamente. È uno Stato e una comunità in interiore homine, certo, quella a cui pensa Gentile, ma l'insistenza sui valori sociali avvicina ora veramente il suo pensiero a quello socialista. D'altronde, il Duce stesso, che egli fino all'ultimo non volle tradire, si ricongiungeva in qualche modo, con l'esperienza di Salò, alle sue origini. In questa direzione teoricamente raffinata e socialisteggiante va anche l'insistenza, in Genesi e struttura della società, su un «umanesimo del lavoro» che deve affiancare quello della cultura che gli italiani elaborarono già in epoca rinascimentale. Comunque sia, la radicalità e la profondità di questo pensatore, di cui pure tanto non condividiamo, ci fa toccare con mano in modo impietoso il deserto culturale dei nostri tempi e la decadenza delle classi dirigenti della nostra povera Italia.
Nel settembre di 50 anni fa. Settembre 1920, quando la rivoluzione fu messa ai voti e perse…Giuliano Cazzola Il Riformista il 14 Settembre 2020. Può essere che mi sia sfuggita qualche rievocazione importante. È possibile che il virus abbia determinato amnesie nella memoria collettiva di una nazione, in particolare nel popolo disorientato e confuso della sinistra (sarebbe bene cominciare ad usare il plurale come si fa con le destre). Il fatto però è evidente: nel settembre di cento anni fa (il 1920) aveva luogo l’episodio culminante del “biennio rosso”: l’occupazione delle fabbriche. Nell’introduzione del saggio “L’occupazione delle fabbriche” (Einaudi), dedicato a quell’evento, Paolo Spriano – lo storico ufficioso del Pci – scrive: «Enorme fu l’emozione che esso produsse in tutto il Paese e non solo allora (Antonio Gramsci, in una nota dal carcere, si riferì all’episodio parlando della “grande paura”, ndr): chè, dopo decenni, l’occupazione delle fabbriche è ancora un richiamo obbligato nella vita sociale e politica italiana». Spriano esprimeva quest’auspicio nell’aprile del 1964. Da allora è trascorso un lasso di tempo molto lungo, ma non abbastanza per stendere, come è accaduto, un velo di oblio su di un pezzo di storia del movimento operaio.
Il “biennio rosso’’. Gli anni 1919-1920 furono definiti “il biennio rosso”, quando si accesero le speranze di “fare come la Russia”, dove erano in corso la rivoluzione dei soviet e la guerra civile. La Grande Guerra era finita da poco e aveva prodotto, oltre alla “inutile strage”, enormi sommovimenti politici e sociali. Nel febbraio del 1919 gli operai metallurgici avevano conquistate le “otto ore”, mentre sul piano politico, nelle elezioni generali, il Psi (forte di 200mila iscritti) aveva eletto 156 deputati alla Camera (affermandosi come il partito di maggioranza relativa). La Confederazione del Lavoro (Cgl) contava poco meno di due milioni di iscritti, di cui più della metà erano operai dell’industria (solo per ricordare le federazioni più importanti: 200mila edili, 160mila metallurgici, 155mila tessili, 60mila statali, 50mila impiegati privati e quant’altro). Sarebbe come sparare sulla Croce rossa, far notare che, nelle confederazioni di oggi, la metà degli iscritti sono pensionati. Ma la Confederazione “rossa” non era l’unico sindacato esistente e attivo. L’Usi – di ispirazione anarco-sindacalista – contava 300mila iscritti, mentre il “sindacato bianco”, la Confederazione italiana del lavoro (Cil), era forte soprattutto nelle campagne dove aveva l’80% dei 1,8 milioni di iscritti complessivi: uno dei suoi principali leader, Guido Miglioli, era definito il “bolsevico bianco”. Vi erano poi formazioni repubblicane in Romagna; il sindacato ferrovieri, autonomo dalla Cgl, con 200mila iscritti. Oltre ai tessili dove era forte la presenza di lavoratrici, il sindacato più importante era sicuramente la Fiom, diretta da Bruno Buozzi. La forza di questo sindacato, scrive Spriano, stava nel fatto che “le sue direttive venivano accolte ed osservate dalla grande maggioranza delle maestranze”. La federazione, attiva già nei primi anni del XX secolo, si “era fatta le ossa’’ durante la guerra, aumentando il suo potere contrattuale. Buozzi e i principali dirigenti, anche a livello periferico, erano socialisti riformisti (come del resto quelli della confederazione). Secondo l’autore, queste persone avevano una «concezione di grande rigidità che fa[ceva] della organizzazione centralizzata, della disciplina all’autorità del sindacato e al suo potere contrattuale una sorta di feticcio». Nella loro esperienza questi sindacalisti avevano visto e combattuto i guasti provocati del sindacalismo rivoluzionario nelle lotte di una decina di anni prima e avevano incanalato il movimento lungo un percorso strettamente attinente al negoziato delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro. Secondo Spriano – nelle sue parole si avverte un giudizio politico critico – quel gruppo dirigente non vedeva con favore la nascita di strutture consiliari a cui venivano contrapposte le commissioni interne (istituite dall’accordo Itala-Fiom del 1906); su questo tema vi era disaccordo con i torinesi di “Ordine nuovo’’ (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Umberto Terracini e altri) per i quali “il consiglio di fabbrica’’ era “il modello dello Stato proletario’’. Sul piano politico i leader sindacali non condividevano la linea della maggioranza massimalista del Psi (che guardava all’esperienza sovietica e si poneva come obiettivi l’istituzione della Repubblica socialista, la dittatura del proletariato e la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio). Da socialisti riformisti aspiravano «ad una collocazione diversa delle masse operaie e delle loro legittime rappresentanze nel quadro dello Stato democratico» nonché «ad una organizzazione produttiva che rispecchi il peso accresciuto di queste masse nell’economia del Paese». La conflittualità era molto elevata. Oltre al problema dei salari, del cosiddetto carovita (ci furono dei saccheggi nei negozi e nei mercati come reazione all’aumento dei prezzi), erano in corso processi di riconversione industriale post-bellica che provocavano un crescente livello di disoccupazione (in assenza di qualsiasi forma di tutela del reddito). In tutto il 1919 (ricorda Massimo L. Salvadori nella sua “Storia d’Italia’’) si ebbero 1663 scioperi nell’industria e 208 nell’agricoltura con un perdita complessiva di 22 milioni di giornate di lavoro. In agricoltura dopo una durissima lotta dei braccianti durata per mesi, i sindacati avevano ottenuto, con grande disappunto degli agrari, il cosiddetto imponibile di manodopera che costringeva i padroni a negoziare gli organici. Nel 1920 il numero degli scioperi superò i 2 mila.
L’occupazione delle fabbriche. Scrive Salvadori che a metà agosto del 1920 «maturò una situazione destinata a procurare un confronto durissimo fra il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Lo scontro – continua lo storico affrontando il nodo cruciale di quella fase – mise a nudo “tutto il velleitarismo e l’inconsistenza del massimalismo del Partito socialista», il quale, mentre propagandava tra le masse una vaga prospettiva rivoluzionaria, non avendo la capacità di prenderne la direzione, «faceva al tempo stesso montare nella borghesia una volontà controrivoluzionaria e inclinazioni autoritarie». La situazione precipitò quando, rotte le trattative contrattuali, la Fiom proclamò lo sciopero bianco ovvero una sorta di boicottaggio della produzione a cui gli industriali risposero, man mano, con la serrata. Si aprì una sorta di processo di botta e risposta tra serrata e occupazione delle fabbriche, fino a quando la Fiom impartì una indicazione di carattere generale in tal senso. Così l’occupazione, iniziata all’Alfa Romeo a Milano, si estese a tutto il triangolo industriale – e non solo tra i metalmeccanici – arrivando a coinvolgere 500mila lavoratori. Gli operai si misero a gestire in proprio la produzione e approntarono una forma di difesa militare armata delle fabbriche, affidata alle cosiddette Guardie rosse. Il loro inno di battaglia iniziava così: «All’appello di Mosca, plotoni roventi, sotto il rosso vessillo dei soviet di Lenin…..». Il Partito socialista si trovò a dover gestire una situazione che in pochi giorni si era aggravata e poteva sfuggire di mano da un momento all’altro. I più radicali tra i massimalisti vedevano in quel movimento, che si era diffuso inaspettatamente e in breve, l’anticipo di un processo rivoluzionario, mentre i riformisti, con i sindacalisti in prima fila, sostenevano che era necessario riportare e mantenere gli obiettivi della lotta su di un piano sindacale. La riunione decisiva si svolse la sera del 10 settembre (giusto un secolo fa) e vi parteciparono le Direzioni del Partito e della Cgl. Nel suo saggio, Spriano cita un brano dell’intervento di Ludovico D’Aragona, il segretario generale della Confederazione: «Voi credete (rivolgendosi ai massimalisti, ndr) che questo sia il momento di far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio vi diciamo che ci ritiriamo e che diamo le dimissioni….prendete voi la direzione del movimento». «A questo punto», afferma Spriano, «tutti i membri della Direzione sono d’accordo nel ritenere che senza gli uomini della Cgl alla testa delle masse» il “grande salto” non si poteva fare. Così, l’ordine del giorno, presentato da D’Aragona, prevalse nella votazione finale. Spriano commenta questo esito in modo drammaticamente ironico: «La rivoluzione è respinta a maggioranza». Un altro protagonista di quella fase fu il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il quale adottò una linea attendista rifiutando – benché sollecitato – di impiegare la forza pubblica a sostegno degli industriali. Anzi, impartì, come ministro degli Affari interni, ordini precisi e rigorosi di moderazione «Anche di fronte all’impiego di armi da parte della folla». Paolo Spriano, in proposito, cita il testo di un telegramma inviato da Giolitti l’11 settembre al Prefetto di Milano, nel quale lo invitava a persuadere gli industriali che «nessuno governo in Italia farà uso della forza, provocando certamente una rivoluzione, per far risparmiare loro qualche somma». E aggiungeva: «Uso della forza significherebbe almeno la rovina delle fabbriche». Si racconta che al sen. Giovanni Agnelli il quale premeva perchè “l’uomo di Dronero” facesse intervenire l’esercito per sgombrare le fabbriche, il presidente rispondesse: «Bene. Comincerò a prendere a cannonate la Fiat». Quando maturò il momento della mediazione Giolitti convocò le parti a Roma, il 19 settembre. Dopo sei ore di discussione fu raggiunta un’intesa molto favorevole per la Fiom: 4 lire di aumento al giorno, minimi di paga, caroviveri, maggiorazioni per il lavoro straordinario, sei giorni di ferie annuali, indennità di licenziamento. Per convincere gli industriali a cedere, Giolitti minacciò di emanare un decreto per istituire il “controllo sindacale” delle aziende. L’accordo sottoscritto fu sottoposto e approvato in un referendum dai lavoratori.
Il biennio nero. «Dopo l’occupazione delle fabbriche, le masse sindacali sentivano confusamente di essere state sconfitte – Spriano cita così un commento del tempo – ma non vedevano chiaramente né come né da chi». Salvadori sottolinea che l’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo alla linea politica di Giolitti che si era procurato l’ostilità degli industriali; rappresentò una inesorabile dèbacle del Partito socialista; inasprì ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il fascismo si sviluppò e prese rapidamente quota. si intensificarono le violenze, gli assalti alle Camere del Lavoro, alle cooperative, alle sedi e ai giornali socialisti (la sede dell’Avanti! venne devastata più volte). Cominciarono a nascere nuovi sindacati fascisti che imponevano con la forza i loro contratti favorevoli ai padroni. Gli iscritti al Fascio – citiamo sempre Salvadori – passarono dai 20mila della fine del 1920 a 200mila a metà dell’anno dopo. Filippo Turati aveva predetto che il rivoluzionarismo inconcludente avrebbe avuto come unico effetto di scatenare la violenza degli avversari. Pietro Nenni trovò, in un breve saggio, una definizione – “Il diciannovismo” – per quel complesso di vicende politiche che avrebbero portato in breve tempo alla sconfitta della classe lavoratrice e al fascismo. In quel saggio, il grande leader socialista, con riferimento alla linea di condotta della sinistra, ricordava una frase di Saint-Just: «Chi fa la rivoluzione a metà, si scava la fossa». In Italia, la rivoluzione era stata persino messa ai voti.
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
Un vero revisionista. Vide per primo le origini socialiste del fascismo. Morto il grande storico israeliano: studiò (da sinistra) la destra rivoluzionaria. Marco Gervasoni, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Qualcuno ha osato chiamare i distruttori di statue, « revisionisti». Non sappiamo cosa ne pensasse il grande storico Zeev Sternhell, morto ieri a Gerusalemme ma crediamo che, pur essendo un uomo di sinistra, sarebbe inorridito. Nato in Polonia nel 1935 ma trasferitosi prima in Francia e poi nel '51 in Israele, apparteneva infatti alla generazione dei revisionisti veri, quella di Renzo De Felice, di Ernst Nolte, di François Furet i quali, pur di qualche anno più anziani, ci hanno fatto capire il fascismo collocandolo nella storia non solo dell'Italia ma dell'Europa. E anche se si trovavano su posizioni politiche diversissime - conservatori De Felice e Nolte, liberale Furet, sinistra laburista Sternhell - ciò non ha impedito di intrecciare le loro ricerche in modo proficuo; lo storico non è un militante politico, o almeno non lo dovrebbe essere quando scrive Storia, un aspetto dimenticato da molti delle generazioni successive. Se infatti oggi possiamo pensare di conoscere meglio il fascismo, fenomeno non solo italiano ma europeo, lo dobbiamo proprio a Zeev Sternhell. Il suo primo libro, una tesi di dottorato all'Institut d'études politiques di Parigi, fu Maurice Barrès et le nationalisme francais (1972) ancora oggi fondamentale per capire lo scrittore nazionalista, ispiratore tra gli altri di De Gaulle. In nuce vi troviamo le tesi delle due opere storiche maggiori di Sternhell: La droite révolutionnaire, del 1978 (trad. Corbaccio, 1997) e Ni droite in gauche. Les origines françaises du fascisme del 1983 (tradotta da Akropolis nell'84 e poi da Baldini e Castoldi nel '97). Anche se De Felice, sulla scorta delle intuizioni di Augusto del Noce, aveva già collocato il fascismo all'interno di una tradizione di sinistra, figlio del giacobinismo e della Rivoluzione francese, Sternhell si spinge più lontano: pensa che il fascismo, quello francese, ma anche quello italiano, siano nati da un'evoluzione della cultura politica socialista. Ciò dovette costare non poco a Sternhell, già da allora membro del Partito laburista israeliano; anche se per lui non era stato il socialismo nella sua integralità a generare il fascismo, ma unicamente quello rivoluzionario critico del marxismo. Nei due volumi citati, Sternhell avanza poi una tesi ancora più radicale; che, contrariamente alla vulgata, sarebbe esistito un fascismo francese autoctono, già definitosi prima del 1914, a cui poi quello italiano si sarebbe ispirato. Sternhell traccia infine la genealogia storica di una destra rivoluzionaria, che in nome della nazione intende abbattere l'ordine borghese: una destra i cui più eminenti rappresentanti venivano dalla sinistra, irrorando così sangue nuovo in un campo conservatore esangue. Destra e sinistra rivoluzionarie si sarebbero poi fuse nel fascismo in nome del superamento delle due categorie; né destra né sinistra, appunto. Delle tre, oggi ci sembra più resistente la tesi di un fascismo francese come fenomeno originale, negli anni tra le due guerre. Allo stesso modo ci appare ancora plausibile l'interpretazione di un fascismo da inquadrare nella storia della sinistra. Infine, nessun studioso della destra, e non solo francese, oggi potrebbe rinunciare alla categoria di «destra rivoluzionaria». Più caduche invece ci appaiono altre conclusioni di Sternhell, in particolare quella della primogenitura prebellica francese del fascismo: senza la Grande guerra, lo schiaffo degli «alleati» all'Italia a Versailles e le violenze bolsceviche nel biennio rosso, non sarebbe mai nato il fascismo in Italia. E quindi non si sarebbe espanso neanche altrove, neppure in Francia. Ciò non toglie che i due libri citati di Sternhell restino dei classici contemporanei. Quelli successivi, Nascita di Israele (Baldini e Castoldi, 1999) e Contro l'illuminismo: dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini e Castoldi, 2007), sono a nostro avviso poco riusciti. Nel primo, il tentativo di applicare la ricetta sternhelliana a Israele (sinistra più nazionalismo più attivismo uguale fascismo) con la condanna delle origini di Israele, nel cui esercito pure Sternhell servì più volte da valoroso militare, è stato duramente criticato. Così come lo sforzo di cercare le origini del fascismo nell'anti-illuminismo, a cominciare da Edmund Burke e da Johann Gottfried Herder, descritti alla stregua di ispiratori futuri di Mussolini e Hitler, è subito apparso piuttosto debole. Probabilmente Sternhell ha cercato di conciliare per tutta la sua vita marxismo, illuminismo, socialismo, tre fenomeni intellettuali-politici non sempre sovrapponibili e in alcuni momenti in contrasto tra loro. Ma anche in ragione del metodo storiografico scelto: diversamente da De Felice, non era un frequentatore di archivi, e come Nolte e Furet si poteva definire uno storico delle idee. Ma rispetto ai tre suoi maggiori di età, era meno attento al concreto e al contingente nella storia, che Sternhell tendeva a leggere secondo il lungo dispiegarsi delle culture politiche, senza considerare il fattore individuale e personale: frutto, questo, più del suo marxismo, di un illuminismo razionalistico. Ma sono inezie: ieri è scomparso un grande storico e chi vuole comprendere il '900 dovrà continuare a leggerlo ancora per lungo tempo. E a comportarsi da revisionista, ma in senso vero, di chi studia e non di chi abbatte i monumenti.
Dino Messina per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2020. L'Alba nera del fascismo, che dà il titolo al bel volume di Antonio Carioti (Solferino) con prefazione di Sergio Romano, presenta in realtà forti striature di rosso. A cominciare dalle origini famigliari e dai primi passi politici del futuro Duce. Fedele al credo socialista del padre Alessandro, fabbro a Dovia di Predappio, Benito Mussolini si affina nelle frequentazioni giovanili in Svizzera dell' esule russa Angelica Balabanoff, per seguire una carriera di militante che, dalla direzione di fogli di provincia e dalla collaborazione al periodico «La Folla» di Paolo Valera, lo porterà nel 1912 alla guida dell'«Avanti!». Un biennio di militanza intensa che si concluderà a fine ottobre 1914 sotto la spinta dei cambiamenti portati dalla guerra mondiale. Il suo ultimo articolo, che lo distacca dal neutralismo socialista, si intitola Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante. È il salto verso l'interventismo e verso la direzione del «Popolo d' Italia», fondato il 15 novembre 1914. La guerra trasformerà l' Europa. E anche Mussolini non sarà lo stesso: il 15 dicembre 1917 pubblica il fondo Trincerocrazia , che «candida i reduci a classe dirigente del domani, forgiata dalla prova delle armi». E il 10 novembre dell' anno successivo, dopo Vittorio Veneto, così il futuro Duce arringa gli arditi in piazza Cinque Giornate a Milano: «Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia». Sembra l' atto conclusivo del passaggio al nazionalismo e alla destra più retriva. Invece non è così: il programma della riunione che è l' atto iniziale del fascismo, l'assemblea di piazza San Sepolcro a Milano del 23 marzo 1919, oltre a esaltare la guerra, il nazionalismo e l'antibolscevismo, prevede il voto ai diciottenni e alle donne, l'abolizione del Senato di nomina regia, la compartecipazione dei dipendenti nella gestione delle industrie, un prelievo fiscale sui grandi capitali, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi. Si rimane stupiti anche a leggere l'elenco dei partecipanti alla riunione di piazza San Sepolcro: oltre ai figuri che si macchieranno cinque anni dopo dell'uccisione di Giacomo Matteotti, a intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti, a esponenti degli arditi e a futuri dirigenti del Pnf, troviamo personaggi inattesi come Ernesto Rossi, il futuro antifascista di Giustizia e Libertà (che aderì da Firenze, ma non fu presente a Milano), ebrei come Piero Jacchia, Riccardo Luzzatto ed Eucardio Momigliano. C'è da aggiungere inoltre che San Sepolcro, tanto mitizzato ex post dal regime, è un episodio passato quasi in sordina in quel tumultuoso 1919, che vede al centro dell' attenzione il trattato di pace (con i dolori italiani per «la vittoria mutilata») e l' impresa a Fiume di Gabriele d' Annunzio. Il racconto di Carioti, che analizza i fatti dal 23 marzo 1919 al 28 ottobre 1922, data della marcia su Roma, è avvincente e non è mai scontato. La narrazione, per chi vuole immergersi completamente nell' atmosfera dell' epoca, rimanda nei punti cruciali a un'appendice con i documenti e gli articoli del periodo, tanti firmati da Mussolini, che a detta dei seguaci, ma anche di molti avversari, fu un genio della comunicazione. Dopo il racconto dei fatti, le interviste agli storici Simona Colarizi, Alessandra Tarquini, Fabio Fabbri e al politologo Marco Tarchi, offrono un quadro delle interpretazioni sui nodi storici del fascismo, come la questione dei ceti medi, le connivenze dello Stato con la violenza squadrista, le differenze con il nazismo e le composite origini culturali riassunte da Zeev Sternhell, lo studioso israeliano che ha influenzato il nostro Renzo De Felice, nello slogan «né destra né sinistra». Nella lunga crisi di un dopoguerra che vede impoverirsi le classi popolari e aumentare le insicurezze dei ceti medi, il fascismo alimenta le violenze con gli attacchi alle sedi dei giornali e delle organizzazioni dei lavoratori protagonisti del «biennio rosso». I vari ras delle province, Italo Balbo a Ferrara, Dino Grandi e Leandro Arpinati a Bologna, Giuseppe Caradonna in Puglia, si mettono alla testa della reazione violenta, interpretando la voglia di rivincita dei possidenti agrari e giocando con le insicurezze del ceto medio urbano. Nello stesso tempo, dopo aver seminato odio e morte, il movimento fascista si presenta come garante dell' ordine. Una veste di normalizzatore che inganna agli inizi anche liberali come Luigi Albertini e Benedetto Croce. Mussolini è abile nell' incanalare politicamente la violenza. Un gioco che gli riesce anche grazie alle incertezze della vecchia classe politica e alla codardia del monarca, che non firma il decreto sullo stato d' assedio presentatogli da Luigi Facta la mattina del 28 ottobre 1922. Gli squadristi della marcia su Roma, che potevano essere facilmente dispersi, hanno vinto. Mussolini il 30 ottobre riceve l' incarico di formare il governo.
Milano, il Benito socialista in otto rarissimi filmati. I video-documenti in Rete da oggi mostrano il leader spesso "al naturale", senza pose studiate. Simone Finotti, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. È un Duce fuori Luce ma perfettamente immerso nella macchina da presa, unico fra gli astanti a fissare la camera con consapevolezza acuta e profonda, fiutando la potenza della nascente comunicazione di massa. Lo nota Antonio Scurati, vincitore del 73° Strega con M. Il figlio del secolo (Bompiani, 2018), che introduce così la straordinaria antologia di otto rarissimi filmati riemersi dagli archivi di Fondazione Cineteca Italiana, e disponibili in streaming dal 17 giugno con il titolo Il Duce fuori Luce (sulla piattaforma dedicata del sito cinetecamilano.it, in modalità Premium, 5 euro). Niente immagini e rappresentazioni ufficiali, niente pose studiate o esibizioni muscolari di quelle affidate all'epoca all'Istituto Luce, longa manus cine-fotografica della propaganda di regime: è un Mussolini spesso inquadrato a sua insaputa, da angolazioni mai viste, in riprese semi-artigianali che per quasi un secolo sono rimaste nell'ombra. Non aspettiamoci cedimenti: anche senza «sole in fronte» resta pur sempre l'uomo d'azione che guida le adunate accanto ai «lavoratori del braccio e del pensiero»; il granitico oratore, il giornalista picconatore dello Stato liberale che vediamo all'opera nel suo Covo di Via Paolo da Cannobio, l'ufficio dove prendevano vita gli strali veementi del Popolo d'Italia, che prepararono e accompagnarono l'ascesa dei Fasci di combattimento. Il corto propagandistico Il covo (Minerva film, 12 minuti, con sonoro), tra i più interessanti della silloge, è di Vittorio Carpignano, data 1941 e testimonia le origini milanesi del movimento, nell'humus dei sentimenti irredentisti del primo dopoguerra. Sullo sfondo di una città brumosa e ferita, si esalta il passaggio «sugli uomini e sugli spiriti disorientati» di una «voce nuova, traboccante di fede e volontà assoluta», pronta a «farsi idea e diventare storia». Il vecchio e il nuovo a confronto, la vittoria tradita lascerà spazio a un trionfo pieno e completo. Lo stretto rapporto con Milano è ben testimoniato, visto che quasi tutti i filmati sono stati girati qui; arrivano dall'ampia riserva di cinema amatoriale e documentario che accompagna tutta la vicenda storica del Fascismo, dalla conquista del potere agli anni del massimo consenso e dell'Impero. Dalla fascinazione (fuori tempo massimo) per il dominio universale all'idea (al contrario, lungimirante) di dotare la città di un planetario il passo non fu lungo, e molto del merito va ascritto all'editore Ulrico Hoepli, pronto a finanziarne la costruzione, e al geniale architetto Piero Portaluppi, che lo progettò. E così, il 20 maggio del 1930, ecco un Duce in alta uniforme e fez, affiancato dal podestà Visconti di Modrone, sbucare dalle colonne ioniche dell'edificio appena inaugurato e immergersi nel verde di Porta Venezia. È un breve filmato anonimo (appena 3 minuti, con belle musiche di Francesca Badalini), che mostra anche una parata del 1936 in piazzale Cordusio, a pochi passi dal Circolo dell'Alleanza Industriale di Piazza San Sepolcro dove nel 1919 vennero fondati i Fasci. In un altro anonimo di appena 4 minuti, piazza Duomo si prepara ad accogliere una visita nel 1934. Scene simili in una ripresa dall'archivio della famiglia Castagna, che nel finale strappa anche qualche fotogramma dell'arrivo del Duce, sulla classica auto scoperta, e della sua salita sul palco per arringare la folla. Gli 11 minuti di «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza» (con l'adunata milanese del marzo 1922, a pochi mesi dalla marcia su Roma) celebrano gli inizi, freschi, vigorosi ed energici: Mussolini che «divide il frugale rancio co' suoi commilitoni», poi mentre incontra le medaglie d'oro della Grande Guerra e si affaccia in camicia nera su una stipata via Vittorio Veneto, appropriandosi del saluto romano dei legionari di Fiume. Il tutto affidato alle riprese di un padre nobile del cinema italiano, il milanese Luca Comerio. Lo stesso che appena ventenne, nel maggio 1898, era sceso in strada a rischio della vita per immortalare i moti popolari duramente repressi dal generale Bava Beccaris. Da un pioniere all'altro (perché il Ventennio, con buona pace di certa critica benpensante, fu epoca fertile di talenti della pellicola), arriviamo a Luigi Liberio Pensuti, maestro dell'animazione tra le due guerre. È a lui che si deve una chicca come La taverna del tibiccì, piccolo capolavoro (peraltro molto attuale, di questi tempi) in cui grazie alla pulizia e all'igiene si sconfigge uno dei nemici più temibili, all'epoca, per la salute pubblica. Colpisce il taglio innovativo, che unisce tecniche di infografica, animazione ed elementi dell'iconografia fascista. È un Duce che spicca anche nell'assenza, come nell'interno domestico ricreato per lo spot delle Assicurazioni Popolari, in cui campeggia il suo ritratto. Le atmosfere esotiche e le inquadrature inusuali rendono preziosi i pochi minuti del Duce in Africa, realizzato da un anonimo francese in occasione di una visita a Tripoli e Garian con rassegna, a cavallo, delle milizie locali. Mussolini, non è un mistero, accarezzava il sogno di una Libia quarta sponda d'Italia. La visita più trionfale in Tripolitania fu nel marzo del 1937, durante la quale, ergendosi a cavallo, si proclamò addirittura protettore dell'Islam. Da Piazza Duomo all'Africa settentrionale rivive così, grazie ai tasselli di un inedito cinemosaico, la grande illusione della Giovinezza. Il programma è il primo di una serie di contenuti sulla Grande Storia. Seguiranno rassegne su Garibaldi e Napoleone.
La ripubblicazione. Ripubblicati gli interventi di Turati: “Il massimalismo è il male del socialismo”. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Le vie maestre del socialismo è un volume curato da Rodolfo Mondolfo che raccoglie i principali interventi di Filippo Turati: dal resoconto sommario del discorso tenuto al Congresso di Imola l’8 settembre 1902 fino al resoconto stenografico dell’intervento svolto il 19 gennaio 1921 al Congresso di Livorno (durate il quale ebbe luogo la scissione da cui nacque il Partito comunista d’Italia). La prima edizione del libro risale al 1921 (la ristampa è del 1981); pertanto la raccolta non contiene gli atti del Congresso di Bologna del 1922 in cui divenne definitiva la rottura del partito con l’espulsione di Turati e della corrente riformista in conformità con le direttive della III Internazionale di indirizzo comunista che aveva imposto 21 condizioni (tra le quali, appunto, l’espulsione dei riformisti) al Psi a maggioranza massimalista per accettarne l’adesione. Nel Congresso dell’anno precedente (il 1921) la richiesta non era stata accolta; tale rifiuto divenne uno dei motivi della scissione comunista. Tuttavia, la precaria unità di Livorno non aveva attenuato i contrasti interni che paralizzavano il partito, proprio mentre stava dilagando lo squadrismo fascista e appariva sempre più urgente una iniziativa del movimento operaio. Turati, critico verso la «intransigenza contemplativa» dei massimalisti, utilizzava il suo prestigio in seno al gruppo parlamentare per rilanciare l’idea di una collaborazione con i popolari e i liberali contro i fascisti, in contrasto – fino alla rottura definitiva – con la direzione del Psi che puntava su una ripresa delle lotte di massa e dell’unità coi comunisti. I riformisti espulsi diedero vita al Partito socialista unitario (Psu.) – di cui fu eletto segretario Giacomo Matteotti – che si ispirava al tradizionale riformismo turatiano, ricercando la collaborazione con le forze politiche borghesi e operando per la riunificazione di tutti i socialisti su una linea di netta demarcazione dai comunisti rivoluzionari. Leggendo i discorsi di Turati si scopre un oratore eccezionale, non solo per la lucidità del pensiero, per l’analisi delle situazioni, per la memoria e l’interpretazione degli eventi nel divenire della storia del partito e del Paese, ma anche per la sottostante cultura classica e filosofica, per la capacità di esposizione, per l’ironia e le metafore che arricchiscono l’esposizione. In verità, a vedere il numero delle pagine dei testi trascritti (veri e propri saggi di politica, di storia ed altre umanità) ci si rende conto che i suoi interventi non avevano limiti di tempo, nonostante che subissero numerose interruzioni e creassero un clima da “botta e risposta” con l’uditorio per via delle divergenti idee e passioni politiche. Ma Turati tirava diritto senza perdere il filo del ragionamento e alla fine riscuoteva l’applauso di tutto il Congresso (con l’eccezione di quanti gli rivolgevano un polemico “viva la Russia”). Tanti sarebbero gli stimoli che provengono da quei discorsi, ma non possiamo affrontarli tutti. Ci soffermiamo sulla polemica di Turati a proposito del “massimalismo” in contrapposizione con la dottrina del “riformismo”, tratta dall’intervento che il grande socialista svolse al Congresso di Bologna del 1919. «Noi non crediamo al “massimalismo” – esordì Turati – Per noi un massimalismo semplicemente non esiste e non è mai esistito. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Anche le distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, fra transigenti e intransigenti «non sono che equivoci». «Vi è insomma il socialismo dei socialisti e quello degli imbecilli e dei ciarlatani». «La verità è che il suffragio universale, quando diventi consapevole, e questa non può essere che questione di propaganda e di evoluzione economica e civile, è l’arma più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste». «Tutta l’esperienza accumulata nelle lotte sindacali, politiche, elettorali, nei Comuni, nelle Province, con la propaganda indefessa, con l’azione parlamentare, con l’azione nei comizi e nei corpi consultivi per la legislazione sociale, nei Congressi nazionali ed internazionali, attraverso le persecuzioni fortemente patite, tutto ciò ha dato i suoi frutti, ha ampliato la nostra visione, ha fatto di noi uno dei partiti più forti in Italia e all’estero (….) Ora tutto questo dovrebbe andare per aria, tutta questa esperienza sarebbe stata pura perdita. Una nuova rivelazione s’è fatta improvvisamente come per prodigio. Al socialismo si sostituisce il comunismo (…) e un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato che esclude d’un solo colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, la stessa grande maggioranza dei lavoratori; onde è chiaro che essa in realtà non sarebbe, non potrebbe essere per lunghissimo tempo, che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato». Poi Turati assunse toni implacabili: «La violenza non è altro che il suicidio del proletariato (…. ) Oggi non ci pigliano abbastanza sul serio; ma quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi». Sono parole che hanno in sé il dolore della profezia. Turati fu ancora più lucido profeta nel suo discorso al Congresso di Livorno del 1921. Rivolgendosi alla maggioranza massimalista e alla frazione comunista disse: «Ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve perché è la sola». E gettando lo sguardo oltre l’orizzonte di decenni ammonì: «Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se lo fosse, ci condurrebbe al Medioevo». «Tutte queste cose voi capirete tra breve e allora il programma, che state faticosamente elaborando e che ci vorreste imporre, vi si modificherà tra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma». «Ond’è – Turati si avviava alla conclusione – che quand’anche voi aveste impiantato il Partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione perché siete onesti (questo riconoscimento si è rivelato forse troppo generoso? ndr) – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste diatribe». «Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite lasciar cadere la casa comune e fate vostro il “tanto peggio tanto meglio” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non darà incremento che alla Guardia regia e al fascismo». Quando Filippo Turati parlava così era il 19 gennaio del 1921. Il 28 ottobre dell’anno successivo ebbe luogo la Marcia su Roma. Turati morì in esilio a Parigi il 29 marzo del 1932. A Livorno era stato profeta anche di se stesso: «Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno…. Ma le riforme sono la via della rivoluzione e non si conquistano se non con lo sforzo assiduo, continuo, organico di tutte le classi popolari, unite ai rappresentanti dei partiti, con un’azione continua di erosione del privilegio: non v’è altra via».
Il dibattito tra massimalisti e riformisti. La lotta e l’accordo, così nel 1920 vinse la strada riformista. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Il 19 settembre del 1920 Giovanni Giolitti convocava le parti sociali a Roma, al Viminale allora sede della Presidenza del Consiglio, con l’intento di raggiungere un “concordato” che ponesse fine all’occupazione delle fabbriche (che era in corso, in alcune aree del Paese, da una ventina di giorni e che quindi durò meno del “maggio francese” del 1968). Lo statista liberale si era rifiutato – nonostante le pressioni degli industriali – di usare la forza per liberare le fabbriche dagli occupanti. Aveva intuito che l’unica possibilità di una soluzione incruenta risiedeva nel riuscire a riportare la vertenza sul terreno sindacale da cui era nata, sbandando nell’escalation delle forme di lotta: gli operai avevano adottato metodi di ostruzionismo a cui gli imprenditori avevano risposto con la serrata e i sindacati avevano di conseguenza ordinato l’occupazione delle fabbriche metallurgiche (poi estesa anche ad altri settori dell’industria e non solo). In pochi giorni il movimento aveva coinvolto 500 mila lavoratori, con picchetti armati sui cancelli degli stabilimenti. Giolitti era convinto che gli stessi dirigenti della Cgil e della Fiom, da veri socialisti riformisti, lavorassero per la sua stessa prospettiva, essendo consapevoli che proseguendo in quella lotta – all’inseguimento della chimera della rivoluzione – la classe operaia sarebbe stata condotta al massacro. All’incontro, nella sala del Consiglio dei Ministri al Viminale, erano presenti – scrive Paolo Spriano – oltre a due prefetti (Lusignoli e Taddei) – D’Aragona, Baldesi e Colombino per la Cgil, Marchiaro, Raineri e Missiroli per la Fiom; Conti, Crespi, Olivetti, Falk, Ichino e Pirelli per la Confederazione dell’Industria. Giolitti presiedeva la riunione e volle accanto a sé D’Aragona. Dopo sei ore di discussione il concordato venne sottoscritto. I suoi contenuti economici e normativi rappresentarono un successo per il sindacato, tanto che, il testo, sottoposto a referendum, fu approvato dalla grande maggioranza dei lavoratori. Ma, in quella stagione di miraggi, anche i sindacalisti riformisti non potevano evitare di misurarsi con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; occorreva essere, quindi, convincenti e competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. In sostanza, non sarebbe bastato un risultato importante sul piano sindacale se non fosse stato considerato una tappa nella marcia del “proletariato” verso il socialismo. Così nel “concordato” la Cgil e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa a chi prometteva i Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge”. Anche allora vi era la consapevolezza che le Commissioni servissero per accantonare delle questioni difficili, sia pure attribuendo ad esse un valore fittizio rispondente sulla carta ai desiderata delle organizzazioni sindacali. Fatto sta che, in sede politica, la questione del controllo operaio divenne la cartina di tornasole del rilievo (o meno) dell’intesa. Sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’accordo) Giacinto Menotti Serrati, leader della maggioranza massimalista, iniziò l’offensiva critica. Partendo da un apprezzamento del risultato dal punto di vista sindacale, per quanto riguardava gli aspetti economici e normativi, Serrati sostenne che il concordato non fosse soltanto una vittoria dei metallurgici, ma anche di Giovanni Giolitti. Le critiche più severe, tuttavia, afferivano alla problematica del controllo operaio. «Il conquistato controllo delle fabbriche, quando pure riuscisse a funzionare non potrà che rappresentare una mistificazione o una corruzione. Il controllo – proseguiva l’esponente del Psi – è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese». E di nuovo: «L’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale»; aggiungendo poi un auspicio visionario: «Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente», perché «la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti». Gli rispose Filippo Turati su Critica Sociale (il quindicinale dei riformisti). «La rivendicazione del controllo operaio, mantenuto nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è essa stessa una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica». «Scopi immediati della riforma vogliono essere – in linea con le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo». E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: «La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi». A un secolo di distanza non siamo in grado di giudicare la buonafede di Turati ovvero se fosse davvero convinto – pur sostenendo un indirizzo politico corretto e condivisibile – che la Commissione paritetica avrebbe portato a compimento l’incarico. È invece palese la malafede di Serrati. Come disse un esponente socialista milanese a commento della sessione della Direzione del Psi che mise all’ordine del giorno la rivoluzione: «Noi sentivamo che la rivoluzione non si sarebbe fatta, perché la rivoluzione non si fa convocando prima un convegno dove si deve andare a discutere se si dovrà fare o non fare la rivoluzione. Questa è roba da Messico che si è voluto trasportare nel nostro Paese».
La lezione di riformismo di Filippo Turati sul come rifare l’Italia. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Pubblichiamo stralci del discorso pronunciato il 26 giugno del 1920 da Filippo Turati alla Camera dei deputati. Onorevoli colleghi e compagni! L’idea madre del mio modesto discorso è semplice. Vera oggi, come ieri, come domani; ma, nel mutare inevitabile dei tempi, diverso può esserne il punto di applicazione. Se ogni lotta di classe è lotta essenzialmente politica e viceversa, è evidente che ogni politica trae colore e vigore dalla classe sulla quale essenzialmente si appoggia. Rivolgendomi oggi alle classi borghesi, le quali, se anche non nelle proporzioni di una volta, hanno pur sempre la dirigenza della società, in un certo senso posso dir loro: oggi, o non più ! Del resto, questo dell’urgenza, è un sentimento che in diverse forme trapela da ogni discorso, è nello stato d’animo di ciascuno di noi. Lo stesso onorevole Giolitti, cui si imponeva, per il posto che occupa, la maggiore prudenza di parola, non temette, e fece bene, di parlare di fallimento imminente, improrogabile, se non si corre ai ripari. Quale fallimento? Di chi? Come deprecabile? Questo è il tema generale della discussione. II suffragio universale, questa necessità che tutti abbiamo voluto, e di cui siamo i figli, ha generato, nella sua molteplice prole, un figlio cattivo: il gesto demagogico; la gara, dirò meglio, dei gesti demagogici. Noi dovremmo, come Bruto, condannare a morte questo figliolo traditore. Noi dovremmo insorgere contro di esso. Il demagogismo non è affatto, come si pretende, un privilegio dei partiti avanzati. C’e un demagogismo dei conservatori e dei Governi, che è di gran lunga il peggiore. La politica non è questo: non dovrebbe essere questo; e lo sarà sempre meno, quanto più i popoli diverranno consapevoli. La politica non è nell’agguato, non è negli intrighi, non è nell’arrembaggio ai Ministeri, non è nelle sapienti combinazioni parlamentari, non è nelle competizioni degli uomini; non è nei sonanti discorsi. È, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica. E una tecnica, essenzialmente, è anche il socialismo. Noi stessi lo dimentichiamo troppo spesso, forse, quando nel fervore degli attacchi e dei contro-attacchi, subiamo noi stessi l’avvelenamento di tante illusioni, l’asfissiamento di tanto fumo. Il socialismo, nel suo primo e più grande assertore, è l’espressione ideale dell’evoluzione dello strumento tecnico; è lo sforzo di adeguare le condizioni politiche della vita sociale alle necessità materialistiche del momento storico. In questo senso, e in doppio senso, il socialismo è scientifico: in quanto sorge dalla coscienza storica, e quindi scientifica, dell’evoluzione; e in quanto chiama la scienza a proprio servizio. La schiavitù cessa, secondo il vecchio motto famoso, quando la spola comincia a camminare da sé sul telaio. Il socialismo è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno; è nella elettricità, più che in molti, cari compagni, dei nostri congressi. Ora voi tutti, signori, cercate, in questo momento, più che mai la salvezza : la salvezza del Paese e la vostra. Anche i socialisti cercano la salvezza del Paese e la loro. Se oggi il partito socialista, così com’è, sembra ad alcuni eccessivo di intransigenza, di vivacità, di precipitazione, pensino coloro, che di questo lo accusano, che ciò è l’effetto fatale della guerra, la quale ha creato nelle masse uno stato di insurrezione psichica che non sarà domato se non da conquiste reali, radicali e profonde. E il partito deve riflettere questo stato delle masse, per interpetrarle, ed eventualmente anche per poterle contenere. Chi spera che le differenze inevitabili di tendenze, che sono in ogni partito vivo, debbano condurci al distacco, allo sfacelo, credo che si inganni. Credo fermamente, e non da oggi e non per opportunità del momento, nella fondamentale necessità dell’unità del partito socialista. (…). Nelle sezioni del nostro gruppo si studiano proposte di legge e provvedimenti positivi, col consenso anche dei nostri più estremi estremisti, che eventualmente potrebbero anche essere l’àncora di salvezza per quel tanto di regime borghese, che è giusto debba per un certo tempo, sopravvivere nella zona del trapasso storico. Questa incoerenza formale è la prova che siamo vivi; che la formula ci serve ma non ci opprime; che sappiamo distinguere, e che non confondiamo quella che sarebbe collaborazione vera e propria di partiti e di classi, pericolosa in dati momenti, specialmente pericolosa per i più deboli, da quella che è coincidenza o comunione inevitabile di interessi vitali, insuperabile in qualunque convivenza sociale; che abbiamo nel nostro programma effettivo, quello che erompe nell’azione la quale è la grande pacificatrice delle tendenze, l’oggi e il domani, l’oggi per il domani, il domani per l’oggi. Certo non è più, oggi, la ormai arcaica distinzione del programma minimo e del programma massimo, come si concepiva una volta, che era un po’ una concezione cattolica, forse più del vecchio che del nuovo cattolicismo. (…) Perciò si parla, non da noi soltanto, di periodo rivoluzionario, di crisi di regime : di regime politico, di regime sociale. Molti di voi ripetono oggi, e molti credo in buonissima fede, che molto bisognerà concedere per non perdere tutto, per mantenere la compagine sociale, dico la compagine, non dico l’attuale compagine; per conservare ciò che è degno di essere conservato, ciò che è necessario ai supposti eredi del domani; per non precipitare insomma nell’anarchia, che è un po’ la sorella, un po’ la figlia del capitalismo, e che sta in diametrale antagonismo teorico, che è la negazione in termini, del socialismo. Molti sentono fra voi che ciò che siamo usi chiamare l’ordinaria amministrazione, non basta più. Lo sentì l’onorevole Nitti, che si ribellò, almeno idealmente, al trattato di Versailles che era (e dico che era perchè si può forse cominciare a parlarne al passato prossimo) il capitalismo, nella sua più cruda espressione, applicato alla politica internazionale; era la pace di guerra, così come il capitalismo, all’interno e all’estero, è sempre la guerra anche in tempo di pace. L’onorevole Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe prese da essi anche molte direttive nella politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte. E più volte preluse all’inevitabile, all’augurabile avvento di un Governo laburista in Italia. Ma l’azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata e ne tenne la sua fatale caduta. Così è tornato l’onorevole Giolitti, il cui ritorno a quei banchi sembra l’epilogo solenne di un vasto dramma, non soltanto suo personale, ma nazionale e storico, e trascende di gran lunga l’importanza di uno dei consueti avvicendamenti ministeriali. Bisognerebbe essere un po’ meno che uomini per non sentirlo, a qualunque idea si appartenga, sotto qualunque vessillo si militi (…). Ma dopo di lui molti vedono il buio, il nulla, l’abisso. Altri, dopo di lui, intravvedono l’alba; e ciascuno si sogna l’alba che più gli conviene. Certo è che la monarchia, in questo crollare fragoroso di troni e di dominazioni, non parve mai meno salda di ora anche in Italia. (…) E più si carezza il socialismo, e più esso rilutta e vi sfugge. Ora qui accade di ricordare una frase di Claudio Treves, che chiuse un suo mirabile recente discorso. Nel quale il mio amico analizzò la grande tragedia dell’ora, e a questa tragedia pose il nome: « Espiazione ». Espiazione, egli intese, della borghesia, che volle la guerra, che vinse la guerra, che non seppe e non sa darci la pace. (…) La borghesia, in questo momento, non è più capace di reggere il potere; il proletariato non è ancora pronto a riceverne la successione. Così Treves chiuse il suo discorso. (…) Ogni trapasso, anche se assume forme violente, è sempre un assorbimento del nuovo nel vecchio e del vecchio nel nuovo; con questo vantaggio che il vecchio non si rinnova e il nuovo non si rinvecchia. E questa è la rivoluzione. Perciò, ripeto, chi è assorbito assorbe. La generazione, la procreazione, la fecondità sono a questo patto. (…) Il gradualismo dell’onorevole Giolitti è un gradualismo prebellico, impari alle esigenze del momento, in ritardo di sei anni sul quadrante della storia. Il gradualismo è una magnifica cosa. Io sono accusato ogni giorno da questi miei turbolenti compagni di essere troppo gradualista. Comunque, il gradualismo è una cosa ammessa da tutti (abbiamo persino un massimalismo gradualista !) quando la natura delle cose lo consente. Quando insomma c’è tempo e si può aspettare. Allora, chi va piano va sano, e va qualche volta lontano. (…). Il rimedio primo, il più vero, vorrei dire il solo rimedio, è nel trasformare l’economia, non la finanza del Paese. Ciò che voi ponete dopo, deve venir prima, o almeno contemporaneamente. Tanto più che a rendere più spinose tutte le questioni, più difficili tutti i rimedi, concorre la crisi psicologica, la quale è causa ed effetto insieme della crisi economica, generate entrambe dalla guerra, mantenute dalla pace che non è pace; crisi che è una vera psicosi, diffusa, molteplice, universale, ma più grave in Italia, perchè è paese economicamente fra i più deboli di Europa. Non dirò dei fenomeni più appariscenti: il lusso sfrenato, rivoltante, che fa pensare con nostalgia, per quanto scettica, alle antiche leggi suntuarie. Ciò che più impressiona è lo spirito di indisciplina, che ha invaso tutte le classi sociali. Aggiungete il menomato rispetto della vita umana, dell’altrui come della propria. La guerra ha alterato profondamente tutti i consuetudinarii valori morali. La gente minaccia l’altrui vita, ed espone la propria, con una indifferenza non conosciuta prima della guerra. Il trattato di Versailles, che è – lasciatemi ripeterlo – l’espressione del capitalismo più crudo applicato alla politica internazionale, e la cui revisione si impone. Ora, su ciò tace completamente il programma del Governo. Se non che, forse, anche in questo silenzio è un argomento a favore della mia tesi, della preminenza, necessità ed urgenza assoluta della restaurazione economica del Paese, anche prima delle economie e dei provvedimenti finanziari. Perché, certo, finché noi saremo così strettamente vassalli dell’estero per il pane quotidiano quale voce effettivamente influente potremo avere nei consessi dei potentati, sia pure con le proposte Commissioni parlamentari? Dopo aver demolito la Germania, con nostro danno infinito, oggi dobbiamo pensare ad aiutarla a ricostruirsi per il nostro meglio; dopo aver combattuto la Russia, o almeno essere stati nella combriccola che si ingegnava di combatterla, dobbiamo fare di tutto per rappacificarci al più presto con quel grande ex impero ; dopo aver suscitato la guerra civile in Albania (a proposito, quanto c’è costata, onorevole Meda?) che si ripercuote in un’altra e ben peggiore guerra civile in Italia (e i fattacci di Ancona ammaestrano) dobbiamo dichiarare che rinunziamo (e ahimè! non farà ciò l’impressione della favola dell’uva acerba?) a ogni protettorato. E via via. Non vi è punto del trattato di Versailles che non sia tutto da rifare, da capovolgere. Senza dire che l’onorevole Giolitti, il quale fu già rimproverato, e sia pure a torto, di aver lasciata disarmata l’Italia (e dovette difendersene nel discorso di Dronero) e vuoti i magazzini militari, in un periodo pericoloso, certo non vorrà affrontare oggi la stessa accusa, nell’evento di altre guerre possibili. Ora, onorevole Giolitti, voi avete fatto, con nobili parole, appello all’Internazionale operaia, nel vostro discorso di Dronero, Per la salvaguardia della pace. Ma l’Internazionale proletaria non può esistere, non può essere forte, se non siano forti localmente, in ogni nazione, i proletariati organizzati ed i partiti socialisti. Ora questi proletariati e questi partiti cominciano ad avere la loro politica estera e cominciano ad imporla ai rispettivi Stati. È inutile dirvi che noi vogliamo soppresso il trattato di Versailles perchè esso è una abominazione, perchè esso è la proprietà privata applicata a tutto il mondo a beneficio di una egemonia. Ora l’onorevole Giolitti, nel discorso di Dronero, ha toccato tutta quanta la gamma della restaurazione economica. Agricoltura da industrializzare; emancipazione dal grano estero; chi lascia terre incolte commette un delitto (onde il suo progetto granario); confisca delle terre incolte; il cotone da coltivarsi nell’Eritrea o nel Benadir; irrigazione; istruzione agraria e tecnica serie; industrie che occupino più mano d’opera e meno materie prime, mentre sono ancora tanto care; utilizzazione delle forze idriche e quindi emancipazione dal carbone estero ecc., ecc. Insomma tutto il ricettario. Ossia Giolitti è ancora Nitti. E siamo, ripeto? tutti d’accordo ! Ma la questione non è nell’essere d’accordo in teoria; è nel volere e nel potere realizzare. Direi quasi che il problema è superiore alla volontà dell’uomo. Può il Ministero, con questa Camera, può la borghesia italiana, in questo momento, realizzare questo programma ? Lo vuole essa davvero? ’ Cè nel congegno del capitalismo italiano di quest’ora (poiché anche fra capitalismo e capitalismo bisogna spesso distinguere) qualche attrito invincibile che impedisca questa realizzazione? (…) Tanto più, badate, che in questo caso non si tratta di prestiti allo Stato, ma di prestiti alla Nazione. In altri termini: la soluzione della crisi, politica, economica, morale, crisi di regime, crisi di trapasso, chiamatela come meglio vi garba, consiste nel creare subito le condizioni economiche e politico-morali per cui la Nazione possa in breve termine raddoppiare la sua produzione. Oh Dio, non pigliate la parola « raddoppiare » nel senso strettamente aritmetico; non s’intende dire che si debba produrre il doppio di grano, il doppio di tessuti, ecc., ecc. ; s’intende resuscitare nuove sorgenti naturali, non artificiali, di energia nel Paese, perché esso possa superare il deficit. Quando questo si sarà ottenuto, si sarà molto più che raddoppiata la ricchezza. E ho parlato di condizioni economiche e di condizioni politico-morali, che sembrano due cose diverse e sono invece una sola; perchè non si creano veri miglioramenti economici senza certe riforme politiche – e questo dico alla borghesia – e non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche – e questo dico ai miei compagni – senza certi coefficienti economici. Bisogna che il Governo d’Italia – borghese ? comunista? bolscevico?; Giolitti ? Misiano? Non importa il nome e la persona; non importa neppure l’etichetta, perchè “vi può essere un bolscevismo (vedi Russia) che finisce per creare tutto ciò che vi è di più antisocialista, la piccola proprietà: l’economia è più forte di tutte le formule e di tutti i programmi a tavolino; … bisogna, dicevo, che lo Stato italiano, diventi da politico, economico; anticipazione precipitata del comunismo classico, secondo la definizione e il presagio del nostro Engels, per il quale il «Governo degli uomini » doveva, nel comunismo, diventare «l’amministrazione delle cose ». È unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, per la borghesia e per il socialismo; senza di questo è irremissibilmente perduta per tutti; per noi e per voi. (…) L’uomo è l’operaio, il proletario lo scontento, il ribelle, il rivoluzionario, e sarà tale finché non ne avremo fatto il padrone del lavoro e della produzione. Questo è dunque il programma dell’avvenire. Io non so chi lo eseguirà. Io so che, senza questo elemento, dell’emancipazione dell’operaio, niente di questo si farà. E non occorre essere socialisti. Io ho trovato – mi è arrivato l’altro giorno e lo avrete ricevuto anche voi – in questo libro fatto tutto da parrucconi molto rispettabili – che contiene gli studi e le proposte della Commissione del dopo guerra presieduta da Vittorio Scialoja, a un dipresso le medesime mie conclusioni. Leggete la relazione del nostro ex collega onorevole Fava, presidente della sezione decima. Egli dice le medesime cose: «Se non create le condizioni necessarie all’interessamento degli operai nella produzione, dati i tempi mutati, data la psicologia del dopo guerra, non otterrete nulla di nulla». Una volta era questione di giustizia, oggi è questione di vita o di morte. Conosco altri due uomini che hanno veduto queste cose; e sono un antico ed un moderno. Il moderno è il dottor Ratenhau, forse il più geniale ricostruttore, che abbia dato la guerra ; il quale nella sua Economia nuova dimostra, meglio che io non abbia saputo, come questa valorizzazione dell’uomo in Germania – e oggi là le condizioni sono peggiori che in Italia – sia indispensabile per redimere il paese. Vorrei ottenere che la Economia nuova fosse letta dai colleghi deputati: il mio discorso avrebbe raggiunto tutto intero il suo scopo. Solo quel popolo – afferma l’autore -che prima avrà soppresso l’antagonismo che è fra l’operaio ed il capitale, solo quel popolo trionferà.
L'opinione. Cosa direbbe Turati delle nostre prigioni? Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 24 Marzo 2020. «Fuggono anche i detenuti qualche volta, ma troppo di rado, e io vorrei che le evasioni fossero ben più numerose: me lo augurerei di cuore» (F. Turati, Il cimitero dei vivi, da un discorso alla Camera dei Deputati sulle condizioni del sistema carcerario del 1904). A fronte delle grida di dolore che si levano dalle carceri e dal personale penitenziario, il Governo ha tecnicamente risposto con una presa in giro – un “cinico bluff” come definito, con parole vere e chiare, dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza – che, nella migliore delle ipotesi, consentirà a poche centinaia di detenuti di scontare il residuo di pena all’interno delle proprie abitazioni. La presa in giro si annida nella parte finale del provvedimento: la concessione della detenzione domiciliare è subordinata (salvo che per i detenuti con un residuo di pena inferiore a sei mesi) alla disponibilità dei braccialetti elettronici. Sì, proprio quegli introvabili braccialetti elettronici la cui cronica e colpevole indisponibilità è la causa di quasi la totalità delle custodie cautelari in carcere: è irridente; è disumano. Pochissimi dunque usciranno dal carcere ed, a turno – come in una sorta di tragica riffa – via via che i braccialetti si liberanno. Quella moderazione, quell’evitare fughe in avanti, quella sana logica del miglior compromesso possibile a cui ci si è sottoposti per tentare di raggiungere un risultato intermedio in grado di salvare numerose vite umane sembrerebbe essere risultata vana. Il confronto sembra essere impossibile con gli integralisti delle manette, veicolo sicuro per attrarre il consenso. Ma non vogliamo e non possiamo arrenderci. Continuiamo ad invitare ed esortare il Governo e il Parlamento a cambiare rotta e ad assumere provvedimenti che realmente mettano al sicuro la salute delle decine di migliaia di detenuti, guardie penitenziarie ed operatori del carcere in questo momento sottoposti ad inaccettabili rischi. Aggiungiamo, inoltre – anche attraverso un appello al Presidente della Repubblica perché svolga quel compito di moral suasion che costituisce l’essenza fondamentale del suo ruolo all’interno degli equilibri costituzionali – la necessità di emanare provvedimenti di amnistia ed indulto che possano consentire al nostro paese di rientrare nei confini della civiltà e dell’etica. Mantenere lo status quo significa rappresentarsi ed accettare non già il possibile rischio bensì il più che probabile evento che moltissimi detenuti e guardie penitenziarie possano contrarre il virus ed in alcuni casi morire. Agire (o non agire) pur sapendo che necessariamente una simile condotta produrrà certi risultati significa assumere su di sé la responsabilità politica e giuridica delle eventuali morti. Si è davvero disponibili a tutto questo pur di restare coerenti alla brutale e demagogica propaganda? Quattordici detenuti sono già morti nei giorni delle rivolte, “perlopiù” – come improvvidamente riferito in Parlamento dal Ministro di Grazia e Giustizia – per intossicazione da abuso di farmaci e metadone. Evitiamo tra qualche mese di contare decine di decessi tra i detenuti, perlopiù a causa del coronavirus. Nel 2020, cosa direbbe Filippo Turati sul carcere al tempo del coronavirus?
La biografia. Chi era Filippo Turati, il padre nobile del socialismo democratico. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nato a Canzo, provincia di Como, nel 1857, Filippo Turati era figlio di un alto funzionario statale. Intrapresi gli studi giuridici, si laureò nel 1877 all’università di Bologna per poi trasferirsi con la famiglia a Milano, dove frequentò A. Ghisleri e R. Ardigò, e iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, compagna alla quale si legò per tutta la vita a partire dal 1885, entrò in contatto con alcuni esponenti della socialdemocrazia tedesca. Proprio in questo periodo Turati aderisce al marxismo. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un centro di aggregazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione Psi), cui Turati diede un contributo decisivo. Deputato a partire dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898 e condannato a dodici anni di reclusione. Ma uscì di prigione l’anno successivo. Leader riconosciuto della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da G. Giolitti, Turati sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale in un’ottica gradualistica. Antimilitarista, osteggiò la guerra in Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del Psi ormai guidato dalla componente massimalista, scemò. Espulso dal partito, nel 1922 diede vita, con Matteotti, al Psu. Nel 1926, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi, dove contribuì, nel 1929, alla costituzione della Concentrazione antifascista e, l’anno successivo, alla fusione socialista.
· La Biografia di Craxi.
Biografia da operaomniacraxi.it.
1968-1983
- L’elezione alla Camera e l'ascesa nel Partito
- La nuova identità del PSI
L’ELEZIONE ALLA CAMERA E L’ASCESA NEL PARTITO. Nelle elezioni politiche del maggio 1968 Craxi fu eletto deputato per la prima volta. Dopo il fallimento dell'unificazione socialista (1969), agli inizi del 1970 Giacomo Mancini divenne segretario nazionale del Psi, affiancato da tre vicesegretari: Codignola (in rappresentanza dei lombardiani), Mosca (per il gruppo di De Martino) e Craxi (per gli autonomisti). Confermato vicepresidente anche dopo il successivo congresso, tenutosi a Genova nel 1972, con De Martino segretario nazionale, Craxi ebbe l’incarico di curare i rapporti internazionali del partito. Nell’ambito dell’Internazionale socialista, come rappresentante del Psi, conobbe i leader dei maggiori partiti socialisti del tempo, da Willy Brandt a François Mitternad, stringendo particolari contatti con i leader dei partiti clandestini dei paesi sotto regime dittatoriale, sia in Europa sia in Sud America.
Nella politica nazionale, il problema maggiore del Psi rimaneva la ricerca di un proprio spazio, in contrapposizione tanto alla Dc quanto al Pci. La ricerca di un’affermazione elettorale con la quale si arrivò alle consultazioni politiche del giugno ’76 fu brutalmente disattesa dai deludenti risultati. Il clima del successivo Comitato nazionale, convocato per luglio all’Hotel Midas di Roma, fu da resa dei conti. Si puntò il dito contro la chiusura del partito, contro la presenza di troppe correnti e fazioni in lotta intestina, e la segreteria De Martino fu accusata di non essere adeguata ai tempi. Dopo lunghe trattative e veti incrociati, la convergenza fra manciniani, lombardiani, alcuni demartiniani e autonomisti rese possibile l’elezione di Bettino Craxi alla segreteria nazionale. Da qui Craxi iniziò lo svecchiamento del partito rinnovandone, al contempo, l'ideologia, cercando di motivare nuovamente i militanti, smarriti dopo le sconfitte e delusioni degli ultimi anni. Ma il suo compito fu anche quello di consolidare la propria posizione, da alcuni creduta semplicemente di transizione, barcamenandosi tra giochi di alleanze e contro-alleanze. Il successivo Congresso nazionale, tenutosi a Torino fra marzo e aprile del 1978, sancì l’affermazione di Craxi alla guida del partito. Venne lanciata la "strategia dell'alternativa", in risposta al disegno berlingueriano del "compromesso storico" e si rinnovarono i quadri, con il passaggio di testimone dalla vecchia leadership alle nuove leve. Il Congresso dei socialisti si aprì a pochi giorni di distanza dal rapimento del presidente democristiano Aldo Moro per mano delle Brigate rosse. Al "fronte della fermezza" Craxi oppose quello della trattativa per salvare la vita del presidente della Dc, propendendo per un’"azione umanitaria, nel rispetto delle leggi repubblicane". L’uccisione del presidente della Dc azzerò le trattative tra partiti condotte fino a quel momento. Nel clima mutato, Craxi comprese di poter avere un più ampio argine di manovra, e mise alla prova la forza del partito proponendo un socialista per la carica di Presidente della Repubblica: Sandro Pertini.
LA NUOVA IDENTITA’ DEL PSI. Nel frattempo, lo scontro con i comunisti giunse a un punto di non ritorno. Mentre Berlinguer operava lo strappo da Mosca e dalla tradizione comunista ortodossa lanciando la "terza via" o del "compromesso storico", Bettino Craxi intraprese una dura polemica ideologica con Botteghe Oscure. Il 27 agosto 1978, infatti, uscì sulle pagine del settimanale «L'Espresso» l’articolo "Il Vangelo Socialista", nel quale Craxi esaltò la figura ed il pensiero di Proudhon, abiurando invece Marx e Lenin, e sottolineò tutte le sostanziali differenze tra comunismo burocratico e totalitario e socialismo democratico e liberale. Alle elezioni anticipate del 3 giugno 1979 la Dc risultò stabile, il Pci perse il 4%, il Psi aumentò di poco i suoi consensi (9,8%). Una settimana dopo si svolsero le prime elezioni per il Parlamento europeo e Craxi venne eletto eurodeputato; fu riconfermato nel 1984 e nel 1989. Il 1979 fu l’anno in cui si iniziò a porre il problema degli euromissili. Craxi incoraggiò fortemente il voto favorevole del PSI all'installazione dei missili della Nato (Pershing e Cruise) in Italia, che fu garantito al governo Cossiga in seguito all’inserimento della cosiddetta "clausola dissolvente" nella risoluzione finale. Fra la decisione di installare i missili e il loro effettivo spiegamento sul territorio sarebbero trascorsi almeno quattro anni, e la clausola prevedeva che, qualora i sovietici nel frattempo avessero fermato il loro piano di ammodernamento missilistico, l’Italia si sarebbe tirata fuori dal programma di riarmo Nato. Poiché tali circostanze poi non si presentarono, l’installazione fu approvata dalla Camera nel novembre del 1983. Nel gennaio del 1980, dal Congresso nazionale della Democrazia cristiana uscì vittoriosa la linea del "preambolo" che, di fatto, chiuse le porte a qualsiasi accordo o collaborazione con il Pci. Il 4 aprile 1980 nacque il secondo Governo Cossiga: dopo sei anni i socialisti tornarono ad assumere incarichi governativi. Dal 22 al 26 aprile del 1981 si svolse a Palermo il 42° Congresso del Psi. Nel suo discorso, Bettino Craxi rilanciò l'idea di una grande riforma delle istituzioni, dell'economia e delle relazioni sociali, della governabilità e della stabilità. A Palermo si approvò la proposta di modifica allo statuto del partito e il segretario, per la prima volta nella storia socialista, fu eletto direttamente dai delegati. Craxi fu riconfermato alla guida del partito con 239.536 voti su 332.778. Claudio Martelli e Valdo Spini divennero i nuovi vicesegretari.
L'anno dopo, a Rimini (dal 31 marzo al 4 aprile 1982) si svolse la Conferenza programmatica del Psi. Craxi lanciò la parola d'ordine "cambiamento" insistendo sulla necessità di rimettere in moto la produzione, combattere l'inflazione, interpretare il nuovo nella società italiana in profonda mutazione socioculturale, trovando un nesso inscindibile fra meriti e bisogni.
1983-1987
- Il Governo Craxi
- Sigonella
IL GOVERNO CRAXI. Nelle elezioni del giugno 1983 il risultato elettorale del Psi non fu pienamente soddisfacente (passò dal 9,8% all'11,4%). Craxi, però, risultava ormai l'ago della bilancia della politica italiana. Il 21 luglio 1983 il presidente Pertini gli affidò l'incarico per la formazione del nuovo esecutivo. Il 4 agosto Craxi formò il suo primo Governo, un pentapartito Dc-Psi-Psdi-Pli-Pri. Il primo presidente del Consiglio socialista rimase a Palazzo Chigi fino al 17 aprile 1987. Il nuovo governo ereditò una situazione difficile: inflazione superiore al 15%, debito pubblico vicino al prodotto interno lordo; aumento della spesa sociale e della disoccupazione; industria in piena fase di recessione. Il programma di Craxi mirava a ridurre le cause inflazionistiche, restituire competitività alle imprese, riequilibrare lo stato sociale, promuovere la ricerca e la cultura. Altro elemento caratterizzante dell'esperienza governativa fu l'attenzione ai temi della pace e della cooperazione tra i popoli. Scelte concrete furono la riduzione o la cancellazione del debito di alcuni Paesi in via di sviluppo nei confronti dell'Italia e gli aiuti generosi ai paesi dell'altra sponda del Mediterraneo per sottrarre il bacino al rischio di essere un focolaio permanente di tensioni e di conflitti. Nel 1984 Craxi affrontò il problema del costo del lavoro. Il 14 febbraio, dopo una serie di infruttuosi incontri con i sindacati, il Governo varò un decreto che prevedeva il taglio di quattro punti di scala mobile. Pci e sindacati reagirono duramente accusando l'esecutivo di aver agito senza consultare le parti sociali. Dopo l'ostruzionismo parlamentare del Pci e l'approvazione di un decreto bis si raccolsero le firme per un referendum abrogativo che si svolse il 9 e 10 giugno 1985: il 54,3% dei votanti si espresse contro all'abrogazione della legge. Il 18 febbraio 1984 il presidente del Consiglio e il segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Agostino Casaroli, firmarono a Palazzo Madama il nuovo Concordato tra l'Italia e il Vaticano. Fu regolata la questione dei beni e degli enti ecclesiastici; un nuovo sistema di aiuto economico (l'otto per mille nella dichiarazione dei redditi) sostituì la vecchia congrua. Fu confermato l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole, ma la scelta di fruirne divenne facoltativa. Dall'11 al 14 maggio 1984 si tenne a Verona il 43° Congresso nazionale del Psi e Craxi fu riconfermato segretario per acclamazione dai delegati.
SIGONELLA. Il 7 ottobre 1985 un commando palestinese sequestrò, nelle acque antistanti l'Egitto, la nave italiana da crociera Achille Lauro con 545 persone a bordo. Un cittadino statunitense di origine ebraica, Leon Klinghoffer, fu assassinato dai terroristi e il suo corpo gettato in mare. Il 9 ottobre, con la mediazione dell'OLP, la nave rientrò a Porto Said, in Egitto, e gli ostaggi furono liberati. Il giorno seguente, i quattro dirottatori e un esponente dell'Olp, Abu Abbas, furono intercettati su un aereo mentre sorvolava il territorio italiano dai caccia americani che lo costrinsero ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in provincia di Siracusa. Gli americani chiesero la consegna dei terroristi, ma il Governo italiano si oppose alla richiesta: il reato era stato commesso su una nave italiana, Sigonella si trova in territorio italiano e quindi spettava all'Italia perseguire i reati. I carabinieri, opponendosi con le armi alle truppe speciali statunitensi, presero in custodia i terroristi. Il 12 ottobre Abu Abbas lasciò l'Italia per Belgrado; il Governo americano inviò una dura nota di protesta. La vicenda di Sigonella causò una crisi di governo culminata con le dimissioni di Craxi in seguito alla fuoriuscita del Partito repubblicano dalla coalizione governativa. Tuttavia, la crisi rientrò con la partecipazione di Craxi al vertice dei sette Paesi più industrializzati del mondo a New York. Craxi, infatti, ebbe modo di chiarire con il presidente americano Reagan le divergenze maturate a seguito del dirottamento dell'Achille Lauro. Il 26 giugno 1986 il Governo chiese la fiducia per un decreto sulla finanza locale senza ottenerla. Craxi formò un nuovo governo, una riedizione del pentapartito, che, però rimase debole per la mancata disponibilità della Dc a collaborare con il Psi. Il 17 aprile 1987 nuove e definitive dimissioni furono il preludio alle elezioni politiche anticipate. Il 14 giugno 1987 il risultato elettorale premiò l'operato craxiano: il Psi salì, infatti, al 14,3% dei consensi. La guida dei successivi governi fu affidata prima a Goria, poi a De Mita e successivamente ad Andreotti.
1988-2000
- Gli incarichi internazionali
- Mani pulite
- Hammamet
GLI INCARICHI INTERNAZIONALI. Craxi tornò a dedicarsi a tempo pieno al partito proseguendo nella sua strategia politica: contendere alla Dc la centralità nel panorama politico italiano e rilanciare l'offensiva contro il Pci nell'intento di formare una sola grande forza socialdemocratica. In questo periodo scrisse molto per l'«Avanti!», firmando i suoi taglienti corsivi con lo pseudonimo "Ghino di Tacco" (attribuitogli da Eugenio Scalfari), il signore di Radicofani, che imponeva taglie per il passaggio sul suo territorio. Dal 13 al 19 maggio 1989 si tenne a Milano il 45° Congresso del Psi. Craxi fu rieletto segretario nazionale con il 92,3% dei suffragi, maggioranza che egli stesso definì "bulgara". Nel dicembre dello stesso anno il segretario generale dell'Onu, Perez De Cuellar lo nominò suo rappresentante personale per i problemi dell'indebitamento dei Paesi in via di sviluppo. Il leader socialista presentò alcuni mesi dopo il suo rapporto, che costituì la base della relazione che il segretario generale lesse all'Assemblea delle Nazioni Unite nel settembre 1990. In Italia, Craxi impegnò il suo partito su alcuni precisi obiettivi: rilanciare il tema della Grande Riforma, già ventilata un decennio prima, puntando all'elezione diretta del presidente della Repubblica; auspicare la riforma dei regolamenti parlamentari in modo da rendere più agevole l'azione dei governi. Il 2 marzo del 1990, a Pontida, il segretario socialista lanciò il nuovo decalogo per l'autonomia delle Regioni che reclamava una struttura statuale ai "limiti del federalismo". Nel corso dello stesso mese si tenne a Bologna il XIX Congresso del Pci in cui, per la prima volta, vennero discusse tre diverse mozioni. Prevalse quella del segretario Achille Occhetto, che propose l'avvio di una fase costituente finalizzata alla formazione di un nuovo partito progressista e riformatore. In questo contesto Craxi lanciò la parola d'ordine dell'"unità socialista". Alla fine del 1991 Craxi appoggiò la richiesta del Pds di entrare a far parte dell'Internazionale Socialista. Il 28 febbraio 1991 Bettino Craxi fu nominato dal segretario generale dell'Onu consigliere speciale per i problemi dello sviluppo, della pace e della sicurezza. Dal 27 al 30 giugno si tenne a Bari il Congresso straordinario del Psi. Craxi optò per il proseguimento della collaborazione governativa con la Dc, dando così vita al cosiddetto CAF (l'alleanza tra lui, Andreotti e Forlani).
MANI PULITE. Il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente (socialista) del milanese Pio Albergo Trivulzio, una casa di riposo per anziani, venne fermato mentre incassava una tangente. Da quell'episodio partì l'inchiesta cosiddetta "Mani Pulite" (definita dai giornalisti "Tangentopoli"). Alcune settimane dopo (il 5 aprile 1992) le elezioni politiche segnarono una pesante sconfitta per i partiti storici. La Dc registrò un calo di 5 punti, i due partiti Pds e Rifondazione comunista, emersi dalla crisi del Pci, raggiunsero insieme il 21,7% (dal 26,6% di cinque anni prima). Il Psi subì una flessione, peraltro assai contenuta rispetto alla debacle generale, ottenendo il 13,6%. Riportarono successi due nuove formazioni politiche: la Lega Nord e la Rete. Alta fu la percentuale degli astenuti. Il governo fu formato dal socialista Giuliano Amato. L'inchiesta Mani Pulite, intanto, assunse un ruolo e una dimensione superiore al perseguimento di singoli comportamenti delittuosi e investendo le responsabilità della classe politica a tutti i livelli, locale e nazionale, colpì in diversa misura tutti i partiti dell'arco costituzionale e, in particolare, Dc e Psi. Un ruolo importantissimo fu svolto dai mass media che interpretarono e indirizzarono il sentimento popolare prevalente di forte avversione per il ceto politico tradizionale. Il cosiddetto "circo mediatico giudiziario" giocò un ruolo di fondo nella delegittimazione e criminalizzazione della politica, dando luogo a vere e proprie "gogne mediatiche" anticipatrici di condanne, ben prima di qualsiasi processo. Il 3 luglio 1992 Bettino Craxi prese la parola alla Camera. Nel suo discorso chiese a tutto il Parlamento, governo e opposizione, di assumersi la responsabilità di dare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica innescata dalla diffusa illegalità del finanziamento dei partiti. Il 15 dicembre il leader socialista fu raggiunto da un avviso di garanzia (il primo di una lunga serie, a causa anche della improvvisa morte del segretario amministrativo del Psi, Vincenzo Balzamo) in cui, tra l'altro, si citavano proprio le sue dichiarazioni in Parlamento come prove della corruzione relativa ai costi della politica. Il 25 gennaio Craxi propose al Parlamento l'istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. L'11 febbraio si tenne a Roma l'Assemblea nazionale del Psi. Craxi lasciò dopo 16 anni la carica di segretario del partito. Il suo posto fu occupato da Giorgio Benvenuto prima, e da Ottaviano Del Turco dopo. Iniziava la fase finale della vita del Partito socialista che si sciolse ufficialmente con il congresso del novembre 1994. Il 29 aprile 1993 la Camera fu chiamata a votare l'autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, richiesta dalla Procura di Milano. Nel suo intervento parlamentare il leader socialista denunciò il carattere sistemico del finanziamento illegale della politica negando che questa materia potesse essere considerata "puramente criminale". La Camera negò l'autorizzazione a procedere. I giornali italiani gridarono allo scandalo, i ministri pidiessini del neocostituito Governo Ciampi si dimisero per protesta. Nel pomeriggio di quella stessa giornata, Craxi fu fatto oggetto di cori, insulti e lancio di monetine all'uscita dell'Hotel Raphael, l'albergo nel centro di Roma suo quartier generale sin dagli anni delle prime trasferte romane. Il 4 agosto 1993, a Montecitorio, Bettino Craxi pronunciò il suo ultimo discorso da parlamentare: "Per quanto riguarda il mio ruolo di segretario politico – dichiarò – io mi sono già assunto tutte le responsabilità politiche e morali che avevo il dovere di assumere, invitando senza successo altri responsabili politici a fare altrettanto con il medesimo linguaggio della verità (...). Per parte mia continuerò a difendermi nel modo in cui mi sarà consentito di farlo, cercando le vie di difesa più utili e più efficaci, e senza venire mai meno ai miei doveri verso la mia persona, la mia famiglia e tutte le persone che stimo e rispetto, siano esse amici o avversari".
HAMMAMET. Nel maggio del 1994 Craxi si trasferì nella sua casa di Hammamet, in Tunisia, dove rimase interrottamente fino alla morte. La Procura della Repubblica di Roma, intanto, ne chiese l'arresto. Da quel momento Bettino Craxi fu considerato un latitante. Lui continuò a definirsi un esule. Il Pool di Milano lo accusò di arricchimento personale, perseguito attraverso tangenti raccolte per finanziare illecitamente il suo partito. Più tardi lo stesso procuratore generale Gerardo D'Ambrosio dichiarò che Bettino Craxi non si arricchì personalmente. In Tunisia l'ex leader socialista fu protetto dal presidente Ben Alì, che si oppose alla richiesta di estradizione avanzata dalla Procura milanese. Da Hammamet Craxi continuò la sua battaglia, sia sul fronte della propria difesa personale, nei molti processi cui fu sottoposto, sia su quello della polemica politica, denunciando l'uso violento e strumentale della leva giudiziaria nella transizione del sistema politico italiano da una Repubblica dei partiti a una delle oligarchie e dei potentati economici. Riteneva l'accanimento giudiziario nei suoi confronti l'espressione massima di questa strategia. Nei sei anni di permanenza in Tunisia pubblicò su questo tema centinaia di articoli, note, comunicati e alcuni volumi (tra cui Il caso C.), comunicando ordinariamente via fax. Dedicò il suo tempo anche agli amati studi garibaldini, alla composizione di litografie e alla decorazione di anfore con la vernice tricolore. Le sue condizioni di salute, critiche già dal 1996, si aggravarono ulteriormente. Fu operato per un tumore al rene da chirurghi dell'Ospedale San Raffaele di Milano di concerto con i colleghi tunisini. L'intervento riuscì, il suo rene fu espiantato, ma non ci fu il tempo per un'ulteriore operazione resa necessaria dai problemi al cuore e dal diabete cronico. L'unico tentativo sarebbe stato un complesso intervento cardiochirurgico in Italia, ma fu posto il veto della magistratura. Bettino Craxi morì ad Hammamet il 19 gennaio 2000 per un arresto cardiaco. Per suo desiderio fu sepolto nel piccolo cimitero cristiano della cittadina tunisina. Sulla sua tomba è inciso: "La mia libertà equivale alla mia vita".
Bettino Craxi a 20 anni dalla morte: la storia e le foto. Dai primi passi a Lambrate alla guida del Psi nel 1976. Dal governo degli anni '80 a Sigonella, dal CAF ad Hammamet. Edoardo Frittoli il 17 gennaio 2020 su Panorama. Bettino Craxi vide la luce il 24 febbraio 1934, nella Milano del ventennio fascista. Era figlio primogenito dell'avvocato siciliano Vittorio, che si era stabilito nel capoluogo lombardo per sfuggire alle conseguenze delle proprie idee socialiste. Il rifiuto di prendere parte alle manifestazioni pubbliche del regime, fece sì che il piccolo Bettino venisse iscritto al collegio cattolico De Amicis di Cantù, in contemporanea allo sfollamento della famiglia dopo che lo studio legale del padre (punto di incontro di militanti socialisti come Sandro Pertini, Lelio Basso, Luigi Meda) fu danneggiato dai bombardamenti alleati. Durante il periodo trascorso in Val D'Intelvi la famiglia Craxi si adoperò per proteggere gruppi di ebrei in fuga verso la Svizzera, mentre il giovane Bettino era entrato nel mirino dei repubblichini per il suo atteggiamento apertamente ostile nei confronti dei Tedeschi.
Da Lambrate a Roma, passando per Sesto San Giovanni. Dopo la guerra il padre Vittorio fu nominato viceprefetto a Milano, assieme a Riccardo Lombardi. Successivamente promosso prefetto, fu trasferito a Como. Nel 1948 Vittorio Craxi si presentava alle elezioni politiche nei ranghi del Psi del frontismo, uscendone sconfitto. In questa occasione ebbe una svolta la passione politica di Bettino Craxi (allora appena 14enne) che lo porterà ad iscriversi al partito e a stabilire la propria attività a Milano, presso la storica sezione di Lambrate che fu già casa del fascio e in seguito sede della famigerata "volante rossa". La personalità del giovane Bettino venne notata ben presto da Guido Mazzali (storico direttore dell'"Avanti!" clandestino e deputato del Psi dal 1948) e dal segretario del partito Pietro Nenni. Dal 1952 al 1957 l'ascesa dell'ambizioso Craxi parve inarrestabile, fino a giungere alla nomina nel 1957 al comitato centrale del partito. Furono i fatti di Ungheria dell'anno precedente a determinare il cammino ideologico del giovane socialista milanese, che maturò il definitivo allontanamento dai dogmi di Mosca ai quali molti compagni di partito erano rimasti ancorati nel nome del frontismo. Il corso "autonomista" del giovane Craxi generò la sua messa in minoranza nel comitato centrale. Mazzali decise allora di riservare a Craxi una prova che certamente ne avrebbe forgiato il carattere caparbio e la capacità oratoria e strategica. La giovane promessa del Psi fu inviata nella "fossa dei leoni" di Sesto San Giovanni, la città dell' industria pesante meglio nota come la "Stalingrado d'Italia" per la fortissima presenza di maestranze e sindacati di stretta osservanza comunista. Il periodo durò tre anni, prima che Craxi venisse richiamato a Milano e nominato assessore all'economato durante l'amministrazione di Gino Cassinis prima e Pietro Bucalossi poi. Nell'ultimo periodo di permanenza nella giunta milanese di centro-sinistra si occupò di assistenza pubblica con l'assessorato alla Beneficenza e Assistenza, guidato fino alla nomina a segretario federale del Psi nel 1965. Candidato alle politiche del maggio 1968, l'autonomista Craxi è eletto deputato alla Camera. Due anni più tardi, il secondo passo verso l'ascesa ai vertici nazionali del partito con la nomina a vice-segretario nazionale condivisa con Tristano Codignola (lombardiano) e Giovanni Mosca (uomo di De Martino). Nel 1972, con De Martino segretario nazionale, a Craxi sono affidati i rapporti internazionali del Psi. Da questo momento il futuro leader socialista sarà impegnato sempre più costantemente nelle questioni di politica estera, contribuendo attivamente a creare una salda rete tra i rappresentanti dell'internazionale socialista come il tedesco Willy Brandt e il francese François Mitterrand. Legò in particolare modo con il presidente socialista cileno Salvador Allende e si occupò di assistere i partiti socialisti clandestini in Grecia e Portogallo.
Dalla guida del partito alla guida del Paese. L'occasione finale per l'ascesa di Craxi ai vertici del Psi avvenne all'indomani della sconfitta elettorale socialista nelle elezioni politiche del 1976, che videro il famoso "sorpasso" comunista e la decrescita della Dc e del Psi. I socialisti, frenati dall'immobilismo correntista, esautorarono De Martino durante la storica riunione dell'hotel Midas, dalla quale Bettino Craxi uscì segretario nel segno dei "giovani riformisti" e dello svecchiamento dei ranghi del partito. Come segretario del Psi Craxi mosse i primi passi nell'Italia degli anni di piombo culminati con il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro, rappresentando la principale voce in favore della trattativa con i sequestratori contrapposta alla linea della fermezza dei comunisti e dei democristiani. Le conseguenze del caso Moro portarono ai governi di solidarietà nazionale e soprattutto all'elezione al Quirinale di un socialista, Sandro Pertini. All'inizio degli anni '80 il Psi di Bettino Craxi sviluppò quella che sarà nota come la "strategia dell'alternativa", in netta contrapposizione al compromesso storico Dc-Psi concepito nel decennio precedente, con l'obiettivo primario di ritagliare una sempre più marcata autonomia dei socialisti che garantisse lo spazio politico necessario alla possibile guida del Paese. L'inizio degli anni '80 fu caratterizzato tuttavia da una difficile situazione politica nazionale ed internazionale, quest'ultima segnata dagli effetti della guerra fredda e dagli sviluppi drammatici del conflitto arabo-israeliano. Sul fronte interno invece, Bettino Craxi dovette far fronte all'ostilità dei comunisti di Enrico Berlinguer e dall'astro nascente di Ciriaco de Mita, suo futuro rivale nella leadership di governo. Sul fronte interno, ancora sotto la minaccia della strategia della tensione (strage di Bologna del 2 agosto 1980) e del terrorismo (omicidio di Walter Tobagi, uomo molto vicino a Craxi) i socialisti entrarono a far parte nuovamente dell'esecutivo con il secondo governo Cossiga con ben cinque ministri (tra cui Gianni de Michelis), esperienza replicata anche nel governo Forlani dopo la Caduta di Cossiga per il ritiro di Zaccagnini. Al congresso di Palermo dell'aprile 1981 la leadership di Craxi, affiancato dai luogotenenti Claudio Martelli e Gianni De Michelis, uscì rafforzata. L'anno seguente il Presidente Pertini rompeva finalmente un tabù che durava da quasi 40 anni, affidando l'esecutivo per la prima volta ad un non-democristiano: il repubblicano Giovanni Spadolini. L'ultimo frammento del muro che separava Craxi dalla guida del Paese cadde quando a cadere fu anche il governo Spadolini in seguito al ritiro dei ministri socialisti. Alle elezioni anticipate del 26/27 giugno 1983 il Psi trionfò, raggiungendo l'11,4% dei voti. La Democrazia Cristiana arretrò sensibilmente, facendo rischiare a De Mita la guida del partito. Ancora una volta Pertini fece il passo storico, affidando con entusiasmo la guida del Governo al primo socialista della storia dell'Italia repubblicana (4 agosto 1983). Il primo governo Craxi fu caratterizzato dall'escalation dello scontro tra socialisti e comunisti, soprattutto in occasione del taglio operato da Craxi per decreto di tre punti percentuali della cosiddetta scala mobile. La reazione comunista e della Cgil (spaccata in due dall'azione di Craxi) non si fece attendere e fu caratterizzata da un forte ostruzionismo parlamentare e da grandi scioperi. Addirittura nel 1985 il Pci promosse un referendum abrogativo che tuttavia fu vanificato dal voto, rafforzando ulterioremente la posizione di Craxi che parve allora aver raggiunto uno dei suoi principali obiettivi, la “governabilità”. Nel 1984 il governo a guida socialista firmò la revisione del Concordato con la Santa Sede, che eliminava l'obbligatorietà dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Il periodo dal 1983 al 1986 fu caratterizzato da una congiuntura economica favorevole all'Italia, che contribuì (parallelamente alla discesa dell'inflazione) alla crescita sensibile del potere d'acquisto dei salari. Al miglioramento delle condizioni economiche del Paese tuttavia non fece da contraltare una riduzione sensibile del debito pubblico che,anzi si impennò negli anni della guida del Governo da parte di Bettino Craxi. Se da un lato la guida “decisionista” e carismatica del leader socialista aveva impresso un'accelerazione delle istanze riformiste, queste rimasero in buona parte disattese a causa della macchinosità e dell'alta conflittualità nel governo del pentapartito. Fu proprio l'attrito con Ciriaco de Mita, con il quale Craxi aveva sottoscritto un accordo di alternanza al governo tra Psi e Dc (noto come il “patto della staffetta”) a consumare l'esperienza del prima governo Craxi che, messo in minoranza su un decreto sulle amministrazioni locali, fu costretto a dimettersi il 27 giugno 1986. In politica estera, i primi anni '80 furono un periodo molto turbato per le crescenti tensioni internazionali in medio oriente e tra le due superpotenze. Nel 1980 a Washington era stato eletto il repubblicano Ronald Reagan, con il quale il leader socialista impostò da subito un dialogo costruttivo, interrotto soltanto più tardi dall'incidente di Sigonella. Ma il massimo impegno di Craxi si concentrò sulle questioni che riguardavano il medio oriente ed il Mediterraneo, che il leader socialista considerava di interesse primario per la politica estera italiana. La storia offrì a Craxi prove indubbiamente difficili. A partire dalla crisi degli euromissili, scoppiata con l'installazione dei missili nucleari sovietici SS-20 nei paesi satellite dell'Urss, nel cuore dell'Europa. La risposta americana prevedeva che l'Italia finisse al centro della questione, con la richiesta a Roma di installazione di missili americani "Pershing" e "Cruise" sul territorio italiano. Dopo la concessione da parte del Governo Spadolini dell'area dell'ex aeroporto siciliano di Comiso per il posizionamento delle testate nucleari, anche Bettino Craxi (con i socialisti che partecipavano all'esecutivo) fu per la concessione, le cui conseguenze contribuiranno ad allontanarlo ulteriormente dal Pci di Berlinguer che organizzava manifestazioni contro la Nato, gli Usa e gli euromissili. L'accettazione della richiesta americana fu tuttavia controbilanciata dalla richiesta di Craxi alle autorità Usa perchè accelerassero i tempi per il dialogo sul disarmo nucleare. Il secondo banco di prova per Bettino Craxi fu certamente la crisi del Libano, direttamente legata alle conseguenze del conflitto arabo-israeliano sulla questione del riconoscimento dello stato della Palestina. Su quest'ultimo punto Craxi fu inflessibile. Da grande estimatore di Garibaldi, il leader socialista era un convinto assertore dell'indipendenza e della libertà dei popoli oppressi, compreso quello palestinese. Ebbe cordialissimi rapporti con il leader dell'OLP Yasser Arafat e non mancò in più occasioni di difenderne le ragioni anche quando a parlare erano le bombe del terrorismo palestinese, creando attriti con Israele e con il principale alleato, gli Stati Uniti. In occasione delle due missioni militari italiane nel Libano sconvolto dalla guerra civile Craxi ne rivendicò l'utilità a protezione dei civili palestinesi minacciati di morte nei campi profughi. Con il leader palestinese Craxi si incontrò a Roma nel 1981 in una visita che generò un forte strascico polemico e le critiche degli americani. Al termine della crisi libanese, durante la quale intrattenne un dialogo continuo anche con il leader socialista druso Jumblatt, Craxi seguì da vicino le sorti del capo dell'OLP ormai cinto d'assedio e non escluse l'opzione di inviare la Marina Militare per la sua evacuazione. Lo sforzo di Craxi -europeista convinto- teso a garantire per l'Italia un ruolo di primo piano quale garante della pace nel Mediterraneo e in medio oriente, emerse pienamente nel caso dell'incidente di Sigonella dell'ottobre 1985. Durante una crociera al largo di Port Said, la nave italiana "Achille Lauro" fu sequestrata da terroristi palestinesi. Bettino Craxi si gettò in un attività diplomatica frenetica che portò le trattative con il leader Abu Abbas vicine alla risoluzione quando all'improvviso il commando giustiziava Leon Klinghoffer, un cittadino americano disabile di religione ebraica. Il commando scelse la resa alle autorità italiane, ma l'omicidio causò l'intervento degli Stati Uniti che tentarono in ogni modo di farsi consegnare i membri del commando. Le autorità italiane affermarono che essendo l'assassinio avvenuto su una nave italiana, i terroristi avrebbero dovuto essere processati in Italia. Durante il volo di trasferimento verso l'Italia il jet egiziano con i terroristi a bordo fu intercettato dai caccia americani e costretto ad atterrare alla base di Sigonella. Qui l'aereo fu circondato sulla pista da Carabinieri e militari della VAM (Vigilanza Aeronautica Militare), tra cui diversi giovani di leva. Gli americani per tutta risposta inviarono gli specialisti della Delta Force, che a loro volta circondarono gli italiani nel tentativo di farsi consegnare Abbas e compagni. Iniziò così il famoso braccio di ferro Reagan-Craxi vinto da quest'ultimo con la rinuncia finale al blitz da parte delle forze americane. Alla metà del decennio il governo Craxi dovette affrontare un'altra crisi internazionale , questa volta con la Libia del colonnello Gheddafi, in occasione del bombardamento di Tripoli da parte dell'aviazione Usa come ritorsione all'attentato della discoteca di Berlino Ovest in cui persero la vita alcuni militari americani. Anche in questo caso la priorità del leader socialista fu quella di proseguire lungo la strada del dialogo di cui l'Italia si era fatta portavoce, arrivando a negare l'uso delle basi aeree sul territorio nazionale costringendo i cacciabombardieri a decollare dalle basi britanniche evitando lo spazio aereo italiano. Molti sostengono che fu lo stesso Craxi ad avvisare il colonnello dell'imminente raid dell'aprile 1986 salvandogli la vita. Il primo governo Craxi fu fino ad allora il più lungo della storia repubblicana, arrivando quasi al termine della legislatura e fu succeduto da un secondo esecutivo più breve guidato dal leader socialista fino al 3 marzo 1987.
Dagli anni del "CAF" ad Hammamet. Gli anni seguiti all'esperienza di governo videro Craxi riconfermato con un voto pressoché plebiscitario alla guida del partito, che partecipò ai successivi governi a guida Dc (Goria, Andreotti). In questi anni il segretario socialista fu impegnato alla costruzione di una serie di alleanze che avrebbero dovuto scardinare l'asse politico della Dc demitiana con il concerto dei due democristiani a lui più vicini, Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti. L'alleanza strategica, nota meglio con le iniziali dei tre cognomi “CAF” era funzionale al ritorno del Psi di Craxi alla guida del paese, in un mondo stravolto dalla caduta del muro di Berlino che per Craxi avrebbe potuto significare la vittoria decisiva nei confronti dei comunisti e la nascita di un grande partito socialdemocratico di respiro nazionale ed europeo. Un'altra grande battaglia rimasta un “ululato alla luna” fu il progetto di riforma della Repubblica in senso presidenzialista, approssimandosi la fine del mandato di Francesco Cossiga. Il disfacimento del partito comunista parve offrire poi l'occasione per una nuova alleanza “alternativa” a sinistra con il neonato Pds di Achille Occhetto, ma il progetto fallì per i timori degli ex-comunisti di rimanere fagocitati dalla egemonia del segretario socialista e per la diffidenza dell'alleato Andreotti nei confronti di quel nuovo soggetto politico. Nel 1990 gli equilibri politici italiani subirono un ulteriore scossa dalla scoperta della rete Gladio, dalle cosiddette “esternazioni” del picconatore Cossiga e dall'esito inaspettato del referendum promosso da Mario Segni sull'abolizione delle preferenze multiple in campo elettorale, che tutti i partiti della maggioranza avevano osteggiato, compreso il Psi. Altri fattori che contribuirono al terremoto politico dei primi anni '90 furono l'esaurirsi della congiuntura economica favorevole del decennio precedente e la mancata riduzione del debito pubblico. Alla debolezza dei partiti della maggioranza contribuiranno in modo determinante il primo successo elettorale della Lega di Umberto Bossi e gli esiti dell'attacco allo Stato da parte della mafia dei “corleonesi”, culminato con l'uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel febbraio del 1992 era stato arrestato dai magistrati milanesi del pool il manager pubblico socialista Mario Chiesa nell'ambito dell'inchiesta relativa alle tangenti al Pio Albergo Trivulzio. Presto allargatasi a macchia d'olio, l'inchiesta poi nota come “Mani Pulite” incise in modo determinante sull'esclusione di Craxi nella corsa alla presidenza della Repubblica (sarà eletto Oscar Luigi Scalfaro) sia a Palazzo Chigi, mentre al Governo fu nominato il luogotenente di Craxi Giuliano Amato. Nonostante i dibattimenti parlamentari e le dichiarazioni di Craxi sulla realtà del finanziamento illecito ai partiti come “sistema universale e conosciuto”, le indagini di Antonio di Pietro e del pool proseguirono amplificate dall'ampio spazio mediatico di televisioni e giornali. Eroso dall'imminente sfacelo del Psi, l'11 febbraio 1993 Craxi si dimise dalla carica di segretario che aveva mantenuto dal lontano 1976, dopo avere ricevuto il primo avviso di garanzia alla fine dell'anno precedente (15 dicembre 1992). In seguito alla partecipazione all'udienza del caso “Enimont” e al precedente drammatico suicidio in carcere di Gabriele Cagliari, presidente socialista dell'Eni dal 1989, Craxi scelse la via dell'esilio volontario ad Hammamet, dove possedeva una villa, mentre proseguivano i processi a suo carico e le informazioni di garanzia che arrivarono a 11. Negli ultimi anni di vita il leader socialista fu gravemente condizionato dal peggioramento delle proprie condizioni di salute a causa di una grave forma di diabete mellito. Tuttavia Craxi non smise di seguire attentamente e commentare le vicende politiche dell'Italia dopo il terremoto che aveva cancellato tutti i partiti della prima repubblica. Dopo che nell'autunno 1999 le sue condizioni di salute peggiorarono decisamente (subì tra le altre cose l'asportazione del rene destro) e con una sola coronaria ancora funzionante, Bettino Craxi si spense per una crisi cardiaca tra le braccia della figlia Stefania il 19 gennaio 2000, all'alba del nuovo millennio.
· La Ricorrenza della morte.
Craxi e i sette nani. Marcello Veneziani, La Verità 17 gennaio 2020. “Ho fatto tutto di corsa in una specie di frenesia che mi bruciava l’animo. Ho così commesso anche molti errori. E tuttavia, quello che io penso è che nella mia vita ho reso grandi servigi all’Italia. La storia, se non sarà scritta da storici di regime, dirà quanto questo è vero. Certo non merito di essere condannato a morire lontano dal mio Paese”. Con questo lapidario giudizio, quasi testamentario, Bettino Craxi rispose a una mia domanda se fosse pentito dei suoi errori e fosse tentato di tornare in Italia. A ripensarci oggi sorge una strana nostalgia per l’orco. Acuita non solo dall’anniversario, il ventennale della sua morte da esule brigante in Tunisia. E non solo dal bel film di Gianni Amelio e Agostino Saccà dedicato a lui, con un Favino che sembra davvero Bettino; un film che pare ispirato da sua figlia Stefania, vera coprotagonista del film. Ma reso ancora più acuto dal paragone con la miseria della classe di governo presente. Le monetine al Raphael furono una piccola Piazzale Loreto, incruenta ma avvilente. Craxi non fu mai popolare, non ebbe mai consensi maggioritari, non faceva molto per rendersi simpatico. Fu burbero anche con “gli intellettuali dei miei stivali”. Ma aveva il senso della Grande Politica e della storia. Quando lo intervistai (con risposte scritte), nel dicembre del ’97 per il settimanale che allora dirigevo, Craxi era ricoverato al Policnico Taoufik di Tunisi. Era già un Craxi postumo, ragionava col distacco della storia. Aveva un piede, non per modo di dire, già nella fossa. Temeva per l’Italia, riteneva il bipolarismo “un’offesa alla democrazia e una rappresentazione falsa della reale società politica”. Riteneva gli italiani in prevalenza di centro-destra. Agrodolce era il suo giudizio su Berlusconi. Reputava D’Alema il politico caratterialmente più vicino a lui, figlio come lui della partitocrazia. E si divertiva a notare che “quando D’Alema alza la voce gli danno del miglior Craxi”. Considerava passeggero l’effetto Di Pietro in politica e considerava Fini “un vuoto incartato”, in cui “le forme prevalgono sulla sostanza”. Titolai l’articolo: “Intervista al miglior politico degli ultimi vent’anni”. Confermo il giudizio, anzi oggi lo raddoppierei: “degli ultimi quarant’anni”. Spiace dirlo a uno come me, mai stato socialista o di sinistra, e nemico sin da ragazzo dell’arroganza e della corruzione al potere. Craxi mise in crisi il consociativismo catto-conf-comunista, con supporto di laici e bella stampa; tentò di modernizzare la sinistra e sdoganare la destra, liberandosi dalla pregiudiziale antifascista dell’arco costituzionale; varò il nuovo Concordato e la nuova scala mobile, pensò a una grande riforma istituzionale che riportasse al centro della politica la decisione, l’elezione diretta del Capo dello Stato. Favorì la revisione storica, la passione nazionale e risorgimentale, il socialismo tricolore. A lui si deve il governo più duraturo della prima repubblica, che coincise col periodo di maggior vitalità, ottimismo e benessere dell’Italia e di gran prestigio internazionale, da quinta potenza mondiale (ma i debiti crescevano). Sigonella fu un mirabile esempio di sovranità nazionale; che costò caro a Craxi e forse ad Andreotti. Craxi si circondò non solo di nani e ballerine, ma anche di intelligenze politiche affilate, di prim’ordine e di cenacoli intellettuali come il laboratorio di Mondoperaio. Ciò non sminuisce le sue responsabilità nell’Italia del malaffare, della partitocrazia e delle tangenti. Lo Statista aveva un suo doppio, Ghino di Tacco, o il Cinghialone come lo chiamava allora Feltri. Ma non fu lui ad avviare la corruzione politica e il finanziamento losco dei partiti, già in uso grazie alla sinistra dc sin dagli anni ’50 nel parastato e ai primi socialisti al potere negli anni Sessanta. Lui cercò di liberare il Psi e il Paese dalla morsa tra il Pci che godeva di sostegni anche economici sovietici più la rete delle coop, e della Dc che gestiva potere e sottopotere. Craxi disegnò uno Stato autorevole che libera il Mercato ma conserva il primato della politica sull’economia; apre alla religione senza essere clericale: per Craxi il problema non era tacitare la Chiesa ma dare prestigio allo Stato e autorevolezza alla politica. È il vuoto di decisione politica che porta a trovare supplenze, dalla magistratura alla finanza, dalla chiesa alle ingerenze internazionali. Craxi era per un’Italia laica, moderna ed emancipata ma non avrebbe ridotto la sinistra a difendere gay, aborti, eutanasie, zingari, tossici e clandestini, ferma all’antifascismo. Con Craxi avemmo l’unica efficace sinistra di governo che ha prodotto la repubblica italiana. Certo, un po’ brigante, affarista e malandrina. Non idealizziamo, non dimentichiamo, vediamo tutti i lati. È vero, ci fu una pianificazione dei pedaggi da pagare alla politica. Ma la politica non si può giudicare solo con la morale e col codice penale; si giudica soprattutto dagli effetti che produce sulla vita del Paese e dei suoi cittadini, sul ruolo dello Stato rispetto allo sviluppo, i costi vanno rapportati ai benefici. E poi, lo vediamo oggi, i cretini incompetenti fanno più danni dei briganti capaci. Quando emerse Renzi, molti s’illusero che fosse un nuovo Craxi. Più loquace, più brillante ma meno autorevole, meno solido, meno legato alla storia italiana. Disponeva, a differenza di Craxi, di un partito di maggioranza, non aveva rivali, ma non si rivelò all’altezza del compito e alla fine restò vittima di se stesso e di una sinistra che riuscì a mortificare ma non a modificare. Craxi resta il nostro ultimo grande statista. Si, fu un professionista della politica, prosperò con lui il malaffare; ma daremmo cento dilettanti grillini e sinistri allo sbaraglio per avere uno come lui. Ad avercene…M.V. La Verità 17 gennaio 2020
Il dibattito sulla figura di Craxi: troppi tifosi e analisi distaccate. Roberto Rampi il 22 Gennaio 2020 su Il Riformista. In queste settimane si è detto e scritto molto di Bettino Craxi. E per lo più, ancora una volta, si è scritto e detto in modo fazioso e con spirito di tifoseria. E si è persa l’occasione di un anniversario importante per una valutazione distaccata e pacata non solo e non tanto sulla figura politica e su quella umana, ma soprattutto sulla dinamica che attanaglia il Paese dal 1992 ad oggi, praticamente la guerra dei trent’anni del qualunquismo, dell’approssimazione e della violenza giudicante e al tempo stesso autoassolvente di questo Paese. Quel che manca è il senso della misura, quel che abbonda è l’individuazione corale da parte di un pensiero dominante e maggioritario che accomuna la maggior parte del sistema dell’informazione e del sentire pubblico e alla quale la politica, con la minuscola, si accoda in modo quasi totale. Si cominciò appunto con il tema della corruzione e delle tangenti nella politica. Tema vero e assolutamente presente. Per me erano gli anni del liceo e da appassionato di Politica giravo con la spilletta che ho ancora: tangenti no grazie. Ma una battaglia giusta per ripulire la Politica da abusi e corruttele divenne presto altro: la caccia all’untore, la demonizzazione, l’individuazione del nemico, le tv appostate fuori da palazzo di giustizia, i mostri in prima pagina. Da lettore di Manzoni mi schierai (tra i pochi giovani di sinistra purtroppo) dall’altra parte. Tutto sapeva già di colonna infame. Ma l’errore, direi epistemologico, era pensare di spazzare via una classe dirigente e così migliorare il Paese. Non è stato. Anzi. Credo sia patrimonio acquisito l’abbassamento qualitativo uniforme che ne è derivato. Invece che combattere analiticamente, chirurgicamente, puntualmente i fenomeni corruttivi e le loro cause, si è scelto di condannare la politica tout court. E da quel giorno non si è più smesso: che si tratti di dipendenti pubblici, di enti definiti inutili, di spese considerate pazze, il metodo è far di tutta l’erba un fascio, buttare tutto nel calderone, semplificare, accusare, e pensare che l’azzeramento produca risultato. Ma il risultato di ogni azzeramento è appunto lo zero, il vuoto, il nulla, il nichilismo di un tempo senza fiducia e quindi senza collettivo, senza l’altro, senza il noi, vittima di un io piccolo ma continuamente inquadrato nel proprio obiettivo a guardarsi senza guardare, a cercar conferma di esistere senza mai fare i conti con la componente di vizi che più si condannano negli altri meno si individuano in se stessi. È una totale mancanza di senso della misura, della proporzione, della serenità di vedere con quanto di positivo e di negativo sono sempre compresenti in ogni fenomeno. Tornare a quote più normali, come ci ha cantato un grande poeta.
Conte, la sinistra e la meschina fuga da Craxi. Alessandro Sallusti, Lunenì 20/01/2020, su Il Giornale. L'Italia politica di oggi, vista da Hammamet seduto sulla stessa poltrona posta davanti al televisore da cui la guardava Bettino Craxi attraverso i telegiornali, appare ipocrita e confusa come durante gli anni del suo esilio forzato. Al governo c'è sempre il Pd, che esattamente vent'anni fa, morto Bettino, propose alla famiglia funerali di Stato (rifiutati come si rifiutano le condoglianze del boia); ma che oggi - controsenso logico - non si è degnato di mandare neppure un rappresentante sulla tomba del leader socialista per onorare il ventesimo anniversario della sua scomparsa. Solo chi ha la coscienza sporca o è in malafede si rifiuta di fare i conti con la storia. Passi l'ignoranza dei Cinque Stelle e dei loro cantori, che ai tempi di Craxi statista andavano all'asilo o scribacchiavano di calcio come aspiranti giornalisti; passi che questi signori non sanno che sotto Craxi l'Italia ha avuto, per la prima e ultima volta, la tripla A dalle agenzie internazionali di rating (l'equivalente delle tre stelle per un ristorante); passi il cinismo di sbeffeggiare un morto raccontandone solo vicende giudiziarie, che se fossero loro i biografi di Dante, il Sommo poeta sarebbe ricordato come un pericoloso pregiudicato latitante a Ravenna vigliaccamente sottrattosi alla legittima condanna (a morte, tramite rogo) emessa da quei galantuomini che erano i giudici guelfi fiorentini. Lasciamo insomma stare i Cinque Stelle che sono quello che sono e che presto scompariranno nelle urne. Il problema (grosso, non riguarda solo la vicenda Craxi) è che un premier, Giuseppe Conte, che si atteggia a statista e una sinistra che si dice riformista hanno dimostrato in questa occasione con la loro esibita assenza tutta la loro piccola mediocrità. Probabilmente era da ingenui sperare l'inverso. Conte è un parvenu furbetto che ha paura della sua ombra. In quanto agli altri, si possono redimere i peccatori, non i farabutti. Eppure il grande sforzo di Stefania Craxi a riabilitare la memoria del padre non è stato vano. Non c'è stata la firma della pace all'interno della grande famiglia socialista, ma questo anniversario (film, libri, documentari, dibattiti e quant'altro) ha ridato, dopo vent'anni passati in clandestinità, dignità storica, umana e politica a Craxi e al craxismo. In questo senso, alla faccia degli avvoltoi, missione compiuta, soldatessa Stefania.
Vent’anni dalla morte di Craxi: ecco chi andrà ad Hammamet (anche leghisti ed esponenti Pd). Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Il 19 gennaio, domenica prossima, ricorrono i 20 anni della morte di Bettino Craxi, la cui vicenda viene rievocata in questi giorni anche nelle sale cinematografiche con il successo del film di Gianni Amelio «Hammamet». Proprio nella città tunisina, dove il leader del Psi trascorse gli ultimi anni della sua vita, è previsto l’arrivo di una folta delegazione di parlamentari, sindaci ed ex militanti socialisti che renderanno omaggio alla figura di Craxi. Ma se la trasferta in Tunisia di personalità che spesero la loro attività politica per il Garofano, colpisce la presenza nella delegazione anche di rappresentanti della Lega e del Pd (anche se a titolo personale). Il Carroccio di Bossi e il Pci ebbero infatti un atteggiamento di scontro aperto con Craxi e con il mondo che Craxi rappresentava. La Fondazione Craxi ha reso noto che le celebrazioni occuperanno tutto il fine settimana, dal 17 al 19 gennaio e che ad hammamet è atteso l’arrivo dall’Italia di almeno 600 persone. «La Tunisia è un paese straniero ma non estraneo» diceva il segretario socialista. «Le iniziative organizzate dalla Fondazione Craxi - è stato reso noto - avranno il loro culmine nella cerimonia di commemorazione che si terrà alle ore 10.30 di domenica 19 gennaio, giorno del ventennale della scomparsa di Bettino Craxi, presso il cimitero cristiano di Hammamet, lì dove l’ex premier socialista riposa, in un recinto di terra che si affaccia sul mare, rivolto verso l’Italia». Ecco l’elenco di quanti hanno già assicurato che saranno sull’aereo per Hammamet. Forza Italia - partito che più di altri rappresenta la continuità dell’eredità politica craxiana - sarà presente con una delegazione ufficiale guidate dalle capogruppo di Camera e Senato Maria Stella Gelmini e Anna Maria Bernini. Con loro ci saranno i senatori Francesco Battistoni, Fiammetta Modena, Maria Teresa Rizzotti e i deputati Simone Baldelli, Alessandro Cattaneo, Alessandro Battilocchio e Maria Tripodi. Della delegazione faranno parte anche due parlamentari della Lega, Armando Siri e Massimo Garavaglia, già sottosegretari nel primo governo Conte. Presenza non scontata, quella del partito di Matteo Salvini: il successo del movimento di Bossi, a partire dalla fine degli anni ‘80 fece molto leva sulla contrapposizione al sistema di potere di Craxi e del pentapartito e sull’esplodere dell’inchiesta Mani Pulite. Punto più duro di questo scontro fu l’esposizione nell’aula di Montecitorio, da parte del deputato leghista Luca Leoni Orsenigo, di un cappio all’indirizzo degli inquisiti di Tangentopoli. Era il 16 marzo del 1993 e da allora la Lega ha rivisto molto il suo giudizio su Craxi. Per Hammamet si imbarcheranno anche esponenti del Pd e di Italia Viva. Del primo fanno parte il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e il senatore Gianni Pittella (che ha un passato nel Psi e che ha specificato di partecipare a titolo personale). I renziani saranno invece rappresentati dal capogruppo in Senato Davide Faraone. Matteo Renzi, proprio nelle ultime ore, ha espresso apprezzamento per la figura di Craxi; nemmeno l’ex premier, d’altro canto, proviene dalla tradizione dell’ex Pci, partito con il quale Craxi ebbe scontri durissimi culminati con l’episodio del congresso socialista di Verona del 1984; qui l’ingresso in sala della delegazione comunista, guidata da Enrico Berlinguer, venne accolto da una bordata di fischi. «io non ho fischiato scandì Craxi dal palco - ma solo perché non so fischiare». La partecipazione più nutrita alla commemorazione in Tunisia è tuttavia quella degli ex socialisti. Davanti alla tomba di Craxi si riuniranno tra gli altri Claudio Martelli, Ugo Intini, Margherita Boniver, Maurizio Sacconi, Fabrizio Cicchitto, Claudio Signorile e l’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli.
Fabio Martini per “la Stampa” il 20 gennaio 2020. Nel piccolo, isolato cimitero cristiano di Hammamet, la tomba scavata nella sabbia dove da 20 anni riposa Bettino Craxi, in pochi minuti è presa d'assalto e diventa oggetto di un "culto" originalissimo: viene letteralmente circondata dai più ardimentosi, che pur di restare in prima fila non si fanno remore di sfiorare la copertura in marmo. Fanno muro, con l' effetto che il cimitero è talmente affollato che chi sta dietro, non capisce subito dove sia sepolto il leader socialista. E qualcuno pur di raggiungere la prima fila, arriva a camminare sulle tombe circostanti, compresa quella struggente che ricorda un bimbo "che visse tra due crepuscoli". Sono le dieci del mattino, l' anniversario dei venti anni dalla scomparsa di Bettino Craxi si consuma in questa atmosfera: più eccitata che raccolta, senza dubbio meno mesta che nelle occasioni precedenti. Dall' Italia è arrivata tanta gente, mai come nei 20 anni precedenti e in tanti sentono che è arrivata l' ora di "festeggiare" in qualche modo quel moto di curiosità collettiva che da giorni sta circondando la figura di Bettino Craxi, quasi che sia iniziato «un cambiamento nel senso comune», come suggerisce Ugo Intini. Difficile capire la profondità dell' inversione nell' opinione pubblica, ma al di là della commozione e dell' orgoglio dei tanti socialisti arrivati ad Hammamet, la vedova Anna, i figli Bobo e Stefania hanno scelto una commemorazione estremamente sobria: nessun discorso, soltanto lo sfilare di militanti, amici, parlamentari davanti alla tomba di Craxi, dove quasi tutti puntualmente si commuovono davanti all' epitaffio a suo tempo voluto dall' ex presidente del Consiglio: «La mia libertà equivale alla mia vita».
I compagni di un tempo. Tutti attorno quasi un migliaio di vecchi compagni socialisti, ma neppure uno dei "vip" politici che erano stati annunciati. E alla fine la "notizia" è proprio questa: in Italia ci sono le file al cinema per il film Hammamet, ma le principali forze politiche alla fine hanno deciso di disertare la commemorazione organizzata dalla famiglia. Craxi è ancora ingombrante? Craxi fa ancora paura? Sta di fatto che non c' era Silvio Berlusconi, che fu amico di Bettino e che se l' è cavata con un messaggio. Erano annunciate le due capigruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini e Maria Stella Germini ma al cimitero di Hammamet non c' era nessuna delle due, anche se la prima ha fatto una fugace apparizione due sere fa durante la proiezione in anteprima de "Il caso Craxi" co-prodotto da Sky e poi è subito ripartita per l' Italia. E la Lega? Nei mesi scorsi i leghisti avevano lasciato trapelare un interesse ad una "rivisitazione" della figura di Craxi, avevano fatto capire che ad Hammamet sarebbe potuto arrivare un big, ma alla fine non si sono visti né Salvini né Giorgetti e neppure il viceministro Massimo Garavaglia. Giancarlo Giorgetti, intervistato da Lucia Annunziata a Mezz' ora in più, si è limitato a dire: «Serve serenità di giudizio, lui interpretava la modernità. Come partito noi non ci siamo, storicamente all' epoca delle inchieste noi stavamo dall' altra parte, ma dopo venti anni possiamo dire cosa ci fosse di buono, abbiamo il dovere morale e storico di farlo. Non c' è stato arricchimento personale. È stato un uomo politico lungimirante, penso alla scala mobile». Alla fine, sia pure presenti a titolo personale, diversi esponenti del Pd: l' ex presidente dei parlamentari socialisti europei a Strasburgo, Gianni Pittella, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, Tommaso Nannicini. C' erano, ovviamente, diversi dirigenti socialisti della stagione craxiana - Claudio Martelli, Claudio Signorile, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Sacconi - quelli dell' unica forza organizzata, il Psi, con Riccardo Nencini e il segretario Luigi Iorio: «ll Pd faccia una riflessione storica e non lasci l' eredità politica di Craxi alla destra».
Carlo Tecce per “il Fatto Quotidiano” il 20 gennaio 2020. Vent' anni dopo la morte di Craxi nessuno vuole tardare all' incontro con se stesso. Per darsi ragione, soprattutto chi fu codardo. Bettino Craxi è un alibi di gruppo che la polvere di Hammamet inghiotte fra stravaganze, retorica e crassa ipocrisia. Più che deporre il righello della cronaca per adoperare il metro della storia, come dice un socialista di superba intelligenza, qui in Tunisia le celebrazioni per Craxi hanno sequestrato la cronaca per ricattare la storia. Improbabili eredi di Craxi in Forza Italia o Italia Viva, che neppure sanno che posto occupare in aula se più al centro o più a destra, strattonano Bettino non affascinati dal riformismo di sinistra, che all' epoca dei "blocchi egemoni" si ritagliò uno spazio vincente, ma perché convinti che la perdita di memoria collettiva abbia cancellato la latitanza tunisina e le condanne giudiziarie, rivisitato le sentenze. La famiglia ha tentato di non reiterare il solito duello su Tangentopoli, per esempio con le fotografie appese alle pareti di calce alla Medina per riaffermare il profilo internazionale di Craxi. Ma poi ci si è accorti che il tema più forte è Tangentopoli e lì si è rimasti incagliati. Il vento di Hammamet è un imprevisto che agita la serata di sabato, la comitiva si raduna in un salone stracolmo per la proiezione di un documentario di Soul Movie che va in onda su Sky. La più alta espressione della trasgressione socialista consiste nel fumare dov' è vietato, l' ex viceministro Riccardo Nencini fa un tiro di sigaretta e ascolta il compagno che gli mostra l' arte della pipa. I cacicchi socialisti di un tempo, che la fondazione di Stefania Craxi ha trasportato in Tunisia con l' ausilio di una solerte agenzia di viaggi (e un po' si sentono in gita), incorporano il misticismo craxiano con i garofani che restano assai rossi e le ciabattine assai bianche per un turno di bagni negli albergoni di riviera con i datteri in omaggio. Dove i più disinibiti camminano in accappatoio e pattine. Claudio Martelli si colloca in prima fila, ovunque, per raschiare le esitazioni durante l' epilogo di Bettino; un segaligno Ugo Intini, di poco più anziano e con la chioma più scura, ha spesso le mani giunte in una sorta di preghiera rievocativa che affronta con gli occhi socchiusi; il leghista Armando Siri teorizza il sovranismo craxiano nel partito che agitò il cappio e più che il cileno Allende abbraccia la francese Le Pen; il sindaco dem di Bergamo, Giorgio Gori cerca ispirazione per il manifesto della scalata al Nazareno di Nicola Zingaretti, contestato da Stefania perché assente insieme col governo. I giornalisti quasi si scusano per i giudici di Tangentopoli. I più eccentrici vanno in chiesa con la felpa, il cappuccio e la scritta "craxiano", che presto Matteo Salvini dovrà indossare. Un collaboratore di Stefania fa un resoconto al pubblico dei messaggi pervenuti in Fondazione e fa sorridere, con il dovuto rispetto, l' entusiasmo per la nota firmata dall' ambasciatore romeno in Italia. Alla parola Arcore, residenza di Silvio, l' autore degli auguri a Stefania, la platea si scalda. Un attimo dopo si parla di Craxi che andò a contendere elettori ai comunisti a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d' Italia. Sigonella viene raccontata come un annuncio di guerra agli Stati Uniti. Augusto Minzolini assiste compiaciuto vicino all' impianto dei fonici. Osservatori eruditi si cimentano in trattati di umana pietà - che deprimono l' arguzia e la ferocia politica che furono la cifra di Craxi - con menzioni casuali, come quelli che per compiacersi in un rigo citano l' americano Carver e l' altro il russo Dostoevskij. Amici socialisti propongono di sballarsi con il narghilé dopo il documentario che s' intitola, non si è precisato, Il caso Craxi. Non serve, la confusione già è troppa e la situazione precipita. Nel documentario il sindaco-cognato Paolo Pillitteri ha il compito di dipingere il Bettino bambino. Al fu comunista Massimo D' Alema tocca l' impresa di persuadere i socialisti che da presidente del Consiglio non ebbe responsabilità nel mancato rientro in Italia di Craxi per l' operazione a Milano. Viene ricoperto di insulti. E neanche gli concedono un surrogato di simpatia quando propone un impasto tra le campagne mediatiche contro Craxi e la forza anti-sistema dei socialisti che fu respinta dal sistema. Vent' anni dopo nessuno vuole tardare all' incontro con se stesso, ma nessuno ha capito perché venire quaggiù e, se l' ha capito, se n' è dimenticato. Luigi Bisignani ha preso un aereo di pomeriggio per sbarcare puntuale per la messa: "Io sono andreottiano, democristiano". Fu piduista e coimputato di Craxi nel processo Enimont, ha memoria di Tangentopoli e conosce chi frequenta Hammamet: "Questo è un esame di coscienza, per tanti posticipato di molto. Qualcuno deve farsi perdonare". "Io c' ero con Craxi vivo, ci sono con Craxi morto", scolpisce Umberto Del Basso De Caro, ex avvocato di Bettino ora sistemato nel Pd, che invece è salito sul volo del mattino. D' un tratto Craxi fa tendenza perché Tangentopoli non fa vergogna e chi l' ha scampata può ritenersi fortunato e ormai intangibile. Allora il sentimento comune, che non va scambiato con l' inviolabile sofferenza della famiglia, è una rincorsa immotivata a Craxi di gente che non c' entra niente con Craxi e non ricava niente, proprio niente, dal suo bagaglio politico. Un Craxi che viene adottato dai renziani in marcia verso le posizioni di Forza Italia. Chi ha creduto in Bettino fino all' ultimo, e forse oltre la logica, non c' era in Tunisia e se c' era ha preferito tacere. Venti o trent' anni anni non bastano per la storia, ma per la cronaca sono tanti. Lasciatela in pace.
I 20 anni dalla morte di Craxi: cantanti, artistici e politici a Hammamet per l’anniversario. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni, inviata a Hammamet. Seicento persone sono volate in Tunisia per rendere omaggio all’ex leader del Psi. Sono arrivati da tutta l’Italia, in aereo da Roma e Milano o in nave da Civitavecchia. Seicento persone, politici che non hanno mai smesso di dirsi socialisti, leghisti pentiti di aver agitato il cappio in Aula nei giorni drammatici di Tangentopoli, militanti e tanti semplici cittadini che si sono pagati il viaggio. Lucio Barani, senatore con Denis Verdini fino al 2018, ha portato un mazzo di garofani rossi da posare sulla tomba di Bettino Craxi e accoglie i nuovi arrivati con una battuta che racchiude il clima: «Anche voi in Terra Santa?».
Nostalgia, commozione, ricordi da consegnare ai giornalisti. Il cantante Eugenio Bennato non dimentica quando, da presidente del Consiglio, il segretario del Psi andò ad ascoltarlo in concerto: «Lo rividi anni dopo, era un leader decaduto eppure era sempre la stessa persona, con quella sua semplicità tipica degli uomini di cultura. Mi dispiace ancora oggi per il linciaggio che ha subito». Ugo Intini, già direttore dell’Avanti!, tiene i ricordi per sé e sciorina riflessioni politiche: «Ogni rivoluzione ha una pars destruens e una pars costruens. L’inchiesta di Mani pulite ha distrutto, ma non avendo un progetto non ha costruito niente. E così, buttata giù la Prima Repubblica, questo Paese è rimasto senza Repubblica». Vent’anni sono passati e l’Italia ancora si interroga. Film, libri e la figlia dell’ex premier e leader del Psi che caccia indietro le lacrime: «Vent’anni sono un tempo sufficiente per fare una riflessione serena sull’opera e la figura di Craxi». I messaggi di Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia le hanno fatto piacere. «Basta dire due paroline, abbiamo sbagliato — commenta la senatrice di Forza Italia lodando il mea culpa degli eredi di Umberto Bossi —. Non è complicato». Il Pd invece l’ha delusa. Racconta di aver incontrato per caso Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini e di averli invitati ad Hammamet. E loro? «Hanno balbettato qualcosa». È venuto Giorgio Gori, è vero, ma il sindaco di Bergamo non è in Tunisia in rappresentanza del Nazareno: «Sono qui a titolo personale, perché mi scocciava molto lasciare questa celebrazione ai politici di centrodestra. Non si buttano via le luci perché ci sono delle ombre». Pochi metri più in là, davanti alle telecamere, Stefania, la figlia del leader socialista (che ieri in una nota Silvio Berlusconi ha paragonato a De Gasperi) esalta l’Italia di Craxi rispetto «all’Italietta» di oggi e derubrica le inchieste, le tangenti e le condanne a «errori eventualmente commessi». Latitante, come accusano gli esponenti del M5S, o esule, come vorrebbe la figlia? L’enigma ancora divide. Ma il tempo della damnatio memoriae può dirsi finito. A sera, nella villa bianca dove l’ex premier ha vissuto gli ultimi anni e dove Gianni Amelio ha girato «Hammamet» con Pierfrancesco Favino, gli amici di un tempo sostano davanti alle foto del leader. Ecco Margherita Boniver, Fabrizio Cicchitto, Carlo Tognoli, Claudio Signorile, Giulio Di Donato e tanti altri che non hanno dimenticato. L’azzurro Simone Baldelli strappa risate imitando Craxi e Verdini. Luigi Cesaro, l’ex deputato azzurro passato alle cronache politiche e giudiziarie come «Giggino ‘a purpetta», si dice emozionato come il giorno in cui lo vide per la prima volta: «Incuteva soggezione». Cicchitto bacchetta a distanza Zingaretti: «Per salvare la faccia poteva dire che gli ex socialisti del Pd come Gori e Del Basso De Caro sono ad Hammamet come delegazione del partito». Tra i muri imbiancati a calce «Bettino» è ovunque. Nelle immagini in bianco e nero, nei ritratti alle pareti. Serata Craxi, in ogni angolo un pezzo di storia, in ogni capannello il morto e il vivo. La signora con i capelli bianchi è Anna, la moglie. «Mamma lasciatela in pace», aveva intimato Stefania aprendo le porte ai cronisti. La vedova dell’uomo politico che per molti è un simbolo del tragico epilogo della Prima Repubblica non ha mai lasciato queste mura. Accoglie tutti con calore, ma ai giornalisti consegna un rimprovero: «Smisi di leggere i quotidiani quando scrissero che in questa casa c’era la fontana del Castello sforzesco». E i rubinetti d’oro? Il tesoro di Craxi? Stefania, il fratello Bobo e i nipoti ci scherzano su («è nascosto in giardino, sotto le palme»), ma non certo con animo leggero. «A mio padre — è il leitmotiv della senatrice di Forza Italia — molti dovrebbero chiedere scusa».
Craxi: 20 anni fa la morte del leader socialista, in centinaia in pellegrinaggio ad Hammamet. Redazione de Il Riformista il 19 Gennaio 2020. Venti anni fa il 19 gennaio moriva Bettino Craxi. Un migliaio di italiani si sono recati al cimitero di Hammamet alla cerimonia in ricordo dell’ex presidente del Consiglio e segretario socialista che passò gli ultimi anni di vita in Tunisia per sfuggire all’arresto ai tempi di Mani Pulite. Assenti gli esponenti del governo: “Una vergogna”, attacca la figlia Stefania Craxi che dalla tomba del padre non conferma un imminente incontro con Sergio Mattarella ma affrma: “Credo che il Quirinale farà un gesto”. Mentre la moglie Anna ha aggiunto: “Sono molto commossa, la fiducia di questi amici e compagni è più grande di quanto pensassi, sono passati 20 anni e Bettino è ancora nei cuori di tanti”. “Il Pd e la Lega assenti qui ad Hammamet? Molti italiani fanno a meno sia del Pd che della Lega e forse anche noi socialisti possiamo fare a meno di entrambi”, ha affermato invece il figlio Bobo. Che ha aggiunto: “C’è una duplice lettura, siamo obbligati al ricordo e alla memoria, ma anche obbligati a ricordare che fu vittima di una persecuzione senza pari, come disse il presidente della Repubblica 10 anni fa”. “Italia ingrata nei confronti del leader socialista”, dice Silvio Berlusconi che definisce Craxi uno dei pochi statisti della prima repubblica. Per il senatore dem Marcucci invece l’ex segretario del Psi incarna “parte dei valori del Pd”. A onorare la tomba di Craxi molti esponenti della vecchia guardia socialista, come Ugo Intini, o di oggi come il senatore Riccardo Nencini, e parlamentari di Forza Italia tra cui Alessandro Cattaneo e Simone Baldelli. Il sindaco Pd di Bergamo Giorgio Gori é presente a titolo personale. Sulla tomba di Craxi campeggia una corona di garofani rossi e molti altri garofani vi sono sparsi sopra. Dietro la lapide, semplice e a livello del terreno, con la bandiera italiana e tunisina gli stendardi del Partito socialista e del Nuovo partito socialista.
Craxi, fiori ed applausi ad Hammamet per ricordare il leader socialista. Il Corriere del Giorno il 19 Gennaio 2020. Applausi, corone di fiori e raccoglimento davanti alla tomba di Bettino Craxi in Tunisia ad Hammamet nel giorno del ventesimo anniversario della sua morte. Presenti esponenti socialisti, parlamentari, giornalisti, personaggi dello spettacolo e la famiglia con la moglie Anna ed i figli Stefania e Bobo. Oggi ci sono meno esasperazioni di ieri, certo, ma c’è ancora molto opportunismo. Ci sono voluti vent’anni per discutere di Bettino Craxi con un minimo di equilibrio. La domanda è quasi sempre la stessa dietro a ogni commento politico: mi si nota di più se rivaluto l’operato di Craxi o se lo demonizzo? Mi conviene chiamarlo “statista” o “latitante” come fa D’ Alema? La domanda che invece dovremmo farci è un’altra: come dovrebbe ricordare un Paese che sa fare i conti con la propria memoria un politico come Bettino Craxi che è stato capo del governo italiano per quattro anni ed il leader di un partito “storico” come è stato il PSI per sedici anni ? La “storia” Bettino Craxi, allievo prediletto di Pietro Nenni lo ricorda come un convinto assertore della “centralità” della politica, che non nasce con la cosiddetta “questione morale“, ma intorno a temi squisitamente politici, a partire dagli anni che seguirono la sua elezione a segretario del Psi nel 1976. Applausi di emozione hanno accolto l’arrivo di Anna e Stefania Craxi, vedova e figlia del leader socialista, al cimitero cristiano di Hammamet nel ventennale della sua morte, avvenuta il 19 gennaio del 2000. Le due donne sono andate a rendere omaggio alla tomba, su cui hanno deposto una corona di garofani rossi della Fondazione Craxi. Intorno anche l’altro figlio Bobo, i nipoti, gli altri parenti e gli amici. “Sono venuti in mille, come quelli di Garibaldi – ha sottolineato Stefania Craxi -. La testimonianza che Craxi è vivo, al contrario dei tanti morti che pretendono di discutere sui suoi errori prima ancora che sui loro“. “Sono molto commossa, la fiducia di questi amici e compagni è più grande di quanto pensassi, sono passati 20 anni e Bettino è ancora nei cuori di tanti”, ha dichiarato la vedova Anna Craxi ai microfoni di Sky Tg24. In tanti hanno il simbolo del Psi appuntato all’occhiello, molti un garofano rosso nella tasca della giacca e spunta anche qualche bandiera rossa delle sezioni del partito. Dietro la tomba sono state appese le bandiere di Italia e Tunisia, più due del Partito socialista e una dei giovani socialisti. Sulla tomba di Bettino Craxi qualcuno ha posto un libro, mentre sul libro dei ricordi una mano ha scritto “Craxi l’immortale”. Un cantante ha intonato l’Ave Maria di Schubert e la breve cerimonia si è conclusa con un lungo applauso della piccola folla. Erano presenti centinaia di persone, tra le quali una trentina di parlamentari e molti amministratori. Presente anche il cantautore Eugenio Bennato, che spiega di essere stato invitato dalla figlia di Craxi, Stefania. “Ho uno straordinario ricordo dei miei incontri con Craxi in Tunisia”, ha dichiarato, per poi aggiungere: “Sono qui per la grande sensibilità di Craxi, che veniva a vedere i miei concerti in Tunisia. La prima volta era presidente del Consiglio. Nel periodo della sua permanenza forzata ad Hammamet, mi è successo in tre occasioni di venire in Tunisia per dei concerti e Craxi non è mai mancato“. Uscendo la vedova Craxi è stata avvicinata e salutata tra gli altri da Claudio Martelli, ex numero due del Psi, presente al pari di altri esponenti storici socialisti come l’ex-ministro Claudio Signorile, l’ex deputata e senatrice Margherita Boniver, Carlo Tognoli, ex primo cittadino di Milano, Fabrizio Cicchitto con un passato prima nel Psi e poi nel Pdl, Giulio Di Donato che nel 1989 ha ricoperto la carica di vicesegretario del PSI di Bettino Craxi, il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori. Presente anche Ugo Intini, per anni direttore del quotidiano socialista Avanti! Tra la piccola folla ci sono anche i giornalisti Alessandro Sallusti e Luigi Bisignani. Presente a titolo personale anche il senatore Gianni Pittella ex-socialista ora esponente del Pd . “Non si tratta tanto di celebrare, quanto di aprire un dibattito su un tema fondamentale : la cultura socialista ha cittadinanza nella sinistra? Io credo di sì e la sinistra non deve fare più l’errore di regalarla alla destra come ha fatto per 20 anni“. Forza Italia ha partecipato invece una delegazione ufficiale guidata dalle capogruppo al Senato ed alla Camera, Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini e composta dai senatori Francesco Battistoni, Fiammetta Modena, Maria Teresa Rizzotti e dai deputati Simone Baldelli, Alessandro Battilocchio, Alessandro Cattaneo, Maria Tripodi. In rappresentanza dei gruppi parlamentari della Lega, ad Hammamet il senatore Armando Siri ed il deputato Massimo Garavaglia. Polemiche per l’assenza di una delegazione ufficiale del Pd. Secondo Stefania Craxi soprattutto gli ex comunisti “non vogliono fare i conti con il passato”. E si chiede “Quando ammetteranno che c’è stata persecuzione giudiziaria?“. Stefania Craxi uscendo dal cimitero di Hammamet ha risposto ai giornalisti presenti alla domanda sulla possibilità che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come riportato oggi dal quotidiano “La Stampa“, incontri lei e i vertici della fondazione. “Credo che il Quirinale farà un gesto. Un incontro? Non sono io a decidere, sono certo che il presidente saprà trovare le forme giuste“. E’ bene fare qualche distinguo “storico” su Tangentopoli, una stagione di protagonismo dei magistrati milanesi del Pool “Mani Pulite” della Procura di Milano, che ha costituito il loro trampolino di lancio politico. Come ha riconosciuto lo stesso magistrato Gerardo D’Ambrosio, le accuse rivolte a Craxi non riguardavano casi di arricchimento personale, ma di finanziamento illegale della politica nella sua veste di leader del Psi. Dietro le quinte di quel sistema illegale di finanziamento della politica, si annidavano corruzione e distorsioni della concorrenza. Ma bisogna ricordare che quel “sistema” a cui si aggiungevano dei flussi di denaro provenienti dall’estero, riguardava tutti i partiti politici della prima Repubblica, in in periodo storico in cui le spese erano molto alte, per ragioni nobili e meno nobili, come ad esempio le guerre interne tra le “correnti” presenti nei partiti. Però la politica questo problema non volle mai affrontarlo, e bisogna ammettere che gli stessi socialisti lo tirarono fuori tempo massimo) e le conseguenze di quella scelta sono ancora attuali. Qualcuno preferì affidarsi alla spettacolarizzazione dei processi, che arrivavano con precisione “chirugica”, pianificata a tavolino, anche perché il reato di finanziamento illecito ai partiti era stato depenalizzato per alcuni anni ma non per tutti. Non si riesce a capire anche per chi sia stato anche solo sfiorato da quella passione, come i politici rimasti fuori dal ciclone non abbiano sentito l’impulso di arginare l’odio, di manifestare la necessità di spiegare che cosa fossero la politica e il suo finanziamento nella Prima Repubblica. Sarebbe stato meglio spiegare che non c’era da vergognarsi se la politica per un periodo aveva riempito alcuni vuoti anche finanziariamente, stipendiando gli amministratori locali ed aiutando i dissidenti delle dittature di destra o di sinistra (o quelli di entrambe nel caso dei socialisti). Tutto questo, sia chiaro, non giustifica il sistema illegale con cui la politica si finanziava, o le distorsioni che imponeva sull’attività economica. Ma era necessario spiegarlo ugualmente. Nel Paese si sente la mancanza di un “riformismo” al passo coi tempi e la lezione di Craxi, potrebbe aiutarci a riannodare fili spezzati da troppo tempo. Bisognerebbe riflettere e tenere nel giusto conto, per esempio, su come restituire la dovuta dignità al ruolo democratico della politica. E capire che la democrazia è più debole se la politica possono farla solo i ricchi, o se si taglia orizzontalmente la rappresentanza politica con una riduzione dei parlamentari che priverebbe interi territori e visioni politiche di una voce, e lascerebbe la scelta dei politici ai “capetti ” di partito telecomandati da società che hanno scopo di lucro personale, piuttosto che agli elettori.
Stefania: «Craxi è ancora vivo» I 5 Stelle alla Lega: lo beatificate. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni. Quando tutto è finito, quando l’ultimo dei reduci di una stagione lontana vent’anni ha posato il suo garofano rosso sulla lapide bianca, la figlia Stefania consegna alla stampa il titolo di una giornata di sole tunisino, in qualche modo storica: «Bettino Craxi è più vivo che mai, più vivo di tanti morti che pretendono oggi di riflettere sui suoi errori senza aver dibattuto sui loro». Il governo non ha mandato nessuno e il Pd si è spaccato, ma la pasionaria della famiglia Craxi dopo le lacrime sorride: «La battaglia continua. Il Quirinale farà un gesto, una sorpresa». Dopo che Sergio Mattarella sarà rientrato dal viaggio in Israele e Qatar il Colle troverà una data per ricevere, come da sua richiesta, la presidente onoraria della fondazione intitolata all’ex premier. I sopravvissuti di quella stagione ci sono tutti, o quasi. Martelli, Boniver, Signorile, Tognoli, Cicchitto, Pittella, Nencini... C’è Luisa Todini che tra le tombe sussurra, citando il film di Gianni Amelio: «Bisognava portare qui Favino truccato da Craxi». C’è il custode Kamel che sciorina ricordi e raccoglie piccole mance. E ci sono centinaia di persone, con le teste per lo più bianche e piene di rimpianti. Alle 10,30 la folla si apre per far largo al «miracolo» di una famiglia che la politica ha diviso e che pure trova il modo di mostrarsi unita. Stefania e il fratello Bobo non si scambiano una parola. Ma quando Franco Stefani, baritono e simpatizzante intona l’Ave Maria di Schubert, il figlio col cuore a sinistra e la senatrice di Forza Italia sono lì in preghiera, angeli custodi della signora Anna. Applausi. La vedova dell’ex segretario del Psi è al centro delle foto, emozionata per l’ondata di affetto di questo secondo, lungo addio: «Sono commossa, Bettino è ancora nel cuore di tanti». Il tempo di posare una corona di garofani e tutto è già finito. Resta l’eco delle polemiche romane, della rissa perpetua tra garantisti e giustizialisti, dell’esaltato di turno che dall’alto ha gridato «giù i piedi dalle tombe, incivili!». E resta l’eco dei fischi, che sabato sera hanno accolto l’intervista a Massimo D’Alema durante la proiezione del documentario Sky sulla vita e la morte di Craxi. «Lo abbiamo fischiato perché dice bugie» spiegherà fiero Luigi Bianco, 48 anni, napoletano che era nella federazione giovanile socialista. Seicento persone stipate in sala e Claudio Martelli che fa il pieno di abbracci e di selfie: «Io nuovo leader dei socialisti? No, lo sono stato in passato». Al cimitero l’ex numero due del Psi appare a cerimonia finita, ma Bobo lo stringe a sé e lo invita per la prima volta nella villa di Hammamet. È il giorno dell’orgoglio socialista e Margherita Boniver accusa gli eredi del Pci: «Hanno pascolato su quel che è rimasto del vecchio Psi, infoibato e maledetto dalla cronaca e dalla storia». Il dilemma tra damnatio memoriae e riabilitazione spacca i dem. Il senatore Tommaso Cerno sprona Zingaretti a stampare una tessera del Pd per il leader socialista, morto il 19 gennaio del 2000. Enzo De Luca loda il coraggio con cui Craxi affrontò il tramonto tunisino ed Enza Bruno Bossio attacca il gruppo dirigente del Pd: «Ha perso l’occasione di stare dalla parte giusta della storia». La parte in cui la Lega, il partito che agitava il cappio in Aula nei giorni bui di Tangentopoli, ha invece deciso di stare. «Ad Hammamet ci sarei pure andato — concede Giancarlo Giorgetti in tv, da Lucia Annunziata —. Era un politico lungimirante». Ma i grillini non girano pagina e dal Blog delle Stelle accusano: «Beatificano un latitante condannato per corruzione».
Giampiero Mughini per Dagospia il 18 gennaio 2020. Caro Dago, stamattina ci siamo ritrovati un gruppo di amici tutti abbastanza stagionati nella chiesa di Santa Maria in Trastevere ad una piccola cerimonia, una messa in memoria di Bettino Craxi. Eravamo non molti ma buoni, tutti delle brave persone. C’era l’ex braccio destro di Bettino, quel Giuliano Amato a me carissimo e di cui non smetterò di apprezzare la volta che di notte tolse dai conti correnti degli italiani qualche spicciolo che serviva a impedire che il rosso del bilancio pubblico esplodesse. Quella sì la scelta di uno statista. C’era Gennaro Acquaviva, che nel 1976 era stato il capo della segreteria politica di Craxi. C’erano gli ex senatori socialisti e miei cari amici Bruno Pellegrino e Luigi Covatta, e con Bruno c’era sua moglie Daniela Viglione, per dire di una donna che non è mai rimasto un passo indietro rispetto al suo uomo. C'era Piero Craveri, che non vedevo da tempo, da quando era stato il compagno di vita di Ludovica Ripa di Meana. C'era Luigino Compagna, figlio dell’indimenticabile Chinchino Compagna. C’era l’ex ministro Andrea Riccardi e anche il mio vecchio amico Alberto Benzoni e anche Filippo Ceccarelli, uno dei giornalisti più indipendenti oltre che più bravi che io conosca, e lui se l’è messa in bocca l’ostia che porgeva il sacerdote, e a una mia domanda ha risposto che lui è un credente, cosa che io non sapevo. Ti ripeto, un gruppo di brave persone, niente affatto adatte a figurare in un tuo “cafonal” che di certo attrarrebbe più che non una cerimonia cui partecipava un gruppo di persone dai capelli largamente imbiancati. Un gruppo di persone orgogliose di essere state lì in mezzo, al tempo della “battaglia delle idee” di cui Craxi fu un protagonista assoluto e indimenticabile. E pensare che lì accanto alla chiesa c’era la prima casa romana in cui aveva abitato l’allora mio grande amico Gianni Amelio, appena sbarcato da Catanzaro. A me è piaciuto eccome il suo film. Talvolta commosso. Così come mi hanno commosso le parole del sacerdote che officiava la messa e che nel riferire il destino umano di Bettino ha detto che è stato un destino pieno di contraddizioni, tumultuoso, drammatico. Un latitante? Solo un cretino potrebbe riempirsi le gote con un tale giudizio e esaustivo giudizio. Un latitante? Lo furono ciascuno a suo modo anche Giuseppe Mazzini e il primo Lev Trockij. Io che in tutto e per tutto lo avrò visto in vita mia per dieci minuti o forse meno, in certi momenti del film di Amelio ero con le lacrime agli occhi. E mai mai mai dimenticherò le immagini di quel discorso alla Camera in cui Craxi rivolgeva il dito puntato a tutto l’emiciclo parlamentare, pronunziando alla maniera sua la domanda se qualcuno di loro ignorasse che la democrazia pluripartica si reggeva sul fatto che ciascun partito prelevasse illegalmente dei fondi. “C’è qualcuno di voi che non lo sa?”, e Bettino continuava a puntare il suo dito sul restante dell’aula. Silenzio assoluto, non un fiato, non una voce. E del resto in quella stessa Camera era stata votata all’unanimità qualche anno prima – nel 1989 – una legge che amnistiava – per tutti i partiti – il reato di prelievo illegale di fondi, il fatto di riscuotere delle tangenti. Sino al 1989 amnistiato completamente quel reato. Da tutti i partiti.
· Craxi grande Statista. Dalle Stelle alle Stalle.
Craxi e l’«attico-santuario» di via Foppa 5 a Milano dove riceveva i potenti. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Giampiero Rossi. Dal presidente Cossiga a González. I 250 mq venduti nel 1998. Era il più discreto tra i simboli del potere della «Milano da bere» che stava per diventare Tangentopoli. Era «la casa», ma era anche un santuario, una meta di pellegrinaggi di altissimo livello. Perché nell’attico di via Foppa 5, dove Bettino Craxi ha abitato per anni, sono passati anche personaggi che hanno segnato la storia politica di quello scorcio di Novecento. Anche se, come raccontava all’epoca la stessa signora Anna Mongini in Craxi, soltanto Claudio Martelli, il «delfino» del leader socialista, «aveva libero accesso al frigorifero». Ottavo piano, 250 metri quadrati ricoperti di moquette rossa più un terrazzo altrettanto ampio. Un affitto a equo canone poi adeguato con un patto in deroga dalla Bnl, proprietaria dell’immobile. Un salone vastissimo, pieno di cimeli garibaldini, oltre che di libri, statuette e un organo con pedaliera, quattro camere da letto (una adibita a biblioteca), un’enorme vasca con idromassaggio. E sotto casa il fidato autista Nicola e il discreto portinaio Antonio a fare da filtro. Nessuna barriera, né presidio di forza pubblica, nessun altro simbolo visibile della presenza di un inquilino dal peso decisivo sui destini d’italia e pressoché assoluto su quelli milanesi. La politica, e non soltanto quella cittadina, faceva riferimento soprattutto all’ufficio di piazza Duomo 19, dove si sono decise giunte, coalizioni e consigli d’amministrazione. Ma la coda di persone - anche importanti - che avevano qualcosa da chiedere a Craxi e non riuscivano a ottenere udienza, era praticamente interminabile. Così molti cercavano di avvicinarlo Al Matarel: era noto che ogni lunedì lui passasse di lì per il pranzo e allora tutti i tavoli venivano prenotati con largo anticipo. Anche a casa - pur senza permesso di aprire il frigorifero - arrivavano tanti notabili socialisti e anche visite politicamente e istituzionalmente importanti, come lo storico leader socialista spagnolo Felipe Gonzàlez. E la mattina del 27 dicembre 1991 lo stupore fu grande anche per una città come Milano, tutto sommato abituata a ospitare personalità. Accompagnata da una vistosa scorta, a presentarsi nell’androne di via Foppa 5 fu addirittura il presidente della Repubblica in carica, il democristiano Francesco Cossiga. Era un venerdì sonnacchioso, come sono le giornate tra Natale e Capodanno. Ma la politica, nazionale e cittadina, era tutt’altro che quieta: a Roma il governo Andreotti (l’ultimo) era esposto a una delle non rare turbolenze del pentapartito, a Palazzo Marino era appena naufragata l’ultima giunta rossa, ponendo fine alla stagione del sindaco Paolo Pillitteri, socialista ovviamente, nonché cognato di Bettino Craxi. Cossiga e il leader del Psi passeggiarono a braccetto nel parco Solari, per poi pranzare nel salone all’ottavo piano. Meno di due mesi più tardi, il 17 febbraio 1992, arrivò l’arresto del «mariuolo» Mario Chiesa. E in aprile le elezioni politiche che diedero una prima scossa all’assetto politico nazionale quasi immutato dal dopoguerra. Fu l’inizio della fine del potere di Craxi. Fino all’esilio in Tunisia e a un cartello comparso sulla facciata della casa di via Foppa alla fine del 1997: «Vendesi». Bnl la cedette a un radiologo per un miliardo e 250 milioni di lire.
Mazzali, il socialista doc che addestrò Craxi a cavalcare la modernità. Ugo Intini il 25 gennaio 2020 su Il Dubbio. I “segreti” di Bettino dall’Avanti! al marketing. Su Craxi in questi giorni è stato scritto tutto. Aggiungerò perciò quello che non è stato detto, perché pochi possono ricordare la Milano dalla quale nasceva. I leader politici non spuntano dal nulla come funghi, la politica si nutre di radici e avanza nel futuro attraverso la staffetta generazionale. Nenni riteneva di essere l’erede di Turati. Craxi quello di Nenni. E poiché era fantasioso, pensava anche a Garibaldi, il mito idealista e risorgimentale di Turati stesso. Il rapporto di Craxi con Nenni è noto, ma lo è meno quello con Guido Mazzali, che pochi ricordano. Eppure è Mazzali che porta Craxi a diventare un dirigente politico nominandolo funzionario di partito e responsabile di zona a Sesto San Giovanni alla fine degli anni ‘ 50: il trampolino di lancio per diventare con le elezioni del 1960 consigliere comunale milanese e assessore all’Economato. Mazzali era il leader socialista a Milano, deputato, direttore dell’Avanti!, segretario della Federazione e braccio destro di Nenni. E Craxi gli succederà esattamente in tutti e cinque questi ruoli. Il “chi è“di Mazzali spiega molto su Craxi e sulle sue radici. Craxi è sempre stato autonomista e come tale irriducibile oppositore dell’egemonia comunista? Mazzali nel gennaio 1923 era un giornalista dell’Avanti! legato al capo redattore, Pietro Nenni. Il direttore e leader del partito Serrati, a Mosca, aveva accettato il diktat di Lenin per lo scioglimento del partito socialista, la confluenza in quello comunista e la nomina di Gramsci a direttore dell’Avanti! Nenni organizzò la rivolta del giornale a Milano con un famoso fondo nel quale scriveva: “una bandiera non si getta in un canto come cosa inutile”. L’Avanti! respinse Gramsci e il partito socialista evitò la fusione. All’Avanti! di Milano, Nenni aveva accanto a sé proprio Mazzali e l’amministratore del giornale Bonaventura Ferrazzuto. Craxi è sempre stato attratto dallo spettacolo e dai media? Chiuso l’Avanti! dai fascisti, Ferrazzuto diventò il direttore generale della Rizzoli, convinse il commendator Angelo a entrare nella cinematografia e a produrre il primo film sonoro. Andava in Francia a portare a Nenni i soldi mandati per sostenere il partito in esilio da Angelo Rizzoli, vecchio amico del leader socialista e come lui cresciuto in orfanotrofio. Ferrazzuto, con Mazzali, nel 1944, diffondeva l’Avanti! clandestino nella Milano occupata dai nazisti. Fu arrestato e deportato a Mauthausen, dove morì. Craxi era attratto dalla modernità, dalla pubblicità e da quanto i suoi detrattori definivano la “Milano da bere”? Guido Mazzali, rimasto disoccupato, fondò la prima rivista di marketing e pubblicità in Italia: l’Ufficio Moderno. Aprì la prima grande agenzia di pubblicità. “Chi beve birra campa cent’anni”, “Camminate Pirelli” sono tra i tuoi tanti slogan. Come condirettore dell’Ufficio Moderno, prese il suo amico Dino Villani, socialista come lui. Che ha inventato la colomba pasquale, la festa della mamma, la festa del papà e Miss Italia. Forse tutto questo sarebbe piaciuto a Berlusconi. Non a Pasolini, a Berlinguer e ai teorici della “austerità” anti consumista. Mazzali, come i suoi amici, era un “bon vivant”. Badava allo slogan, all’immagine, alla spettacolarizzazione, alla pubblicità basata sui consumi e sulla gioia di vivere: la “Milano da bere”, appunto. Ma non trascurava la sostanza. Negli anni ‘ 30, creò infatti una associazione (“gli amici della ragione”), di cui facevano parte molti degli economisti che sarebbero diventati famosi. Dal futuro governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, al futuro ministro socialdemocratico del tesoro Roberto Tremelloni, sino a Virgilio Dagnino. Mazzali durante la Resistenza divenne il capo del partito socialista a Milano, che tutti riconoscevano come il primo ( lo confermarono le elezioni comunali del giugno 1946). Prefetto della liberazione fu di conseguenza Riccardo Lombardi, viceprefetto Vittorio Craxi, padre di Bettino, sindaco Antonio Greppi: tutti socialisti. E infatti gli omicidi e le vendette finirono a Milano dopo pochi giorni ( non dopo anni come nel “triangolo rosso” emiliano). Mazzali, che pure era il leader, chiese per sé soltanto un assessorato apparentemente minore: spettacolo e sport. Subito fece uscire, come direttore, l’Avanti!, che restò a lungo il primo quotidiano della città, con 360mila copie vendute. Il giorno dopo la liberazione, pubblicò un articolo, intitolato “teatro popolare” di Paolo Grassi, che sarebbe stato riconosciuto sin dagli anni ’ 60 come il più grande organizzatore teatrale forse del mondo: un maestro per generazioni di personalità, anche per il ministro della Cultura di Mitterand, Jack Lang. Come assessore allo spettacolo, con lui e con Giorgio Strehler, Mazzali fondò nel 1947 il Piccolo Teatro. Mazzali fu il paziente costruttore del primo centro sinistra: quello al Comune di Milano nel 1960 che apri la strada all’incontro a livello nazionale tra socialisti e democristiani, tra Nenni e Moro. Non potè vederlo pienamente realizzato perché morì pochi giorni prima della nuova Giunta. Allora non si parlava ancora di riformismo. Ma gli slogan di Nenni ( forse suggeriti in parte la Mazzali) evocavano la concretezza. “La politica delle cose”, “case, scuole, ospedali”. Non erano slogan vuoti. Il Comune di Milano, con la nuova Giunta di centrosinistra, costruì, tra il 1960 e il 1964,140 mila stanze in case popolari e 3mila aule scolastiche. Uno sforzo immane, che mai si era visto in passato e mai più si sarebbe visto. Il giovane Craxi, nel suo piccolo, come assessore all’Economato, creò per la prima volta in Italia la refezione nelle scuole materne ( obbligatoria) e in quelle elementari. Nacquero la tangenziale, le linee rossa e verde della metropolitana, gli aeroporti di Linate e della Malpensa ( a spese del Comune e non dello Stato). E i soldi? Il bilancio raddoppiò. Ma non facendo debiti: con una politica fiscale che negli anni 2000 non avrebbe osato proporre neppure Rifondazione Comunista. I contribuenti per l’imposta di famiglia che denunciavano più di 10 milioni di reddito all’anno ( pari a 124 mila euro nel 2010), che erano centinaia, divennero migliaia perché si creò l’anagrafe tributaria e si ridusse l’evasione. L’espansione della città portava alle stelle il prezzo dei terreni? Il Comune chiedeva un ragionevole contributo sull’incremento di valore delle aree fabbricabili. L’arrivo delle nuove linee metropolitane e dei servizi alzava il prezzo delle case? Il Comune chiedeva un “contributo di miglioria” ai proprietari che ne godevano. A finanziare questa “rivoluzione” pacifica, provvide uno scienziato di fama: il presidente della facoltà di Agraria dell’Università di Milano Carlo Arnaudi, portato a fare l’assessore ai Tribu- ti. Diverrà senatore socialista e Nenni lo vorrà come ministro della ricerca scientifica: il primo, perché mai era esistito in Italia un simile ministero e perché i socialisti facevano della ricerca scientifica- appunto- una loro bandiera. Se Nenni recuperò Arnaudi, Craxi appena gli fu possibile, seguì il suo esempio. Portò Paolo Grassi da direttore del Piccolo Teatro a sovrintendente della Scala e poi a presidente della Rai. Portò Virgilio Dagnino ( un altro tra gli amici di Mazzali) a fare il presidente dell’azienda dei trasporti di Milano. Lottizzazione? Dagnino era stato arrestato insieme a Riccardo Bauer ( ingiustamente) per il tentato assassinio di Mussolini alla fiera di Milano nel 1924. Era stato il braccio destro di Donegani ( il creatore della moderna Montedison e della chimica italiana), direttore dell’UNRRA ( l’agenzia delle Nazioni Unite che distribuiva gli aiuti all’Italia affamata del dopoguerra) e importante banchiere. Dagli anni ‘ 90, si disquisisce sulla contrapposizione tra partiti e “società civile”. Guido Mazzali e Bonaventura Ferrazzuto appartenevano all’una o all’altra? E Paolo Grassi, Virgilio Dagnino, il papà stesso di Craxi? Oppure il rettore del Politecnico di Milano Cassinis, portato in quel 1960 a fare il sindaco di Milano? Partiti e società civile, nella Milano dove Craxi ha avuto le sue radici, hanno anticipato i tempi. Hanno intuito che pubblicità, consumi, spettacolo, editoria, ricerca scientifica sarebbero stati il futuro di Milano e anche, più in generale, i pilastri della modernità.
CRAXI: l’uomo che schierò i Carabinieri contro gli americani a Sigonella. Venti anni fa la sua morte. Giuseppe Bevacqua il 19 Gennaio, 2020 su redazione Voce Di Popolo. I neo maggiorenni di oggi (e non solo loro) ricordano Bettino Craxi per le accuse di malversazione e per aver lasciato l’Italia per Hammamet. La memoria di Craxi statista si è liquefatta al calore ancora vivo dell’accusa di “ladro” che il gesto inopportuno e violento di quel lancio di monetine (“Bettino vuoi anche queste!”) consolidò allora ed alimenta ancora oggi. In pochi ricordano il Craxi che non si piegò alla supponenza americana. Solo chi ha i capelli bianchi ricorda quel cingolo di Carabinieri che nella notte tra il 10 e l’11 ottobre del 1985 cinse un Boing 737 dell’aviazione civile egiziana, già circondato dai Navy Seals americani. Ciò che accadde quella notte, anzi ciò che poteva accadere, avrebbe potuto cambiare tutto. Ma per fortuna non partì a nessuno quel colpo in canna che Carabinieri e militari americani, uno di fronte all’altro, avevano nell’arma che si puntavano contro. Ciò che Bettino Craxi, durante la crisi di Sigonella, dimostrò agli americani, è oggi solo un eco che rimbalza contro l’atteggiamento prono dei nostri governanti odierni alla politica di Trump e non solo. Nessuno oggi si sognerebbe di fare ciò che quella notte fece Bettino Craxi, lo stesso che poi fu costretto a lasciare Governo, Italia ed italiani per un sistema diffuso del quale fu forse l’unico a dichiararne l’esistenza, apertamente. Molti altri, ladruncoli da quattro soldi, ancora oggi ne discreditano e ne soffocano la caratura di statista, ricordando solo il denaro ricevuto per il Partito Socialista. “Oggi i ladruncoli di allora, che si ergono a giudici di Craxi, sono quelli che l’hanno fatta franca“.
Quel Boing dell’aviazione egiziana trasportava i dirottatori della “Achille Lauro”, la nave da crociera sulla quale aveva perso la vita un americano. L’aereo doveva raggiungere la Tunisia, ma venne dirottato in volo dai caccia americani che lo costrinsero ad atterrare a Sigonella, come se la Sicilia fosse una stella della bandiera americana. Il gesto di far intervenire i Carabinieri che circondarono armi in pungo i militari americani che già avevano circondato l’aereo, fu un gesto che impose e fece riconoscere la nostra sovranità nazionale, imponendo all’America un peso ben diverso nei rapporti con l’Italia : un peso maggiore fatto di rispetto. Oggi? In quanti dei nostri “statisti” di oggi, alle prese (inutilmente) con una crisi economica ormai endemica, in quanti avrebbero avuto il coraggio di farlo? Venti anni oggi, dalla morte di Bettino Craxi, è giusto che il ricordo di quell’uomo sia completo: dalle accuse ai meriti. Per giustizia e per rispetto della storia.
Sigonella: quello che non ci hanno mai detto. Di Fernando Massimo Adonia l'01/02/2020 su Il Giornale Off. È stato scritto di tutto, o quasi, sull’episodio che quasi trentacinque anni fa rischiò di trascinare l’Italia e gli Usa verso la guerra. Con Sigonella. L’ora che manca alla storia (Officina della Stampa, Catania, pag. 184, € 13), Salvo Fleres e Paolo Garofalo aggiungono tasselli inediti al racconto. A partire dalla testimonianza dell’allora sottotenente dell’Aeronautica Giuseppe Gumina. Un giovane ufficiale fresco di addestramento, voglioso di dimostrare il proprio valore. Un eroe per caso che tenne la barra dritta dicendo di no agli americani e blindando le scelte del premier Bettino Craxi. Tra le 23:53 del 10 ottobre all’una e qualche minuto dell’11 ottobre 1985, la tensione è alle stelle. La paura pure. I protagonisti (Michael Ledeen, Ronald Reagan, Yasser Arafat, Abu Abbas) vivono momenti di angoscia. Così come i soldati in campo: alcuni di loro soffriranno per giorni di dissenteria. Nonostante tutto, gli italiani seppero farsi rispettare. Grazie anche a gente come Gumina, che fu infatti decorato. La crisi di Sigonella ebbe però dei risvolti amari. Sarà una coincidenza, ma tutti gli attori di quella notte sono usciti di scena: “nel 1991 lo scandalo Gladio colpisce Cossiga, nel 1992 è il turno di Craxi, nel 1993 Andreotti è accusato di mafia”. Gumina? Dal 1988 è in congedo.
Craxi contro tutti. Prima statista, poi capro espiatorio. Francesco Damato il 18 gennaio 2020 su Il Dubbio. Ascesa e caduta del leader socialista più discusso e punito «con una durezza senza uguali». C’ è sempre qualcuno che si offre a raccontare “l’ultimo Craxi”, specie nelle ricorrenze che riguardano la sua tormentata vicenda finale della politica e della vita: dalle monetine lanciategli addosso a Roma alla morte che dopo soli sette anni avrebbe chiuso la sua vicenda umana in terra straniera ma amica, molto più amica della Patria che egli scelse di scrutare attraverso il mare dal suo rifugio tunisino da esule, come si considerava, o da latitante, come lo liquidavano sprezzantemente gli avversari, pur conoscendone l’indirizzo e potendolo incontrare. Tentò di farlo anche una commissione parlamentare d’inchiesta su stragi, terrorismo e delitto Moro, trattenuta all’ultimo momento da un veto dell’allora inquilino del Quirinale proprio per evitare l’estrema e più evidente smentita di quella latitanza così comoda nelle polemiche contro il leader socialista. Questa volta, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della sua morte, si è tentato di raccontare “l’ultimo Craxi” anche con un film che si sta rivelando di grande successo un po’ per l’interesse che ancora suscita la figura dell’unico presidente socialista del Consiglio nella storia d’Italia e un po’ per la straordinaria bravura dell’attore che lo ha interpretato. Ma il vero “ultimo Craxi”, credete a me che l’ho ben conosciuto e frequentato prima e dopo il suo ritiro ad Hammamet, è quello raccontato in poco più di 120 pagine ben scritte e documentate, ancora fresche di stampa, che si leggono d’un fiato. E che ti fanno venire spesso la pelle d’oca per quanto riescano ad essere toccanti. E’ l’omonimo libro di Andrea Spiri, pubblicato da Baldini e Castoldi, in cui il Craxi degli ultimi, sette anni drammatici della sua vita, dei quali sei trascorsi in Tunisia, è raccontato con le sue stesse parole, legittimamente virgolettate, che l’autore da storico di professione com’è ha saputo leggere e cogliere consultando le tante carte scritte di suo pugno o dettate al collaboratore di turno da Bettino – permettetemi di chiamarlo affettuosamente per nome, come facevo quando era vivo- negli interminabili giorni della sua solitudine, della sua struggente nostalgia dell’Italia, del ricordo dei torti subiti e degli errori compiuti. Fra i quali un peso decisivo ha avuto anche la scelta di amici sbagliati, o di amici veri scambiati per avversari, come una volta gli rimproverai personalmente prendendo le difese di Ugo Intini, rappresentatogli da Roma al telefono da qualche sprovveduto come uno che trescava per tradire – all’incirca- la sua storia politica cincischiando con Massimo D’Alema. Ce n’é traccia anche nel libro di Spiri, che pure con la serietà dello storico ha riferito anche dell’interesse, se non della speranza, avvertito da Craxi in persona quando proprio D’Alema approdò pur avventurosamente a Palazzo Chigi, con l’aiuto di Francesco Cossiga. E’ il D’Alema che poi, tragicamente, non ebbe il coraggio di scontrarsi pubblicamente con la Procura di Milano, oppostasi a un gesto umanitario verso un malato ormai terminale. Egli per giunta mandò un telegramma quasi anonimo di auguri, tramite l’ambasciata di Roma a Tunisi, al suo vecchio avversario politico uscito vivo, sì, ma ancora per poco da un difficile, disperato intervento chirurgico. Che avrebbe potuto avere migliore esito se compiuto in Italia. Quello che colpisce del racconto di Spiri è la serenità con la quale Craxi seppe e volle arrivare alla morte: serenità, più ancora di rassegnazione, nella consapevolezza di una vita vissuta per il suo Paese e per la politica, pur ricambiato così male, anzi così atrocemente: un avverbio, quest’ultimo, che solo con una dose industriale di malafede si può rifiutare di adoperare per giudicare i metodi usati sul piano giudiziario e mediatico contro Craxi per farne il capro espiatorio di quel fenomeno generale e conosciutissimo del finanziamento illegale dei partiti, delle loro correnti, dei gruppi e dei singoli leader e leaderini. Già dieci anni fa, proprio nella ricorrenza di un altro anniversario della morte di Craxi, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle scrivere una lettera alla vedova, e ai figli, non solo e non tanto per esprimere, come ha opportunamente ricordato Spiri all’inizio del suo lavoro, il proprio “turbamento” ricordando la morte solitaria di un uomo da lui ben conosciuto in vita, e per apprezzarne il contributo dato al governo del Paese e alla sinistra “italiana ed europea”. Mi permetto a questo punto di aggiungere alle citazioni di Spiri altre parole testuali di Napolitano, scritte nella doppia veste di capo dello Stato e di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura a proposto delle indagini e dei processi che avevano travolto Craxi sulla strada della cosiddetta Tangentopoli: «E’ un fatto – scrisse Napolitano- che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza uguali sulla sua persona». In quella «durezza senza uguali» è scolpito come in un’epigrafe un severo giudizio pure sui magistrati, anche se costoro, i più diretti interessati, almeno quelli ancora in vita allora, fecero finita di non sentire, non leggere e non capire. Una durezza quando è «senza uguali» sconfina, signori miei, nella violazione del senso stesso della giustizia, che deve essere coniugata con l’equanimità. Non c’è giurista, filosofo, sociologo, editorialista, politico e sofista che possa negare questa evidenza così icasticamente denunciata dieci anni da Napolitano nella sua postazione al Quirinale: più e meglio di quanto avrebbe potuto fare una commissione parlamentare d’inchiesta fra le tante inutilmente chieste, a cominciare dallo stesso Craxi, sul finanziamento dei partiti e sulle distorsioni che derivarono dall’applicazione o dalla evasione delle leggi che lo disciplinavano, peraltro tra amnistie di una tempestività o coincidenza a dir poco inquietante per gli sviluppi poi dati alle iniziative giudiziarie contro il leader socialista. Egli era, in realtà, solo o soprattutto colpevole di essere scomodo, più che “antipatico”, come ha appena scritto in un libro Claudio Martelli, a nemici e alleati di governo per la sua autonomia, dopo tanto tempo trascorso rovinosamente dal Psi al seguito sostanziale del Pci.
Bettino Craxi, il socialista potente che i dirigenti locali dovevano poter toccare da vicino. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Maurizio Caprara. «Li vedi quelli? Una volta l’anno mi devono toccare. Devo venire qui e mi devono toccare. Non basta incontrarli. Ognuno di quelli ti sa spiegare se il Partito socialista, nelle prossime elezioni, prenderà nella propria zona il 14,2 per cento o il 13,8. Se avrà il 10,02 o il 10,6. Nelle percentuali non sbagliano di un decimale. Al massimo, di uno. E una volta l’anno anno mi devono toccare». Bettino Craxi me lo disse sull’ultimo gradino della scaletta di un aereo affittato che da Palermo ci avrebbe riportato a Roma. Era il 14 giugno 1989. Avevo accompagnato il segretario del Partito socialista tra Bari e la Sicilia durante la sua campagna elettorale per le europee. Sulla pista era stato salutato da una dozzina di persone. A lui era toccato parlare in pubblico quasi una volta ogni ora o due. A me, unico giornalista al seguito, rintracciare notizie in quella serie di discorsi quasi identici, salvo piccole modifiche necessarie per adattarli ai diversi luoghi visitati. Una volta a bordo dell’aereo mi resi conto di aver ricevuto una lezione su come poteva funzionare la ricerca di consenso, in una democrazia, mentre lo sviluppo della comunicazione televisiva non estirpava tradizioni radicate. Nella fattispecie, l’abitudine a un contatto diretto tra capo di partito di governo e i suoi capi-elettori, una particolare varietà degli “influencer” di allora. Una delle usanze della cosiddetta “Prima Repubblica” che stava finendo e non era ancora finita. «Quelli» ai quali si riferiva Craxi erano i dirigenti locali del Psi. Il segretario nazionale del partito doveva farsi vedere con loro affinché essi, nei rispettivi quartieri e paesi, potessero essere riconosciuti come personaggi a lui collegati, vicini al suo potere. Per questo erano persone che lo dovevano «toccare», non soltanto incontrare. Alla faccia di chi credeva che per prendere voti bastasse andare in televisione. Tornano in mente ricordi sul Craxi che ho conosciuto tra 1984 e 1999 in questo ventesimo anniversario della sua morte, su quanto vidi seguendolo per il Corriere della Sera tra comizi e riunioni e poi ascoltandolo via telefono, nell’ultima parte della sua vita, quando era in Tunisia. Il nuovo film di Gianni Amelio mostra con efficacia un lato della vita di quest’uomo che ha diviso, in parte svegliato e in parte scosso la sinistra italiana. In «Hammamet» Pierfrancesco Favino arriva a sembrare assente. Nella voce e perfino nei rimi del respiro, oltre che nel viso, è identico al Craxi vero. Quel lato però non poteva riassumere tutto, sebbene il film descriva bene la personalità di un ex potente che era anche, e molto, un uomo. Un uomo con la sua forza robusta, con la sua arroganza, anche, e con le sue intime, autopresidiate, fragilità. Trascorsi vent’anni dalla scomparsa, a rimettere in ordine frammenti di memoria a me risalta soprattutto che Craxi incarnava un particolare archetipo di animale politico italiano, e che quell’intera specie rischia l’estinzione definitiva. Mentre pronunciava a Palermo le sue frasi sui dirigenti socialisti siciliani, l’ex presidente del Consiglio era considerato un’avanguardia nella «politica spettacolo». Il suo comportamento verso i media era oggetto di studio. Da almeno un anno la sua figura spiccava a fianco di due signorine dal trucco marcato sulla copertina di un libro di Gianni Statera, «Il caso Craxi. Immagine di un presidente». La stessa sagoma massiccia, nel maggio 1989, si era già stagliata sulla tribuna a forma di piramide che il segretario aveva voluto per un congresso del Psi, a Milano, nell’ex fabbrica Ansaldo. I suoi modi di spettacolarizzare la politica erano arrivati a influire addirittura su Giulio Andreotti, democristiano quasi perennemente in abito scuro, andato l’anno prima in tv da un imitatore, Oreste Lionello, spingendosi ad associare la propria figura pubblica a una trasmissione satirica dal titolo infantile: «Biberon». Una parte della cura dell’immagine consisteva anche in furbizie. «Non porto l’orologio, credo sia stato di 40 minuti», dichiarò Craxi a Washington sulla durata di un colloquio alla Casa Bianca che aveva avuto con il presidente degli Stati Uniti George Bush. «Trenta minuti, ha spiegato alla stampa estera il portavoce Marlin Fitzwater», aggiunsi nel mio resoconto sul Corriere. L’anno prima Ronald Reagan aveva riservato a Craxi 17 minuti. I collaboratori del segretario socialista volevano far passare il messaggio che il segretario era stato nello Studio Ovale quasi un’ora. Per verificare se l’incontro era durato così tanto, da Washington chiamai l’Ufficio Stampa della Casa Bianca. Risposta del portavoce: «No, mezz’ora». Craxi dice che gli sono parsi 40 minuti. Il portavoce: «Gli altri è stato in anticamera». Non è che venissero accolte bene queste precisazioni dall’entourage craxiano. Come non fu gradito, il giorno successivo, leggere nella corrispondenza dell’inviato del Corriere che a Craxi veniva conferita una laurea ad honoris benché fosse un «diplomato». Ciò che contrastava con l’immagine desiderata in genere suscitava reazioni. Telefonate risentite a capiredattori e direttori da parte di emissari, interventi del massimo capo. Tranne alcuni democristiani, mica che gli altri dirigenti politici prendessero con indifferenza le cronache non ossequiose. Anzi. Ma Craxi negli anni Ottanta reagiva con notevole fastidio se in una testata non di partito c’era chi non assecondava i suoi desideri. Una volta, durante una trasferta in Germania, minacciò di non permettermi più di coprire i sui viaggi se avessi scritto quanto aveva affermato davanti a un gruppo di giornalisti. Non scherzava, e il tono della sua voce al telefono non rassicurava. Lo scrissi ugualmente. C’era anche, tra gli inviati, chi esortava a seguire la sua indicazione. Il Craxi che ha lamentato una persecuzione giudiziaria era stato lo stesso che, negli anni Ottanta, era riuscito a far condannare il direttore del Corriere della Sera per diffamazione. La causa era stata un editoriale in cui Alberto Cavallari aveva scritto di preferire i carabinieri ai ladri. Certo, il segretario socialista in Italia aveva nemici. Testate politicamente schierate di sicuro contrastavano la sua linea. Ma dalla stampa Craxi voleva ciò che gli serviva, non molto altro. Questa arroganza anche ruvida, a tratti quasi minatoria, non risultava il solo tratto del suo modo di fare. Craxi era in tutte le cellule della sua persona un dirigente politico. Di quando dirigenti politici lo si diventava dopo aver creduto in un ideale da ragazzi, prima di diventare più tardi personalità importanti e, nel suo caso, anche uno statista. A notte fonda dopo una giornata congressuale, mentre si usciva dal ristorante «Lo Squero» di Rimini, oppure in camminate vicino al Muro di Berlino durante un viaggio, Il segretario socialista si intratteneva a lungo con alcuni di noi cronisti. Raccontava di storie della sinistra di suoi anni giovanili, di confronti tra socialisti e comunisti milanesi, di azioni di solidarietà compiute verso dissidenti dell’Est o antifascisti dell’America Latina. Capitava con Paolo Corallo dell’Ansa, Fabio Martini e Augusto Minzolini della Stampa. A parlare era innanzitutto lui, però ascoltava, ribatteva. E con chi riteneva capisse qualcosa di politica non rifiutava lo scambio di idee. Lo orientava. Voleva dirigerlo. Il soppesare le parole gli era chiaramente abituale in comizi, trasmissioni tv. Ma da robusto ragazzone adulto quale era, in quelle conversazioni e sulla scena pubblica talvolta Craxi si riservava a modo suo alcuni «outing», manifestava parti non istituzionali della propria personalità. Nel viaggio tra Washington e New York del 1989 non notai alcuna freddezza nei suoi confronti da parte statunitense anche se fu successivo alla notte di Sigonella (quando, nel 1985, Craxi aveva fatto schierare i carabinieri intorno alla Delta force per impedirle di catturare Abul Abbas, il capo della formazione palestinese che aveva dirottato la nave «Achille Lauro» e ucciso l’invalido americano di religione ebraica Leon Klinghoffer). Eppure qualche aspetto extra-politico degli Stati Uniti non lo sopportava quel socialista che in era reaganiana aveva superato nelle sintonie con gli americani numerosi democristiani. «Questo Paese nel quale il sale non sala e l’acqua minerale fa schifo…», bofonchiò a Washington in una sua conferenza stampa dopo l’incontro con Bush. Aveva il viso contratto in una smorfia istintiva, derivata dal disprezzo per il sapore di un sorso di acqua bevuto. Altri si comportavano e si comportano diversamente. Pur di apparire adeguati a tempi e circostanze preferiscono infarcire di termini inglesi dichiarazioni in italiano. Ostentano familiarità con il luogo straniero visitato. Nell’aneddotica su Craxi è celebre la frase sprezzante con la quale respinse la domanda di un giornalista durante una colazione a Caprera, località nella quale per alcuni anni dedicava una mezza giornata a commemorare Giuseppe Garibaldi: «Passami l’olio». A me invece torna in mente di tanto in tanto quella frase, veritiera, sull’acqua minerale. Un modo tra il consapevole e l’inconsapevole per dire: sono potenti, gli americani, ci hanno liberato da dittature, è vero, ma su altre cose noi italiani è meglio che restiamo noi. Non sono questi appunti la sede per un giudizio storico su Mani Pulite. Di certo, una volta che fu costretto a farlo, Craxi ammise l’illegalità di molto del finanziamento di allora ai partiti. In seguito la politica italiana non ha colto l’occasione del terremoto giudiziario dei primi anni Novanta per riformare un ordinamento sui finanziamenti tuttora ipocrita, inefficace di fronte a ingerenze di altri centri di potere. A lui mancarono i sensori adatti per capire che dopo l’abbattimento del Muro di Berlino il vento cambiava. Superato il timore del colosso sovietico, i tradizionali partiti di governo in Italia non beneficiavano più di tante immunità e di un ruolo garantito. Fu a me, in volo su un Falcon dall’Aja a Roma, che nel 1992 disse di sentirsi controllato da un’auto misteriosa. «Una Uno bianca», come specificò il suo autista di fiducia Nicola Mansi. «Uno bianca» era allora il nome dato a una banda di criminali. Craxi alludeva a pedinamenti ordinati da investigatori. Fu dannoso, per lui, non dare ascolto a chi evidenziava le tossine di un finanziamento della politica troppo promiscuo con l’economia. Ma Craxi è stato e resta soprattutto un dirigente politico. I difetti del quale non cancellano capacità, spessore e intuizioni sul ruolo dell’Italia.
Filippo Ceccarelli per doppiozero.com il 18 gennaio 2020. Cinema e storia, colpa e memoria, catarsi e umanità: sarà almeno servito, Hammamet, a placare l'ira di Bettino? Perché un film resta pur sempre un film, ma il rancore dei morti, scrive Elias Canetti in Massa e potere, è ciò che i vivi temono di più; e “quanto più uno è stato potente fra i vivi, tanto maggiore sarà il suo rancore nell'aldilà”. Con tale premessa, facendo la fila davanti al botteghino, veniva anche in testa – oh, i fulmini dei vecchi maestri dimenticati! – il titolo di un romanzo-pamphlet che Leo Longanesi pubblicò nel 1952, sette anni dopo l'uccisione di Mussolini: Un morto fra noi. Rispetto a Craxi, per certi versi la questione non si pone in modo poi così diverso: il testone di Bettino è ancora lì, fermo nella sua rabbiosa disgrazia, metro di misura e pietra d'inciampo della recente storia politica italiana. “Il rancore del morto – è sempre Canetti – fa di lui un nemico. Con cento astuzie e cento insidie egli può insinuarsi tra i vivi”. È più o meno quanto è accaduto in questi vent'anni. La fondata speranza, mentre scorrevano i titoli di coda e poi anche di più uscendo dal cinema, è che non sia più così. Tornato uomo come tutti, povero diavolo e povero Cristo, finalmente Craxi è ritornato al suo posto, e cioè fra i morti; ma anche noi vivi, grazie ad Hammamet, per la prima volta abbiamo visto dentro di lui, provato compassione e quindi aperto gli occhi su una storia non più solo di arroganza e potere (do you remember Il portaborse?), di colpa e giustizia, di esilio e/o latitanza, ma di umiliazione, solitudine, piaghe, dolore.
E la politica? Eh, beato chi ancora se ne ricorda! Luci e ombre, a voler essere generosi; altrimenti, un autentico disastro, con l'aggravante cesaristico-cortigiana e l'unica consolazione che chi è venuto dopo, a partire da Berlusconi, ha fatto peggio. Ciò detto, e considerata la difficoltà di rappresentare vicende insediatesi così a fondo nell'immaginario di tutti e di ciascuno, il film di Gianni Amelio è venuto fuori normalmente imperfetto. Superato di slancio il pericolo “museo delle cere”, la gran prova di Favino finisce per mettere fuori gioco tutti gli altri personaggi, a partire dalla tenue e angelicata figura della figlia, così incomprensibilmente interiorizzata e diversa da Stefania, che del padre è una specie di clone caratteriale, e quindi prepotentella. È plausibile e forse anche giusto che la produzione – la Pepito di Agostino e Maria Grazia Saccà – abbia cercato di coinvolgere o tenersi buona la famiglia Craxi. D'altra parte, vent'anni sono pochi e insieme anche troppi, e per quanto non si tratti di un film col freno a mano tirato, qualche compromesso narrativo è persino comprensibile. Ad Hammamet accadevano inoltre un sacco di cose che non hanno trovato posto, situazioni in egual misura bizzarre e disperate. Comprenderle in sceneggiatura o lasciarle fuori rientrava ovviamente nella libera creatività e sensibilità di Gianni Amelio, che comunque va ringraziato per il suo film. Ma il guaio dei biopic sta anche nel fatto che ogni spettatore avveduto conserva nella memoria le sue suggestioni, e come s'improvvisa tecnico della nazionale di calcio al bar, così tende a farsi regista, e sa lui come avrebbe meglio giocato la partita e la pellicola. Il finale, ad esempio, appare così faticoso da contenerne tre o quattro, per giunta in sequenza. Per quel poco che consente di indulgere nel giochetto dell'abusiva e arbitraria intromissione, è irresistibile approfittare del film ricordando che una volta morto, la salma di Craxi non riusciva ad entrare nella bara spedita per aereo da Salvatore Ligresti; per cui la si dovette svuotare e sfoderare. Non per gratuito gusto del macabro si menziona qui l'episodio, ma perché evoca in maniera che più simbolica non si potrebbe quanto il personaggio, anche da morto, fosse ingombrante. Quanto ai funerali e alla loro proiezione sulla scena pubblica italiana, la realtà finisce per oscurare qualsiasi fantasia, per cui prima di calare il catafalco, nell'inconsueta calca che turbò la quiete del piccolo cimitero cristiano sul mare, tra spintoni e gomitate un fotografo cadde nella fossa – anch'essa una notevole allegoria di quello che sarebbe accaduto in Italia.
L'archetipo della vendetta. E tuttavia, dal punto di vista della civiltà politica, a costo di dar fiato al trombone sempre in agguato, ci si assume qui la responsabilità di giudicare Hammamet un'opera buona perché giusta, e giusta perché cristiana; nel senso che ribaltando la prospettiva del potere e soffermandosi quasi solo sulla devastazione umana, porge l'altra guancia; e individuando nel dolore l'indispensabile riscatto, spezza la catena dell'odio. Ha detto Gianni Amelio nella conferenza stampa di presentazione che Craxi è “il grande rimosso degli ultimi vent'anni”, e che “su di lui è caduto un silenzio assordante, ingiusto”. Sia consentito di obiettare. Perché in verità nessuna damnatio memoriae fu mai possibile rispetto a un protagonista la cui presenza-assenza è stata vissuta più di ogni altra come perturbante sul piano pubblico, ora come paura e pericolo, ora come brulichio inconcludente, ora tirandosi dietro sensi di colpa e code di paglia. Era forse inevitabile per un ex leader che ai tempi fu paragonato al dantesco gigante Capaneo mostrando di tenere “in gran dispitto”, come Farinata, il suo stesso inferno. Fatto sta che Craxi ha passato gli ultimi anni della sua vita a difendersi, diceva lui, comunque a correggere meticolosamente con chilometrici fax qualsiasi notizia che lo riguardasse e ad agitarsi, accusare, minacciare. Aveva un sacco di tempo e più di ogni altro sapeva che la peggior pena per lui era l'oblio. Così non ne lasciava passare una, ogni anno pubblicava la raccolta dei suoi scritti, rispondeva di persona a Mario Appignani “Cavallo Pazzo” e a Edoardo Agnelli, scrisse sotto falso nome anche romanzi pseudo-cavallereschi “a chiave” e gialli dietrologici; prese a raccogliere notizie imbarazzanti su chi detestava, anche grazie a un giro di specialisti; coltivò i più vari propositi di rivalsa nei riguardi degli ex compagni di partito; insomma continuò a darci dentro con una guerra ormai così personale da sembrare misera e miniaturizzata rispetto alla sua statura. Terribile sorte quella di ritrovarsi messo al bando per chi, dopo tutto, nei giorni del potere aveva scelto di immedesimarsi proprio in un bandito. Dismesso Ghino di Tacco, come estremo ed eloquente pseudonimo si scelse Edmond Dantès, da Il conte di Montecristo, l'archetipo letterario della vendetta; e quando, per ammazzare la noia delle interminabili giornate tunisine decise di assecondare una sua vena artistica, gli vennero fuori delle litografie personalizzate dei suoi nemici che, in varie serie contundenti, intitolò “Becchini, bugiardi ed extraterrestri”. In mancanza di meglio – ed è la situazione più triste – si riduceva a esercitare il comando mettendo gli uni contro gli altri i famigliari, i collaboratori, i domestici. Ma c'era sempre un che di romantico e di déraciné, in lui. È vero, come si vede nel film, che si faceva portare in spiaggia a vedere l'Italia; vero anche che aiutava e proteggeva una famiglia di pescatori. Un giorno arrivò a promettere di farsi saltare in aria, imbottito di dinamite, al tribunale di Milano. Era un'ira, la sua, a 360 gradi, dalla quale in pochi si salvavano. Craxi ce l'aveva non solo con chi l'aveva colpito, ma anche con chi l'aveva tradito, con chi non lo andava a trovare, con chi aveva vinto al suo posto. Quando morì, secondo lo schema di Canetti, a questo odio si sommò l'invidia per chi era rimasto vivo. La politica, per sua natura, contempla fantasmi che non trovano pace. Quella italiana ancora di più. Anche Moro, ad esempio, maledisse i suoi compagni di partito, ma egli restava pur sempre un credente, attendeva la vera vita in Paradiso: “Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”, scrive nell'ultima sua lettera alla moglie. Craxi no. Sull'esistenza di un “dopo” era più che incerto; nel film gli mettono in bocca le parole di Moro, ed è uno dei momenti più intensi. “Sarei l'ultimo a scoprirlo”, ribatte cinico l’anonimo esponente democristiano (Renato Carpentieri) prima di congedarsi da lui. Questa condizione d'irreparabilità della morte, appena coperta da un vitalismo ansioso, aprì a Craxi la strada verso una sopravvivenza spettrale, da classico morto che afferra il vivo per farsi giustizia; o almeno tale fu la missione che gli fu assegnata secondo un percorso che contemplava le parole e le cose più strane, che qui appresso si riportano per cercar di spiegare come facilmente la politica va a nozze con l'irrazionalità. Nel migliore dei casi, secondo quanto vaticinò il fratello Antonio, seguace di religioni orientali, si trattava di una morte provvisoria, o addirittura di una non-morte proiettata in una dimensione messianico-cabalistica: “Uomini molto elevati hanno avuto dei sogni. Presagi da cui si deduce un numero: 700. Dalla morte di Bettino alla sua rinascita passeranno 700 giorni. Tra un anno Bettino si reincarnerà e tornerà in Italia a finire il suo lavoro” (la profezia era del 2001, Antonio Craxi è morto nel 2017). Nel peggiore dei casi parla da sé uno dei primissimi biglietti trovati sulla tomba di Hammamet, nemmeno una settimana dopo la sepoltura: “Caro Bettino, attendiamo il momento giusto per vendicarti, la peste colpirà i nemici che hanno distrutto te e la nostra amata Italia”.
Il mancato San Cinghialone. Seguirono in effetti anni e anni di recriminazioni, strumentalizzazioni, polemiche, processi, sospetti, veleni, memoriali, confessioni, intercettazioni, comparsa e scomparsa di archivi e documenti “segreti”, ricerca di supposti tesori, dalla Svizzera al sudest asiatico. E biografie, saggi, i ricordi e i libri fotografici di Umberto Cicconi, la nascita della Fondazione, le rappresentazioni teatrali, per non dire tardive rimesse in stato d'accusa e bislacche proposte di riabilitazione, tipo intitolare a Craxi l'ancora più fantasmatico Ponte di Messina. Altro che rimozione! Non uno, ma due figli di Craxi erano intanto scesi in politica, anche su fronti opposti e non di rado in polemica fra loro. Nacquero e morirono cinque o sei partiti socialisti. Furono organizzati i primi charter e pellegrinaggi in Tunisia, con soggiorni in freddi alberghi e serate karaoke. Comparve un'orrida statua di Craxi in sahariana; invano si cercò di intitolargli vie, piazze e giardini; furono anche rifiutate delle targhe, ma su eBay si cominciarono a commercializzare i gadget della stagione d'oro (“vecchia” spilletta col volto del leader: euro 6,99). Gli avversari di un tempo, divenuti ex comunisti, tentarono mezze riabilitazioni, o vorrei ma non posso, quasi sempre rifugiandosi nel comodo, ma ambiguo argomento che Craxi, a differenza di loro, aveva capito la “modernità” e proceduto sulla via di una ancora più equivoca “modernizzazione”. Nel 2005 disse Rino Formica, senza alcun dubbio il craxiano più solido e lungimirante: “Sarà la democrazia italiana, un giorno, a pregare la famiglia Craxi di concedere l'autorizzazione a trasferire la salma in Italia”. Ma intanto era la stessa famiglia a escludere, con maggiore o minore sdegno, questa ipotesi. Ciò nondimeno, a un certo punto venne attribuita allo scultore Cattelan la creazione di un sarcofago con un bassorilievo che ritraeva il volto di Bettino, su cui però assai fermamente rivendicò i suoi diritti un artigiano dalle parti di Carrara. Quest'attenzione dell'arte era a suo modo indicativa di un cambio di atmosfera: vedi anche la recente mostra Party politics di Francesco Vezzoli in cui il craxismo, nonostante l'esito, s'imponeva come una stagione di spensierato glamour. Ma nel frattempo non c'è stato leader forte dell'ultimo ventennio che non abbia pensato agli aspetti peggiori di quella lezione. Berlusconi l'ha detto due o tre volte: “Non farò la fine di Craxi”. Là dove questa fine era da intendersi come una specie di gorgo profondo e oscuro che risucchiava insaziabile il Super Colpevole da spedire nel deserto carico dei peccati di tutti in tal modo dando sfogo all'angoscia collettiva secondo il rito crudele del capro espiatorio. Perché quella ai danni di Craxi fu anche e senz'altro un'offensiva violenta e collettiva, una folla abbastanza isterica che trascinò dietro di sé le istituzioni. Né a distanza di un ventennio vale l'idea che se lo fosse “andato a cercare” con tutti i suoi disgraziatissimi errori, di cieca e ottusa superbia per lo più, che non mancarono certo. Quel che si nota e si apprezza, semmai, nel film di Amelio, è che contraddice il modello di Freud e poi di René Girard secondo cui il caprone espiatorio è destinato poi a essere santificato dai suoi stessi persecutori. Per cui sullo schermo non compare San Cinghialone, ma un poveraccio come tutti noi, con le sue turbe, i suoi ideali, la sua arroganza e la sua generosità – tanto più preziosa, quest'ultima, quanto più imprevedibile. Una figura del potere, certo, ma finalmente restituita alla realtà di una vita che lui stesso per primo si era negato.
Come un rituale sciamanico. Sta in questo il valore civile e al tempo stesso – se è consentito – anche spirituale di Hammamet. Ciò che è non riuscito alla politica né alla storia, ha iniziato a renderlo possibile un film. Per una volta il dominio degli spettacoli coglie un frutto che non è scadente, marcio, avvelenato. In questo senso la superba interpretazione-immedesimazione-intermediazione di Favino finisce per insediare un ponte fra il mondo degli spiriti e quello degli umani, insomma una sorta di meccanismo sciamanico. Colpisce il modo in cui l'attore ha raccontato l'intensità della trasfigurazione mimetica, cinque ore e mezzo in sala trucco, gli sforzi impiegati sulla particolare postura craxiana, quello specialissimo giro della testa determinata da un riflesso visivo, il tic della mano sulla montatura degli occhiali, l'andatura zoppicante per la piaga al piede; e poi il lavoro, con speciali cuffie, sulle sfumature della voce e la sonorità del respiro affannoso, che è la radice del battito del cuore e dell'emozione. Ma a ripensarci meglio, ancora di più impressionano gli effetti sconcertanti, per certi versi medianici o catartici, di quella trasformazione, per cui una volta divenuto Craxi, Favino incuteva una inedita soggezione alla troupe; così come – l'ha raccontato Bobo Craxi – vedendolo i vecchi e fedeli domestici della villa di Hammamet si sono emozionati e commossi. Per scrupolo documentario, ma anche per singolare risonanza, tocca a questo punto accennare che in vita Craxi aveva già avuto un sosia doppiatore o Doppelgänger televisivo che dir si voglia. Si chiamava – anzi, si chiama – Pier Luigi Zerbinati e recitava con discreto successo il suo doppio negli spettacoli in prima serata del Bagaglino. Ma anche qui, per dire fino a che punto le vicissitudini dei potenti si riverberano sulle loro maschere in un sintomatico interscambio, quando Craxi si era già rifugiato ad Hammamet, il povero Zerbinati, in vacanza nel Salento, fu “riconosciuto” (dentro una chiesa, peraltro) quindi pedinato e inseguito fino a quando in questura, a Brindisi, non venne chiarito l'equivoco. È che l'Italia resta pur sempre la patria della commedia, anche se poi spesso e volentieri vede accadere drammi veri, tristi e perfino poetici come nessuno sceneggiatore riuscirebbe a renderli. Così Bettino, dopo quella disavventura, volle conoscere Zerbinati: a loro modo divennero amici, si facevano lunghe telefonate in milanese, l'ultima venti giorni prima che Craxi se ne andasse – per rimanere in realtà sulla scena pubblica nelle forme disumane in cui si è detto. Liberarsi di quell'ombra, e lui di quel ruolo minatorio che il tempo dell'odio gli aveva assegnato, era qualcosa che andava ben al di là di maggioranze di governo e commissioni parlamentari d'inchiesta. E di nuovo qui tocca riaprire Massa e potere là dove Elias Canetti affronta le dinamiche primordiali dei re africani; e, sia pure con una punta di sgomento al ricordo che certi democristiani chiamavano Craxi “Bokassa”, e che sul legno dell'ascensore degli uffici del Psi di via Tomacelli una mano aveva inciso “Craxi Amin bianco”, si trova la storia del sovrano ugandese Kigala, che una volta morto doveva però ed era conveniente per tutti che rimanesse in questo mondo. E allora il suo spirito prese dimora in un medium chiamato “Mandwa”, una sorta di Favino vocazionale e permanente, che doveva sembrare il re imitandolo in ogni particolare: aspetto, gesti, timbro di voce, espressione. Narra la leggenda che ogni tanto l'originale Kigala tornava presso il suo doppio e lo afferrava “per la testa” facendolo cadere in un vero e proprio stato di possessione: solo così non provava il rancore del morto; e anche la tribù, forse, che non aveva il cinematografo, riusciva a darsi pace.
Mattia Feltri per la Stampa il 10 gennaio 2020. Una sfilata da luci della ribalta: il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lassù innalzato anche da Bettino Craxi perché «fu il mio fedele ministro dell' Interno», diffonde una nota sulle sue responsabilità di garante della Costituzione, e dunque un condannato è un condannato, che ci posso fare? Il premier Massimo D' Alema va dal procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, e il procuratore ascolta, e ascolta, e poi, anche lui col faro della legalità a illuminargli il cammino, dice niente da fare, un condannato è un condannato, fate un decreto e assumetevene la responsabilità; ma siccome non erano più i tempi - e non lo sarebbero più stati - del primato della politica, D' Alema non procedette oltre il baciamano all' ordine costituito. Il capolavoro di situazionismo fu del segretario di Stato vaticano, cardinale Angelo Sodano, che dopo aver accolto in profonda contrizione le suppliche della figlia Stefania, trasse di tasca due rosari e glieli porse, perché ne facesse dono al padre, insieme all' assicurazione di un posto di privilegio nelle sue preghiere. Così Bettino Craxi restò a morire ad Hammamet, nella latitanza dorata il cui culmine fu la sfacciataggine (ironia, per chi non l' avesse capito) d' essere operato per il cancro al rene nello squallore dell' ospedale militare, dove un medico del San Raffaele si incaricò di reggere la lampada per fare luce sul lavorio chirurgico nelle viscere dell' ex presidente. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, sul Bettino Craxi che ventuno anni prima era stato sorpreso da Gennaro Acquaviva con la testa tra le mani, in lacrime, sotto gli occhi una lettera di Aldo Moro spedita dalla «prigione del popolo». Si era decisa, essenzialmente dalla Democrazia cristiana e dal Partito comunista, la linea della fermezza, che poi era la linea dello star fermi nel senso di non far nulla. Riuscì benissimo, tutti fermi mentre Moro veniva processato e assassinato dalle Brigate rosse, e mentre Craxi in solitaria (di già) predicava una trattativa che lo portò più vicino ai sequestratori di quanto non sia riuscito ai servizi segreti, probabilmente impegnati nella stessa interpretazione della fermezza proposta dal governo. Nessuno ci aveva ancora riflettuto sopra, fino a questo libro asciutto e opulento di Marcello Sorgi (Presunto colpevole. Gli ultimi giorni di Craxi, Einaudi, pp. 111, 20), di cui l' esempio è il breve e fulminante ritratto dei due protagonisti - Bettino Craxi in conferenza stampa interpellato vanamente dall' esordiente Sorgi: non risponde e chiede se ci siano altre domande (era un suo crudele modo di svezzare i giovani interlocutori), e Aldo Moro che riceve a Palazzo Chigi don Riboldi e una delegazione di bambini reduci del terremoto del Belice, a cui non promette nulla di quanto non possa mantenere, poiché la politica non è mestiere per fanfaroni. La tesi del libro arriva quando deve arrivare, piazzata al termine del racconto di vite parallele con spietatissima noncuranza: «Entrambi finiscono schiacciati, stritolati in un meccanismo che non si accontenta di distruggerli politicamente, ma presuppone la loro eliminazione fisica. Salvarsi non gli è consentito». È l' ignominia di uno Stato capace di venire a patti coi peggiori ceffi del pianeta per spuntarne un vantaggio purchessia, e di colpo intriso di rigore etico se si tratta di tendere la mano - per umanità e amor proprio, mica per altro - a due leader sbilanciati sull' abisso. Ma se per Moro lo si sa, e lo si è scritto spesso, dirlo di Craxi è un passo verso l' assennatezza perduta ventotto anni fa, quando all' arresto di Mario Chiesa e all' apertura della falsa rivoluzione giudiziaria si decise - nel senso più biblico dell' iniziativa - di fare del capo socialista «il grande capro espiatorio», come scrive Sorgi con una secchezza irrimediabile. Il suo cadavere per la nostra catarsi: che oscenità. Ciechi e autolesionisti, ci si è tutto riversato addosso, com' era prevedibile e previsto: con Craxi, spiega Sorgi, si «consegna alla storia del Novecento il principio del primato della politica, mettendoci una pietra sopra». La politica che non sa più resistere a un procuratore, ceduta al servaggio dell' opinione pubblica, svilita a materiale di controllo via social ora per ora, e dunque immeschinita e disarmata, in balìa del capriccio. Una repubblica fondata sulla menzogna e che, in un mare di menzogne, naufraga amaramente.
· Craxi ed i Comunisti.
Furono i ragazzi di Berlinguer a spegnere il socialismo. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Condivido con Fausto Bertinotti lo spirito di apertura e di dialogo per un confronto serrato non certo per una rissa. Nel suo campo i dogmatici e i faziosi sono ben altri. Poi come Fausto sa bene i peggiori fra tutti sono i dorotei (che è una sorta di categoria dello spirito equamente distribuita in tutti i partiti e schieramenti) che preferiscono un rigoroso silenzio perché considerano un lusso inutile la battaglia delle idee e molto più efficace il ricorso alle tecniche della gestione del potere svolte direttamente o per interposto giornale o per interposto pubblico ministero. Con tutta questa genia, non con i comunisti-operaisti come Bertinotti, ho tuttora uno spirito più che “guerresco” (la guerra, quella vera, l’hanno fatta loro alcuni anni fa), ma duramente conflittuale. Non è stato certamente l’operaismo, ma l’ultima versione del berlinguerismo, quella dei cosiddetti “ragazzi di Berlinguer”, che ha lavorato in modo scientifico a “spegnere”, come diceva Machiavelli, il socialismo italiano e Bettino Craxi. I “ragazzi di Berlinguer” non hanno affrontato il 1989, realizzando un proprio autonomo revisionismo che desse il senso di un trapasso culturale e storico dal comunismo italiano alla socialdemocrazia e all’Internazionale Socialista. È quello che invece hanno provato a fare con tutti i loro limiti e contraddizioni i tanto vituperati miglioristi (Napolitano, Chiaromonte, Macaluso e Ranieri) che non a caso sono sempre stati minoritari nel partito e in più di un’occasione hanno rischiato la pelle. Poi, per applicare fino in fondo anche al Pci quella che Togliatti chiamava “l’analisi differenziata” (che in effetti applicò quasi a tutti, anche ai fascisti, molto meno all’Urss), fra i “ragazzi di Berlinguer” ci sono state due opzioni: quella del tutto utopica di Achille Occhetto, che puntava a superare il comunismo italiano da sinistra recuperando temi e suggestioni da Pietro Ingrao, e quella, tutta fondata sulla realpolitik di D’Alema, Violante, Veltroni (al di là delle sue variazioni sul tema). Come è noto il tentativo di Occhetto fu reso impraticabile da due lati, dallo stesso Ingrao che non voleva superare il comunismo, ma “rifondarlo” e, appunto, dalla componente “realpolitik” dei “ragazzi” che nel frattempo si era collegata in modo profondo a una parte dell’establishment bancario, mediatico, giudiziario di questo paese (esemplare il loro rapporto organico con la Repubblica di Scalfari e di De Benedetti) giocando tutta la partita sull’ingresso nell’area di governo. Questa componente ereditò, gestendola ad un livello più basso ma anche molto concreto, la preclusione berlingueriana nei confronti di Craxi per cui cavalcò fino in fondo quel giustizialismo ispirato sia da un’area della magistratura, sia da Repubblica, sia da un settore del mondo imprenditoriale italiano che aveva dovuto rassegnarsi a lasciar svolgere un ruolo egemone alle forze politiche, in primo luogo alla Dc e poi anche al Psi, fino a quando c’era stata la divisione del mondo in due blocchi e in qualche modo il “pericolo comunista”. Quel pezzo assai aggressivo del mondo imprenditoriale ritenne che era venuto il momento di togliere la “delega” alla politica e ai partiti. Di conseguenza esso utilizzò il suo volume di fuoco mediatico, si liberò della Dc e del Psi cavalcando Mani Pulite. Lo fece con la massima faccia tosta perché proprio le grandi imprese, in primo luogo la Fiat, erano state l’anima strutturale del sistema di Tangentopoli che via via aveva coinvolto tutto e tutti, sistema di potere del Pci compreso. In quel sistema non esistevano certo dei poveri concussi come spiegarono nelle loro lettere ai Pm di Milano la Fiat e la Cir, Romiti e De Benedetti che sarebbero stati quotidianamente minacciati e rapinati dai perfidi e arroganti concussori nelle persone di Craxi, di Forlani e dei loro accoliti. Siccome, poi, nello svolgimento dell’operazione a un certo punto qualcuno spiegò a “lor signori” e al pool di Milano che non si poteva far tabula rasa di tutte le forze politiche, ecco che, anche per ragioni di rapporti di forza, fu realizzato un atipico compromesso storico fra queste componenti dell’operazione di Mani Pulite con i “ragazzi di Berlinguer” che, come spiegò lucidamente Massimo D’Alema, ragionava rigorosamente in termini di occupazione degli spazi politici e di potere: «Eravamo come una grande nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista, in sostanza un progetto annessionistico. Come uscire da quel tunnel? Questo era il nostro progetto strategico: come trasformare il Pci senza cadere sotto l’egemonia craxiana che avrebbe segnato la disfatta della sinistra. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affaristico avvinghiato al potere democristiano. Questo era il nostro vero dramma. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta, diventare noi il partito socialista in Italia». Tutto ciò si fondava su una grande mistificazione: come tu ben sai, caro Fausto, il Pci era fra i partiti italiani quello che aveva più fonti di finanziamento irregolare, sia detto senza alcun moralismo: dal finanziamento proveniente dall’Unione Sovietica alla rendita petrolifera dell’Eni, alle cooperative rosse, a una miriade di aziende private. Non a caso, diversamente dai miglioristi, quel settore del Pds, forse con l’eccezione di qualche riflessione culturale sviluppata da Piero Fassino, fu assai parco sul terreno della revisione ideologica, ma invece assai aperto e attivo su quello delle privatizzazioni. In qualche caso, taluno dei “ragazzi di Berlinguer” si impegnò a tal punto su quel terreno da guidare anche una cordata di “capitani coraggiosi” venendo però contrastato dall’interno stesso del gruppo dirigente del Pds da parte di coloro che oramai avevano rapporti organici con l’establishment finanziario ed editoriale di questo paese. Queste sono le ragioni, caro Fausto, per le quali mantengo una contestazione di fondo che non è certo rivolta al “comunismo” come categoria dello spirito avendo anche la consapevolezza che la dialettica fra quella ipotesi culturale e quella socialista nel senso classico appartiene per larga parte a un passato prestigioso, ma certamente superato. Invece anche per gli errori politici di Craxi e per il cupio dissolvi che caratterizzò ciò che rimase in campo del gruppo dirigente socialista, certamente nel ’92-’93 i “ragazzi di Berlinguer” vinsero la guerra nei confronti del Psi di Craxi, sia pure transitoriamente e illusoriamente. E allora per il sottoscritto e per altri compagni socialisti, in primis coloro che tuttora danno vita al Psi, a Mondo Operaio e ad alcune significative fondazioni, c’è oggi un obiettivo prioritario, quello di evitare che la storia del movimento operaio italiano si risolva, come è spesso avvenuto nel passato, nella storia fatta dai vincitori. Credo che su questo terreno qualche risultato significativo è stato raggiunto per tre ragioni di fondo: perché c’è stato un lavoro autonomo fatto da alcuni storici di grande qualità: solo per fare qualche nome mi riferisco a Piero Craveri, a Simona Colarizi, a Andrea Spiri, ai dieci volumi costruiti da Gennaro Acquaviva e da Luigi Covatta; in secondo luogo perché da un certo momento in poi i “ragazzi di Berlinguer” hanno accuratamente evitato il confronto su questo campo preferendo occuparsi di altro e cioè di una gestione sempre più asfittica del potere; in terzo luogo perché alcuni dei più significativi intellettuali di origine comunista (Biagio De Giovanni, Beppe Vacca, Silvio Pons, lo stesso Istituto Gramsci) si sono collocati su una dimensione storico-critica più elevata, insomma, per usare una battuta di Antonio Gramsci, stanno lavorando “fur ewig”, al di fuori e al di là dello scontro che ha diviso i socialisti e i comunisti negli anni ’80 e ’90. Dicevo che quella del ’92-’94 è stata per molti aspetti una vittoria transitoria e illusoria. Infatti avendo liquidato quello che era considerato il nemico principale, cioè il “social-fascista Craxi”, i “ragazzi di Berlinguer” hanno ritenuto di essere comunque arrivati a una piena conquista del potere politico e invece con loro sorpresa si sono trovati sbarrati il campo da parte di Berlusconi. Da qui prese corpo una sorta di bipolarismo anomalo, ben diverso dal bipolarismo europeo. Poi, anche in seguito alla devastante crisi economica del 2008-2010 quel bipolarismo è andato a gambe all’aria e ha finito col produrre i mostri con cui oggi ci troviamo a fare i conti, cioè il sovranismo razzista di Salvini e il populismo giustizialista e anti politico del Movimento 5 stelle. Non voglio scandalizzare nessuno, ma secondo me fra questi due mostri, la tematica berlingueriana della questione morale e della damnatio di tutti gli altri partiti e poi fra tutta la vicenda di Mani Pulite del ’92-’94, c’è un nesso, una sorta di consequenzialità. Il grillismo e il sovranismo sono a mio avviso la conseguenza finale dei demoni messi in circolo addirittura da quel Pci che originariamente (dal 1945 in poi) era la forza politica più storicista, più impegnata nella valorizzazione della politica, del ruolo dei partiti, del parlamento e della mediazione: tutto ciò era una delle caratteristiche più significative del Pci, ma del Pci di Togliatti, non di quello di Berlinguer, alcuni tratti del quale (e le battute di Tatò esprimono lo spirito dei tempi) ha incorporato in sé stesso, con tutti gli aggiornamenti inevitabili. Ma più i tratti del VI Congresso dell’Internazionale Comunista, quello per intenderci del social-fascismo, che non quelli del VII, il Congresso dei fronti popolari (vedi a proposito di tutto ciò il bellissimo libro di Paolo Franchi). In questo quadro non capisco perché, caro Fausto, ti identifichi totalmente nell’ultimo Berlinguer, rappresentato come un generoso e appassionato interprete del movimentismo. No, a mio avviso, l’ultimo Berlinguer fu rattrappito in un chiuso settarismo, certamente nobilitato da un impegno personale condotto usque ad effusionem sanguinis, per una spasmodica e disperata battaglia contro quello che era ritenuto il male e quindi come tale meritevole dell’onore delle armi come si deve a tutti i combattenti che credono fino in fondo nelle idee.
Riformisti o rivoluzionari? La contraddizione non esiste piú. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 27 Aprile 2020. La controversia tra comunisti e socialisti ha attraverso tanta parte della storia politica del nostro Paese, dunque si può capire che possa rispuntare anche da sotto le ceneri. Fabrizio Cicchitto lo ha fatto riprendendo il filo della relazione tra Craxi e Pellicani nella temperie del nuovo Psi che stava affermandosi alla fine degli anni 70. Lo fa con intatta passione e manifesto spirito di parte. Apprezzo l’una e l’altro, ma penso che non siano adatti ad indagare i rapporti tra socialisti e comunisti nell’Italia uscita dalla Resistenza e arrivata sino alla fine del Novecento. Sarà anche per ragioni autobiografiche. Sono stato nel Psi, nel Psiup e nelle diverse tendenze ispirate a eresie socialiste, quali quelle di Raniero Panzieri, e quelle varie delle sinistre socialiste fino a Riccardo Lombardi. Nel Pci, in quello guidata da quell’eretico senza scisma che è stato Pietro Ingrao. Come Cicchitto ho vissuto – certo molto più a lungo di lui – in quella casa comune che è stata la Cgil. Forse però è per questo che penso che, nell’oltrepassamento della separazione tra riformisti e rivoluzionari, un’esperienza di elaborazione particolarmente significativa è stata proprio quella degli anni 60, che un filosofo come André Gorz e un uomo della cultura politica come Gilles Martinet hanno chiamato dei riformisti-rivoluzionari: è la linea che legava socialisti come Lombardi, Foa, Basso a comunisti come Ingrao o Trentin in un’ipotesi di lavoro per il superamento della società capitalista. Ma penso così soprattutto perché dopo il grande e terribile Novecento, dopo la sconfitta del movimento operaio, e l’avvento di un capitalismo ancor più intollerabile, bisognerebbe riflettere diversamente su tutta quella storia che non consente più di far vivere filiazioni dirette, quanto piuttosto attraversamenti; certo senza negare preferenze e diversità di opzioni, ma concorrendo a un nuovo inizio nella storia per la trasformazione della società. La consuetudine e l’antica conoscenza, ma anche la leggerezza che vorrei connotasse questo confronto, mi suggerisce il ricorso al nome del mio interlocutore. Fabrizio mi è parso prigioniero della sua metafora guerresca, quella a cui fa ricorso, scrivendo: «Fu un fuoco di fila in cui si mescolavano le bombe a mano e il tiro di fucili di precisione». In guerra ci sono solo nemici, o vinci tu o vince lui. Vince, in ogni caso, chi resta in vita. È il trionfo della coppia nemico-amico. Sarei per deporre le armi, salvando la passione. Anch’io sono partigiano di una parte (oplà) e sul fronte opposto a quello di Cicchitto (oplà). Anch’io non sopporto gli eclettismi e non mi piace affatto risolvere le opposizioni con la somma delle stesse, ma il punto è che quel che ieri sono state opposizioni, oggi, nella rielaborazione del tempo, non lo sono più, almeno come tali. Non Marx o Proudhon, ma Marx e Proudhon, quello peraltro che diceva che la proprietà è un furto. Marx, caro Fabrizio, non si può seppellire, soltanto perché non è possibile farlo. È una pietra d’inciampo troppo grande. Resiste. Anzi, riemerge ora nel tempo del capitalismo finanziario globale e della sua crisi. La Marx Renaissance è stato un evento mondiale che ha mobilitato le università maggiori di ogni parte del mondo, a partire da quelle degli Usa. E solo qualche anno fa, Marx è stato l’autore più venduto nelle librerie del Regno Unito. L’avvertenza, lo sappiamo, è nota. Marx stesso diceva di non essere marxista. Dei grandi rivoluzionari e rivoluzionarie del Novecento non è più possibile ereditare la lezione per filiazione diretta, semmai lo è stato. Non si può farlo, se non creativamente. Se si vuole dire così, “revisionisticamente”. Solo per memoria dei tempi in cui quei giganti ci sembravano contemporanei, tanto da prendere parte alle loro dispute, a partire da quella tra riformisti e rivoluzionari, da quella fondativa tra Bernstein e la Luxemburg. Solo per memoria, allora, potrei dirmi luxemburghiano, ma si sa che in fondo sarebbe un nonsense. Il movimento operaio, vinta la rivoluzione e fattosi Stato, è fallito a Est. Il movimento operaio senza la rivoluzione ma col conflitto di classe è stato sconfitto ad Ovest. Ma l’una e l’altra storia hanno scritto un’epopea che ora è finita. Qui si situa la vicenda di cui scrive Cicchitto e la contesa tra Pci e Psi. Come ho già detto, stavo sull’altro versante rispetto al suo. Non mi convince ancora oggi la sua riduzione del Pci a Enrico Berlinguer e tantomeno a Tonino Tatò, di cui pure sono stato amico, e tantomeno ancora a una sua frase molto infelice. Tornerò brevemente, solo per un cenno, sul Pci, quasi un’avvertenza semplicemente metodologica, ma non vorrei sfuggire al problema a cui Berlinguer ha dato vita e che Cicchitto ricorda. Non è stato nelle mie corde il primo Berlinguer, quello che con grande consenso e grande successo è arrivato fino al Compromesso storico. Mi trovavo allora in dissenso e ancora oggi quell’ipotesi non mi convince affatto. Invece, trovo ricco e radicale il secondo Berlinguer, quello, per dirla sommariamente, dei cancelli alla Fiat nella lotta dei 35 giorni e della Scala mobile. Lo muove un’intuizione di classe e carica di futuro. La sconfitta dell’ipotesi non ne riduce affatto la portata. Fabrizio, che è cultore della Luxemburg, ricorderà sicuramente le sue pagine straordinarie sul valore della sconfitta: «Una sola può valere più di cento comitati centrali». Cosa intuisce quel Berlinguer? Intuisce che si è giunti alla fine del grande ciclo ascendente del conflitto operaio-studentesco, quello aperto dal biennio ‘68-’69, e che si è giunti di fronte al rovesciamento del conflitto di classe, come dirà poi lucidamente Luciano Gallino. Pensa, cioè, che da allora in poi saranno i padroni a organizzare la lotta contro i lavoratori e non più il contrario. E poi raggiunge la seconda sua intuizione, quella cioè che quando i partiti della sinistra smarrissero la radice di classe della loro politica, si avvierebbero inesorabilmente a una mutazione genetica che li trasferirà nel campo liberale. Vero è che il Pci, come tanta parte dell’opinione critica del Paese, non capisce la forza di una ribellione socialista a una condizione di oppressione paternalistica, lungamente subita da parte comunista, né intende la sua radice libertaria, quella di una carica provocatoria, che giunge fino a flirtare con un certo libertinismo. Ma siccome penso che ognuno dovrebbe riflettere a partire dai mali della propria parte, quelli della mia sono certo ingombranti e diffusamente approfonditi, vorrei invitare Fabrizio a riflettere su quel punto di partenza, quel 1978 socialista di cui scrive con passione. Continuo a pensare che di ben altra stoffa fosse il precedente revisionismo socialista, quello originato dal 1956, dopo la catastrofe ungherese, quando il ventaglio aperto era tanto ampio da andare da Panzieri a Giolitti, e ancora molto più in là. La ragione, secondo me, è che nel revisionismo socialista, che aprì la strada agli ani 60, c’era diversamente da quello di cui parla Fabrizio, l’ambizione di interessare l’intero movimento operaio in una sfida per l’egemonia, non per il comando. L’ha inteso un socialista liberale, come Norberto Bobbio. Vorrei dire a Fabrizio, in verità e in amicizia, che penso che ciò che ancora gli impedisce un’analisi critica, ma serena, è il suo rifiuto di considerare il Pci per quello che realmente è stato. Delle sue colpe sappiamo e moltissimo si è scritto e detto, ma se parlando del suo retroterra culturale, degli intellettuali che ne hanno fatto parte, si scrive della «melassa culturale del Pci», allora si rivela un’incomprensione di fondo. Non farò torto alla cultura politica di Cicchitto, facendogli un quadro dell’intellettualità che ha fatto parte di quel mondo, delle loro esperienze, della loro produzione artistica, culturale, della creatività con cui hanno investito tanta parte della cultura mondiale. Melassa? Basti la storia di Pier Paolo Pasolini a bucare questa immagine inadatta. Ha scritto Pasolini: “Il Pci è un paese nel Paese”. Un paese, non una segreteria, una direzione, un comitato centrale. Mi dia retta per una volta, Fabrizio, ascolti Giorgio Gaber, ascolti la sua ballata “Qualcuno era comunista”. Se non sente viva quella storia di popolo, il conflitto tra Craxi e Berlinguer diventa indecifrabile nelle sue ragioni, nei suoi torti più profondi, quelli che potrebbero interessare ancora il nostro futuro e che comunque ci aiuterebbero a rileggere la storia con i dovuti “se”, perché non è vero che essa non si fa con i “se”.
Da Roma a Milano su Craxi continua la pioggia di monetine. Tiziana Maiolo su Il Riformista 5 Febbraio 2020. Lunedi sera, consiglio comunale di Milano. Nessun ricordo per Bettino Craxi. Le monetine continuano a tirargliele, non più in compagnia dei missini, ma in beata solitudine, gli eredi di quel Pci-Pds che nella serata del Raphael diedero il peggio di sé. Le monetine si sono trasferite da Roma a Milano, dove Bettino Craxi, che in questa città mosse i primi passi della politica in consiglio comunale, ma che ebbe anche l’orgoglio di essere il primo presidente del consiglio milanese, non trova un riconoscimento. Non è sepolto al Famedio insieme a coloro che resero grande la città di Ambrogio. Non ha una via a lui intestata. Probabilmente non avrà neppure una targa sulla casa che ha abitato, via Foppa, non certo nel lusso del centro città. Per lui fino a oggi solo monetine. Di sinistra. E il consiglio comunale che si scrolla di dosso la patata bollente: caro sindaco Sala, se vuoi dare almeno una targa in ricordo di Bettino Craxi, fallo tu. Noi no. Di dedicare una via al ricordo di Bettino Craxi si era cominciato a parlare a Milano, la sua città, un po’ prima del 2010, per l’occasione del decennale dalla sua morte. E c’era voluto un sindaco di centrodestra di una città medaglia d’oro della resistenza e in cui ancora oggi il Pd è il primo partito, per porre il problema di rendere onore con l’intitolazione di una via a un grande riformista socialista. Un cittadino illustre che aveva contribuito in gran parte allo sviluppo e alla trasformazione di Milano in una metropoli. Letizia Moratti era arrivata a un passo, l’ufficio toponomastica del Comune stava individuando anche la zona adatta. Poi, un po’ perché aveva trovato l’opposizione della Lega, un po’ perché la pratica era rimasta vittima di lungaggini burocratiche e un po’ perché lei non era stata rieletta, l’iniziativa era affossata. E Moratti colpita al petto come san Sebastiano da tante frecce che portavano i nomi di Antonio Di Pietro e di Saverio Borrelli, degli uomini del Pd ma anche del capogruppo della Lega in consiglio comunale Matteo Salvini, facente parte della sua stessa maggioranza. Gli argomenti allora erano tutti di tipo giustizialistico. Benché a Roma il presidente Napolitano mostrasse il coraggio di partecipare a testa alta alla manifestazione organizzata da Stefania Craxi al Senato, a Milano si parlava solo di San Vittore, mazzette e corruzione. Un ex presidente del consiglio, segretario di un grande partito, ridotto a quattro articoli di codice penale. Piano piano però il clima pare essere cambiato e il ventennale ha coinciso con la presa d’atto del fatto che la storia non la fanno più, per fortuna, solo i pubblici ministeri. Anche a Milano qualcosa pare essersi rotto, cioè l’omertà tra la cultura dei Borrelli e dei Di Pietro e il giustizialismo della sinistra. Sono i giovani del Pd che, per la prima volta in quel partito, prendono l’iniziativa di organizzare una giornata di studi ( che si terrà il 24 di questo mese) su Craxi. Un progetto serio e ambizioso, che partirà dal ruolo del segretario socialista a Milano come consigliere, assessore e simbolo della città negli anni Ottanta, per passare alla figura di Craxi come presidente del consiglio e infine il lascito politico del leader socialista e i riflessi sulla cultura riformistica e progressistica di oggi. Ai giovani si affianca il capogruppo a Palazzo Marino Filippo Barberis, che non teme di dichiarare: «La vicenda politica di Craxi e l’impatto che ha avuto nella storia della nostra città, del nostro Paese e della sinistra italiana, non può essere ridotta alle sole vicende giudiziarie che ne hanno segnato la fine. Craxi è stato molto di più, nel bene e nel male». Pareva una svolta culturale vera. Invece no. È scoppiato l’inferno, con la ribellione del partito. Sia al convegno che alla via o alla targa. I giovani sono stati subito redarguiti dai vecchi, pure quelli che avevano avuto qualche problemino con Tangentopoli. In mezzo al guado il titubante sindaco Sala, che tra un anno e mezzo vorrebbe essere rieletto, e che continua a dire che sì, in effetti una riflessione ci vorrebbe, però Craxi è «divisivo». Orribile parola per dire che si sta parlando di una persona che lascia traccia di sé. Così, invece di prendere una decisione sulla richiesta (Stefania) di intestare una via, o almeno (Bobo) una targa sull’abitazione, il sindaco decide di delegare il consiglio comunale alla discussione. Ma poi lui lunedì sera non c’è, la Lega coglie l’occasione per defilarsi, destra e sinistra tornano al vecchio bipolarismo armato (a Milano i cinque stelle sono inesistenti) e in questo gioco dell’oca impazzito, si ritorna al “via”. Cioè il consiglio incaricato dal sindaco di prendere una decisione almeno sulla targa, decide che dovrà occuparsene la giunta. La sagra dell’ipocrisia. Altra manciata di monetine addosso a Bettino Craxi. E alla dignità della sinistra.
Cosa avrei detto di Craxi se il Senato non avesse vietato la commemorazione. Riccardo Nencini de Il Riformista il 2 Febbraio 2020. Nel trionfo dell’ipocrisia e del camaleontismo, con l’unica eccezione di Italia Viva, i presidenti dei Gruppi al Senato mi hanno vietato di commemorare Craxi. Le motivazioni: non è mai stato un senatore, l’aula si sarebbe trasformata in un Vietnam per la dura reazione grillina, era un latitante, eccetera. Ho incontrato ad Hammamet una delegazione di Forza Italia, ho ascoltato parole di omaggio da parte di leader della Lega, fioriscono convegni sulla figura di Craxi con la partecipazione di autorevoli senatori, a Milano la giovanile del Pd organizza un incontro, nondimeno l’unica sede deputata a tracciarne un profilo – il Parlamento italiano – ne vieta il ricordo. Nessun esame di coscienza, un bel macigno su uno dei periodi più controversi della storia d’Italia, basta e avanza un capro espiatorio che ci mondi dai nostri peccati. Nell’aula dissacrata più volte da cappi che penzolano, da occupazioni dei banchi del governo, da telefonini che squillano, da applausi rivolti a capi di governo che sguazzano nella dittatura (penso a Maduro), da offese roboanti, nonostante tutto questo l’argomento rimane un tabù. C’è di più. Il tentativo di spostare a destra la memoria di Craxi. Peggio: farlo dialogare con la destra più radicale, il luogo più lontano dal socialismo umanitario che prende vita sul finire degli anni Settanta. Si scambia il patriottismo col nazionalismo, le proposte per rendere più solida l’Unione Europea si trasformano in antieuropeismo. Una manipolazione storica aberrante. Non possiamo lasciare che questo avvenga. Ne verrebbe lacerata una storia di libertà e di civiltà del Novecento italiano. Non parlo solo la vicenda politica dello statista, ma di una storia comune, la nostra, che dagli scranni parlamentari ha rovesciato l’Italia, da Turati a ieri mattina. Questo avrei detto, in Senato, se me lo avessero consentito. Quello che per alcuni, evidentemente, è carta straccia. Non voglio perorare rivisitazioni giudiziarie né stendere una biografia di Bettino Craxi. Quando sia nato, dove abbia vissuto, cosa abbia costruito per il suo Paese. Basta un tocco sull’Iphone per immergersi nella sua vita. Non c’è dubbio. Utile conoscere, sapere, e però, lo dico con Balzac «chi fa della cronologia pescando a caso da una vita intera fa soltanto la storia degli sciocchi». Tanto più se quella storia, quel nome, si legano a un periodo tra i più controversi della storia d’Italia. Li è il nodo, e non possiamo pensare di scioglierlo affidandoci a un eccellente regista e ad un attore impareggiabile. Tocca a noi, alla politica, rileggere quel tempo senza ipocrisie, senza affidarsi alla teoria, mediocre e salvifica per i ciechi, del capro espiatorio, del «nemico unico e certo» – parole pronunciate da Luciano Violante presidente della Camera. Guardo con sospetto sia alle celebrazioni acritiche sia ai giudizi provvisori, declamati senza scavare sotto la pelle della storia e attingendo alla cronaca. Craxi fu un uomo politico a tutto tondo e uno statista, uno dei protagonisti di un lungo periodo della storia d’Italia e del rinnovamento del socialismo europeo, e come tale va considerato. Relegarlo al biennio 1992/94 è fare un torto all’evidenza. Commise errori? Sì. Rappresentò con dignità l’Italia nel mondo? Sì. Fu parte di un sistema politico che si era forgiato attorno alla cortina di ferro, dominato in Italia e in Europa dal fattore K, con tutte le conseguenze che per quasi mezzo secolo sono figliate da quella divisione? Sì. La storia individuale di un leader politico di una nazione centrale nell’ordine postbellico non può essere scissa né dal contesto né dal confronto con ciò che c’era prima e con ciò che viene dopo. Altrimenti si cede alla tirannia degli stereotipi e al posto della memoria collettiva, necessaria alle nazioni per vivere – per vivere, non per sopravvivere – si sostituisce il bignami delle novelle della sera. C’è addirittura una seconda alternativa, quella tracciata, richiamandosi a Saint Just, l’artefice del Terrore rivoluzionario, da Piercamillo Davigo. Eccola, parola per parola: tra i politici non esistono innocenti, solo colpevoli fino a prova contraria. Bene. Per lunghi anni siamo stati dunque governati da una classe politica criminale. Dobbiamo a quella classe politica la resurrezione dell’Italia sconfitta in guerra e devastata da una ventennale tirannia e da un tradimento. Di più: le riforme in nome di libertà ed eguaglianza, la conquista di un benessere diffuso, la vittoria nella lotta al terrorismo, un ruolo importante nello scacchiere internazionale fino a raggiungere il G7. Un’Italia più libera e civile ha un marchio infame, un pantheon dantesco. Se ci accontentiamo della superficialità, abbiamo trovato il modello. Va solo registrato. E invece, vent’anni dopo, non sono più tollerabili né i silenzi né il gioco di parole fondato sul «ma anche». Qualche esempio? Secondo taluni fu un latitante e non un rifugiato politico, eppure si offrono funerali di Stato e la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro chiede di incontrarlo. Del resto, latitante, nella lingua madre, è colui che si nasconde. Complicato nascondersi quando si ha la casa piena di giornalisti e il telefono non smette mai di squillare. Eccola la trappola del «ma anche», del «sì, però», del «quasi». Parole che allontanano da un esame di coscienza come si deve, da una confessione piena, semmai passi di lumaca verso una verità sussurrata. Cosicché, chi ha quasi vinto gioca ancora pur non essendoci mai confessato fino in fondo. Del resto, Craxi, il 3 luglio 1992, spiegò con dovizia di particolari come si finanziavano i partiti. Io c’ero. Non si trattò di un’invocazione alla correità. Tutt’altro, un appello a che ciascuno si assumesse le proprie responsabilità. Questo fu. La riprova? Nel 1984 e nel 1989, con voto unanime, il Parlamento vota l’amnistia per reati di finanziamento illecito. Ben due volte in cinque anni, all’unanimità. Non mi aspetto che Craxi venga ribattezzato con l’acqua miracolosa in cui fu immerso Curzio Malaparte, eccellente scrittore, fascista della prima ora, tra i protagonisti esterni dell’omicidio Matteotti e redento, nel dopoguerra, dal ministro di molta grazia e di poca giustizia. No, mi aspetto invece che chi siede su questi banchi compia un atto di coraggio condividendo le parole lungimiranti di un ex presidente della Repubblica e di vari capi di governo con cui Craxi lavorò, che si ponga almeno un paio di domande: quanto incide, nella caduta della Prima Repubblica, il mutato clima internazionale? Quanto incide il tramonto della centralità della politica a vantaggio della finanza, con conseguente svendita di pezzi pregiati dell’industria italiana? Non tocca anche a noi valutare, scavare, immergersi nei torbidi di quel tempo, o basta affidarci alla penna di buoni giornalisti e a storici di buona volontà come non avessimo a cuore l’identità di una nazione, le radici dalle quali proveniamo? Un’ultima questione. Quegli anni lacerano una storia magnifica del Novecento italiano. Fossi stato a Montecitorio, la geografia degli scranni mi sarebbe stata di aiuto. Là Turati e Matteotti, più sotto Nenni, Treves, la Merlin, Loris Fortuna, lassù Saragat e Pertini, non lontano da dove siedo Gino Giugni, il padre del giuslavorismo italiano. Chi ha fatto una scelta di vita non può accettare che una storia che ha avuto ragione venga abrasata, relegata in un canto o, peggio, narrata con sussiego o, peggio ancora, con compassione. Ma nemmeno chi ha il privilegio di sedere nel Senato della Repubblica, dovrebbe accettare che il passato in cui hanno vissuto e lottato i suoi genitori e i suoi nonni, quale esso sia, venga rappresentato come una commediola da teatro di provincia.
L'incontro. Il Pd ancora diviso su Craxi, uno scontro di cultura politica e generazionale. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 7 Febbraio 2020. Non ci sarà una via intestata a Bettino Craxi. Non ci sarà una targa affissa sulla sua casa di via Foppa. E non ci sarà (almeno per ora) il convegno di studio sulla storia di Craxi e sul socialismo organizzato dai giovani del Pd. A vent’anni dalla morte di un grande personaggio che qui è nato e cresciuto politicamente, Milano, la Milano che vota a sinistra, è ferma nel suo immobilismo, nella sua incapacità di esprimere un pensiero collettivo sul proprio passato. Perché ormai quel che sta succedendo nella sinistra milanese non è più la questione di intitolare una via a Bettino Craxi né di apporre una targa e neanche di tenere un convegno di approfondimento. Quello che è scoppiato all’interno della federazione milanese del Pd è un vero scontro di cultura politica. E anche generazionale. Paolo Romano, segretario dei giovani democratici, ha 23 anni, studia economia, è consigliere di municipio. Quando lui è nato, Craxi era già ad Hamammet. Proprio per questa ampia sfasatura di tempi e memoria, ha la curiosità di sapere e di capire e di imparare, “anche dagli errori”, dice. Insieme ai suoi compagni, e con la benedizione del capogruppo Pd in consiglio comunale Filippo Barberis, un riformista di 37 anni, aveva organizzato una giornata di studio che, a vedere dal programma, sembrava tutt’altro che nostalgica o elogiativa di Bettino Craxi. Certo, non era un convegno “grillino”, come forse sarebbe piaciuto a quella parte dei dem cui dei socialisti piacciono solo le spoglie. Quelli che leggono la storia solo sulle carte giudiziarie. Quelli che per dare l’Ambrogino a Filippo Penati hanno dovuto elargirlo anche a Francesco Saverio Borrelli. Al contrario denotava un certo rigore storico e cronologico. Nel primo panel si sarebbero raccolte le testimonianze sul Craxi milanese, i suoi primi passi da consigliere comunale e poi da assessore e la Milano degli anni ottanta, con luci e ombre. Letto anche con l’aiuto dei ricordi dell’ex capogruppo milanese del Psi Ugo Finetti e degli ex sindaci Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. La seconda parte del seminario avrebbe esaminato la parte di Craxi “romano” e presidente del consiglio, con al fianco il suo vice Claudio Martelli e con lo sfondo della prima repubblica e le sua degenerazioni politiche. L’eredità di cultura politica infine, e la domanda delle domande: che cosa ci ha lasciato il leader socialista e in che modo ha influito sulla cultura del riformismo di oggi? Ne avrebbero discusso con i giovani anche il ministro per lo sviluppo del Sud Giuseppe Provenzano, i parlamentari Tommaso Nannicini e Lia Quartapelle, oltre al sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Una vera banda di sovversivi craxiani, come si vede. Pure, qualcuno ha annusato il pericolo. Sono partiti per primi due vecchi della politica milanese. Barbara Pollastrini che ai tempi di Mani Pulite era la segretaria cittadina del Pds e che dovrebbe portare ancora addosso le ferite di quell’incriminazione da cui fu poi prosciolta, ma di cui evidentemente preferisce cancellare la memoria . E poi Carlo Monguzzi, che fu assessore dei Verdi in Regione e che oggi sorprendentemente dice «l’onestà è il presupposto della politica e io non ho da ridiscutere o riabilitare Craxi», beccandosi così del “vecchio stalinista” da parte di Roberto Caputo, ex assessore socialista del Comune di Milano. Ma anche in quello che fu il potente mondo socialista milanese si fanno vivi in pochi. Prende coraggio Carmela Rozza, ex assessore pd al Comune e oggi in Regione: «È ora che si riconosca il valore dell’uomo politico Bettino Craxi». Il resto è silenzio assoluto. Anche perché tra la storia della via e della targa da una parte e quella del convegno dall’altra, gli esponenti del Pd sono riusciti anche a fare arrabbiare il sindaco. Beppe Sala è fuori di sé. E’ stato un eccellente direttore generale con il sindaco Letizia Moratti, e del fatto che lui fosse di sinistra, come dice oggi, non si era accorto proprio nessuno, e se era vero l’aveva nascosto molto bene. Ma oggi è accreditato come uno importante del Pd a tutti gli effetti, e non ha nessuna voglia di trovarsi tra i piedi la patata bollente della questione Craxi. Del resto il ventennale dalla morte c’è e la richiesta ( l’ennesima) dei figli di poter intestare una via (Stefania) o almeno una targa (Bobo) nella sua città (se non qui, dove?) è un fatto concreto che non si può scacciare come una mosca fastidiosa. Così il sindaco con l’escamotage di “dare la parola alla città”, aveva delegato al consiglio comunale il compito di avviare un dibattito e anche di decidere sulle questioni apparentemente solo toponomastiche. Poi però in consiglio lui non si era presentato e il dibattito era diventato un gran pasticcio con finale a sorpresa e la palla ributtata nel canestro dello stesso Sala e della sua giunta. Così lui ora ha un diavolo per capello e le elezioni in arrivo (un anno passa veloce), i giovani si sono fermati in attesa che i vecchi sbroglino alcune matasse che si profilano all’orizzonte, non ultima quell’ambizione, di cui si parla insistentemente a Milano, di Giorgio Gori che vorrebbe il posto di Nicola Zingaretti. Il quale, pare, avrebbe alzato il telefono proprio per bloccare le ambizioni riformistiche di quei ragazzi nati quando Craxi era già ad Hammamet.
Dagospia il 29 gennaio 2020. All'associazione della Stampa Estera di Roma è stato presentato il libro di Marcello Sorgi su Bettino Craxi, ''Presunto innocente'' (Einaudi). Con l'autore c'erano Massimo D'Alema e Stefania Craxi, moderatore Virman Cusenza, direttore del ''Messaggero''. Tra il pubblico, l'ex ministro Margherita Boniver, l'avvocato Guido Calvi, l'ex presidente della Calabria Agazio Loiero, Laura Morino, Jas Gawronski, l'ex direttore del ''Messaggero'' Mario Pendinelli, Paolo Repetti, Vito Riggio, Annamaria Malato, Gabriella Carlucci, Livia Azzariti e la moglie di Sorgi, Anna Chimenti, costituzionalista attualmente distaccata presso l'ambasciata italiana a Londra per gestire le conseguenze istituzionali del referendum sulla Brexit.
Da Il Fatto Quotidiano il 29 gennaio 2020. Alla presentazione a Roma del libro di Marcello Sorgi Presunto colpevole, gli ultimi giorni di Craxi, botta e risposta tra Massimo D’Alema e Stefania Craxi. Un confronto sul mancato rientro in Italia da Hammamet del leader socialista per potersi curare mentre D’Alema era premier. “Ti ho sentito spesso rivendicare il primato della politica, dopo 20 anni si può dire che in quel caso non ci fu? ”, ha detto Stefania Craxi rivolgendosi a D’Alema in merito all’intervento che fece con la Procura di Milano. “Craxi – ribatte D’Alema – era tecnicamente un latitante. Noi come governo prendemmo una posizione pubblica dicendo che eravamo favorevoli a che Craxi potesse venire a curarsi in Italia. In quel momento oltre il 90 per cento degli italiani era contrario. Assumemmo una posizione molto impopolare. Parlai con la Procura di Milano: Craxi non sarebbe stato arrestato, ovviamente, Borrelli però si impuntò sul fatto che loro lo avrebbero piantonato in ospedale. Ma Craxi disse ‘io posso venire solo da uomo libero’. Io non so quale fantasia, Stefania, si sarebbe potuta inventare per impedire che i magistrati decidessero di piantonare Craxi, fare un decreto? Le condizioni erano quelle e Craxi rifiutò”.
Mario Ajello per “il Messaggero” il 29 gennaio 2020. Il tema Craxi tira. La sala della Stampa estera è piena. E la platea si anima, rumoreggia e si divide quando Massimo D'Alema osserva: «Non serve mettersi a dire chi, tra Berlinguer e Craxi fosse più o meno innovativo. I torti nella loro azione politica erano equamente distribuiti. Berlinguer fu un conservatore sul piano istituzionale. Ma fu un innovatore sul piano sociale, ambientale o nelle grandi questioni come il femminismo». E ancora: «Io sono stato un avversario politico di Craxi e stavo al fianco di Berlinguer. Non tutti i torti erano da una parte e tutta la ragione era dall'altra. E i reati per i quali Craxi è stato condannato non cancellano i suoi meriti politici». E' stato spumeggiante, e a tratti anche duro per effetto dei toni incalzanti di Stefania Craxi, questo dibattito intorno al libro di Marcello Sorgi (Presunto colpevole, Einaudi stile libero), con l'autore, la figlia di Bettino e il moderatore Virman Cusenza, direttore del Messaggero. D'Alema da premier, nel 1999, si attivò per il ritorno di Craxi in Italia, da Hammamet, in modo che venisse curato. «Trattai non di nascosto, ma prendendo una posizione politica pubblica e anche molto impopolare, il 92 per cento degli italiani era contrario al rientro di Craxi, con il procuratore di Mani Pulite, Borrelli. Noi avevamo chiesto che il leader socialista, malato, non fosse arrestato una volta arrivato in Italia. Ma su questo il giudice Borrelli s'impuntò, ne fece una questione di principio. E Craxi rifiutò: o torno da uomo libero o niente». Poi il funerale, con la strana contraddizione di un governo che considera latitante Bettino ma vorrebbe tributargli i funerali di Stato e manda una delegazione ministeriale alle esequie ad Hammamet. D'Alema si assume tutta la responsabilità di quel tentativo. E quando Stefania gli dice «ma perché non avete fatto un'amnistia?», lui replica: «Perché non sarebbe servita nel suo caso». L'ex premier, nella rivalutazione di Craxi, arriva a dire che «già al tempo del Pci io sostenni che su molte cose i socialisti erano nel giusto e noi sbagliavamo». Racconta di quando con Veltroni andò nel camper di Bettino durante l'assemblea socialista di Rimini e commenta: «Lo trovai molto aperto verso l'evoluzione del nostro partito. E ci fece anche entrare nell'Internazionale Socialista». Ma quello fu prima della tempesta di Tangentopoli. Ma all'ex premier si ricorda che poi, nell'episodio delle monetine dell'Hotel Raphael, nel 93, il segretario del Pds Occhetto cavalcò la furia popolare. «Io fui quello che disse che Craxi non si doveva dimettere per un avviso di garanzia. E dicevo anche: l'ho combattuto politicamente ma mi rifiuto di partecipare al linciaggio». Segue piccola chicca: «Bettino apprezzò quelle mie posizioni, tanto è vero che da Hammamet mi faceva indirettamente arrivare consigli relativi all'azione di governo. Lui era un uomo di sinistra e l'Olp di Arafat era il nostro canale di comunicazione». Una parte molto intrigante del libro di Sorgi è quella sull'eventuale complotto americano per far fuori Craxi e tutta la Prima Repubblica. D'Alema si mostra piuttosto scettico. «Quello che so di sicuro - dice - è che c'è stato un disegno della grande borghesia proprietaria di alcuni giornali per eliminare la politica e sostituirsi ad essa senza più mediazioni. Certi giornali hanno massacrato i partiti, su impulso dei loro editori, fomentando la furia popolare contro la politica». Dunque un complotto della stampa? Qui interviene Sorgi: «Le posso assicurare, presidente D'Alema, visto che facevo il giornalista in quegli anni, che non ci fu nessuna pressione dei proprietari dei giornali. I quali cercavano pubblico e colsero il vento dell'opinione pubblica». Ma D'Alema è D'Alema, difficile convincerlo. Mentre lui, pur tra qualche evasività ma almeno non si nasconde a differenza di tanti del Pd, s'è mostrato davvero convinto che Craxi sia da rivalutare.
Un convegno del Pd su Craxi: «Facciamo i conti con la storia». La giornata di studi il 22 febbraio all’Umanitaria. Invitati Tognoli, Martelli e Finetti. Andrea Senesi il 30 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera. È la prima volta a Milano e probabilmente è un inedito pure su scala nazionale. Il Pd, l’erede più diretto del Pci-Pds, organizza una giornata di studi intorno alla figura di Bettino Craxi. Succederà il 22 febbraio: un’intera mattina di incontri e dibattiti all’Umanitaria, altro luogo simbolo della Milano laica e socialista, per un convegno organizzato dai Giovani democratici e dal gruppo consiliare del Partito democratico. A vent’anni dalla morte, la svolta. Tra i relatori l’ex sindaco Carlo Tognoli, l’ex capogruppo milanese del Psi Ugo Finetti e l’ex vicesegretario nazionale Claudio Martelli. Tre «panel» di discussione, nella mattinata all’Umanitaria. Il Craxi milanese, prima di tutto, consigliere e assessore a Palazzo Marino e poi simbolo della città «da bere» degli anni 80. Una seconda parte del seminario analizzerà invece il leader nazionale, il segretario socialista, il presidente del Consiglio e il simbolo della Prima Repubblica delle sue degenerazioni partitocratiche. Infine il lascito politico del leader socialista e i riflessi sulla cultura riformista e progressista di oggi. Al convegno è atteso anche il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano, mentre è già confermata la presenza di politici e amministratori locali «dem». Tra gli altri, i parlamentari Tommaso Nannicini e Lia Quartapelle, la segretaria milanese Silvia Roggiani, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Ci sarà anche l’attuale capogruppo in Comune Filippo Barberis, che racconta il senso dell’iniziativa: «La vicenda politica di Craxi e l’impatto che ha avuto nella storia della nostra città, del nostro Paese e della sinistra italiana non può essere ridotta alle sole vicende giudiziarie che ne hanno segnato la fine. Craxi è stato molto di più, nel bene e nel male. Conoscere la sua storia, le scelte che fece da uomo di governo, da socialista liberale, significa fare i conti con un pezzo importante della storia della nostra identità politica di democratici. Fare i conti con la propria storia, con la propria identità, è tutto fuorché velleitario». « È con questo spirito — conclude Barberis — che insieme ai Giovani Democratici abbiamo voluto organizzare la giornata di studio su Craxi,coinvolgendo giovani studiosi, politici e amministratori di oggi e protagonisti di quel periodo. L’obiettivo è conoscere, approfondire, recuperare un’esperienza politica che, al di là delle molte polemiche che ancora porta con sé, ha certamente qualcosa da insegnare ancora oggi». Paolo Romano ,segretario dei Giovani Democratici di Milano, ha 23 anni, studia economia ed è consigliere in «dem» Municipio 8. «Sono nato che Craxi era già a Hammamet, ma viviamo in un’epoca tutta schiacciata sulla contemporaneità e incapace di affrontare i grandi temi del passato. Un errore gravissimo che impedisce d’imparare dagli errori che compiuti». Un giudizio personale su Craxi? «La Prima Repubblica era caratterizzata da clientelismi e e corruzione generalizzati. Sul punto si è espressa definitivamente la magistratura. L’eredità politica dell’ex segretario socialista è invece tutta di discutere e da studiare». Anche il Consiglio comunale affronterà nel frattempo la «questione» Craxi. Lunedì l’aula discuterà delle mozioni di Forza Italia e di Milano Popolare che chiedono l’intitolazione di una via all’ex premier. Più facile che il via libera arrivi intorno alla mediazione di una targa -ricordo da affiggere davanti alla casa milanese di Craxi, in via Foppa, in omaggio al «primo premier milanese della Repubblica». Era stato lo stesso sindaco ad avallare la proposta. «È il modo più semplice per ricordarlo a vent’anni dalla scomparsa», aveva detto Beppe Sala dieci giorni fa, escludendo di fatto l’ipotesi «toponomastica», di una via o di una piazza a Bettino Craxi.
Questione Craxi è ferita aperta per l’Italia e un incubo per il Pd. Fabrizio Cicchitto il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. A due giorni di distanza dalla commemorazione di Hammamet si può fare un primo consuntivo. Una prima notazione è che non c’è paragone per intensità, ampiezza, quantità e qualità degli intervenuti, presenze fra questa scadenza e il decennale. Questa volta non si è trattato di una manifestazione di combattenti e reduci, ma di un avvenimento politico e culturale, da nessuno programmato e gestito, con un notevole film, un bel documentario, alcuni libri scritti da giornalisti di rilievo e con un’attenzione di vasti settori di opinione pubblica che non hanno manifestato umori demonizzanti di alcun tipo, ma anzi l’intenzione di capire davvero che cosa è successo tanti anni fa. Ciò è avvenuto perché è oramai evidente che la questione Craxi rimane una ferita aperta nella coscienza della nazione. La ragione principale è molto semplice: nei confronti di un grande leader, la cui battaglia politica è stata caratterizzata da valori e da iniziative politiche di grande rilievo, è stata sviluppata una operazione mirata di criminalizzazione attraverso il combinato disposto dell’azione giudiziaria del pool di Mani Pulite e di un circo mediatico guidato dai quattro principali giornali dal Tg3 dalle stesse reti Mediaset. Il tutto imperniato sul finanziamento irregolare dei partiti e specialmente del Psi. Ma oramai tutte le analisi politiche, mediatiche e quelle stesse giudiziarie hanno messo in evidenza senza ombra di dubbio che Tangentopoli era un sistema organico che coinvolgeva tutti i grandi gruppi industriali, finanziari, editoriali (in primis la Fiat e la Cir, nonostante le pietose lettere volte a presentare loro come inermi concusse) e di tutti i partiti, senza eccezione alcuna, fra i quali il Pci che sommava insieme tutte le forme possibili e immaginabili di finanziamenti irregolari, al netto delle autentiche falsità dette da Berlinguer, che conosceva lo stato dell’arte, quando ha sollevato la questione morale. Non solo è ormai provato tutto ciò, ma il colpo di mano del ’92-’94 ha avuto conseguenze devastanti visibili prima nel bipolarismo anomalo andato dal ’94 al 2011, che comunque ha avuto una sua logica e serietà, e poi dalla successiva affermazione di forze populiste-giustizialiste come il Movimento 5 stelle o sovraniste-razziste come la Lega che hanno prodotto le conseguenze disastrose visibili a tutti. Orbene, a fronte di tutto ciò, la questione Craxi si ripropone non solo per l’operazione sostanzialmente eversiva messa in atto a suo tempo, ma anche per la permanente validità di alcuni aspetti del suo messaggio: il riformismo liberal-socialista, l’impegno per la riforma dello Stato, la solidarietà occidentale, l’europeismo critico, il rapporto positivo con i popoli arabi del Mediterraneo e quello con Israele. Rispetto a tutto ciò mette conto anche registrare come le forze politiche si sono atteggiate in questa ricorrenza: c’è stata una presenza sobria e qualificata della Lega, una partecipazione assai ampia di Forza Italia, Italia Viva ha inviato un personaggio di rilievo come il capogruppo al Senato Faraone. Invece, a parte la presenza generosa di alcuni singoli, è stata francamente desolante l’assenza totale del Pd. Al limite il Pd poteva anche salvare la faccia dando la qualità di delegazione ai suoi esponenti presenti spontaneamente. Non lo ha fatto, né Zingaretti ha avuto la dignità politica di inviare alla commemorazione un messaggio articolato nel quale esprimere il suo giudizio, quale che sia, nella questione Craxi. No, Zingaretti e con lui l’attuale gruppo dirigente del Pd, di fronte a Craxi sono in fuga da tempo, incapaci di esprimere un giudizio politico e culturale quale che sia. È la testimonianza di un vuoto politico e culturale profondo che va al di là anche della questione Craxi: l’attuale Pd non è né riformista, né massimalista, né garantista, né giustizialista (basta pensare alle incredibili contorsioni sulla faccenda della prescrizione), né liberista, né statalista. È aggrappato all’alleanza con il M5s alla quale cerca di dare addirittura una dimensione “strategica” non facendo i conti con la crisi drammatica in cui versa il suo alleato. Insomma, di fronte all’aggressivo sovranismo di Salvini e della Meloni, all’assenza della crescita, alla crisi di pezzi importanti dell’industria italiana, alle disuguaglianze, all’entità del debito pubblico, al nodo del Mezzogiorno e della denatalità occorrerebbe un grande partito riformista e liberal-socialista, ma esso non c’è, né esistono segni allo stato attuale che possa emergere da questo Pd. Insomma, il Pd non parla di Bettino Craxi perché non è stato capace di fare i conti con se stesso con scelte culturali e politiche di fondo. Di fronte a questo vuoto, Craxi è riemerso come un grumo di questioni drammatiche, accomunato a un’altra grande personalità come quella di Moro, sia pure con procedure molto diverse, dall’eliminazione violenta dalla vita politica e dall’esistenza individuale. Rispetto a tutto ciò un soggetto politico che abbia dignità non se la cava certo né con le invettive, né con le monetine, ma nemmeno con il silenzio.
Vent’anni fa moriva Bettino Craxi. Per la destra fu avversario leale, è la sinistra a odiarlo ancora. Francesco Storace domenica 19 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Divisivo, direbbe oggi chi non vuole sbilanciarsi su Bettino Craxi, vent’anni dopo la morte. C’è un’ipocrisia trasversale, in chi lo amava e in chi lo odiava. Come se il tempo non dovesse mai mitigare i giudizi, più riflessivi magari. I neomaggiorenni di oggi ne hanno appena sentito parlare, travolti dal dilemma odioso tra statista e ladro. Vent’anni dopo – con tutto quello che abbiamo visto – solo un cinico può piegare la memoria di Craxi a malversazione. Ben altri si sono arricchiti apparendo onesti. A qualunque latitudine della politica. Quelle monetine al Raphael furono un atto che oggi si può ben definire sbagliato, giustizialista, estremista. Un durissimo fallo di reazione di fronte alla mancata concessione dell’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nei confronti di Craxi. Oggi dobbiamo riconoscere l’errore di allora. Non per una santificazione postuma, di cui nessun politico può avvertire il bisogno. Ma per rispetto verso chi ha pagato oltre il prezzo che si poteva immaginare. Con il sacrificio da esule, anche se Marco Travaglio si ostina a parlarne solo come di un latitante. Ad Hammamet Craxi andò a morire, probabilmente di dolore. Il partito socialista, come la democrazia cristiana e i loro soci di governo, furono messi al bando dalla stagione di Mani Pulite. E probabilmente troppi ladruncoli inquinarono la politica del tempo. Eppure, per troppi anni c’è stato un giudizio sbrigativo su quell’epoca. Alcuni furono bersagliati, altri salvati. A partire da chi prendeva quattrini oltreconfine, a est come ad ovest. Il paradosso odierno è che fa il sostenuto chi la fece franca, per dirla con il linguaggio pestifero del dottor Davigo. Per non mostrare una coscienza che non ha, ci si vendica persino vent’anni dopo. Il rapporto tra Pd e la memoria di Bettino Craxi è qualcosa davvero di poco decifrabile. Il leader socialista è più odiato dalla sinistra che dalla destra, che sa essere generosa e leale con i suoi avversari, oltre i furori della contingenza politica. Dalle nostre parti, ad esempio, resta indimenticabile quella notte di Sigonella. Provammo sincera ammirazione per quel capo di governo che schierò i carabinieri contro gli americani che intendevano violare la nostra sovranità. Oggi si inchinano tutti all’altra parte del mondo. Qualunque sia l’altra parte del mondo…
Una lite senza fine? A sinistra, invece, c’è ancora rancore. Perché Zingaretti non va ad Hammamet? Tempo addietro su quella tomba ha portato un fiore Ignazio La Russa. Loro non ci riescono. Almirante rese omaggio a Berlinguer nelle ore del decesso. E ricevette in via della Scrofa gli onori post-mortem di Giancarlo Pajetta. Nemmeno vent’anni sono bastati agli eredi del Pci per mettere da parte le rivalità di allora? Sono così sicuri di essere dalla parte del giusto? Fingono di non rendersi conto che a differenza di Craxi furono graziati dai suoi stessi magistrati. Serenità nel giudizio storico su fatti e personalità: ma non ne dispongono. Sarebbe bastato un gesto. No ad Hammamet? Magari, poteva essere utile persino l’intitolazione di una strada nella sua città, Milano, per testimoniare la fine del rancore. In fondo, Beppe Sala è uno di loro e davvero sarebbe difficile gridare allo scandalo. Ma viviamo l’epoca in cui il rispetto è merce scaduta. Come certo massimalismo fuori corso.
L’errore del giustizialismo di sinistra: lasciare Craxi alla destra. Gianni Pittella il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Questa è casa vostra», ripete come un mantra e con un sorriso sincero, un tunisino a cui chiediamo un’informazione per strada, quasi per rassicurarci che non si può smarrire davvero la via di un luogo che ti appartiene. E Hammamet appartiene davvero ormai all’immaginario socialista, è un luogo letterario, di una letteratura d’esilio ma anche di riscatto. Così devono pensare insieme a me quei tanti, i quali poi saranno solo una parte, che si affollano silenziosi ai banchi della Tunis Air una mattina di venerdì, a due giorni dal ventennale della morte di Craxi. Tanti capelli bianchi, tanti volti noti di vecchie battaglie, ma in maggioranza uomini e donne di mezz’età che il leader socialista l’hanno conosciuto da ragazzi solo in tv, e dopo purtroppo solo nelle cronache del doloroso epilogo. Mi ha colpito che non fosse un’assemblea di reduci e mi ha colpito che il sentimento prevalente non fosse la nostalgia, per quanto pure ve ne fosse, e la malinconia e la rabbia di anni di umiliazioni, di garofani calpestati. No, vi era uno spirito positivo, di fiducia, di consapevolezza che qualcosa sta cambiando nel giudizio storico degli italiani, che il tempo ci consegnerà una lente meno sfocata e presbite su quegli anni. Anche un patriarca come il calabrese Zavettieri, irriducibile sindaco di un comune del reggino, e con una lunga vita parlamentare socialista, scherza sui tempi nuovi. L’economista Scalzini ricorda la tripla A che l’Italia di Craxi ebbe nell’87. Il sindaco Barani che per primo intitolò una strada a Craxi. Certo, come le cronache riportano, ci sono decine di parlamentari di ogni estrazione, diversi giornalisti, tanti passati e presenti amministratori e sindacalisti e molti semplici simpatizzanti venuti a portare un garofano. La spiaggia dalla sabbia chiara è un invito a prendere tempo, a ragionare, a misurare le cose. I tunisini hanno risolto alla radice ogni dilemma italiano. Un ristoratore panciuto e cortese ci dice che Craxi per loro era e resta un padre, un tassista esile dalla pelle d’ebano sorride deferente alla memoria del condottiero, tutti quelli che incontri hanno qualche aneddoto, loro o i loro genitori lo hanno conosciuto, magari scambiato qualche parola, incrociato la signora Anna, o i figli. Camel, dall’età indefinita, racconta un aneddoto struggente. Lavorava in un piccolo autolavaggio per procurarsi a stento il pane e Craxi un giorno lo vide con una gamba claudicante e con una ferita aperta continuare a lavorare come se nulla fosse. Era caduto da un vecchio ciclomotore il giorno prima e non aveva il denaro, né il tempo per curarsi. Craxi si arrabbiò con lui e gli intimò di trovarsi il giorno dopo alle 11 a un incrocio. Lo passò a prendere e lo fece accompagnare a Tunisi in ospedale, lo costrinse al riposo per quindici giorni e poi lo prese a fare piccoli lavori nella sua casa tunisina, quella dei favoleggiati rubinetti d’oro, che altro non è che una villa appena precaria e lontana dal mare. Un tratto di generosità che Camel non ha più dimenticato e, di tanto in tanto, torna sulla tomba del leader a rendergli omaggio, e a pulirla dalle sterpaglie. E una giovanissima insegnante di Hammamet, Zaineb, è convinta Craxi fosse comunista, perché dalla parte dei poveri. Quando lo dice a me e al mio amico Emilio e ci guardiamo pensierosi. In Tunisia, come scrivevo, il problema lo hanno risolto alla radice. Ogni dibattito è superato. Un leader, un uomo generoso, un politico di fede progressista, persino comunista nella confusione di taluni. La foto straordinaria di Craxi con Willy Brandt, il cancelliere socialdemocratico tedesco occidentale, e Olof Palme, il leader del più grande esperimento socialista liberale del ‘900, la socialdemocrazia del nord Europa, foto che campeggia tra le altre nella mostra della Fondazione in una casa della Medina, ci appare profetica e paradossale. Il paradosso è plastico, anche nelle presenze di questi giorni. Salvo me, De Caro, Gori, Nannicini e pochi altri, la partecipazione della classe dirigente democratica, dei banchi della sinistra è ridotta e a titolo essenzialmente personale. Qualche tentativo di ripensamento, qualche avanzamento nei rapporti c’è, ma la ricucitura non è ancora avvenuta. La maggioranza dei presenti senza blasone parlamentare è e resta di cultura di sinistra, la storia di Bettino è e resta quella della sinistra italiana con vocazione internazionale, come i cileni allendisti o il greco Panagulis contro i Colonnelli o i dissidenti cecoslovacchi potrebbero testimoniare nel mutuo soccorso, nel sostegno che il Partito Socialista vi diede in quegli anni difficili per tanti socialisti nel mondo. Vedere Craxi nel pantheon della destra italiana, oggi persino utilizzato dal pensiero sovranista come suo postumo accolito, fa davvero male ed è davvero il prodotto più guasto del giustizialismo degli ex Pci. L’idea che potesse esistere e diventare di governo una sinistra riformista, atlantica ma non suddita, progressista ma non massimalista, capace di rompere lo schema consociativo della democrazia bloccata Dc-Pci è ancora considerato un marchio di colpa da chi aveva fatto della diversità etica il proprio contrassegno, e poi prendeva i rubli da un Paese nemico dell’Italia. Sarebbe il tempo che il Partito democratico, che nelle intenzioni alla sua nascita doveva superare le divisioni e unire i riformismi, facesse pace con la storia di Craxi e non per cantarne il peana, non per chiudere gli occhi sulla deriva partitocratica di cui anche il Psi craxiano fu parte e alimento, né per dimenticare i vizi che appartennero a una stagione politica, abbattuta la quale tuttavia, con la caduta del muro a Berlino e l’epurazione di un’intera classe dirigente in Italia, cedevano gli argini alla brama degli animal spirits capitalistici, alla privatizzazione dello stato, all’asservimento della democrazia e dei suoi istituti alle grandi lobby finanziarie internazionali. Riscoprire Craxi significa anzitutto ritrovare la politica, l’ultima stagione in cui la politica aveva da dire, aveva la capacità di progettare, di governare i processi, di rendere l’Italia protagonista, non figura e sfondo, sul palcoscenico internazionale. Un garofano su quella tomba di quel piccolo cimitero che guarda il mare e l’Italia oltre il mare, sarebbe per Zingaretti un modo per ritrovare e ritrovarsi, e tra quei dedali della Medina aprire a un sentiero di modernità una sinistra italiana altrimenti monca, perché incapace di fare i conti con la sua storia.
Questione Craxi è il nodo finale dei conflitti a sinistra. Riccardo Nencini il 16 Gennaio 2020 su Il Riformista. Sabato e domenica sarò ad Hammamet. Per la terza volta. Leggo che ci saranno anche rappresentanti della Lega, il partito, con Fratelli d’Italia, più lontano da quel socialismo umanitario che Craxi rappresentò. Un omaggio allo statista, immagino. Ci sarà Forza Italia, e non è una novità. Il problema è il panorama a sinistra. Ci saranno i socialisti, naturalmente, e ci sarà Italia Viva. Tutto qui, per quanto ne sappia. Sempre che il Pd non ci ripensi. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, ma soprattutto lontano dal seppellire un duello culturale e politico che ha diviso per un secolo la sinistra italiana. Hic Rodhus, hic salta, e invece il salto non c’è. Dietro l’assenza, infatti, c’è ben di più della figura a loro dire controversa di Craxi. Ci sono state due visioni del mondo che ancora oggi faticano a ricomporsi. La farò breve. La rottura avviene con la rivoluzione russa, gli effetti si propagano da cent’anni. Turati e Matteotti sono nemici da abbattere alla stregua di Mussolini (cito alla lettera da Togliatti e da Gramsci) perché propongono una coalizione democratica e popolare che si opponga al fascismo nascente. Nenni è marchiato dall’epiteto ‘socialfascista’ negli anni Trenta. Duello all’arma bianca alla nascita del centrosinistra nei primi anni ‘60 nonostante un impianto imponente di riforme (oggi si inneggia a Moro, a capo di quei governi, ma non a Nenni, che ne fu ideatore). Vent’anni dopo il PSI viene espunto con una frase di Berlinguer dalla sinistra e Craxi considerato un pericolo. Loro erano avvinghiati al mito di Lenin, noi candidavamo Jirì Pelikan, esule cecoslovacco, alle Europee. Il resto è storia recente. La conferma che la questione Craxi sia il nodo finale di una storia infinita di duelli a sinistra è nelle scelte politiche compiute dagli eredi del PCI. Mentre i socialismi europei, da Blair ai francesi, attingono a piene mani dalla Conferenza di Rimini (1982) per inaugurare nei loro paesi un nuovo corso, il PDS evita accuratamente di confrontarsi con tematiche che avrebbero reso più competitiva la sinistra italiana. Penso alla riforma istituzionale, ai rapporti con la magistratura, al ruolo dello Stato nell’economia al tempo di feroci privatizzazioni. Con un paradosso: ci si confronta all’estero con i protagonisti del socialismo europeo legati alla recente esperienza socialista italiana e in casa nostra si fa l’esatto contrario. Due mondi in conflitto, due sinistre senza pace, mentre i popoli sancivano la sconfitta del comunismo e la vittoria del socialismo riformista. Ovunque! Nonostante tutto, in Italia la frattura non si è mai risanata. La politica è un fatto pubblico. È parola, gesti, atti, responsabilità. Ricordo ancora le parole di Angela Merkel su Khol dopo la sua caduta e mi domando perché certa sinistra italiana non abbia il coraggio di battere una strada di verità. Salvo tornare alle origini per capire davvero e dover aspettare decenni per riconoscere chi aveva ragione. Terracini mezzo secolo dopo: aveva ragione Turati. Veltroni mesi fa: aveva ragione Matteotti. E su Nenni, su Craxi? Magari si trattasse soltanto di nostalgia o di consegnare ai libri di storia una lettura non partigiana, e sarebbe comunque cosa buona e giusta. Si tratta dell’Italia di domani. A cominciare dalla cancellazione della prescrizione, dalla zoppicante politica estera, fino alla revisione del reddito di cittadinanza. Se non ora, quando?
Il fantasma di Craxi agita il Pd. Gori: «Lui meglio di Berlinguer». Il partito: «Così ci facciamo male». Valerio Falerni sabato 18 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Tutto avrebbe potuto immaginare Bettino Craxi tranne di trovarsi un giorno immischiato nella contesa su chi, tra lui ed Enrico Berlinguer, due meritasse di essere ricordato come il vero ispiratore del Pd, il partito erede del Pci. Chi non sembra avere dubbi in proposito è Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e da sempre promessa dell’anima riformista del partito di Zingaretti. È lui a dire a Repubblica di trovare più farina del sacco del leader socialista che di quello comunista nel discorso di Veltroni al congresso fondativo del Pd. Un’opinione come un’altra, verrebbe da dire. Se non fosse che il “fattore C” dalle parti del Pd è materia ancora incandescente. Trattarla senza le dovute cautele può essere nocivo. E Gori non ha fatto eccezione.
Il sindaco di Bergamo riabilita Craxi. Poi si rimangia tutto. E così, convinto di aver fatto in fondo solo il suo dovere di riformista recandosi ad Hammamet «per non regalare Craxi alla destra», si è ritrovato il giorno dopo nella lista dei blasfemi. E poiché non è proprio quella che si definisce una “pellaccia”, appena ha sentito montare la tempesta intorno a lui («così ci facciamo male», è l’avvertimento del senatore Mirabelli) ha innestato la retromarcia. «Mi sveglio e trovo su Repubblica un’intervista che non ho dato, costruita sulle chiacchiere fatte in piedi durante una cerimonia. Giudizi forzati, espressioni che non sono mie. Perché?». Già, perché? Forse – azzardiamo noi – perché alla faccia dell’aggettivo e della sua pretesa di partito plurale, l’unica matrioska riconosciuta come originaria dal Pd è quella del Pci.
Il Pd non sarà mai un partito riformista. Del resto, Repubblica, mai tenera con Craxi, non avrebbe avuto alcun interesse ad inventarsi parole mai pronunciate. E che parole. A passarle in rassegna viene da pensare ad un Gori deciso a tutto pur di piantare una bandiera riformista in un partito perennemente ostaggio del cattocomunismo. Eccole: «Il Pd nasce con il discorso di Veltroni al Lingotto. E chi c’era in quel discorso se non Craxi, le sue idee?». E ancora: «Berlinguer era l’uomo dell’austerity, il segretario che per superare la crisi proponeva di ridurre i consumi. La ricetta peggiore». Scontata la conclusione: «Nel discorso fondativo del Pd c’era Craxi e non Berlinguer, questa è la verità. Ed è stupefacente che non lo si voglia riconoscere. E che oggi nessuno senta il bisogno di farsi sentire. Figuriamoci farsi vedere. Per questo ho avvertito il bisogno di esserci io, come dirigente del Pd». Giusto. Peccato solo che, ad Hammamet, alla luce della smentita pare che Gori ci fosse andato a sua insaputa.
Repubblica, altro disastro. Giorgio Gori: "Mai rilasciata quella intervista. Perché?" Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 Gennaio 2020. Che periodaccio per Repubblica. Quando le cose girano male, rischi di intervistare qualcuno a sua insaputa, di fare titoloni violenti a tua insaputa, di dare lezioni di teologia spicciola credendoti il Papa e di sparare cifre a casaccio. Ma non è mica per malafede. È che se metti insieme ideologia, snobismo intellettuale, caccia alla notizia a tutti i costi e il motto «prima le opinioni poi i numeri», finisci per partorire qualche mostriciattolo.
L' ultimo era visibile ieri sul quotidiano fondato da Scalfari: si trattava di un' intervista a Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e unico esponente di nota del Pd a prendere parte ad Hammamet alle commemorazioni per l' anniversario della morte di Craxi. Il pezzo offriva spunti interessanti, dall' invito alla sinistra a riappropriarsi del leader socialista perché «io non regalo Craxi alla destra» all' attacco al Pd che «aveva l' occasione di sanare una ferita, recuperare un pezzo di storia comune. C' era solo un piccolo difetto nell' intervista: a detta di Gori, non era mai stata rilasciata. Ieri il sindaco di Bergamo scriveva infatti su Twitter: «Mi sveglio e trovo su Repubblica un' intervista che non ho dato, costruita sulle chiacchiere fatte in piedi durante una cerimonia. Giudizi forzati, espressioni che non sono mie. Perché?».
Già, perché? Forse per la stessa ragione per cui è possibile aprire il giornale con un titolo feroce, «Cancellare Salvini», senza dover rendere conto del metodo usato. Anzi, provando il giorno dopo a giustificarlo con una mega-arrampicata di specchi, ossia sostenendo che il senso era «cancelliamo i decreti Salvini». Verissimo, ma nessuno è così scemo da pensare che quel titolo fosse stato scritto così solo per brevità e che dietro non ci fosse l' auspicio di Repubblica di cancellare la persona di Salvini dalla scena politica, e forse non solo. A proposito di cancellazione, prima della pubblicazione il giornale avrebbe fatto bene a rimuovere quell' altro titolo per cui «Liliana Segre riceve 200 messaggi online di insulti al giorno». Fortunatamente gli insulti ricevuti dalla senatrice sono molti meno, tanto che lei stessa ha ammesso che quel numero è «scaturito da un' inesattezza giornalistica». Rientra invece in una categoria a sé, che non è lo scivolone, la mancata consultazione delle fonti o degli intervistati ma il dadaismo, la chiacchierata tra i due Papi, uno religioso e l' altro laico, ossia tra Bergoglio e Scalfari pubblicata tre giorni fa su Repubblica. Con il primo che usava l' altro come ufficio stampa, ma a tratti sembrava intervistarlo, rovesciando i ruoli. E con il secondo che rivelava al lettore verità sconcertanti tipo «c' è un Dio unico, questo è il parere di Sua Santità», «ci sono nel mondo altre religioni monoteiste e ce ne sono di politeiste» e non virgolettava l' unica notizia dell' intervista, ossia il fatto che, a detta di Francesco, il caso con Ratzinger fosse chiuso. Per cui non capivi se quella frase l' avesse detta il Papa, l' avesse interpretata Scalfari o nessuna delle due. Più probabilmente però l' interlocutore non era Bergoglio, ma Giorgio Gori, a insaputa di Gori e dello stesso Scalfari. Gianluca Veneziani
Patto tra Craxi e Occhetto per un partito di sinistra unico, perché saltò. Claudio Petruccioli il 18 Gennaio 2020 su Il Riformista. La rivista Mondoperaio di gennaio dedica uno speciale alla figura di Bettino Craxi che annovera una serie di pregevoli interventi, tra cui quello di Claudio Petruccioli, di cui anticipiamo ampi stralci per gentile concessione dell’editore. Il 5 e 6 aprile 1992, il Parlamento fu rinnovato per l’ultima volta con la legge proporzionale usata da quando esisteva la Repubblica. I risultati di quel voto offrono un fixing prezioso sull’orientamento e sugli stati d’animo degli italiani, delle loro attese e dei loro timori in quel momento cruciale. Alla Camera tutti gli eletti nelle liste “alla sinistra della Dc” senza alcuna esclusione (Pds, Psi, Rc, Pri, Psdi, Verdi, Rete, Lista Pannella) erano 312; identico numero si raggiungeva sommando i deputati di Dc, Lega, Msi e Liberali; i 6 mancanti per arrivare a 630, sparsi fra minoranze linguistiche e liste minime. Idem al Senato: rispettivamente 153, 152 e 10. La Dc aveva perso quasi il 5 per cento ed era scesa, per la prima volta nella sua storia, sotto il 30% (29, 66); neppure il risultato del Psi era stato brillante (flessione dello 0,65 e due seggi in meno). Ne usciva compromesso l’asse delle maggioranze che avevano retto i governi negli ultimi venti anni; sicché anche lo striminzito risultato elettorale del Pds poteva indurre a ragionamenti, o almeno a calcoli, non abituali. I voti della Dc, come quelli di Pds e Psi sommati erano intorno al 30% (29,66 contro 29,73: neppure 25.000 voti di differenza): numeri ideali per incardinare un bipolarismo politico con una alternanza di tipo europeo. A condizione, naturalmente, che si riuscisse a unificare politicamente l’area, ancora divisa, in cui si collocavano Psi e Pds. Anche lì, peraltro, i numeri aiutavano. Al 16,11% del Pds faceva riscontro il 13,62% del Psi che, con l’aggiunta dei voti Psdi saliva al 16,33%, meno di centomila voti di differenza. Dunque perfetto equilibrio, e assoluta incertezza. Come se gli elettori avessero voluto dire ai protagonisti della politica: “Noi vi abbiamo preparato una situazione aperta; adesso tocca a voi scegliere, decidere, trovare le soluzioni migliori”. Le difficoltà e gli ostacoli erano enormi, ma diventava possibile pensare e cercare di mettere in atto scelte che fino a quel momento erano sembrate o comunque erano risultate impossibili. Serviva chiarezza, fermezza, lungimiranza. Dc e Psi riunirono i loro organismi di vertice a quarantott’ore dalla chiusura delle urne. Il Coordinamento politico del Pds che si riunisce quel giovedì trova sul tavolo un bel po’ di materiale, soprattutto le novità di casa socialista. La risposta è molto prudente, ma non di chiusura; il giorno dopo l’Unità la riassume così: «Occhetto: no alle sirene ma non resteremo in frigorifero». Il segretario della Quercia ha giudicato ‘positiva’ la richiesta di aprire il confronto venuta l’altra sera dall’esecutivo socialista. Il documento approvato — lungo e farraginoso, sintomo di incertezze e divisioni — viene pubblicato il sabato. La tesi centrale è che “l’era democristiana è finita”, e il titolo che l’accompagna rivendica “un governo che rompa con l’era dc”. Martedì 14, alla vigilia della riunione socialista Occhetto torna sull’argomento in un’intervista a l’Unità, ampia e impegnata. «Io credo — dice – che il voto ci abbia caricato di una responsabilità nazionale, ma anche europea. Ormai è evidente che siamo di fronte, noi ma anche il Psi, e tutte le altre forze della sinistra a una questione rilevantissima: perché la sinistra, per motivi e per condizioni diverse, non riesca a dare risposte convincenti, in termini elettorali e progettuali, in termini di blocco sociale e politico, alla crisi che accompagna la fine del ciclo neoliberista. È un processo nuovo, aperto, ma aperto a molteplici esiti, in cui non sarà secondario l’atteggiamento soggettivo delle forze di sinistra. Quindi, per quanto mi riguarda, io alla domanda rispondo che mi sento ancor più vincolato all’impegno che mi sono assunto in campagna elettorale, cioè quello di lavorare prima di tutto per la ricostituzione della sinistra italiana…Giudico interessante, se sarà formulata la proposta, che le forze che si richiamano all’Internazionale socialista si incontrino. L’ho detto a Martelli e lo ribadisco qui… sono interessato a discutere, diradando innanzitutto l’equivoco che il riavvicinamento a sinistra — come segnala Bobbio -assuma il senso di un invito a noi ad entrare nella coalizione per rafforzarla nel momento della sua sconfitta elettorale». «Anche con la Dc?», gli chiede l’intervistatore, Alberto Leiss. La risposta di Occhetto, prima concede alla propaganda. Poi si rende conto che il rapporto con la Dc non è una invenzione strumentale ma un problema reale imposto, per di più, dai numeri: «Le ripeto — precisa allora – a me interessa iniziare il discorso a sinistra, sulla sinistra e non sulla Dc. Con l’obiettivo di arrivare anche ad un atteggiamento comune rispetto al problema del governo. Se la sinistra saprà ritrovarsi, il resto sarà meno difficile». Con queste ultime parole, non dico che il “problema governo” che incorporava il “problema Dc” fosse del tutto risolto; ma era rimosso l’ostacolo che impediva di mettersi in cammino. I partiti che si richiamavano all’Internazionale socialista potevano incontrarsi e discutere proficuamente. Alla riunione della Direzione socialista di mercoledì 15 aprile si arriva — così — in un clima carico di molte attese, anche se frammiste a non poche diffidenze. La relazione di Craxi fu resa pubblica in tarda mattinata. Quando uscì da Botteghe Oscure per l’intervallo del pranzo, Occhetto ne prese una copia e disse a me che avevo la mia: «Leggi e comincia a buttar giù una bozza di risposta»; cosa che feci durante la sua assenza. La memoria non mi consente di dire se fra i “più stretti collaboratori” con cui Occhetto parlò al telefono ci sia stato anche io, cosa peraltro probabile visto che dovevo “buttar giù una bozza” di commento alla relazione di Craxi. Comunque sono certo che se contatti telefonici ci sono stati, almeno con me Occhetto non aveva lasciato trasparire la ripulsa riassunta nella parola “desolante”: ne sono certo perché ricordo nel modo più vivo lo scoramento che mi prese quando la lessi sulle agenzie che precedettero l’arrivo di Occhetto in ufficio. Quando arrivò non feci nulla per nascondere il mio stato d’animo e quel che pensavo; aggiunsi che la “bozza” che avevo preparato potevamo pure buttarla.
Ma da quelle macerie si levò lo spettro dell’estrema destra. Achille Occhetto l'8 Novembre 2019 su Il Riformista. Sono trascorsi trent’anni da un evento storico epocale che ha cambiato il volto del mondo: la caduta del muro di Berlino. Dopo quella data sono mutati tutti i parametri che avevano contraddistinto i tratti fondamentali della geopolitica del pianeta. Non è crollato solo il comunismo ma l’insieme del modo di fare politica e il modo di essere di tutti i principali protagonisti che si erano definiti in contrapposizione, o come scudo, al comunismo. Ma la cosa più stravagante è che, a sinistra, ci sono voluti una trentina d’anni per rendersene pienamente conto. Le ultime vicende europee e mondiali ci hanno messo brutalmente dinnanzi al tema dell’eclissi della sinistra su scala mondiale. Una eclissi che può essere letta in filigrana con la crisi del comunismo e il dilagare della globalizzazione a direzione neoliberista, e che ha lasciato sul terreno l’insorgere di nuove tendenze populiste. Il dramma, quindi, viene da lontano, dalla «fine politica» del novecento, che solo per comodità esplicativa farò risalire dalla caduta del muro di Berlino. Sono stati travolti tutti i parametri della vecchia politica mettendo in crisi sia la sinistra riformista sia quella radicale. Uno dei motivi di tale crisi, anche se non esaustivo, è che si è ritardato, come avevamo indicato fin dai primi momenti della «svolta» dell’89, a comprendere che occorreva andare oltre le vecchie esperienze comuniste e socialdemocratiche. La vicenda europea, purtroppo con esiti tutt’altro che soddisfacenti, si è incaricata di dare ragione a quella invocazione. Se si va al di là di analisi sporadiche che si muovono dentro l’orizzonte ristretto del politicismo e dell’episodico, non si può non vedere che la portata generale di quel crollo sta nel passaggio epocale da un mondo governato dal confronto tra due blocchi contrapposti al dilagare sul pianeta della globalizzazione, con le sue luci e le sue ombre, e il tramonto delle vecchie ideologie. Sotto questo profilo vale la pena di analizzare il caso italiano come paradigma di un destino mondiale. Si può dire che in Italia si è avuto il più spettacolare superamento di tutti gli algoritmi della politica del passato. Il panorama politico è del tutto irriconoscibile: l’ondata di fondo ha sradicato tutte le forze che hanno le loro radici nel novecento, siano esse socialiste, centriste o moderate di centro-destra. Questo spiega lo spaesamento di cui soffrono molti cittadini. In questo destino comune di tutta la sinistra, ci sono responsabilità diverse tra riformismo moderato e sinistrismo alternativo. Il primo si è, in modo evidente, impantanato dentro una vocazione alla governabilità che, per quanto nobile, gli ha fatto smarrire, malgrado le ormai sempre più opache politiche redistributive, la propria vocazione sociale, fino a forme di subalternità politico-culturale verso il neoliberismo. Il secondo si è attardato in una visione dimidiata della società, sostanzialmente divisa da frontiere invalicabili, da campi opposti, che si manifestano, per alcuni, sul mero terreno economico-sociale, o, per altri, su quello etico-morale. Con l’aggravante di assumere troppo spesso come obiettivo principale quello di far perdere la sinistra moderata, in mancanza della capacità di intercettare l’onda di protesta che volge verso il populismo. È mancata una nozione più attenta delle trasversalità indotte dalle inedite sfide mondiali che hanno reso obsolete le vecchie forme in cui si esprimevano le politiche del welfare del secolo socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalle sinistre è stato riempito dal populismo. E questo perché la lettura meramente finanziaria da parte del pensiero economico neoliberista è stata funzionale alle politiche di austerità volte a non intaccare l’attuale modello e a far pagare la crisi alla classe media e ai lavoratori. Ne è scaturito che, per la debolezza critica di un riformismo minimalista, ci siamo trovati davanti ad uno scherzo della storia che sfiora il paradosso: la risposta infatti è venuta da una rivolta populista e di destra, facilitata dalla corresponsabilità di gran parte della sinistra nell’accettazione, a volte compartecipe e a volte silente, del paradigma neoliberista. Paradosso doloroso e irridente perché una crisi favorita dai poteri forti invece di trovare uno sbocco a sinistra ha infiammato una protesta populista contro le «caste» che finisce per rimettere tutto il potere nelle mani della vera «casta», quella dei principali responsabili della crisi. Così è avvenuto che il frutto avvelenato e irridente della generica e fuorviante categoria della lotta alla «casta» sia stata l’elezione di un miliardario xenofobo, sessista e reazionario alla testa della più grande potenza del mondo. Tuttavia seguire il tragitto di questa eclissi limitandosi agli eventi degli ultimi anni mi sembra particolarmente sterile. L’anniversario della caduta del muro di Berlino ci induce a riprendere il discorso dal cosiddetto crollo del comunismo, per individuarne le radici, leggendolo in filigrana con il decorso della socialdemocrazia e dell’insieme delle sinistre nel contesto di una spiegazione del male oscuro delle permanenti divisioni che dilaniano dagli albori il fronte progressista. Molti sono stati i tentativi di nuovo inizio in giro per l’Europa, e in Italia è stato sperimentato il più significativo. Ma tutti hanno avuto un difetto fondamentale, quello di non aver elaborato il lutto con la necessaria determinazione. Anche in Italia malgrado le notevoli innovazioni che io non mancherò di enumerare puntigliosamente, la fiamma dei mali del passato, per quanto sia stata decisamente soffocata, ha continuato a covare sotto la cenere, lasciando sul terreno la retorica nostalgica del bel tempo perduto. Il seme dell’innovazione però non può essere gettato sul terreno sterile dell’eterno presente; ha bisogno del concime, e il concime è per sua natura il passato. Non si può uscire dal cerchio virtuoso che coinvolge passato, presente e futuro in un unico destino. Nel trattare la storia come presente ho ritenuto che riandare alle luci e alle ombre del movimento della sinistra che ha dominato la storia del novecento, sia pure in un continuo dialogo con l’insieme delle sinistre, fosse uno dei modi più efficaci di affrontare la crisi generale da cui ho preso le mosse. Infatti non c’è forza di progresso che, in sintonia o in contrapposizione, non si sia definita in rapporto al comunismo. Per questo la tendenza a collocare quella vicenda, in tutti i suoi aspetti, anche quelli più recenti, nel binario morto della storia offusca, a mio avviso, la comprensione globale degli eventi. Certo, se ne è parlato molto e bene nel corso delle celebrazioni del centenario della rivoluzione d’Ottobre, ma senza cogliere con sufficiente chiarezza il rapporto con la complessiva vicenda delle sinistre. Sotto questo profilo, sono convinto che la vicenda del comunismo italiano rimanga un punto privilegiato di osservazione. Non a caso in Italia si è verificato l’unico evento di fuoriuscita consapevole e volontaria da quella esperienza. Alludo, senza ulteriori giri di parole, alla svolta della Bolognina, che, come si sa, è strettamente collegata alla caduta del muro. Nel render conto delle ragioni di quella svolta mi sono sforzato di collocarla nel cuore delle vittorie e delle sconfitte del movimento comunista internazionale, e della situazione complessiva delle sinistre, sottraendola il più possibile da una dimensione meramente provinciale. Nello stesso tempo cercherò di prendere di petto la critica più insidiosa, quella di una inesorabile e generica perdita di identità, collegata alla sua identificazione in un atto di coraggio, una sorta di giorno da leone, a cui sarebbe mancata una chiara cultura politica. Nel corso di questa analisi cercherò di contestare ogni visione riduttiva del significato degli eventi dell’89, sia per ciò che riguarda l’amarcord del paradiso perduto sia per ciò che concerne la base stessa della cultura politica della svolta di allora e del futuro nuovo inizio. Occorre, dopo tanti anni, comprendere che a cadere non è stato solo il «socialismo reale». Abbassatesi le polveri sollevate da quel crollo, è affiorato il vuoto problematico di un «socialismo ideale» che si era definito in contrasto con quello reale. Ma prima di entrare nel merito, intendo soffermarmi su due considerazioni preliminari. La prima è che nella disperante percezione, che contiene indubbi elementi di verità, di una perdita di identità culturale è presente una sorta di paragone ellittico rispetto ad una perduta identità del tutto cristallina ed omogenea, che non è mai esistita. Nel corso della storia del comunismo si sono affacciate sul proscenio non solo identità molto diverse tra di loro, ma anche clamorosamente contraddittorie. Lo stesso vale per la storia della socialdemocrazia, che spetta ad altri percorrere dall’interno. Le suggestioni di una inossidabile identità perduta sono ampiamente contraddette dalle concrete vicende storiche. Per ciò che concerne l’identità comunista, mi è sufficiente sottolineare che diverse culture comuniste sono cresciute in molteplici centri intellettuali, nelle elaborazioni di grandi personalità eterodosse, in contributi di notevole rilievo come quelli di Gramsci e Rosa Luxemburg, attraverso differenti esperienze storiche in Oriente e in Occidente. Le idee di comunismo di Trockij, Bucharin e Stalin erano, in parte, sensibilmente lontane tra loro, così come quelle di Brežnev e Berlinguer. Anche in Italia, e tra gli stessi comunisti, la percezione degli ideali del socialismo è stata molto diversa prima e dopo la Resistenza, in seguito ad una crescente contaminazione democratica favorita dall’unità antifascista. In realtà, a mio avviso, la crisi di quella cultura si inscrive principalmente nel suo decorso, che si è consumato nel contraddittorio rapporto tra principi e inveramento storico. Non bisogna infatti dimenticare che nella ricerca delle motivazioni di fondo che hanno mosso i diseredati di tutto il mondo verso il proprio riscatto è difficilissimo operare una netta distinzione tra socialismo e comunismo, non solo perché sono nati dalla stessa coscia di Giove, ma perché all’osso, nella cultura popolare, sono sempre state le stesse. Anche se in Italia la riduzione dell’esperienza comunista al mero ambito dei confini nazionali sarebbe in netto contrasto con uno dei suoi presupposti fondamentali: l’internazionalismo. La stessa parola ha assunto significati molto diversi. Mi è capitato altre volte di osservare come, a livello dei mass media, il movimento criminale e terrorista dei Khmer rossi sia stato definito, impropriamente, come marxista. Ma al di là di questo paradosso appare evidente che l’elemento nazionale del comunismo cinese, inserito nella millenaria autosufficienza e nella percezione di superiorità della cultura cinese, aveva ben pochi contatti con la tradizione popolare, socialista e comunista dell’Occidente. La completa rinuncia a se stesso dell’individuo, la sua totale immersione nella collettività erano del tutto opposti alla autorealizzazione e liberazione dell’individuo di cui avevano parlato Gramsci e lo stesso Marx. Si è trattato di due visioni profondamente diverse. Si vede ad occhio nudo che ci sono stati ben pochi contatti tra le origini razionaliste e illuministe delle idealità del movimento operaio italiano e il misticismo volontarista e comunitario del comunismo orientale. Infatti, mentre il ramo centrale della cultura socialista e comunista è nato, come si diceva una volta, dalla filosofia tedesca, dal pensiero politico francese e da quello economico inglese, i tre elementi fondamentali che hanno caratterizzato la cultura comunista in Oriente sono stati il volontarismo, la tensione morale e il misticismo collettivista, unificati in una ideologia nazionale giustificata dalla sacrosanta esigenza di liberazione dal colonialismo. Naturalmente mi limito a sottolineare una distinzione e non una gerarchia di valori. Tuttavia, la storia non si occupa di come ciascuno di noi ha vissuto le cose. Si occupa di processi oggettivi che hanno coinvolto grandi masse, popoli, paesi interi e Stati. Per questo quando parlo di crollo del comunismo non mi riferisco al tema sotto il profilo più generale della storia delle idee, ma presto attenzione al modo in cui la cultura comunista, e il comunismo stesso, sono stati vissuti e percepiti dalle grandi masse del pianeta e come di riflesso e in contrapposizione sono emerse altre esperienze di sinistra. Parlo, in particolare, del comunismo che si è incarnato nel socialismo reale sotto la direzione di Mosca. Il progressivo distanziarsi dei diversi destini delle sinistre e il crescente baratro tra idealità e realizzazioni concrete, tra socialismo ideale e reale movimento storico, prendono l’avvio da un paradosso: mentre il regno della libertà prefigurato dal marxismo, per quanto carico di finalismo utopistico, richiedeva uno sviluppo delle forze produttive tale da creare le condizioni materiali idonee a facilitare l’instaurarsi di più libere relazioni umane, il centro della rivoluzione mondiale è stato la Russia, dove non c’erano le condizioni oggettive che Marx aveva posto a base di un superamento del capitalismo. Il “Capitale” di Marx avrà modo, in seguito, di vendicarsi ampiamente. Tuttavia con questa mia osservazione non intendo voler mettere le brache al mondo, negando che ci fosse nella Russia zarista una condizione rivoluzionaria che andava colta, anche se mi sembra del tutto evidente che le tappe successive alla rivoluzione d’Ottobre soffriranno di quella contraddizione. Che si irradierà nelle articolazioni territoriali e nelle diversificazioni ideali tra le sinistre, divenendo uno degli aspetti delle furiose lotte intestine.
BERLINGUER DIFENDE MARX E LENIN. Da I Maestri del Socialismo 16 aprile 2015 e Concetto Marchesi 17 febbraio 2016. Dalle colonne di un quotidiano che pian piano diventerà il più letto dalla base del PCI mettendo in crisi l'Unità, Scalfari arriverà a porre direttamente le sue richieste a Berlinguer in un'intervista del 2 agosto 1978. Il politico sardo rispose: «Lei è proprio certo che oggi, 1978, dopo quanto è successo e succede in Italia, in Europa, nel mondo, il problema col quale dobbiamo confrontarci noi comunisti italiani sia proprio quello di rispondere alle domande se siamo leninisti o no? E non dico lei, ma tutti quelli che ci rivolgono tale domanda, conoscono davvero Lenin e il leninismo, sanno davvero di che cosa si tratta quando ne parlano? Mi permetto di dubitarne. Comunque, a me sembra del tutto vivente e valida la lezione che Lenin ci ha dato elaborando una vera teoria rivoluzionaria, andando cioè oltre "l'ortodossia" dell'evoluzionismo riformista, esaltando il momento soggettivo dell'autonoma iniziativa del partito, combattendo il positivismo, il materialismo volgare, l'attesismo messianico, vizi propri della socialdemocrazia. (...) Chi ci chiede di omettere condanne e di compiere abiure nei confronti della storia, ci chiede una cosa che è al tempo stesso impossibile e sciocca. Non si rinnega la storia: né la propria, né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi nella continuità» Berlinguer risponde, in "la Repubblica", 2 agosto 1978. "Una delle forme con cui la campagna anticomunista si esprime, è quella che chiamerei degli ultimatum ideologici: se non rinunciate a Lenin dalla A alla Zeta, se non rompete i vostri rapporti con il Pcus, non siete occidentali ma asiatici. E credete che si fermino a questo? No. Perché dal ripudio di Lenin si dovrebbe passare a quello di Marx; dalla rottura con il Pcus si dovrebbe passare a riconoscere che la Rivoluzione d'Ottobre è stata un puro errore; e magari risalendo nella storia si dovrebbe riconoscere che la Rivoluzione francese sarebbe stato meglio se l'avessero fatta solo i girondini e se non vi fossero stati i giacobini. E tutto questo ancora non basterebbe. Perché i nostri critici pretenderebbero che noi buttiamo a mare non solo la ricca lezione di Marx e di Lenin, ma anche l'elaborazione e le innovazioni ideali di Gramsci e di Togliatti. E poi, di passo in passo, dovremmo giungere sino a proclamare che tutta la nostra storia - che ha anche le sue ombre - è stata solo una sequela di errori." Dal discorso conclusivo e "profetico" di Enrico Berlinguer alla Festa nazionale dell'Unità - Genova 1978.
Quando Craxi tagliò la barba a Marx. Negli anni ’70 la sinistra italiana era dominata dal «feticcio di Mosca», e fu proprio in questo periodo che Bettino Craxi osò sfidare apertamente il massimalismo allora egemone nelle scuole, nelle università e nei giornali. Un libro ricostruisce il dibattito di quegli anni. Sabatino Truppi il 9 Ottobre 2018 su La Stampa. A partire dal congresso di Reggio Emilia (1912), cioè da quando i massimalisti conquistarono la direzione del Partito socialista, la sinistra maggioritaria in Italia è sempre stata dominata dalla stessa martellante ossessione: fuoriuscire dal sistema capitalistico per edificare un ordine diverso, di tipo socialista, basato sulla pianificazione centralizzata e la collettivizzazione di tutti i mezzi di produzione. Basti pensare che nel 1961, quando erano trascorsi appena due anni da quel congresso di Bad Godesberg in cui la socialdemocrazia tedesca aveva definitivamente fatto abiura del marxismo, lo stesso Pietro Nenni (non proprio un pericoloso bolscevico!) non faceva mistero che il suo obiettivo era ancora l’instaurazione, seppur graduale, del socialismo: «l’albero da far cascare - disse al consesso socialista di quell’anno - è per ora quello degli interessi conservatori e reazionari». Era una posizione, questa di Nenni, che non differiva molto da quella, ancor più ambigua, dei comunisti, i quali, muovendosi nel solco ideologico tracciato da Gramsci e da Togliatti, anche quando praticarono una politica delle riforme, lo fecero sempre con una riserva mentale, fedeli com’erano al mito della rottura rivoluzionaria. Ne è la prova che la fantomatica «terza via» teorizzata da Berlinguer non andava in alcun modo confusa con quella socialdemocratica: il suo obiettivo non era quello di promuovere riforme all’interno del sistema capitalistico, ma superarne la logica, nella convinzione che nei paesi, come l’Unione Sovietica, dove era stata eliminata la proprietà privata, oltre a non essere presente alcun segno di crisi, era «universalmente riconosciuto che esisteva un clima morale superiore». Ebbene, fu in questo clima culturale, in cui l’intera sinistra italiana era dominata dal «feticcio di Mosca» (Turati), in cui bastava solo criticare i principi teorici del marxismo-leninismo per essere colpiti dall’onta della scomunica, fu in questo clima culturale, dicevamo, che Bettino Craxi, succeduto a Francesco De Martino alla guida del Psi nel 1976, ebbe l’ardire di sfidare apertamente il massimalismo allora egemone in tutte le agenzie di socializzazione del nostro paese (scuole, università, giornali, ecc.). Lo fece innanzitutto per ragioni ideologiche, poiché pensava che il comunismo, quel mostruoso impasto di dispotismo, miseria e irrazionalità economica, sarebbe stato solo un disastro per il futuro dell’Italia. Ma lo fece anche per ragioni di strategia politica, convinto che il partito socialista, precipitato nella gestione De Martino al 9,6 per cento, se voleva sopravvivere doveva non solo rinnovarsi, prendendo come riferimento i grandi partiti socialdemocratici europei (da qui gli intensi contatti con Mitterrand, Brandt, Soares e Felipe González), ma anche diventare autonomo, ponendo fine a quella soffocante sudditanza culturale che fino ad allora lo aveva reso subalterno ai comunisti. Com’è documentato in un eccellente libro recentemente edito da Aragno (Il Vangelo Socialista, a cura di Giovanni Scirocco, pp. 230, € 18), l’occasione della svolta revisionista fu offerta nell’agosto del 1978 da una lunga intervista concessa da Berlinguer a La Repubblica, nella quale il segretario del Pci non esitava a esaltare «la ricca lezione leninista». Craxi, sollecitato dall’allora direttore Livio Zanetti, rispose sull’Espresso con un saggio redatto da Luciano Pellicani, un giovane e colto sociologo di area socialista. Il contenuto di quelle pagine, che già dal titolo ambivano a diventare il manifesto ideologico del «Nuovo corso» craxiano, ebbe un effetto dirompente. Al punto che un frastornato Eugenio Scalfari sentenziò con irritazione: Craxi ha tagliato la barba del Profeta! Ma cos’aveva scritto di tanto sconvolgente il segretario socialista da riscaldare gli animi in tal modo? Tanto per cominciare, spiega Scirocco, Craxi aveva avuto il coraggio (e il merito storico) di mettere in discussione l’identificazione del socialismo col marxismo, riscoprendo non solo il modello socialdemocratico classico, ma anche tutte quelle suggestioni autogestionarie che, seppur oggi chiaramente anacronistiche, all’epoca apparivano a molti come un indispensabile strumento per tentare di «saldare la democrazia politica con quella economica». «Nel corso di travagliate vicende – ricordava Craxi, (ma le parole erano di Pellicani) - sotto le insegne del socialismo si sono raccolti e confusi elementi distinti e persino reciprocamente repulsivi…c’era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato e c’era chi auspicava il potenziamento…del pluralismo sociale e delle libertà individuali». Richiamandosi poi ad autori fino ad allora rimasti minoritari nel pantheon culturale della sinistra (Proudhon, Bernstein, Russell, Rosselli, Gilas, Bobbio), nonché ai padri nobili della tradizione riformista italiana (Turati e Matteotti), il segretario socialista esortava tutti a non confondere più «il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva». Questo perché tra le due ideologie esisteva una contrapposizione profonda, che non riguardava soltanto i mezzi da utilizzare (riforme o rivoluzione) ma soprattutto i fini da raggiungere: se l’ortodossia comunista, spiegava Craxi, è intrinsecamente burocratica e autoritaria, in quanto mira alla «soppressione del mercato», alla «statalizzazione integrale della società» e alla «cancellazione d’ogni traccia d’individualismo», il socialismo democratico è laico e pluralista: «non intende elevare nessuna dottrina al rango di ortodossia…riconosce che il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore…ha un progetto etico-politico…che può essere sintetizzato nei seguenti termini: socializzazione dei valori della civiltà liberale, diffusione del potere, distribuzione ugualitaria della ricchezza e delle opportunità di vita». Da qui una conclusione di ordine generale che, visto lo Zeitgeist imperante in quegli anni, non poteva che suonare eretica alle orecchie del popolo della sinistra: «Leninismo e pluralismo sono termini antitetici: se prevale il primo muore il secondo». Per cui, concludeva Craxi, «dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale. Il socialismo non coincide con lo statalismo. Il socialismo…è la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza». Come quest’acceso scontro ideologico sarebbe terminato è cosa ormai nota. Il cosiddetto «saggio su Proudhon» poteva essere, al di là delle stesse intenzioni dei suoi estensori, un’occasione utile per aprire, in seno alla sinistra, un dibattito ideologico propedeutico alla costruzione di una comune alternativa di governo. Ciò non avvenne. L’offensiva craxiana, salvo timide aperture, non riuscì a smuovere il Pci, il quale, oltre a non rinnegare il legame con l’Unione Sovietica, rimase fermo anche nella sua critica al riformismo socialdemocratico. Il risultato? Sia i riformisti che i rivoluzionari sarebbero stati sconfitti: i primi, come ebbe modo di osservare Massimo L. Salvadori (La sinistra nella storia italiana, Laterza), sarebbero rimasti dei riformisti senza riforme; i secondi, dei rivoluzionari senza rivoluzione. E il prezzo più salato di quest’anomalia, inutile dirlo, l’avrebbe pagato proprio il nostro paese: perché l’assenza di un’alternativa di sinistra non solo ha impedito una virtuosa alternanza di governo (il «Fattore k», com’è noto, eternizzava di fatto il potere democristiano), ma ha anche privato l’Italia di un moderno partito socialdemocratico, capace di porre in essere quelle riforme correttive che sarebbero state oltremodo necessarie per conciliare in modo virtuoso le ragioni sacrosante del merito con quelle non meno impellenti del bisogno. Generando in questo modo un vuoto che sarebbe stato poi tragicamente colmato nei modi che oggi sono sotto gli occhi di tutti….
IL VANGELO SOCIALISTA. Da SocialismoItaliano1892 il 27 Agosto 2018. Quarant’anni orsono, il 27 agosto 1978, comparve sull’Espresso un lungo articolo di Bettino Craxi dal titolo: “Il vangelo socialista” in risposta ad un precedente intervento di Enrico Berlinguer sul leninismo. Il contenuto segnò una forte divisione tra le due anime della sinistra di allora ed in verità, come ricordato da Massimo Pini in: ”Craxi, una vita un’era politica” le idee del testo furono stese da Luciano Pellicani, ex comunista e docente di sociologia politica, in una raccolta di contributi in onore di Willy Brandt. Inoltre fece epoca l’introduzione forte del pensiero di Proudhon nel pantheon socialista. “La storia del socialismo non è la storia di un fenomeno omogeneo. Nel corso di travagliate vicende sotto le insegne del socialismo si sono raccolti e confusi elementi distinti e persino reciprocamente repulsivi. Statalismo e antistatalismo, collettivismo e individualismo, autoritarismo e anarchismo, queste e altre tendenze ancora si sono incontrate e scontrate nel movimento operaio sin da quando esso cominciò a muovere i suoi primi passi come unità politica e di classe. In certe circostanze storiche le impostazioni ideologiche diverse sono addirittura sfociate in una vera e propria guerra fratricida. È così avvenuto che tutti i partiti, le correnti e le scuole che si sono richiamate al socialismo, si sono poste in antagonismo al capitalismo, ma ciò non è quasi mai stato sufficiente ad eliminare divisioni e contrapposizioni. I modelli di società che indicavano come alternativa alla società capitalistica erano spesso antitetici. La profonda diversità dei «socialismi» apparve con maggiore chiarezza quando i bolscevichi si impossessarono del potere in Russia. Si contrapposero e si scontrarono concezioni opposte. Infatti c’era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato e c’era chi auspicava il potenziamento e lo sviluppo del pluralismo sociale e delle libertà individuali. Riemerse così il vecchio dissidio fra statalisti e antistatalisti, autoritari e libertari, collettivistici e non. La divisione si riflesse a grandi linee nell’esistenza di due distinte organizzazioni internazionali. I primi, eredi della tradizione giacobina, si raggrupparono sotto la bandiera del marxismo-leninismo, mentre i secondi volevano rimanere nell’alveo della tradizione pluralistica della civiltà occidentale. A partire dal 1919 il socialismo, anche dal punto di vista organizzativo, sarà attraversato da due grandi correnti e da molti rivoli collaterali, che si potrebbero meglio definire solo analizzando la storia dei singoli partiti. Non sono pochi a ritenere che la scissione, vista nelle sue grandi linee, viene da lontano. C’è chi ne vede le radici nella stessa Rivoluzione francese, durante la quale, mentre era in atto la guerra contro l’Antico Regime, si scontrarono due concezioni della società ideale; quella autoritaria e centralistica e quella libertaria e pluralistica. Già nelle analisi di Proudhon per esempio si tenta l’individuazione delle radici etico-politiche del conflitto latente, che lacerava la sinistra. In Proudhon c’è infatti un’appassionata difesa non solo delle radici ideali della protesta operaia contro lo sfruttamento capitalistico ma anche una percezione acuta della divaricazione sostanziale tra la società socialista e la società comunista. Da un lato il comunismo che vuole la soppressione del mercato, la statalizzazione integrale della società e la cancellazione di ogni traccia di individualismo. Dall’altra il socialismo, che progetta di instaurare il controllo sociale dell’economia e lavora per il potenziamento della società rispetto allo Stato e per il pieno sviluppo della personalità individuale. Proudhon considerava il socialismo come il superamento storico del liberalismo e vedeva nel comunismo una «assurdità antidiluviana» che, se fosse prevalso, avrebbe «asiatizzato» la civiltà europea. Lo stesso Proudhon ci ha lasciato una descrizione profetica di che cosa avrebbe generato l’istituzionalizzazione del rigido modello statalista e collettivistico: «la sfera pubblica porterà alla fine di ogni proprietà; l’associazione provocherà la fine di tutte le associazioni separate e il loro riassorbimento in una sola; la concorrenza, rivolta contro se stessa, porterà alla soppressione della concorrenza; la libertà collettiva, infine, dovrà inglobare le libertà cooperative, locali e particolari». Conseguentemente sarebbe nata «una democrazia compatta fondata in apparenza sulla dittatura delle masse, ma in cui le masse avrebbero avuto solo il potere di garantire la servitù universale, secondo le formule e le parole d’ordine prese a prestito dal vecchio assolutismo riassumibili:
Comunione del potere
Accentramento
Distruzione sistematica di ogni pensiero individuale, cooperativo e locale, ritenuto scissionistico
Polizia inquisìtoriale
Abolizione o almeno restrizione della famiglia e, a maggior ragione, dell’eredità
Suffragio universale organizzato in modo tale da sanzionare continuamente questa sorta di anonima tirannia, basata sul prevalere di soggetti mediocri o perfino incapaci e sul soffocamento degli spiriti indipendenti, denunciati come sospetti e, naturalmente, inferiori di numero».
Qui, come si vede, Proudhon indica che cosa non doveva essere il socialismo e contemporaneamente che cosa sarebbe diventata la società se fosse prevalso il modello collettivistico basato sulla statizzazione integrale dei mezzi di produzione e sulla soppressione del mercato. La storia purtroppo ha portato qualche elemento di fatto a sostegno della sua previsione. Il socialismo di Stato, messi in disparte tutti i valori, le istituzioni e i principi della civiltà moderna, li ha sostituiti con un modello di vita collettivistico, burocratico e autoritario, cioè con un sistema pre-moderno. E ciò è tanto vero che molti rappresentanti della cultura del dissenso spingono la loro critica sino al punto di vedere nel comunismo, così come storicamente si è realizzato, una vera e propria «restaurazione asiatica». Ma, per venire ad analisi più recenti, ricordiamo che molti altri intellettuali della sinistra europea hanno sviluppato questo filone critico. Da Russell a Carlo Rosselli a Cole ci perviene un unico stimolo che ci invita a non confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva.
Il superamento storico del liberalismo con la sua distruzione. Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il «socialismo reale o maturo» non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una data somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivistica originariamente adottata. L’esame dei fondamenti essenziali del leninismo non può che confermare tale tesi. Fino alla pubblicazione di «Che fare?» Lenin fu sostanzialmente un marxista ortodosso: credeva che il socialismo si sarebbe realizzato solo nei paesi capitalistici avanzati e solo a condizione che la classe operaia avesse raggiunto un elevato grado di coscienza politica e di maturità culturale. Ma nel «Che fare?» queste tesi sono letteralmente rovesciate. Dalla teoria e dalla prassi del socialismo democratico europeo si passa a uno schema rivoluzionario e giacobino. Lenin stesso definisce il rivoluzionario marxista «un giacobino al servizio della classe operaia» e propone di creare un partito composto esclusivamente di «rivoluzionari di professione». Così il socialismo da compito storico della classe operaia diventa qualcosa che deve essere pensato, costruito e diretto da una élite selezionata di individui posti al di sopra della massa. Lenin comincia col distinguere due forme o gradi di percezione della realtà: la «spontaneità» e la «coscienza»: solo la seconda permette di anti-vedere i fini ultimi della Storia. Successivamente Lenin afferma perentoriamente che gli operai non possono avere il tipo di visione del reale che è proprio della coscienza poiché privi del sapere filosofico e scientifico. Essi, abbandonati alle loro tendenze spontanee, sono condannati a muoversi entro l’ambito delle leggi del sistema. Tutt’ al più possono raggiungere una «coscienza sindacale» dei loro interessi immediati, non già una coscienza politica che può essere prodotta solo al di fuori della loro condizione di classe. E i «portatori esterni» della «giusta coscienza», sono sempre secondo Lenin, gli intellettuali. Ad essi, quindi, spetta il ruolo storico organizzativo e dirigente del movimento operaio. Date queste premesse, ovviamente il soggetto rivoluzionano non può essere la classe operaia bensì il corpo scelto degli intellettuali che si sono consacrati alla rivoluzione comunista. Il pericolo che gli anarchici russi avevano sottolineato con estrema energia e cioè che la classe operaia fosse «colonizzata» dagli intellettuali declasses che entravano in un movimento socialista quali «tribuni della plebe» diviene con il «Che fare?» una realtà. Lenin teorizza infatti con grande franchezza il diritto-dovere degli intellettuali guidati dalla «scienza marxista» di sottoporre la classe operaia alla loro direzione. L’ammissione storica che Marx aveva assegnato al proletariato doveva raccogliersi nelle mani dell’intelligencija rivoluzionaria. Si capisce agevolmente perché Trockij, Plechanov, Martov e Rosa Luxemburg abbiano accusato Lenin di «sostitutismo». Ai loro occhi l’idea leninista di subordinare la classe operaia alla direzione paternalistica dell’élite cosciente ed attiva appariva come un capovolgimento del marxismo e come un ritorno alla tradizione giacobina. «Trockij in particolare stigmatizzò la teoria leninista poiché essa confondeva la dittatura del proletariato con la dittatura sul proletariato e affidava la missione storica di edificare il socialismo non alla classe operaia dotata di iniziativa che ha preso nelle sue mani le sorti della società, ma a una organizzazione forte, autoritaria che domina il proletariato ed attraverso ad esso la società». Era il Trockij menscevico che prevedeva come lo spirito di setta e il manicheismo giacobino che Lenin voleva introdurre nel movimento operaio avrebbero avuto conseguenze disastrose. In effetti «Che fare?» apparve a molti come un’aggressiva ripresa del progetto di Robespierre, che già molte scuole socialiste europee avevano definito come una sorta di dispotismo pseudo-socialista. Il modello di partito ideato da Lenin e una istituzione resa monolitica dal vincolo dell’ortodossia e dal principio della subordinazione assoluta e senza riserve delle volontà individuali alla volontà collettiva. Il partito bolscevico fu sin dal suo atto di nascita, una organizzazione ferreamente disciplinata e impegnata nella diffusione su scala planetaria del socialismo scientifico, interpretato come una dottrina a carattere salvifico, cioè una setta di «veri credenti» che in nome del proletariato riteneva di avere il diritto-dovere di instaurare il suo dominio totale sulla società per rigenerarla.
Nessuno meglio di Rosa Luxemburg ha descritto le conseguenze elitaristiche e burocratiche che da una tale concezione e prassi derivavano. «Un centralismo spiegato, il cui principio vitale è da un lato il netto rilievo e la separazione della truppa organizzata dai rivoluzionari dichiarati e attivi dall’ambiente, pur esso rivoluzionariamente attivo ma non organizzato, che li circonda, e dall’ altro la rigida disciplina e l’intromissione diretta, decisiva, determinante delle istanze centrali in tutte le manifestazioni vitali delle organizzazioni locali del partito. Chiudere il movimento nella corazza di un centralismo burocratico che degrada il proletariato militante a docile strumento di un comitato».
La dittatura sul proletariato. Come ha scritto Isaak Deutscher «poiché la classe operaia non era là (dove sarebbe dovuta esserci per esercitare la direzione) i bolscevichi decisero di agire come suoi luogotenenti e fiduciari fino al momento in cui la vita fosse diventata più normale e una nuova classe lavoratrice si fosse affermata e sviluppata. Per questa strada naturalmente si giungeva alla dittatura della burocrazia, al potere incontrollato e alla corruzione attraverso il potere». Ma, occorre ripeterlo, tale paradossale fenomeno – la dittatura del proletariato senza il proletariato, la «dittatura per procura» esercitata in nome e per conto della classe – non può essere considerata una conseguenza non prevista e non prevedibile. E sempre il Trockij menscevico che nel 1904 scrive che se il progetto leninista si fosse realizzato «il partito sarebbe stato sostituito dall’organizzazione del partito, l’organizzazione sarebbe stata a sua volta sostituita dal comitato centrale ed infine il comitato centrale dal dittatore». Con il successo storico-politico del leninismo la logica giacobina con tutte le sue componenti vecchie e nuove che sfociano nella dittatura rivoluzionaria prende il sopravvento sulla logica pluralistica e democratica del socialismo e la Russia si incammina sulla strada del collettivismo burocratico-totalitario. Ora, dato che la meta finale indicata da Lenin era la società senza classi e senza Stato, si potrebbe parlare di «eterogenesi dei fini» nel senso che i mezzi adoperati hanno fagocitato l’ideale. Il leninismo al potere sarebbe, da questo punto di vista, la dimostrazione che non è possibile scindere i mezzi dai fini e che la storia non è «razionale» bensì «ironica» e persino «crudele». Ma in realtà il conflitto tra bolscevismo e socialismo democratico non fu un semplice conflitto sui mezzi da adoperare per avanzare verso la società ideale. Tale conflitto è stato senz’altro uno dei fattori che ha segnato la demarcazione netta nel seno del movimento operaio, ma non certamente quello decisivo. Fra comunismo leninista e socialismo esiste una incompatibilità sostanziale che può essere sintetizzata nella contrapposizione tra collettivismo e pluralismo. Il leninismo è dominato dall’ideale della società omogenea, compatta, indifferenziata. C’è nel leninismo la convinzione che la natura umana è stata degradata dall’apparizione della proprietà privata, che ha disintegrato la comunità primitiva scatenando la guerra di classe. E c’è soprattutto il desiderio di ricreare l’unità originaria facendo prevalere la volontà collettiva sulle volontà individuali, di interesse generale sugli interessi particolari. In questo senso il comunismo è organicamente totalitario, nel senso che postula la possibilità di istituire un ordine sociale così armonioso da poter far a meno dello Stato e dei suoi apparati coercitivi. Questo «totalitarismo del consenso» deve però essere preceduto da un «totalitarismo della coercizione». Tanto è vero che Lenin non ha esitato a descrivere la dittatura del partito bolscevico come «un potere che poggia direttamente sulla violenza e che non è vincolata da nessuna legge». Pure la meta finale resta la società senza Stato, cioè «il paradiso in terra» (Lenin) successivo alla «resurrezione dell’umanità» (Bucharin). Talché si può dire che la meta finale indicata dal comunismo è «un Regno di Dio senza Dio», cioè la costruzione reale del regno millenario di pace e di giustizia illusoriamente promesso del messianesimo giudaicocristiano. Non è certo un caso, dunque, che Gramsci sia arrivato a definire il marxismo «la religione che ammazzerà il cristianesimo» realizzando le sue esaltanti promesse e facendo passare dalla potenza all’atto l’ideale della società perfetta. Se questa interpretazione del leninismo è corretta, allora la contrapposizione fra socialismo e comunismo è certo molto profonda. Il comunismo leninista ha mire palingenetiche: è una religione travestita da scienza che pretende di aver trovato una risposta a tutti i problemi della vita umana. Per questo non ha voluto tollerare rivali ed è in una parola «totalitario». Milovan Gilas e Gilles Martinet lo hanno sottolineato in maniera convincente: il leninismo nella misura in cui aspira a rigenerare la natura umana, a creare un mondo purificato da ogni negatività, a porre fine allo scandalo del male, è una dottrina millenaristica che, una volta al potere, non può produrre che uno Stato ideologico retto una casta. Gramsci ha teorizzato senza perifrasi la natura «totalitaria» e persino «divina» del partito comunista, che non a caso ha definito “ il focolare della fede e il custode della dottrina del socialismo scientifico». Il partito marxista-leninista in quanto incarna il progetto di disalienazione totale dell’umanità, è una istituzione carismatica che racchiude in sè tutte le verità e tutta la moralità della teoria. Esso esprime l’etica, la scienza del «proletariato ideale» che deve illuminare il «proletariato reale» e indicargli «la via della salvezza» (come si legge nella risoluzione del secondo Congresso del Komintern). Nelle sue mani ci sono «le chiavi della storia» poiché esso orienta sua azione alla luce dell‘unica dottrina che sia scientifica e salvifica ad un tempo. Per questo il comunismo non può venire a patti con lo spirito critico, il dubbio metodico, la pluralità delle filosofie, insomma con tutto ciò che rappresenta il patrimonio culturale della civiltà occidentale laica e liberale. Esso, come soleva ricordare Bertrand Russell a coloro che si facevano un’immagine mitologica del marxismo-leninismo, si fonda sull’idea che deve esistere un’autorità ideologica (il partito) che stabilisce autocraticamente i confini che separano il bene dal male, il vero dall’errore, l’utile dal dannoso. Di qui l’elevazione del marxismo a filosofia (obbligatoria) di Stato, l’istituzionalizzazione dell’inquisizione rivoluzionaria, la lotta accanita e spietata contro i devianti, i dissidenti e gli eretici. Rispetto alla ortodossia comunista, il socialismo è democratico, laico e pluralista. Non intende elevare nessuna dottrina al rango di ortodossia, non pretende porre i limiti alla ricerca scientifica e al dibattito intellettuale, non ha ricette assolute da imporre. Riconosce che il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore. E questo perché il socialismo non intende porsi come surrogato, ideale e reale, delle religioni positive. Il socialismo nella sua versione democratica ha un progetto etico-politico che si inserisce nella tradizione dell’illuminismo riformatore e che può essere sintetizzato nei seguenti termini: socializzazione dei valori della civiltà liberale, diffusione del potere, distribuzione ugualitaria della ricchezza e delle opportunità di vita, potenziamento e sviluppi degli istituti di partecipazione delle classi lavoratrici ai processi decisionali. Carlo Rosselli definiva appunto il socialismo come un liberalismo organizzatore e socializzatore. Dalla pretesa che il comunismo ha di fare «l’uomo nuovo» deriva del tutto logicamente il disegno di ristrutturare tutto il campo sociale secondo un criterio unico e assolutamente vincolante. Il principio di fondo è stato formulato da Lenin in termini inequivocabili: «il partito tutto corregge, designa e dirige in base a un criterio unico» al fine di sostituire «l’anarchia del mercato» con la “centralizzazione assoluta”. E in effetti, del tutto coerentemente con la dottrina, i bolscevichi non appena conquistarono lo Stato incominciarono a distruggere sistematicamente, metodicamente, ogni centro di vita autonoma e operarono in modo da concentrare tutto il potere politico, economico e spirituale in un’unica struttura di comando, l’apparato del partito. E chi dice apparato dice controllo integrale della società da parte degli amministratori universali. Fu così che prese corpo lo Stato padrone di ogni cosa, delle risorse economiche delle istituzioni degli uomini e persino delle idee. L’autonomia della società civile fu intenzionalmente soffocata, la spontaneità sociale limitata o soppressa, l’individualismo ridotto ai minimi termini.
Il grande paradosso della via comunista. Ma, evidentemente tutto ciò implica la burocratizzazione integrale della società la quale come si legge in «Stato e rivoluzione», diventa per ciò stesso «un unico ufficio ed un unico stabilimento industriale» diretto dall’alto dell’apparato del partito che vigilerà sugli uomini affinché essi non deviino dalla retta via fissata dall’ortodossia. Di qui la descrizione del progetto collettivistico data da Gilas: «Lo Stato comunista opera per raggiungere la completa spersonalizzazione dell’individuo, delle nazioni e anche dei propri appartenenti. Aspira a trasformare la società intera in una società di funzionari. Aspira a controllare, direttamente o indirettamente, salari e stipendi, alloggi e attività intellettuali». Analogamente Pierre Naville ha scritto che «la burocrazia nel socialismo di Stato gode di uno statuto fino ad oggi sconosciuto: di fatto essa controlla la totalità della vita economica, ed esercita questo controllo dall’alto. E’ nel socialismo di Stato che la burocrazia mostra finalmente la su reale natura: essa è l’organizzazione gerarchica applicata a tutto, l’armatura reale della vita sociale e privata, il comando su ogni cosa. Essa incarna lo Stato nella sua doppia dimensione nazionale e nel suo imperialismo internazionale». A questo punto possiamo trarre alcune conclusioni di ordine generale. Leninismo e pluralismo sono termini antitetici se prevale il primo muore il secondo. La democrazia (liberale o socialista) presuppone l’esistenza di una pluralità di centri di poteri (economici, politici, religiosi, etc.) in concorrenza fra di loro, la cui dialettica impedisce il formarsi di un potere assorbente e totalitario. Di qui la possibilità che la società civile abbia una certa autonomia rispetto allo Stato e che gli individui e i gruppi possano fruire di zone protette dall’ingerenza della burocrazia. La società pluralistica inoltre è una società laica nel senso che non c’è alcuna filosofia ufficiale di Stato, alcuna verità obbligatoria. Nella società pluralistica la legge della concorrenza non opera solo nella sfera dell’economia, ma anche in quella politica e in quella delle idee. Il che presuppone che lo Stato è laico solo nella misura in cui non pretende di esercitare, oltre al monopolio della violenza, anche il monopolio della gestione dell’economia e della produzione scientifica. In breve: l’essenza del pluralismo è l’assenza del monopolio. Tutto il contrario delle tendenze che si sono affermate nel sistema comunista. I veri marxisti-leninisti non possono tollerare contropoteri, ideali comunitari diversi da quello collettivistico. Per questo essi sentono di avere il diritto-dovere di imporre il «socialismo scientifico» ai recalcitranti. Per questo Gramsci aveva teorizzato la figura del moderno Principe come «il solo regolatore» della vita umana. La meta finale è la società senza Stato, ma per giungervi occorre statizzare ogni cosa. Questo in sintesi è il grande paradosso del leninismo. Ma come è mai possibile estrarre la libertà totale dal potere totale? Invece di potenziare la società contro lo Stato, si è reso onnipotente lo Stato con le conseguenze previste da tutti gli intellettuali della sinistra revisionistica che hanno visto nel monopolio delle risorse materiali e intellettuali la matrice dell’autoritarismo di Stato. Pertanto se vogliamo procedere verso il pluralismo socialista, dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale. Il socialismo non coincide con lo statalismo. Il socialismo, come ha ricordato Norberto Bobbio è la democrazia pienamente sviluppata, dunque è il superamento storico del pluralismo liberale e non già il suo annientamento. È la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza.” Bettino Craxi
Bettino Craxi fu un grande leader ma dopo il 1989 sbagliò tutto. Roberto Morassut il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. È uscito il film Hammamet, sulla figura di Bettino Craxi, per la regia di Gianni Amelio e interpretato magistralmente da Pierfrancesco Favino. La pellicola contribuisce, nel ventennale della scomparsa, all’ormai lungo dibattito sulla figura del leader socialista e agli interrogativi sui torti e le ragioni nel confronto/scontro interno alla sinistra di quegli anni, le cui tracce sono oggi ancora molto presenti. Craxi fu una figura di sinistra riformista ed ebbe meriti e intuizioni innegabili: le più importanti furono, a mio parere, la percezione della necessità di una riforma generale delle istituzioni e le posizioni in politica estera. Colse la necessità di una “democrazia governante”, il valore della decisione come parte del meccanismo stesso della democrazia presupposto della sua costante rigenerazione. Fu un capo di governo capace di costruire un profilo dell’Italia leale con gli alleati atlantici ma non subalterno. Tuttavia, ebbe limiti e responsabilità altrettanto grandi che compromisero, alla resa dei conti, la sua stessa visione del riformismo: egli rimase, alla fine, totalmente dentro i confini politici e morali (morale intesa meramente come “condotta” politica e non come comportamento etico e di vita) di quella prima Repubblica che egli voleva riformare anche immaginando le condizioni di una alternativa. Dopo l’89 e alla vigilia di Mani Pulite, Craxi ebbe infatti la possibilità di imboccare la strada dell’alternativa ma non lo fece e questo mi pare il punto dirimente per un giudizio “da sinistra” sulla sua figura. Il Pci non esisteva più, l’Urss era dissolto ma c’era una nuova forza politica di sinistra che, nata dalla sua trasformazione, poteva essere interlocutore del Psi per una alternativa riformista. Craxi fu invece vinto dalla tentazione di fagocitarla con la proposta della “Unità socialista” piuttosto che stabilirvi un rapporto politico finalizzato ad una “Unità riformista” che andasse oltre i margini delle famiglie socialiste o ex comuniste, magari umiliate dalla sconfitta storica di quegli anni. Questa scelta lo portò all’errore del Congresso di Bari nel riproporre l’accordo con la Dc per ragioni meramente di potere, come ha ricostruito bene, tempo dopo, Claudio Martelli. E poi a sostenere la diserzione dalle urne in occasione del referendum sulle preferenze plurime, scontrandosi con un sentimento popolare che egli – riformista e innovatore – scambiò per una protesta di piazza. Questo dimostra che egli fu pienamente dentro il vecchio mondo pre ‘89 che comprendeva anche certe rivalse socialiste del “dopo Livorno”. Era pienamente figlio del ‘56 e confuse la svolta della Bolognina come un fatto di trasformismo neo comunista senza comprendere fino in fondo il travaglio e la mutazione genetica profonda che gli eredi del Pci stavano attraversando. La sua visione innovativa della Repubblica e del quadro internazionale mancò, insomma, nel momento decisivo. La necessità storica di una “Unità riformista” emerse con chiarezza dopo pochi anni dalla sua uscita di scena con il sorgere dell’Ulivo che peraltro riprese nei suoi programmi anche ispirazioni craxiane. Viceversa, gli eredi del Pci transitarono lo spartiacque dell’89 con minori danni, benché non senza aporìe, perché Berlinguer aveva largamente preparato lo sganciamento politico e morale (sempre nel senso poc’anzi indicato) dal mondo diviso in blocchi e con la “svolta della Bolognina” si resero pronti e spendibili per una nuova possibile pagina repubblicana. Quanto alla cosiddetta “persecuzione giudiziaria”, bisognerebbe stabilire che quelle inchieste che lo riguardarono non avevano ragion d’essere ma così non sembra. Qualcuno sostiene che le inchieste furono un golpe. Affermazioni spericolate. Il tema della corruzione in politica è ancora vivissimo oggi e forse anche più grave di allora. L’impossibilità di un’alternativa politica contribuì purtroppo non poco alla abnorme amplificazione del ruolo della magistratura come estremo fattore risolutivo per determinare un rinnovamento delle classi dirigenti. La rapacità degli ultimi anni della Repubblica, l’enorme debito pubblico (in parte derivato dalla crisi morale dei partiti di governo di allora) è peraltro parte integrante di un giudizio politico. Nessuno può dire (ma forse è giusto domandarselo) se una scelta di Craxi per l’alternativa dopo l’89 non avrebbe potuto mutare i termini stessi della vicenda Mani Pulite. Ecco perché oggi la figura di Craxi resta una figura contraddittoria e per certi versi drammatica; ma la complessità del giudizio sulla sua figura non può tradursi nel facile gioco della riabilitazione o della condanna imperitura. Luci e ombre devono restare ben chiare per non sbagliare ancora e per crescere una classe dirigente che sappia sempre promuovere il rinnovamento anche rischiando se stessa per un interesse generale e soprattutto per tutelare, in nuovi contesti, i propri valori di fondo. E questa mi pare anche la lezione che oggi si può trarre, parlando di Craxi, anche per questa complessa fase della vita della Repubblica e anche per il futuro prossimo del Pd. Per non disperdere un patrimonio storico di valori e ideali occorre, in certi momenti, mettere in discussione se stessi, rischiare se stessi. È il tema del Pd in questo preciso momento storico.
Ripartire da Bettino Craxi, solo così la sinistra diventerà riformista. Fabrizio Cicchitto l'8 Gennaio 2020 su Il Riformista. Caro Direttore, con il 19 gennaio 2020 si avvicina il 20° anniversario della morte di Bettino Craxi. In quest’occasione, proprio mentre nelle sale arriva Hammamet, l’atteso film che Gianni Amelio ha dedicato allo statista interpretato sul grande schermo da Pierfrancesco Favino, in molti andremo in Tunisia davanti alla sua tomba per commemorarlo. Su impulso di Stefania Craxi la Fondazione che da lui prende il nome sta preparando una serie di dibattiti lungo tutto il 2020. Ma “il problema Craxi” va molto al di là del “culto della memoria” che giustamente portano avanti la sua famiglia e quell’area politica e culturale che si richiama al socialismo italiano. A questo proposito bisogna sottolineare il lavoro svolto da Luigi Covatta e da Gennaro Acquaviva con alcuni dei più significativi storici italiani e all’autonoma elaborazione di singoli studiosi: questa volta non è passato il motto secondo cui la storia è fatta dai “vincitori”. Del resto, i “vincitori” del ’92-’94, vale a dire i post-comunisti di scuola berlingueriana, non solo dal ’94 in poi non hanno più vinto sul piano politico, ma sul piano storiografico sono stati “smontati” e “demistificati” dall’interno stesso della loro area (vedi Andrea Romano: I compagni di scuola, i libri di Emanuele Macaluso, di Umberto Ranieri e di Paolo Franchi, lo stesso Rendiconto di Claudio Petruccioli). Tantomeno la “questione Craxi” può essere affrontata e risolta positivamente o negativamente sul piano “topografico”. A nostro avviso, se non si vuole cadere nel ridicolo, qualunque leader politico dovrebbe entrare nella topografia, indipendentemente dalle contestazioni che possono essere fatte su questo o quell’aspetto della sua biografia. Ma de hoc satis. Il problema che vogliamo affrontare è molto più complesso e “difficile” di quello costituito dal nome di una via. Esso riguarda la lettura della storia di questo Paese e, in essa, la storia della sinistra italiana. Anzi, per molti aspetti la questione va rovesciata: a nostro avviso se la sinistra post comunista, allo stato il Pd e Italia Viva, non fa i conti con tutto ciò che “evoca” la figura Craxi (il riformismo teorico e pratico, il garantismo, lo stato di diritto, la riforma della giustizia, la “grande riforma” fino al monocameralismo, l’impegno per lo sviluppo dell’industria manifatturiera e per una cogestita flessibilità dell’uso del lavoro per aumentare la produttività e aumentare l’occupazione, il legame profondo con l’Occidente e una politica attiva nel Mediterraneo, il rifiuto assai netto del massimalismo sociale, del giustizialismo ideologico, pratico e mediatico, di ogni sovranismo, antisemitismo e razzismo) non solo assume una posizione sbagliata e nella sostanza reazionaria nei confronti di un personaggio che come Berlinguer, La Malfa, Fanfani, Andreotti, De Mita è stato uno dei grandi leader della seconda fase della prima Repubblica, ma come i fatti dimostrano non riesce neanche a crescere e a esprimere un progetto organico, forte e convincente per il Paese. Non a caso anche dopo la distruzione del Psi e del centro-destra della Dc, la sinistra post-comunista è risultata sempre in difficoltà, ieri di fronte alla risposta liberale e moderatamente populista di Berlusconi, adesso nei confronti del populismo antipolitico dei grillini e del pericoloso sovranismo razzista di Salvini che usa stilemi e parole d’ordine tratte anche dall’armamentario comunicativo del mussolinismo, usando la rete internet e le reti Mediaset che attualmente lo trattano come se la Lega fosse il Milan e Forza Italia il Monza. In effetti la sinistra post-comunista sta seguendo un comportamento politico che nella sua metodologia è simile a quello del tutto sbagliato seguito da Berlusconi negli ultimi anni. Berlusconi e Forza Italia sono ridotti ai minimi termini anche perché dal 2013 in poi sono andati a zig-zag, un giorno moderati, un giorno estremisti e ciò ha dato a Salvini e alla Meloni un grande spazio politico ed elettorale. A sua volta il post-comunismo, nelle sue varie espressioni partitiche – Pds, Ds, Pd – sul piano economico e sociale ha oscillato fra un incerto gradualismo e il massimalismo, sul piano dei diritti è andato a zig-zag fra il giustizialismo più efferato (al punto di prendersi come alleato preferenziale Di Pietro e l’Italia dei Valori) e un contraddittorio, intermittente e timido garantismo. Tutto ciò è derivato anche da una lettura distorta di ciò che è avvenuto in Italia dopo la rottura rivoluzionario-eversiva di Mani Pulite: diversamente da ciò che sta avvenendo a livello internazionale in Italia non sono dominanti i grandi gruppi finanziari-industriali (quasi tutti sono falliti, o sono in crisi, o sono stati acquistati da mani straniere): in Italia la forza egemone è la magistratura, che non a caso a suo tempo ha eliminato dalla scena ben cinque partiti, che ha svolto un ruolo fondamentale nello scontro fra berlusconismo e antiberlusconismo, che adesso condiziona la scena politica perché ispira e influenza una nuova forza come il Movimento 5 stelle, una situazione unica in Europa e sta ogni giorno sulle scene, attaccando questo o quel leader politico, liquidando pezzi di politica regionale e comunale. Di conseguenza la traduzione di un’intesa tattica qual è il governo giallo-rosso in un’intesa strategica sarebbe un autentico disastro per il Pd, così come lo è stata a suo tempo quella con Di Pietro da parte del Pds-Ds. Infatti, un’intesa strategica fra il Pd e il M5s si fonderebbe inevitabilmente sul peggio della tradizione vetero comunista e dello stesso berlinguerismo, cioè il giustizialismo etico e il massimalismo sociale anti imprenditoriale.
Craxi, no alla memoria distorta: recuperiamo la cultura riformista. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Pierluigi Battista. La pellicola «Hammamet» di Gianni Amelio evidenzia la necessità di riconsiderarne l’opera politica senza pregiudizi. Questo articolo è stato pubblicato su «la Lettura» #418 del 1° dicembre 2019Un film di un grande del cinema italiano, Hammamet di Gianni Amelio, e il ventesimo anniversario, che sarà celebrato proprio ad Hammamet, della morte del leader del Partito socialista possono finalmente mettere fine alla leggenda nera che ancora oggi circonda la vicenda storica, politica e umana di Bettino Craxi. Per smettere di appiattirla e svilirla come mera vicenda giudiziaria, addirittura come fatto criminale: una losca storia di guardie e ladri, la demonizzazione di una memoria che distorce ciò che il craxismo è stato nelle vicissitudini della sinistra italiana di cui Craxi, invece messo al bando simbolicamente come se fosse un Al Capone travestito da leader politico, ha avuto per quasi vent’anni un ruolo centrale. Non sarà certo solo un film, sia pure girato con la consueta maestria da Amelio e interpretato dal bravissimo Pierfrancesco Favino, a ricostruire i tratti di una storia ancora dannata nel discorso pubblico del nostro Paese. Ma abbiamo finalmente l’occasione per rileggere il fenomeno craxiano nei suoi aspetti innovativi e anche in quelli, controversi, che hanno alimentato attorno alla figura del leader socialista tante ostilità, destinate ad accendere il furore che nella stagione di Mani pulite ha tragicamente accompagnato il tonfo politico e umano di Bettino Craxi, fino agli ultimi giorni di Hammamet. Cominciamo dalle parole. Apparirà strano a chi non ha vissuto quell’epoca nemmeno tanto lontana, ma per esempio «riformista», nella sinistra maggioritaria in un’Italia già immersa nella modernità, era quasi una parolaccia, e infatti solo i socialisti di Craxi la usavano con convinzione e senza riserve mentali. Certo, anche «rivoluzionario» non era più espressione frequentata nel Pci, e tuttavia l’evoluzione culturale non poteva ancora avere una sua compiuta ratifica lessicale. «Riformista» era uno strappo troppo profondo, un passaggio troppo brusco. Si preferiva piuttosto «riformatore», termine più pudibondo e meno ideologicamente compromettente, e se negli anni Settanta si volevano le riforme e non più la rivoluzione, se i comunisti governavano intere Regioni e molte città e assorbivano nel loro orizzonte politico la concretezza del mondo sindacale, occorreva però aggiungere, quasi liturgicamente per allontanare la tentazione della diluizione ideologica e dello scolorimento identitario, che fossero «di struttura»: «riforme di struttura», così si allontanava almeno nel frasario lo spettro del pericoloso riformismo. Dimenticando, però, che poi riformismo non è soltanto un metodo, una strada più lenta e meno violenta per raggiungere il medesimo obiettivo, come se la differenza tra salto rivoluzionario e riformismo fosse principalmente una questione di velocità, ma proprio un altro obiettivo: la correzione «riformista» del capitalismo e del mercato a favore dell’eguaglianza, e non già l’uscita (la «fuoriuscita», si usava dire con formula che appariva chissà perché più elegante) dal capitalismo a favore di un’economia pianificata dove il mercato sia umiliato e persino abolito. Anche «socialdemocratico», del resto, risultava al tempo termine indigesto, quasi un insulto. Nella casa craxiana invece no, perché nell’Internazionale socialista che raccoglieva le forze riformiste in Europa, la socialdemocrazia era un orizzonte condiviso, almeno dal Congresso della Spd tedesca a Bad Godesberg, che sancì nel 1959 l’abbandono del marxismo. Craxi impose a una sinistra italiana ancora riluttante e malmostosa la sfida della cultura riformista che era orgogliosa di definirsi tale. Il Psi, che stava per estinguersi e che nelle elezioni politiche del 1976 aveva raggiunto il minimo storico, invece non era infiammato da questo orgoglio, a parte la sensibilità dell’autonomismo di Pietro Nenni, sul cui terreno il craxismo era cresciuto. Ma fu Craxi ad aprire quello che Luciano Cafagna, uno studioso acuto del mondo riformista (cresciuto con Antonio Giolitti assieme a Giuliano Amato) e la cui grandezza stenta anche oggi ad essere riconosciuta come dovrebbe se non incombesse l’ombra di una sciocca damnatio memoriae antisocialista, avrebbe definito «duello a sinistra». Ed era la forza e anche la baldanza di chi aveva scatenato questo «duello» ad alimentare attorno alla figura di Bettino Craxi un’atmosfera di ostilità, se non di demonizzazione ideologica. Un Psi subalterno, culturalmente arrendevole, politicamente gregario, tendenzialmente frontista, era un interlocutore accettabile per un partito di massa, tre volte più grande, egemone nel mondo della cultura, fortemente radicato nel senso comune di sinistra come il Pci. Ma Craxi era tutto il contrario, ed era un «contrario» aggressivo, fortemente fiero della propria autonomia e diversità. Cominciò presto a diffondersi nel Pci ancora «eurocomunista» la leggenda nera di un Craxi colpevole di aver sottoposto la nobile tradizione del socialismo italiano a una snaturante «mutazione genetica». Nell’immaginario della sinistra vicina al Pci, l’hotel Raphael, dove Craxi aveva posto il suo quartier generale, stava diventando quasi il covo del nemico (che poi si vorrà espugnare a suon di monetine e con le forme di un linciaggio simbolico nel momento più incandescente di Tangentopoli, anche a costo di mescolarsi davanti all’albergo-covo con leghisti e fascisti). Nelle feste dell’«Unità» si esibiva come forma iconica di avversione assoluta per il rivale del Psi «la trippa alla Bettino»: un fossato psicologico tra due partiti che sembravano ripiombati nello stesso clima scissionista del 1921, quando a Livorno si consumò, proprio alla vigilia del fascismo, la rottura leninista con il partito di Filippo Turati. Del resto Craxi non perdeva occasione per marcare la differenza rispetto al Pci e al clima del compromesso storico che rischiava di schiacciare tutte le forze intermedie. Nei giorni del rapimento Moro (16 marzo-9 maggio 1978) occupò lo spazio di una posizione favorevole alla trattativa per la liberazione del leader democristiano, privilegiando la difesa della persona sul culto statolatrico della politica, attirando su di sé l’ira dello schieramento della «fermezza». Non ebbe esitazione, malgrado le ambigue piazze pacifiste del «meglio rossi che morti», a pronunciarsi per l’installazione dei Pershing e dei Cruise nella base di Comiso (fortemente voluta e promossa, è il caso di ricordare, dal cancelliere socialdemocratico tedesco di allora, Helmut Schmidt) come risposta all’offensiva sovietica dei missili SS-20. Volle cancellare dal simbolo l’icona dal sapore bolscevico della falce e martello in favore di un garofano come contrassegno di una sinistra liberale, e persino «anticomunista», termine tabù almeno fino al crollo del muro di Berlino. E qualche anno dopo aprì un contenzioso sulla sterilizzazione della scala mobile, come misura anti-inflazionistica in un’Italia massacrata da un’inflazione mostruosa, destinato a provocare una frattura radicale con la maggioranza della Cgil. Craxi era duro, determinato, amato dai suoi seguaci ma circondato da un’antipatia invincibile da parte dei suoi detrattori. In un congresso socialista a Verona, non esitò, violazione plateale del bon ton politico, ad assecondare i fischi verso l’ospite Enrico Berlinguer. Era caratterialmente sbrigativo, con un’ombra di arroganza che secondo i suoi avversari non poteva che riflettersi negativamente sulla natura della sua stessa leadership politica. La sua predicazione a favore del cosiddetto «decisionismo», di una democrazia capace di decidere, emancipandosi dalle pastoie della lentezza consociativa e della paralisi istituzionale, che oggi appare quasi un’ovvietà, venne perciò liquidata come una velleità autoritaria e Craxi prese ad essere raffigurato con indosso gli stivali mussoliniani. La «grande riforma» craxiana fu vista e vissuta addirittura come un pericolo per la democrazia e non come un’opportunità per la sua rigenerazione. Qualche lustro più in là, con la Prima Repubblica in soffitta e Craxi confinato ad Hammamet, i contenuti della riforma craxiana entreranno nel cuore del dibattito politico, ma nessuno volle chiedere scusa a chi era stato bollato come «fascista» per avere proposto un disegno istituzionale troppo in anticipo sui tempi. Ma il paradosso principale è che proprio in quegli anni venne da parte socialista, anche grazie al riconoscimento di una sensibilità comune con i radicali di Marco Pannella, un risveglio nella difesa garantista dello Stato di diritto (alimentata dallo sfregio che si consumò con la persecuzione di Enzo Tortora) e nella battaglia a favore dei diritti civili. Un’attenzione liberale e libertaria e liberal-socialista (si parlò molto allora, specialmente con Enzo Bettiza, di un polo cosiddetto Lib-Lab), poco frequentata nella sinistra italiana e non solo italiana, e che peraltro è stata alla base della martellante polemica socialista e craxiana sulla natura irrimediabilmente autoritaria e liberticida dei regimi comunisti. Oggi sembra quasi lunare che si dovesse polemizzare sul totalitarismo comunista con chi non aveva spezzato in via definitiva tutti i legami con il mondo circondato dai reticolati del Muro di Berlino, ma ancora nel cuore degli anni Settanta Carlo Ripa di Meana, molto vicino al nuovo corso craxiano, venne fatto bersaglio di attacchi furibondi dai maggiorenti della cultura comunista per avere organizzato a Venezia una Biennale del dissenso che pure godeva del sostegno di Andrej Sacharov, perseguitato dal regime sovietico. La guerra contro la cosiddetta «propaganda anticomunista» era ancora in piena attività e solo tre anni prima da parte degli intellettuali del Pci Aleksandr Solženitsyn era stato accusato di avere «esagerato» con la sua denuncia del Gulag. Poi naturalmente la nostalgia gioca brutti scherzi, e si ricostruisce il passato depurandolo delle sue brutture. Come è una bruttura la condanna all’oblio che pesa ancora sulla figura di Craxi, svilita a caso giudiziario, cancellando un pezzo di storia italiana e un pezzo importante della storia della sinistra. Quando Massimo D’Alema entrò a Palazzo Chigi, qualcuno ebbe per esempio l’ardire di sostenere che si trattasse del primo uomo di sinistra a diventare premier. Era un errore, una gaffe storica, se non una menzogna deliberata, molto simile a quella diffusa da chi qualche anno prima aveva insinuato che il leader del Psi avesse addirittura depredato la fontana milanese davanti al Castello, trasportandola nottetempo ad Hammamet: una orribile fake news che nessuno ebbe il desiderio di contrastare nel furore della «caccia al Cinghialone». A precedere D’Alema a Palazzo Chigi era infatti stato proprio Bettino Craxi, leader di una sinistra riformista, liberale, moderna, ma senza soggezione nei confronti del potere incontrollato del mercato e del salotto buono dell’economia, che infatti lo ripagò con l’ostilità e addirittura con forme nemmeno velate di diffidenza antropologica. Se questa clamorosa dimenticanza non verrà sanata, ancora una volta non saremo stati capaci di fare i conti con noi stessi e di raccontare una storia completamente diversa dalla demonologia di comodo che ha dominato la memoria collettiva in questi ultimi vent’anni sulla stagione craxiana. Non per fare l’agiografia di Craxi, che commise molti e imperdonabili errori, ma per ristabilire un minimo di verità storica. Ben vengano un film e un anniversario per ricominciare a capire quello che è accaduto.
L’errore della sinistra: dopo Berlinguer ha preferito Mani Pulite a Craxi. Fabrizio Cicchitto il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il “problema Craxi” va molto al di là del “culto della memoria” che giustamente portano avanti la sua famiglia e quell’area politica e culturale che si richiama al socialismo italiano. Nella prima parte di questo articolo, ieri, abbiamo posto la questione del PCI. Il nodo centrale è costituito dalla scelta fondamentale fatta dal PDS negli anni 90 dopo il crollo del Muro e del comunismo in Russia e nell’Europa dell’Est. Recentemente, da una fonte insospettabile quale è Mario Tronti, è venuto il riconoscimento che dopo il Muro di Berlino i miglioristi offrirono l’unica via razionale e valida al PDS, quella riformista e socialdemocratica che aveva come conseguenza l’unità con il PSI di Craxi. Ma c’è di più. Giorgio Amendola addirittura nel 1964, prima della sua incredibile involuzione filosovietica, aveva proposto un partito unico della sinistra sulla base di una riflessione di straordinaria anticipazione degli eventi successivi: «Nessuna delle due soluzioni prospettate dalla classe operaia dei paesi capitalistici dell’Europa Occidentale degli ultimi cinquant’anni, la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino ad ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società, un mutamento del sistema». Amendola lanciò questo sasso nello stagno con grande anticipazione e quindi la sua suggestione fu bocciata da tutti, da un lato da tutto il PCI, dall’altro lato anche da Nenni e da Saragat. Nel PSI solo Fernando Santi la prese in seria considerazione. Nei primi anni ’90 “i ragazzi di Berlinguer” con sfumature differenziate fra Occhetto e D’Alema (perché il primo puntava ad una fuoriuscita “da sinistra” dal comunismo) seguirono la strada opposta, cioè quella espressa in modo netto proprio da D’Alema nel suo libro-intervista, che era quella di collocarsi nello stesso spazio del PSI sostituendosi ad esso e quindi puntando sulla sua distruzione, successivamente avvenuta cavalcando lo sbocco unilaterale di Mani Pulite. Perché parliamo di “sbocco unilaterale” di Mani Pulite? Perché Tangentopoli era un sistema che coinvolgeva tutti i grandi gruppi economici privati e pubblici (compresa la Fiat e la CIR) e tutti i partiti (compresi il PCI e la sinistra democristiana) tant’è che al suo decollo, quando ancora non era chiaro quale sarebbe stato il comportamento politico reale del pool dei Pm di Milano. Achille Occhetto si precipitò nuovamente alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani, sostenendo giustamente che altrettanto avrebbero dovuto fare Forlani per la DC e Craxi per il PSI. Poi invece il pool di Milano e il circo mediatico (composto dai quattro principali quotidiani i cui direttori o i loro delegati si consultavano ogni sera alle 19, dal TG3 di Sandro Curzi, già direttore di Radio Praga, da Samarcanda di Santoro), con una incredibile forzatura giudiziaria e mediatica, criminalizzarono Craxi e tutto il PSI, i partiti laici, il centro-destra della DC salvando il PDS e la sinistra democristiana malgrado che anch’essi si finanziassero irregolarmente (per una dimostrazione documentata di tutto c’è una bibliografia sterminata: fra tutti rimandiamo al libro fondamentale di Ivan Cecconi, purtroppo volutamente ignorato La storia del futuro di Tangentopoli). L’originario gruppo dirigente del PDS si è illuso che quella mediatica-giudiziaria fosse la scorciatoia che gli consentiva di conquistare il potere senza pagare dazio, cioè senza approdare ad una reale Bad Godesberg, anzi traducendo il leninismo in giustizialismo e la “diversità” comunista in molteplici forme di massimalismo sociale. Questa “furbizia” strategica e tattica ha invece portato il PDS-DS e poi il PD in un vicolo cieco. Prima essi si sono trovati davanti Berlusconi contro il quale, malgrado uno straordinario uso politico della giustizia, non sono mai riusciti a prevalere definitivamente. Nel 2011 entrambe le due coalizioni per evitare il collasso finanziario si sono dovute affidare al rigorismo assoluto del governo Monti, e l’intreccio fra impotenza dei governi e il rigorismo estremo ha prodotto il populismo antiparlamentare e antindustriale dei grillini e il sovranismo razzista di Matteo Salvini. Allora l’apertura di una riflessione su Craxi, in occasione del ventennale della sua morte, dovrebbe essere l’occasione per una parte almeno del PD non solo di esprimere un equanime giudizio su di lui, ma paradossalmente proprio per riflettere su se stessa, su alcune scelte di fondo riguardanti il rapporto con il maggior potere politico e mediatico oggi esistente in Italia, che è quello della magistratura, quindi sullo stato di diritto e sullo stato sociale, sull’immigrazione, sui rapporti con le imprese, con i ceti medi, con la classe operaia, con i giovani. Senza questo revisionismo a 360° che faccia davvero i conti con quella che a suo tempo è stata la felice provocazione craxiana nei confronti dell’establishment, espresso dall’intreccio fra berlinguerismo e scalfarismo, il PD è destinato ad una vita grama. La stessa rottura di Italia Viva dovrebbe preoccuparlo, non solo per quello che di dirompente assume qualunque iniziativa renziana, ma per il nocciolo culturale che, comunque, Italia Viva e anche Calenda esprimono rispetto alla stanca riproposizione degli stereotipi dell’Ulivo che dal 2008 ha esaurito il suo ruolo “propulsivo”.
· Craxi e l’impunità dei comunisti.
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti il 22 Novembre 2019 su Il Riformista. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui.Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre perseguito una linea dura antisovietica, ma per quanto possibile riformista e anche apertamente di sinistra purché schierata contro l’Urss. Al Dipartimento di Stato americano interessava aver la certezza che il personale di governo in Italia non andasse a spifferare ai russi segreti di natura militare e strategica. Ciò che invece era accaduto in alcuni casi con il personale specialmente democristiano. Le informazioni che sto cercando di ordinare hanno le loro fonti in alcuni testi fondamentali, ascoltati negli anni della mia presidenza della Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle influenze sovietiche in Italia, nel lavoro che ho svolto in quanto appartenente, per molti anni, alla delegazione parlamentare italiana presso la Nato. D’altra parte, il racconto che sto per fare non contiene alcun segreto ma solo molto buon senso e può essere facilmente verificato e confermato con ricerche accessibili. Cominciamo da Michail Gorbaciov. Chi era costui? Era il pupillo, il prescelto e selezionato dall’uomo più intelligente, anche spietato, ma molto ben informato dirigente che l’Unione Sovietica abbia avuto. Stiamo parlando di Yuri Andropov, che fu prima il sovrano direttore del KGB per ben quindici anni, dal 1967 al 1982, anno in cui successe a Leonid Breznev, l’uomo immobile dalle enormi sopracciglia. Andropov vide che la partita fra Urss e Stati Uniti con i loro alleati, era in prospettiva una partita persa. E allevò, come suo successore e uomo di fiducia, Gorbaciov, che aveva un appeal di tipo occidentale per vivacità intellettuale, età e anche per avere una moglie elegante come Raissa che poteva fare bella figura sulla scena internazionale. Poi le cose si svolsero in maniera convulsa e imprevista perché Andropov morì prematuramente il 9 febbraio 1984, troppo presto per consolidare la successione del suo candidato Gorbaciov, sicché le vecchie cariatidi del Cremlino insediarono il più immobilista della loro cerchia, Konstantin Cernienko. Gorbaciov fu costretto a saltare un turno e aspettare la morte di costui per salire sul podio più alto del governo sovietico. Per comprendere la natura della politica militare di quella fase, che riguardò direttamente la politica italiana per la vicenda dei cosiddetti Euromissili, occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo. Bisogna cioè risalire all’inizio della Guerra Fredda, quando i Paesi occidentali si erano riuniti nell’Alleanza Atlantica della Nato e quelli dell’Est, sotto stretto comando sovietico, nel Patto di Varsavia da cui si sfilò soltanto la Romania di Ceausescu, che pagò con la vita il suo sgarro in epoca gorbacioviana. Esiste un libro che si chiama A Cardboard Castle? – An inside story of the Warsaw Pact 1955-1991, che nessun editore italiano ha trovato conveniente tradurre e pubblicare. Questo testo, certificato dai documenti originali, lo si può acquistare via Internet e vale quel che costa. Il volume contiene, insieme a due eccellenti saggi, tutti i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, dalla prima – 1955 – all’ultima – 1991 – seduta. Se si ha la pazienza di leggere, si scopre che ogni riunione ripete con alcune varianti, lo stesso schema: le potenze occidentali attaccano proditoriamente il blocco dell’Est che, dopo aver fermato l’aggressione, prontamente contrattacca penetrando nell’Europa occidentale con operazioni velocissime e brutali, e uso di un buon numero di armi atomiche tattiche (cioè relativamente piccole ma capaci di polverizzare una città) per sigillare le coste atlantiche e rendere uno sbarco americano impossibile. Per questo il Patto di Varsavia aveva bisogno di missili “a medio raggio” (cioè non in grado di attraversare l’Atlantico e colpire gli Stati Uniti) ma capaci di mettere a tacere le difese europee. Qualcuno si chiederà a quale scopo l’Urss e i suoi satelliti avrebbero compiuto una tale azione. Sia Gorbaciov che Eltsin hanno fornito la spiegazione, ben illustrata anche dall’intellettuale dissidente russo residente a Londra Vladimir Bukowski, mio caro amico scomparso da poco, che scrisse un magistrale Urss, come l’Unione Sovietica voleva inghiottire l’Europa dopo essere stato internato proprio da Yuri Andropov in un lager in cui i prigionieri venivano mantenuti in stato di sonnolenza perenne. In breve, il programma che Andropov tentò disperatamente di spingere e che poi fallì, prevedeva una conquista fulminea dell’Europa occidentale, Italia compresa naturalmente, in cui sarebbero stati instaurati dei governi fantoccio ma con finte coalizioni precotte con ecologisti, finti socialdemocratici, non troppi comunisti per dare una parvenza “democratica”. I missili SS20 a testata multipla furono installati dai russi nei Balcani e in Italia si scatenò un inferno politico contro l’installazione di missili Cruise e Pershing 2 in Sicilia, capaci di contrastare tali armi. L’installazione cominciò nel 1983 e in Italia, come nei principali Paesi europei, le sinistre e i movimenti pacifisti dimostrarono duramente contro questi missili di risposta. Nella lotta politica che si svolse in Parlamento e sulla stampa, oltre che nelle piazze, il Pci dopo alcuni contorcimenti e qualche dissenso interno, si schierò sulla linea gradita all’Unione Sovietica. Questo causò una frattura molto profonda anche nell’Italian Desk di Washington, dove gli americani avevano sperato a lungo che il Partito comunista italiano seguisse l’indicazione di Berlinguer, che nel frattempo era scomparso, secondo cui ci si sentiva più protetti sotto l’ombrello della Nato. Ma anche con questa frattura, peraltro prevista realisticamente, non furono annullati i rapporti speciali tra la frazione filoamericana del Partito comunista e Washington.
· Craxi e l’ombra delle influenze esterne.
Francesco Perfetti per “il Giornale” il 22 maggio 2020. Michael Ledeen (Los Angeles, 1941) giunse in Italia negli anni '60. Era un giovane simpatico e cordiale, un ebreo americano discendente da una famiglia di origine russa trasferitasi in America nei primi del '900. Si era laureato con George Mosse, del quale era diventato collaboratore all'università del Wisconsin, ed era venuto nel nostro Paese con una borsa di studio per approfondire il ventennio fascista. L’intelligenza vivace, la curiosità intellettuale e la simpatia umana gli fecero stringere, nell' ambiente non esclusivamente di storici che ruotava attorno a Renzo De Felice, molte amicizie. Anche per me, mi fa piacere ricordarlo per incidens, Michael Ledeen divenne un caro amico, anzi l'«amico americano». I suoi primi libri apparsi in Italia, L' internazionale fascista (1973) e D' Annunzio a Fiume (1975), furono ben accolti, soprattutto il secondo che rappresenta a mio parere un momento di svolta nella letteratura storiografica sull' impresa fiumana. Tuttavia il successo e la notorietà giunsero con l'Intervista sul fascismo (1975) a Renzo De Felice destinata a suscitare un vespaio e un linciaggio intellettuale contro De Felice. A Roma Ledeen frequentava intellettuali, politici, giornalisti e inviava corrispondenze ad alcune testate americane. Nel 1976 scrisse, con la giornalista Claire Sterling un articolo sui finanziamenti sovietici al Pci che fece scalpore in Italia e in Urss e cominciò a far circolare la leggenda che egli fosse un agente della Cia utilizzato per screditare i comunisti. In seguito lavorò in importanti think tanks e ricoprì incarichi di rilievo presso la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa, il National Securuty Council diventando un ascoltato analista politico. Il tutto, sempre, con uno sguardo privilegiato rivolto all'Italia che considerava quasi una seconda patria. Un bilancio della sua intensa vita, di studioso ma anche di testimone e protagonista di alcune significative svolte della storia, Ledeen lo tenta oggi nel volume-intervista di Marco Cuzzi e Andrea Vento La versione di Michael. Un amerikano alla scoperta dell' Italia (Biblion) nel quale è ripercorso un quarantennio di storia italiana e internazionale: un periodo segnato da fatti come la recrudescenza della guerra fredda, la stagione del terrorismo, l' impatto epocale della caduta del muro di Berlino, la fine della prima repubblica in Italia e la nascita della seconda. Di molti di questi fatti Ledeen racconta verità sgradite o svela retroscena. A proposito dell' attentato a Giovanni Paolo II nel 1981, Ledeen ribadisce con forza, per esempio, il fatto che esso fu pianificato dai servizi segreti militari sovietici come risposta all' attivismo politico del pontefice in Polonia. E aggiunge che l'ordine fu impartito da Leonid Breznev in persona: «In un sistema totalitario perfetto è il vertice che decide tutto. L' Urss era un totalitarismo perfetto. E Breznev ne era al vertice». Sul ruolo dei servizi segreti sovietici Ledeen ricorda che furono attivi in Italia già dagli anni '20, all' indomani della rivoluzione russa, e stabilirono legami organici con i capi del partito comunista italiano regolarmente convocati a Mosca per ricevere direttive e finanziamenti. La loro più importante operazione nell' Italia del secondo dopoguerra fu «quella di prendere possesso della cultura di massa e degli intellettuali, delle scuole, dei libri di testo, delle università» realizzando una gigantesca falsificazione della Storia «per motivi puramente politici, quelli di conquistare e dominare la cultura italiana». La totale spregiudicatezza dei servizi sovietici emerse durante la stagione del terrorismo: essi «appoggiavano con una mano le Br e al contempo finanziavano anche il Pci» con un comportamento solo in apparenza ambiguo perché in realtà utilizzavano «i terroristi di estrema sinistra in Italia proprio per provare il patriottismo e la moderazione del Pci». Interessanti sono le considerazioni di Ledeen su Tangentopoli. A differenza di chi sostiene che l' inchiesta fu un regolamento di conti con Craxi dopo la vicenda di Sigonella, egli è categorico: «No. Craxi, lo so perché allora collaboravo con il Governo americano, era letteralmente adorato a Washington. Anche con tutta la faccenda di Sigonella e le altre cose! Craxi era il miglior alleato che l' America avesse potuti trovare in Italia in quegli anni. E ciò nonostante Craxi era il più filoarabo di tutti i tempi». E ancora: «Il governo americano, sia alla Casa Bianca sia al Dipartimento di Stato amava Craxi. Craxi era il miglior primo ministro immaginabile per loro». Tuttavia Tangentopoli segnò la fine di Craxi e aprì la strada al periodo berlusconiano iniziato con la vittoria elettorale del 1994: una vittoria che Ledeen aveva allora ritenuto «improbabile come tutti quanti» e che era giunta a sorpresa anche per il governo americano che, però, in quel momento, non si era mostrato preoccupato dal possibile successo della «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto. Gli americani erano sereni sia perché ritenevano che l' Italia fosse diventata «periferica» dopo la caduta del muro di Berlino sia perché erano convinti che l' ascesa al potere del Pds non sarebbe stata «una minaccia per la Nato e per la nostra alleanza». Ledeen ricorda anche come molti intellettuali americani tifassero per la vittoria dei postcomunisti: «avevano sempre creduto che i comunisti al potere fossero una cosa buona per l' Italia». Del resto, anche prima del crollo del muro, tra gli anni '70 e '80, alcuni ambienti della Cia caldeggiavano una politica distensiva nei confronti di Mosca e dei Paesi del Patto di Varsavia e strizzavano l'occhio al Pci. Nell' intervista Ledeen ricostruisce fatti e retroscena della politica italiana e internazionale fino ai nostri giorni e si lascia andare, sui protagonisti, a giudizi lapidari: Andreotti è «un uomo affascinante, innanzitutto un uomo del Vaticano»; Putin «un classico zar russo»; Netanyahu «il più bravo leader occidentale»; Macron, il «solito arrogante francese». Ce n' è anche per Papa Francesco, «simpatico, ma troppo di sinistra», e persino per Giuseppe Conte, «uomo di transizione» che «certo non è un Napolitano». Il tutto nel quadro di una interpretazione che, come giustamente recita il titolo, è «la versione di Michael».
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Novembre 2019. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui. Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre per