Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

L’AMBIENTE

 

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Veganesimo è una Religione.

Religioni alternative. Chi sono i Pastafariani.

La Scadenza dei Cibi.

Cibo: i "vizi" che ci fanno bene.

Quello che fa bene,… anzi fa male.

Tutto è Veleno.

Il biologico.

Le truffe alimentari: sofisticazione ed adulterazioni.

La Guerra della Pac.

Come si danneggia la Carne Italiana.

La guerra del Primitivo tra Puglia e Sicilia.

La pasta del Senatore.

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli animali misteriosi.

Gli animali geniali.

Gli eroi animali.

Le dimensioni contano in amore.

Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali.

Il Maschio Madre.

Animali a fuoco.

Sofferenza, morte ed estinzione degli animali.

Azioni di tutela degli animali.

L’Orso Papillon.

I Nazi-Animalisti.

Droga Animale.

Cosa non si fa per il foie gras.

Animali da Salotto.

Il Gatto.

I Cani.

Storia di Saturn, l’alligatore americano morto a Mosca a 84 anni.

Storia di Codamozza, la balena mutilata che gira in lungo e largo il Mediterraneo.

Il tonno rosso del Mediterraneo.

La mappa degli volatili in Italia.

L’Ostrica.

Le Vongole.     

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Il Terremoto dei ricchi.

Assicurazione obbligatoria contro le calamità naturali.

Terremoto e ricostruzione. 

Catastrofi naturali: conseguenze inescusabili.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Danno da Smog.

Quelli che…l’Inquinamento Acustico.

Mai dire plastica.

Com'è difficile riciclare.

La retorica ambientalista.

Il Bacino Padano fra le aree inquinate peggiori d'Europa.

Il Progresso. In Bicicletta…anzi, a piedi.

Diesel. L’Ossessione Ambientalista.

Gli ultrà ambientalisti.

La comunità energetica.

I Gretini.

Gli Anti-Gretini.

Lo strapotere delle lobby "green".

Il Costo del Climate Change.

Il clima che cambia e l'inquinamento partigiano.

I Peggiori incendi…

La “Terra dei Fuochi” e la Terra dei Ciechi.

Acqua sporca.

Le tragedie naturali…evitabili.

Chernobyl, verità e bugie sul disastro nucleare che ha cambiato il mondo.

Balcani inquinati.

Giappone Radioattivo.

Sicilia Radioattiva.

Lotta alla Tap.

Lotta alla Cimice Asiatica.

Lotta alla Xylella.

Albero europeo 2020.

 

 

 

L’AMBIENTE

 

INDICE PRIMA PARTE

 

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Veganesimo è una Religione.

Roberto De Ponti per corriere.it il 21 gennaio 2020. Se lo scorso anno il sorprendente Zalgiris Kaunas raggiunse i playoff di Eurolega, (buona) parte del merito va riconosciuta ad Aaron White, pallidissima ala 26enne di Strongsville, Ohio, primo per minutaggio e validissimo giocatore di ramazza, punti quando necessario ma ogni cosa giusta fatta per la squadra, in difesa e in attacco. Per capirci: quasi 9 punti di media a partita, con il 58% al tiro, più rimbalzi e altre amenità. Quando Milano si è mossa per rinforzare il reparto lunghi, con Gudaitis ancora in bacino di carenaggio, il primo giocatore a cui ha pensato è stato proprio White. E dopo i primi allenamenti in biancorosso, chi lo osservava correre e saltare diceva: mai visto un lungo veloce come lui. Poi è cominciata la stagione, e Aaron White si è spento come un lumicino esposto al vento: timido in campo, per nulla esplosivo, persino deleterio. E non è un caso che l’Olimpia colga al volo l’occasione e ingaggi Luis Scola, tanto talento sì, ma anche 40 anni il prossimo 30 aprile. E qualcuno nello staff milanese comincia a chiedersi: vuoi vedere che il fatto di aver cambiato regime alimentare c’entra qualcosa? Perché la novità è che a giugno, appena firmato il sostanzioso contratto con l’Olimpia, Aaron White è diventato vegano, senza concedersi alcuno sconto. Una scelta sostenuta dalla moglie, soprattutto una scelta non trattabile. E l’americano cresciuto a bistecche e hamburger, nato nella «Città dei duri», dall’oggi al domani è diventato un ragazzone di 206 centimetri che a tavola rifugge qualsiasi alimento di origine animale. È sicuramente una coincidenza, Lewis Hamilton per esempio si professa vegano e questo non gli impedisce di vincere titoli mondiali in serie in Formula 1, ma è un fatto che il White in maglia biancorossa sia la controfigura triste di quello di Kaunas: i minuti calano partita dopo partita, le prestazioni non decollano, il coach-presidente Ettore Messina alla fine si arrende. E lo taglia. Il paragone con l’Aaron White dell’anno prima è impietoso: in Eurolega 10 minuti di media contro i 25 e passa dell’anno prima, 2,1 punti (contro 8,2), 1,9 di valutazione complessiva (10,6 nel 2018-19). Da oggi White svernerà al Tenerife, formazione di seconda fascia in Spagna. Da quelle parti non si preoccupano del regime alimentare dei giocatori, all’ala dimostrare che di semplice coincidenza appunto si trattava. Peraltro, qualche ora dopo aver annunciato il taglio di Aaron White, l’Olimpia con un comunicato ha liquidato anche l’altro acquisto pesante della scorsa estate, il play Shelvin Mack: di lui non si hanno notizie di rinunce a cotolette o uova, trattasi di semplice fallimento sul campo.

Hamilton vegano, le ragioni di una scelta: «Per gli animali e per stare meglio. Chi non lo è ci perde». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Sono stati l’amore per gli animali (due su tutti, i suoi adorati cani Roscoe e Coco, che hanno pure il loro seguitissimo profilo Instagram) e il rispetto per il pianeta a spingere Lewis Hamilton a cambiare dieta tre anni fa e a diventare vegano. Poi però il 35enne campione di Formula 1 si è accorto che quel tipo di alimentazione faceva bene anche a lui, perché si sentiva pieno di energia e pure le sue prestazioni miglioravano sensibilmente. Così non solo non ha più mollato il veganismo, ma ha pure aperto un ristorante a Londra — il Neat Burger — dove si servono piatti rigorosamente senza carne, latticini e prodotti di origine animale. «In definitiva, l’obiettivo di tutti è di sentirsi bene e restare costanti, senza avere quelle continue oscillazioni nei livelli di energia che ti portano su e giù — ha spiegato il pilota britannico della Mercedes al magazine GQ Hype — e il veganismo ha sradicato proprio questo. Quando avevo 22 anni, ero un talento grezzo, avevo un sacco di energia, ero in forma e non avevo dolori, ma nella vita bisogna sempre cercare di migliorarsi ed è appunto quello che ho cercato di fare». Per alzare l’asticella delle sue performance Hamilton si è posto domande del tipo «come posso affinare la mia vista? Come posso migliorare le mie reazioni? Come posso semplificare l’ergonomia nella macchina?» e tutte le risposte che ha trovato sembravano spingerlo nella direzione vegana. «Il modo in cui dormivo sapevo che non andava bene — ha concluso infatti il sei volte campione iridato nell’intervista — perché l’intestino non era a posto e quello è il nostro secondo cervello. Poiché però ci viene insegnato fin da piccoli a bere latte e a mangiare carne per garantirci l’apporto di proteine, ho iniziato a esaminare altre aree di ricerca attorno a questo. Il primo pensiero è stato per gli animali e per il pianeta, ma poi ho testato l’impatto di questo tipo di alimentazione sul mio corpo ed è un vantaggio gratuito che ho intenzione di sfruttare, ma se gli altri non vogliono farlo, pazienza, sono loro che ci perdono».

Gb, sentenza storica: il veganesimo è come una religione, non è discriminabile. L'impiegato Jordi Casamitjana ha fatto causa alla sua società per essere stato discriminato perché vegano. Ha vinto e la sentenza recita che il veganesimo etico è in tutto e per tutto paragonabile a una religione o a un credo filosofico, e i suoi seguaci non possono essere sottoposti a discriminazione. Enrico Franceschini il 3 gennaio 2020 su La Repubblica. Il veganesimo equivale a una filosofia e come tale è protetto dalla legge. Un tribunale del lavoro inglese ha emesso oggi questa storica sentenza sul ricorso di un vegano che si è sentito discriminato dalla propria azienda e infine licenziato a causa delle sue convinzioni. Il giudice Robin Postle ha stabilito che il “veganesimo etico” ha diritto di avere una protezione legale simile a quella di “un credo filosofico o una religione”, rientrando dunque nell’ambito dei diritti garantiti dall’Equality Act, una legge del 2010 sull’eguaglianza di trattamento. Le altre categorie sono età, sesso, orientamento sessuale, razza, religione, maternità, disabilità e matrimonio. Il caso è stato portato davanti alla corte di Norwich da Jordi Casamitjana, 55 anni, un dipendente della League Against Cruel Sports, associazione per la difesa dei diritti degli animali. L’uomo ha scoperto che la sua azienda investe parte del fondo pensione in una società che fa esperimenti sugli animali. Ha fatto presente che questo era in contraddizione con lo spirito della ditta stessa, ma non gli hanno dato ascolto. Allora ha cominciato a informare i suoi colleghi e a questo punto è stato licenziato. “Sono molto felice per questo verdetto”, commenta Casamitjana, “spero che abbia conseguenze positive per tutti i vegani”. La League Against Cruel Sports non si è opposta alla sentenza, a cui ne dovrà seguire un’altra sulla legalità del licenziamento. L’azienda afferma che il dipendente ha perso il posto per “comportamento inappropriato” e non per la sua scelta vegana. Casamitjana si definisce un “vegano etico”, che cioè non si limita a nutrirsi con una dieta esclusivamente ricavata dalle piante ma osserva principi vegani in ogni manifestazione dell’esistenza. Non indossa capi di abbigliamento di lana, pelle o altri materiali ricavati da animali. E si sposta a piedi per non prendere l’autobus, poiché un autoveicolo rischia di schiacciare insetti, volatili o altri animali sotto le ruote. Pur non avendo valore di precedente legale perché emessa da un tribunale del lavoro, la sentenza potrebbe avere ampie conseguenze. “Ci sarebbe da sorprendersi”, commenta la Bbc, “se qualcuno non citasse in giudizio la propria azienda sostenendo di venire discriminato a causa delle proprie convinzioni in materia di cambiamento climatico, per esempio perché rifiuta di viaggiare per lavoro in auto preferendo usare un’alternativa meno inquinante come il treno”.

Camillo Langone per "il Giornale" il 3 gennaio 2020. S ì, certo, il veganesimo è una religione. Se il caso del vegano inglese licenziato per avere svelato investimenti aziendali nel campo della sperimentazione animale fosse presentato a me, anziché al giudice di Norwich (città da cui proviene il Norwich terrier, simpatico cagnetto selezionato per la caccia ai conigli selvatici), non avrei dubbi: il dipendente non ha fatto che seguire gli inflessibili comandamenti della propria religione e purtroppo (il purtroppo è solo mio, il giudice non potrebbe permetterselo) va reintegrato ai sensi della legge anti-discriminazione. Perché ne sono così convinto? Perché il veganesimo è alla stregua del cristianesimo, dell' islam e dell' induismo «un complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro» (fonte Treccani). I vegani ritengono sacri - ossia intoccabili - gli animali, sempre o quasi sempre anteposti agli uomini. La sperimentazione animale non è un capriccio di ricercatori sadici, è una necessità scientifica che spesso non ha alternative ma vallo a spiegare ai fanatici del tofu che i nuovi farmaci per curare malattie terribili o si provano sulle bestiole o si provano sui detenuti (sembra che lo facciano in Cina e la losca pratica non turba i sonni di nessuno). Il profetico Orwell scrisse che «ci sono persone, come i vegetariani o i comunisti, con cui è impossibile discutere». Il veganesimo è una religione per il suo dogmatismo, per il suo proselitismo, per il suo fanatismo: il dipendente licenziato, forse un caso un po' limite, ne convengo, andava a lavorare a piedi e non in autobus per non schiacciare insetti e uccellini lungo il tragitto. Con le formiche come faceva? Meglio non chiederglielo, altrimenti potrebbe giurare che nutrirsi di sola lattuga garantisce 12 decimi alla visita oculistica. Il veganesimo è una religione anzi di più, una setta religiosa, vista la sua tendenziale pericolosità: numerosi studi avvertono che una dieta vegana stretta, senza integrazione di vitamina B12, è nociva per gli adulti e letale per i bambini. Probabilmente danneggia pure i piccoli ma carnivorissimi norwich terrier (ci sono vegani che vogliono convertire perfino i loro poveri cani: se non è proselitismo questo...). Fossi nel giudice di Norwich farei reintegrare il vegano licenziato e darei un consiglio alla ditta: la prossima volta assumete un cristiano ossia un onnivoro perfetto, se seguace coerente di colui che mangiava molto pesce e a Pasqua anche l' agnello.

Erica Orsini per “il Giornale” il 3 gennaio 2020. Jordi Casamitjana è uno zoologo di 55 anni, di cui più di 20 vissuti nel Regno Unito a battersi e a lavorare per la protezione degli animali. La gente lo conosce come «l' uomo delle vespe» perché esperto di vespe sociali. Ma Jordi è anche un «vegano etico» e da oggi potrebbe entrare a buon diritto nella storia del veganesimo. Un anno fa ha deciso di portare in tribunale la League Against Cruel Sports, un ente di beneficenza dove lavorava come capo della politica e della ricerca che lo aveva licenziato nel 2018. Aveva scoperto che l'ente investiva in fondi pensione collegati a società che facevano test sugli animali e aveva diffuso quest' informazione. L'ente l' aveva licenziato per malacondotta, ma lui ritiene che la ragione reale sia il suo essere vegano quindi vuole denunciare i suoi ex datori di lavoro per discriminazione. Prima però ha dovuto presentare un' istanza chiedendo che il veganesimo venga assimilato a un credo filosofico o religioso e come tale difeso dalla legge sull' uguaglianza, il 2010 Equality Act. Oggi, a Norwich, per la prima volta un tribunale civile sentirà le sue ragioni e deciderà se concordare con lui. Se questo zoologo di 55 anni dallo sguardo innocuo, che presenzia a tutte le marce anìmaliste possibili portandosi dietro enormi volpi di peluche e frequenta solo donne o uomini vegani come lui, dovesse vincere la causa, lascerebbe un segno nella storia di quella che è già considerata da molti non una semplice opzione dietetica ma una scelta di vita vera e propria che ti definisce come essere umano. Decidendo a suo favore il giudice stabilirebbe che il signor Casamitjana non può venir discriminato per quello che è allo stesso modo come non possono esserlo un cristiano o un musulmano. «Credo o religione» è una delle categorie che definiscono una persona difese dalla legge. Le altre sono età, sesso, disabilità, cambio di genere, unioni civili e religiose, gravidanza e maternità, razza e orientamento sessuale. Per «meritare» di entrare nel novero il veganesimo deve dimostrare di avere alcune caratteristiche tra cui quella di non esser in conflitto con i diritti fondamentali degli altri. Il legale di Casamitjana, Peter Daly, è ottimista e si augura che questa sentenza possa veramente segnare un punto di svolta per tutti I vegani. «Se vinceremo ha dichiarato alla Bbc potremo basarci su questa decisione per combattere le discriminazioni contro i vegani nel mondo del lavoro, nel commercio di beni e servizi, nell' istruzione». I rischi di una simile decisione non sono tuttavia inesistenti laddove I principi vegani potrebbero andare a scontrarsi con quelli di altre persone, per esempio con le convinzioni di alcuni medici convinti che una dieta così ristretta possa portare i figli delle coppie vegane alla malnutrizione e alla morte. Oggi nel Regno Unito vivono 600 mila vegani e il numero continua ad aumentare. La carne rossa ha perso il 4 per cento nei primi sei mesi del 2019 a fronte di un aumento del 18 per cento delle vendite di alimenti sostitutivi. Per il «regno del bacon» è già una sconfitta morale.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 13 gennaio 2020. La dieta vegana é rischiosa per il cervello. Questo tipo di alimentazione, esclusivamente vegetale e priva di prodotti di origine animale, a causa della scarsità di un nutriente fondamentale per il benessere cerebrale, la Colina, determina la riduzione della funzionalità encefalica, con effetti, a lungo termine, patologici. La Colina, denominata Vitamina J, con struttura simile alle vitamine del gruppo B, è una molecola che interviene come coenzima in numerose reazioni metaboliche per il corretto funzionamento del sistema nervoso, ed è un costituente fondamentale dei fosfolipidi che compongono la membrana cellulare, della quale ne assicura l' integrità. Ma la Colina soprattutto è indispensabile per la trasmissione dei segnali nervosi, che si attivano con la sua trasformazione in Acetilcolina, il neurotrasmettitore fondamentale per mantenere la giusta funzionalità neuro-encefalica, e la cui carenza facilita l' insorgenza di depressione, perdita della memoria, sindrome di Tourette, bipolarismo, fino alla comparsa precoce dell' Alzheimer.

AZIONE PROTETTRICE. La Colina inoltre, ha un' azione protettrice verso tutti gli altri organi del corpo umano, poiché, facendo parte delle membrane delle cellule, ne controlla l' integrità, la fluidità e la giusta vitalità, e svolgendo una importante azione antiossidante, riduce il danno dei radicali liberi che si formano durante l' attività fisica, ritardando, per esempio, il senso della fatica. La Colina favorisce anche la normale funzione cardiovascolare, contrastando, grazie alla sua potente azione antinfiammatoria, gli effetti dell' Omocisteina, un aminoacido solforato il quale, se non metabolizzato e non contrastato nel sangue, ha effetti tossici su cuore, rene e cervello. La Colina viene normalmente sintetizzata dal fegato, e per il suo metabolismo in medicina viene utilizzata per tenere sotto controllo i livelli di colesterolo nel sangue, per proteggere la salute epatica in caso di epatite o di cirrosi, oltre che somministrata nelle succitate forme di demenza, di disturbo bipolare, di atassia cerebellare, nelle convulsioni e nella schizofrenia. Tuttavia la quantità prodotta dal fegato non è sufficiente a soddisfare le esigenze dell' organismo , e quindi deve obbligatoriamente essere introdotta da fonti dietetiche e integrative, e le fonti primarie di Colina si trovano nella carne di manzo, di pollo, nel pesce, nelle uova e nei latticini, ovvero i primi alimenti eliminati ed esclusi nelle diete vegane. La Colina é presente in quantità ridotte anche nei semi di soia, nel germe di grano, nello zenzero, nel lievito di birra e in alcune verdure come i piselli, il cavolo, la lattuga e il cavolfiore, ma tali fonti non sono utilizzabili né sufficienti per l' assorbimento intestinale di tale sostanza, poiché ne contengono meno di 100mg al chilo, mentre le dosi consigliate vanno da 250mg a 1gr al giorno, ed in casi specifici, a seconda delle necessità, si può arrivare fino a 2-3 grammi pro die. Tale molecola inoltre è fondamentale per il metabolismo dei grassi, in quanto, essendo necessaria per la formazione di lecitina, protegge le cellule del fegato aiutando a mantenere corretti livelli di trigliceridi e colesterolo, favorendo il metabolismo dei lipidi, e quando presente in quantità ottimali riduce le adiposità localizzate (girovita, fianchi e cosce) grazie alla riduzione delle cellule che contengono i grassi stessi, prevenendo in tal modo anche le malattie aterosclerotiche.

NUTRIENTI ESSENZIALI. Questo nutriente essenziale risulta purtroppo sempre carente in chi segue un regime vegano, ed é stato dimostrato che in coloro che ne sono totalmente privi, dopo una sola settimana compare uno stato ipertensivo, che torna normale non appena la dieta viene integrata di nuovo con la Colina, che è disponibile come fofatidil-colina in pillole, od anche come cloruro in forma liquida. La dieta vegana quindi, può portare a deficit di assorbimento di nutrienti essenziali e fondamentali per la salute generale, tra cui acidi grassi, minerali e vitamine, in particolare la B12, per cui vengono consigliate regolari integrazioni di tali componenti, e tali integratori alimentari non devono essere solo "vegetali" , come ad esempio la spirulina, poiché tale apporto non è biologicamente utile a sopperire la carenza, soprattutto nel periodo pediatrico, nel quale possono insorgere gravi forme di malnutrizione, oltre a maggiori rischi per talune patologie, incluse quelle cerebrali.

·        Religioni alternative. Chi sono i Pastafariani.

Religioni alternative. Chi sono i Pastafariani, adoratori del dio Spaghetto che prendono in giro gli integralismi. In testa si mettono uno scolapasta: che cos’ha di meno rispetto a un chador, un turbante o una kippah? E se ha dignità scolastica il creazionismo, allora si può insegnare anche che tutto origina da una tagliatella. Ecco chi sono i i fedeli: diffusi in tutto il mondo, presto riuniti in Concilio a Roma. Cinzia Sciuto il 09 gennaio 2020 su L'Espresso. Se ne sono stati per secoli, forse per millenni, tranquilli in disparte, praticando la propria fede in privato e passando del tutto inosservati, al punto che nessuno sapeva neanche che esistessero. Poi è accaduta una cosa che li ha scossi dal loro torpore e li ha indotti a venire allo scoperto. Nel 2005 il Consiglio per l’Istruzione del Kansas, negli Stati Uniti, propose di inserire l’insegnamento del Disegno Intelligente accanto alla teoria dell’evoluzione di Darwin nei corsi di scienze nelle scuole. Una proposta che indusse Bobby Henderson, con riluttanza, a uscire allo scoperto rivelando al mondo di essere il profeta del pastafarianesimo. Armato di carta e penna, Henderson scrisse al Consiglio una lettera pretendendo che, accanto alle due sopra menzionate, venisse insegnata anche la teoria pastafariana sull’origine dell’universo, e minacciando in nome del principio di non discriminazione azioni legali nel caso la sua richiesta non fosse stata accolta. Nella lettera Henderson, accludendo anche un disegno esplicativo, spiegava che i pastafariani credono che il mondo sia stato creato dal loro Dio, il Prodigioso Spaghetto Volante, e che tutte le schiaccianti prove scientifiche che convergono a sostegno della teoria dell’evoluzione di Darwin non siano che intenzionali interventi del Prodigioso, che si diverte a farci credere che le cose stiano in questo modo (il perché è un mistero della fede). Da allora i pastafariani hanno deciso di non voler più tollerare trattamenti discriminatori. Sebbene i fedeli del Prodigioso, come ci spiega Scialatiella Piccante I, Pastefice massima (chiamata anche Pappa) della Chiesa Pastafariana Italiana (Cpi), siano dell’idea che la religione debba essere una questione privata e che lo Stato debba essere pienamente laico, fino a quando le altre religioni godranno di una condizione privilegiata, i pastafariani pretenderanno almeno pari trattamento. A questo scopo un gruppo di fedeli italiani nel 2014 si è riunito in una formale Associazione religiosa: «È il primo passo», spiega la Pappa italiana, «per poi assumere la personalità giuridica e fare tutto ciò che occorre per chiedere l’Intesa allo Stato: vogliamo l’8 per mille, il liscafisso accanto al crocifisso nelle scuole, i cappellani pastafariani nelle carceri e negli ospedali». Diversi sono i casi di discriminazione di cui i pastafariani sono vittime. Nella maggior parte degli Stati al mondo, per esempio, non è consentito indossare copricapi nelle foto dei documenti ma molto spesso la legge prevede delle deroghe per motivi religiosi a questo divieto. Così ebrei, sikh, musulmane possono indossare la kippah, il turbante o l’hijab su passaporti, carte d’identità e patenti. E perché i pastafariani non possono invece indossare il loro copricapo sacro, lo scolapasta rovesciato? D’altro canto in uno Stato laico è difficile individuare dei criteri oggettivi per stabilire chi ha diritto di accedere a simili deroghe e chi no. E proprio giocando sulle ambiguità di uno Stato che davvero laico non è, alcuni pastafariani sono riusciti a ottenere il permesso di apparire sul documento d’identità con uno scolapasta in testa, come qualche anno fa Lindsay Miller in Massachusetts, mentre analoga richiesta di un pastafariano olandese è stata recentemente respinta perché l’Alta Corte dell’Aia non ha riconosciuto il pastafarianesimo come religione. Eppure, oltre ai già menzionati simboli sacri, come tutte le religioni che si rispettino il pastafarianesimo ha le proprie credenze, i propri riti, i propri ministri di culto, il proprio codice morale. Per essere pastafariani non è necessaria nessuna conversione, né tantomeno essere iscritti all’Associazione, «ma chi vuole risvegliare il proprio pirata interiore», spiega Scialatiella Piccante I, «lo fa tramite il pastezzo , un rito di iniziazione celebrato da un ministro di culto, durante il quale il fedele sceglie un nome pastafariano e con il quale viene accolto nella comunità» (la quale comunque, è bene precisare, accoglie tutti, pastezzati e non). C’è poi anche il pastrimonio (anche questo del tutto facoltativo) con il quale si riceve la pennedizione sulla propria famiglia, rigorosamente tradizionale. È com’è la famiglia tradizionale pastafariana? «È quella nella quale», spiega la Pappa, «due o più persone, di sesso uguale o diverso, purché maggiorenni e consenzienti, decidono di stringere un legame basato sull’amore, la parità, il rispetto reciproco». E a difesa della famiglia tradizionale pastafariana, minacciata da sessismo e omofobia, da qualche anno la Cpi invita i suoi fedeli a delle teglie di preghiera nelle piazze delle città: le cosiddette Tagliatelle in piedi. Questo atteggiamento di grande apertura è la cifra del pastafarianesimo: persino gli “Otto Condimenti” rivelati dal Prodigioso al suo profeta Henderson e contenuti nel “Libro del Prodigioso Spaghetto Volante”, il testo sacro del pastafarianesimo, sono più degli inviti a vivere meglio lo spirito del pastafarianesimo che degli ordini. «Perché il Prodigioso Spaghetto Volante», è ancora Scialatiella Piccante I a parlare, «non impone, non giudica, non comanda, ma consegna ai suoi fedeli dei suggerimenti per comportarsi da buon pastafariano». Il modello a cui i fedeli si ispirano (anche nell’abbigliamento) è il pirata, non quello che ruba e depreda, ma quello che va alla scoperta del mondo con curiosità e apertura, quello che non ha la verità in tasca, che non ha un rigido elenco di regole a cui attenersi, ma che insieme alla sua ciurma negozia continuamente le norme della convivenza, quello che è sempre in cerca del tesoro, quello che si gode la vita, perché la vita merita di essere goduta fino all’ultimo istante. Sebbene il proselitismo non faccia parte del dna di questa religione, la Chiesa pastafariana intende comunque dare il suo contributo al progresso della società con alcune iniziative. La più recente è la campagna “Dioscotto”, con la quale la Cpi ha aderito alla campagna internazionale “#endblasphemylaws” per l’abolizione delle leggi sulla blasfemia in tutto il mondo. In Italia la blasfemia non è più un reato penale ma viene comunque punita con un’ammenda. «E questo», spiega Scialatiella Piccante I, «rappresenta una forte limitazione della libertà di espressione, specialmente per gli artisti». Ma vi offenderete anche voi se qualcuno bestemmia il vostro Dio, no? «Ma figuriamoci, noi non ci offendiamo per nulla! Semmai ci facciamo una risata, che non fa mai male. E neanche il Prodigioso si offende: francamente, se ne infischia. D’altro canto, se volesse difendersi da una qualche accusa o insulto, ha tutti i poteri per farlo, non c’è nessun bisogno che ce ne occupiamo noi. Per questo nella nostra campagna abbiamo usato quella che sarebbe la peggiore bestemmia per il Dio dello Spaghetto Volante: Dioscotto! Il nostro Dio ci invita a non prenderci (e a non prenderlo) troppo sul serio, per questo usiamo spesso l’ironia. Ed è questa la buona novella che noi annunciamo al mondo».  Il pastafarianesimo potrebbe essere definito un monoteismo “debole”: ha un solo Dio, sì, ma è un Dio fallibile, disinteressato, giocherellone, sempre un po’ brillo e un po’ gianburrasca, mai geloso e meno che mai vendicativo, indifferente alla fede degli umani, i quali sono dunque chiamati a rispondere esclusivamente alla propria coscienza. Sono in parecchi però a pensare che non sia una “vera” religione ma solo una boutade, una provocazione. E in effetti tutto il vocabolario pastafariano, che sembra fare il verso a quello della tradizione cristiana, indurrebbe a pensarlo. «Sono solo illazioni», risponde la Pappa, «È naturale che provenendo dallo stesso ambiente linguistico abbiamo dei termini simili, e poi la nostra religione è una delle più antiche del mondo per cui non ci sorprende che altri ci abbiano imitato. Il motivo per cui in molti pensano che sia il contrario è legato al fatto che noi per molto tempo abbiamo vissuto la nostra fede in privato. Ma noi, come il nostro Dio, non siamo né invidiosi né suscettibili: se gli amici di altre religioni si ispirano ai nostri sacramenti e al nostro vocabolario, non possiamo che esserne felici, Ramen». Adesso che il pastafarianesimo si sta diffondendo e strutturando iniziano anche a sorgere problemi di interpretazione della parola di Dio. Per questo la Pappa italiana ha deciso di convocare il Primo Concilio della Chiesa Pastafariana mondiale, che si terrà a Roma in primavera. «A partire da un problema di traduzione di uno degli otto condimenti», spiega, «ci interrogheremo su quanto la traduzione incida sulla tradizione ». Questione annosa, che assilla un po’ tutte le religioni. Il Concilio sarà anche l’occasione per un confronto tra le Chiese Pastafariane diffuse nel mondo, per esplorare i diversi modi di vivere e applicare il pastafarianesimo. D’altro canto, paese che vai, religione che trovi.

·        La Scadenza dei Cibi.

Da "tuobenessere.it" il 7 maggio 2020. Una domanda che si pongono in molti a tavola è quella che riguarda i surgelati? Fanno male? Dipende. Se consumati saltuariamente e scelti con attenzione possono risolvere un pasto in modo veloce, sono facili da preparare e dal punto di vista nutrizionale, proprio grazie al congelamento, mantengono intatte le proprietà nutritive, al contrario dei prodotti freschi che si deteriorano in fretta e quindi andrebbero consumati entro breve. Ovvio che se la scelta cade su calzoni e pizze iperfarcite o prodotti conditi con salse al formaggio o intingoli vari, non va bene, soprattutto se state cercando disperatamente di perdere peso o soffrite di ipertensione. Molti surgelati infatti contengono elevati livelli di sodio, di certo non benefici neanche per chi deve depurarsi. Oltre al sodio spesso sono presenti conservanti, un altro buon motivo per consumarli solo di tanto in tanto. Chi è a dieta davanti ad un surgelato farebbe fatica a calcolare la porzione esatta  di cui ha bisogno, i surgelati infatti sono già porzionati e spesso comprendono verdura, cereali e altri alimenti. Per essere sicuri di consumare un pasto bilanciato con tutti i macronutrienti necessari al nostro fabbisogno energetico, spesso occorre aggiungere al surgelato che in media fornisce solo 250 -300 calorie, un contorno di verdura oppure del pesce, carne o un cereale. Consumando il solo surgelato si rischia di andare incontro a carenze nutrizionali e ad un rallentamento del metabolismo dovuto alle poche calorie ingurgitate. Ma perchè non imparare a leggere l’etichetta dei surgelati? In linea di massima perchè un surgelato costuituisca un pasto bilanciato,devono essere indicate le calorie, 250-300, ci devono essere meno di 4 gr di grassi, meno di 800 mg di sodio, una tazza di verdura, 1/2 tazza di cereali, 3/4 di proteine come carne bianca, pesce o carne magra. Vi piacciono i burghy di soia? Controllate che la soia sia indicata come primo o secondo ingrediente.

Tommaso Galli per "corriere.it" il 21 aprile 2020.

Non sempre la data di scadenza determina la fine di un alimento. C'è chi è super organizzato. E divide la dispensa in scompartimenti: le farine tutte insieme e lo scatolame da un'altra parte. E chi invece stipa tutto come se fosse un tetris. In entrambi in casi, però, in questi giorni di quarantena e di grandi spese può scappare una data di scadenza. E così il barattolino di yogurt rimasto nell'angolo, per dimenticanza o noncuranza, finisce per esser buttato via. Ma davvero la data di scadenza determina la fine di un alimento? Nella maggior parte dei casi no. Perché è solo un'indicazione dell'azienda. Ciò significa, anche come riporta il New York Times, che possiamo mangiare i cibi scaduti. Anche a distanza di giorni, a volte di mesi e addirittura di anni. 

In questo modo si diminuisce lo spreco alimentare. Insomma, è sempre bene controllare lo stato di quello che stiamo per buttare. Senza affidarci solamente a quanto riportato in etichetta. Anche perché in questo modo si potrebbe ridurre notevolmente lo spreco alimentare. I supermercati che vendono cibo scaduto esistono già un po' in tutta Europa, ma è quello che possiamo fare giornalmente a incidere di più. Ecco perché è stato portato avanti dalla Tafel Deutschland, organizzazione no-profit tedesca che dal 1993 consegna generi alimentari a chi è più in difficoltà, una ricerca per capire quanto si sbagliano in media, in difetto, le scadenza riportate sulle confezioni degli alimenti.

I risultati. Si scopre così che la pasta e il riso potrebbero essere consumati anche fino a un anno dopo la data di scadenza riportata in etichetta. Come tutto lo scatolame. E addirittura cibi considerati più delicati resisterebbero ancora a lungo. 

Latte. Il latte a lunga conservazione, lo dice già il termine, dura molto di più. Ma anche quello fresco ha un margine di resistenza rispetto alla data di scadenza. Secondo la ricerca, infatti, durerebbe in media sempre un paio di giorni in più. Il consiglio è poi sempre quello di assaggiare. 

Pane. Messo in freezer può durare anche anni. Se lasciato all'aria aperta il rischio, al massimo, è che diventi raffermo. Ma anche se scaduto può resistere, come il latte, qualche giorno in più senza nessun problema.

Uova. Le uova durano a lungo: dalle tre alle quattro settimane. L'importante è saperle conservare.

Formaggi. I formaggi a pasta dura possono tranquillamente essere mangiati oltre la loro data di scadenza. Nel caso in cui si formi la muffa sulla parte esterna, basta tagliarla e consumare il resto.

Riso e pasta. Se conservati in contenitori ermetici o nelle loro confezioni, riso e pasta possono essere consumati anche un anno dopo la data indicata sul retro.

Miele e zucchero. Aceto, miele, vaniglia o altri estratti, zucchero, sale, sciroppo di mais e melassa possono durare praticamente per sempre con pochi cambiamenti di qualità.

Farina. La farina bianca subisce, anche a distanza di mesi, ben poche alterazione. Quella integrale, contenendo il germe di grano, tende però a irrancidire più facilmente.  

Cibo in scatola. I pomodori pelati, il tonno in scatola, i ceci, i fagioli, il mais e tanti altri cibi in scatola possono essere consumati anche dopo un anno dalla loro data di scadenza, ma devono essere conservati in un luogo asciutto. 

·        Cibo: i "vizi" che ci fanno bene.

Nel Salento si punta su un pesce povero per una nuova sostenibilità. Giacomo Talignani su La Repubblica il 15 ottobre 2020. Un gruppo di pescatori di Porto Cesareo insieme al Wwf vuole trasformare il piccolo pesce zerro, che spesso finisce nelle reti accidentalmente, in una risorsa. In occasione della Giornata dell'Alimentazione, ci hanno mostrato come. Seduti attorno al tavolo di un hotel nel cuore del Salento una quarantina di persone fra pescatori e cittadini votano usando dei pezzi di pasta cruda che gettano in un'urna. Stanno eleggendo la portata migliore: un pezzo di pasta significa che hanno gradito poco, tre che la portata è stata ottima. Lo scopo finale è decidere se una nuova e sperimentale cucina a base di zerro, pesce povero che potrebbe aprire a una ricca speranza, possa diventare una rivoluzione che abbraccia la pesca sostenibile. Perché questo pesciolino, che si pesca in grandi quantità per un paio di mesi in inverno, da animale che viene catturato accidentalmente nelle reti potrebbe trasformarsi in una preziosa risorsa per bilanciare gli equilibri di una pesca non sempre sostenibile. Ne è convinto il Wwf che proprio in Salento, in occasione della Giornata mondiale dell'Alimentazione, sta collaborando con i pescatori per trovare nuove soluzioni per allentare le pressioni su specie bersagliate, come triglia e scorfano,  promuovendo prodotti ittici meno richiesti. Accade infatti che i pescatori dell'Area Marina Protetta di Porto Cesareo, da tempo, durante le battute di pesca a prede più ambite si ritrovino nelle reti grandi quantità di zerro. Le comunità locali lo consumano, fritto o impanato, ma dopo qualche giorno tutto il pesce in avanzo - non essendoci mercato  - rischia di dover essere buttato. Così il Wwf, all'interno del progetto "Pescare oggi per domani", ha cominciato a fare delle valutazioni, a partire dai numeri. Sappiamo che oggi oltre l'88% degli stock ittici nel Mediterraneo è sovrasfruttato, che in Europa ognuno di noi mangia in media sino a 23 kg di pesce all'anno, quasi il doppio di cinquant'anni fa. Ma anche che la piccola pesca produce il 50% del pescato mondiale destinato al consumo umano e che fornisce sostentamento e lavoro a migliaia di persone. Con sempre più specie cacciate o richieste, dal tonno sino al branzino passando per triglie e ricciole, c'è dunque bisogno di riequilibrare la pesca, partendo dalla valorizzazione del pesce piccolo e povero, spesso vittima di una pesca non selettiva. Ecco perché, nel segno di zerro, a Porto Cesareo stanno provando a fare qualcosa mai fatto prima: trasformare il consumo di questo pesciolino in filiera. Come molti pesci piccoli e poveri, il problema dello zerro è che tra lische e spine, umidità e poca polpa, è difficile da trasformare in un alimento di facile consumo e che duri nel tempo. Eppure è ricco di omega 3, fosforo ed è ottimo per la dieta: così l'associazione Marevivo Castro ha tentato per la prima volta di trasformarlo. Con appositi macchinari è stato studiato un sistema per lavorarlo e renderlo adatto alla cucina. Hanno sfornato polpettine, ravioli, hamburger e altri piatti tutti a base di zerro. Seduti ai tavoli del ristorante, come fossero giudici di un talent di cucina, tentano di dare voti al futuro dello zerro: il verdetto finale premierà mezzelune ripiene davvero deliziose, che potrebbero aprire le porte a una filiera capace di aiutare la pesca sostenibile. A Porto Cesareo i pescatori provano a ripartire dallo zerro, un piccolo pesce che finisce accidentalmente nelle reti e che ora vogliono trasformare in un prodotto di mercato, in modo da allentare la pressione su altre specie più richieste e rendere la pesca più sostenibile. Nelle immagini la famiglia Colelli a bordo del pescaturismo Sparviere e i pescatori di Porto Cesareo riuniti in un hotel per eleggere il miglior piatto a base di zerro. Sulla sostenibilità e il rispetto del mare, sulla pesca selettiva e sul coinvolgimento dei turisti per far capire loro che il mare non è una risorsa infinita, hanno puntato tutto anche Gianni Colelli e Barbara Orlando, marito e moglie che a bordo del peschereccio Sparviere fanno pescaturismo nelle acque del Salento. Con loro lavorano anche i giovani figli Eugenio e Tommaso: una intera famiglia votata al mare. "Il mare sta cambiando - racconta Gianni a bordo dello Sparviere - dobbiamo aiutarlo se vogliamo ancora vivere di pesce. Spesso i pescatori vengono additati di tutti i problemi, ma in realtà la piccola pesca è una risorsa importante per il territorio, se fatta bene. Un esempio potrebbe essere questo nuovo progetto sullo zerro". Anche in tempi duri, come quelli che stiamo vivendo, è necessario diversificare, ridurre la pressione sulle specie più sfruttate, pescare meno e vendere meglio. "Pensare ai pescaturismo come fonte di reddito per i pescatori, riducendo al contempo gli sforzi di pesca" dice il Wwf. Tutti passaggi che nell'Area marina di Porto Cesareo si potrebbero fare, "ma servono più controlli, specialmente d'estate, per l'invasione di diportisti che vengono a pescare senza sosta in queste acque", ricorda Colelli. In attesa dei mesi di pesca dello zerro, d'inverno, Gianni si mette al timone della sua barca per portarla al largo, mentre sua moglie Barbara prepara alcune prelibatezze locali e i suoi figli sistemano le reti. Lui li guarda. "Se facciamo questo, se promuoviamo una pesca sostenibile e un rispetto del mare, è anche per loro, per le nuove generazioni".

Il pecorino più grande del mondo è sardo, pesa quasi 600 chili. Pubblicato lunedì, 20 luglio 2020 su La Repubblica.it. Pesa 598,5 chilogrammi, ha un diametro di 165 centimetri ed è alto 60. Il "Gigante del Cedrino" di Loculi (Nuoro), stagionato 12 mes, è "Il più grande formaggio del mondo di latte di pecora" (Largest block of cheese - sheep's milk). La forma supera nel Guinness dei record Ascoli Piceno, che aveva conquistato il traguardo nel 2010 con un peso di 534,7 chilogrammi, un diametro di 158 centimetri e un altezza di 29 centimetri. Il giudice della Commissione Guinness World Record, Lorenzo Veltri, ha infatti certificato che il pecorino prodotto in piazza a Loculi nel maggio 2019 dai pastori della bassa Baronia, è il più grande mai prodotto nel mondo. Ieri sera festa grande in paese e nei cinque Comuni della bassa Baronia: Onifai, Loculi, Orosei, Irgoli e Galtellì e tra i soci produttori della Cooperativa La Rinascita di Onifai che ha curato la produzione del "Gigante del Cedrino".

Per realizzarlo 4.500 litri di latte. Il pecorino dei Guinness è stato realizzato il 12 maggio 2019 con 4.500 litri di latte ovino. Per realizzarlo è stata costruita una forma in legno, progettata da Anna Pitzalis della Primore Design&Comunicazione di Orroli e realizzata dalla falegnameria Ligas di Nurri. Oltre ai 4.500 litri di latte, sono stati utilizzati 25 kg di sale, 700 ml di caglio e 200 grammi di fermenti lattici. "Il formaggio è stato fatto con la metodologia tradizionale - spiega Anna Pitzalis - al di là del record, si è trattato  di riscoprire l'artigianalità e la cultura del territorio. In poche parole la forma del pecorino ha dato forma e voce a questa parte della Sardegna". Al sindaco di Loculi, Alessandro Luche è stato consegnato il certificato della  Guinness World Record, mentre il pecorino è già stato porzionato e dato in degustazione, anche attraverso una distribuzione capillare su internet, dove è stato possibile prenotare un pezzo di record (500 grammi) per 5 euro.

Colazione leggera? Lo studio ribalta le concezioni: salute, ecco quali sono i rischi. Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. L'importanza, quasi sacra, della colazione. Messa in questo caso in evidenza da una ricerca della School of Public Health di Loma Linda, in California, che ha preso in esame oltre 50mila volontari di età superiore ai 30 anni. In molti preferiscono fare una colazione leggera, convinti che sia una buona idea per mantenere la linea e non ingrassare: meglio, insomma, mangiare di più a pranzo e cena. Ma lo studio mette in luce come la verità sia esattamente opposta, ovvero che l'abitudine di una colazione leggera porti ad ingrassare. Nei casi presi in considerazione, infatti, è stato appurato che introdurre del cibo nell'organismo al risveglio è fondamentale per avere l'energia necessaria a proseguire tutto il giorno. Ma non solo: così si attiva il metabolismo dopo le ore notturne di digiuno e si mette in moto il processo necessario per bruciare calorie e non perdere peso.

Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 9 aprile 2020. Che sia ora di colazione, pranzo o cena, è sempre un buon momento per degustare una bella pizza! Qualora fosse così anche per voi potreste appartenere alla vasta schiera dei "pizzadipendenti", una categoria che sarebbe in continua crescita. Ad attestarlo è la scienza attraverso uno studio ad opera dell' Università del Michigan: in testa a tutte le prelibatezze capaci di creare assuefazione si è piazzata proprio la pizza, seguita da cioccolata, patatine, biscotti e gelato. Vi sono casi in cui, la passione per questa leccornìa, si rende impossibile da gestire, tanto che alcuni soggetti si comportano come dei veri e propri drogati alla vista dell' alimento in questione. Sono gli stessi individui per i quali, una privazione di codesto cibo prolungata nel tempo, sarebbe capace di culminare nella crisi d' astinenza. Ma per quale motivo, il piatto italiano per eccellenza, ha l' indiscussa prerogativa di stuzzicare la libidine delle papille gustative accattivandosi il loro pieno trasporto? Ebbene, ogni singolo morso alla succulenta pietanza sarebbe capace di stimolare un' area del cervello nota come "amigdala", tra le cui funzioni v' è quella di elaborare gli impulsi olfattivi. La sinfonia di sapori che questo piatto riesce ad evocare, insomma, agirebbe sull' encefalo alla stregua di una panacea, restituendo gioia e benessere al consumatore. Il tutto attraverso un concentrato di carboidrati, proteine e grassi che, in un certo senso, risulta molto più equilibrato rispetto a quello di tante altre prelibatezze cui siamo soliti dare fondo in preda al languore.

IL POMODORO. Perché sarà pur vero che quella in oggetto non è la pietanza più leggera del repertorio culinario, ma va considerato che, a totalizzare le sue circa 700 kcal, sono tutti ingredienti di indiscussa genuinità: la salsa di pomodoro è ricca di licopene (un antiossidante antitumorale), l' olio d' oliva è un' ottima fonte di grassi monoinsaturi, mentre la mozzarella vanta una buona quantità di minerali ed ha una minore concentrazione di grassi rispetto ai formaggi stagionati. Concentriamoci appunto su quest' ingrediente che, grazie al retrogusto delicato ed alla consistenza filante, sa stimolare perfino l' appetito dei meno golosi: secondo i ricercatori, la mozzarella, giocherebbe un ruolo chiave nell' assuefazione che la pizza è un grado dare, la caseina è infatti la proteina caratterizzante di questo formaggio, ed essa agisce sui recettori di dopamina infondendo un piacevole senso di gratificazione.

LE COMBINAZIONI. Erica M. Schulte - autrice dell' indagine summenzionata - afferma: «La risposta psicologica alle combinazioni degli ingredienti della pizza è in parte spiegata dal fatto che, i cibi che contengono grassi, carboidrati raffinati e sale, sono maggiormente associati agli indicatori comportamentali di dipendenza, come la perdita del controllo sul consumo». Ma non fermatevi alla superficie delle cose, perché la passione per questa ghiottoneria tutta nostrana non è data solo dalla squisitezza dell' alimento in sé, ma anche dal suo potere aggregante che, da sempre, induce chicchessia ad associarla a piacevoli momenti di spensierata convivialità. A dispetto di un' incipiente globalizzazione che vorrebbe invogliarci al consumo di sushi, hamburger e patatine, a primeggiare sulle allegre tavolate del sabato sera sarà sempre lei: sua maestà la pizza.

Cibo: i "vizi" che ci fanno bene. Grassi animali, latte intero, formaggi, cioccolato, alcol. Ci hanno detto che facevano male, invece oggi scopriamo che...Daniela Mattalia il 20 dicembre 2019 su Panorama. Travolti da una valanga di saggi che incitano al digiuno, invitano a diffidare di glutine, lattosio, glucosio, ripudiano il consumo di carne e diffondono la religione del Light e dello Zero, un libro come The good vices, accompagnato dal gioioso sottotitolo «From beer to sex, the surprising truth about what’s actually good for you» (dalla birra al sesso, la sorprendente verità su cosa vi fa davvero bene), ha immediatamente attirato la nostra attenzione. Scoprire che l’autore, il medico americano Harry Ofgang, naturopata con 40 anni di esperienza, incoraggia il ragionevole consumo di una serie di «vizi» senza farci sentire in colpa o mandarci in apprensione, ci è sembrato un messaggio di tale buon senso da essere, in quest’epoca di nevrosi nutrizioniste, quasi sovversivo. I vizi di cui Ofgang (insieme al figlio Erik, giornalista scientifico) tesse l’elogio sono proprio quelli da cui, innumerevoli volte, ci è stato detto di tenerci alla larga. L’alcol fa male, il cioccolato ingrassa, il pane intossica, il formaggio è nemico del cuore, il caffé mette agitazione... e la carne poi, quella è quasi demoniaca. Intendiamoci, Ofgang non incita a insane abbuffate di selvaggina sanguinolenta o di «chantilly» industriale, è pur sempre un medico; ma sostiene, dati e studi alla mano, che molti di questi alimenti sono da rivalutare. E, forse, mai avrebbero dovuto essere messi all’indice. «Se il vostro dottore vi dicesse che è ok mangiare un po’ di cioccolato e cibi grassi, bere qualche bicchiere di birra o vino, e farsi fino a cinque tazzine di caffé al giorno, comincereste a diffidare della sua serietà. Ma, di fatto, starebbe semplimente facendo qualcosa che pochi professionisti della salute fanno: consigliare i pazienti basandosi sulla scienza più aggiornata» afferma Ofgang nella prefazione al libro. Nel suo studio, molti tra i pazienti più anziani e in forma, invecchiati con grazia, come si dice, erano proprio quelli che nella quotidiana routine si concedevano «vizi»; che condivano i pasti con burro, li accompagnavano con vino, amavano i formaggi... Sarà stato un caso? Secondo il medico americano, gran parte dei consigli che oggi seguiamo, soprattutto in campo alimentare, sono basati su vecchie convinzioni piuttosto che sulle ultime ricerche: seguire diete spartane, nutrirci di integratori, sfiancarci di esercizi come fossimo atleti olimpionici. Soprattutto siamo abituati a preoccuparci, a prevenire il reale e l’immaginario, a spendere in alimenti che, forti del segno «meno» (meno questo, meno quello) promettono «di più» (più salute e lunga vita). Certi vizi, ovviamente, tali rimangono: il fumo, il consumo eccessivo di zuccheri e sale (qui non c’è riscatto), il sovrappeso legato a un’ostinata sedentarietà. Ma su molte altre cose, rilassiamoci. Alle soglie del mese delle feste, in alto i calici dunque, con la felice consapevolezza che  polifenoli e antiossidanti dell’alcol lottano insieme a noi. In ufficio, potremo concederci dalle tre e alle cinque pause caffé sapendo che in quella tazzina ci sono sostanze intenzionate a proteggerci dall’invecchiamento cerebrale. Siete contrari ai pettegolezzi che quasi sempre accompagnano questi intermezzi? Male. Altri studi, non citati da Ofgang ma degni di validità, dimostrano che gossip e piccole malignità hanno una preziosa funzione sociale. I «discorsi valutativi che riguardano persone non presenti» (l’insuperabile definizione di alcuni ricercatori) sono una forma di coesione che pacifica e previene i conflitti. Una delle ultime crociate nutrizioniste, smontata di recente ma ancora salda nell’opinione pubblica, è quella sui grassi animali. Bersaglio di contumelie e accuse, sospettati di aumentare il rischio di morte, infine assolti qualche anno fa da una metanalisi del British Medical Journal. Andrea Poli, presidente della Nutrition Foundation of Italy, concorda sulla riabilitazione di molti cibi. «Su Lancet è uscito l’anno scorso uno studio sui 15 errori alimentari che pesano sulla salute. Ebbene, i consumi insufficienti di cibi con effetti favorevoli contano molto di più dei consumi in eccesso dei cibi che si suppone facciano male. Che infatti sono in fondo all’elenco». In altre parole, quello che non mangiamo abbastanza, cereali integrali, frutta e verdura, ha un impatto negativo sul benessere assai più pesante di qualche «vizio» in tavola. Tra gli alimenti che aizzano i nostri (infondati) sospetti c’è il latte intero, o il latte tout court, sostituito da una schiera di rivali molto glamour a base di avena, riso, farro, cocco... «Eppure dati granitici dimostrano come i grassi saturi della filiera del latte non fanno male. Anche perché noi non mangiamo saturi ma alimenti, dove queste sostanze sono combinate con altre che hanno effetti favorevoli» continua Poli. «Se elimino i formaggi, lo yogurt o il latte perdo il calcio, i probiotici e piccoli peptidi che riducono la pressione. Negli studi osservazionali si è visto che chi mangia regolarmente questi alimenti sta meglio di chi non ne consuma» sostiene Poli. Non bastasse, uno studio italiano appena uscito sull’American Journal of Clinical Nutrition (45 mila partecipanti)  proprio sul rapporto fra  derivati del latte e salute, conclude, a sorpresa, che: chi consuma tra 160 e 200 millilitri al giorno di latte intero ha, rispetto a chi non ne beve, un rischio ridotto di un terzo di malattie cardiovascolari, tumori e, in generale, di tutte le cause di mortalità. In chi lo beve scremato, la riduzione è solo di un sesto. E accompagnamo pure latticini e formaggi con il vino. Una revisione del legame tra alcol e malattie, pubblicata da Poli e altri esperti, mostra che i bevitori moderati di vino vivono di più non solo di chi ne consuma in eccesso, ma anche degli astemi. «Chi beve un drink al giorno, vino o birra, è in media più longevo. Ma è un concetto che si riesce difficilmente a proporre perché l’accusa di essere dalla parte delle aziende è sempre incombente» commenta Poli. «Va da sé che questo discorso non vale per gli adolescenti, che dovrebbero evitare l’alcool in toto» L’elogio dei «buoni vizi» non è, avverte il saggio di Ofgang, il via libera a un’insensata anarchia alimentare. Ma ha l’effetto di un anti-ansia sulle tante nevrosi che ci portiamo in tavola. Godersi la vita, senza etichette nutrizionali e mentali, alla fine la allunga. Più che cercare il significato dell’esistenza, scherza Ofgang (ammesso che ne abbia uno), dovremmo dare significato alle nostre giornate. «La trama è nota: non possiamo evitare di lasciare questa terra quando verrà il momento. Quello che possiamo fare è divertirci e vivere bene, finché ce n’è. Lasciando perdere tutto quello che rende l’esistenza più rigida, più restrittiva, e molto più noiosa». 

·        Quello che fa bene,… anzi fa male.

Massimo Sideri per il “Corriere della Sera” il 12/10/2020. Si racconta che quando Marilyn Monroe venne fino ad Alba per ricevere il miglior tartufo bianco pose un' unica condizione: la discrezione e nessun fotografo. Winston Churchill se lo fece spedire in Inghilterra e probabilmente lo accompagnò con il suo champagne preferito, il Pol Roger, e un sigaro. Alfred Hitchcock prese l' aereo, giunse il Piemonte e si fece immortalare con la sua tipica espressione indagatrice contribuendo alla fama del nobile fungo ipogeo. Gli inviti e gli invii alle persone famose erano stati una grandiosa idea di marketing della famiglia Morra. Ma se non potete vantare una discendenza e una fama di questi livelli l' unica alternativa per aggiudicarsi il tartufo bianco d' alba migliore è partecipare all' annuale asta che anche quest' anno si terrà l' 8 novembre presso il Castello di Grinzane Cavour, sito patrimonio dell' Umanità Unesco, in collegamento con il ristorante tre stelle Michelin «8 1/2» di Hong Kong, ma anche Singapore e Mosca. Solo un consiglio: per evitare figuracce è meglio non partecipare con un' offerta a meno di non essere sicuri di poter sostenere l' importo.

Con i rilanci non scherzano. Tanto per ricordare, nel 2007 il miglior tartufo bianco è stato battuto all' asta per 143 mila euro. Pesava 750 grammi. E non si è mai saputo chi lo abbia acquistato. Prepararlo deve aver fatto tremare il polso al migliore chef, perché la cifra, ancora oggi un record, lo rende uno dei cibi più costosi della storia. Per avere un termine di paragone il prezzo più alto mai pagato per un tonno della famosa asta del mercato del pesce di Tokyo, tappa obbligatoria per i turisti anche se ormai è stato spostato in un luogo privo di fascino, è stato di 3,1 milioni di dollari (2,6 milioni di euro). Ad aggiudicarsi il pesce da 278 chilogrammi è stato nel gennaio del 2019 Kiyoshi Kimura, amministratore delegato della catena di sushi Sushi-zanmaihe. Una pubblicità che in Giappone ripaga: il vincitore dell' asta riceve una copertura dei media che per qualche giorno lo fanno diventare una specie di eroe nazionale in un Paese che ha un rapporto con il cibo simile a quello dell' Italia. In una veloce classifica delle cene più costose di sempre non si può dimenticare la bottiglia di Borgogna Romanée-Conti del 1945 venduta nel 2018 a 558 mila euro, la più alta cifra mai sborsata a un' asta per un rosso. Anche se Sotheby' s, sempre nel 2018, ha anche piazzato una rarissima bottiglia di whisky The Macallan 1926 (vecchio di 60 anni, dunque del 1866, con etichetta di Sir Peter Blake) a 843 mila dollari. Per i curiosi il caviale da storione albino, o bianco, costa 200 mila euro al chilogrammo, in pratica 20 mila euro a cucchiaino. In realtà, per quanto sicuramente costoso vista l' unicità, il tartufo bianco di Alba potrà essere acquistato senza pensare a Hong Kong e a Marilyn Monroe: l' asta sul miglior pezzo non influenza il prezzo di mercato, anche perché, com' è tradizione, la cifra raccolta va in beneficenza. «L' obiettivo - spiega Marco Scuderi che è il vicepresidente dell' Ente fiera internazionale del Tartufo Bianco d' Alba, nonché il direttore dell' enoteca Cavour, che ha sede presso il castello dove avviene l' asta - è di portare sostegno all' Istituto Mother' s Choice, associazione benefica che aiuta molti bambini senza famiglia. È così dal 1999 quando lanciammo l' asta che ancora oggi dura un' ora perché, al tempo, dovevamo noleggiare un collegamento satellitare e questa era la finestra temporale che avevamo. Ricordo che costava milioni di lire, ma oggi chiaramente usiamo lo streaming. In venti anni abbiamo raccolto 4,8 milioni, tutti utilizzati per progetti di charity». Anche se tutto impallidisce di fronte al prodotto della natura più costoso di sempre: il bulbo del tulipano Semper Augustus che all' apice della bolla olandese del 1637, considerata la prima della storia, venne pagato 2.500 fiorini, circa dieci volte la paga annuale di un artigiano specializzato dell' epoca. E non si poteva nemmeno mangiare.

Dagospia il 29 agosto 2020. SAPETE A QUALE GRADO DI MATURAZIONE MANGIARE UNA BANANA? CHI SOFFRE DI DIABETE PUÒ OPTARE PER LA VERSIONE VERDE E ACERBA: È UNA FONTE DI PROBIOTICI OTTIMI PER LA SALUTE DELL’INTESTINO, MA PUÒ FARCI SENTIRE PIÙ APPESANTITI PER LA PERCENTUALE DI AMIDO – QUANDO IL FRUTTO È GIALLO HA UN ALTO INDICE GLICEMICO E RISULTA PIÙ DIGERIBILE  – LA BANANA “MACCHIATA”, INVECE, È RICCA DI…Da "lastampa.it" il 29 agosto 2020. La banana è uno dei frutti più condannati nelle diete a causa di un mito che la vuole ipercalorica. In realtà, come dice la nutrizionista Analía Moreiro, è un frutto completo che «fornisce vitamine, magnesio e potassio, aiuta a regolare l'attività intestinale e migliora il sistema immunitario». Il team di dietisti e nutrizionisti della High Performance Nutrition Australia ha fornito alcuni consigli su come e quando mangiare questo frutto.

DAGONEWS il 14 settembre 2020. Bere acqua fa bene alla pelle e aiuta ad avere meno fame. È quanto emerso da un sondaggio di OnePoll che ha esaminato le abitudini di duemila britannici durante il lockdown. Più di un quarto degli intervistati ritiene di avere la pelle molto più luminosa nei giorni in cui beve più acqua e quasi un quarto (il 23%) si sente meno affamato. Quattro su 10 si sentono più riposati nei giorni in cui consumano più acqua. Dallo studio è emerso, però, che il 28% non ricorda sempre di mantenersi idratato, ma durante il lockdown il 36% ha dichiarato di aver bevuto più acqua.

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 3 agosto 2020. Bere troppa acqua senza seguire le indicazioni del nostro organismo è dannoso per la salute, perché molti sono i problemi che possono insorgere assumendo quantità troppo elevate di liquidi senza averne necessità. Con il caldo di queste settimane tutti noi tendiamo ad idratarci in maniera superiore, senza pensare che l' abuso di acqua ingerita, quando esagerata, può avere conseguenze molto negative, addirittura pericolose, poiché il meno che possa capitare è una sudorazione eccessiva, ma contraccolpi seri possono riguardare cervello, che potrebbe non riuscire a controllare la gestione dei liquidi aumentati, e il cuore, organo vitale che si troverebbe a pompare sangue troppo diluito con conseguenti problemi cardiologici. È stato coniato addirittura un nuovo termine medico, "Aquaholism", per indicare una forma esagerata di consumo di acqua, che può portare, in casi estremi, ad una vera e dipendenza, che, al pari dei quella dell' alcolismo, ha come effetto negativo la tendenza a bere anche quando non se ne sente il bisogno. Se non si è in presenza di una particolare malattia che lo impone, bisogna bere quando si ha sete, ovvero quando il nostro corpo ce lo chiede, e comunque non bisognerebbe superare 1,5/2 litri al giorno, anche se è difficile stabilire il giusto quantitativo di acqua da assumere quotidianamente perché molto dipende da fattori soggettivi ed oggettivi. Nella stagione invernale ad esempio si tende a bere di meno perché si suda di meno, mentre se si svolge intensa attività fisica o si sta ore sotto il sole, si avverte il bisogno di dissetarsi in maggior misura, per compensare i liquidi persi con la sudorazione.  Inoltre molto dipende dall' alimentazione che influisce in modo determinante sul senso della sete, soprattutto quando si ingeriscono cibi salati. Detto questo, non bisogna pensare che si sia nel giusto quando si beve poco o quando non lo si fa nonostante la sete, poiché se si avverte l' esigenza di bere significa che il nostro organismo ci sta comunicando di essere in debito di liquidi, una richiesta che va sempre e comunque assecondata. Molte persone sono convinte che bere molto aiuti l' organismo a depurarsi mediante l' aumento della minzione, come erroneamente suggeriscono alcuni spot pubblicitari molto popolari, ed hanno l' abitudine di girare muniti di una bottiglia d' acqua dalla quale attingono a ritmi elevati, ignorando che l' abuso di liquidi in alcuni casi può avere conseguenze dannose se non pericolose, che vanno dal semplice aumento della sudorazione ad intossicazioni con contraccolpi che possono riguardare l' apparato cardiovascolare, quello renale e quello neurologico. Per fortuna raramente accade che un' assunzione eccessiva di acqua per via orale causi iper-idratazione, in quanto di solito i reni in buona salute sono in grado di espellere facilmente i liquidi in eccesso, soprattutto se non si hanno deficit all' ipofisi, alla tiroide, e se il fegato ed il cuore funzionano regolarmente. Le intossicazioni da acqua invece, si presentano quando l' organismo assorbe più acqua di quanta non sia in grado di eliminarne, per cui si può sviluppare iperidratazione con edemi declivi (caviglie gonfie), soprattutto se esiste una patologia che riduce la capacità dell' organismo di espellere liquidi o che aumenti la tendenza a trattenerli. Inoltre quando si assume una quantità eccessiva di acqua, il sodio presente nel sangue viene diluito, ed essendo questo un elettrolita essenziale multifunzionale, la diminuzione della sua concentrazione (iponatriemia) provoca subito sintomi tipici che variano da disturbi organici a psicotici, a seconda del livello ematico raggiunto. L' iperidrataziome comunque è molto più comune nei soggetti in cui l' eliminazione urinaria non avviene normalmente, come accade per esempio in molte malattie cardiache, renali od epatiche, o come accade a chi fa uso regolare di antidepressivi, farmaci che favoriscono la ritenzione idrica. Bere troppo inoltre, provoca anche problemi di insonnia agendo in maniera negativa sull' ormone che regola l' attività dei reni durante il riposo notturno. Certamente ci sono casi patologici specifici in cui è necessario bere di più, come nel caso della calcolosi renale, delle cistiti, ed in tutte quelle situazioni in cui è necessario espellere ogni giorno una quantità di urina pari a circa due litri, come accade nelle cardiopatie, oppure quando bisogna reintegrare i liquidi persi, come nel caso delle gastroenteriti con diarrea, o negli stati di disidratazione. Al contrario ci sono stati casi in cui gli atleti delle maratone si sono caricati di acqua ed alcuni sono addirittura morti perché avevano bevuto sotto sforzo oltre il necessario. Il rischio infatti é la succitata iponatriemia o intossicazione da acqua, un disturbo elettrolitico in cui la concentrazione del sodio nel plasma diventa più bassa del normale, cosa che provoca sintomi che vanno dalla letargia, nausea e convulsioni, fino all' arresto cardiaco. Quindi otto bicchieri di acqua al giorno sono spesso eccessivi anche in agosto, e lo "stop alla idratazione" è un segnale che arriva direttamente dal cervello quando sono stati ingeriti troppi liquidi, per cui bisogna comunque seguire il senso della sete e bere quando se ne sente il bisogno, una regola fondamentale da non sottovalutare, e soprattutto bere acqua, la bevanda più dissetante, che non contiene calorie e non fa ingrassare, per mantenere in attento equilibrio dei volumi di liquidi nel nostro fragile organismo, esposto alla calura di questa stagione.

Jessica D' Ercole per “la Verità” il 2 agosto 2020. Sir Winston Churchill sosteneva che «il gin tonic ha salvato più vite e menti di inglesi, che tutti i medici dell' Impero». Quello che non sapeva è che il gin avrebbe salvato anche la Royal Collection Trust, la charity che amministra le residenze reali aperte al pubblico, messe a dura prova dal coronavirus.

Morello Pecchioli per la Verità il 9 settembre 2020. Il gin nasce olandese alla metà del Seicento, semina disperazione in Inghilterra del Settecento, si redime nell'Ottocento, diventa un liquore planetario nel Novecento. La storia del gin, all'osso, è questa. A voler essere partigiani potremmo vantarci che il primo liquore al gin è nato in Italia mille anni fa. Lo testimonia un manoscritto salernitano del 1055, il Compendium Salernitanum, nel quale i monaci medioevali campani insegnano come ricavare benefiche infusioni da erbe e piante. Tra le altre una istruisce come estrarre i principi attivi delle bacche di ginepro per infusione con il vino. Diciamo la verità: quello non era gin, ma un vino al ginepro.I meriti della scoperta del gin vanno a Franciscus Sylvius Deleboe, medico olandese, docente di medicina all'università di Leida nella seconda metà del '600. Fu lui a correggere e ingentilire la pesante acquavite di cereali bevuta nei Paesi Bassi, ricavata dalla macerazione e dalla distillazione di granoturco o d'orzo con il malto. L'illustre scienziato, che perseguiva scopi farmaceutici, aggiunse bacche di ginepro già nella macerazione dei cereali. Deleboe, autore di un prezioso trattato sulle febbri, De febribus, 1661, cercava il modo di ottenere un distillato-medicina energetico per lo stomaco e i reni dei suoi facoltosi pazienti gottosi e in grado di combattere le febbri che falcidiavano i soldati olandesi spediti a colonizzare le Indie Orientali. Un concentrato di benessere. Quando lo trovò, lo chiamò Jenever che, in olandese, significa ginepro.Gli inglesi lo conobbero quando accorsero in aiuto dell'Olanda contro la Spagna nella Guerra degli Ottant' anni. Dapprima lo chiamarono dutch courage, coraggio olandese, poi, trasmigrato in Inghilterra, il jenever divenne gin. La spinta decisiva all'anglicizzazione del liquore la dette l'olandese Guglielmo III d'Orange, diventato re d'Inghilterra nel 1689. Guglielmo, che favorì la produzione del gin a danno del cognac degli odiati francesi. Perfezionato e accomodato al palato inglese con l'aggiunta di altri estratti vegetali, fabbricato in quantità industriali a scapito della qualità, spacciato a prezzi stracciati (Drunk for a penny, dead drunk for two pence, ubriaco con una monetina, fradicio con due), il gin iniziò a ruscellare nei gargarozzi del miserabile popolino inglese che, abbruttito dall'alcol, dipendente dal gin come da una droga, dimenticava il suo infelice stato sprofondando sempre più nell'alienazione.La piaga dell'alcolismo non fu facile da debellare. Ma Madame Geneva o Mother Gin - come fu chiamato il distillato nella prima metà del Settecento - doveva essere sconfitta ad ogni costo. Non fu facile. Quando il governo di quei tempi impose una feroce tassa sulla distillazione del gin nelle strade si urlò «No gin, no king» minacciando la monarchia. Ci vollero decenni di leggi e di battaglie contro la produzione clandestina della mother' s ruin, la rovina delle madri, ma alla fine la piaga fu vinta grazie alle leggi, alle gabelle che alzavano il prezzo del gin e all'irrompere nella vita inglese di una bevanda innocua, il tè, che conquistò la moda e i costumi anglosassoni. Nel frattempo il gin aveva solcato i mari di tutto il mondo chiuso nei barili stivati nelle navi mercantili della potenza inglese. Perfezionato con l'aggiunta di altri botanical- erbe, radici, cortecce, fiori e sostanze aromatizzanti, era divenuto il liquore che oggi conosciamo.Declinato con acqua tonica, ghiaccio e fettina di limone, si sublimò nel gin tonic, il cocktail più famoso al mondo. Il gin and tonic (gli inglesi pretendono la «e») nasce in India nell'800 come medicina per i soldati e per i coloni di sua maestà colpiti dalla malaria. I medici della compagnia inglese delle Indie Orientali ricorrendo al chinino, efficace per combattere la malattia, ma amarissimo da ingurgitare, spinsero i soldati ad aggiungervi un po' di zucchero e gin. Da medicina a bevanda rinvigorente e rinfrescante il passo fu breve. Uscito dai sanatori militari e dagli ospedali coloniali, il gin tonic entrò nei salotti aristocratici, nelle ricche case borghesi e negli esclusivi club londinesi. Divenne popolarissimo quando un orologiaio svizzero, Johann Jacob Schweppe, trovò il modo di aggiungere l'anidride carbonica all'acqua (anche lui con il nobile proposito di combattere la malaria), inventando l'acqua tonica. Fu così che nacque una delle bevande più apprezzate. Per l'attore comico americano William Claude Fields è stato, fino a quando è campato, il miglior buongiorno del mattino: «Possiedo un self-control straordinario. Prima di colazione non bevo mai nulla più forte del gin». Clark Gable, il Rhett Butler di Via col vento, assicurò che era il miglior cocktail che si potesse bere. Winston Churchill, ottimo bevitore e ancor più grande fumatore, lo abbinava ai suoi avana Romeo y Julieta, e non ebbe paura di inimicarsi i medici inglesi affermando: «Il gin and tonic ha salvato più vite inglesi di tutti i medici dell'Impero». Esiste il gin tonic perfetto? Esiste la direttiva ufficiale dell'International bartenders association (Iba) che prescrive 40 ml di gin, 60 di acqua tonica, fettina di lime o di limone, e abbondante ghiaccio in modo di ottenere una percentuale di alcol di poco inferiore ai 13 gradi. Sul ghiaccio non tutti sono d'accordo. Nel film Un anno vissuto pericolosamente il colonnello Henderson si lamenta con il giornalista Guy Hamilton (Mel Gibson) quando gli servono il gin and tonic con il ghiaccio: «Solo gli americani lo bevono così». L'Iba stabilisce inoltre che il gin and tonic va preparato direttamente nel bicchiere: nel tumbler cilindrico o nel balloon.Ma le varianti sono infinite come il palato dei bevitori e la fantasia dei barman o di noialtri orgogliosi miscelatori da tavernetta che giochiamo con tumbler, shaker, mixing glass, jigger alla ricerca della perfezione. Chi ama una nota profumata orna il bicchiere con qualche foglia di basilico o di lavanda o vi immerge un rametto di basilico. Chi adora la sfumatura agrumata aggiunge succo e fetta di pompelmo. Chi lo vuole con una nota d'amaro aggiunge due (solo due!) gocce d'angostura. La «perfezione» dipende dai gustibus sui quali non si discute. E dipende dai botanical. Si usa di tutto, oltre al fondamentale ginepro: semi di coriandolo, radice di angelica, fiori di irish, buccia d'arancia, cardamomo, menta selvatica, sambuco, ginestra, miele, zenzero, liquerizia. Ian Fleming, nel romanzo Licenza di uccidere, rivela qual è il G&T preferito dall'agente 007: «Bond ordinò un doppio gin and tonic e un intero lime verde. Quando arrivò la bevanda, tagliò il lime a metà, lasciò cadere le due metà spremute nel lungo bicchiere, riempì quasi il bicchiere di cubetti di ghiaccio e poi versò l'acqua tonica».Altro straordinario cocktail preparato con il gin è il Martini. Secondo David Augustus Embury, autore di The fin art of mixing drinks, la bibbia dell'arte di preparare bevande miscelate, la proporzione giusta per un Martini secco è sette parti di gin, una di vèrmut dry. Ma Ernest Hemingway, bevitore trascendentale, pretendeva un Martini dry secco come il deserto del Kalahari esagerando la dose di gin rispetto a quella del vèrmut. Si racconta che versasse un po' di vèrmut nella coppetta da cocktail, lo rigirasse per profumarla e lo rovesciasse nel secchiaio. Poi riempiva la coppa di gin: 15 parti di gin a una (volatizzata) di vèrmut. Lo chiamò Montgomery, come il generale inglese che teorizzava che per vincere una battaglia il rapporto tra le forze in campo dovesse essere di 15 contro una.Anche sul Martini James Bond dice la sua dettando al barman, in Casinò Royale, il Vesper Martini dedicato alla splendida bondgirl: «Tre parti di gin Gordon, una di vodka, mezza di Kina Lillet, una scorza di limone lunga e sottile in un calice da champagne». E, mi raccomando, «Shaken, not stirred», agitato, non mescolato.

Da “il Giornale” il 6 settembre 2020. Se c' è una data di non ritorno nel mondo del whisky, è senz' altro l'anno di grazia 2015. Ovvero l' anno in cui un whisky giapponese fu giudicato il migliore del mondo dalla Whisky Bible di Jim Murray. Quel whisky era un single cask Yamazaki 18 anni in sherry e da quel momento il single malt nipponico diventò oggetto di culto e collezione e i prezzi decollarono a dismisura. Oggi, a qualche anno dal boom inaspettato, il whisky giapponese è realtà e non solo esotismo pure in Europa. Anche se (troppo?) spesso abbondano prodotti che di giapponese hanno solo il nome e l' etichetta con molti ideogrammi, le distillerie storiche sono diventate ormai familiari. Tra queste, appunto, Yamazaki - del gruppo Beam Suntory - è senz' altro una delle più stimate. Fondata nei pressi di Kyoto nel 1923 da Shinjiro Torii, esporta in Italia diverse espressioni, tra cui il 12 anni, considerato l'«entry level» di gamma. Occorre premettere che il whisky giapponese è rinomato per essere «fatto come una volta». Masataka Taketsuru, che a inizio '900 visitò la Scozia, sposò una scozzese e tornò in Giappone con i segreti delle distillerie, ha fatto scuola. E come spesso accade, i discepoli hanno superato i maestri. Fine della premessa, si passi a questo whisky, che riesce ad essere lieve e deciso. Al naso ha bisogno di tempo: parte pungente, poi coi minuti emerge del kumquat, un che di floreale e un aroma tosto di cereale, fieno e legna appena spaccata. In bocca è molto oleoso e cremoso eppure non troppo dolce. Nocciola, cocco tostato e grandi dosi di spezie (noce moscata, cannella). Avvolgente e senza impegno, ha un finale bello lungo, tra il miele, il pepe bianco e frutta secca. Magia: ora dal bicchiere si sprigionano aromi di vaniglia e crema, quasi torta di mele. Un whisky solido, per nulla vezzeggiativo. Anzi, con certi spigoletti inaspettati che comunque ti mettono a tuo agio. In Giappone l' accoglienza è arte sacra: questo whisky sembra fatto apposta per non farti sentire in soggezione. Yamazaki 12 anni, 43%, 180 euro.

La regina Elisabetta, che ha dovuto licenziare 200 dipendenti, ha deciso di produrne uno tutto suo, il Buckingham Palace Dry Gin, con 12 erbe raccolte direttamente nei 16 ettari di giardini del suo palazzo. Quaranta sterline per 70 centilitri di puro spirito reale che andranno a rimpinguare le casse della charity. E, dato che il gin tonic è il cocktail dell' estate 2020, il primo lotto è andato esaurito in una manciata di minuti dal lancio. Il secondo, previsto per il 16 ottobre, è già in prevendita. D' altronde il gin, anche se nato in Olanda con le bacche di ginepro, è il distillato inglese per antonomasia. Se in epoca vittoriana veniva usato per addolcire l' amaro del chinino somministrato ai membri della Compagnia britannica delle Indie orientali come rimedio contro la malaria, oggi Sua Maestà il gin ama sorseggiarlo con del Martini davanti al camino d' inverno, con la tradizionale acqua tonica per rinfrescare le estati. I bartender di corte hanno fatto sapere che il gin tonic reale viene preparato in «un bicchiere modello tumbler pieno di ghiaccio con mezza parte di gin e mezza di tonica, guarnito con una fetta di limone». Elisabetta, che ha ereditato la sua passione per il gin dalla madre, non beve da sola: a farle compagnia anche suo marito Filippo Mountbatten. Il 20 novembre del 1947 ne trangugiò uno alle 9 del mattino in soli due sorsi. Mezz' ora dopo era all' abbazia di Westminster per sposare la futura regina davanti a 2.500 invitati. A confermare la passione dei britannici per il gin tonic anche l' attore Hugh Grant: «Mia madre sostiene che molti inglesi hanno bisogno di due gin tonic per stare bene. Io, forse, sono uno di loro...».

Reali e inglesi però non sono gli unici ad apprezzare il gin. Tra gli scrittori americani non ne poteva fare a meno Francis Scott Fitzgerald. Nei ruggenti anni Venti, le sue serate mondane venivano sempre annaffiate con abbondante Gin Rickey, ovvero gin (all' epoca di contrabbando) con acqua minerale, succo di lime e tanto ghiaccio. A Fitzgerald questo drink piaceva molto anche perché era convinto che il gin fosse l' unico alcolico di cui non restasse traccia nell' alito. Lo fece bere persino a Daisy e Tom ne Il grande Gatsby.

In Shaker. Il libro dei cocktail, libro scritto con Roberto Leydi nel 1961, Umberto Eco ricordava che «l' alcolico più facile da trovare nell' America del proibizionismo era il gin. Se raro era il whisky e rarissimo il cognac, il gin saltava fuori da tutte le parti e ciò per la semplice ragione che il gin si può fare in casa, nella vasca da bagno. Certo il risultato di questa produzione familiare non era straordinario, ma in tempi alcolicamente tanto difficili poteva anche passare. Oggi le circostanze sono tali che il sistema del bagno non è più consigliabile. Si trova senza alcun dubbio del gin migliore dal droghiere sotto casa». Tuttavia se qualcuno volesse cimentarsi a fare il gin in vasca bastano 20 litri di alcol, bacche di ginepro, semi di anice stellato, angelica, sedano, bucce di arancia, mandorle, cannella. Si lascia il tutto in infusione per qualche giorno mescolando di tanto in tanto. Infine lo si filtra travasandolo nelle bottiglie.

Eco apprezzava il Martini cocktail tanto da definirlo «il nepente, segno di civiltà». In realtà più che un Martini cocktail, il professore beveva Gin Martini on the rocks in proporzioni 16:1, lamentando che non tutti lo sapessero fare come piaceva a lui: «Pochi i luoghi dove bere sicuri: due o tre bar a Bologna, due a Milano, ma nessuno a Parigi, per la semplice ragione che in Francia non lo sanno fare, neppure se glielo spieghi direttamente al banco. So di andare sul sicuro al Peninsula di Hong Kong, all' Otani di Tokyo o al Raffles di Singapore, ma non si creda che negli Stati Uniti lo sappiano fare ovunque».

In una delle Bustine di minerva pubblicate da Eco sull' Espresso si leggeva: «Gli americani bevono tre Martini a colazione, io li batto di gran lunga, ma con il Gin Martini alla mia maniera», perché come scriveva il premio Pulitzer americano Bernard DeVoto in The Hour: A Cocktail Manifesto: «La giusta unione fra gin e vermouth è una magnificenza enorme e improvvisa; è uno dei matrimoni più felici della terra». Altro scrittore appassionato di gin, tanto da inserirlo tra le righe di La gatta sul tetto che scotta e Un treno chiamato desiderio, era Tennessee Williams. Lui preferiva il Ramos Gin Fizz, un cocktail a base gin con uovo, crema, succo di lime, limone, fiori d' arancio e acqua tonica. Ancora oggi, a New Orleans, questo drink viene bevuto in onore del drammaturgo americano.

Ed Ernest Hemingway, che di alcol ne capiva qualcosa, quando tornò in Italia nel 1948 per rivedere i luoghi della guerra, si assicurò che nella Buick azzurra che lo doveva portare da Genova a Cortina ci fosse, oltre alla quarta moglie Mary, anche una riserva di Gordon Gin.

«Un colpo alla testa». Il distillato di bacche di ginepro, è un ingrediente fondamentale anche de La caduta del francese Albert Camus: «Per fortuna che c' è il gin, il solo lume in questa oscurità. Percepisci la luce dorata che ti accende dentro? Mi piace passeggiare per la città di sera nel calore del gin». Tornando nel Regno Unito, in 1984 George Orwell ricorda che il «Victory Gin era come acido e, per di più, quando lo si manda giù si ha la sensazione di venire colpiti dietro la testa con una mazza. Poco dopo, però, la sensazione bruciante nello stomaco si placò e il mondo cominciò a sembrare più felice». Non ha mai nascosto il suo debole per il gin anche J.K. Rowling, madre di Harry Potter e di Jessica. Nel 1990, rimasta single con la figlia appena nata, era solita fare lunghe passeggiate all' aperto per le vie di Edimburgo per far addormentare la sua piccola. Non Jessica crollava, la mamma si fermava in pub, ordinava un gin tonic e dava vita al piccolo mago. In una nota a margine delle bozze di Harry Potter ha anche scritto «I want a large gin».

Lo scrittore e saggista britannico Martin Amis, su RivistaStudio, ha ricordato una sbornia epocale con Anthony Burgess, l' autore di Arancia meccanica: «Abbiamo cominciato con i gin tonic (due ciascuno), per poi passare a una quantità pazzesca di vino rosso di non eccelsa qualità. Io ho cercato di fare del mio meglio per tenere il passo di Burgess, che, alle cinque, aveva preso a bere un brandy doppio dopo l' altro come se si trattasse di una gara: tre sorsate, sollevava il bicchiere e ne ordinava un altro. Alle sei ha chiesto un gin tonic. Che ha posto fine alla seduta. I postumi sono stati per me di proporzioni terrificanti e sono durati per mezza settimana». Burgess era un fan anche dell' Hangman' s Blood, un cocktail fatto con whisky, rum, port, brandy, stout, champagne e ovviamente gin. Nelle pagine di A Journey - Un viaggio l' ex premier Tony Blair rispose a chi gli dava dell' alcolista che beveva «un gin tonic prima di cena, poi due bicchieri di vino, a volte mezza bottiglia. Insomma, non troppo». Tra i politici, anche l' ex premier Mario Monti gradisce il gin tonic e l' ex presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che ha sempre negato problemi con l' alcol, ha ammesso di concedersene uno ogni tanto ma «solo in estate». In fondo, come ha detto Letizia Battaglia, la fotografa che con le sue immagini ha raccontato la Mafia e la sua Palermo: «Anche il gin tonic può essere un atto politico, visto che alla mia età è sconsigliato da tutti i medici, ma io lo bevo lo stesso». Va detto che, gin tonic dopo gin tonic, Elizabeth Bowes-Lyon, la Regina Madre, arrivò a 102 anni. Lei, del gin, fece un elisir di lunga vita.

Lunga vita al pomodoro, silenziando un gene. Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da La Repubblica.it. Hanno trovato il gene responsabile del processo di invecchiamento della pianta di pomodoro: si chiama Heb, come la dea della giovinezza della mitologia greca, perché la sua disattivazione permetterà di ottenere coltivazioni più longeve e produttive. Il risultato è pubblicato sulla rivista Scientific Reports dai ricercatori del Dipartimento di Bioscienze dell'Università Statale di Milano. Lo studio dei processi di maturazione e invecchiamento delle piante è di grande interesse in agricoltura: poter prolungare la vita della pianta e la capacità fotosintetica delle sue foglie permette infatti di aumentare la biomassa, la resa delle colture, la conservazione e l'accumulo di sostanze preziose. Quando una foglia ingiallisce inizia un processo di senescenza che è caratterizzato da diversi cambiamenti, come lo smantellamento degli organelli delle cellule e la degradazione della clorofilla. Questa cascata di eventi è regolata da molecole (fattori di trascrizione) chiamate "Nac": il loro compito è quello di legarsi al Dna per regolarne la trascrizione, ossia il processo con cui l'informazione contenuta nei geni viene copiata in una molecola di Rna messaggero da tradurre poi in proteina. Tra questi fattori di trascrizione Nac, i ricercatori ne hanno identificato uno che è espresso in particolare nelle foglie e nelle gemme fiorali: lo hanno chiamato Heb e hanno osservato che regola i geni coinvolti nel processo di senescenza, andando ad attivare segnali che determinano la disidratazione dei tessuti e lo smantellamento della clorofilla. Il suo silenziamento nel pomodoro porta alla produzione di piante che rimangono giovani e verdi più a lungo, con foglie dotate di una migliore capacità di fare fotosintesi e un contenuto più alto di clorofilla. Questo risultato, seppur preliminare, pone le basi per future applicazioni che consentiranno di sviluppare coltivazioni più longeve e produttive.

LA DELIZIA D’ORIENTE – STORIA DI SUA MAESTÀ LA MELANZANA, ARRIVATA A NOI SOLO NEL MEDIOEVO E DIVENTATA UNA DELLE REGINE DELLA CUCINA. Gemma Gaetani per "La Verità" il 7 luglio 2020. Recita un motto popolare che ha anche la versione tarantina: «La melanzana non mangiarla se non sei sano». Nella città pugliese dal cui toponimo derivano i sostantivi «tarantella», «tarantismo» e «tarantola» il proverbio diventa, appunto, «'A marangian no tt' a mangia' c no ssi' san» e la spiegazione del monito, che in senso figurato consiglia di non fare il passo più lungo della gamba, sta nel contenuto di solanina della melanzana. La Solanum melongena, questo è il suo nome botanico, è il frutto commestibile della pianta angiosperma (cioè coi semi nel frutto) dicotiledone (cioè col seme suddiviso in due cotiledoni) della famiglia delle Solanaceae come patata, pomodoro, peperoncino, tabacco. Si tratta della versione addomesticata in Asia della specie selvatica Solanum incanum: i primi esemplari importati dall'Oriente nel nostro Occidente erano lievemente tossici, avendo un contenuto di solanina superiore a quello odierno, e perciò si consigliava di non mangiarli se già non si era in forma.

MAI MANGIARLA CRUDA. La solanina dell'attuale melanzana non deve destare estrema preoccupazione: nella melanzana cruda, il contenuto in solanine (-solanina, solasonina e solamargina) è pari a 9-13 mg per 100 g, meno della metà del valore considerato accettabile per gli ortaggi cioè 20-25 mg per 100 g. Per intossicarsi col glicoalcaloide che la pianta sviluppa per proteggersi da funghi e parassiti bisognerebbe assumere 2-4 chili di melanzane crude, tuttavia è consigliabile consumare sempre e solo melanzane cotte, perché un'intossicazione anche minima può creare sgradevoli disturbi gastrointestinali (già la cottura a meno di 243 °C, temperatura a partire dalla quale la solanina degrada completamente, non la elimina del tutto, quindi evitiamo di aggravare la cosa col consumo a crudo). Dicevamo delle prime melanzane che giungono in Europa con più solanina di oggi: nonostante fossero conosciute fin dalla preistoria in Asia, troviamo la prima citazione scritta della melanzana nell'antica guida cinese all'agricoltura dell'anno 544 Qimin Yaoshu, le melanzane giungono da noi nel Medioevo per il tramite arabo di mercanti mediorientali che le introducono prima in Italia e in Spagna e poi nel resto d'Europa. Proprio come accade per altre piante, anche solanacee come il pomodoro, le melanzane non diventano subito una tipica coltura alimentare europea, in primo luogo perché le si riteneva velenose oppure afrodisiache, erano cioè percepite come pianta più medicinale che alimentare. Rappresentate per la prima volta nel manoscritto miniato italiano del XIV secolo Il libro de casa Cerruti, divennero vere e proprie protagoniste della cucina solo quando lo diventò anche il pomodoro (che, importato in Europa dopo la scoperta dell'America, si è affermato come alimento prima in Italia e poi nel resto d'Europa solo nel XVIII secolo).

DAGLI ARABI ALLA SICILIA. Molte ipotesi sulle origini della ricetta italiana per eccellenza con le melanzane, cioè quelle melanzane alla parmigiana diffuse innanzitutto in Sicilia, Calabria e Campania e dal sud assurte a piatto a diffusione nazionale, datano la nascita del piatto tra XVII e XVIII secolo, in convergenza, appunto, con l'exploit del pomodoro. Poiché è arrivata nel Mediterraneo ben dopo l'epoca degli antichi greci e romani, il suo nome non ha etimologia latina o ellenica e deriva direttamente dall'arabo bdingin: «petonciana», «petonciano» o anche «petronciano» sono i primi nomi italiani, ora in uso soltanto in Sicilia. Per evitare fraintendimenti sulle sue proprietà, che potevano nascere dall'interpretazione di «peto» come suffisso (che in realtà non è), si sostituirono quelle due sillabe con mela: la «petonciana» diventò «melanciana» e poi melanzana, che, per paraetimologia, venne anche interpretata come «mela non sana» (il riferimento è alla difficile digestione da cruda della melanzana d'un tempo). Nel resto d'Europa il nome deriva dall'arabo con l'articolo al-bdhingin che in Catalogna diventa albergínia, in Francia e Germania aubergine, in Spagna berenjena e alberengena, in Portogallo bringella, mentre il nome anglosassone eggplant cioè «pianta delle uova» si spiega con le cultivar bianche, che in effetti paiono uova bianche di gallina, e poi dà vita all'islandese eggaldin e al gallese planhigyn wy. Un po' scherzando, potremmo dire che la melanzana presenta la forma di una grossa pillola e in effetti si comporta come un vero e proprio ricostituente multivitaminico minerale, tanto che i vegani, complice anche la struttura ampia e spugnosa che permette di farne «filetti», la concepiscono come una bistecca vegetale. Tale, ovviamente, non è, però è vero che un etto di melanzana contiene innanzitutto ben 184 mg di potassio, 33 mg di fosforo e 26 mg di sodio.

BUONA ANCHE PER IL DIABETE. Il potassio è un importantissimo sale minerale, coinvolto in vari processi fisiologici come la contrazione muscolare, l'equilibrio idrosalino e la regolazione della pressione arteriosa, il fosforo è necessario per il metabolismo energetico delle cellule e la costruzione delle proteine e il sodio, col quale non bisogna esagerare, perché un eccesso alza la pressione arteriosa, aumenta la glicemia e la ritenzione idrica (la Rda consigliata è massimo 2 g al giorno e la melanzana non rischia certamente di esaurirla, però salatela poco), ma nemmeno è da evitare perché il sodio è di aiuto nei dolori reumatici, contrasta i crampi muscolari e aiuta il sistema nervoso centrale. Poi abbiamo l'acido folico o vitamina B9, utile in particolare alle donne in gravidanza, la cui carenza rallenta la sintesi del Dna e la divisione cellulare, può creare problemi alla spina dorsale e provoca diverse forme di anemia. Sempre contro l'anemia abbiamo il ferro (0,2 mg) e la vitamina C (2,2 mg). Quest' ultima è un antiossidante fondamentale per il sistema immunitario, per la sintesi del collagene e per l'assimilazione del ferro da parte dei globuli rossi, inoltre aiuta - come anche le vitamine del gruppo B che la melanzana contiene in buona quantità - la sintesi della serotonina, l'ormone del buonumore con valenza antidepressiva. Le melanzane aiutano anche la salute del cuore: soprattutto le varietà con buccia di colore viola scuro sono molto ricche di polifenoli, di acidi clorogenico e caffeico e di flavonoidi come la nasunina che proteggono il cuore dallo stress ossidativo causato dai radicali liberi (perciò conviene mangiarle sempre con la buccia). Si tratta di antiossidanti organici, con proprietà anche antivirali e antibatteriche, non molto noti, ma capaci di combattere con un certo vigore i radicali liberi. L'antiossidante acido clorogenico rallenta anche il rilascio di glucosio nel flusso sanguigno dopo un pasto, quindi la melanzana, col suo indice glicemico 20 che la fa appartenere ai cibi a basso indice glicemico, può essere tranquillamente mangiata anche da chi ha problemi di diabete. Coi suoi 6 g di carboidrati per 100 g, suddivisi in 3 di fibre alimentari e 3 di zuccheri, la melanzana è considerata anche un ortaggio decisamente detox e genericamente antitumorale perché le fibre ripuliscono l'intestino da scorie e tossine.

IL TEST DELLA FRESCHEZZA. Sempre grazie all'alto tasso di fibre stimola la motilità intestinale ed è di aiuto nelle diete, saziando bene e velocemente, soprattutto se cotta al forno, alla griglia, al vapore, insomma in preparazioni che non la vedano fritta. La sua struttura spugnosa, infatti, determina un rilevante assorbimento di grassi che, se si è nel corso di una dieta dimagrante, non sono i benvenuti se sono in eccesso. Le melanzane non contengono grassi e anzi il loro consumo abbassa il tasso di colesterolemia. Con sole 25 calorie ogni 100 grammi, sono perfette per chi vuole restare leggero. Nel 2019 abbiamo raccolto 2.192.492 quintali di melanzane coltivate in piena aria e 813.666 quintali in serra per un totale di 3.006.158 quintali di melanzane italiane. Rispetto al 2018 (2.200.598 quintali di melanzane coltivate in piena aria e 782.536 quintali in serra, totale 2.983.184) abbiamo registrato un piccolo aumento produttivo e un aumento della coltivazione in serra a discapito di quella in piena aria, leggermente diminuita. La Sicilia, da sola, copre un terzo della produzione italiana di melanzane e, a livello di classifica, noi italiani ci posizioniamo come noni produttori al mondo (dopo Cina, India, Egitto, Turchia, Iran, Indonesia, Iraq e Giappone) e come primi in Europa, seguiti da Spagna e Romania. Occorre però fare molta attenzione agli accordi commerciali tra Unione europea e paesi del nord Africa e all'incremento della produzione e dell'esportazione non solo africane ma anche spagnole, che per noi rappresentano una minaccia: compriamo sempre - facciamoci attenzione - melanzane italiane, soprattutto adesso che sono nel cuore della raccolta della coltivazione in pieno campo. Le varietà italiane di questo frutto della terra estiva sono tante: la «Violetta lunga palermitana», col frutto lungo e scuro, la «Violetta lunga delle cascine» col frutto violetto; la «Violetta nana precoce», piccolina, la «melanzana di Murcia» con foglie e fusto spinosi e il frutto violetto e rotondo, la «Tonda comune di Firenze», con frutto violetto pallido, ibrida e con pochi semi e la polpa tenera e compatta, la «melanzana bianca» e poi la «melanzana rossa Dop» di Rotonda (provincia di Potenza), con forma e colore simili al pomodoro, polpa fruttata e sapore leggermente piccante (è la Solanum aethiopicum, un'altra specie probabilmente importata in Italia dai reduci delle guerre coloniali della fine del XIX secolo e recentemente recuperata grazie al presidio slow food e il riconoscimento del marchio Dop, il suo nome lucano è merlingiana a pummadora). Un piccolo trucco per riconoscere la freschezza della melanzana, al di là della specie o della coltivazione, è la durezza. Più la melanzana è dura (caratteristica che in altri casi può indicare acerbità), più è fresca.

Hilary Brueck per "it.businessinsider.com" il 28 giugno 2020. Ecco le tre principali bugie sull’alimentazione che mi sono state propinate da piccolo: gli alimenti a basso contenuto di grassi sono sempre migliori rispetto a quelli ricchi di grassi. Bere più latte rafforza le ossa. E: sei idratato correttamente solo quando la pipì è trasparente. No, no, e no. Allora non lo sapevo, ma alcuni di questi “fatti” sul mangiar sano che ho assorbito da giovane erano furbe tattiche di marketing travestite da consigli di esperti su cosa mangiare. Altri consigli sono stati poi sfatati dalla ricerca scientifica. Ecco alcuni miti sull’alimentazione che ci hanno insegnato da piccoli rivelatisi semplicemente falsi.

MITO: I prodotti a basso contenuto di grassi sono migliori per il girovita rispetto agli stessi prodotti ricchi di grassi. Potrebbe sembrare un controsenso, ma mangiare meno grassi potrebbe in realtà fare ingrassare. “Il consumo di grassi non fa aumentare di peso”, ha scritto il dottor Aaron Carroll nel suo libro The Bad Food Bible. “Al contrario, in realtà potrebbe aiutare a perdere qualche chilo”. Infatti è più probabile che le persone che assumono pochi grassi (cosa di cui il nostro corpo ha bisogno per funzionare correttamente) assumano al loro posto zucchero e carboidrati raffinati, cosa che col tempo può comportare un significativo aumento di peso. Studi condotti su persone di tutto il mondo ne hanno dimostrato più e più volte la veridicità. Le molecole di grasso aiutano il nostro corpo a rimanere in salute e ci aiutano ad assorbire sostanze nutritive presenti negli altri cibi. Perciò non dovete sentirvi in colpa se preferite il latte intero a quello parzialmente scremato.

MITO: Dovresti “fare rifornimento” di elettroliti dopo l’esercizio fisico. Spiacente, amanti del Gatorade, ma gli elettroliti e i performance drink non hanno effetti particolari sul vostro corpo. “Gli atleti che perdono molta massa corporea durante le maratone, le ultramaratone e gli Ironman sono di solito i migliori, il che suggerisce che la perdita di fluidi non è così strettamente legata al rendimento, come affermano i produttori di bevande”, ha scritto la giornalista Christie Aschwanden nel suo libro del 2019, Good to go: What the athlete in all of us can learn from the strange science of recovery. Aschwanden spiega che il tuo cervello è perfettamente in grado di regolare da solo gli elettroliti come il sale all’interno del corpo. “Affinché le vostre cellule funzionino correttamente, vi serve la giusta quantità di fluido e di elettroliti nel sangue, e questo equilibrio è strettamente regolato da un ciclo di feedback”, dice.

MITO: La tua pipì dovrebbe essere trasparente e dovresti bere otto bicchieri d’acqua al giorno. Se la vostra pipì è trasparente, probabilmente dovreste trovare presto una toilette perché siete iperidratati. In realtà, il corpo ha un “centro della sete” nel cervello che aiuta a regolare la quantità di fluidi che vi serve ed è regolato in maniera straordinaria (anche se tende a diventare meno efficace col passare degli anni). Il modo migliore per restare idratati è quello di ascoltare la vostra sete e bere quando vi sentite. Non ignorate la voglia di bere acqua né confondetela con la fame, e in generale starete bene. E non preoccupatevi neanche tanto del colore della vostra urina. Un giallo chiaro o paglierino può indicare che siete ben idratati, ma non dovete per forza farvi prendere dal panico se l’urina è più scura. “La pipì scura potrebbe voler dire che siete a corto di fluido, ma anche che i vostri reni stanno controllando l’osmolalità del vostro plasma salvaguardando acqua”, ha detto Aschwanden.

MITO: La colazione è il pasto più importante del giorno. Alcuni produttori di cereali hanno guadagnato un sacco di soldi grazie a questa frase ad effetto. “Molti, se non la maggior parte degli studi che dimostrano che chi consuma la colazione è più sano e controlla meglio il peso rispetto a chi non consuma la colazione erano finanziati da Kellogg e da altri produttori di cereali i cui affari dipendono da persone che credono che colazione sia sinonimo di cereali pronti da mangiare”, ha scritto nel 2015 sul suo blog Food Politics l’esperta di nutrizione Marion Nestle. “Studi condotti con finanziamenti indipendenti tendono a dimostrare che qualsiasi modello di alimentazione che fornisce frutta e verdura, bilancia le calorie e non include troppo cibo spazzatura può sostenere la salute“. Il consiglio sulla colazione da parte di Nestle è breve e coinciso: “Se vi svegliate affamati, fate senz’altro una colazione mattutina. Sennò, mangiate quando siete affamati e non preoccupatevi troppo”. In effetti, gli studi hanno dimostrato che le persone che fanno ginnastica al mattino a stomaco vuoto possono bruciare fino al 20% in più di grasso corporeo durante gli esercizi. Ovviamente, continuano a essere pubblicati studi che suggeriscono come il saltare la colazione sia collegato a morte prematura. Ma il personal trainer Max Lowery ha detto poco fa a Business Insider che ricerche del genere potrebbero non prendere in considerazione tutti i fattori. “Le persone che in generale sono più attente alla salute tendono a fare la colazione perché seguono raccomandazioni sanitarie”, ha notato Lowery, “mentre di solito le persone che saltano la colazione sono complessivamente meno sane perché le ignorano”. Però, i nutrizionisti consigliano spesso di mangiare qualcosa entro le prime due o tre ore dal risveglio mattutino per evitare di diventare scontrosi e affamati.

MITO: I cereali sono un ottimo cibo per la colazione. La maggior parte dei cereali è ultra lavorata. Vuol dire, cioè, che sono ricchi di conservanti, confezionati in sacchetti di plastica e cosparsi di zucchero. Gli scienziati hanno inizi a evidenziare i pericoli degli alimenti lavorati come questi: le persone che ricorrono a questo genere di cibi pronti tendono a mangiare di più (circa 500 calorie extra al giorno) e aumentano più di peso delle persone che mangiano frutta, verdura, grani e altre piante commestibili non lavorate. Invece di iniziare la giornata con i cereali, molti dietologi ed esperti nutrizionisti suggeriscono di mangiare una tazza di yogurt greco con noci e bacche. Ciò fornirà al vostro corpo grassi salutari, proteine e fibre per saziarvi.

MITO: I succhi 100% di frutta sono una scelta salutare. Recentemente, gli scienziati hanno osservato le cartelle cliniche di oltre 13.400 adulti statunitensi e concluso che a ogni 33 cl. in più di succo bevuti al giorno corrispondeva un rischio di morte maggiore del 24%. Il risultato non ha sorpreso i nutrizionisti che studiano le bevande zuccherate, dato che il modo in cui il nostro corpo elabora lo zucchero presente nei succi di frutta è praticamente identico al modo in cui assumiamo lo zucchero da una lattina di bibita gassata. Semplicemente, il succo non soddisfa il nostro stomaco come fa una porzione di frutta fibrosa. “Si tratta fondamentalmente di zucchero e acqua, senza proteine o grassi che controbilanciano quel metabolismo”, Jean Welsh, professoressa di nutrizione della Emory University, aveva precedentemente detto a Business Insider. In modo analogo, neanche i frappè — che sono spesso ricchi di zucchero e potrebbero non contenere tutte le fibre presenti nella frutta intera — sono un cibo sano.

MITO: Fare uno spuntino è sano. Fare uno spuntino può essere un’abitudine sana, dato che evita alle persone di mangiare troppo durante i pasti. Ma la ricerca dimostra che inserire gli spuntini nella vostra routine quotidiana non è necessariamente meglio per la vostra salute rispetto a tre pasti completi al giorno. Inoltre, molti spuntini facilmente disponibili non ci fanno molto bene in quanto sono spesso ultra-elaborati e ricchi di zuccheri, e quindi collegati all’aumento di peso e maggiore probabilità di casi di tumore. “Quando mangiate cibi veri, genuini e sani, vi sentite sazi prima”, ha detto recentemente a Business Insider Ocean Robbins, nipote del magnate dei gelati Irvine Robbins (cofondatore della Baskin-Robbins). “Il vostro corpo si sente sazio. Avete davvero i nutrienti di cui necessitate e a tempo debito potete avere meno appetito”.

MITO: Digiunare fa male alla salute. Fare qualche saltuaria pausa dal mangiare sta diventando una tendenza popolare nella Silicon Valley, avallata anche da una sorprendente quantità di prove. Il digiuno intermittente può aiutare le persone a prevenire malattie come il diabete, il colesterolo alto e l’obesità. È una pratica che può anche stimolare la produzione di una proteina che potenzia le connessioni cerebrali e può servire da antidepressivo. Gli scienziati pensano addirittura che digiunare possa allungare la durata della vita mantenendo le cellule sane e giovani più a lungo. In generale, una pausa di almeno 12 ore al giorno all’intestino fa bene, come detto nel 2015 al New York Times dal biologo e ricercatore del ritmo circadiano Satchidananda Panda. Basta solo non esagerare.

MITO: Probabilmente non assumete abbastanza proteine. Solo perché qualcosa è ricco di proteine non significa che sia salutare. “Molti statunitensi hanno una diete con una quantità di proteine più che sufficiente“, hanno scritto recentemente su Berkeley Wellness gli esperti di salute pubblica della University of California, a Berkeley (anche se gli ultra sessantacinquenni sono una notevole eccezione alla regola). Uno studio di lungo periodo condotto su oltre 131.300 persone negli USA ha scoperto che più proteine animali si mangiano, più aumenta la probabilità di morire per un infarto, suggerendo che potrebbe essere meglio privilegiare le proteine vegetali come quelle della frutta a guscio e dei legumi, invece di affidarsi alla carne.

MITO: La piramide alimentare dovrebbe essere la vostra guida di riferimento. Chiariamo subito una cosa: questa è l’immagine di un triangolo alimentare sulla faccia di una piramide. La “piramide” dell’immagine è stata pubblicata nel 1992 dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti (USDA) e suggerisce che esiste una strategia ideale per un’alimentazione ideale che tutti possono seguire. Questa strategia consisteva nel fare il pieno di pane e pasta, mangiare grandi porzioni di frutta e verdura (dalle tre alle cinque al giorno), e completare la dieta con qualche latticino e proteina proveniente da carne, frutta a guscio e legumi. Ma studio dopo studio i ricercatori stanno scoprendo che quello che fa bene a una persona potrebbe non andare per tutti gli altri. Organismi diversi reagiscono in maniera diversa ai grassi e ai carboidrati ingeriti, quindi quella che per qualcuno è una fonte di energia equilibrata, potrebbe far schizzare alle stelle la glicemia di qualcun altro per poi farla crollare. Ma i nutrizionisti sono generalmente d’accordo sul fatto che tutti possano trarre benefici dal mangiare più alimenti non trasformati, come verdura a foglia verde, pesce, frutta a guscio e riso integrale, eliminando al tempo stesso pane bianco e cracker confezionati della base di questo triangolo.

MITO: Le scaglie di carruba sono più sane del cioccolato. Gli amanti dei dolci salutisti hanno comprato per anni scaglie di carruba invece del cioccolato. La carruba deriva dal frutto seccato dell’albero di carruba mediterraneo (mentre il cioccolato deriva dal cacao). Ma avrebbero fatto meglio a continuare con il cioccolato. “Senza offesa per la carruba, ma non è buona come il cioccolato”, ha detto Robbins. “Si è scoperto che in realtà il cioccolato è più sano — fa bene al cuore e al cervello”. Il che non vuol dire che dobbiate mangiare barrette di cioccolato. Ma un po’ di cioccolato amaro (70% o più) di quando in quando potrebbe servire a migliorare la circolazione sanguigna e a proteggere il cuore. Gli scienziati non hanno neanche scoperto alcun reale collegamento tra consumo di cioccolato e sfoghi di acne.

MITO: Lo yogurt è sempre una scelta sana. Molti yogurt confezionati nel reparto latticini sono pieni di zucchero. Se vi piace lo yogurt, sceglietene uno bianco; potete sempre spolverarlo di frutta a guscio, semi, frutti di bosco o spezie come cannella e noce moscata per dargli sapore.

MITO: La margarina fa meglio del burro e tutti gli olii fanno male. La margarina era molto apprezzata durante la mania delle diete povere di grassi degli anni ’90. Realizzata con olii vegetali quali olio di palma e olio di colza, e semi di soia, è stata commercializzata come un’alternativa “più sana” ai grassi animali. Ma la margarina conteneva grassi insaturi. I ricercatori di Harvard stimano che durante il periodo di massimo splendore dei grassi insaturi, negli anni ’90, la loro presenza nella nostra alimentazione ha portato a circa 50.000 morti evitabili all’anno negli USA. Nel 2018, la Food and Drug Administration (FDA) ha emanato un bando quasi universale sui grassi insaturi artificiali, e oggi la maggior parte delle margarine non contengono gassi insaturi. Ma le alternative al burro sono altamente trattate, e gli olii vegetali che vengono riscaldati in laboratorio per evitarne il deterioramento, come quelli della margarina, possono essere dei gravi agenti patogeni. Spesso, un ingrediente fondamentale della margarina è l’olio di palma, che non fa lontanamente bene al nostro cuore quanto i grassi monoinsaturi presenti allo stato liquido a temperatura ambiente, come nell’olio d’oliva. I grassi monoinsaturi possono abbassare i livelli del colesterolo cattivo e mantenere in forma il nostro sistema immunitario con la vitamina E, e sono quindi un’alternativa più sana.

MITO: Evita il tuorlo ricco di colesterolo e mangia solo l’albume. Non ci sono prove che il colesterolo delle uova si traduca in elevato colesterolo nel sangue per la maggior parte delle persone. Nel tuorlo di un uovo di gallina c’è un sacco di colesterolo: più di 180 milligrammi, oltre metà della dose giornaliera raccomandata. Ma ciò non significa dovremmo diffidare un’omelette mattutina bella gialla. “In realtà, non esiste un singolo studio che ha dimostrato come un elevato consumo di uova sia collegabile a un alto rischio di malattie cardiache”, ha detto a The Cut nel 2015 Walter Willett, ricercatore alimentare presso Harvard.

MITO: Dovresti mangiare meno carboidrati possibile. Non ci sono prove che il colesterolo delle uova si traduca in elevato colesterolo nel sangue per la maggior parte delle persone. Nel tuorlo di un uovo di gallina c’è un sacco di colesterolo: più di 180 milligrammi, oltre metà della dose giornaliera raccomandata. Ma ciò non significa dovremmo diffidare un’omelette mattutina bella gialla. “In realtà, non esiste un singolo studio che ha dimostrato come un elevato consumo di uova sia collegabile a un alto rischio di malattie cardiache”, ha detto a The Cut nel 2015 Walter Willett, ricercatore alimentare presso Harvard.

MITO: Dovresti mangiare meno carboidrati possibile. Una caloria è una caloria, giusto? Sbagliato. I nutrizionisti invitano sempre più a valutare i cibi da un punto di vista olistico, invece di basarsi sul conteggio dei singoli nutrienti o delle calorie. L’avocado, ad esempio. L’equivalente di una tazza contiene 234 calorie e 14 grammi di grasso monoinsaturo, insieme a dosi minori di grasso polinsaturo (2,7 g) e saturo (3,1 g). Ma un avocado fornisce anche buone dosi di fibre, proteine e potassio, che può contribuire a mantenere sani livelli di pressione sanguigna. Nessuno direbbe che si ottengono gli stessi benefici per la salute o che ci si sazierebbe dopo aver mangiato 234 calorie di patatine (circa 25 patatine). Studi recenti hanno dimostrato che le piante sono la scelta migliore per la nostra salute e che consumare più cibi trattati — anche con la stessa quantità esatta di calorie — può fare guadagnare peso.

MITO: Il succo d’arancia fa passare il raffreddore. Il succo d’arancia contiene molta vitamina C, che aiuta a mantenere forte il nostro sistema immunitario. Ma ciò non vuol dire che un bicchiere di succo d’arancia contrasterà un raffreddore in corso, o lo farà addirittura passare più velocemente. Provate invece a succhiare una pastiglia allo zinco — secondo alcuni studi lo zinco può far passare più velocemente il raffreddore.

MITO: Assumere nutrienti dalle vitamine è lo stesso che mangiarli nei cibi, per cui un multivitaminico al giorno leva il medico di torno. Gli scienziati hanno provato in continuazione gli effetti dei multivitaminici, ma non hanno ottenuto prove valide di alcun beneficio reale per la nostra salute. “Mostratemi un singolo studio mai compiuto che dice che persone che hanno assunto pillole multivitaminiche… sono state meglio. Non ci sono studi”, ha detto recentemente a Business Insider Ajay Goel, un biofisico che fa ricerca sul cancro. La US Preventative Services Task Force non raccomanda alle persone di assumere vitamine o integratori come misura di prevenzione di malattie cardiache o cancro, le principali cause di decessi negli USA. In effetti, ci sono prove che gli integratori possono fare più male che bene. “Gli integratori di vitamina A supplementare possono condurre a livelli tossici se assunti con troppa frequenza”, ha detto su un blog il dott. Clifford Lo, professore associato di nutrizione presso la Harvard School of Public Health. Cercate di assumere le vitamine e i minerali importanti da frutta e verdura fresche.

MITO: Il sale fa male. Non esistono prove convincenti sul fatto che il sale da solo faccia aumentare la pressione sanguigna o contribuisca alla morte per infarto. Forse le persone che mangiano tanto sale sono a rischio per molte altre ragioni, soprattutto perché la loro dieta e il loro stile di vita sono complessivamente meno salutari. Ad esempio, il sale è un ottimo conservante, ed è quindi presente in grande quantità nei cibi confezionati, che sappiamo non essere salutari.

MITO: Mangiare carote migliora la vista. Secondo Snopes, questa convinzione errata potrebbe essere nata nella Seconda Guerra Mondiale, quando gli inglesi dicevano che i loro piloti di bombardieri avevano una vista incredibilmente buona grazie alle carote invece di ammettere di usare i radar per rintracciare i nazisti. Le carote fanno bene alla salute degli occhi, ma non possono farti vedere meglio. Contengono molti elementi chimici chiamati carotenoidi, come anche gli spinaci, i cavoli, i cavolfiori e le patate dolci. Il nostro organismo trasforma questi elementi chimici in nutrienti, come la vitamina A che è essenziale allo sviluppo di embrioni sani, per mantenere sani i tessuti e assicurare il corretto funzionamento del sistema immunitario. Ad esempio, chi segue una dieta ricca di carotenoide beta carotene, ha minori probabilità di soffrire di tumore al collo dell’utero e leggermente minori probabilità di tumore al seno. Per mantenere sani gli occhi con l’invecchiamento, i ricercatori che studiano la degenerazione maculare consigliano di mangiare molti vegetali ricchi di vitamine C, E, zinco, omega 3 e altri nutrienti. Oltre alle carote, si possono mangiare pesce, broccoli, frutta a guscio e bacche.

MITO: Il caffè fa male alla salute. Per decenni, i ricercatori hanno cercato di capire se bere caffè fa male alla salute. A grande maggioranza, la risposta è no. Una gran quantità di studi scientifici suggerisce che bere caffè possa contribuire ad allungare la vita. Forse la prova migliore in proposito proviene da due grandissimi studi: uno condotto su oltre 400.000 persone negli USA e un altro su oltre 500.000 cittadini europei. Entrambi gli studi hanno scoperto che chi beve regolarmente caffè ha meno probabilità di morire per qualsiasi causa rispetto a chi non beve il suo caffè quotidiano. Altre ricerche hanno addirittura suggerito che circa quattro tazze di caffè al giorno potrebbe esse la quantità migliore per fare invecchiare bene il cuore. Ma il caffè non è la bevanda perfetta. “Ad alcuni non serve perché li rende agitati e dipendenti, provocando mal di testa se non ne bevono molto”, dice Robbins. “E credo che a volte la nostra società sia un po’ nevrotica”.

MITO: Le bibite dietetiche fanno bene. Zero calorie! Nessun problema, giusto? Le bibite dietetiche possono essere utili per rinunciare alle bevande zuccherate, ma gli scienziati non sono ancora sicuri che non facciano male. Un recente studio durato 34 anni condotto su più di 118.000 uomini e donne negli Usa ha scoperto che le bibite dietetiche e i sostituti dello zucchero consumati in grandi quantità potrebbero non essere molto migliori per il nostro organismo rispetto alle bibite zuccherate. “Le bibite dietetiche possono servire per aiutare chi beve molte bibite zuccherate a ridurne il consumo, ma l’acqua resta la scelta migliore e più sana“, ha detto Vasanti Malik, autore dello studio e ricercatore presso la Harvard T. H. Chan School of Public Health. Malik ha scoperto che le donne che bevono quattro o più bibite con dolcificanti artificiali al giorno aumentavano la loro probabilità di morte (scoperta che però non vale per gli uomini). Secondo i ricercatori la spiegazione per il collegamento osservato tra bevande dietetiche e decessi è attribuibile al fatto che le persone che sono già sovrappeso ne bevono di più. Ma servono ulteriori ricerche.

MITO: Per prevenire l’osteoporosi bisogna bere molto latte. “Got milk?” era una furba pubblicità degli anni ‘90 del California Milk Processor Board per contrastare il calo di vendite di latte. Per anni, celebrità con i baffi di latte ci hanno detto che il calcio contenuto nel latte è speciale per mantenere robuste le nostre ossa. Ma in realtà non esistono prove che il latte sia più efficace rispetto ad altri alimenti ricchi di calcio, come le verdure a foglia verde e i legumi. Il calcio è  utile per avere ossa robuste e i latticini ne contengono molto: ma per la salute delle nostre ossa ci servono anche le vitamine D e K. Tra l’altro, non sembra che chi beve molto latte sia al riparo da fratture.

Nicla Panciera per "La Stampa" il 27 giugno 2020. Troppo sale non fa solo salire la pressione e aumentare il rischio di ictus e di infarto, ma indebolisce la risposta immunitaria dell'organismo contro alcuni batteri. Il legame tra sale e sistema immunitario non è una novità, ma ora si inizia a svelarne i meccanismi, oltre che misurarne in modo preciso gli effetti sull'organismo. Lo ha fatto un team dell'Università di Bonn in un lavoro pubblicato sulla rivista «Science Traslational Medicine»: un'alimentazione ricca di sale nei topi peggiora la gravità delle infezioni renali causate da E. coli e delle infezioni sistemiche causate da Listeria monocytogenes, un comune patogeno alimentare. Una ridotta capacità di combattere queste infezioni è stata riscontrata anche nei neutrofili - un tipo specifico di globuli bianchi - dei soggetti volontari sani che per una settimana avevano consumato ogni giorno una quantità di sale di 6 grammi superiore alla soglia massima raccomandata dall'Oms, che è di 5 grammi. «Le ghiandole surrenali, al di sopra dei reni, producono due tipi di ormoni: i mineralcorticoidi e i glucocorticoidi, attivi sul metabolismo minerale e sul sistema immunitario. Alterazioni dei livelli del sale si riflettono proprio in questa intercorrelazione, la quale ha anche un senso dal punto di vista evolutivo: se sono attaccato da un predatore, devo dare la precedenza alla fuga, mobilitando quindi le riserve minerali, e non posso pensare di armare il sistema immunitario nella lotta ai germi», spiega Angelina Passaro del dipartimento di medicina interna dell'Università degli Studi di Ferrara e coordinatrice del corso di laurea di dietistica. Il sensore renale che rileva l'eccesso di sale provoca anche un aumento di glucocorticoidi, i quali inibiscono la risposta immunitaria. «Lo studio mostra il complesso sistema di controllo che porta dall'eccesso di sale all'immunosoppressione. E ci racconta un aspetto importante dal punto di vista pratico: in un contesto di lunga sopravvivenza, eccedendo con il sodio, esponiamo l'organismo a una depressione cronica del sistema immunitario che può essere, come stiamo osservando con il Covid-19, estremamente pericolosa». Quando si parla di sodio e di sistema immunitario si parla anche di salute del cervello. Uno studio realizzato da Costantino Iadecola, direttore del «Brain and Mind Research Institute» della Weil Cornell Medical School di New York, apparso sulla rivista «Nature Neuroscience», aveva dimostrato che l'effetto nocivo del sale sul cervello in termini di compromissione delle capacità cognitive non dipende dall'ipertensione, a cui era invece attribuito, ma proprio da un meccanismo di natura immunitaria. Il seguito, su «Nature», mostra che un'elevata assunzione di sale riduce la sintesi di ossido nitrico (monossido di azoto), il che porta all'attivazione di un enzima, chiamato CDK5, che è coinvolto nella fosforilazione della proteina tau, che finisce per accumularsi, in un processo equivalente a quello delle demenze. L'Oms raccomanda - è bene ricordarlo - un consumo giornaliero di sale non superiore ai 5 grammi, corrispondenti a circa 2 grammi di sodio. La quantità ideale raccomandata per gli adulti dall'American Heart Association è invece di 3,75 grammi al giorno di sale, e quindi 1,5g di sodio, valori già rivisti alla luce del rischio cardiovascolare e di quello ipertensione. «Ma il consumo medio giornaliero nel nostro Paese - dice Passaro - è in realtà tra i 5 e i 6 grammi di sodio». Combattere gli eccessi è una delle priorità stabilite dagli specialisti dell'Oms: il Piano d'azione globale 2013-2020 prevede, infatti, una riduzione del 30% del consumo di sodio, da realizzare entro il 2050. L'Organizzazione chiede agli Stati l'adozione di programmi, linee-guida e misure politiche che coinvolgano anche l'industria alimentare e tutti gli operatori del commercio al fine di ridurre la presenza di sale aggiunto negli alimenti prodotti e venduti. Il sale, infatti, si trova in tutti gli alimenti trasformati, dai salumi ai formaggi fino al pane, in tutti i cibi elaborati che acquistiamo, nei piatti pronti e anche nei prodotti surgelati. «Da lì provengono almeno 3,5 dei 5 grammi di sodio che assumiamo ogni giorno: solo 1,5 grammi è contenuto naturalmente negli alimenti come frutta e verdura», spiega Angelina Passaro. Il sale aggiunto è, di conseguenza, superfluo e dannoso. Tanto che il limite dei 5 grammi al giorno - si legge nell'ultimo rapporto del Centro di ricerca Crea-Alimenti e Nutrizione - «è una quantità che di fatto rappresenta un compromesso tra la soddisfazione del gusto e la prevenzione dei rischi». Escludendo gli anziani, la cui situazione va valutata caso per caso a seconda della patologia e delle terapia, quella al sale è un'abitudine da abbandonare: «Spesso si danno ai bambini, in una fase critica dello sviluppo del gusto, pappe salate nell'errata convinzione di renderle più appetibili. Niente di più sbagliato. L'addizione di sale non è necessaria. Ci vuole attenzione a non creare l'abitudine a un sapore di cui il bimbo dovrà, come noi, liberarsi». Conclusione: «Tutti dovrebbero ridiventare capaci di apprezzare il vero sapore degli alimenti».

Milena Gabanelli per "corriere.it" il 7 maggio 2020. Quello che abbiamo capito in questi drammatici mesi è che in caso di contagio, l’aggravamento è provocato da uno stato di infiammazione profonda che altera il sistema immunitario. E quindi, oltre al rigido rispetto delle regole, quello che possiamo fare è cercare di rafforzare il nostro sistema immunitario, che è strettamente legato al microbiota intestinale, ovvero quell’insieme di microrganismi che regolano molte funzioni e generano una risposta anti-infiammatoria contro i patogeni. Il 70-80% delle cellule immunitarie del corpo si trova proprio nell’intestino e, quindi, l’efficienza di questa attività dipende dalla varietà di alimenti e dalla qualità dei nutrienti che appunto introduciamo con il cibo. Certo, poi ognuno è diverso e quindi l’aspetto nutrizionale va personalizzato. Per esempio: gli agrumi sono una importante fonte di vitamina C, ma se soffro di gastrite li devo evitare e sostituire con qualcos’altro. Ecco quindi la buona pratica suggerita da dietologi e immunologi. I micronutrienti importanti più importanti per il sistema immunitario:

Zinco. È un minerale essenziale che si trova in tutti gli organi, i tessuti e i fluidi corporei e dopo il ferro è il secondo oligominerale più abbondante. Una sua carenza è stata associata a molte condizioni patologiche, tra cui malattie da raffreddamento, e polmoniti. È presente a diverse concentrazioni sia nei cibi animali che vegetali e ne dobbiamo assumere 9-12 mg (donna-uomo al giorno). Un bisogno che può essere coperto con 10 alici, oppure due seppie o calamari, una coscia di tacchino, un tuorlo d’uovo, oppure circa 200 g di fesa di manzo. Le ostriche ne contengono in assoluto la maggiore quantità, ben 90 mg, ma non sono un alimento che consumiamo facilmente. Tra le migliori fonti vegetali, invece il germe di grano, semi oleosi di canapa (tre cucchiai ne contengono il 31% e il 43% del fabbisogno), seguiti da semi di zucca, sesamo e girasole. Lo troviamo nei legumi, pinoli, noci, mandorle e nocciole, mentre tra i latticini la fonte migliore è il parmigiano, che con una porzione di 50 g ne fornisce circa 4-6 mg.

Magnesio. Una sua carenza è associata ad uno stato di infiammazione cronica. Il fabbisogno giornaliero può essere coperto mangiando 4 cucchiai di miglio decorticato o 4 cucchiai di legumi secchi; mentre 100 gr di spinaci crudi, 6 noci brasiliane, 100 gr di riso integrale ne apportano la metà del fabbisogno, che è di 240 mg al giorno.

Beta-glucani. Si trovano nella parte esterna del chicco di orzo e avena, nei funghi e nelle alghe. Una volta introdotti con la dieta, i beta-glucani sono capaci di stimolare l’attività dei fagociti (particolari globuli bianchi che hanno il compito di «mangiare» virus, parassiti e batteri). Il porridge, alimento a base di avena, è una ottima colazione.

Vitamina A. Indispensabile perché mantiene l’integrità di cute e mucose, che sono la prima barriera verso i patogeni esterni. Ne sono ricchi alcuni alimenti animali e i vegetali di colore arancione. Il fabbisogno giornaliero raccomandato varia tra 0,6 – 0.7 mg (donna – uomo). Mangiando 4 carote si assumono ben 2,3 mg, con mezzo piatto di zucca circa 1,1mg e circa 0,5mg con 3-4 albicocche, nel tuorlo d’uovo invece sono 0,113 mg.

Vitamina C. È un micronutriente che non possiamo sintetizzare e supporta vari meccanismi di difesa cellulari. Un buono status della vitamina C contrasta le infezioni virali comuni come le malattie respiratorie ed evita lo sviluppo di complicanze. Il fabbisogno giornaliero varia da 105 mg a 85 mg (rispettivamente per uomini e donne). È importante assumerla con la dieta, mangiando ad esempio 2 kiwi al giorno (128 mg), un’arancia (75 mg), una ciotola di fragole (81 mg) o di ribes rosso (50mg).

Mangiando 100 g di peperone rosso o di cavolo nero ne assumiamo dai 128 mg ai 120 mg, se optiamo per i broccoli 89 mg, spinaci 54 mg, mentre una porzione di lattuga o rucola o cavolo rosso crudo ne apportano rispettivamente 47, 88, 55 mg. Poiché è una vitamina che si ossida facilmente e si perde con la cottura ad alte temperature, è preferibile cuocere a vapore e gli agrumi andrebbero tenuti in frigo e mangiati o bevuti subito, in caso di spremute.

Acidi grassi polinsaturi omega-3. Il capostipite della famiglia è l’acido α-linolenico (ALA). L’organismo non è in grado di sintetizzarlo, per questo è definito un nutriente essenziale che deve essere necessariamente introdotto con la dieta. Presente soprattutto in alcune tipologie di frutta secca e di semi oleosi. Tre cucchiaini di semi di lino ne apportano 5,1 mg, 7-8 noci 2 mg. Fondamentali per l’organismo sono anche l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesoenoico (DHA), appartengono anche essi alla classe degli omega-3. Il fabbisogno giornaliero può essere soddisfatto assumendo pesce azzurro (che ne risulta più ricco): alici, sarde, sgombri. Consigliate 2-3 porzioni di pesce settimanale e 30 gr di noci.

Acido folico. Stimola la formazione di globuli bianchi e il fabbisogno giornaliero (0,4 mg) si raggiunge mangiando mezzo piatto di asparagi, fagiolini, spinaci, bietole o un piatto di scarola, cavolfiori, cavolo cappuccio, fagioli, ceci, lenticchie o piselli. Selenio: ostacola la formazione dei radicali liberi, proteggendo le cellule dai danni dell’ossidazione. Interviene nel funzionamento del sistema immunitario e nel metabolismo degli ormoni tiroidei. Il fabbisogno giornaliero è di 0,05 mg e si assume con mezzo piatto di polpo, 6 gamberi o un filetto di rombo. Tre 3 cucchiaini di semi di chia forniscono un terzo del fabbisogno giornaliero.

Polifenoli. Sono dei modulatori epigenetici del microbiota. Ne contengono in assoluto la quantità più elevata i frutti rossi come more e mirtilli, lamponi, ribes e le verdure crude. Poi the verde, riso integrale, riso nero, miele, origano, rosmarino, basilico, maggiorana e cannella. Una buona quantità di polifenoli si può assumere con 3 cucchiai di un buon olio extravergine di oliva, che contiene anche oleocantale, oleorupeina e idossitirosolo, che hanno un potere anti-infiammatorio paragonabile a quello dell’ibuprobene.

Ferro. Una carenza determina un indebolimento del sistema immunitario e le donne hanno un fabbisogno maggiore dell’uomo, rispettivamente 18 e 10 mg. Alimenti vegetali ricchi di ferro sono legumi, crescione o cavolo riccio. I legumi però contengano i fitati (e assunti in grandi quantità hanno controindicazioni), pertanto è fontamentale eliminarli con l’ammollo. Quattro cucchiai di avena e 4 cucchiai di legumi forniscono circa il fabbisogno di ferro giornaliero. Invece l’alimento di origine animale che ne contiene di più, dopo il fegato bovino, sono le vongole: un piatto sono 100 grammi. Mentre 100 g di carne rossa o bianca forniscono solo 1,9 g di ferro.

Vitamina D. È oggi ritenuta un ormone per il ruolo importante che svolge anche a livello immunitario. I migliori contenuti li troviamo in aringhe, alici o alcuni funghi come i chiodini, mentre è l’esposizione alla luce solare la maggiore fonte. Si considera che buoni livelli di vitamina D nel sangue siano compresi tra 30-50 ng/dl. La quantità di vitamina D che si riceve dal sole dipende da molti fattori:

1) l’ora del giorno (la pelle ne produce di più quando è al sole a metà giornata);

2) la quantità di pelle esposta (più pelle espone una persona, più vitamina D produce il corpo, l’esposizione della schiena, ad esempio, consente al corpo di produrre più vitamina D rispetto alle mani e al viso);

3) colore della pelle: quella pallida assorbe più rapidamente delle pelli di colore più scuro.

Il modo migliore per ottenere abbastanza vitamina è attraverso l’esposizione al sole non protetta da filtri solari, ma questo può causare gravi problemi, soprattutto nei soggetti con pelli chiare e tendenti ad avere molti nei. Quindi occorre valutare i fattori di rischio personali. In generale un’esposizione frequente al sole e per tempi brevi, evitando di scottarsi, è da ritenersi salutare. In caso di carenza è raccomandabile l’integratore a base di vitamina D3 (colecalciferolo), affidandosi ad una figura professionale che ne stabilità il dosaggio giornaliero adeguato.

Alimenti fermentati. Aumentano la salute del microbiota intestinale, del sistema digestivo e immunitario. I più comuni alimenti fermentati sono yogurt, kefir, kimchi, he kombucha, miso, crauti e tempeh.

Cosa evitare? Troppo sale a tavola riduce le difese immunitarie, e quindi la possibilità di contrastare le infezioni batteriche. Bastano 6 g in più al giorno per mandare in tilt una parte fondamentale del sistema immunitario. Stesso meccanismo avviene introducendo troppi zuccheri: una sola lattina di bevanda gassata zuccherata può contenerne fino a 39 g. La dose raccomandata è 25 g. L’effetto sul sistema immunitario è immediato, iniziando 30 minuti dopo il consumo di zucchero, e può durare fino a cinque ore. 

Consumo di alcol: l’alcool sopprime il sistema immunitario in ambedue le sue componenti, innata e acquisita, e altera il microbiota intestinale. Se assunto in modo persistente nel tempo riduce le capacità dei globuli bianchi di circondare e distruggere batteri pericolosi. L’eccesso di alcolici, inoltre, interferisce con la produzione di citochine, rendendo più sensibili alle infezioni. Da evitare assolutamente quando è in corso un’infezione virale o batterica.

La qualità alimentare. Per mantenere un buon stato di salute, e avere un sistema immunitario efficiente, è bene cucinare partendo da materie prime non trasformate, non trattate con pesticidi, non provenienti da allevamenti intensivi e che non contengano additivi, zuccheri o eccesso di sale. Infine: queste linee generali non sono adattabili a tutti, occorre considerare il proprio personale stato di salute, età, intolleranza e in tal caso evitare questo o quell’alimento. Nota: Se poi ogni tanto si beve un bicchiere di vino o si mangia una fetta di salame non succede nulla. A tavola, come nella vita, anche la trasgressione ha un impatto positivo sullo stato di benessere, che a sua volta da un buon contributo al sistema immunitario.

A TAVOLA CON IL DITTATORE. DAGONEWS il 12 aprile 2020. I cuochi personali di spietati dittatori hanno rivelato come è stato per loro lavorare con persone disposte a uccidere per un pasto sbagliato. Gli uomini - e una donna - che hanno cucinato per Idi Amin, Fidel Castro, Saddam Hussein, Pol Pot e l'ex presidente albanese Enver Hoxha hanno vuotato il sacco rivelando gli anni vissuti accanto a loro, la paura di essere ammazzati, ma anche i riconoscimenti e gli ottimi stupendi. Lo scrittore polacco Witold Szablowski ha viaggiato dalle savane del Kenya alla giungla cambogiana per trovare ogni chef. Ci sono voluti quattro anni per scrivere “Come nutrire un dittatore: Saddam Hussein, Idi Amin, Enver Hoxha, Fidel Castro e Pol Pot attraverso gli occhi dei loro cuochi” perché alcuni degli chef si rifiutavano di parlare. Ma adesso il libro è pronto e uscirà a fine mese.

Abu Ali ha lavorato per Saddam Hussein. «Non avevo paura che mi facesse del male. Ma in una brutta giornata poteva decidere di farmi restutire i soldi per la carne e il pesce che non gli erano piaciuti. Succedeva spesso. Mangiava qualcosa, era troppo salato e mi convocava e mi diceva: “Abu Ali, chi diavolo aggiunge tanto sale alla tikka?". Si lamentava allo stesso modo per le omelette o la zuppa di gombo, che era una delle sue preferite». Ogni volta Ali rimborsava 50 dinari. Il giorno dopo Saddam magari gliene regalava 50 perché gli era piaciuta la zuppa di lenticchie. Due volte l'anno ai cuochi venivano consegnati nuovi abiti appositamente realizzati in Italia: grembiuli, cappelli e berretti e due completi con gilet. Una volta all'anno Saddam acquistava a ciascuno di loro una nuova auto: Ali ha avuto una Mitsubishi, poi una Volvo e poi una Chevrolet Celebrity. A colazione Saddam di solito mangiava uova, pesce o zuppa di lenticchie o gombo. A pranzo preparavano sempre da sei a otto piatti; due zuppe, pollo, pesce e il barbecue. Almeno una volta alla settimana mangiavano mazgouf, o pesce al forno, per cena. Uno dei colleghi di Ali, Kamel Hana, doveva assaggiare il cibo prima di portarlo a tavola.

In Uganda Otonde Odera ha lavorato per Idi Amin dal 1971: «Finché hai qualcosa di buono da mangiare per loro, c'è una possibilità che non ti uccideranno». In effetti Odera divenne motivo di orgoglio per Amin quando gli ufficiali dell'esercito britannico andarono a fargli visita e commentarono la bontà dei piatti di sicuro opera di uno "chef bianco". Amin triplicò lo stipendio di Odera e gli diede una Mercedes Benz nuova di zecca. Mentre l'intero paese veniva perseguitato, Odera era più ricco di quanto non fosse mai stato: «Mentirei se dicessi che non mi piaceva». Amin ha anche rivelato che il dittatore era ossessionato dalle donne: «Andava in giro con una valigetta piena di soldi per offrirli alle donne che gli piacevano. Era impossibile rifiutarlo; se una donna lo respingeva, doveva fuggire dal paese, altrimenti Amin si sarebbe vendicato. A volte, se voleva conquistare una donna sposata, le sue guardie del corpo uccidevano il marito». Con risorse quasi illimitate, Odera eccelleva come chef e si vantava di aver inventato la capra arrosto: gli venivano tolte le interiora, veniva riempita di riso, patate, carote, prezzemolo, piselli, erbe e spezie e veniva portata in tavola in posizione eretta "come se fosse viva". La minaccia della violenza era sempre dietro l’angolo e tutti conoscevano qualcuno ucciso dal dittatore o a cui erano stati tagliate mani, piedi,  orecchie o la lingua. «Mi chiederai come potevo cucinare per un mostro – ha continuato Amin - Bene, avevo quattro mogli e cinque figli. Amin mi aveva legato a lui in modo che non potessi andarmene. Non avrei potuto farcela senza i suoi soldi. Ero totalmente dipendente da lui e lui lo sapeva». Il loro rapporto peggiorò dopo l’incidente del pilaf, un dolce di riso di cui si ingozzò Moses Amin, il figlio tredicenne di Idi. Ne divorò così tanto da sentirsi male e il dittatore si convinse fosse stato avvelenato tanto da minacciare tutti: «Se muore ammazzo tutti». Si trattava solo di un’indigestione, ma da lì a poco Odera fu sospettato di aver tentato di uccidere Amin e fu arrestato. Fu portato in prigione e poi deportato nel suo Paese, il Kenya. Ancora oggi è grato di aver salvato la pelle.

Il signor K – lo chef di Hoxha che non ha voluto dare il nome - ha raccontato che lavorare per l'ex primo ministro comunista albanese comportava essere 24 ore su 24 sotto sorveglianza. I pescatori che andavano a prendere il cibo per Hoxha venivano scortati da due agenti così come chi nelle fattorie mungeva il latte per il dittatore. Hoxha, che ha governato con il pugno di ferro per quattro decenni spedendo 200.000 persone nei campi di lavoro, adorava il cibo di Gjirokaster, la città dove è nato K., motivo per cui è riuscito a diventare il suo chef personale. Non gli era permesso di dire a nessuno, nemmeno a sua moglie, per chi stava cucinando. Hoxha aveva il diabete, il che significava che non poteva mangiare più di 1.500 calorie al giorno. K. sapeva che se Hoxha fosse morto sarebbe stato giustiziato. A colazione mangiava un pezzo di formaggio con marmellata. A pranzo una zuppa di verdure e un piccolo pezzo di agnello o pesce. Per dessert aveva prugne acide e per cena mangiava yogurt. Se Hoxha era di cattivo umore, K aveva una scorta di dolci extra, fatti con zucchero per diabetici. K ha dichiarato di "vivere in un costante stato di paura: «Tutti temevano che un giorno Enver si sarebbe alzato di cattivo umore e li avrebbe mandati tutti in un campo o uccisi».

Lavorando per Fidel Castro, Erasmo Hernandez ha cucinato per innumerevoli capi di stato tra cui l'ex presidente Jimmy Carter. Il cibo preferito del dittatore cubano era la zuppa di verdure di Hernandez e, nonostante avesse sottoposto il suo intero paese a decenni di dominio comunista, «aveva modi gentili ed era dolce come un padre». Hernandez sostiene ancora oggi che «nessuno ha mai fatto tanto bene a Cuba come Fidel». Nelle rare occasioni in cui Castro mangiava carne era montone con miele o latte di cocco. Gli piaceva il lechon asado, un maialino che è stato nutrito solo con il latte materno. Un altro degli chef di Castro si chiamava Flores. Racconta che Castro mangiava uova a colazione ogni giorno - meglio uova di quaglia - con fagioli e riso. Castro adorava anche il gelato. Ma a volte poteva essere esigente. Come quella volta che chiese un’insalata con una specie di anguilla e Flores costrinse un pescatore a salpare in piena notte per andare a pescarla.

Per la Cambogia fu il brutale leader dei Khmer rossi che massacrò milioni di persone. Per Yong Moeun non era "un assassino" ed era solo un "sognatore", anche se era esigente quando si trattava di insalata. Moeun, che ha cucinato per il dittatore per anni, gli rimane fedele anche adesso e l’unica cosa di cui si lamenta è che le ci è voluto del tempo per capire cosa gli piaceva. Moeun lo conquistò con pesce al forno e pollo arrosto. Moeun cucinava anche prelibatezze come uova di tartaruga e talvolta i soldati massacravano un elefante.

Giorgio Calabrese per “la Stampa” l'11 aprile 2020. Ciascuno si procuri un agnello per la famiglia [] In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi ed erbe amare» (Esodo 12, 2-8). Le erbe amare per quella notte prodigiosa sono ancora utilizzate per Pesach, la festa ebraica che ricorda il passaggio dalla schiavitù alla liberazione. In genere cade in primavera, ma a causa di calendari diversi ancora in uso, non coincide con la nostra Pasqua (quest' anno la settimana santa è iniziata martedì 11). Erbe amare come la schiavitù accompagnate da pane azzimo, il pane della fretta, subito pronto, non lievitato senza fermenti e non soffice. Le erbe amare comunemente usate oggi durante Pesach sono rafano e lattuga. Le erbe amare di primavera sono in tavola anche nelle nostre italiche tradizioni, come nella torta pasqualina della cucina ligure. Questa prevedeva l' uso dei carciofi, molto cari rispetto alle bietole che furono poi impiegate in sostituzione. Le erbe, le verdure e radici amare sono, a ragione, considerate salutari. L' amaro agisce sulle papille gustative e stimola una maggior produzione di saliva, che è ricca di enzimi come le amilasi, utili alla scissione degli amidi. Lo stomaco viene indotto a produrre gastrina, in grado di attivare al meglio il processo digestivo. Vengono infatti stimolati altri organi come fegato, pancreas, cistifellea. Hanno effetto antiossidante che però si perde cuocendole in troppa acqua. L'amaro fa digerire bene, ciò consente una migliore scissione proteica e di conseguenza un migliore assorbimento di nutrienti, compresi i sali minerali che ne aumentano la disponibilità. È lo stesso principio per cui, a fine pasto specie se è stato un pasto abbondante e pesante, si consuma il digestivo amaro a base di erbe amare talvolta anche con una varietà dal numero elevato. Come tutte le erbe fresche è possibile elaborarle sotto forma di frittate, flan, torte salate che mantengono il sapore amaro e le proprietà salutari anche da cotte. Cicorie, radicchio, catalogna, Puntarelle (germogli di una varietà di catalogna detta catalogna spigata) rucola, carciofi, scarola, cime di rapa, contengono parecchie sostanze benefiche come la vitamina C, la pro-vitamina A, clorofilla e inulina, utili a depurare l' organismo in modo naturale. Le erbe amare rinforzano il corpo e in special modo svolgono un' azione antiossidante. L' inulina L' inulina è un oligosaccaride formato da catene di fruttosio con una molecola di glucosio terminale. Fa parte di una famiglia di fibre alimentari dette fruttani o frutto-oligosaccaridi. L'inulina ha un sapore neutro o lievemente dolce, ha una capacità edulcorante di un decimo rispetto al saccarosio (zucchero). come additivo alimentare serve a dare corpo all' alimento senza essere particolarmente evidente il sapore, come per i gelati senza zucchero. Ha una caratteristica di idrorepellenza per questo viene impiegato per evitare l' affioramento del burro di cacao nei cioccolatini.

CARDO MARIANO. È un carboidrato indisponibile, ovvero non digeribile dallo stomaco umano. È un carboidrato di riserva che radici e rizomi sintetizzano al posto dell' amido, che queste piante non producono e non lo immagazzinano. L' amaro dell' inulina è però benefico perché passando indigerito dallo stomaco raggiunge l' intestino che viene stimolato a produrre «batteri buoni» ovvero in grado di stimolare una buona funzionalità intestinale. Una ricerca tedesca dimostra che le erbe toniche amare, stimolano la bile e la produzione di acido cloridrico, il sistema nervoso e la funzione del sistema immunitario, così come combattono stanchezza e spossatezza. E non lasciano l' amaro in bocca. Il cardo mariano ( Silybum marianum ) protegge le cellule del fegato rivestendole con sostanze fitochimiche che guariscono quelle danneggiate (da alcol, epatite e altre malattie epatiche ma anche da paracetamolo, radiazioni, tetracloruro di carbonio) e proteggono le sane dai danni. È l' erba più utilizzata per la malattia epatica. I semi e frutti contengono silimarina, un antiossidante, anti-fibrotico e bloccante delle tossine.

IL TARASSACO. Il tarassaco (Taraxacum ) è noto anche come «dente di leone» per la forma delle sue foglie o «piscialetto» per le sue proprietà diuretiche. Stimola la digestione e il fegato a produrre più bile con un' azione purificante su fegato e cistifellea. L' I nternational Journal of Molecular Science in uno studio del 2010 ha evidenziato che possiede la capacità di ridurre il colesterolo, i reumatismi, lo stress ossidativo che contribuisce all' aterosclerosi, e agisce come un diuretico. Potrebbe essere utilizzato per aiutare a prevenire le malattie cardiache e del fegato. Le foglie, essiccate possono essere consumate tutto l' anno per fare infusi depurativi da bere a digiuno. Fresche, sono ottime per realizzare frittate, flan, vellutate, minestroni e pesti aromatici.

LA CICORIA. La cicoria (Cichorium intybus ) è una pianta erbacea perenne tipica delle regioni mediterranee: il nome deriva probabilmente dal termine arabo «Chikouryeh» o ancora dal termine egizio «Kichirion» oppure da «kichora» per i greci. Galeno la prescriveva contro le malattie di fegato. È ricca d' acqua al 92-94% e contiene potassio, calcio e fosforo. Spiccate le sue proprietà diuretiche e lassative, per questo è indicata come erba disintossicante primaverile. È un ottimo rimedio contro la stitichezza e stimolante delle funzioni epatiche, utile soprattutto in tutti i casi di pelle impura. Contiene anche inulina, una fibra in grado di stimolare la crescita della flora batterica intestinale e favorire l' assorbimento del calcio. E' ottima per completare minestre, realizzare vellutate o nei ripieni.

LA RUCOLA. La rucola ( Eruca sativa ) appartiene alla famiglia dei cavolfiori. Accende il sapore delle insalate e potenzia il sistema immunitario. Ha proprietà vitaminizzanti, antiscorbutiche, digestive. Contiene molti antiossidanti come la provitamina A, la vitamina C e i fenoli. E' molto gradevole abbinata a verdure dolci come piselli e patate, carote. Non va conservata in frigo poiché tende ad appassire, meglio in un vasetto.

IL MARRUBIO. Il marrubio ( Marrubium vulgare ), per via del suo nome che riporta al termine ebraico «marrob», cioè amaro, si pensa possa essere una delle erbe amare della Bibbia. Era conosciuto nella Roma antica e usato come rimedio per la tosse. In fitoterapia è noto per le proprietà antinfiammatorie, mucolitiche, espettoranti, utile contro raffreddore e disturbi respiratori. Ma ha anche proprietà antisettiche e cicatrizzanti.

LE PUNTARELLE. Le puntarelle (Chicorium intybus ) in realtà sono solo i germogli di una varietà di catalogna chiamata spigata. Possono essere semplicemente lessate mentre vanno lasciate a bagno in acqua e ghiaccio (per farle arricciare e diventare croccanti) per diventare così una gustosa insalata. La tradizione romana le abbina ad acciughe salate, ma possono essere combinate anche con olive e capperi, formaggi e per farcire bruschette.

LA RADICE DI UVA OREGON. La radice di uva Oregon (Mahonia acquifolium ) è una tra le preferite dai dermatologi; infatti, la «Terapia dermatologica» in un documento del 2003 ne ha dimostrato i benefici, attestando la sua utilità nel trattamento delle malattie della pelle e in particolare per la cura dell' acne. Ha proprietà anti-batteriche, anti-infiammatorie e stimola la produzione della bile e la depurazione del fegato.

LA RADICE GENZIANA. La radice di genziana (Gentiana calycosa ) aiuta il fegato, oltre a essere fungicida e possedere proprietà anti-infiammatorie. I suoi principi amari stimolano la secrezione di succhi gastrici e biliari. In uno studio clinico controllato, la tintura di radice di genziana in base di alcool aumenta lo svuotamento della cistifellea, contribuisce a migliorare la digestione di proteine e grassi, lavora come astringente, tonico, rilassante e detergente interno.

L’ORTICA. L' ortica (Urtica dioica ) è considerata la pianta amica delle donne, ricca di ferro e clorofilla, contrasta l' anemia e grazie al buon contenuto di silicio e calcio rinforza le ossa e i capelli. Il decotto si può bere come depurativo ma è un buon detergente per capelli e pelli grasse e impure, donando ad entrambi luminosità. Ha proprietà alcalinizzanti e depurative, è ottima lessata, in zuppe e minestre, ma anche buona in frittate e pasta.

LE RADICI AMARE. Le radici amare o scorza amara, da una varietà di cicoria ( Cychorium intibus sativus ), scorzonera ( Scorzonera hispanica ), scorzonera bianca ( Tragopogon porrifolius ). Le cinque radici (oltre alle esotiche zenzero e rafano o alle note patate e carote) topinambur, radici di cicoria, bardana ricca di inulina come i topinambur, ricca di cellulosa, Rapa con scarsi principi nutritivi ma ricca di cellulosa, liquirizia.

Denis Carito per "chedonna.it" il 19 giugno 2020. Quello che usiamo tutti i giorni, alimenti, spezie, condimenti contribuiscono alla nostra salute e al nostro fabbisogno giornaliero, per di più, contengono formidabili proprietà.

La scelta di alimenti freschi e di stagione dovrebbe essere la base della nostra alimentazione quotidiana. Spesso spostiamo la nostra attenzione su cibi artificiali, integratori chimici e non integratori naturali e non ci accorgiamo delle proprietà di tutti quegli ingredienti che siamo solite utilizzare nella nostra cucina. I prodotti tipici della nostra terra rappresentano l’essenza del nostro benessere. Non abbiamo certamente bisogno di imbottirci di medicinali talvolta senza alcuna ragione. I rimedi per i nostri malanni possiamo trovarli senza fatica negli scomparti della nostra cucina. Possiamo combattere mal di gola, insonnia, mal di stomaco, prurito e tutto naturalmente. Ecco qui i cibi che ci aiutano a difenderci dalle malattie.

Aglio, questo alimento possiede proprietà analgesiche, antinfiammatorie e antibatteriche. Preparare una tisana calda con aglio tritato e zenzero può aiutare ad alleviare i sintomi di mal di gola e febbre.

Zenzero, vanta la speciale qualità di ridurre di molto la sensazione di nausea e riesce inoltre, sotto forma di suffumigio, a liberare il naso chiuso.

Menta e coriandolo, preparando una bevanda calda a base di queste due spezie benefiche e bevendola almeno tre volte al giorno, possiamo liberarci dalla febbre piano piano facendo scendere la temperatura corporea.

Aloe vera, essa ha un notevole potere anti-infiammatorio, lenisce ustioni, la dermatite, le scottature provocate da sole.

Olio di cocco, è estremamente idratante e conferisce benefici anche per l’igiene orale.

Yogurt, il suo importante compito è quello di stabilire un equilibrio tra i batteri buoni e quelli nocivi nell’intestino. Della diarrea puoi dimenticartene mangiandolo tre volte al giorno.

Ciliegie, quando sono di stagione e non riuscite a prendere sonno mangiatene molte. Ebbene sì, le ciliegie aiutano a contrastare l’insonnia. Contengono molta melatonina che riesce a regolare il nostro riposo.

Credere in ciò che mangiamo. Mangiare bene è davvero importante e scegliere accuratamente la propria dieta lo è altrettanto, se poi aggiungiamo il consumo di cibi che possono proteggerci dall’insorgenza di malattie siamo a cavallo. Mantenersi in forma mangiando alimenti che ci preservino da malanni comuni e portare avanti una routine equilibrata dipende molto dal nostro grado di informazione riguardo molti alimenti.

Da leggo.it il 22 gennaio 2020. Dieta, il riso in bianco fa ingrassare. Eppure, per le nostre nonne, questo alimento è da sempre la panacea di quasi tutti i mali: dai disturbi gastrointestinali al raffreddore, questo semplice piatto condito con olio e parmigiano ha il potere di rimetterci al mondo. Grazie al dilagare dell’amore per il sushi, poi, è diventato un fashion food a tutti gli effetti. Chi si vuole mettere a dieta, spesso è convinto che il riso in bianco sia la soluzione a tutti i problemi di ciccia: d’altronde si pensa che i condimenti siano pochi e le calorie pure, ma non è affatto così. Per 100 gr. di prodotto, infatti, il riso in bianco fornisce 130 kcal senza considerare l’indice glicemico che, a seconda del metodo di cottura, può arrivare fino a un valore pari a 132. Ecco l'errore che commettiamo tutti nella cottura del riso e il trucchetto per “limitare i danni”: sciacquare il riso per privarlo dell'amido e, una volta lavato, mettere poca acqua in pentola. Ancora meglio, cuocerlo all'orientale: in acqua fredda, a fuoco lento e fino a totale assorbimento.

Marta Musso per "wired.it" il 27 agosto 2020. Nello scatolone delle cose proibite, le donne incinte dovrebbero aggiungere ora anche la moka e il caffè. A consigliarlo oggi sono i ricercatori dell’università di Reykjavik, in Islanda, secondo cui il consumo di caffeina, probabilmente una delle sostanze psicoattive più consumate al mondo, è associato a esiti negativi della gravidanza. Dallo studio, appena pubblicato sulla pagine della rivista Bmj Evidence based Medicine, non esisterebbe una soglia sicura di consumo di questa sostanza per le donne incinte, contrariamente a quando creduto finora. Ma non tutti sono d’accordo. Secondo le raccomandazioni dell’Nhs britannico, dell’American College of Obstetricians and Gynecologists, delle Dietary Guidelines for Americans e dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (l’Efsa) il limite di sicurezza per il consumo di caffeina durante una gravidanza è fissato a 200 mg, pari a circa due tazze di caffè al giorno. Nel nuovo studio, tuttavia, i ricercatori hanno passato in rassegna circa 50 ricerche precedenti riguardanti il legame tra la caffeina e gli esiti della gravidanza, scoprendo che questa sostanza è associata a un aumento significativo del rischio di eventi avversi, come aborto spontaneo, natimortalità, basso peso alla nascita, leucemia infantile, sovrappeso e obesità infantile. Questo studio, precisiamo, è osservazionale e non dimostra, quindi, alcuna relazione di causa-effetto tra il consumo di caffeina e gli esiti negativi di una gravidanza. Secondo i ricercatori, tuttavia, evitare del tutto bevande come caffè e tè sarebbe la raccomandazione migliore per le future madri. “Esiste una sostanziale evidenza cumulativa di un’associazione tra consumo materno di caffeina e diversi esiti negativi della gravidanza, in particolare l’aborto spontaneo, natimortalità, basso peso alla nascita, leucemia acuta infantile e sovrappeso e obesità infantili, ma non il parto pretermine”, spiega Jack James, autore dello studio. “Di conseguenza”, precisa l’esperto, “le attuali raccomandazioni sanitarie riguardanti il consumo di caffeina durante la gravidanza necessitano di una revisione radicale”. Ma non tutti sono d’accordo. Molti esperti, infatti, consigliano di limitare, e non eliminare del tutto, il consumo di caffeina durante una gravidanza. Per esempio, secondo Christopher Zahn, vicepresidente dell’American College of Obstetricians and Gynecologists “non è necessario un cambiamento immediato all’attuale raccomandazione basato su questa ricerca”, riferisce l’esperto alla Cnn. “Il consumo moderato di caffeina, meno di 200 mg al giorno, non sembra essere un fattore importante che contribuisce all’aborto spontaneo o al parto pretermine”. Della stessa opinione è anche Daghni Rajasingam, portavoce del Royal College of Obstetricians and Gynecologists, secondo cui “il consiglio di limitare l’assunzione di caffeina a 200 milligramm al giorno è ancora valido. Questo studio non sostituisce tutte le altre prove disponibili che dimostrano che un consumo limitato di caffeina è sicuro per la maggior parte delle donne incinte”. Altri esperti, inoltre, ritengono che i risultati del nuovo studio siano allarmisti. “Ci sono così tante cose che bisogna evitare durante una gravidanza che l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è generare ansia inutile”, spiega alla Bbc Luke Grzeskowiak, ricercatore all’Università di Adelaide, in Australia. “Le donne dovrebbero essere rassicurate sul fatto che la caffeina può essere consumata con moderazione durante la gravidanza”.

Da "leggo.it" il 28 febbraio 2020. Il caffè ci dà il buongiorno tutte le mattine, il nostro miglior amico almeno fino alle 9.00 quando in genere poi si è costretti ad accendere il pc e barcamenarsi tra scartoffie, telefonate e colleghi: l’oro nero diventa un preziosissimo alleato anche nella dieta, aiuta infatti a dimagrire con un metodo scientificamente provato. Tutto sta nell’accelerare il metabolismo e portare il nostro corpo a bruciare più velocemente le calorie che ingeriamo. Uno studio pubblicato dalla National Library of Medicine ha dimostrato che consumare caffeina contribuisce alla riduzione della massa grassa e un’altra ricerca parallela – condotta dal Centro di ricerca sull’infiammazione di Hong Kong in Cina – ha indagato sull’azione combinata di caffè e cannella per dimagrire più rapidamente: ne basta mezzo cucchiaino in una tazza di caffè nero.

Da "liberoquotidiano.it" il 17 febbraio 2020. Una corretta alimentazione è fondamentale anche per il nostro cervello: cibi sani e genuini e poco raffinati sono decisivi per il benessere fisico e psichico. Ci sono infatti dei cibi che sono considerati dannosi per il cervello: nel lungo periodo potrebbero comportare un calo della memoria o un decremento dell'elasticità del governo, comportando un rischio-demenza. Tra questi alimenti ritenuti dannosi, quelli troppo zuccherati o i cibi pronti. Tra gli alimenti dannosi per la nostra "mente" ecco le bibite zuccherate, che aumentano la possibilità di Alzheimer. E ancora, le farine bianche e i carboidrati raffinati, i quali diminuiscono alcune funzioni legate alla memoria a causa della maggiore probabilità di infiammazioni all'ippocampo. Sconsigliati anche cibi pronti e preconfezionati, che contengono conservanti e idrogenati, sempre correlati all'Alzheimer. Bocciato anche l'aspartame, che inibisce l'area del cervello che regola le emozioni. Ma il peggiore dei nemici per il nostro cervello rimane l'alcol, il cui abuso comporta la riduzione del volume cerebrale e compromette i neurotrasmettitori.

Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” l'1 agosto 2020. C'è chi lo gusta alla salentina, con ghiaccio e latte di mandorle e chi lo concepisce solo alla napoletana, ristretto e in tazzina bollente. In qualunque declinazione, il caffè è una piccola gioia, un delizioso rito sociale e culturale, che ci tiene compagnia dall' inizio della giornata. Ma quanto se ne può consumare per essere certi di non assaporarne anche gli effetti indesiderati? A fare il punto sulle ripercussioni del caffè sulla salute è un articolo del New England Journal of Medicine, firmato ricercatori dell' Università nazionale di Singapore e di Harvard.

LA SICUREZZA. Il perimetro di sicurezza è definito dal contenuto di caffeina, il cui consumo negli adulti non dovrebbe superare i 400 mg al giorno (e mai più 200 mg in un colpo solo). Una misura piuttosto larga, pari a 5 tazzine di espresso o 8 tazze di tè. Ma la caffeina è presente anche in alcuni soft drink, negli energy drink (che ne contengono da 80 a 420 mg per confezione) e nelle pillole anti-fatica, in vendita sul web. Per anni si è discusso dei possibili pericoli per la salute (in particolare sul fronte cancro e malattie cardiovascolari) di caffè e caffeina. Poi se ne sono scoperti i risvolti salutari; il caffè ad esempio contiene polifenoli e niacina che riducono lo stress ossidativo, migliorano la salute del microbioma intestinale e modulano il metabolismo dei grassi e degli zuccheri. Per contro tuttavia, il cafestolo, una sostanza presente nel caffè non filtrato (espresso, caffè turco), fa aumentare il colesterolo. Ma anche così, un consumo di 3-5 tazzine di caffè al giorno si associa a un ridotto rischio cardiovascolare. La caffeina inoltre riduce il senso della fame e stimola il metabolismo basale, quindi aiuta a non aumentare di peso (a patto di non consumarla nelle bevande zuccherate) e protegge dalla comparsa di diabete di tipo 2.

IL FEGATO. Questa sostanza psicoattiva protegge inoltre da malattie del fegato, calcoli biliari e renali, alcuni tumori (come quello del fegato e dell' endometrio) e morbo di Parkinson. Il consumo di 2-5 tazze al giorno si associa infine ad una ridotta mortalità. L' effetto della caffeina dura in genere 2,5 - 4,5 ore, con ampie differenze individuali; il fumo ne dimezza la durata in circolo, i contraccettivi orali la raddoppiano. Da evitare decisamente in gravidanza, soprattutto negli ultimi mesi, quando per smaltirla occorrono fino a 15 ore. Se consumata nelle giuste dosi, la caffeina aumenta le performance cognitive e il livello di attenzione, riduce il senso di fatica e la percezione del dolore. Per contro, chi esagera si ritrova a fare i conti con uno stato ansioso, nervosismo insonnia, tremori, tachicardia.

LE ARITMIE. Infine, l' accoppiata caffeina (in genere sotto forma di energy drink super zuccherati) alcol, tanto in voga tra i giovani della movida, può scatenare gravi problemi neurologici (i più piccoli hanno una soglia di tolleranza alla caffeina, principale ingrediente, molto bassa) e cardiovascolari (aritmie), che possono rivelarsi anche fatali. Abbiamo detto che la dose giornaliera di caffeina ritenuta accettabile per un adulto in buone condizioni di salute è di 400 mg, valore che scende a 100 mg per gli adolescenti. Il consumo di una sola lattina, dunque, copre spesso quasi tutta la dose giornaliera accettabile di caffeina e a volte, addirittura, la supera.

Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 21 febbraio 2020. Consumare latte e latticini in grandi quantità fa bene o male alla salute? Nell'immaginario collettivo il latte, per i bambini, come per gli adulti, è un superalimento benefico. Un articolo di revisione del New England Journal of Medicine di questa settimana, fa luce su una serie di miti. Secondo gli autori, Walter Willett e David Ludwig dell'Università di Harvard (Usa), la quantità ottimale di latte da consumare, dipende solo dalla composizione generale della dieta. Calcio e vitamina D, ad esempio oltre che nel latte si possono trovare anche nei cavoli, nei broccoli, nella frutta a guscio, e anche nei fagioli. Secondo i ricercatori si possono raddoppiare le dosi di latte e latticini quotidiane se si limitano quelle di carni rosse e insaccati. Da evitare, invece, l'aumento della quantità di latte e latticini dimenticando verdure e legumi. Non c'è inoltre motivo di preferire il latte scremato a quello intero, in termini di vantaggi per la salute. E mentre non ci sono dubbi che nei bambini e negli adolescenti il latte sia un alimento prezioso per la crescita, negli adulti i suoi benefici sono più sfumati. Ecco perché. Il latte fa bene alle ossa? Si ritiene che la bevanda possa proteggere dal rischio di fratture, grazie al suo contenuto di calcio. Ma guardando le statistiche questa certezza rivela qualche piccola ombra. Le nazioni che consumano più latte, infatti, sono anche quelle con i tassi più elevati di frattura dell'anca. Secondo gli autori non esistono prove che un elevato consumo di latte durante l'adolescenza (e men che mai in età adulta), protegga dal rischio di fratture più tardi nel corso dell'intera vita. Gli studi dimostrano invece che consumare latte da ragazzi aiuta a diventare più alti, forse grazie al suo contenuto in alcuni aminoacidi e ormoni anabolizzanti.  Il latte aiuta a controllare il peso? Una metanalisi di 29 studi randomizzati non ha riscontrato alcun beneficio sul controllo del peso corporeo in chi consuma latte e latticini. Solo il consumo di yogurt risulta associato ad un minor aumento di peso. Gli studi sull'adolescenza e sui bambini rivelano che il consumo di latte scremato è associato ad un aumento di peso, mentre quello di latte intero e latticini, no. A conti fatti sembra avere un effetto neutro sulla bilancia.

Il latte abbassa la pressione? Visto il contenuto relativamente alto di potassio il latte consumato in grandi quantità, potrebbe aiutare a ridurre la pressione arteriosa. Gli studi non dimostrano questa ipotesi.  Il consumo di latte protegge dal diabete? In alcuni studi, l'assunzione di latticini si associa ad una modesta riduzione del rischio di diabete di tipo 2. Per ridurre il rischio è meglio bere latte, che bevande zuccherate o succhi di frutta. Ma bere caffè protegge dal diabete più del latte.

Il latte protegge dai tumori? Non è facile dare una risposta a questa delicata domanda, perché tanti sono i fattori di confusione relativi ad alimentazione e tumori. Gli studi sembrano però suggerire un aumento del rischio di alcuni tumori (prostata e forse tumore dell'endometrio) nei forti consumatori di latte; al contrario il latte sembra proteggere dal rischio di tumore del colon.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2020. Ognuno di noi, dopo aver bevuto due o tre bicchieri di vino, se si mette al volante per tornare a casa, ad un eventuale controllo stradale del tasso alcolemico rischia di superare lo 0,5 g/litro tollerato dalla legge, e per chi sfora questo limite sono previste sanzioni molto severe che variano a seconda delle quantità di alcol dosato nel sangue, fino alla sospensione della patente per guida in stato di ebrezza. Inoltre, qualora si vìoli in più di un' occasione il limite consentito, scatta automaticamente le revoca della licenza di guida. Per i neopatentati, o per i guidatori con meno di 21 anni, la legge è ancora più severa e prevede tolleranza 0, poiché in questi casi non esiste un tasso alcolemico da superare, e quindi i giovani non possono assolutamente guidare se assumono alcol. Punto. Non è semplice fare un calcolo di quanti bicchieri di vino, quanti aperitivi o birre si possono bere per non oltrepassare i limiti consentiti, perché la quantità di alcol nel sangue dipende non solo dalle dosi di bevande alcoliche, ma anche da altri fattori, come per esempio il peso corporeo, il tempo percorso dalla loro assunzione, se si è bevuto a digiuno ed influisce anche il sesso del bevitore. L' alcol deidrogenasi infatti, un enzima prodotto dal fegato che distrugge la molecola d' alcol prima del suo ingresso nel sangue, è prodotta in misura minore nelle donne, e non tutti gli uomini ne producono la stessa quantità, motivo per cui alcuni risultano più tolleranti. Inoltre questo importante enzima epatico inizia ad essere prodotto a pieno regime dopo i 25 anni, per cui i giovanissimi sono meno protetti dai danni dell' alcol. L' etanolo, il nome chimico dell' alcol, è alla base di tutte le bevande alcoliche, è prodotto in natura dalla fermentazione degli zuccheri, ed è presente nelle birre in percentuali inferiori al 10%, nei vini comprese tra 10 e il 20%, nei liquori in percentuali dal 20 al 40%, nei distillati arriva fino al 70%, mentre negli aperitivi alcolici le percentuali sono molto variabili in funzione delle bevande utilizzate e della generosità del barman. L' etanolo é l' unica sostanza responsabile dell' ebrezza e dell' ubriachezza, che sono due stati differenti di intossicazione acuta da alcol, con vari gradi di serietà, che vanno dalla forma lieve fino al coma etilico. I primi sintomi provocati dall' assunzione non controllata di bevande alcoliche sono principalmente neurologici, ed includono iniziale euforia, disinibizione, e rallentamento dei riflessi, ai quali poi si aggiungono disartria, eloquio disarticolato o incomprensibile, perdita dell' equilibrio, gambe molli, atassia, cioè mancanza di coordinazione dei movimenti, eccitazione, ma anche irritabilità, sbalzi di umore, amnesia parziale selettiva e minzione frequente.

Neurotrasmettitori. Il consumo eccessivo di alcol altera il delicato equilibrio dei neurotrasmettitori cerebrali, i quali, rallentando la loro trasmissione di informazioni, proteggono il cervello mettendolo a riposo inducendo sonnolenza, e tali interruzioni innescano cambiamenti d' umore e perdita parziale di memoria, il che giustifica i "black out" di molte persone. Quando invece si arriva alla cosiddetta "franca ubriachezza" insorge evidente la sofferenza cerebrale, con confusione mentale, problemi alla messa a fuoco della vista, visione laterale molto limitata (tendenza a sbattere contro gli spigoli), assenza di riflessi, ed ogni risposta dell' organismo agli stimoli risulta molto più lenta, e se l' intossicazione da alcol è elevata, compaiono i classici sintomi gastroenterici di avvelenamento, quali nausea, vomito, poliuria e tremori, dovuti al tentativo dell' organismo di espellere per ogni via i metaboliti tossici accumulati nel sangue. Nei ragazzi può arrivare il coma etilico anche con 2,5/3 gr/lt. Quando dopo una cena tra amici si smette di bere, gli effetti perdurano ore, poiché l' organismo sta ancora assimilando l' alcol bevuto, cosa che spiega il motivo per cui, una volta tornati a casa, ci si abbatte sul letto dormendo profondamente. L' intossicazione acuta da alcol comunque si risolve lentamente, poiché il corpo ha bisogno di tempo per depurarsi e liberarsi dalle sostanze nocive. In media si perdono 0,2 grammi su litro ogni ora, per cui chi parte da un eccesso di alcol pari a 2g/lt, ha bisogno di almeno sette/otto ore per eliminare i metaboliti tossici, motivo per cui la notte in cui si va a letto dopo una forte bevuta ci si sveglia sempre con il mal di testa perché l' organismo non è stato ancora depurato del tutto. Bisogna aggiungere che l' alcol è un potente vasodilatatore, aumenta il flusso sanguigno causando una iniziale sensazione di calore, con conseguente rapida dispersione. Inoltre l' effetto psicotropo nervino dell' etanolo altera la percezione degli stimoli sensoriali, un fenomeno che spiega la riduzione della sensazione del freddo, così come del caldo, del dolore ecc, e tali effetti sono tanto più intensi quanto più bassa è la temperatura esterna, e di conseguenza è controindicato somministrare alcol alle persone assiderate, come si vede nei film quando il San Bernardo arriva con la botticella di grappa appesa al collo, perché la conseguente vasodilatazione disperderebbe il già modesto calore corporeo, nonostante venga percepito l' esatto opposto. L' abitudine di bere superalcolici quando si è infreddoliti è un rimedio popolare illogico e privo di fondamento scientifico, poiché il sollievo dal freddo generato dall' alcol non è altro che una semplice "percezione" provocata dall' effetto combinato tra l' alterazione sensoriale e la rapida vasodilatazione periferica. In questi casi infatti, sarebbe opportuno bere bevande zuccherate calde a piccoli sorsi, insieme ad alimenti energetici.

Gli studi. L'"Independent Scientific Committeee on Drugs" classifica l' alcol al primo posto per pericolosità sociale e al quarto posto tra tutte le droghe per i danni organici e psicologici che determina, ma per fortuna per la scienza riconosce anche che un consumo equilibrato di certe bevande alcoliche offre alcuni indiscutibili vantaggi per la salute. Quantità moderate di alcol infatti hanno un effetto benefico sui processi digestivi, stimolano l' appetito ed aumentano le secrezioni gastriche, oltre a sviluppare una potente azione protettiva contro le malattie cardiovascolari, incluse l' ipertensione, aterosclerosi ed ictus. Il vino rosso inoltre, ricco di resveratrolo, agisce come antiossidante ed antinfiammatorio sistemico. Il problema sono le dosi, che non devono superare i 30/40 gr al giorno, ovvero 2-3 bicchieri di vino, 2-3 bottiglie di birra da 330ml, o 2-3 bicchierini di vino liquoroso da 75ml, oppure di liquore o grappa da 40ml, escludendo sempre da tali benefici i ragazzi sotto i 18 anni, che non hanno ancora maturato la capacità di metabolizzare l' etanolo, o coloro che assumono terapie farmacologiche che possono interferire con tale sostanza. E comunque tali unità alcoliche elencate per il benessere non vanno mai assunte prima di mettersi alla guida di qualunque veicolo, fosse anche una innocua bicicletta.

Il rotolo d'alluminio e i legami con l'Alzheimer? Ecco come stanno le cose, la verità in tavola. Attilio Barbieri su Libero Quotidiano il 9 Febbraio 2020. Dopo la carne rossa, accusata ingiustamente di essere «pericolosa» per la salute, i veleni bianchi - latte, burro, farina, zucchero e sale - che tali non sono e le uova, nel club delle bufale nel piatto entra di gran carriera pure l' alluminio. Da tempo sui social media, si leggono raccolte di inesattezze e vere e proprie falsità ai danni del metallo leggero molto diffuso in cucina e nella conservazione degli alimenti. L' ultimo allarme è scattato per le capsule di caffè in alluminio commercializzate da una nota marca del settore. E prontamente siti web avvezzi alla diffusione di notizie spazzatura hanno rilanciato l' allerta, aggiungendo per giunta dettagli inquietanti, inventati però di sana pianta. A fare chiarezza ci ha pensato l' Efsa, l' Autorità europea per la sicurezza alimentare, come spiega Agostino Macrì, grande esperto in materia e autore del blog Sicurezzalimentare.it. «Gli esperti dell' Efsa hanno valutato i risultati di studi condotti sugli animali», dice, «per verificare i possibili effetti avversi a seguito di somministrazione di composti di alluminio con l' alimentazione». Ebbene, «sono giunti alla conclusione che non esistono dati che dimostrano danni significativi a carico dell' apparato riproduttivo e del sistema nervoso». Ciò non significa che questo metallo sia esente da rischi. «Alcuni studi», puntualizza Macrì, «hanno dimostrato effetti neurotossici nei pazienti dializzati e per questo cronicamente esposti ad elevate concentrazioni di alluminio. Gli stessi esperti hanno però escluso che l' assunzione di alluminio attraverso gli alimenti possa costituire un rischio per l' insorgenza del morbo di Alzheimer o altre malattie neurodegenerative». Una delle bufale che rimbalzano con maggiore insistenza sul web da alcuni mesi a questa parte.

ASPARAGI METALLICI. Peraltro nella nostra dieta entrano abbastanza regolarmente derrate alimentari in cui si trova naturalmente l' alluminio e che mangiamo senza preoccupazione alcuna. È il caso degli asparagi che ne contengono 200 milligrammi per ogni chilogrammo di peso. La dose che possiamo invece ingerire attraverso la cessione di recipienti o pellicole flessibili utilizzati per conservare i cibi è decisamente inferiore e si limita in particolare al caso in cui contengano «cibi acidi e a temperature elevate che favoriscono la solubilizzazione dell' alluminio», spiega sempre Macrì, aggiungendo che «in queste circostanze si può avere una cessione del metallo», ma «generalmente inferiore all' alluminio normalmente presente negli alimenti».

Sempre secondo l' Efsa, l' esposizione alimentare media di un adulto all' alluminio varia tra 0,2 e 1,5 milligrammi per ogni chilo di peso corporeo alla settimana. La soglia di sicurezza fissata dall' Authority alimentare è di 1 milligrammo per chilo, sempre ogni settimana. In pratica una persona che pesi 70 chili può assumere senza alcun pericolo 70 milligrammi di alluminio ogni sette giorni. E per il sottoscritto, che ferma l' ago della bilancia in prossimità dei 90 kg, la dose sale in proporzione.

UOVA SOTTO ACCUSA. Assieme a quella dell' alluminio, sui social media e sui siti che vivono di bufale, continuano a rimbalzare fake news smentitissime ma sempre buone per ottenere click e «mi piace». Un esempio per tutti. Digitando su un motore di ricerca web la stringa «uova fanno male», si ottengono 3.130.000 risultati che conducono ad altrettante pagine internet dove se ne parla. Per fortuna, di recente, gli algoritmi dei principali motori di ricerca sono stati modificati per includere anche i siti dove si fa informazione corretta, ma secondo una ricerca in via di pubblicazione, condotta da alcune università americane, le bufale rappresentate. Attilio Barbieri

Daniela Uva per “il Giornale” il 24 gennaio 2020. Sono alleati quasi indispensabili in cucina eppure, se usati in modo scorretto, possono rappresentare un pericolo per la salute. Su alluminio e plastica occorre mantenere sempre alta l' attenzione come ha recentemente ribadito il ministero della Salute. Il dito è puntato innanzitutto contro carta stagnola e altri contenitori in metallo: secondo gli esperti in alcune situazioni, e quando sono a diretto contatto con gli alimenti, potrebbero rilasciare dosi eccessive di alluminio che finirebbe con l' essere ingerito insieme con le pietanze. Il rischio di contaminazione riguarda anche la plastica perché, a contatto con il calore, potrebbe rilasciare particelle nocive. In particolare il clorulo di vinile, presente nel pvc con il quale sono prodotti contenitori, vaschette colorate e rotoli di pellicola trasparente per uso alimentare. Ma occorre fare attenzione anche al polistirolo, derivato dal petrolio, e presente in piatti, posate e bicchieri usa e getta. Questo materiale è considerato abbastanza sicuro perché resiste bene ai test effettuati ad alte temperature - e quindi ai cibi caldi ma potrebbe comunque rivelarsi nocivo a causa degli additivi, che vengono aggiunti per renderlo più o meno rigido, e dei coloranti. Proprio per questo è necessario conoscere questi materiali e utilizzarli in modo corretto. «Diversi studi condotti dall' Istituto superiore di sanità e dal Comitato nazionale per la sicurezza alimentare hanno confermato che il rilascio di alluminio da utensili o imballaggi è condizionato dalle loro modalità d' uso e da altri fattori quali tempo, temperatura, stato fisico e composizione dell' alimento» confermano Carlo Signorelli, docente di Igiene all' università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e Tijana Lalic, del servizio di Igiene degli alimenti e della nutrizione alla Asl di Parma. «Per questo è opportuno evitare il contatto con alimenti acidi o salati per tempi e temperature elevati».

I RISCHI. I rischi per la salute sono numerosi. «In caso di continua e ripetuta assunzione, l' alluminio può accumularsi in diversi organi e tessuti come fegato, reni, ossa e tessuto adiposo, e interferire così con diversi processi biologici con conseguenti effetti tossici e infiammatori dicono gli esperti -. Nel 2008 l' European food safety autority ha indicato le dosi massime tollerabili di alluminio, che variano a seconda del peso corporeo: 20mg alla settimana per un bambino di venti chili e 70mg per un adulto di 70 chili. Sono soprattutto i piccoli sotto i tre anni a rischiare maggiormente di superare queste soglie, perché sono più esposti al metallo contenuto negli alimenti. Altre fasce della popolazione vulnerabili sono gli anziani, le donne in gravidanza e le persone con funzionalità renale compromessa».

OCCHIO ALL' ETICHETTA. Anche per chi in cucina sia abituato a usare la plastica, sotto forma di pellicola trasparente o di contenitori colorati, l' attenzione deve restare molto alta. Perché anche questo materiale potrebbe causare problemi alla salute. «In generale possiamo rassicurare i consumatori perché le legislazioni europee e nazionali assicurano che nessun materiale destinato a entrare in contatto con cibi e alimenti rilasci sostanze chimiche in quantità tali da avere effetti negativi sulla salute del consumatore vanno avanti i due esperti -. Pellicole e contenitori devono quindi certificare la loro conformità alle norme vigenti. Proprio per questo è necessario leggere bene etichette e indicazioni di utilizzo». Resta il fatto che non tutti i prodotti presenti sugli scaffali dei supermercati siano sicuri al cento per cento. «In commercio esistono pellicole realizzate in vari materiali, di cui il più diffuso è il pvc. Sebbene sia molto performante, non è adatto a ogni utilizzo a causa della presenza di plastificanti, come gli ftalati confermano Signorelli e Lalic -. Inoltre, in fase di produzione industriale, questo materiale può causare il rilascio di cloruro di vinile e di additivi come il piombo. Un' ottima alternativa è però rappresentata da pellicole in polietilene, composto che non contiene plastificanti e che, dal punto di vista chimico, risulta più sicuro quando viene a contatto con qualsiasi alimento». Naturalmente, anche quando in cucina si sia identificato il contenitore giusto con il quale cuocere o coprire gli alimenti bisogna imparare a conservare i cibi in modo appropriato. Una fase importante e delicata, che va curata in ogni dettaglio. «Il rischio più comune, in questo caso, è rappresentato dalla possibile contaminazione da parte di microrganismi come virus o batteri, spesso causa di infezioni spiegano gli esperti -. Questa situazione è spesso conseguenza di cattiva igiene, utilizzo di attrezzature contaminate e contatto fra cibi crudi e cotti. Sono particolarmente a rischio i prodotti della pesca, le preparazioni alimentari combinate, le uova, la carne suina e i loro derivati». Ma quali sono gli agenti patogeni più comuni? «Nella maggior parte dei casi si tratta di infezioni poco gravi, ma che possono assumere caratteri preoccupanti specie nelle fasce più a rischio, quali bambini e anziani specificano Signorelli e Lalic -. In Italia, un terzo dei focolai epidemici di malattie trasmesse da alimenti è riconducibile a salmonella, mentre i rimanenti sono attribuibili a norovirus, clostridium botulinum, campylobacter, epatite A, tossine batteriche, Stec, trichinella e intossicazione da istamina». Ma non è solo la conservazione a creare qualche allarme. Bisogna, infatti, prestare molta attenzione anche alla cottura. «Quando è incompleta o non adeguata può portare alla contaminazione e moltiplicazione di batteri e microrganismi concludono gli esperti -. Quando al contrario è effettuata a temperature troppo elevate, per esempio durante la grigliatura o la frittura, può causare la formazione di alcuni composti pericolosi, come le ammine eterocicliche».

Questioni di alluminio. Gioia Locati su Il Giornale il 20 dicembre 2019. È partita una campagna informativa sull’uso dell’alluminio in cucina. Curata dal ministero della Salute (cliccate qui), è rivolta a tutta la popolazione. Pentole, caffettiere, imballaggi, lattine, borracce, pellicole per alimenti, in alluminio, possono trasmettere particelle e ioni ai cibi che mangiamo. Di questo metallo si sa che può interferire con il metabolismo del ferro, del magnesio e del calcio. Per descriverne gli effetti gli studiosi parlano di “inibizione dell’attività enzimatica”, di blocco “della sintesi proteica” e di modifiche alla “permeabilità della membrana cellulare”. Non solo. Si sa che provoca stress ossidativo nel tessuto cerebrale e si calcola che, nel cervello, vi persista accumulandosi per almeno sette anni (emivita. Cioè si dimezza in sette anni, diventa un quarto dopo altri sette anni e così via).

Neurotossico. La neurotossicità dell’alluminio fu conosciuta in tutto il mondo dopo l’incidente di Camelford, in Cornovaglia, nel luglio del 1988: qui, per errore, furono sversate nell’acquedotto diverse tonnellate di solfato di alluminio. Le Autorità rassicurarono che sarebbe bastato aggiungere del succo di frutta all’acqua da bere, per coprirne il gusto sgradevole. Solo 16 giorni dopo scattò l’allarme e furono presi provvedimenti. Molti abitanti che ingerirono acqua contaminata ebbero danni cerebrali e l’alto tasso di alluminio fu ritrovato nel cervello delle persone morte a distanza di anni. Sempre più studi vedono coinvolto questo metallo in molte malattie, soprattutto neurologiche e immunitarie (alzheimer, autismo), cliccate qui. È discusso se abbia un ruolo nell’origine di alcuni tumori (mammella e sarcomi negli animali), cliccate qui e qui, perciò come adiuvante è stato tolto dai deodoranti. Con questa campagna il ministero chiarisce chi siano i soggetti che rischiano di più gli effetti dannosi dell’ingestione del metallo: anziani, bambini sotto i 3 anni, donne in gravidanza e persone con malattie renali. I consigli su come usare imballaggi e pellicole alimentari verranno diffusi sui social e sui siti web che si occupano di cucina (evitare il contatto con cibi acidi o salati e non esporre l’alluminio alle alte temperature).

Alluminio e autismo. Vi sono due studi che mostrano un’elevata presenza di alluminio nei tessuti cerebrali di soggetti malati di autismo. Tuttavia, l’argomento è oggetto di discussioni molto aspre tra chi ritiene che vi sia una relazione di causa-effetto e chi la nega. Le Autorità sanitarie la negano. La letteratura scientifica su questo è discordante. Possibile, secondo alcuni ricercatori, che l’infiammazione provocata dal metallo “accenda” una predisposizione latente.

Il parere degli esperti. La campagna del Ministero è partita quest’anno, con ritardo rispetto all’inchiesta giornalistica di Striscia la Notizia che fece scalpore nel dicembre 2017. Qui. Due i professori interpellati dell’Università degli Studi di Milano, Veniero Gambaro, del dipartimento di Scienze farmaceutiche e Paola Fermo del dipartimento di Chimica. Gambaro analizzò il contenuto di alluminio in un pomodoro prima e dopo l’esposizione all’involucro di alluminio. Con stupore osservò che i 3ng/g (nanogrammi per grammo) di metallo naturalmente presenti nel frutto salivano a 300ng/g quando questo veniva avvolto dalla pellicola. La Fermo valutò il livello di alluminio in un pesce al cartoccio. Prima di cucinarlo non vi erano tracce di alluminio, dopo: 40mg per kg di pesce. Il livello riscontrato nel pomodoro inquinato è 300 nanogrammi per grammo. Il che equivale a 300 microgrammi al kg. Il professor Gambaro spiega che si tratta di una notevole quantità. Ricordiamo che un microgrammo equivale a 0,001 milligrammi. Entrambi i docenti fanno capire che l’inquinamento dei cibi con l’alluminio sia preoccupante e da evitarsi. Osservazione. Non tutto l’alluminio ingerito viene assimilato ma solo una minima parte (circa il 3 x mille quello presente nei cibi e 1 x mille se contenuto nelle bevande).

Dimenticanza? Alla luce di quanto detto proviamo a paragonare i quantitativi di alluminio considerati preoccupanti nei cibi a quelli che si ricevono con i vaccini (sappiamo che l’alluminio è inserito in molti vaccini come adiuvante) e che, in questo caso, tutto il metallo entra nell’organismo. Fra esavalente e anti pneumococcica, come previsto nel Piano nazionale vaccini, la quantità di alluminio somministrata a un lattante di due mesi è 0,945 mg (!!!) Così osserviamo che la dose considerata sicura per un lattante supera alla grande quella ritenuta preoccupante per un adulto, se ingerita. (anzi: assorbita dall’intestino). Nell’esperimento del pomodoro avvolto in alluminio un adulto finisce per assorbire una quantità di metallo di oltre 1000 volte inferiore a quella iniettata nel lattante (in proporzione al peso 14.651 volte inferiore);  nel caso del pesce al cartoccio (1 kg), la dose è di 7,9 volte inferiore (in proporzione al peso: 110,5 volte inferiore). Perciò un adulto dovrebbe mangiare 110 kg di pesce al cartoccio per assorbire la stessa quantità di alluminio di un lattante (in rapporto al peso) alla sua prima seduta vaccinale. Ma le vaccinazioni non si esauriscono con la prima! Ringrazio il dott. Fabio Franchi, infettivologo, per gli utili consigli e per il controllo dei calcoli. Qui trovate le sue fonti. E qui i calcoli più dettagliati.

PS. L’alluminio è inserito nei vaccini come adiuvante (ABA) ma non è mai stato testato separatamente dai vaccini.

PS. Nel 2003 furono le associazioni di medici a chiedere vaccini sprovvisti di mercurio e il ministero era d’accordo.

·        Tutto è Veleno.

Da ilmessaggero.it il 7 gennaio 2020. Non sempre sono gli alimenti esotici ad essere pericolosi per la nostra salute: spesso sono i cibi di tutti i giorni quelli che nascondono più insidie e che possono risultare persino tossici se non trattati correttamente. In particolare alcuni alimenti molto comuni che consumiamo abitualmente nella nostra dieta, che abbiamo sempre a portata di mano in frigo, in dispensa o comunque inseriti nella nostra alimentazione, sono prevalentemente innocui e sani, tuttavia bisogna mettere in pratica alcuni accorgimenti per evitare che diventino tossici: ecco quali sono e perché sono così pericolosi.

Patate. La buccia, le parti verdi e i germogli contengono solanina, alcaloide tossico che, assunto in dosi massicce, può provocare vomito, diarrea e allucinazioni.

Pomodori. Non abusarne perché contengono solanina, una sostanza a bassa tossicità che la pianta produce come naturale pesticida.

Funghi. Crudi, anche quelli commestibili contengono tossine termolabili (che evaporano in cottura) che possono creare difficoltà digestive.

Fagioli. Crudi sono velenosi perché contengono fitoemoagglutinina, una tossina che provoca nausea, vomito e diarrea. Prima di cuocerli lasciarli in ammollo per due d'ore.

Mele. Anche i semi della mela contengono amigdalina, la stessa sostanza tossica presente nelle mandorle amare. Dose letale: mezza tazza.

Noce moscata. Usarne poca perché contiene miristicina, una sostanza neurotossica che, assunta in quantità elevate, provoca allucinazioni e convulsioni.

Fabio Sindici per “la Stampa” il 21 dicembre 2019. «Tutto è veleno: nulla esiste che non sia velenoso». La frase di Paracelso, medico rivoluzionario, alchimista rinascimentale, filosofo della natura, è tra i suoi aforismi più citati. Ma per comprenderlo bisogna seguire lo sviluppo del suo pensiero. Il precursore della moderna farmacologia infatti aggiungeva che è la dose che distingue la medicina dal veleno. Quello che guarisce può anche uccidere. «L' ambiguità, o meglio la triplicità, è ben espressa dalla parola phármakon, che in greco antico indica sia un veleno sia una medicina o una pozione magica» spiega Federica Gonzato, direttrice del Museo Archeologico di Verona e co-curatrice, insieme con Chiara Beatrice Vicentini, della mostra «Veleni e magiche pozioni» al Museo Nazionale Atestino di Este (fino al 2 febbraio 2020). Un esempio perfetto è il veleno dello scorpione (nella mostra c' è un amuleto di diaspro di epoca romana imperiale che reca incisa l' immagine dell' artropode e il fossile di un esemplare preistorico dal giacimento della Pesciara di Bolca) usato dall' animale per paralizzare e uccidere le prede e da secoli impiegato come antidolorifico nella medicina tradizionale. Gli scorpioni sudafricani maschi del genere Hodogenes pungono sul fianco la femmina prima dell' accoppiamento, iniettando piccole quantità di veleno con un effetto non si sa se sedativo o afrodisiaco. L' ambiguità continua: siamo tra il filtro d' amore e la droga dello stupro. Il farmaco-veleno accompagna da sempre la storia dell' uomo. Le due curatrici ne hanno rinvenuto - e esposto - le tracce dalla preistoria ai nostri giorni, negli impasti di propoli rinvenuti nelle sepolture mesolitiche di Villabruna e Mondeval, sulle Dolomiti, che aprono il percorso della mostra, fino alla pubblicità di saponette radioattive nei manifesti degli anni 20 del secolo scorso. Tutti, dalla cicuta di Socrate al curaro delle frecce delle tribù della foresta amazzonica, hanno proprietà curative e, insieme, mortali. Oggi, come al tempo di Paracelso, veleni e antidoti si celano nelle pieghe della vita quotidiana. Un caso recente è quello della contaminazione nella sintesi delle molecole di medicine dalla produzione globalizzata. «Il veleno è sfuggente. Erano velenose le tubature di piombo degli antichi romani. E c' era veleno in molta cosmetica, dal belletto settecentesco alla tintura per capelli. D' altra parte troviamo ingredienti potenzialmente tossici descritti nei libri di magia rinascimentale, come quelli che abbiamo in prestito dalla Biblioteca Ariostea di Ferrara: per esempio, gli unguenti allucinogeni delle streghe citati dal filosofo Giambattista Della Porta nel suo Magiae naturalis. Ragiona Chiara Beatrice Vicentini, storica della farmacia: «All' Università di Ferrara, agli inizi del 1500, studiano Paracelso e Copernico. Ludovico Ariosto pubblica l' Orlando furioso in cui manda il paladino Astolfo sulla Luna a recuperare il senno di Orlando». Contenuto, guarda caso, in un' ampolla: «Un liquor sottile e molle», molto simile a una pozione. Qualche anno dopo è a Ferrara Pedro Castano, medico spagnolo in servizio presso gli Estensi: aveva preparato una ricetta segreta a base di olio di scorpione per un elisir contro la peste e vari veleni. Al contrario, fu forse una cura sbagliata a base di digitale a uccidere Cangrande della Scala, signore di Verona: la polvere estratta dalla pianta in dosi eccessive può avere effetti letali. Il phármakon è legato alla nascita del pensiero simbolico: l' ocra usata nel Paleolitico per tinture antisettiche è la stessa delle prime figure graffite sulla roccia dai Sapiens e dai Neandertal. Il veleno è radicato nel mito: dalla tunica intrisa del sangue avvelenato del centauro Nesso che fece impazzire Eracle per il dolore dopo averla indossata; allo sguardo pietrificante della Medusa che diventa l' emblema protettivo sullo scudo di Atena. È l' arma più romanzesca, perché possiede le stesse articolazioni e sfumature del linguaggio. In letteratura, Shakespeare fa versare il velenoso hebenon nelle orecchie del padre di Amleto da Claudio, mentre le parole sussurrate di Jago fanno impazzire di gelosia Otello. Chi ne fa un uso spericolato è Dumas padre, in particolare nella Regina Margot e nel Conte di Montecristo, con l' inclusione di potenti sonniferi e veleni nei guanti, nel rossetto e sulle pagine di un libro, espediente narrativo che ritorna nel Nome della rosa di Umberto Eco. Ma la realtà storica non è seconda alla finzione narrativa. Soprattutto in Oriente, patria di Mitridate, l' arcinemico della repubblica romana, che aveva imparato a calibrare l' uso e le dosi dei farmaci, così da rendersi immune da ogni veleno. I califfi e i visir islamici ne erano talmente ossessionati da pagare fortune per servizi di piatti di ceramica celadon, prodotta in Cina, che aveva la fama di cambiare colore in caso di pietanze avvelenate. In Giappone gli inro, i portamedicine, erano accostati a figurine di corallo che avrebbero dovuto rivelare la presenza di sostanze tossiche, spaccandosi. Nell' India medievale hanno origine gli anelli portaveleno, che si diffonderanno nell' Europa del XVI secolo: a confermarne la natura ambigua, negli scomparti segreti si tenevano anche reliquie religiose e medicinali. I veleni non si fermano con il progredire della tecnologia, diventano radioattivi, come il polonio nella tazza di tè che uccise l' ex spia russa Alexander Litvinenko. Non poteva esserci, però, nella mostra di Este, uno dei più micidiali artefatti legati all' uso del veleno: il famigerato «ombrello bulgaro» in grado di sparare piccoli proiettili carichi di letale ricinina. Ritenuta l' arma usata dai servizi segreti bulgari per eliminare lo scrittore dissidente Georgi Markov, non è stata mai ritrovata.

·        Il biologico.

Fabio Di Todaro per “la Stampa” il 2 luglio 2020. Può essere una scelta sensata, soprattutto per l'ambiente. Ma, se si aumentano i consumi di alimenti di origine biologica per migliorare la qualità della dieta, le probabilità di compiere uno sforzo vano sono piuttosto elevate. Al di là della categoria di prodotti che si sceglie, biologico non vuol dire più equilibrato per il nostro organismo. È questa la sintesi di uno studio sulla rivista «Nutrients», condotto da quattro studiosi italiani sotto l'egida di Daniela Martini, ricercatrice dell'Università di Milano e membro della Società Italiana di Nutrizione Umana (Sinu). Il lavoro è consistito nel confrontare le informazioni riportate sulle etichette di 569 alimenti confezionati, di origine biologica e non, disponibili su scala nazionale. L'esito? Un sostanziale pareggio, che nel caso specifico gioca a sfavore del «bio».

Alimenti «bio»: cosa vuol dire? Della categoria fanno parte prodotti di origine vegetale e animale realizzati seguendo i principi dell'agricoltura e dell'allevamento organici. Questi non prevedono sostanze chimiche di sintesi (concimi, diserbanti, anticrittogamici, insetticidi, pesticidi), oltre che Ogm. Gli ingredienti degli alimenti da agricoltura biologica devono essere certificati come tali almeno per il 95%. Idem per le carni, che devono provenire da animali nutriti con mangimi vegetali ottenuti secondo il metodo di produzione biologico. Ciò vuol dire che - a eccezione dell'acqua, del sale e dei pochi additivi ammessi - gli altri elementi devono essere stati realizzati seguendo le indicazioni bio. E la lavorazione deve avvenire lungo una linea indipendente, in modo da evitare «contaminazioni» con i prodotti convenzionali. La legge non consente, né sulle etichette né attraverso le pubblicità, di veicolare il messaggio che un cibo di origine biologica garantisca una qualità (organolettica, nutritiva o sanitaria) superiore a quella di un analogo alimento convenzionale. Detto ciò, la tendenza a considerare questi alimenti più indicati per la dieta è diffusa. Le vendite di alimenti biologici viaggiano con il segno «più». Da qui il desiderio dei ricercatori di fare chiarezza, confrontando le etichette di quasi 600 alimenti confezionati (prodotti a base di cereali; pane e sostituti; pasta riso e altri cereali; latte, formaggi e bevande di origine vegetale; tè e succhi di frutta; marmellate, miele e creme spalmabili; frutta e verdura; legumi; oli e altri condimenti), nella doppia versione: «bio» e non.

Risultato? «0-0», a eccezione dei confronti che hanno riguardato pasta, riso e cereali e marmellate, creme e miele. Nel primo caso i prodotti biologici garantivano un apporto proteico ed energetico inferiore, a fronte però di un aumento dei grassi saturi. Quanto ai dolci, un contenuto inferiore di zuccheri semplici e carboidrati complessi era in parte bilanciato da un maggiore contenuto proteico. Differenze comunque contenute, che confermano l'impossibilità di considerare una delle due categorie superiore all'altra. Non è invece stato effettuato un confronto tra micronutrienti (vitamine e sali minerali), che in altre circostanze ha premiato i cibi bio. Con effetti però trascurabili sulla salute. Sul piano nutrizionale non sembrano esserci dunque vantaggi nel prediligere gli alimenti di origine biologica (spesso più costosi). A dimostrazione di ciò, oltre all'ultimo confronto, ci sono diversi studi condotti al fine di valutare se una dieta «verde» proteggesse dalle malattie croniche correlate a una cattiva alimentazione. Da questi non sono emerse differenze rilevanti, soprattutto per quel che riguarda l'insorgenza dei tumori.

La spiegazione è duplice. Da una parte bisogna considerare che il livello di fitofarmaci presenti nei prodotti tradizionali è quasi sempre inferiore ai limiti fissati dalla legge. Dall'altra occorre tenere presente che quelli relativi ad altre sostanze cancerogene - micotossine, nitrati, metalli e diossine - sono gli stessi. Sia per i prodotti biologici sia per quelli non.

·        Le truffe alimentari: sofisticazione ed adulterazioni.

Oltrepò Pavese, vino (contraffatto) venduto come Doc Cinque arresti. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Eleonora Lanzetti. Vini venduti come Doc e Igt, ma addizionati con aromi e prodotti con uve non certificate. Cinque persone sono state arrestate all’alba di oggi in un’operazione dei carabinieri, con il supporto anche della guardia di finanza, in Oltrepò Pavese e in altre regioni. L’inchiesta, coordinata dalla Procura di Pavia, riguarda un altro presunto scandalo sul vino contraffatto. Già nel 2014 sulle colline oltrepadane erano stati accusati diversi produttori, colpevoli di non aver rispettato i canoni della Doc per il Pinot Grigio. In quest’altro capitolo, secondo l’accusa, gli arrestati avrebbero spacciato per Doc e Igt vini di qualità inferiore, prodotti con uve non certificate come biologiche o addizionati con aromi o anidride carbonica. Numerose le perquisizioni effettuate in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna e Trentino Alto Adige. Gli arrestati, titolari di aziende vinicole e cantine sociali, sono ritenuti responsabili a vario titolo e in concorso tra loro, di associazione a delinquere finalizzata alla frode in commercio e contraffazione di indicazioni geografiche o denominazione di origine di prodotti alimentari. Al centro dell’indagine figurano in particolare i vertici di una cantina dell’Oltrepò Pavese che, secondo l’accusa, grazie ad enologi compiacenti, avrebbero messo in commercio vino contraffatto e di bassa qualità, attraverso un sofisticato sistema di alterazione.

Paolo Russo per “la Stampa” il 15 gennaio 2020. Vini prodotti senza uva, olii spacciati per extravergine ma estratti da semi di soia. E poi pesci surgelati e scongelati sotto i raggi del sole, tonni lasciati a marcire, carni bovine invase da muffe, sacchi di riso stoccati tra escrementi di roditori e taniche di benzina, formaggi infestati di parassiti. E' un festival degli orrori il rapporto dei Carabinieri dei Nas 2019 su sofisticazioni e adulterazioni alimentari, che segnano un aumento di oltre il 30% dei casi gravi riscontrati rispetto al 2018. Gli uomini dell' Arma hanno passato al setaccio negozi e supermarket, depositi per l' ingrosso e allevamenti, ditte agricole e case vinicole. Alla fine un' attività su tre è risultata irregolare, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di infrazioni amministrative. Resta il fatto che sotto sequestro sono finite comunque 105mila tonnellate di merci per un valore di 147 milioni. Nel resoconto presentato alla conferenza "Salute e agroalimentare", organizzata a Roma dal Comando dei reparti specializzati dei Carabinieri diretti dal Generale Claudio Vincelli, l' elenco delle frodi racconta di organizzazioni che usano metodi sempre più raffinati per aggirare i controlli e ingannare i consumatori. Anche quelli che non badano a spese pur di acquistare un vino pregiato che si è poi rivelato essere più scadente di quello venduto in cartoni. E' il caso del falso Tignanello, bottiglia di "supertuscan" venduta a più di 200 euro, ma smerciato da una ditta fiorentina a poche decine di euro. Peccato che dentro le bottiglie ci fossero addirittura uve da pasto. Un responsabile della truffa è finito in carcere e due ai domiciliari. Ma intanto il danno di immagine per il nostro vino di alta qualità all' estero è stato fatto perché le bottiglie contraffatte venivano anche esportate. Al limite del surreale è l' operazione "Ghost wine", vino fantasma, che a Lecce ha portato a 11 misure cautelari, con l' accusa di associazione a delinquere per i produttori altrettanto "fantasma" che imbottigliavano vino spacciato per "Doc" o "Docg", senza nemmeno l' ombra di un grappolo d' uva. Anche le frodi sull'olio vanno per la maggiore. Un classico è quello extravergine di oliva composto in realtà da una miscela di olii a base di semi di soia, colorato poi con clorofilla e carotenoidi. Da nord a sud imperversano poi i granchi cinesi, vietati perché specie "esotiche invasive", pericolose per l' ecosistema, ma anche per la salute. In pescherie e mercati ittici è invece tutto un festival di prodotti mal conservati. E non è che con le carni si sia più sicuri. A Latina bistecche e fettine giacevano invase da muffe in una cella frigorifera con «gravissime carenze igieniche strutturali». Le stesse riscontrate anche per farine, pane e pasta, mentre a Torino e Cremona ben cinque aziende stoccavano centinaia di tonnellate di riso in silos invasi da escrementi di topo, piume di volatili e taniche di benzina. Come spiega il generale Gerardo Iorio, al comando dei Carabinieri per la tutela del lavoro, «quasi sempre la frode alimentare fa rima con lo sfruttamento di chi lavora per imprenditori senza scrupoli. Gli abusi a danno dei lavoratori finiscono infatti per ricadere negativamente anche sulla produzione degli alimenti». A finire nelle grinfie di caporali e sfruttatori sono poi sempre più italiani: erano 105 quelli scoperti nel 2018, sono diventati 239 nel 2019.

Bugie e omissioni sull’origine del grano duro: Lidl multata per 1 milione dall’Agcm. De Cecco e altri 3 pastifici fanno ammenda. Carlotta Scozzari su it.businessinsider.com il 17 gennaio 2020. Promozione e commercializzazione delle proprie linee di pasta di semola di grano duro a marchio “Italiamo” e “Combino” mediante confezioni che rappresentano in maniera ingannevole le caratteristiche del prodotto, enfatizzandone sulla parte frontale l’italianità in assenza di adeguate e contestuali indicazioni sull’origine anche estera del grano duro impiegato. Questa l’accusa mossa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato a Lidl Italia. Che tuttavia, a differenza di altri produttori di pasta che hanno ricevuto un’analoga contestazione, nel corso della procedura istruttoria avviata dall’Antitrust non ha presentato alcun impegno a modificare il proprio comportamento ed è così stata sanzionata per 1 milione di euro. L’accusa dell’Agcm muove da alcune semplici constatazioni. “La produzione italiana di grano duro – si legge nel testo del provvedimento preso dall’Authority guidata da Roberto Rustichelli nei confronti di Lidl – è insufficiente per soddisfare la domanda per la produzione di pasta e quindi vi è un significativo ricorso alle importazioni, che rappresentano circa un terzo della disponibilità di grano duro in Italia”. E da dove arriva il grano duro estero? Anche in questo caso è l’Antitrust a spiegare che, “fino al 2016, oltre la metà delle importazioni di grano proveniva dall’America settentrionale e in particolare dal Canada”. Ma “tra il 2017 e il 2018 vi è stata una significativa contrazione delle importazioni dal Canada, che sono crollate nel 2018 a un quinto del livello del 2016”. Fino a che il grano duro canadese non “è stato rimpiazzato da quello importato da altri paesi Ue (che rappresenta oggi il 49% delle importazioni italiane) e, in misura minore, dal Kazakhistan”. Lidl, dal canto suo, si è difesa sottolineando che il regolamento europeo stabilisce che “i consumatori devono essere informati relativamente all’origine dell’ingrediente primario contenuto nel prodotto alimentare quando tale ingrediente proviene da un paese diverso da quello nel quale il prodotto alimentare è stato fabbricato”. E in questo caso “il prodotto alimentare considerato è la pasta di grano duro e l’ingrediente primario al quale bisogna fare riferimento è la semola di grano duro che costituisce il solo ingrediente della pasta alimentare fabbricata in Italia”. In altri termini, sostiene Lidl, la semola utilizzata nella pasta di grano duro commercializzata è ottenuta in Italia e quindi sia l’alimento sia il suo ingrediente primario sono italiani. Poco importa, insomma, se parte del grano duro arriva dall’estero. Tale posizione non è, però, stata ritenuta condivisibile dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato. E ciò in estrema sintesi perché, si legge sempre nel provvedimento, “l’ingrediente generalmente associato alla denominazione della pasta nella percezione dei consumatori è il grano duro, che rappresenta la componente fondamentale del prodotto pasta”. Così, l’Agcm ha deciso di comminare a Lidl Italia una sanzione di 1 milione di euro. L’entità della multa è stata calcolata anche tenendo conto della “dimensione economica del professionista, Lidl Italia srl” che “rappresenta la più importante catena italiana di discount” con un fatturato che tra il febbraio 2018 e il febbraio 2019 è stato pari a 4,7 miliardi di euro, in crescita rispetto all’anno precedente, senza contare che l’azienda ha chiuso gli ultimi due esercizi in utile. Con riferimento alla gravità della violazione, l’Agcm rileva, infine, che essa “ha potenzialmente coinvolto un ampio numero di consumatori, considerato che sono state vendute nel 2018 decine di milioni di confezioni di pasta a marchio Italiamo e Combino nei punti vendita Lidl”. E per l’Antitrust “una quota di tali consumatori avrebbe potuto scegliere di acquistare pasta di marchi differenti presso punti vendita di altre catene se fossero stati consapevoli dell’effettiva provenienza del grano duro utilizzato per produrre tale pasta”. Al contrario, Auchan, Cocco, De Cecco e Divella, davanti alla medesima accusa dell’Agcm circa le indicazioni sulla provenienza del grano duro, si sono impegnate a rimediare. Nel dettaglio, spiega l’Antitrust, “gli impegni consistono in modifiche delle etichette e dei rispettivi siti così da garantire al consumatore una informazione completa, fin dal primo contatto, sull’origine del grano utilizzato nella produzione della pasta. Il nuovo set informativo permetterà così di evitare la possibile confusione tra provenienza della pasta e origine del grano”.

·        La Guerra della Pac.

La guerra di interessi intorno ai miliardi della Pac, la politica agricola comune europea. Il 20 ottobre verrà votata la riforma proposta dalla Commissione per rendere i sussidi più aderenti ai principi del Green new deal. «Ma la lobby dell'agrobusiness, d'accordo con l'industria dei pesticidi e i giganti dell'alimentare, stanno da mesi facendo di tutto per impedirlo», denuncia la ong Corporate Europe Observatory. Federica Bianchi su L'Espresso il 12 ottobre 2020. I cambiamenti climatici non lasciano scampo a nessuno, tantomeno alla retorica, se falsa. Alla prova settimana prossima ci sarà la strategia verde della Ue. Durante la seduta plenaria del parlamento europeo a Strasburgo il 20 ottobre verrà votata la riforma proposta dalla Commissione europea di un pilastro fondamentale dell'Unione europea: la PAC, ovvero la politica agricola comune. In gioco ci sono non soltanto la sopravvivenza della diversità ambientale ma anche quella dei piccoli agricoltori. «La lobby dell'agrobusiness, Copa-Cogeca, d'accordo con l'industria dei pesticidi e i giganti dell'alimentare stanno da mesi facendo di tutto per non permettere alla Commissione di allineare la la Politica agricola europea agli obiettivi del Green Deal», denuncia, in un rapporto, in uscita oggi, la ong "Corporate Europe Observatory”, che segue i comportamenti delle lobby a Bruxelles, «altrimenti la transizione ecosostenibile tanto voluta da Von der Leyen sarà gravemente minacciata». Accusata da anni di inefficienza e corruzione, la PAC, il più grande programma di sussidi diretti esistente al mondo, 390 miliardi per il periodo 2021-2027, oltre un terzo del bilancio Ue, è stata oggetto di una proposta di revisione da parte della Commissione nel 2018, in anticipo sull'approvazione del budget europeo 2021- 2027 di cui fa parte e che è in questi giorni in discussione nell’Europarlamento. Ma negli ultimi due anni molto è cambiato: la politica verde e sostenibile da slogan è diventata strategia economica europea, con obiettivi ambiziosi, dal raggiungimento della neutralità climatica nel 2050 a una concreta solidarietà sociale, resa ancora più necessaria dalla pandemia. La riforma della Pac non teneva in conto in maniera sufficiente dei cambiamenti al punto che la Commissione lo scorso maggio, su pressione dell'Europarlamento,  si è trovata a dover pubblicare un documento in cui spiegava come rendere la politica agricola compatibile con le linee rosse del Green Deal, e, in particolare, con la strategia “dalla fattoria alla forchetta”, che mira a costruire un sistema alimentare sostenibile sia sotto il profilo ambientale sia sotto quello sociale, garantendo i mezzi di sostentamento per i produttori primari. Non tutti però sono d'accordo: non le grandi aziende, non i Paesi che da questa politica hanno tratto enormi ricchezze, a svantaggio dei loro concittadini. «La PAC è sostenuta da una rete di interessi che briga da mesi per bloccare ogni cambiamento», spiega, carte alla mano, Nina Holland, autrice del rapporto “Pagheremo miliardi per distruggere o per aiutare la biodiversità, il clima e i contadini?" (corporateeurope.org): «Si tratta di un gruppo molto vario, tenuto insieme dalla volontà di perpetuare il vecchio, redditizio sistema di produzione e di distribuzione dei sussidi. Ci sono ministri dell'Agricoltura, burocrati della direzione generale dell'Agricoltura, la maggioranza del Comitato agricoltura nel parlamento europeo e poi la potentissima lobby dell'agrobusiness europeo Copa-Cogeca». Quest'ultima è nata dall'unione di Copa, che rappresenta i contadini ed è stata creata nel 1958, e da Cogeca, che rappresenta le cooperative, ed è sorta nel 1959. Copa-Cogeca è una lobby talmente potente che a Bruxelles che non influenza ormai più la politica della Commissione ma ne è considerata addirittura un “partner” nella definizione delle politiche agricole, come denuncia Juliette Leroux, consigliera per l'agricoltura del gruppo politico dei Verdi europei. L'obiettivo iniziale era proteggere i piccoli agricoltori e le piccole aziende ma ormai queste sono diventate colossi aziendali come l'olandese FrieslandCampina o Rabobank, i cui interessi divergono da quelli degli agricoltori, e vanno più nella direzione del dominio dei mercati che del sostegno alla produzione. Lo ha dimostrato ad esempio la rimozione delle vecchie quote latte nel 2015, promossa dall'ex Commissario all'agricoltura Philip Hogan a beneficio soprattutto dell'Irlanda e della Germania, che ha finito per penalizzare il costo del latte e con questo i piccoli produttori. Le pressioni per non inserire nella riforma della PAC elementi del Green Deal sono intense. Fino ad oggi il vice presidente Frans Timmermans e la Commissaria alla salute Stella Kyriakides hanno tenuto duro nel portare avanti un progetto che, pur giudicato dalle ong ambientali «il minimo possibile» per rispettare gli obiettivi di neutralità carbonica 2050 e criticato perfino dall'organo europeo di revisione dei Conti perché non ritenuto sufficiente a promuovere la biodiversità, potrebbe comunque cambiare le modalità con cui si fa agricoltura. L'utilizzo dei pesticidi dovrebbe essere ridotto del 50 per cento entro il 2030 così come quello degli antibiotici, mentre quello dei fertilizzanti dovrebbe scendere del 20 per cento per rispettare le direttive verdi per l'agroalimentare. «Le nuove strategie ambientali ci obbligherebbero a reinventarci totalmente», si era così lamentata il 24 luglio la tedesca Bayer con il gabinetto del commissario per l'agricoltura Janusz Wojciechowski. Anche il dato per cui il 20 per cento delle aziende agricole europee riceve l'80 per cento dei sussidi dovrebbe cambiare per garantire, con la transizione eco-sostenibile e il passaggio a nuove forme di agricoltura, un reddito equo a tutti i contadini. Secondo Eurostat i contadini dell'Unione sono diminuiti tra il 2003 e il 2013 di oltre un quarto mentre gran parte del denaro europeo continua a finire nelle tasche di alcuni dei più grandi latifondisti moderni, dalla regina d'Inghilterra al principe di Monaco, nelle casse di colossi dolciari come la tedesca Haribo o produttori di asfalto (perché costruiscono infrastrutture utili all'agricoltura) o, ancora, ad arricchire politici-imprenditori come il premier ceco Andrej Babiš che da anni utilizza i fondi Ue per arricchirsi tramite le sue aziende agricole riunite nel colosso dell'agrochimica Agrofert. È Babiš il più grande singolo possidente “agricolo” d'Europa -e, secondo il New York Times, riceve poco meno di 40 milioni di euro l'anno: un conflitto d'interessi talmente grande che il Comitato di controllo del budget dell'Europarlamento ha chiesto lo scorso aprile che non fosse ammesso alle negoziazioni del budget settennale dell'Unione. La Politica agricola comune, nata con la Comunità economica europea del Dopoguerra per garantire la sicurezza alimentare europea, ha fin dall'inizio privilegiato l'agricoltura francese (la Francia è il principale beneficiario con sussidi doppi rispetto alla Germania, secondo beneficiario davanti a Spagna e Italia). Ma negli ultimi anni molti i governi di alcuni Paesi dell'Europa dell'Est, Polonia, quinta beneficiaria, in testa, ma anche l'Ungheria di Victor Orban, hanno preso ad utilizzare il fondo comune per rafforzare il proprio potere politico tramite elargizioni discrezionali di fondi agli imprenditori fedeli. Le vecchie aziende di stato comuniste si sono trasformate in grandi latifondi contemporanei e, in un sistema in cui le elargizioni comunitarie sono basate sull'estensione di terra posseduta, monopolizzano i fondi agricoli destinati al proprio Paese. Dopo anni di critiche, la nuova proposta della Commissione lascia molta più discrezionalità agli stati sul come impiegare i sussidi di Bruxelles e, nonostante le pressioni dei cittadini, non impone che una soglia massima “volontaria” alla quantità di denaro che ciascun agricoltore o società agricola può ricevere attraverso il proprio governo. Il parlamento europeo ha proposto l'introduzione di uan soglia obbligatoria e ora la battaglia è sulla sua entità. «Centomila euro sono ancora troppi se si consente alle grandi aziende di dedurre da questa cifra gli stipendi dei dipendenti», dice Holland: «Per i grandi latifondi, con più aziende, non cambierà molto. E l'esistenza dei piccoli contadini per i quali il programma è nato sarà a rischio». Per i piccoli agricoltori il legame con i “poteri agricoli” è un abbraccio mortale: da una parte non possono fare a meno dagli aiuti estesi loro per ottenere burocraticamente i sussidi di Bruxelles, dall'altra vedono di anno in anno ridursi sostegni e futuro. Secondo le linee guida della politica “dalla fattoria alla forchetta” e della “biodiversità, per ottenere una drastica riduzione di agenti chimici in agricoltura, i contadini dovrebbero beneficiare di schemi di aiuto volti ad incoraggiare l’adozione metodi di produzione biologica. «Le grandi lobby tramite accesso diretto alla Commissione, chiedendo continuamente estensione di scadenze e revisione di rapporti e spendendo centinaia di migliaia di euro per diffondere l'idea che gli obiettivi della Commissione sono irrealistici, stanno minando la nuova politica prima ancora che si traduca in direttive e obblighi», dicono dall’Osservatorio. Il voto del 20 ottobre in parlamento e poi l'accordo che la Germania, che in questo campo appoggia le grandi lobby, vorrebbe ottenere in sede di Consiglio europeo prima di Natale saranno decisivi per testare il nuovo cuore verde d'Europa.

Il green deal fa flop, sfuma la riforma dell'agricoltura sostenibile. I paesi membri - Italia in testa - hanno votato contro la Farm to Fork, il piano europeo per ridurre l'inquinamento provocato da agricoltura e allevamenti intensivi. Intanto nella Bassa Padana la situazione è fuori controllo per colpa delle stalle. Damiano Di Simine, coordinatore Comitato Scientifico di Legambiente, su La Repubblica il 28 ottobre 2020. L’inquinamento dai campi e dalle stalle. Giorni d’autunno, nella Bassa Padana i campi grondano liquami freschi di stalla. Con gli spandimenti lievitano i livelli di inquinamento dell’aria: le informative giornaliere delle agenzie ambientali segnalano situazioni critiche per le polveri sottili nelle campagne tra Brescia, Mantova e Lodi. Qui si concentra un quarto dei bovini e la metà dei suini allevati in Italia; milioni di capi stipati in stalle gigantesche, da cui esalano quasi 100.000 ton/anno di ammoniaca, un gas che reagisce con i micidiali ossidi d’azoto prodotti dai diesel a formare microcristalli di nitrato d’ammonio, talmente fini da restare sospesi in aria per giorni. Lo smog sembra essersi spostato dalle città alle campagne, dove agricoltura e zootecnia intensive sono diventate fonte emissive prevalenti a carico dell’aria, ma anche delle acque – per i carichi di azoto e fosforo, per i pesticidi – e del suolo, alimentando gravi minacce per la salute. È  il caso degli antibiotici veterinari, di cui l’Italia primeggia per consumi: un dato che fa il paio  con la crescita delle infezioni da batteri antibiotico-resistenti, causa di 11.000 morti all’anno solo in Italia.

Effetti collaterali della transizione agroindustriale. Come è potuto avvenire che la terra fertile sia diventata fonte primaria di minacce ambientali e sanitarie? Sono molte le risposte, e ruotano attorno all’imperativo di aumentare le rese. In Europa la PAC (Politica Agricola Comunitaria) è stata lo strumento della transizione agroindustriale, impostata negli anni ‘50 con una missione ardita: garantire cibo a basso costo, per tutti. Una sfida vinta, la riduzione della spesa alimentare delle famiglie è anzi diventata motore dello sviluppo del mercato interno europeo, del miracolo economico degli anni ‘60. Ma quel gagliardo ciclo si è chiuso, lasciando i problemi da gestire: l’intensivazione delle colture ha comportato il drammatico spopolamento delle campagne e delle fragili aree interne, la meccanizzazione ha mortificato il paesaggio agrario e la sua biodiversità, i sussidi PAC in forma di sostegni commisurati alle superfici coltivate hanno favorito (e continuano a farlo) la concentrazione fondiaria, rendendo arduo l’accesso alla terra per i giovani agricoltori. Le riforme intervenute negli anni hanno affrontato in modo parziale queste problematiche, tanto che anche nell’ultimo ciclo di programmazione si è continuato ad assistere ad una forte riduzione dell’occupazione in agricoltura, con il dato paradossale di cinque posti di lavoro persi ogni milione di aiuti erogati. La sicurezza alimentare poi non ha significato autonomia nell’approvvigionamento di materie prime: la zootecnia europea in particolare reclama decine di milioni di ettari di monocolture mangimistiche localizzate in altri continenti, con pesanti impatti locali in termini di deforestazione e inquinamenti. La PAC è una politica molto ben finanziata, oggi pesa per un terzo dell’intero budget UE: 60 miliardi l’anno che impattano anche nel sistema del commercio globale, dove i sussidi diretti a produttori di beni di consumo risultano sempre meno digeribili.

Deludenti tentativi di riforma per la PAC. Con la riforma PAC 2014-2020 si è tentato di introdurre correttivi per migliorare la sostenibilità ambientale nelle pratiche agricole – il cosiddetto greening – con quote di aiuti dedicati: un ottimo proposito coronato da totale fallimento, certificato dalla Corte dei Conti Europea, a causa dell’incursione delle lobby agroindustriali nell’ambito del negoziato, che ha annacquato le misure fino a renderle inefficaci. Il cambiamento necessario, nel frattempo, è stato consolidato e puntellato da accordi e target definiti a livello internazionale: dall’Agenda 2030 dell’ONU all’accordo sul clima di Parigi, è emersa in modo sempre più evidente la centralità delle politiche agricole e alimentari per riportare l’umanità entro una ‘zona sicura’ nella conclamata crisi climatica. La Commissione Juncker, nel cui mandato è stata definita nel 2018 la proposta di regolamento per la nuova PAC, ha promosso una vasta consultazione dei cittadini, che ha visto prevalere la richiesta di una politica che premiasse la sostenibilità ambientale e la salubrità nella filiera del cibo. Si consolidava così l’orientamento già adottato dalla Commissione, verso il superamento del sistema di sussidi, con lo slogan ‘Public money for public goods’: aiuti pubblici devono essere destinati ad azioni che generino un verificabile beneficio collettivo. 

Von der Leyen e il naufragio dell’European Green Deal. La Commissione a guida Von der Leyen ha raccolto la proposta di regolamento del 2018 e l’ha riposizionata su obiettivi più ambiziosi, incasellando la PAC nel Green Deal attraverso due strategie, presentate a maggio: Biodiversità 2030, che prevede tra l’altro di destinare almeno il 10% del territorio agricolo ad aree per la conservazione delle specie selvatiche; e Farm to Fork (dal campo al piatto), che introduce target importanti di riduzione degli input di fertilizzanti sintetici (del 20%), dimezzamento dell’uso di pesticidi pericolosi e antibiotici veterinari, e crescita  del territorio agricolo a conduzione biologica fino al 25% della superficie agricola europea. Evidentemente troppo per le lobby agroindustriali che cingono l’assedio permanente alle istituzioni europee e ai ministeri degli Stati Membri. Il risultato della loro pressione è ben leggibile nell’architettura dell’accordo trasversale con cui le maggiori famiglie politiche dell’Europarlamento (Socialisti e Democratici, Partito Popolare Europeo e liberal di Renew) hanno portato al voto un pacchetto di emendamenti che non solo ha fatto strame dei target del Green Deal, ma ha annacquato anche il regolamento del 2018, riportando le lancette della PAC indietro di un decennio: gli ecoschemi che avrebbero dovuto essere la più forte innovazione, trasformati in una cattiva copia del vecchio greening, il rinvio dell’entrata in vigore a regime degli aiuti ambientali rinviato al 2025, l’indebolimento della ‘condizionalità ambientale’ (ovvero l’obbligo di rispettare norme e buone pratiche agronomiche) riducendo al 3% la quota di territorio da destinare ad ecosistemi naturali e consentendo la trasformazione in seminativi di preziose aree di pascolo e prateria, la riduzione della quota di spesa per interventi climatico-ambientali a valere sul fondo per lo sviluppo rurale, il mantenimento di sussidi nocivi, come i pagamenti accoppiati collegati al numero capi allevati. Un arretramento di proporzioni inedite nella storia dell’UE, in cui è emersa fortemente la pressione degli Stati Membri, in gran parte ostili all’innalzamento dei requisiti ambientali della riforma, che ha visto l’Italia giocare da posizioni di profonda retroguardia con richieste di azzeramento del pilastro ambientale della riforma e la Ministra Bellanova, che già più volte aveva dichiarato che il Green Deal non dovesse essere pagato con i soldi "degli agricoltori", il 19 ottobre, a margine del Consiglio dei Ministri Agricoli, scriveva nero su bianco la sua contrarietà a "fissare a priori una percentuale di risorse dei Pagamenti Diretti da destinare agli eco-schemi". Forte è stata la reazione di sdegno delle organizzazioni ambientaliste e dei movimenti, in Italia come in tutta Europa, con lo slogan #VoteThisCAPdown, ovvero la richiesta di restituire i regolamenti alla Commissione perché ne elaborasse una versione avanzata e in linea con gli obiettivi del Green Deal. Purtroppo fare arrivare la voce dei cittadini ai parlamentari europei non è bastato: il 23 ottobre il Parlamento ha votato i regolamenti che, a detta della coalizione italiana Cambiamo Agricoltura, rappresentano ‘una pietra tombale sull’avvio di una vera transizione ecologica delle filiere agricole e zootecniche in Europa”. Ora la palla passa al negoziato finale tra le istituzioni comunitarie, la Commissione, il Parlamento e il Consiglio. Un negoziato che, purtroppo, si avvia sotto pessimi auspici.

·        Come si danneggia la Carne Italiana.

Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 31 maggio 2020. La carne italiana rischia di sparire dagli scaffali dei supermercati a beneficio di quella importata. Oltre a scontare un forte differenziale in termini di costo del lavoro, carico fiscale e contributivo e una burocrazia asfissiante, sui nostri allevatori si sta abbattendo una nuova tempesta a base di nuovi adempimenti da rispettare, dettati dal Ministero della Salute. In piena emergenza coronavirus, il dicastero retto da Roberto Speranza ha deciso di rinunciare ad un progetto virtuoso denominato "ClassyFarm", concepito per certificare gli allevamenti italiani in base a parametri qualitativi elevati, per il rispetto del benessere animale, la biosicurezza e l' uso dei farmaci. Una iniziativa destinata a rafforzare il primato italiano a livello mondiale nella zootecnia sicura e sostenibile. Cosa fanno i nostri eroi ministeriali? Lavorano per due anni a "ClassyFarm" strutturando il sistema dei controlli veterinari su due binari: il primo prevede il rispetto delle norme cogenti emanate dall' Europa e recepite a livello nazionale - norme alle quali si sottopongono tutti gli allevatori europei - mentre il secondo livello prevede l' introduzione di parametri molto superiori alle norme cogenti, per dare una «patente di qualità superiore» agli allevamenti che investono in strutture innovative e buone pratiche agricole. A febbraio, però, al Ministero della Salute cambiamo improvvisamente idea e decidono, senza preavviso, che gli allevatori italiani dovranno saltare tutti un'asticella posta molto più in alto, in barba a quanto stabilito dalle norme europee e italiane. Un regalo inaspettato alla concorrenza europea che spera di veder distrutto il nostro sistema di allevamenti bovini per invadere il nostro mercato con le proprie carni. Via i due binari, ne rimane uno solo, che viene comunicato ed imposto alle Regioni senza nemmeno consultare le organizzazioni degli allevatori con una "check-list" di 26 pagine, recapitata in pieno lockdown, il 24 febbraio 2020. In Francia la check-list è di una sola pagina. Sull' argomento è subito intervenuta l' associazione dei produttori Italia Zootecnica, guidata dall' allevatore Fabiano Barbisan, chiedendo al Ministero della Salute di istituire un tavolo urgente, ovviamente in videoconferenza, per chiedere il blocco della famigerata circolare ed il ripristino del programma ClassyFarm, condiviso fin dalla prima ora dagli allevatori, consapevoli della necessità di elevare gli standard dell' allevamento. «In Europa e in Italia, c' è chi viaggia con la Panda e chi in Ferrari», dice Barbisan, per fare un esempio, «entrambe le auto possono correre per le strade, ma con costi e prestazioni completamente diversi. Ecco, il nostro ministero della Salute vuole imporre a tutti gli allevatori italiani di viaggiare in Ferrari mentre i nostri competitor francesi, polacchi, irlandesi o d' Oltreoceano, possono viaggiare in Panda, portandoci carne che si confonderà con la nostra sugli scaffali della grande distribuzione, facendoci concorrenza al ribasso sia sul prezzo che sulla qualità. E tutto ciò succede nel silenzio assordante del Ministero delle Politiche Agricole». E ora porte aperte alla carne importata.

·        La guerra del Primitivo tra Puglia e Sicilia.

La guerra del Primitivo tra Puglia e Sicilia: "Non potete coltivarlo". Interrogazione al ministro Bellanova su un decreto della Regione siciliana che autorizza nell'Isola la coltivazione del Primitivo, vitigno-simbolo pugliese. Giorgio Vaiana, Sabato 02/05/2020, su Il Giornale.  Se un'uva fa litigare due regioni. Accade in Puglia. E l'obiettivo di questa "mobilitazione" del mondo enologico pugliese è la Sicilia. Oggetto del contendere è l'uva Primitivo, vitigno-simbolo in Puglia. La Regione siciliana, lo scorso agosto, ha autorizzato la coltivazione di quest'uva anche nei vigneti isolani. Niente di strano. Molte regioni spesso autorizzano varietà non autoctone. E tra l'altro il Primitivo si coltiva ormai da anni in Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio, Sardegna e Umbria. Ma a Dario Stefàno, vicepresidente del Gruppo Partito Democratico al Senato ed ex assessore regionale all'agricoltura proprio in Puglia con l'ex presidente Nichi Vendola, la cosa non va giù. Tanto che lancia un'interrogazione al ministro per le Politiche agricole Teresa Bellanova, che tra l'altro è pure pugliese. "È da considerare un abuso, una insopportabile mistificazione che offende le autoctonie, la storia produttiva e la tradizione di un intero territorio - scrive in una nota stampa Dario Stefàno - Ho depositato un'interrogazione urgente al ministro Teresa Bellanova perché si attivi al fine di rimediare ad un provvedimento varato dalla Regione siciliana che rompe quel legame tra storicità e produzione nei territori e di cui il vino è e deve continuare ad essere espressione. Con questa interrogazione, invito pertanto il ministro a dare urgentemente risposta non solo ai produttori pugliesi, ma all'intero sistema vitivinicolo italiano perché questo caso potrebbe creare un precedente pericolosissimo per la tenuta del valore delle autoctonie. Trovo, poi, altrettanto grave il silenzio assordante della Regione Puglia se, come immagino, è stata informata per tempo di questo pernicioso provvedimento". La decisione della Regione siciliana di autorizzare gli impianti di Primitivo è stata ufficializzata nel 2019. In realtà l'Irvo, l'istituto regionale vite e vino di Sicilia, aveva iniziato già negli anni '90 la coltivazione di questo vitigno pugliese in forza di un progetto tra l'altro finanziato dallo stesso ministero. E lo confermano gli stessi uffici dell'Irvo. Il progetto, però, dopo una decina d'anni era stato accantonato e poi ripreso su sollecitazione di alcuni produttori siciliani che su questa uva avevano visto delle potenzialità. Per questo sono stati fatti alcuni impianti sperimentali (uno in un vigneto di contrada Biesina a Marsala in provincia di Trapani). Ed ecco perché la decisione di autorizzare la coltivazione con il decreto dell’agosto scorso. Il Puglia il Primitivo è l'uva più diffusa. Solo il consorzio del Primitivo di Manduria coltiva 4.500 ettari con questa uva e ha un potenziale di produzione di 25 milioni di bottiglie. Senza considerare il consorzio del Primitivo Gioia del Colle che coltiva circa 150 ettari (ma sono molti di più se si considera l'uva che viene fatta con marchio Igt). Sull'argomento è intervenuto anche Assoenologi sezione di Puglia, Basilicata e Calabria: "Si tratta di un'azione fatta in sordina - sottolinea a Cronache di Gusto il presidente Massimo Tripaldi - La Sicilia ha inserito il primitivo nell'elenco dei vitigni autorizzati, dopo una sperimentazione di tre anni e punta al riconoscimento nella denominazione Igp Terre di Sicilia. È un'iniziativa puramente commerciale. Noi dobbiamo vigilare per escludere escatomage e glissare sugli attuali limiti. Siamo convinti sostenitori della tutela della storicità e territorialità dei vitigni, ne parliamo da anni, non avalliamo tale situazione, metteremo in campo ogni azione necessaria. È mancata una politica di tutela delle denominazioni occorre rivedere le strategie vitivinicole". Per il presidente del consorzio Doc Primitivo di Manduria Mauro Di Maggio, "questa è un'uva che traina tutto il sistema vitivinicolo e turistico della Puglia. Faremo tutto il possibile e ci appelleremo presso gli organi competenti per far annullare questa disposizione". "Questa azione della Regione siciliana mette a repentaglio anni e anni di nostri sacrifici per valorizzare la storia, la cultura e le tradizioni della Puglia - dice Nicola Insalata, presidente dela consorzio Primitivo di Gioia del Colle - Non vorremmo che questa sia solo una manovra commerciale che non si giustifica e ci auguriamo che la regione Puglia metta in atto tutte le iniziative per bloccare questo decreto". Intanto la Puglia del vino si compatta come non si vedeva da tempo. Hanno detto la loro, con una nota congiunta, oltre al consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria doc e docg e il consorzio Gioia del Colle doc, anche il consorzio del Salice Salentino doc, il consorzio di Brindisi e Squinzano doc, il consorzio dei vini doc e docg Castel del Monte, l’associazione nazionale Le Donne del Vino delegazione Puglia, il consorzio Movimento Turismo del Vino Puglia, Assoenologi Puglia Basilicata e Calabria, Cia-Agricoltori Italiani Puglia e la Confagricoltura Puglia. "Per noi questo provvedimento è inammissibile - scrivono Tale decisione offende la nostra storia. Il primitivo è un vitigno pugliese, espressione coerente del nostro territorio e delle nostre tradizioni vitivinicole. Inoltre, la sua affermazione commerciale che lo pone come prodotto traino dell’economia vinicola, agroalimentare e enoturistica regionale, è il risultato di decenni di sforzi e investimenti, sacrifici dei viticultori. E non possiamo tollerare che tale patrimonio sia sottratto". L'occasione è anche quella di fare luce sulla questione etichettatura di questo vino, e di un decreto datato 13 agosto 2012. Il mondo del vino pugliese chiede che venga modificata la norma in modo tale da impedire che il primitivo possa essere presentato nelle descrizioni secondarie di etichette riferite a vini rossi senza vitigno che provengono da Dop e Igp di altre regioni italiane. Inoltre, si eviterebbe che nell’elenco dei sinonimi vengano aggiunte delle varietà di viti che possono essere utilizzati nell’etichettatura e nella presentazione dei vini. Colpisce una cosa, però. Il fatto che "l'attacco" pugliese sia rivolto solo alla Sicilia (e non alle altre regioni che coltivano primitivo) e che arrivi dopo così tanto tempo dalla pubblicazione del decreto da parte della Regione siciliana. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha anche la delega all'agricoltura, finora non si è espresso. C'è da ricordare che in Puglia si coltivano da anni vitigni "non autoctoni", ossia simbolo di altre regioni, come il Verdicchio (Marche), Lambrusco (Emilia Romagna) oppure Refosco (Friuli e Trentino) e nessuno ha mai contestato nulla.

·        La pasta del Senatore.

Pasquale Chessa per “il Messaggero” il 30 ottobre 2020. Nella storia degli anni Ottanta, affluenti e progressivi, che si concludono con la caduta del Muro di Berlino, fra Gorbaciov e Reagan, Craxi e Berlinguer, Eco e Kundera, ci restituisce l' aria del tempo anche un cuoco, Gualtiero Marchesi, che nel 1985 ottenne la sua terza stella Michelin con un piatto stratosferico: Riso oro e zafferano. Chi lo assaggiò allora, ricorda sublime l'accostamento del risotto alla milanese con l' oro zecchino commestibile...Sono 238 le ricette d' autore censite dai sette curatori del sontuoso libro, in un tripudio di suggestioni di sapori perduti e ritrovati, intitolato Quando un piatto fa la storia. Bella questione! Una volta mangiato, di un piatto non rimane che il ricordo. Diventa storia quando il ricordo si stratifica nella memoria collettiva, anche di quelli che non l' hanno mai assaggiato. Come il gelato di Procopio Cutò (1686), un siciliano che l' aveva imposto alla Francia del Re Sole. Piluccando attraverso i secoli e i continenti non sfigura la Pizza Margherita di Raffaele Esposito (1889) insieme ai mitici Vol au vent di Marie-Antoine Carême (1800), il cuoco di Talleyrand, e la Pesca Melba (1893) di Auguste Escoffier. Così come non confliggono la supertecnologica Spuma di Fumo (1997) del catalano Ferran Adrià e l' umile Cavolfiore al forno (2006) dell'israeliano Eyal Shani. «Nessuna società è mai sopravvissuta senza il cemento sociale rappresentato dall' organizzazione dell' agricoltura, della cucina e della gastronomia», ci dice Jacques Attali in un densissimo saggio dedicato al Cibo. Già testa d' uovo del presidente socialista Mitterrand e poi del gollista Sarkozy, l' economista e politologo Attali riesce a vincere la scommessa di scrivere «una storia globale, dalle origini al futuro». Fin dai primordi, la scoperta della ruota o della leva, l' innovazione dell' agricoltura o dell' allevamento si spiegano con la necessità dell' uomo di mangiare per vivere. Così anche le guerre e le migrazioni, gli imperi e le nazioni. Dall' antropologia alla dietologia, alla meteorologia all' astrologia, dalla storia delle religioni allo studio dei costumi sociali, dall' economia domestica all' economia industriale la storia del cibo contiene in sé tutte le storie dell' umanità: «Il modo di mangiare influenza da sempre la storia e la geopolitica». La civiltà dell' alimentazione, il suo affermarsi e il suo decadere, dalla tavola rinascimentale alla tavola calda, vive sulla sovrapposizione fra il mangiare e il parlare. Un esempio? Per Attali c' è una relazione di causa ed effetto fra le discussioni ai tavoli delle prime trattorie di Parigi e la rivoluzione francese. La medesima equazione funziona per la scoperta dell' America o per l' industrializzazione. Il passato per Attali non serve solo per capire il presente ma ci consente di prepararci al futuro. Quando ci racconta la scoperta della Diploptera punctata, nuova specie di scarafaggio che secerne un latte altamente nutritivo, risponde da economista alla questione fondamentale per la sopravvivenza del pianeta terra quando dovrà dare da mangiare a nove miliardi di umani. Dalla necessità di inventare nuove forme di cibo, dalla veganizzazione delle diete del futuro prossimo, dalla commestibilità di insetti e vermi, dalla voracità del capitalismo alimentare, la vera spia della inquietudine sui tempi venturi è la crisi attuale della convivialità. Al di là dell' estetica culinaria Attali raccontando il passato ci interroga sul futuro: dipende da come mangeremo!

Rocco Moliterni per la Stampa il 28 giugno 2020. «La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria»: queste parole di Pellegrino Artusi sembrano scritte oggi per quelli che durante il lockdown si sono cimentati con imprese più o meno impossibili come fare il pane o la pizza in casa e hanno spedito agli amici via WhatsApp fior di foto con le mani in pasta. Eppure Artusi, di cui ricorre il 4 agosto il bicentenario della nascita, le ha scritte più di un secolo fa, nella prefazione al suo libro La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene, che sta alla gastronomia italiana come I promessi sposi alla nostra letteratura. Se infatti Manzoni dopo essersi «sciacquato i panni in Arno» con il suo romanzo codifica la lingua dell'Italia unita, Artusi, approdato a Firenze in età matura dalla natìa Forlimpopoli, fa lo stesso con la cucina, creando un ricettario che realizza a tavola l'Unità del Paese da poco raggiunta. Parliamo di uno straordinario successo editoriale (non solo per l'epoca) se si pensa alle 35 edizioni e alle oltre 280 mila copie vendute nell'arco di qualche decennio: viene pubblicato per la prima volta (con 475 ricette) nel 1891, quando Artusi ha già settant' anni. L'autore, che morirà nel 1911, fa in tempo a vederne l'«imprevedibile» e crescente successo. Imprevedibile più per gli editori dell'epoca che per Artusi stesso: lui crede a tal punto nel suo lavoro, frutto di ricerche e di sperimentazioni di decenni, che, visti i tanti rifiuti di un mondo editoriale che non gli dà credito in quanto «parvenu» (aveva pubblicato solo un saggio su Foscolo, altra sua passione, passato quasi inosservato), decide di farlo uscire a sue spese presso la tipografia Landi di Firenze. «Qui è bene a sapersi», scrive nella prefazione a una delle tante edizioni, «che gli editori generalmente non si curano più che tanto se un libro è buono o cattivo, utile o dannoso: per essi basta, onde poterlo smerciar facilmente, che porti in fronte un nome celebre o conosciutissimo, perché questo serva a dargli la spinta e sotto le ali del suo patrocinio possa far grandi voli». Ma paradossalmente a non credere in lui e nel libro sono all'inizio anche i suoi concittadini di Forlimpopoli. Ne manda due copie a una lotteria di beneficenza in sostituzione del suo saggio su Foscolo: «Non l'avessi mai fatto, perché mi fu riferito che quelli che le vinsero invece di apprezzarle le misero alla berlina e le andarono a vendere dal tabaccaio». En passant da questa parole traspare l'ironia che gli fu di aiuto per superare altri momenti difficili. Di famiglia agiata (i suoi erano proprietari terrieri e commercianti) aveva deciso di lasciare Forlimpopoli dopo un terribile episodio: la banda del brigante Passatore che imperversava nello Stato Pontificio una notte rapinò e saccheggiò la sua casa e fece violenza a una delle sorelle che non si riprese più. Per prudenza del suo libro Artusi stampa solo mille copie, poi altre mille, poi fa una terza edizione di duemila, e ancora la quarta e la quinta di tremila ciascuna. A questo punto La scienza in cucina prende il volo, le copie si moltiplicano, anche perché a ogni ulteriore edizione l'autore aggiunge nuove ricette fino ad arrivare a quasi mille. C'è da dire che a dargli una mano nella promozione è anche l'interesse che mostra per il volume, e l'invito che ne fa ad acquistarlo nelle sue conferenze pubbliche, Paolo Mantegazza, uno dei primi divulgatori del darwinismo in Italia nonché mille altre cose: fisiologo, patologo, igienista oltre che senatore del Regno. Mantegazza intuisce la modernità dell'Artusi, una modernità che rende l'opera e il suo autore ancora attuali. Tanto attuali che il giallista Marco Malvaldi, l'autore della celebre serie dei «Delitti del Barlume», ha fatto di Artusi anche una sorta di detective, protagonista del romanzo Il borghese Pellegrino (tra i personaggi anche il professor Mantegazza) da poco uscito da Sellerio, dopo averlo già messo al centro, cinque anni fa, di un altro giallo dal titolo Odore di chiuso. Quali sono gli elementi di questa modernità? Artusi anticipa cose che oggi ci sembrano scontate ma che a fine Ottocento non lo erano. Il marketing innanzitutto: individua un segmento di mercato ben preciso e a quello si rivolge. Sono le donne e le massaie della nuova borghesia italiana con le quali instaura un dialogo fitto di corrispondenze e incontri: si dimostra interessato a quello che oggi definiremmo il feedback. Chiede non solo il giudizio sulle ricette del suo libro ma anche di inviargliene di nuove: lui le proverà e se funzioneranno le pubblicherà nelle successive edizioni. Insomma riesce a creare anche senza Facebook quella che oggi chiameremmo una «community» della cucina. Artusi segue un metodo che definisce scientifico: tutte le ricette vengono provate e riprovate nella cucina di casa che nulla avrebbe da invidiare a quella di Masterchef o delle altre mille odierne trasmissioni televisive dedicate al «food». Come fidi scudieri aveva il cuoco romagnolo (di Forlimpopoli anche lui) Francesco Ruffilli e la governante toscana Marietta Sabatini: a entrambi lasciò tra l'altro i diritti del suo bestseller. Scapolo e senza eredi (amava le belle donne anche se non si sposò mai), lasciò gli altri averi alla città natale, che lo ricorda ogni anno con una grande kermesse, la Festa artusiana. Quest' anno si sarebbe dovuta celebrare ad agosto la XXIV edizione, che prevedeva come clou una notte bianca del cibo il giorno della nascita del gastronomo. Il Covid ha rotto le uova nel paniere e non si sa ancora se e come si riuscirà a festeggiare. Del resto anche in vita Artusi ebbe a che fare con virus e vibrioni: una sera a Livorno mangiò un minestrone che gli diede tutta la notte forti dolori di stomaco. Tornato a Firenze scoprì che nella città labronica era scoppiato il colera e che il padrone della casa dove aveva dormito ne era rimasto vittima. Archiviò la cosa scrivendo una nuova ricetta di minestrone.

Da "Ansa" il 31 ottobre 2020. Tutti amiamo la pasta, ma sappiamo veramente tutto sull'origine e la storia? E all'estero come, è il caso di dire la stravolgono. Una leggenda vuole che la pasta sia un’invenzione culinaria asiatica, portata a Venezia nel 1295 da Marco Polo al termine di uno dei suoi viaggi lungo la Via della Seta: un aneddoto completamente falso. Si tratta infatti di una storia creata da zero nel 1920 da un produttore americano di pasta italiana, alla ricerca di una narrazione. La vera origine della pasta si dice sia mesopotamica, i cui trattati culinari la evocavano già nel 1700 a.C. Indipendentemente dalla paternità, la pasta è un piatto irrinunciabile per la maggior parte degli italiani, che ne consumano in media 23 kg ogni anno.Il successo della pasta è però globale e va sempre più di moda anche all’estero, anche se a volte le ricette subiscono delle modifiche “sorprendenti”. È il fenomeno dell’Italian sounding, ossia la denominazione di prodotti con parole italiane o che ricordano l’italiano con il fine di renderli più appetibili ma che con la nostra tradizione hanno davvero ben poco e anche negli ingredienti. Per questo la app di lingue Babbel ha stilato una lista delle curiosità linguistiche legate a questo alimento e alle ricette più sorprendenti che vengono sperimentate all’estero...Il successo internazionale di questo piatto è testimoniato dal fatto che nella maggior parte dei paesi del mondo la parola “pasta” non viene tradotta. Ci sono tuttavia delle eccezioni: in francese “pasta” si traduce con “pâte”, in portoghese si usa “massa”, in greco “zymapika”, mentre in russo il termine migliore per farsi capire al ristorante è “?????”. In Repubblica Ceca si dice invece “testoviny”, in ungherese il termine corretto è “tészta”, mentre “makarna” è l’equivalente turco. In Spagna attenzione agli equivoci: “pasta” significa anche “denaro”, il che da spesso luogo a simpatiche incomprensioni. Alcune tipologie di pasta risultano inoltre innaturali o molto difficili da pronunciare per chi non parla italiano, venendo quindi storpiate: succede con le fettuccine e le linguine, a cui gli stranieri sostituiscono la vocale finale chiamandole “fettuccini” e “linguini”; oppure con le lasagne, gli gnocchi o le tagliatelle, che presentano le formule -gn e -gl, poco utilizzate nei paesi non latini.

Paste Pazze. Negli Stati Uniti il “maccheroni al formaggio” è uno dei piatti di pasta più apprezzati. È talmente popolare da essere diventato un sandwich: si chiama Mac and Cheese Sandwich e consiste in un toast ripieno di pasta al formaggio. Troppi carboidrati? Si può sperimentare il Mac And Cheese Bun Burgers: è come un hamburger, ma al posto del pane si usano due dischi di pasta al formaggio impanati e fritti.  In Messico si stanno diffondendo sempre più i tacos spaghetti, ovvero tacos ripieni di spaghetti con salsa al pomodoro piccante e polpette. Le penne alla russa sono invece un classico della cucina italo-americana. Anche in questo caso la ricetta è poco “italo” e molto “americana”, visto l’abbondante utilizzo di bacon, panna e, ovviamente, vodka.

Anche per dessert. Robicelli’s Bakery, una pasticceria di Brooklyn, ha inventato la nutellasagna, ovvero le lasagne alla nutella. È un dolce in cui il ragù viene sostituito da un mix di nutella, ricotta e marshmallow che danno vita ad un curioso esperimento di pasticceria. Anche in Italia un noto produttore ha provato in passato a unire cioccolato e pasta all’uovo introducendo sul mercato i ravioli al cioccolato, che sono però rapidamente spariti dagli scaffali a causa del loro insuccesso commerciale. Per provarli oggi bisogna andare in Inghilterra, dove sono serviti in molti ristoranti. Ogni pasta ha il proprio nome. La cucina è il regno della fantasia e il genio gastronomico è sbocciato per inventare diverse forme di pasta, ognuna con il proprio nome. Alcuni di questi hanno un equivalente straniero che ne racconta la geometria: ad esempio in Inghilterra le penne vengono chiamate “pasta quills”, ovvero “aculei di pasta”, mentre in francese i bucatini sono chiamati “spaghettis creux”, ovvero “spaghetti cavi”. In Spagna invece alcuni nomi sono stati adattati al vocabolario locale: i taglierini si chiamano “tallarines”, gli gnocchi sono detti “ñoquis”, lasagna si traduce con “lasaña” mentre i maccheroni prendono il nome di “maccarrones”. Infine ci sono casi un cui il nome adottato all’estero si riferisce direttamente agli ingredienti o al luogo di provenienza del tipo di pasta. È il caso del tedesco “parmaschinkentortelloni”, termine usato per indicare i tortelloni, che vengono preceduti dalla parola “parmaschinken”, ovvero prosciutto di Parma. Lo stesso vale per l’equivalente francese di orecchiette: si può dire “les petites oreilles des Pouilles” (traducibile come “le piccole orecchie della Puglia") o, in maniera più generica, “les pâtes fraîches des Pouilles” (traducibile come “le paste fresche della Puglia”).

Lo strano caso dei Maccheroni. Pochi cibi sono universalmente riconosciuti come i maccheroni. E sono ancor meno quelli con un’etimologia ugualmente controversa. Per alcuni la parola maccheroni deriva dal latino “maccare”, ovvero “schiacciare”. Per altri invece l’origine è greca e deriverebbe dal termine “makaria”, un piatto costituito da un impasto di farina d’orzo e brodo. I più poetici scelgono un'altra parola greca, ovvero “makar”, che significa “beato, felice”. Furono i napoletani a porre fine ad ogni equivoco: con maccheroni iniziarono ad indicare solo e soltanto la pasta lunga trafilata, di cui erano stati grandi consumatori sin dal 1600. Da allora i maccheroni sono diventati un simbolo della società partenopea, tanto che la parola “maccarone” viene usata per provocare bonariamente una “persona imbranata”... Non mancano però le varianti dialettali del termine maccheroni, in alcune regioni come il Veneto, per esempio, vengono chiamati “subioti”, dal dialetto “subiar” ovvero “fischiare” visto che, data la forma, ci si può soffiare dentro e fischiare.

I modi di dire tutti italiani e una curiosità busines. La pasta è entrata ormai nei modi di dire di tutti i giorni. Gli italiani infatti, da grandi amanti della pasta e della convivialità, hanno coniato un termine unico e intraducibile: è il caso di “spaghettata”, quella gustosa mangiata di spaghetti che si fa in allegra compagnia. Un altro modo di dire è “dare le paste” e si usa in diversi ambiti per indicare quando una persona surclassa gli altri. La sua origine deriverebbe dal fatto che in caso di un netto tempo di distacco in una competizione sportiva si diceva scherzosamente che il vincitore avrebbe avuto il tempo perfino di cuocere le pastasciutte. Anche i sughi hanno la loro importanza e sono entrati nei modi di dire degli italiani. “Stare come il cacio sui maccheroni” ad esempio è una tipica espressione tutta italiani per affermare l’adeguatezza di una situazione, come nel caso della perfetta e gustosa combinazione di cacio e maccheroni. La pasta è entrata anche nel gergo lavorativo: con “spaghetti plot”, che letteralmente significa “una trama di spaghetti”, ci si riferisce ad un particolare metodo di rappresentazione dei dati.

Le ricette della “tradizione”. Il classico spaghetto al pomodoro e basilico è un piatto facile e gustoso. Nei paesi anglosassoni la ricetta più vicina alla versione italiana si chiama Spaghetti Marinara Sauce, ovvero “spaghetti alla salsa marinara”. In Francia sono invece apprezzati gli “spaghetti a la soupe” (letteralmente “zuppa di spaghetti”). Ma come fare quando non si ha il tempo per cuocere la salsa? Nessun problema, basta usare il ketchup per ottenere un risultato da lasciare a bocca aperta. E stomaco vuoto.

Pane, pasta, pizza e polenta: le quattro P che mangiano la povertà. Eugenio Furia su Il Quotidiano del Sud il 25 ottobre 2020. UN POKER di sapori che ha permesso all’Italia di rialzarsi nel dopoguerra. Pane, pasta, pizza e polenta sono le 4 P che mangiano la quinta: la povertà. Nella Giornata mondiale della pasta, dedicata al piatto simbolo della Dieta Mediterranea, è giusto rendere un riconoscente tributo ai pilastri della nostra alimentazione. Un solo giorno di festa è davvero troppo poco se si pensa, da ultimo, alla primavera del nostro lockdown in cui ogni tinello si era trasformato in una micro-produzione a ciclo continuo di prodotti da forno: sugli scaffali della grande distribuzione, il lievito si è rivelato più introvabile dei Nutella Biscuits, fenomeno assoluto dell’anno prima. Perché i capisaldi della cucina povera o comunque casalinga sono, tanto più nei momenti critici come quello che abbiamo vissuto e stiamo purtroppo tornando a vivere, un “bene rifugio”: un porto in cui ripararsi.

Se stravolgiamo in via eccezionale l’ordine alfabetico, è solo per onorare la Giornata della pasta, appunto: le vendite nel settore sono aumentate del 25% dall’inizio dell’emergenza, cresce l’export ma anche in Italia i consumi segnano un +30%. Il comparto della pasta conta in Italia 112 aziende che impiegano 10.300 dipendenti. Accanto ai distretti di Gragnano e Puglia, negli anni si stanno consolidando i prodotti a marchio (la cosiddetta private label dei grandi gruppi della Gdo) spesso prodotti dalle stesse aziende leader, ma continua a resistere, parallelamente, la rete dei pastifici artigianali. Quello della pasta è un mondo caleidoscopico, fatto di vari formati (in lockdown colpì l’irreperibilità delle pennette e i consumatori si divisero tra filo-rigate e filo-lisce…). In principio fu la spaghettata di “Miseria e nobiltà”, poi passando dal “maccherone” di Alberto Sordi («io me te magno!») l’elemento principe della tavola italiana ha consolidato un posto primario nell’immaginario letterario e artistico: Francesco Merlo di recente ha ricordato una frase di Prezzolini, secondo cui “addentare gli spaghetti è meglio che leggere Dante”. Perché il formato che connota un Paese intero è proprio quello: pare che la parola spaghetti sia apparsa per la prima volta nel 1824, in una poesia di Antonio Viviani dal titolo “Li maccheroni di Napoli”. Dopo quasi due secoli e svariate rivisitazioni della pasta lunga – dalle linguine al pesto di Genova ai bucatini all’Amatriciana –, le tavole d’Italia, tra casa e ristorante, sono un tripudio di gusti identitari che uniscono un Paese grazie ai fornelli e ai sughi: dai canederli (gnocchi di pane) trentini alla Norma siciliana passando per i tortellini di Bologna e le varie versioni di lasagne, cannelloni e pasticci, senza dimenticare i livelli di qualità altissimi raggiunti negli ultimi anni dalle paste gluten-free, prodotte ormai anche dai grandi marchi con risultati invidiabili e numeri anch’essi in crescita esponenziale. La lingua italiana omaggia la pasta da ben prima che fosse istituita la Giornata a tema: «Come il cacio sui maccheroni» è la situazione ideale non solo in senso figurato. E poi c’è la cottura. Gli italiani si dividono tra i fautori della cottura al dente – pare più salutare, ma qui si va nello stesso campo minato del filetto più o meno al sangue – e chi la preferisce ai limiti dello scotto: l’importante è tenersi lontani dalle aberrazioni dei Paesi anglosassoni dove si racconta che la pasta si cala nell’acqua fredda, con esiti prevedibili (una pappa informe e lattiginosa). Una cottura sbagliata è per antonomasia una situazione da evitare, il timing sbagliato del fuori-tempo-massimo, diciamo il contrario del “cacio sui maccheroni”, ecco. “Quella partita fu come una cena con la pasta scotta e la carne dura, ma una magnifica, buonissima torta alla fine” per citare una definizione del compianto Gianni Mura, decano del giornalismo sportivo e gastronomico, su Italia-Germania 4-3. La frittata di pasta è un piatto cult che anticipa la scuola di pensiero del non-si-butta-via-niente, e persino il termine pastiera deriva dal campano «pasta di ieri»: prima di introdurre nella ricetta il grano, infatti, si usava la pasta del giorno prima.

E il pane? Visto che il cibo è letteratura e storia, basti dire che «il miglior modo per conoscere un territorio è introitarne il suo cibo o, ancor meglio, mangiare il territorio» (Italo Calvino, “Sotto il sole giaguaro”) e in particolare – ammoniva Karl Marx – «non si conosce un Paese se non si è mangiato il suo pane o bevuto il suo vino». Mario Soldati si spingeva ancora oltre: “Un popolo lo si conosce se si frequenta le sue cucine”. Proprio con il pane gli italiani hanno da sempre un rapporto di assoluto rispetto, ben lontano dalle moderne esagerazioni salutiste dei no-carb: «Carmina non dant panem», ammonivano i più prosastici dei latini anticipando di un paio di millenni il Tremonti del motto (poi rinnegato) “con la cultura non si mangia”. E il binomio panem et circenses continua a essere usato per demolire la demagogia: da un lato l’utile, dall’altro il dilettevole. Il pane è sacro. Betlemme in lingua ebraica significa “città dei pani”, e al di là del rito dell’ostia basti qui ricordare che Bergoglio – il primo papa a non avere un cuoco personale e a mangiare in mensa – oggi alterna riso e pasta in bianco ma a Buenos Aires amava mangiare empanadas: fagottini di pasta ripieni di carne. E rieccoci tornati alla pasta, non a caso il primo piatto… Il pane è la base rassicurante della Nutella morettiana, la fetta con la marmellata preparata e messa vicino al letto dei suoi bimbi da Sylvia Plath poco prima che si suicidasse mettendo la testa nel forno (nemesi), la “prosaica solidità” che (di nuovo Calvino) “può dare alla luce la creatività. La fantasia è come marmellata; deve essere spalmata su una solida fetta di pane. Altrimenti resta una cosa informe… della quale non ci si può fare nulla”. Se la pasta è il primo, il pane è proprio la vita, la salvezza durante i razionamenti della guerra, il bene di prima necessità: «Durante la Grande Depressione del ’29 in Central Park i piccioni portavano le briciole di pane ai passanti» (battuta di Groucho Marx).

Lo spazio di questo articolo sta finendo e sono rimaste ancora due P (è colpa del forno: sembrava di sentire gli odori). In linea con lo spirito di questa testata prim’ancora che con l’ordine alfabetico, rimaniamo in ambito gastro-letterario con Matilde Serao che chiamava la pizza «il pronto soccorso dello stomaco». Non tanto la pizza in sé, ma «l’arte dei pizzaioli napoletani» è da tre anni patrimonio immateriale Unesco. Il termine “pizza” compare per la prima volta in un manoscritto del 997 d.C. conservato nella cattedrale di Gaeta: mille anni dopo, in Italia ogni giorno vengono sfornate 8 milioni di pizze da 105mila pizzaioli, 200mila nei weekend (dati Cna 2018): con il lockdown, sono cifre di sicuro da rivedere, e adesso si attende un ulteriore crollo con la chiusura a mezzanotte. Un danno per la scrocchiarella romana, la napoletana (la leggenda sulla Regina Margherita è tanto nota che non serve neanche citarla), adorabile fritta, la pinsa, la pizza al taglio, in pala… A Brooklyn c’è persino un Museo della Pizza (MoPi).

Un bene da musealizzare sarebbe anche la polenta: il disco di farina di mais è una diade con gli osei (cacciagione) al nord, ma i non polentoni – appunto – non lo disdegnano abbinato a salsiccia, funghi, baccalà. Il trionfo dell’italico meltin’ pot, che infatti significa pentolone: dove tutto si mescola per moltiplicare il gusto, più che imbastardirlo.

Liscia, rigata, Ue, non Ue. Report Rai PUNTATA DEL 02/11/2020. Bernardo Iovene collaborazione di Greta Orsi. La pasta rigata, scelta dal 90% degli italiani, vince sulla liscia che è agli ultimi posti nelle vendita tra i formati di pasta. Apparentemente è una questione di gusto, ma gli esperti, i maggiori chef e gli stessi pastai affermano il contrario. La pasta liscia è più buona e trattiene il condimento più della rigata se trafilata al bronzo ed essiccata lentamente. Invece gli italiani, che vantano il primato mondiale del consumo, mangiano una pasta trafilata al teflon, con tempi di essiccazione veloci. L’inchiesta inoltre tratterà della provenienza dei grani e della trasparenza delle etichette: l’Antitrust ha emanato cinque provvedimenti sui marchi nazionali di pasta De Cecco, Divella, Cocco, Lidl e Auchan. Sulle loro etichette c’erano richiami all’italianità del prodotto in bella vista mentre la provenienza del grano da paesi Ue e non Ue appariva con caratteri microscopici nel retro. Infine Bernardo Iovene è stato a Gragnano dove ai piccoli pastifici è stato vietato l’uso della parola artigiano sulle etichette.

LISCIA, RIGATA UE,  NON UE Di Bernardo Iovene Collaborazione Greta Orsi Immagini Alfredo Farina.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Rimaniamo sul virus, ma in maniera un po’ più leggera. Durante il lockdown abbiamo consumato più pasta, lo dicono i dati. Però non tutti i formati di pasta: le penne lisce sono rimaste sugli scaffali. Perché? È una questione solo di gusto o è un comportamento indotto dall’industria in qualche modo? Noi siamo tra i più grandi consumatori e produttori al mondo di pasta. Prima della Tunisia e del Venezuela. Ci crediamo anche dei grandi cuochi e buongustai. Però, insomma, come è già successo per la pizza e per il caffè, il nostro Bernardo Iovene, ha preso a martellate le nostre certezze.

BERNARDO IOVENE Durante il lockdown, nei supermercati presi d’assalto sono rimaste le penne lisce, come avanzi.

OSCAR FARINETTI - EATALY Pazzesco. Quel giorno anche io ho avuto un sussulto. Perché io sono dieci anni, quindici, venti, che cerco di spiegare a tutti che la penna va liscia, la penna non va rigata. Quando la pasta si è industrializzata, quindi dovendo, non usando il bronzo e facendo l’essicazione veloce anziché lenta, è fatta in maniera che non assorbe bene. Allora si è inventata la riga – secondo me anche intelligentemente – per tenere più il sugo. Io sono un fanatico della penna liscia. La penna liscia è una dei formati più buoni del mondo, perché è più buono.

BERNARDO IOVENE Ecco qua. Questo.

OSCAR FARINETTI - EATALY È rigata.

BERNARDO IOVENE È rigata.

OSCAR FARINETTI - EATALY Lo si vede a occhio. E questa è la liscia.

BERNARDO IOVENE E questa è la liscia.

OSCAR FARINETTI - EATALY Però mentre è calda devi assaggiare.

BERNARDO IOVENE Ok.

OSCAR FARINETTI - EATALY E poi è più buona. 

BERNARDO IOVENE È più buona.

OSCAR FARINETTI - EATALY Eppure è fatta con gli stessi ingredienti, no? La liscia in bocca ti fa impazzire.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una pasta liscia trafilata al bronzo, essiccata lentamente, dà altre sensazioni. Abbiamo chiesto lo stesso confronto al Don Alfonso, ristorante stellato riconosciuto a livello mondiale, ai fornelli c’è il figlio Ernesto.

ERNESTO IACCARINO - CHEF DON ALFONSO Io la pasta rigata mi rifiuto di farla, perché tradizionalmente la pasta nasce come pasta liscia. Perché la differenza…

BERNARDO IOVENE Però me la potevi cucinare una pasta rigata, o no?

ERNESTO IACCARINO - CHEF DON ALFONSO Ma non è proprio nel nostro DNA.

BERNARDO IOVENE Eh, vabbè, ma io dico se io vi chiedo una pasta rigata me la potete cucinare, o no?

ERNESTO IACCARINO - CHEF DON ALFONSO Ma mo’ ti spiego il motivo: vedi questa qui? Questa qui è una pasta liscia, però grazie al fatto della trafila in bronzo conserva tutti gli umori. Una grande pasta deve avere tre cose fondamentali: una essiccazione a bassa temperatura tra i 52 e i 58 gradi, poi una trafila in bronzo e la cosa fondamentale: i grani.

BERNARDO IOVENE Da dove devono arrivare questi grani?

ERNESTO IACCARINO - CHEF DON ALFONSO Gli italiani assolutamente, perché sono quelli meno trattati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da Don Alfonso non possiamo fare il confronto con la pasta rigata: non esiste. E quindi ci consoliamo con la sua ultima specialità: candele lisce in uno sformato a forma di Vesuvio.

ERNESTO IACCARINO - CHEF DON ALFONSO Eccolo qua, il Vesuvio di ziti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E restando nel golfo di Napoli ci affacciamo a Posillipo da Lino Scarallo, lo chef del ristorante stellato Palazzo Petrucci: gli abbiamo chiesto il confronto tra pasta liscia e rigata.

LINO SCARALLO - CHEF PALAZZO PETRUCCI La pasta rigata qui non entra. Vedi come è poroso guarda. Per me non esiste la pasta rigata. 

BERNARDO IOVENE Ma non ce l’avete neanche nel menù?

LINO SCARALLO - CHEF PALAZZO PETRUCCI No, io faccio questo da 30 anni, mai usata la pasta rigata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per noi stasera lo chef ha fatto un’eccezione: cucinerà sia la liscia che la rigata. La differenza si vede già quando la pasta è cruda che, in entrambi i casi, è trafilata al bronzo, essiccata lenta e con grani italiani.

BERNARDO IOVENE Questa è la differenza, no?

LINO SCARALLO - CHEF PALAZZO PETRUCCI Secondo te, se tocchi, c’è differenza?

BERNARDO IOVENE Questo non è industriale, no?

LINO SCARALLO - CHEF PALAZZO PETRUCCI Questo non è industriale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Preparate e condite con ragù napoletano cotto per tre giorni, le assaggiamo con una giuria composta da un giornalista del cibo del blog Scatti di Gusto e il proprietario del ristorante Palazzo Petrucci.

LINO SCARALLO - CHEF PALAZZO PETRUCCI Senti la testura, nella masticazione totalmente diversa, la cartella è più spessa. È attaccato il condimento come è attaccato il rigatone.

EDOARDO TROTTA - PROPRIETARIO RISTORANTE PALAZZO PETRUCCI È completamente diversa la masticazione, la piacevolezza. La morte del ragù è liscia.

VINCENZO PAGANO - DIRETTORE SCATTI DI GUSTO Sulla liscia il ragù si è disteso in maniera uniforme mentre qui no; qua hai una superficie appunto liscia e quindi continua. Qui hai una superficie irregolare. Avrai delle altezze e delle profondità diverse.

BERNARDO IOVENE Ma non c’è nessuno che viene e ti chiede un rigatone al ragù?

LINO SCARALLO - CHEF PALAZZO PETRUCCI Ma qui siamo in Campania, la pasta rigata è per il nord.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma la questione nord-sud è una leggenda, perché quando chiediamo ai clienti dello stesso ristorante, napoletani, cosa preferiscono…

CLIENTE 3 La penna sempre rigata.

BERNARDO IOVENE Sempre rigata?

CLIENTE 1 Assolutamente rigata.

BERNARDO IOVENE Rigate?

CLIENTE 2 Rigata, rigata.

BERNARDO IOVENE È napoletana lei?

CLIENTE 2 Sì.

BERNARDO IOVENE Penna liscia o rigata?

CLIENTE 3 Rigata, si cuoce meglio e mantiene meglio il sapore del sugo.

BERNARDO IOVENE Lei?

CLIENTE 4 Rigato. Tutto rigato…

CLIENTE 5 Decisamente, rigata.

BERNARDO IOVENE Allora Lino, qui i clienti dicono rigata. Rigata.

LINO SCARALLO - CHEF PALAZZO PETRUCCI Secondo me sono i parenti che stavano al nord che sono rientrati che mangiano rigato. Non sono napoletani.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E invece a casa cosa mangiano liscia o rigata? Qui siamo in un supermercato a Napoli Fuorigrotta.

BERNARDO IOVENE Le penne lisce non le vendete?

GIUSEPPE CANTONE - DIRETTORE COMMERCIALE MD SPA Le penne lisce ce le abbiamo ma il ranking… sono in fondo.

BERNARDO IOVENE Preferiscono la rigata?

GIUSEPPE CANTONE - DIRETTORE COMMERCIALE MD SPA Sì.

BERNARDO IOVENE In che percentuale?

GIUSEPPE CANTONE - DIRETTORE COMMERCIALE MD SPA No, non c’è paragone. La penna liscia diciamo è tra gli ultimi item che vendiamo.

BERNARDO IOVENE Gli ultimi proprio?

GIUSEPPE CANTONE - DIRETTORE COMMERCIALE MD SPA Sì, ormai non la vuole più nessuno.

BERNARDO IOVENE La pasta liscia o rigata?

DONNA 1 Solo rigata.

DONNA 2 Rigata, assolutamente rigata.

BERNARDO IOVENE Pasta liscia niente?

UOMO No, pasta liscia non la preferiamo.

UOMO 2 Più rigata che liscia.

BERNARDO IOVENE Più rigata che liscia.

UOMO 2 Si attacca meglio il sugo, si attacca meglio la ricotta, si attacca tutto meglio.

BERNARDO IOVENE Rigata o liscia?

DONNA E UOMO Ma lei la conosco, è il giornalista… rigata assolutamente.

DONNA 3 Rigata.

BERNARDO IOVENE 5 Penne lisce o rigate utilizzate a casa?

DONNA 4 Rigate.

UOMO 3 Per me deve essere rigata. Per azzeccare il sugo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non solo il popolo napoletano, ma anche i ristoratori del lungomare smentiscono i grandi chef.

RISTORATORE Rigata.

BERNARDO IOVENE Rigata. E perché?

RISTORATORE Si azzecca meglio il sugo.

BERNARDO IOVENE Si azzecca, eh?

UOMO 4 Al ristorante liscia, a casa rigata.

UOMO 5 La pasta rigata assolutamente. La penna liscia sembra che scivola dalla bocca, non la riesci a mangiare. “Sciuglia”, come si dice dalle nostre parti. La rigata sicuramente ha un qualcosa in più.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non c’è partita: pasta liscia bocciata dai consumatori e dai ristoratori anche al sud! I grandi chef dicono il contrario, abbiamo chiesto l’ultimo confronto a Gennaro Esposito del ristorante stellato Torre del Saracino.

GENNARO ESPOSITO - CHEF TORRE DEL SARACINO Tra l’altro non la ordiniamo proprio. Mentalmente non ci sta proprio.

BERNARDO IOVENE Non ci sta proprio?

GENNARO ESPOSITO - CHEF TORRE DEL SARACINO No. Il rigo esprime un limite, un difetto della pasta. Se noi guardiamo il rigo al microscopio vedremo tante punte che circondano il diametro della pasta. Quindi queste punte a un certo punto della cottura quando noi saremo pronti e cotti bene al cuore della pasta, queste punte saranno scotte. Queste punte tendono a rompersi, si disfano. E impastano il sugo. Per noi è molto importante invece che il rapporto tra pasta e sugo sia un rapporto d’amore, sincero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 6 La dimostrazione c’è già in cottura, con la pasta liscia l’acqua rimane limpida e Gennaro con questa sua convinzione mi costringe a berla…

BERNARDO IOVENE Adesso mi devi far bere l’acqua…

GENNARO ESPOSITO - CHEF TORRE DEL SARACINO Tra un po’, però, ora è bollente.

BERNARDO IOVENE L’acqua della pasta?

GENNARO ESPOSITO - CHEF TORRE DEL SARACINO Esatto.

BERNARDO IOVENE Se era un rigatone non ce la potevamo bere?

GENNARO ESPOSITO - CHEF TORRE DEL SARACINO Se era un rigatone era più torbida e aveva più senso di amido cotto. Io pure la colazione la mattina la faccio con la penna liscia. Cioè, per me esiste solo liscia… Berna’, il resto sono chiacchiere: la pasta è una tela bianca, ci puoi dipingere quello che vuoi sopra.

BERNARDO IOVENE Però liscia?

GENNARO ESPOSITO - CHEF TORRE DEL SARACINO La tela liscia, bianca.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO C’è invece chi preferisce l’acqua torbida proprio perché dà cremosità alla pasta. Qui siamo a San Benedetto del Tronto, all’accademia degli chef.

VALERIO GIOVANNOZZI - DOCENTE ACCADEMIA CHEF Guardate qui invece questa quanto, tra virgolette, è non sporca, però è ricca. Insomma, è un sugo ricco. Questo appena l’acqua si riduce del tutto diventa avvolgente. La pasta rigata è quella che preferisco di più.

BERNARDO IOVENE Ah.

VALERIO GIOVANNOZZI - DOCENTE ACCADEMIA CHEF Una pasta rigata regala una legatura, un discorso di cremosità unico. Che la pasta liscia non può dare, questo è indubbio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è quello che scelgono più del 90 per cento dei consumatori, nei supermercati del centro nord, si fa fatica anche a trovarle le penne lisce.

UOMO Preferisco rigata.

DONNA Rigata.

UOMO Rigata.

DONNA Rigata.

UOMO Rigata.

DONNA Rigata

UOMO Rigata

UOMO Rigata

UOMO Rigata

UOMO Rigata

DONNA Rigata

UOMO Rigata

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E adesso vediamo i pastai cosa ne pensano. Il presidente dell’associazione dei pastai italiani è Riccardo Felicetti, il suo pastificio è a Pedrazzo, provincia di Trento. BERNARDO IOVENE Penne lisce o penne rigate?

RICCARDO FELICETTI - PRESIDENTE PASTAI ITALIANI Non c’è storia. Dieci a uno.

BERNARDO IOVENE Cioè ogni 10 rigate ne vendete 1 liscia?

RICCARDO FELICETTI - PRESIDENTE PASTAI ITALIANI Sì e probabilmente sto arrotondando per eccesso.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 8 Qui siamo a Fara San Martino: sotto la Majella c’è un distretto di pastai storico tra cui De Cecco, che purtroppo ha preferito non riceverci. Proprio di fianco però c’è anche il cavalier Giuseppe Cocco antico pastaio artigiano. Dalle sue trafile rigorosamente di bronzo escono per la maggior parte penne rigate.

LORENZO COCCO - PASTIFICIO ARTIGIANO Indiscutibilmente la più venduta è la penna rigata. La penna liscia sicuramente quando è ben fatta, ben cucinata, è qualcosa di superiore alla penna rigata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E c’è anche chi non si fa condizionare dal mercato. A Lari il pastificio Martelli, famiglia di pastai, dal 1926 non ha mai sfornato una penna rigata, solo lisce.

DINO MARTELLI - PASTIFICIO ARTIGIANO Imperterriti.

BERNARDO IOVENE Imperterriti? Solo penne lisce.

DINO MARTELLI - PASTIFICIO ARTIGIANO Che noi chiamiamo penne classiche.

BERNARDO IOVENE Classiche. Cioè voi penne rigate qua non le avete mai fatte?

DINO MARTELLI - PASTIFICIO ARTIGIANO No. E continuiamo a non farle. Le penne sono nate lisce e devono essere lisce, perché se fatte bene, le penne lisce sono migliori delle penne rigate.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La pensano così anche a Gragnano, il distretto di pastai più numeroso d’Italia.

ALBERTO ZAMPINO - PASTIFICIO GENTILE Noi siamo 100% pasta liscia, perché dottore, inevitabilmente, per quanto la rigatura voglia essere marcata, in cottura inevitabilmente si sfalda. Io le mostro come la pelle – quindi la parte esterna della penna – ha una ruvidezza tale che nessuna riga potrebbe mai sostituire. Nessuna.

BERNARDO IOVENE Nessuna?

ALBERTO ZAMPINO - PASTIFICIO GENTILE Assolutamente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Liguori è un marchio di Gragnano dal 1795: sforna pasta a ciclo continuo h24, oggi spaghetti e penne, rigate.

MADDALENA GENEROSO - MANAGER QUALITA’ PASTIFICIO LIGUORI Purtroppo, si vendono più penne rigate che penne lisce.

BERNARDO IOVENE 9 Secondo lei è corretto o è sbagliato?

MADDALENA GENEROSO - MANAGER QUALITA’ PASTIFICIO LIGUORI Secondo me è sbagliato. E la rugosità che dà il bronzo è stata convertita con il rigato. Ma la pasta nasce liscia.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Qua c’è il suo formato preferito, la penna mezzana rigata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E in controtendenza rispetto alle proprie vendite va anche Giuseppe Di Martino, che è anche presidente del consorzio di tutela della pasta di Gragnano. Nel suo pastificio oggi le penne in produzione sono rigate.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Io mangio solo pasta liscia. Il rigo serve per mantenere una cottura nelle aree di produzione che non erano naturalmente vocate a produrre pasta.

BERNARDO IOVENE Cioè lei sta dicendo chi non capisce niente di pasta…

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Non sarei mai così scortese con un mio cliente, però diciamo che l’intenditore di pasta non preferisce quello scalino. Quando lei vede una sezione della pasta rigata, c’è una sezione stessa che è quella del rigo. Quando l’acqua va a colpire questa parete, o questa, qui la cuoce in maniera omogenea, qui la cuoce prima di che cuoce qua.

BERNARDO IOVENE La pasta rigata, insomma, non è perfetta?

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Secondo me dal punto di vista… cioè… Certo che non è perfetta.

BERNARDO IOVENE Tecnico…

GIUSEPPE DI MARTINO – PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Tecnico… non è perfetta.

BERNARDO IOVENE Non è perfetta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Di Martino ha anche un piccolo gioiello di pastificio, una pasta da oltre 10 euro al chilo. Dove ci mostra l’imperfezione della penna rigata con uno spessimetro prima di passare all’assaggio per il confronto.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO La gola ha lo spessore di 1,50 e se uno guarda il rigo ha uno spessore di 1,84-1,90. È il rigo che forma un monte e una valle, un monte e una valle… quando il monte è cotto la valle è scotta. 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È scotta. La spiegazione non fa una piega. Solo che il 95% dei consumatori preferisce la pasta rigata e anche il presidente di un consorzio, un’autorità in materia, quello della pasta di Gragnano, ha dovuto piegarsi alle logiche di mercato. Lui mangia solo penne lisce, ma è costretto a produrre le rigate anche se sono, la riga, un’imperfezione per lui. E anche agli chef stellati insorgono se tu chiedi la penna rigata perché sulla liscia il ragù si stende in maniera più uniforme e viene assorbito. Ma la pasta deve essere fatta a regola d’arte, cioè deve essere usato dell’ottimo grano duro, deve essere trafilarla in bronzo e deve essere a essiccazione lenta, cioè dalle 18 alle 60 ore, a temperature inferiori ai 50 gradi. Solo così la penna liscia può diventare quella tela bianca, sulla quale puoi dipingere quello che vuoi. Questa è la citazione del cuoco Esposito; ricorda un po’, evoca quella del maestro Fellini secondo il quale la vita non è null’altro che una combinazione tra magia e pasta. Però anche nel tempio dell’integralismo come quello del Consorzio della Pasta di Gragnano, c’è chi ha scelto la scorciatoia. Sono lontani i tempi nei quali veniva addirittura modificato un intero piano regolatore della città per favorire la lenta essiccazione della pasta favorendo il passaggio del vento caldo del mare.

MARCELLO NICCOLAI - TRAFILE SRL Questi sono inserti in bronzo, questi sono gnocchetti sardi. Non so se lei li ha mai visti in Sardegna.

BERNARDO IOVENE Certo, come no.

DONNA TRAFILE SRL E questo è il tipo rigato. Ondulato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questi inserti sono le trafile, gli stampi che danno forma alla pasta, si inseriscono in questi panettoni di compressione; dagli stampi esce il formato. Le trafile però, quando sono in bronzo, rallentano il processo produttivo e quindi l’industria alimentare ha inserito dentro le trafile il Teflon, una plastica dura indeformabile che velocizza la produzione.

 BERNARDO IOVENE Questo è il Teflon.

MARCELLO NICCOLAI - TRAFILE SRL Questi sono dei semi-lavorati che sono fatti da un’altra macchina. Praticamente c’è la cartuccia con il Teflon e il pernio a sua volta con il Teflon.

BERNARDO IOVENE Entra la pasta da qua dentro, no?

MARCELLO NICCOLAI - TRAFILE SRL Qua entra la pasta e dal davanti esce la pasta. Le linguine.

BERNARDO IOVENE Ah, questa fa le linguine.

MARCELLO NICCOLAI - TRAFILE SRL 11 Questo fa le linguine. Esatto. Questa qui è una trafila di bucatini.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Chiaramente il risultato di una pasta al Teflon non è lo stesso di una trafilata al bronzo. La pasta al Teflon ha una superfice liscia e lucida, quella al bronzo è ruvida e con una alta capacità di trattenere il condimento, richiede anche una qualità superiore di semola. La famiglia Niccolai di Pistoia è dal 1800 che inventa migliaia di formati di pasta attraverso le trafile che esporta in tutto il mondo.

MARCELLO NICCOLAI - TRAFILE SRL Qui vede, tutti i rigati e poi di qua, vede, tutti i lisci.

BERNARDO IOVENE In percentuale quante trafile in Teflon e quante in bronzo?

MARCELLO NICCOLAI - TRAFILE SRL 15 per cento di bronzo, il resto fatto tutto in Teflon.

BERNARDO IOVENE Tutto in Teflon.

MARCELLO NICCOLAI - TRAFILE SRL Esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In Italia siamo sul 70 per cento ed è per questo che non preferiamo la liscia, perché trafilata al Teflon non trattiene il condimento. Il pastificio Di Martino produce sia pasta trafilata al bronzo che al teflon.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Questo è Teflon e questo è bronzo. Stesso formato pure, eh?

BERNARDO IOVENE Le trafile che abbiamo visto di Teflon…

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Servono per fare questo prodotto.

BERNARDO IOVENE Questo qua non può essere IGP. Perché è trafilato al Teflon…

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Bravo e nemmeno aver nessun riferimento a Gragnano.

BERNARDO IOVENE E c’è proprio, si vede proprio la differenza.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Enorme, no?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 12 Enorme. E si vede solo se le mettiamo a confronto, perché questo tipo di pasta è quello che consumiamo in stragrande maggioranza, costa anche meno!

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Costa meno perché è più facile da produrre. Si fa col Teflon e quindi è più veloce la produzione.

BERNARDO IOVENE È più veloce.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Molto più veloce. Perché non trattiene la trafila. Quindi si può andare a una velocità di estrusione maggiore.

BERNARDO IOVENE E ne producete di più?

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Si produce di più.

BERNARDO IOVENE Ed essiccate pure…

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO A una velocità maggiore.

BERNARDO IOVENE Cioè? A quanto?

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO A volte per esempio una pasta corta, 4 ore o 5 ore.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quattro ore, cinque ore, con temperature che superano anche i 100 gradi, le paste trafilate al bronzo invece hanno altri tempi e altre temperature.

BERNARDO IOVENE Quanto tempo stanno qua?

DINO MARTELLI - PASTIFICIO ARTIGIANO Cinquanta ore.

BERNARDO IOVENE Sempre a 35 gradi?

DINO MARTELLI - PASTIFICIO ARTIGIANO Trentacinque, trentasette gradi ecco, però cinquanta ore.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il signor Natale del pastificio Gentile, di notte rimane nel pastificio e assaggia la pasta per capire se è croccante al punto giusto.

NATALE ZAMPINO - PASTIFICIO GENTILE Lui così verifica se il prodotto si è asciugato o meno.

BERNARDO IOVENE Quanto dura il processo?

NATALE ZAMPINO - PASTIFICIO GENTILE Sono tre giorni.

BERNARDO IOVENE Tre giorni. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche nella trafilatura in bronzo, però c’è un sistema industriale che ha bisogno di altri tempi, più veloci. L’essiccazione non è statica, ma dinamica. Qui siamo sempre a Gragnano al pastificio Liguori.

MADDALENA GENEROSO - MANAGER QUALITA’ PASTIFICIO LIGUORI Qua noi essicchiamo dalle 8 alle 10 ore i formati di pasta corta. Le paste lunghe andiamo dalle 14 alle 18 ore di essiccazione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tutte le paste di Gragnano hanno il marchio di Indicazione Geografica Protetta perché si essiccava la pasta in questa piazza, favoriti dal vento caldo del maestrale che arriva dal mare pare ogni giorno a mezzogiorno.

SERGIO CINQUE - PASTIFICIO FAELLA DAL 1907 Questi sono gli scanni su cui si faceva l’essiccazione. La pasta veniva prosciugata in piazza.

BERNARDO IOVENE Qua praticamente?

SERGIO CINQUE - PASTIFICIO FAELLA DAL 1907 Qua. In questo punto dove ci troviamo noi.

BERNARDO IOVENE Perché qua ci sono delle correnti particolari per…

SERGIO CINQUE - PASTIFICIO FAELLA DAL 1907 Sicuramente Gragnano ha una posizione geografica ideale.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Tira il vento solo dal mare. E dal mare da ovest arriva questo vento che porta umidità che noi gragnanesi lo chiamiamo maestrale, ma in realtà è una brezza termica.

BERNARDO IOVENE È anche uniforme?

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO 14 È perfetta, entra dentro ogni giorno a mezzogiorno. Quindi è come se noi avessimo incaricato la natura di asciugare la pasta dicendo: mi raccomando a mezzogiorno porta vento che ci serve per asciugare la pasta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oggi, miracolo, la natura si è resa conto che la pasta non si può più asciugare in piazza e sui balconi come avveniva una volta e soffia vento caldo nei 23 pastifici di Gragnano senza distinguere tra industriali e artigianali e per questo sono tutti e 23 IGP.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Quello che accade è che prende l’aria da fuori sempre e la soffia sulla pasta. Quindi quell’aria comunque è un ingrediente importante del nostro lavoro. E quindi questa condizione rende Gragnano unica da un punto di vista della prosciugazione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questa leggenda la troviamo anche nel disciplinare IGP dove si specifica che già nella metà del 1800 l’altezza dei palazzi fu pianificata in modo da facilitare il fluire del vento e agevolare l’essiccatura della pasta. Si è trascurato però di scrivere cosa è successo dopo, specie negli anni ‘60 e ‘70, anzi l’ultimo disciplinare ha modificato il range dell’essicazione: si permette da un minimo di 4 ore a 60 ore, provocando la protesta dei produttori più piccoli che sono usciti dal consorzio.

ANIELLO PEPE - PASTIFICIO ARTIGIANALE Il Consorzio fa il suo percorso ecco, noi siamo troppo piccoli per stare dentro. La differenza è solo sulle… diciamo sui metodi di lavorazione.

 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È uscito anche il Pastificio Gentile che era tra i fondatori e che per ultimo ha tenuto la tradizione delle fusillare, simbolo esclusivo della pasta artigianale di Gragnano.

BERNARDO IOVENE La differenza dove sta? Nell’essiccazione?

ALBERTO ZAMPINO - PASTIFICIO GENTILE Nell’essiccazione. Noi produciamo in un anno quello che un’azienda industriale a Gragnano produce in due giorni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È uscito il pastificio Faella, l’unico che si affaccia sulla piazza della pasta.

SERGIO CINQUE - PASTIFICIO FAELLA DAL 1907 Ci sono metodi differenti e noi non condividendo l’iter che si stava seguendo ci siamo un attimino fermati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il presidente del Consorzio della pasta di Gragnano è Giuseppe di Martino, titolare del pastificio omonimo, poi del Pastificio Dei Campi, poi del Pastificio Antonio Amato e poi del Grandi Pastai Italiani di Reggio Emilia.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO 15 Alcuni pastifici ci hanno indicato che avevano delle problematiche a rispettare le 6 ore in alcuni periodi dell’anno.

BERNARDO IOVENE Lo state portando sempre, mo’ arriva a zero tra poco.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO No, è che deve essere reale. Di fondo chi vuole produrre con 60 ore di prosciugazione lo può fare. Non è che non lo può fare. BERNARDO IOVENE Ci mancherebbe altro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Pastificio d’Aragona si era permesso di scrivere sulle etichette “pastificio artigianale”, sono stati diffidati e costretti a cambiare le etichette.

BERNARDO IOVENE Nessuna etichetta che si riferisca la pasta di Gragnano potrà recare la dicitura artigianale.

NAPOLEONE CIOFFI - PASTIFICIO D’ARAGONA Sì sì, abbiamo dovuto ritirare dal mercato e teniamo questi packaging stampati…

BERNARDO IOVENE Cioè ritirarli dal mercato?

NAPOLEONE CIOFFI - PASTIFICIO D’ARAGONA Con danni che cercheremo di recuperare negli anni.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Noi dobbiamo fare la tutela dei consumatori.

BERNARDO IOVENE Voi tutelate il consumatore obbligando chi fa l’artigiano a dire: tu non devi scrivere che sei artigiano.

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO No, la domanda è sempre la stessa. Per la legge italiana non c’è una descrizione legale di artigiano. Se ci fosse non ci sarebbero problemi. Come potrebbe dire…

BERNARDO IOVENE Beh ma non c’è differenza tra un sistema industriale e un sistema artigianale?

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO È quello che io vorrei chiedere a lei. Se me lo riesce a definire io posso metterlo sul pacchetto.

BERNARDO IOVENE Io penso che queste etichette servano proprio a non aiutare il consumatore a distinguere. 16 GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Se io dico a lei “artigianale”, secondo lei è più o meno di industriale? Le fa più gola dire artigianale? Se lei intende che è un prodotto migliore di quello industriale, me lo deve dimostrare dice il Ministero; e in che maniera? E finché non è definito, questa legge non lo permette.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La legge non esiste. È il Consorzio che ha chiesto un parere al Ministero che ha verificato che il disciplinare dell’IGP non prevede l’uso della parola artigianale. E il disciplinare lo scrive il Consorzio, così è successo anche sui tempi di essicazione che sono scesi a 4 ore.

BERNARDO IOVENE Se io do la possibilità da 4 a 60, se faccio questo qua e lo faccio in 4 ore nessuno mi può dire niente? È comunque IGP?

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Eh certo.

BERNARDO IOVENE Dico: io consumatore come faccio a capire la differenza tra Gragnano e Gragnano?

GIUSEPPE DI MARTINO - PRESIDENTE CONSORZIO PASTA DI GRAGNANO Nella stessa maniera con cui lei va a fare la differenza tra un Barolo e un altro. Le fantasie, le favole sono belle. Però c’è bisogno di dire la realtà come sta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E la realtà però non viene detta in modo chiaro ai consumatori che trovano 23 pastifici di Gragnano tutti con lo stesso marchio IGP sia che essiccano a 4 ore che a 60 ore. L’ambasciatore della pasta di Gragnano nel mondo è Don Alfonso Iaccarino.

 ALFONSO IACCARINO - RISTORANTE DON ALFONSO Io vado in giro nel mondo e sono contento di rappresentarla. Che poi…

BERNARDO IOVENE Allora quando parli delle caratteristiche della pasta di Gragnano al mondo che cosa gli dici?

ALFONSO IACCARINO - RISTORANTE DON ALFONSO Gli faccio vedere la differenza tra le paste industriali e le paste prodotte a Gragnano.

BERNARDO IOVENE Qual è? DON ALFONSO IACCARINO Il profumo. Allora...

BERNARDO IOVENE Dovuto a che cosa?

ALFONSO IACCARINO - RISTORANTE DON ALFONSO Al profumo, al metodo di essiccazione che è diverso.

BERNARDO IOVENE Sul disciplinare dell’Igp della pasta di Gragnano fino all’altro ieri c’era scritto da 6 a 60 ore. Adesso addirittura hanno diminuito da 4 a 60 ore. Tu sei ambasciatore di 4 ore oppure di 60 ore?

ALFONSO IACCARINO - RISTORANTE DON ALFONSO Io sono ambasciatore di 60 ore, sicuramente.

BERNARDO IOVENE Però l’ambasciatore ha voce in capitolo.

ALFONSO IACCARINO - RISTORANTE DON ALFONSO Comunque io non ero al corrente di questa situazione, per cui…

BERNARDO IOVENE Ti sto mettendo al corrente io: da 6 passa a 4. Cioè vuol dire che stiamo dicendo ciao Gragnano.

ALFONSO IACCARINO - RISTORANTE DON ALFONSO Questa è una battaglia che chi è intelligente lo capisce e quindi ho già detto tutto, ho già detto tutto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ha detto tutto il povero Don Alfonso. Insomma hanno nascosto anche al loro ambasciatore nel mondo che i tempi sono cambiati. Oggi l’aria calda la soffiano con i macchinari nei pastifici. Sono lontani gli anni del 1800 quando erano stati cambiati i piani regolatori e la città, per tenere le costruzioni basse e favorire l’entrata della brezza marina per essiccare in maniera naturale la pasta. Queste cronache il Consorzio le ha inserite nel disciplinare, se ne fa un vanto. Ma oggi la situazione è questa: ci sono i grattacieli; la cementificazione ha mortificato quelle caratteristiche che rendevano quella città unica nel mondo per la qualità della pasta. Ma questo il Consorzio non lo scrive più, anzi negli ultimi tempi ha anche abbassato il limite minimo di essiccazione della pasta. Il massimo rimane 60 ore, il limite minimo è stato abbassato da 6 a 4 ore. Questo significa che è meno buona? No. Però consente magari a chi è meno facoltoso di poterla acquistare. Poi, nel mondo fuori Gragnano, c’è invece chi trafila in bronzo e questo lo mette sempre in bella mostra; non lo fa invece chi trafila con il teflon, con la plastica. Stesso discorso per chi preferisce la pasta a essiccazione lenta, cioè quella sopra le 18 ore lo mette in bella mostra, chi invece sta sotto le 9 ore tende a non dirlo. Adesso facciamo vedere un esperimento che ha fatto - è empirico eh! – che ha fatto infuriare i pastai.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Siamo nel mondo della pasta. Siamo i più grandi consumatori al mondo, ne consumiamo circa 23 chili e mezzo in media ogni anno. I nostri pastai sono i migliori al mondo; producono circa 300 tipi di pasta diversa che esportano in 22 paesi. Anche noi come cuochi e come buongustai ci riteniamo i migliori al mondo. Ma è veramente così? Il nostro Bernardo Iovene ha messo in piedi un esperimento con alcuni pastai. Mi raccomando: è un esperimento empirico. Perché come lo abbiamo anticipato la settimana scorsa, si sono infuriati tutti i pastai.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per capire la differenza tra essicazione lenta e essicazione veloce ad alta temperatura siamo stati dai Coniugi Latini, titolari della famosa pasta marchigiana. Carlo ci ha preparato un esperimento che possiamo fare tutti a casa, 5 piattini con paste essiccate a 18 ore, a 9 ore, a 18 ore, a 9 ore e una commerciale, ma sicuramente al di sotto delle 9 ore.

CARLO LATINI - PASTAIO Si prende un bicchiere d’acqua e si prende la pasta e la si mette dentro.

BERNARDO IOVENE Le ha messe a bagno, crude, per 12 ore. Vediamo i risultati cominciando da quella più commerciale.

CARLO LATINI - PASTAIO Non ha perso la forma.

BERNARDO IOVENE Nove ore?

CARLO LATINI - PASTAIO Questa nove ore. Mantiene sempre la consistenza. Oh, questa invece diciotto ore.

CARLA LATINI - PASTAIA E non si riesce nemmeno a prendere

CARLO LATINI - PASTAIO Non si riesce nemmeno a prendere perché…

CARLA LATINI - PASTAIA E ritornata, è ritornata.

BERNARDO IOVENE Torna pasta.

CARLO LATINI - PASTAIO Si, è ritornata acqua e semola di grano duro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quelle con nove ore di essiccazione dopo dodici ore restano intatte. Quelle con diciotto ore, essicazione lenta, si disfano.

CARLO LATINI - PASTAIO Il formato di pasta estruso ritorna acqua e farina perché non c’è stato uno stress termico.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è probabilmente quello che succede nello stomaco: le paste essiccate ad alta temperatura restano intatte e poco digeribili a differenza di quelle a lenta essicazione che si disfano.

CARLO LATINI - PASTAIO Ha subito un’essiccazione naturale, quella che un tempo veniva chiamata in Campania, in napoletano, “la famosa aria del Golfo”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Premesso che non c’è alcuna conseguenza per la salute – è solo una questione di gusto – quando avevamo fornito l’anticipazione di questo esperimento lunedì scorso, si sono scatenati un po’ di animi. L’Associazione Italiana di Scienza dei Cereali, ci ha scritto che non “c’è alcuna prova scientifica che la pasta essiccata a lungo tempo sia migliore di quella essiccata velocemente”, per chi ha problemi anzi con la glicemia è consigliabile quella a essiccazione veloce, quella che rimane più intatta, perché rilascia più lentamente le sostanze che poi fanno aumentare l’indice di glucosio nel sangue. Ci hanno anche scritto i pastai che ci hanno inviato un documento firmato da tutti, compresi De Cecco, Barilla, Rummo, Garofalo, Divella che poi non hanno voluto parlare con noi. Scrivono che sosteniamo “tesi allarmistiche sul processo di essiccazione della pasta, partendo da un suggestivo esperimento privo di alcun fondamento scientifico, che non dimostra in alcun modo che la pasta con una lenta essiccazione è più digeribile di un’altra con una essiccazione più veloce”. Porta la firma dei più importanti compresa quella di De Cecco, che poi però - che cosa fa? - ci scrive una mail a parte e ci dice… dove elogia le qualità della pasta a lenta essiccazione e a temperature più basse. Questo perché secondo loro quella veloce, ad “alte temperature” può comportare il così detto “danno termico”. Mandano anche delle analisi. Dice che si formano sostanze dal sapore amaro, che non sono presenti nella semola, nel grano originale; cambiamenti di colore e di profumi e ci sarebbe anche la perdita di una proteina, la Lisina. Al contrario, invece con l’essicazione lenta, si manterrebbero delle qualità della pasta originaria. Ecco. Noi non vogliamo entrare nella polemica, vedetevela tra voi pastai. Abbiamo riportato questo fatto solo per dovere di cronaca. Quello che possiamo consigliare ai consumatori è mangiate la pasta che vi piace di più secondo il vostro gusto che non c’è problema di salute. Però l’Antitrust invece ha beccato 5 grandi pastai che hanno fornito informazioni ingannevoli al consumatore. Il nostro Bernardo vestito da Tenente Colombo poi ne ha beccati anche altri.

OSCAR FARINETTI - EATALY Questa è di grani un po’ italiani e un po’ i migliori del mondo. Misto. Io sono fanatico di certi grani dell’Oregon, del Texas, desertici. Quella che stai mangiando è questa. Questa è quella liscia.

BERNARDO IOVENE Dove leggo io che i grani non sono italiani? Qui c’è scritto Gragnano però insomma potrebbe…

OSCAR FARINETTI - EATALY Eh no, è fatta a Gragnano.

BERNARDO IOVENE Dove c’è scritto da dove viene il grano?

OSCAR FARINETTI - EATALY Aspetta che adesso ti leggo… tempo di cottura, prodotto a Gragnano, essiccatura lenta etc… 

BERNARDO IOVENE Scrivi anche tu Ue, No Ue?

OSCAR FARINETTI - EATALY Cosa scrivo?

BERNARDO IOVENE Ue, no Ue.

OSCAR FARINETTI - EATALY Cosa vuol dire Ue no Ue?

BERNARDO IOVENE Dopo te lo spiego. La provenienza qua è nascosta dai, non la trovi.

OSCAR FARINETTI - EATALY La provenienza del grano non diciamo da dove arriva. Sai che però hai ragione: devo dire anche da dove arriva, dall’Oregon, perché a me piace molto.

BERNARDO IOVENE Però qua potrebbe trarre in inganno perché c’è scritto Gragnano e uno pensa che sia grano italiano no?

OSCAR FARINETTI - EATALY No.

BERNARDO IOVENE Come no? Secondo me da qualche parte ce lo scrivi e neanche lo sai.

OSCAR FARINETTI - EATALY No perché non siamo tenuti a scriverlo e i miei non lo scrivono. Ah è qua! Ue… Paese di coltivazione grano: Ue ed extra Ue.

BERNARDO IOVENE Ed extra Ue. Te l’ho detto Ue no Ue.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per scoprire che la pasta di Gragnano di Farinetti è fatta con grani esteri dobbiamo prima fare una caccia al tesoro e poi interpretare la dicitura Ue ed extra Ue, lo permette il regolamento. Sulle paste dove utilizza il grano italiano invece è scritto in bella mostra.

BERNARDO IOVENE Grano italiano 100 per cento, vedi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Fanno tutti cosi.

BERNARDO IOVENE Made in Italy.

GIUSEPPE CANTONE - DIRETTORE COMMERCIALE MD SPA 21 Prodotto in Italia, prodotto in Italia sì.

BERNARDO IOVENE Con grano duro

GIUSEPPE CANTONE - DIRETTORE COMMERCIALE MD SPA Noi indichiamo che è Ue, non Ue.

BERNARDO IOVENE Ue non Ue. Dove sta scritto Ue non Ue?

GIUSEPPE CANTONE - DIRETTORE COMMERCIALE MD SPA Ecco qua.

BERNARDO IOVENE Qua sopra.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se avete tanto tempo da perdere potete divertirvi al supermercato: qui c’è scritto grande sull’etichetta davanti prodotto in Italia e dietro piccolo…

BERNARDO IOVENE Paese di coltivazione del grano Ue, no Ue. Proprio minuscolo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Barilla dove usa grano italiano lo scrive in bella mostra.

BERNARDO IOVENE 100 per cento italiano, grano italiano vabbè, mentre invece queste qua dove non c’è scritto 100% italiano… paese di coltivazione del grano: Italia e altri paesi, Ue e no Ue.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ue e no Ue sta per grano che proviene sia da paesi europei che da paesi extra europei. Le norme permettono di non specificare i paesi. Questo è un formato De Cecco, davanti la bandiera italiana con made in Italy e dietro paese di coltivazione Ue e no UE. Questa è Divella, prodotta in Italia con bandiera italiana e dietro dopo attenta ricerca scopriamo che il grano viene da Italia e paesi Ue e no Ue. Questa è la marca Lidl: sul frontespizio specialità italiana, prodotto in Italia e dopo ricerca accurata nella parte posteriore troviamo grano UE e No UE. Tutte rispettano il regolamento europeo, ma per il garante della concorrenza non va bene e ha avviato cinque provvedimenti per le paste De Cecco, Divella, Combino, Cocco, e Auchan.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Ue e no Ue scritto dietro piccolo è complicato da andare a controllare. Diciamo che uno che va a fare la spesa non è che deve essere costretto ad andare a controllare fino al singolo dettaglio.

BERNARDO IOVENE È ingannevole.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Certamente.

BERNARDO IOVENE Per voi il consumatore in questi casi qua viene tratto in inganno?

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Eh beh, direi proprio di sì.

BERNARDO IOVENE Voi l’inganno dove lo vedete?

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Nel fatto che la gente pensa di comprare pasta non soltanto fatta in Italia, ma fatta anche con prodotti italiani.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nessuno dei marchi oggetto di provvedimento ci ha voluto concedere un’intervista, ad eccezione del pastificio del cavalier Cocco, una signora pasta artigianale che usa grani dell’Arizona, e lo specifica sulle etichette, ma non sufficientemente in vista per l’antitrust.

LORENZO COCCO - PASTIFICIO ARTIGIANO Si parte dal presupposto…

BERNARDO IOVENE La pasta è un’antica tradizione e poi in piccolo qui scrivete che il grano proviene dall’Arizona e quindi il consumatore può essere ingannato dal fatto che questa sia una pasta fatta interamente a Fara San Martino.

LORENZO COCCO - PASTIFICIO ARTIGIANO Non indichiamo Ue, extra Ue, noi scriviamo

BERNARDO IOVENE Ue non Ue.

LORENZO COCCO - PASTIFICIO ARTIGIANO Ue non Ue senza dare chiarezza… noi abbiamo dato una comunicazione chiarissima al nostro consumatore, scrivendo Arizona. È come dire che chi produce una giacca di cashmere interamente in Italia non stia producendo un prodotto italiano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Cocco però ha accettato i rilievi del garante della concorrenza e si è impegnata a dare risalto nella parte anteriore all’origine del grano.

BERNARDO IOVENE Siete stati costretti a scrivere, no?

LORENZO COCCO - PASTIFICIO ARTIGIANO Ma costretti con piacere.

BERNARDO IOVENE Con piacere, extra Durum Arizona Desert.

LORENZO COCCO - PASTIFICIO ARTIGIANO E sul retro della confezione diamo ancora più indicazioni sulle caratteristiche del grano.

 BERNARDO IOVENE Sulle caratteristiche del grano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Così ha già fatto De Cecco, oggi sulle nuove confezioni non c’è più la bandiera italiana ma l’indicazione in bella vista che la pasta è fatta con i migliori grani italiani, californiani e dell’Arizona. Lidl invece ha fatto ricorso, ma intanto è stata multata dall’Antitrust per un milione di euro. Ma quello che non si capisce però, è perché solo 5 marchi hanno subito i provvedimenti, rispetto alle decine che abbiamo trovato con le stesse caratteristiche nei supermercati; li abbiamo raccolti e portati tutti direttamente davanti al Garante.

 BERNARDO IOVENE Io le ho portato qua.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Che mi ha portato?

BERNARDO IOVENE Sono andato in 50 supermercati, ho comprato 50 tipi di pasta, poi ho svuotato tutte le paste perché non potevo venire qua…

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Certo sarebbe stato complicato…

BERNARDO IOVENE Io le ho portato tutte le etichette e adesso vi faccio studiare, vi faccio studiare…

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Ora noi, una volta che me le ha portate, verificheremo tutte quante le confezioni di pasta.

BERNARDO IOVENE Io dico, come mai solo 5, solo 5?

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Beh sono quelle, noi abbiamo fatto questo screening complessivo.

BERNARDO IOVENE Non siete andati in giro come me però eh al supermercato

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Ora non so poi se qualcuno materialmente è andato nei supermercati. Però diciamo abbiamo verificato…

BERNARDO IOVENE Prodotto in Italia.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Prodotto in Italia

BERNARDO IOVENE Questo qua a naso, a naso…

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Queste non le avevo mai viste per esempio. No voglio dire…

BERNARDO IOVENE Non le ho fatte io.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Certo che non le ha fatte lei. E ora diciamo noi faremo... queste qua me le lascia sì?

BERNARDO IOVENE E gliele lascio certo.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Così le facciamo verificare tutte, una per una.

BERNARDO IOVENE Però poi dopo mi dà, mi dà, non so o mi assumete qui all’Antitrust.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST No l’assumiamo no, però le diamo come dire che il segnalante è stato lei, è stato Report.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tornando a Gragnano quasi tutte le paste utilizzano grano italiano. Garofalo invece, che dopo Barilla e De Cecco è la pasta più venduta in Italia, scrive che è pasta di Gragnano Napoli, che è IGP e nel retro che è grano Ue e no Ue. Le Igp sono esenti dai regolamenti Europei sull’obbligo dell’origine dell’ingrediente primario, ma non dalle norme italiane.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST La circostanza che come dice lei, come le hanno detto, il regolamento non si applica ai prodotti Igp, non toglie che io Antitrust devo andare a verificare sempre se quella formulazione, quella struttura della confezione dell’etichetta sia ingannevole. In quel caso io intervengo anche in presenza di un’apparente conformità rispetto alle regole dell’etichettatura.

BERNARDO IOVENE Quindi anche Gragnano può essere coinvolta?

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Questo come le dico, anche qua. Tengo anche queste e verifichiamo anche queste.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È stato di parola: ha studiato le confezioni, le etichette che Bernardo gli ha lasciato e, senza indugio ha fatto opera di moral suasion nei confronti di 8 marchi, 6 dei quali hanno preso provvedimenti Pasta Zara, Pasta Riscossa, Pasta Reggia, Pasta Fratelli 25 Cellino, Pasta Verde, Pasta “Sapori e dintorni” di Conad. Qualcuno ha rimosso dal front l’immagine che evocava troppo l’Italia; altri invece hanno sopperito inserendo, con la stessa evidenza, la provenienza del grano. L’Antitrust ha assicurato che continuerà a monitorare. Ed è un bene perché secondo uno studio europeo, i consumatori scelgono soprattutto guardando la provenienza del grano.  

La pasta del Senatore. Report Rai PUNTATA DEL 19/10/2020 Bernardo Iovene. Collaborazione di Greta Orsi. Se mangi la pasta del senatore Cappelli i sintomi quali dolori addominali, gonfiore, etc. si abbattono. Una leggenda che diventa realtà: trenta pazienti non celiaci, ma con sintomi da celiaci, sono stati sottoposti a un esperimento al Policlinico Gemelli. Mangiando pasta di grano Senatore Cappelli i disturbi si sono ridotti notevolmente. La ricerca, pubblicata sulla rivista internazionale Nutrients, in Italia non è stata diffusa. Il committente, la Sis di Bologna, che ha avuto dallo Stato l’esclusiva della vendita del seme in purezza, è stata sanzionato dall'Autorità Garante della Concorrenza per imposizione del vincolo di filiera: imponeva agli agricoltori la consegna di tutto il grano raccolto, anche se a un buon prezzo. Un’altra multa l’ha avuta per discriminazioni e dinieghi di fornitura: avrebbe negato il seme magico ai non iscritti alla Coldiretti. La Sis parla di complotto e di prove false, a rimetterci intanto è la certificazione di una filiera che potrebbe sviluppare un grano benefico tutto italiano.

LA PASTA DEL SENATORE Di Bernardo Iovene Collaborazione Greta Orsi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO bentornati, passiamo ora ad una guerra che si sta, insensata lasciatemelo dire, che si sta consumando intorno ad un seme di grano duro, quello del Senatore Cappelli. Ecco è un grano selezionato oltre cento anni fa. Siamo agli inizi del ‘900 quando il marchese Raffaele Cappelli, poi nominato sotto il fascismo senatore decide di investire nella sperimentazione di grano duro. Mette a disposizione i suoi poderi in Puglia e incarica un agronomo, il migliore di tutti, Nazareno Strampelli. Dopo anni di studi Nazareno Strampelli dedica questo grano, lo lega al nome di chi gli ha consentito di fare ricerche. Ma il grano del Senatore Cappelli che ha delle qualità perché è un grano forte, resistente ha anche degli handicap, rende poco. E sotto la spinta dell’industria viene dismesso quasi subito fino a quando un piccolo pastificio marchigiano ha voluto, ha voluto osare, ha recuperato questo grano, ci ha fatto la pasta e con la pasta ha cominciato a girare una leggenda: che la pasta fatta con il grano del Senatore Cappelli è più buona e ha anche effetti benefici. È solo una leggenda? BERNARDO IOVENE Questo è Cappelli, questo qua?

PASQUALE DE VITA - RICERCATORE CREA FOGGIA Questo… Nel 2015 abbiamo festeggiato i 100 anni della varietà. Questo è un esempio unico al mondo di una varietà ininterrottamente coltivata.

BERNARDO IOVENE Lui però è Strampelli, non è…

PASQUALE DE VITA - RICERCATORE CREA FOGGIA Quello è Strampelli, certo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quello del senatore Cappelli è un grano duro antico, ed è stato dismesso negli anni 60 perché rendeva poco.

CARLA LATINI - PASTIFICIO LATINI Molto meno resa.

CARLO LATINI - PASTIFICIO LATINI Questo è un campo da venti quintali all’ettaro.

BERNARDO IOVENE Venti quintali… Se fosse grano normale?

CARLO LATINI - PASTIFICIO LATINI Sicuramente tra i 60 e i 70.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Negli anni 90 i coniugi Latini hanno ricominciato a lavorarlo all’interno del loro pastificio. E la loro pasta ha cambiato sapore.

CARLA LATINI - PASTIFICIO LATINI Le spighe sono scure, queste reste sono abbastanza scure e lui rimane, rimane così anche nello spaghetto. Ha un sapore, hai presente la mandorla sgusciata? Ecco tu mastichi il senatore cappelli appena scolato e senti questo sapore in bocca.

CARLO LATINI - PASTIFICIO LATINI Quando lo abbiamo introdotto noi, abbiamo ripreso la coltivazione nel ‘91, noi lo abbiamo preso direttamente dall’Istituto sperimentale di cerealicultura di Foggia. Ed è dello Stato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per fortuna che è dello Stato perché qualcuno ha pensato di conservare il seme in purezza perché questo grano pare abbia degli effetti benefici. E’ quello che emerge da uno studio del Policlinico Gemelli che dimostreremo questa sera in esclusiva sul quale Bernardo ha messo le mani. Ecco questo è un grano che consumato alla lunga può contrastare le intolleranze e può portare benefici a chi soffre di disturbi gastrointestinali, mangiando la pasta. Ecco invece pare che in questi anni anche i leader pastai abbiano venduto pasta fatta con un grano dove il grano del Senatore Cappelli ce n’era poco o niente. Ecco per avere la certezza bisognerebbe sempre coltivare il seme in purezza che è conservato in una banca pubblica. Che cosa è successo in questi anni? Che la banca pubblica lo dà in concessione ad una società privata. Negli ultimi quattro anni è stato dato alla Sis, la società sementi italiane e questa, italiana sementi, e questa Sis poi lo vende ai coltivatori e controlla tutta la filiera in esclusiva. Ecco questo dato ha provocato qualche invidia, ha provocato le proteste di alcuni agricoltori che vorrebbero riseminare il grano cappelli in maniera autonoma e libera. Ha dato origine ad una guerra senza esclusione di colpi dove dentro son finiti anche pare dossier e testimonianze false. Il nostro Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il seme originale e puro è conservato al Crea di Foggia, l’ente di ricerca nazionale sulle filiere agroalimentari, vigilato dal ministero delle Politiche Agricole. È una banca del seme che custodisce centinaia di varietà di frumento garantendo la purezza.

PASQUALE DE VITA - RICERCATORE CREA FOGGIA Il seme in purezza significa che noi conserviamo - diciamo - la varietà dalle origini, cercando di evitare che la varietà – diciamo - nel corso del tempo degeneri. Perché nel tempo, per effetto dell’ambiente, per effetto diciamo di incroci non voluti la varietà può degenerare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A forza di riseminare negli anni parte del raccolto perde la sua caratteristica originaria. Infatti, nel 2018 è venuto fuori che la pasta in commercio senatore Cappelli aveva poco del seme cappelli.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Noi abbiamo verificato con le analisi sul grano cappelli presso l’Università di Bologna abbiamo verificato su marchi di portata nazionale che la sequenza genomica non era rispondente al grano Cappelli.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un fatto grave. Il Laboratorio di Ricerca e Analisi Sementi della facoltà di Agraria, attraverso l’analisi del DNA, possono verificare che tipo di varietà di grano c’è nella pasta, hanno analizzato alcune marche di pasta con grano cappelli.

ENRICO NOLI - VICE RESPONSABILE SCIENTIFICO LARAS UNIVERSITA’ DI BOLOGNA Ci sono casi di forte diciamo presenza di altre varietà e questa assenza invece di marcatori tipici del genotipo cappelli sembrano indicarci, in maniera abbastanza forte, che se ce ne era di cappelli ce ne era molto poco.

BERNARDO IOVENE Ah. Cioè detto questo voi avete fatto denuncia di questa cosa?

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Noi abbiamo fatto un’interrogazione parlamentare.

BERNARDO IOVENE E basta?

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Un comunicato stampa. E basta.

BERNARDO IOVENE Cioè la repressione frodi non è intervenuta, non è intervenuto nessuno e si è messo tutto a tacere.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Esatto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO GranoSalus, l’associazione che ha promosso le analisi, ha pubblicato anche i marchi di chi ha venduto pasta cappelli, ma che conteneva poco seme originale. Parliamo del pastificio Felicetti e Alce Nero. Ambedue sono leader nel mondo del biologico. Ricostruire la vicenda è complicato, allora ci siamo messi sulle tracce del grano duro. Parte dal tavoliere delle Puglie: nella filiera di Alce Nero a coltivare il grano cappelli c’è ad esempio l’azienda agricola di Stefano Pirro.

BERNARDO IOVENE Se hanno fatto le analisi e hanno visto che non era grano cappelli, allora o vuol dire che il seme che vi hanno dato era un seme misto e voi l’avete…

STEFANO PIRRO - COOPERATIVA DAUNIA & BIO No, questo è difficile, per il semplice fatto che il Cappelli ha delle caratteristiche sue molto particolari, nel senso che è molto alto, cha ha una spiga…

BERNARDO IOVENE Cioè lei lo riconosce qual è?

STEFANO PIRRO - COOPERATIVA DAUNIA & BIO Eh sì, il cappelli si riconosce a distanza.

BERNARDO IOVENE Poi lei fa il raccolto e lo manda…

STEFANO PIRRO - COOPERATIVA DAUNIA & BIO E lo mandiamo al mulino De Vita.

BERNARDO IOVENE Ho capito. Quindi poi il mulino De Vita fa la semola e chi è fa la pasta poi? Felicetti?

STEFANO PIRRO - COOPERATIVA DAUNIA & BIO La pasta viene... sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con il Mulino De Vita non siamo riusciti a incontrarci. Il pastificio Felicetti invece è a Predazzo in Trentino-Alto Adige a 1000 metri di altezza. Riccardo Felicetti è anche il presidente dei pastai italiani, e produce e confeziona anche la pasta di Alce Nero di cui è anche socio.

BERNARDO IOVENE Praticamente è lei sotto processo, perché c’è Felicetti, la vostra pasta, e poi c’è quella di Alce Nero. Quindi voi insomma. Cappelli non era cappelli.

RICCARDO FELICETTI - PRESIDENTE PASTAI ITALIANI No, lo era. E lo era perché era cappelli. Era cappelli quello che era stato seminato ed era cappelli quello che è stato raccolto. Però se la natura ci mette lo zampino, grano cappelli, quando va in prima o in seconda risemina, ha questi decadimenti qualitativi.

BERNARDO IOVENE Quindi questa cosa qua è successa con la vecchia gestione.

RICCARDO FELICETTI - PRESIDENTE PASTAI ITALIANI Questo è successo… certo, certo.

BERNARDO IOVENE Quando si consentiva.

RICCARDO FELICETTI - PRESIDENTE PASTAI ITALIANI Quando si consentiva la risemina. Di una parte del grano si consentiva la risemina.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Questa è tutta pasta BERNARDO IOVENE Tutta pasta questa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La risemina è ancora consentita dalla legge, i semi sono pubblici ma ai consumatori non si può vendere un seme per un altro. Qui siamo da Alce Nero il colosso del biologico, questo è il magazzino centrale e da qua passano 30 mila quintali di pasta biologica all’anno.

BERNARDO IOVENE Cioè voi vendevate cappelli e di cappelli ce ne era molto poco.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Era un problema che poteva esserci. Secondo noi, nel nostro caso, era molto marginale. Però il tema c’era.

BERNARDO IOVENE Il tema c’era vuol dire insomma che per alcuni anni chi comprava grano cappelli non mangiava grano cappelli.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Il tema della purezza dei mono grani è una cosa che c’è.

BERNARDO IOVENE Se viene riseminato perde le sue caratteristiche.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Tutte. Credo tutte le sementi. BERNARDO IOVENE Il cappelli di più?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Il cappelli forse è un po’ più veloce ecco. Per avere un cappelli puro devi partire da semente pura.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il seme in purezza è dello stato che attraverso il Crea lo dà in concessione a una o più sementerie, che poi lo vendono agli agricoltori. Nel 2016 è stato assegnato alla SIS di Bologna che, anche se non formalmente, è legata a Coldiretti. Con questo seme la Sis ci ha fatto la pasta e ha voluto verificare scientificamente la leggenda che gira intorno al cappelli.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI La leggenda paesana se vogliamo, no? Il senatore cappelli e più buono e fa meno male. Abbiamo voluto osare una certificazione scientifica. E quindi abbiamo dato questo incarico al Policlinico Gemelli. Lo abbiamo fatto con una popolazione già sensibile al glutine, cioè già con chi normalmente non mangerebbe pasta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Hanno in pratica sperimentato la pasta fatta con il grano del senatore Cappelli su 30 pazienti, che quando mangiano la pasta generica hanno problemi gastrointestinali, gonfiore, dolori addominali. Per qualche mese le unità operative del Policlinico gli hanno somministrato 100 grammi di pasta al giorno.

MARIA CRISTINA MELE - DIRETTORE NUTRIZIONE AVANZATA IN ONCOLOGIA POLICLINICO GEMELLI Abbiamo dato per quattro settimane la pasta senatore cappelli e l’altro tipo di pasta alla cieca in questi gruppi. Poi abbiamo fatto l’ulteriore prova del nove cioè, abbiamo fatto un cross, cioè abbiamo incrociato le popolazioni. Chi ha mangiato all’inizio pasta senatore cappelli, dopo due settimane di astensione, nuovamente dieta glutinata, perché dovevamo pulire gli eventuali sintomi eccetera, abbiamo incrociato i tipi di pasta. BERNARDO IOVENE Sono spariti i sintomi?

MARIA CRISTINA MELE - DIRETTORE NUTRIZIONE AVANZATA IN ONCOLOGIA POLICLINICO GEMELLI 5 Si sono ridotti moltissimo. Quando noi diciamo statisticamente significativo, significa che la riduzione dei sintomi in questo caso non è legata al caso cioè non è una cosa casuale.

BERNARDO IOVENE È una cosa…

MARIA CRISTINA MELE - DIRETTORE NUTRIZIONE AVANZATA IN ONCOLOGIA POLICLINICO GEMELLI Noi siamo rimasti contenti cioè nel senso: siamo rimasti colpiti perché…

BERNARDO IOVENE Non ve lo aspettavate.

MARIA CRISTINA MELE - DIRETTORE NUTRIZIONE AVANZATA IN ONCOLOGIA POLICLINICO GEMELLI Non ce lo aspettavamo sinceramente.

BERNARDO IOVENE Tutti che avevano i sintomi diciamo.

MARIA CRISTINA MELE - DIRETTORE NUTRIZIONE AVANZATA IN ONCOLOGIA POLICLINICO GEMELLI Tutti che avevano i stintomi, che erano stati…

BERNARDO IOVENE E tutti hanno avuto dei benefici.

MARIA CRISTINA MELE - DIRETTORE NUTRIZIONE AVANZATA IN ONCOLOGIA POLICLINICO GEMELLI Tutti quelli che hanno mangiato la pasta senatore cappelli confrontata con i pazienti che hanno mangiato l’altro tipo di pasta, hanno avuto un beneficio durante il percorso senatore cappelli.

BERNARDO IOVENE Wow, una cosa…

MARIA CRISTINA MELE - DIRETTORE NUTRIZIONE AVANZATA IN ONCOLOGIA POLICLINICO GEMELLI Questa è stata la cosa… Noi possiamo dire che c’è stato questo evento. È chiaro, abbiamo bisogno per confermare il dato di allargare la popolazione.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI È venuto fuori che pazienti del Gemelli che non mangiavano più pasta hanno potuto rimangiare la pasta, avevano meno fastidi che con qualsiasi altra pasta, più digeribile, meno gonfiore, meno mal di testa, meno dolori articolari.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questa ricerca è stata pubblicata su Nutrients, una rivista scientifica internazionale: dal grafico vengono evidenziati il miglioramento dei sintomi sia intestinali che extra intestinali come mal di testa e dermatite. Un risultato importante eppure nel paese della pastasciutta per antonomasia non ne abbiamo parlato.

BERNARDO IOVENE Questa è una cosa eccezionale, com’è che non ne abbiamo saputo niente?

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Purtroppo, mentre noi facevamo tutto questo bel lavoro scoppiò il caso.

BERNARDO IOVENE Dell’Antitrust?

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Dell’Antitrust.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La società Sis che aveva ottenuto in esclusiva dalla banca dei semi del ministero dell’Agricoltura il seme originale del grano senatore cappelli, quando lo vendeva agli agricoltori, non permetteva che questi lo riseminassero in autonomia. Questo per impedire che nel tempo ne venisse contaminata la purezza. Poi aveva fatto degli accordi con i pastai che compravano il raccolto a 60 e 80 euro al quintale se biologico. Soldi che andavano all’agricoltore. La filiera era controllata e certificata, ma le altre associazioni dei coltivatori sono insorte e hanno denunciato a Sis all’Antitrust.

BERNARDO IOVENE Si è scatenato contro la Sis.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Sì. BERNARDO IOVENE Perché? SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Ha monopolizzato il mercato di una varietà che noi ritenevamo essere una varietà ormai di dominio collettivo, quindi di proprietà pubblica

BERNARDO IOVENE E secondo l’Antitrust...

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS E secondo l’Antitrust, questa è una violazione.

BERNARDO IOVENE Lo imponevano?

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Lo imponevano attraverso dei contratti di filiera, e quindi l’agricoltore a un certo punto dice: ma come se io volessi trasformare quel grano che ho acquistato da te da riproduzione per fare io un’attività di trasformazione in proprio, fare la pasta, fare la farina, fare il pane, non posso farlo perché sono legato a doppio filo con questa fornitura quindi…

BERNARDO IOVENE In quel contratto cioè, tu mi dai il raccolto. Però gli garantivano anche un buon prezzo.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Il prezzo lo fissavano loro.

BERNARDO IOVENE 60 e 80 euro convenzionale e biologico insomma mi sembra un buon prezzo.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS È un prezzo che però non rispondeva, ha dimostrato il tempo, agli andamenti del mercato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Gli agricoltori che abbiamo sentito invece smentiscono la versione del politico e si dicono contenti del prezzo fissato per il grano raccolto.

STEFANO PIRRO - COOPERATIVA DAUNIA & BIO Negli anni passati avevamo dei contratti 55-60 euro. E oggi siamo arrivati ad avere 80 euro a quintale.

BERNARDO IOVENE 80 euro. Per lei è un fatto positivo tutta questa filiera chiusa?

STEFANO PIRRO - COOPERATIVA DAUNIA & BIO È un fatto positivo.

BERNARDO IOVENE Perché lei già ce l’ha venduto?

STEFANO PIRRO - COOPERATIVA DAUNIA & BIO Esatto, io programmo la semina in base alla vendita del prodotto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui invece siamo alla fondazione Emmaus dove coltivano il cappelli biologico su 70 ettari.

RITA DE PADOVA - FONDAZIONE SINISCALCO CECI - EMMAUS Per assurdo prendiamo di più oggi. Il nostro problema di produttori è quello di sapere chi compra la granella, chi ce la paga.

BERNARDO IOVENE Cioè voi li volete fare prima i contratti?

RITA DE PADOVA - FONDAZIONE SINISCALCO CECI - EMMAUS E certo. Perché chi è che si mette al rischio oggi di mettere 30 ettari di un prodotto qualunque…

BERNARDO IOVENE Per voi è conveniente?

RITA DE PADOVA - FONDAZIONE SINISCALCO CECI – EMMAUS Certo che è conveniente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 8 La Sis quindi ha blindato il seme in purezza con dei contratti che, si è sempre difesa, non erano obbligatori, riconoscendo comunque un prezzo che soddisfa l’agricoltore. Ma quello che fa salire il fumo agli occhi alle altre associazioni di coltivatori è che la Sis viene identificata con la Coldiretti. E tra gli agricoltori c’è chi ne ha fatto una questione di principio.

AGRICOLTORE BIO FOGGIA Negli anni passati io coltivavo il grano cappelli, quando non si prendeva il seme attraverso la Sis.

BERNARDO IOVENE Quindi si è rifiutato perché?

AGRICOLTORE BIO FOGGIA Perché il principio non ci sta bene. Quello di dover conferire per forza e di comprare a quel prezzo.

BERNARDO IOVENE Era così nel senso che lei direttamente oppure lei lo ha sentito dire?

AGRICOLTORE BIO FOGGIA Lo abbiamo anche chiesto noi direttamente, e poi c’era.

BERNARDO IOVENE Lei come ditta?

AGRICOLTORE BIO FOGGIA Come azienda, e poi c’era l’obbligo di conferimento.

BERNARDO IOVENE Poi però, cambia versione. Io ti avevo chiesto se ti era successo in prima persona. AGRICOLTORE BIO FOGGIA Eh.

BERNARDO IOVENE Non è successo in prima persona?

AGRICOLTORE BIO FOGGIA No, io ti sto dicendo che siccome tutto si sta accertando nelle aule del tribunale, io ti posso dire però che molti agricoltori- che conosciamo – si sono proprio rifiutati di coltivarlo perché hanno detto: noi fino a ieri lo prendevamo oppure ce lo pulivamo nella nostra azienda, lo andavamo a riseminare, poi facevamo quello che volevamo e vendevamo a chi aveva un piccolo mulino, a chi aveva… questo non è più possibile. Evitiamo di prenderlo, dedichiamoci ad altre varietà.

SALVATORE PACE - AGRICOLTORE BIO ALTAMURA Sono due anni che non lo faccio più perché io ritengo che gli agricoltori devono essere liberi di scegliere e di decidere quello che devono seminare, come seminarlo e quando seminarlo. E soprattutto, a chi vendere il prodotto. Perché non è un grano provato il cappelli, Nazareno Strampelli lo ha lasciato all’Italia e viene gestito in regime di monopolio da un solo sementiere. Questo non è concepibile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Contro la Sis si sono schierate tutte le altre associazioni degli agricoltori: Confagricoltura, Codici, Grano Salus, Cia, Copagri e l’Antitrust ha multato la Sis per l’aumento ingiustificato del prezzo del seme, e per imposizione del vincolo di filiera.

BERNARDO IOVENE L’agricoltore che fa il grano quando semina no, se sa già che l’ha venduto o a chi lo vende, cioè è un fatto diciamo quasi positivo.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Dovrebbe però poter decidere lui. Non gli dovrebbe essere imposto. C’era questa clausola: se tu volevi essere, volevi acquistare il seme grano cappelli eri poi obbligato a cedere tutto il tuo raccolto, il tuo prodotto alla stessa Sis.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’Antitrust ha convocato anche i maggiori produttori di pasta cappelli tra cui c’è Girolomoni, l’azienda storica del biologico che è una cooperativa di 400 agricoltori. Hanno i campi, lo stoccaggio del grano, il mulino e il pastificio. Sis, il primo anno di concessione, ha chiesto che gli agricoltori della cooperativa conferissero a loro il raccolto ma poi hanno trovato un accordo diverso. BERNARDO IOVENE L’Antitrust ha visto che c’era questa imposizione. Anche a voi lo avevano imposto questo contratto?

GIOVANNI GIROLOMONI - COOPERATIVA AGRICOLA BIO Nel primo anno sì e no. Fondamentalmente loro hanno l’attenzione a controllare la filiera per valorizzare il senatore cappelli. Dietro c’è anche il progetto e l’impegno da parte loro a promuovere, a fare ricerca sul senatore cappelli, che sono aspetti positivi. Ci siamo seduti intorno a un tavolo e abbiamo trovato un accordo, in cui la cosa che ci vincolava era il prezzo da pagare all’agricoltore che è un prezzo ottimo, ma noi di questo eravamo contenti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il grano viene pagato 80 euro al quintale. Sis però il primo anno della concessione chiedeva ai pastai 8 euro in più per pagare la ricerca al Gemelli e la promozione del seme. Stessa discussione c’è stata con Alce Nero.

BERNARDO IOVENE Comunque voi non siete stati ricattati da Sis?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO No, noi non siamo stati ricattati. Le condizioni erano: pagare 80 euro all’agricoltore, far comprare a noi la granella perché è l’unico modo che abbiamo per controllare.

BERNARDO IOVENE Ma perché Sis si è preoccupata degli agricoltori?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Perché Sis è di Coldiretti. È del mondo Coldiretti, quindi Sis è di emanazione agricola. È nella loro missione pagar bene no…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È questo è il tasto dolente, pare che nel primo anno della gestione Sis c’era poco seme in purezza, e la Sis lo distribuisse favorendo gli iscritti a Coldiretti discriminando gli agricoltori delle altre associazioni.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Cioè chiunque avesse voluto inserirsi in questa filiera avrebbe dovuto sottoporsi ad una serie di passaggi…

 BERNARDO IOVENE Qual era il passaggio a cui ci si dovevano sottoporre?

 SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS La prima cosa era essere iscritti alla Coldiretti.

BERNARDO IOVENE Cioè i vostri iscritti non hanno avuto il seme?

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS No, assolutamente, non hanno avuto il seme.

BERNARDO IOVENE E poi avete detto: se siete iscritti a Coldiretti è meglio.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Eh, ma…

BERNARDO IOVENE Se non siete iscritti a Coldiretti io il seme te lo do quando dico io…

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Perché ho accettato anche di fare questa intervista. Sento tanti che dicono: “Oh arriva Report, attento che…”. Io la considero un’opportunità di verità.

BERNARDO IOVENE Eh però mi vuole rispondere a quello che le sto dicendo.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI No, non possono venirmi a dire che io ho dato il seme a quelli della Coldiretti. Il 45% è associato a Confagricoltura, Cia, Copagri e altri enti di cui…

BERNARDO IOVENE Che le fanno la guerra praticamente…

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Certo.

BERNARDO IOVENE Però insomma tanti iscritti a Confagricoltura comunque hanno avuti i contratti.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS 11 Alcuni li hanno avuti, alcuni sono stati discriminati. Insomma, diciamo, ci sono prove per cui questa attività veniva affiancata in modo strumentale anche ad un’attività sindacale.

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST Non avrebbe dovuto esserci questo discrimine poi nella cessione del seme.

BERNARDO IOVENE Che voi avete accertato?

FILIPPO ARENA - SEGRETARIO GENERALE ANTITRUST E l’abbiamo visto. Abbiamo visto e abbiamo trovato anche tutta una serie di documenti interni.

BERNARDO IOVENE L’Antitrust vi ha fatto tre multe da 50mila euro. Accertato, quello che poi hanno denunciato.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Accertato, e poi noi abbiamo fatto ricorso su questi accertamenti. Perché abbiamo anche lì gente che ci ha denunciato e ha dichiarato delle cose false.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo tornati da Sis più volte e ci hanno mostrato documenti contabili che dimostrerebbero che le denunce sono basate su dati falsati. Sarà il Tar a decidere nel merito, a noi interessa la pasta e la certezza che sia cappelli, visto che parliamo di un grano italiano con proprietà benefiche che si stava recuperando. Il paradosso è che le querelle legali invece di aprirlo il mercato lo chiudano. Gli agricoltori adesso, senza la certezza di vendere il raccolto a un prezzo soddisfacente hanno paura a coltivarlo perché il cappelli rende molto meno del grano duro normale.

LUIGI MACCAFERRI - AGRICOLTORE CREVALCORE (BO) Non hanno fatto il contratto. Quindi io di avventurarmi a seminare un grano con le produzioni che fa il senatore cappelli, che abbiamo detto quelle che sono, 25-30 quintali, senza un prezzo, ma diventa un rischio eh.

BERNARDO IOVENE Voi adesso attualmente non ritirate più il raccolto. E quindi tutti gli agricoltori che hanno seminato senatore cappelli…

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Si trovano inguaiati. Io immaginavo che il mercato sarebbe crollato così. Perché logicamente tutti tenteranno di far abbassare i prezzi con la parte agricola.

BERNARDO IOVENE E adesso che praticamente loro non lo possono più fare questo no? Ecco, ci sono gli agricoltori che non sanno a chi venderlo questo senatore cappelli.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Allora, quando il mercato viene distorto, il mercato non è che non subisce dei danni.

BERNARDO IOVENE 12 Ho capito però prima l’agricoltore andava da Sis, si prendeva il seme e poi dopo magari glielo restituiva e aveva i suoi 60 e 80 euro. Se era biologico.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS Ma non è detto che fosse il prezzo ottimale, perché quello è il prezzo imposto da Sis.

BERNARDO IOVENE Non è una diatriba tra voi sindacati.

SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS No, no.

BERNARDO IOVENE Oppure invidia che loro erano riusciti a costruire una filiera perfetta. SAVERIO DE BONIS - PRESIDENTE GRANOSALUS La questione vera è come si fanno i prezzi dei prodotti agricoli in Italia. Ci deve essere libertà di accesso al mercato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E ci vogliono i pastai che paghino all’agricoltore il prezzo giusto. Felicetti, Girolomoni ed Alce Nero, anche senza il contratto con SIS cercano di salvaguardare l’intera filiera e la purezza del seme.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Quindi a questo punto siamo noi che decidiamo di pagare 80 euro all’agricoltore.

BERNARDO IOVENE All’agricoltore.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Ma non solo: siamo noi che decidiamo, che diciamo ai nostri agricoltori: tu non riseminare, io ti pago 80 euro. Però tu prendi quella semente lì, perché io voglio essere sicuro che quel grano sia cappelli al 100%.

BERNARDO IOVENE Quindi questo principio stabilito da Sis voi lo state mantenendo?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Noi lo stiamo mantenendo. È una scelta aziendale in questo caso, è una scelta nostra.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Va bene anche per coloro che riescono ad avere il controllo dalla semina alla pastificazione.

BERNARDO IOVENE Però voi il seme lo potete comprare solo da Sis.

CARLO LATINI Loro ce lo danno certificato, e quindi a me interessa. Interessa che sia una cosa reale, una cosa certificata, una cosa autentica. Io per garanzia lo prendo da loro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 13 Intanto i risultati eccezionali della ricerca del policlinico Gemelli sui benefici della pasta non sono stati divulgati, nemmeno ai pastai che pure hanno finanziato la ricerca con un sovrapprezzo di 8 euro al quintale.

BERNARDO IOVENE Senta noi siamo stati al Gemelli, questa ricerca l’avete finanziata anche voi?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Si, anche insomma lo sapevamo che stavamo facendo delle ricerche però si, con quegli 8 euro.

BERNARDO IOVENE Avete avuto i risultati voi?

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Devo dire la verità non l’ho vista perché dovevamo… mi avevano detto che avrebbero fatto una conferenza stampa per… e poi c’è stato il lockdown e…

BERNARDO IOVENE Lei non sa neanche come sono andate le cose.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Non ho… Voi siete stati al Gemelli?

BERNARDO IOVENE Si. Lei non ha parlato con nessuno. Ha finanziato questa cosa ma ancora non sa.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO No, aspettiamo, noi aspettiamo.

BERNARDO IOVENE La notizia gliela do io insomma.

MASSIMO MONTI - AMMINISTRATORE DELEGATO ALCE NERO Mi fa piacere, fa piacere, perché comunque, anche senza questi risultati questo è un bel progetto cioè è una pausa che va bene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sis è un colosso delle sementi il seme cappelli avuto in concessione 4 anni fa rappresenta lo 0,000 della loro produzione, Mauro Tonello è stato un dirigente storico di Coldiretti, in Sis ha sognato di fare un seme che portasse bene agli agricoltori, ai pastai e ai consumatori, ma sicuramente qualcosa gli è andato storto.

MAURO TONELLO - PRESIDENTE SIS SOCIETA’ ITALIANA SEMENTI Abbiamo distrutto un bene, abbiamo distrutto per gli agricoltori e soprattutto per i consumatori una roba che non c’era e forse non ci sarà mai più. Vuole una mia verità che è solo mia? Secondo me c’è dietro purtroppo un’invidia talmente accecante da far dei danni ai loro stessi associati. Non vedo tante altre cose.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’invidia acceca, ma anche avidità. Cosa è successo. Ecco la Sis per quattro anni ha controllato in esclusiva tutta la filiera del seme in purezza del Senatore Cappelli provocando la rabbia, l’irritazione anche di alcuni agricoltori che avrebbero voluto 14 riseminare in libertà il seme ma questo alla lunga avrebbe compromesso le qualità e la purezza di questo seme. E poi ha anche suscitato le proteste di quegli agricoltori che erano legati ad altre associazioni di categoria e accusavano la Sis di essere troppo vicina alla Coldiretti, di fare politica attraverso la vendita di quel seme. Insomma, alla fine ne è scaturita una guerra senza esclusione di colpi dove si sono infilati dentro dossier e anche forse qualche testimonianza falsa. E’ intervenuto l’Antitrust, ha multato la Sis per 150mila euro, il risultato è che adesso la Sis ha incrociato le braccia. Ecco non garantisce più il pagamento della raccolta del grano. Per fortuna ci stanno pensando tre pastai che vogliono tutelare, oltre i loro affari ovviamente, ma anche la qualità e l’originalità di un prodotto. Ma basterà a conservare e a preservare il, la continuità di questo seme? Ecco perché non interviene lo Stato? Invece di dare contributi a fondo perduto che poi non si sa neppure che cosa, che fine facciano, non interviene a garantire e a controllare tutta la filiera di un seme, di un grano che ha proprietà benefiche? Perché non amplia per esempio gli studi fatti dal Gemelli? Forse alla lunga sarebbe anche un modo per risparmiare sulle spese per le cure di quelle intolleranze oltre che ad offrire un servizio al cittadino. Insomma, è tutta una questione di visione invece a volte la visione della politica si fissa magari su un banale capannone.

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Gli animali misteriosi.

DAGONEWS il 10 ottobre 2020. Una strana creatura marina è stata rinvenuta sulla spiaggia di Laguna Madre, in Texas: l’animale, trovato da un membro del “Texas Parks and Wildlife Department”, si contorceva e il video del suo inquietante movimento è stato pubblicato sui social dove il dipartimento ha sfidato i suoi follower nell’identificazione della creatura. Alcuni lo hanno paragonato al mostro del film del 1958 “The Blob”, con Steve McQueen e Aneta Corsaut, mentre altri hanno detto che ricordava un essere della serie TV “Stranger Things”. In realtà, è una lepre di mare, un tipo di lumaca marina, nemmeno così insolito nell’area. Julia Hagen, portavoce del dipartimento, ha detto che la lepre di mare è stata trovata e studiata da un team di biologi prima di essere rimessa in acqua: «L'ipotesi più comune sui social media è stata The Blob. Per quanto possano sembrare strane, queste lepri di mare non sono particolarmente rare e non sono assolutamente pericolose».

Luigi Bignami per "it.businessinsider.com" il 24 settembre 2020. Si pensa di conoscere molto dei nostri oceani e dei nostri mari, ma la realtà è ben diversa. Uno squalo che risale al tempo dei dinosauri, con una dentatura davvero impressionante, è stato scoperto al largo delle coste del Portogallo. E’ senza dubbio uno degli animali marini più mostruosi in cui si si sia è imbattuti fino a oggi ed è quasi incredibile che sia riuscito a sopravvivere agli eventi che hanno portato alla scomparsa di tutti i suoi parenti. La cattura dell’animale è avvenuta da parte di un gruppo di ricercatori dell’Unione Europea che stava studiando le conseguenze della pesca a strascico in Oceano Atlantico, al fine di ridurre al minimo le conseguenze della pesca commerciale. Tirando le reti a bordo della loro imbarcazione si sono ritrovati una delle creature più rare e più antiche del pianeta, con una testa da far ricordare le storie leggendarie dei serpenti marini sorte nei secoli scorsi. Dopo un’attenta analisi si è scoperto che si tratta di un rarissimo squalo dal collare (Chlamydoselachus anguineus). Può crescere fino a circa due metri di lunghezza ed è ricoperto da soffici scaglie poste nella parte superiore del corpo. Ma cosa più sorprendente è la testa, la quale possiede 300 denti molto aguzzi ordinatamente disposti in 25 precisi allineamenti. Denti in grado di affrontare altri squali, polpi e calamari. A oggi di questo pesce si conosce davvero poco, perché pochi sono stati gli esemplari catturati durante le battute di pesca. Si sa che vive sulle piattaforme continentali dell’Oceano Pacifico e Atlantico fino a 1.300 metri di profondità. I pochi esemplari trovati finora, ricordano un’anguilla con le pinne dorsali, pelviche e anali molto arretrate. Ha un’anatomia molto semplice, forse per la mancanza di nutrienti nell’ambiente dove vive. Presenta caratteristiche dunque, molto primitive che gli hanno valso il nome di “fossile vivente”. E’ comunque difficile dire da quando è presente sulla Terra. Per alcuni appartiene a una delle più antiche linee evolutive di squali che risale almeno a 95 milioni di anni fa, secondo altri addirittura a 150 milioni di anni oro sono. A oggi non si riesce a capire comunque, come fece a sopravvivere all’estinzione del Cretaceo. Il suo comportamento in fase di attacco ricorda più quello di un serpente che non quello di uno squalo, in quanto piega il corpo lanciandosi verso le prede. Una volta catturato un pesce i suoi denti aguzzi impediscono alla preda di scappare, mentre se la può ingoiare anche intero grazie alle sue mascelle estremamente flessibili. Nonostante la sua esistenza sia nota dal 1879 è stato osservato per la prima volta nel suo habitat naturale solo nell’agosto del 2004, grazie a un sommergibile senza uomini, sulla piattaforma di Blake al largo del sud-est degli Stati Uniti e poi nel 2007 da alcuni pescatori giapponesi. Assai raramente viene catturato durante le battute di pesca a strascico, ma molte volte viene ributtato in mare per evitare qualunque problema burocratico. La scoperta di questo pesce ricorda ancora quanto poco si conosca dei nostri oceani, tant’è che è di poche settimane orsono la scoperta di una specie marina spiaggiata dopo uno dei forti uragani che colpirono gli Stati Uniti che ha fatto parlare molto di sé per essere pochissimo conosciuta anche ai biologi marini.

Viola Rita per repubblica.it il 28 maggio 2020. Corpo lungo e muscoloso, artigli sottili e prolungati. E' l'identikit di un nuovo dinosauro, il più recente megaraptor mai identificato. A scoprirlo, in Argentina, è stato un gruppo di ricerca coordinato da Fernando Novas del Museo di Scienze Naturali Bernardino Rivadavia. Il team ha annunciato la scoperta in una nota sul sito del museo, ma la pubblicazione con le immagini del megaraptor non è ancora reperibile -  un gap comprensibile visto che il lavoro, svolto nel marzo 2020, è appena stato diffuso. I megaraptor sono un genere di dinosauri carnivori vissuti in Sudamerica nel Cretaceo superiore – tra circa 100 e 65 milioni di anni fa – e scoperti per la prima volta nel 1997 proprio dallo scienziato argentino Novas, autore dello studio. Nel marzo 2020, in Patagonia, nel sud dell'Argentina, i paleontologi guidati da Novas hanno appena individuato un altro megaraptor. La novità, in questo caso, sta nel fatto che i resti del dinosauro risalgono probabilmente a circa 70 milioni di anni fa e che sono i più recenti mai trovati finora: per questo si tratta dell'ultimo esemplare di megaraptor mai scoperto. Come gli altri megaraptor, anche questo è più agile, sottile e muscoloso del Tyrannosaurus Rex. Inoltre ha una coda estesa, che serve a conferire equilibrio, e gli arti anteriori molto sviluppati, con il primo artiglio (ci sono tre artigli o dita) di entrambe le 'mani' piuttosto lungo, circa 35 centimetri, cui poi si deve aggiungere la lunghezza della parte cornea, cioè dell'unghia. "Nei megaraptor questa è una caratteristica comune e la 'mano' è di solito lunga anche il doppio dell'avambraccio", ha sottolineato Cristiano Dal Sasso, ricercatore e paleontologo presso il Museo di Storia Naturale di Milano, non coinvolto nella ricerca, ma che ormai da decenni si occupa dello studio dei dinosauri. "Per questo l'arto anteriore serve a predare, al contrario, ad esempio di quella dei tirannosauri, che non è funzionale". Questo artiglio, a forma di falce, favoriva la cattura delle prede, fra cui, scrivono gli autori argentini, c'erano probabilmente ornitopodi, dinosauri del gruppo degli ornitopodi, piccoli e agili, che però non sfuggivano ai veloci e nerboruti megaraptor. Un elemento che invece distingue il nuovo esemplare dagli altri megaraptor già noti è la maggiore lunghezza del suo corpo, pari a circa 10 metri. "I megaraptor finora scoperti hanno mediamente dimensioni minori", spiega Dal Sasso, "e misurano intorno ai 6-7 metri di lunghezza". Ancora non c'è una pubblicazione e non abbiamo in mano le immagini dei resti studiati, ma questo studio, come racconta Dal Sasso, potrebbe aiutare a fare chiarezza sull'origine e sulla storia evolutiva dei megaraptor. "Attualmente le ipotesi principali sono tre", sottolinea l'esperto. "A mio avviso, la più probabile, sulla base dei dati ad oggi disponibili, è che i megaraptor appartengano agli allosauroidei e che siano il frutto dell'evoluzione degli allosauridi, un'ampia famiglia di dinosauri di cui il genere più noto è l'allosauro". Le ragioni per sostenere quest'idea, prosegue l'esperto, riguardano le ampie dimensioni degli arti anteriori e il fatto che alcuni gruppi di questa famiglia mostrano già una mano con il primo dito più sviluppato e protratto degli altri due. "Questa è una  prova – rimarca Dal Sasso – di una possibile tendenza evolutiva verso un artiglio sempre più lungo, che si manifesta pienamente nei megaraptor". Peraltro, un'altra somiglianza riguarda le dimensioni del corpo: anche gli allosauridi possono raggiungere 11-12 metri, una lunghezza che somiglia a quella del megaraptor appena scoperto, di 10 metri. Ma c'è anche chi ritiene che i megaraptor derivino dagli spinosauridi, prosegue l'esperto, di cui l'ultimo esemplare noto è scomparso circa 100 milioni di anni fa. "L'idea – chiarisce Dal Sasso, che si è occupato di questi dinosauri in uno studio appena pubblicato su Nature – è che gli spinosauridi abbiano invece continuato ad evolversi per circa altri 30 milioni di anni, una fetta temporale piuttosto lunga". Infine, l'ultima ipotesi prevede che i megaraptor derivino dai tirannosauridi, famiglia che include i tirannosauri. "Ma la testa dei tirannosauri è molto più grande e le zampe anteriori sono piuttosto corte se paragonate a quelle dei megaraptor e non funzionali alla caccia", specifica Dal Sasso. "Per cui si dovrebbe supporre che nei tirannosauridi una linea evolutiva separata abbia portato allo sviluppo di esemplari con avambracci e dita più lunghi e una testa più piccola. Ma questo è a mio avviso un percorso meno probabile rispetto all'idea che i megaraptor siano invece degli allosauroidi". L'auspicio, conclude il paleontologo, è che il nuovo studio argentino possa aggiungere qualche tassello in più nella conoscenza dei megaraptor e magari possa aiutare a capire da quali dinosauri provengono.

Ecco il più antico antenato di (quasi) tutti gli animali: anche di noi. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Bello non era. Anzi era proprio insignificante e così piccolo che a fatica si sarebbe notato in mezzo al fango dei fondali dei mari di 555 milioni di anni fa. Però Ikaria wariootia, questo è il nome che gli è stato dato, possiede una caratteristica unica, che lo porta a essere il più antico antenato conosciuto di (quasi) tutti gli animali oggi viventi: dagli insetti alle aragoste, dalle balene ai coccodrilli, dagli acari a noi esseri umani. Tutti, escluse spugne, meduse, coralli e pochi altri. Questa caratteristica è che Ikaria ha un «davanti e un dietro», ha un «sopra e un sotto», ha una «destra e una sinistra», due aperture nel corpo all’inizio e alla fine collegate da un canale (tubo digerente, intestino). Cioè possiede una simmetria bilaterale che lo ha portato a essere classificato tra i Bilateria, caratteristica che lo distingue dagli organismi pluricellulari più primitivi come spugne, meduse, placozoi, anemoni di mare e coralli. Ikaria è stato rinvenuto 15 anni fa nei depositi di Nilpena, in Australia meridionale, rocce che conservano la misteriosa fauna del periodo Ediacariano, fase geologica precedente a Cambriano in cui si sono evoluti la gran parte degli esseri viventi che oggi conosciamo e anche quelli estinti, come i dinosauri. Nei fondali marini di oltre 550 milioni di anni fa prosperavano esseri pluricellulari (eucarioti) dalle forme strane e a volte difficilmente decifrabili, che poi si sono estinti con l’esplosione cambriana. Ikaria all’inizio non era stato riconosciuto come un organismo: erano stati notati dei «percorsi» nel fango marino diventato roccia, ma non erano stati notati fossili a loro legati. Ora i ricercatori, utilizzando un potente laser scanner 3D della Nasa sono riusciti a ricostruire il «corpo» di chi aveva scavato il fango: un essere dal corpi cilindrico lungo tra 2 e 7 millimetri e largo 1-2,5 mm (grande come un chicco di riso) con simmetria bilaterale. Il nome Ikaria viene da ikaria, che nella lingua degli aborigeni Adnyamathanha che vivono nella zona del ritrovamento significa «posto di ritrovo», wariootia invece ricorda il vicino torrente Warioota. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista specializzata Pnas.

Da repubblica.it l'1 febbraio 2020. La strana creatura - metà pesce, metà polpo - è stata pescata al largo di Coney Island (Brooklyn, New York). La clip è stata pubblicata su TikTok da Nataliia Vorobok (@natalie1526n) e da allora ha ricevuto 1,4 milioni di "Mi piace". Molti si sono preoccupati per il benessere della creatura, alcuni hanno fatto riferimento ai misteri della serie Netflix "Stranger Things", altri ancora hanno invitato a lasciala andare. Gli esperti dell'ente benefico Ocean Conservation Trust hanno identificato la creatura marina come "una specie di elasmobranchi", un termine che si riferisce a pesci cartilaginei come squali, razze e torpedini.

Da lastampa.it il 29 marzo 2020. Un orso, un cane o uno scherzo della natura? In Vietnam c'è un cane ibrido che sembra un paffuto orsacchiotto con le zampe troppo corte anche solo per salire uno scalino. Le foto e i video di Gau Mèo Bac My –  che tradotto significa Orso gatto nordamericano –  stanno facendo il giro del mondo, facendo intenerire per la sua goffaggine e indignare per la sua natura di «metà cane e metà gatto». Anche se più che a un gatto somiglia a un cartone animato, sul web girano numerose "teorie del complotto" che additano questo animale come un incrocio fra un felino e un canide. Che si tratti di un cane ibrido non ci sono dubbi, ma questo cane non ha dna di gatto nel suo sangue. Si tratta infatti di un incrocio fra un corgi e un H'mong dog, antica razza nativa del Vietnam. Il risultato è un cagnolino di piccola taglia decisamente goffo e dall'espressione sempre buffa, complice un leggero strabismo. A fare il resto sono le zampe troppo corte rispetto al suo corpo, che non gli permettono di saltare o anche solo salire uno scalino alto. Il suo carattere è distintivo di entrambe le razze: un cane socievole, molto leale, giocherellone e protettivo. Qualunque sia la sua natura, Gau Mèo Bac My è uno scatenato fotomodello. Lo hanno capito da subito i suoi compagni di vita umani, che gli hanno creato una pagina Facebook e raccontano le sue giornate con divertenti video e foto, per raccontare a tutti quanto il loro cane sia dolce e divertente ma anche speciale: «Oltre a essere un ibrido, potrebbe avere una mutazione genetica».

Nico Riva per leggo.it il 18 febbraio 2020. La tempesta Ciara ha riversato sul Regno Unito venti fortissimi, piogge intense e disagi alla popolazione. Ma anche qualcosa di totalmente inaspettato. Su una spiaggia scozzese, vicino alla città di Aberdeen, è emerso dalla sabbia uno scheletro gigante di una creatura misteriosa. Un dinosauro? Forse. Ma c'è anche chi si è spinto fino a dire che si tratti di Nessie, il celeberrimo mostro di Loch Ness. Gli abitanti della zona son rimasti basiti dalla scoperta di quella che appare come una carcassa gigante, di chissà quale animale preistorico. I primi a darne notizia son stati i membri della pagina Facebook Fubar News. Nella fotografia si possono vedere distintamente il megascheletro e un bambino con lo sguardo trionfante, probabilmente perché è stato il primo a trovarlo. E gli amministratori di Fubar News scherzano anche, chiedendo ai propri lettori: "Oggi ci siamo imbattuti in questa strana creatura vicino ad Aberdeen. Avete idea di che cosa sia? P.S.....non il bambino". L'immagine ha fatto il pieno di like, commenti e condivisioni. E tanti dei follower della pagina hanno suggerito ironicamente che potrebbe trattarsi dei resti del leggendario Mostro di Loch Ness. Altri hanno preso più seriamente la domanda, tentando una via più scientifica: una balena? Un'orca? Un delfino gigante? Addirittura, c'è chi è risalito fino alla preistoria, affermando che in base alla forma delle vertebre, potrebbe trattarsi dello scheletro di un diplodoco o un triceratopo. Gli avvistamenti del misterioso Mostro di Loch Ness sono innumerevoli, e i primi risalgono al VI secolo dopo Cristo. Ma la sua esistenza non è mai stata provata scientificamente. O meglio, la scienza ultimamente ha reso sempre più credibile (grazie a dei test sul DNA) che il celebre "mostro" in realtà fosse un'anguilla gigante. Tra fantasia e ragione, la leggenda di Nessie si è radicata e il lago è diventata una delle attrazioni turistiche più famose della Scozia.

·        Gli animali geniali.

L’esercito delle anatre pechinesi plana sul Pakistan per cacciare le locuste. Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Donatella Percivale. Non tutti gli esperti però sembrano concordi sull’utilità di impiegare le anatre contro la piaga delle locuste. Il quotidiano britannico The Guardian, ha pubblicato le dichiarazioni di Zhang Long, professore della China Agriculture University e membro della delegazione inviata da Pechino in Pakistan, secondo cui le anatre non sarebbero adatte alle condizioni particolarmente aride di quelle zone. «La vita e la salute delle anatre dipendono dall’acqua — ha spiegato — e in quelle aree desertiche la temperatura è molto elevata». Per questo il loro spiegamento «rischia di non essere efficace e finora non è entrato nel programma ufficiale di assistenza del governo: si tratta di un metodo ancora esplorativo». Arrivate nel giugno del 2019 nel deserto del Pakistan orientale, le locuste si sono rapidamente diffuse nel Paese fino a diventare sciami devastanti in novembre. Era dal 1961 che Islamabad non affrontava una simile piaga dovuta ai voraci insetti. Lo scorso 29 gennaio, il governo provinciale di Khyber Pakhtunkhwa ha dichiarato l’emergenza in 9 distretti meridionali della provincia per controllare la diffusione delle locuste. Nel gennaio scorso, la Nazioni Unite, come riportato dal Corriere, hanno chiesto un aiuto a tutti i Paesi membri per combattere gli sciami di locuste del deserto che stanno attraversando l’Africa orientale. Scarseggiano anche i fondi. Il direttore per le emergenze della Fao, Dominique Burgeon, ha lanciato un appello alla comunità internazionale: «Per far fronte all’emergenza occorrono almeno 76 milioni di dollari, e ad oggi ne sono stati stanziati solo 21 milioni». Le attuali infestazioni «possono essere fatte risalire alla stagione dei cicloni di due anni fa che ha portato forti piogge nella penisola arabica e ha permesso la nascita di sciami senza precedenti». Il rischio è che un maggiore numero di piogge e cicloni aumenti la probabilità di ulteriori focolai di locuste. «Il clima degli ultimi decenni favorisce eventi climatici estremi — ha sottolineato Burgeon —, il nostro lavoro è far sì che i Paesi siano abituati ad affrontare questa nuova normalità». Nel frattempo, il destino delle 100 mila anatre in partenza per il Pakistan sembra stare molto a cuore ai cinesi, che in tempi di quarantena forzata da Coronavirus, animano giorno e notte i meandri della Rete. «Andate anatre! Vi aspettiamo sane e salve», «Attenzione! Anatre eroiche in forte pericolo!» si legge in migliaia di commenti diffusi sulla piattaforma social media di Weibo (un equivalente del nostro Facebook). Non solo: pubblicato da Ningbo Evening News, il report sull’esercito delle anatre con destinazione Pakistan ha generato 520 milioni di visualizzazioni scatenando l’ironia della Rete.

DAGONEWS il 28 febbraio 2020. Sono immagini adorabili quelle che arrivano dallo zoo di Pairi Daiza in Belgio dove Berani, un piccolo orango di tre anni, è stato trascinato via dalla mamma dopo che si era rifiutata di smettere di giocare. La mamma si è arrabbiata ed è stata costretta a trascinarlo via, ma la tensione si è sciolta poco dopo con un tenero bacio. Il fotografo Koen Hartkamp ha catturato il piccolo anche mentre beve e mentre si rannicchia sotto una coperta gialla: «Proprio come tutti i bambini piccoli, Berani deve ancora imparare ad ascoltare ciò che gli dice la mamma anche se sta già scalpitando per diventare più indipendente». La famiglia di oranghi, di cui fa parte anche il padre Ujian, è arrivata nello zoo nel 2017 dopo essere stata trasferita dalla Germania.

Maria Mento per newnotizie.it il 7 febbraio 2020. Era caduto in acqua e rischiava di subire l’attacco di diversi animali selvatici, tra cui i serpenti. Così un orango che ha visto tutta la scena si è offerto di aiutare l’uomo a uscire e tornare a terra. Il mito secondo cui gli animali non percepiscano le emozioni umane o i momenti di difficoltà è stato ormai ampiamente sfatato. Gli animali sono più vicini al nostro mondo di quanto non si creda e una storia che oggi ci racconta il Metro.co.uk lo dimostra senza lasciare spazio a dubbi. I protagonisti di questa bella vicenda, che ci parla di sentimenti di amicizia e solidarietà, sono un uomo di all’incirca 40/50 anni e un orango. E il finale di questa storia ci dice, ancora una volta, che l’uomo ha ancora molto da imparare. Una celebre frase pronunciata da Audrey Hepburn sostiene che “Se ti serve un a mano, la troverai alla fine del tuo braccio”. Non sempre si può fare affidamento sugli altri e molte volte bisogna tirarsi fuori dai guai utilizzando esclusivamente le proprie forze. Ma immaginate di trovarvi in Borneo, di essere in una situazione di pericolo, di sollevare lo sguardo e di trovare qualcuno che vi tende una zampa per uscirne: questo è quello che- con grande sorpresa- è successo  a un uomo che era caduto in acqua. L’uomo è stato soccorso da un orango che gli ha porto uno dei suoi arti per aiutarlo a uscire da un fiume e a scampare all’attacco di qualche animale che avrebbe potuto nascondersi sotto il pelo dell’acqua. Il pericolo poteva essere rappresentato dai serpenti. Orango aiuta un uomo a uscire da un fiume, l’uomo rifiuta la zampa dell’animale Anil Prabhakar (questo il nome dell’uomo finito in acqua) si trovava in un’area forestale protetta del Borneo insieme a degli amici. Stavano facendo trekking quando, a un certo punto, l’uomo è finito nel fiume. Con sua grande sorpresa è allora apparso un orango, che gli ha porto una delle sua e zampe per aiutarlo a uscire. Il momento è stato immortalato da un fotografo amatoriale che ha visto tutto e che ha spiegato che Anil Prabhakar ha rifiutato l’aiuto dell’animale selvatico.

La mano tesa dell’orango Anih verso il suo custode nella pozza dei serpenti. Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Michele Farina. Dobbiamo comunque esserle grati: Anih non lo sa, ma con quel gesto ha (quasi) cancellato dal «Libro della Giungla» i peccati antropomorfi dell’infingardo Re Luigi e da Instagram (almeno per un istante) lo strapotere della influencer Kylie Jenner. Mica poco, per una sconosciuta femmina di orangutan che in un’oscura foresta del Borneo lo scorso settembre ha teso la mano a un umano che stava lì sotto di lei, immerso nella melma. Avete presente quando ridendo e scherzando gli oranghi umanizzati da Kipling sottraggono Mowgli alla panza dell’ignaro Baloo perché il loro sovrano vuole carpirgli il segreto del fuoco? Certo quello nella melma non è più un cucciolo d’uomo: si chiama Syahrul, è una guardia forestale della BOSF (Borneo Orangutan Survival Foundation), una riserva naturale di 4.600 chilometri quadrati nell’East Kalimantan, Indonesia, dove 400 umani cercano di aiutare 650 oranghi a sopravvivere nel loro habitat naturale. Un’oasi protetta in un mondo stravolto: negli ultimi 40 anni il Borneo ha perso il 39% del suo originario manto verde. Disboscamento selvaggio, riscaldamento globale, bracconaggio, incendi. E così la «persona» (orang, in lingua Malay) della foresta (hutan) è sempre più a rischio di estinzione. Ne sono rimasti circa 57 mila esemplari, tra il Borneo e Sumatra. Lo scrive la Bbc Earth, che ha una pagina tutta dedicata a questi magnifici primati che «condividono» con noi il 97% del Dna. L’ultimo aggiornamento della «Bbc Oranghi» riguarda proprio un’intervista con Anil Prabhakar, il fotografo che all’inizio del 2020 ha messo su Instagram l’immagine della mano tesa di Anih. L’interpretazione era già tutta nel titolo dato in inglese: «Let me help you» (lascia che ti aiuti). E nella seguente morale: «Quando il genere umano perde la sua umanità, talvolta gli animali ci fanno ritrovare i nostri principi fondamentali». Ogni giorno su Instagram si caricano 95 milioni di nuove immagini. Prima di diventare «virale» sui social, una foto deve superare una nutrita concorrenza. Così ha fatto anche il gesto dell’orango («Posso aiutarti?»), arrivando alle 100 mila condivisioni. L’intervista al fotografo sul sito della Bbc ha raggiunto i 3 milioni di clic. Con una fila infinita di like e commenti dello stesso tenore. Maria Alexandra: «Gli animali hanno il cuore più puro del nostro». Chetam: «Ci stiamo scambiando i ruoli: noi ci comportiamo da animali, e loro da umani». Nermin: «E noi intanto li distruggiamo». Qualcuno ha scritto: «E poi non dite che non discendiamo da loro». Il Wwf Spagna ha fatto un tweet estasiato: «Un orangutan che aiuta un uomo a scappare da un nido di serpenti». Serpenti? Già. Ci mancavano loro, nella storia. La guardia Syahrul stava dando la caccia a un serpente avvistato lungo la riva del fiume, ha raccontato il fotografo. Rettili che sono una minaccia per gli oranghi. A quel punto la femmina (che il parco ha battezzato Anih) è uscita dal folto e si è messa a guardare incuriosita. «Si conoscono dalla metà degli anni Novanta — ha detto il direttore della riserva Jamartin Sihite —. Dalla foto non possiamo sapere il perché di quella mano tesa. Ma è molto probabile che Anih volesse del cibo». No, non si può rovinare così «la narrativa» dell’atto gratuito, il ribaltamento dei ruoli, la «riabilitazione» di Re Luigi, lo schiaffo all’antropocene... Non possiamo credere che l’animale (per una volta) salvatore in realtà pietisse un frutto dall’amico uomo. E pazienza se il rischio è l’antropomorfismo, antica tentazione di attribuire agli animali motivazioni umane. Lo facciamo ogni giorno con i nostri gatti, quando ci portano «in dono» l’ennesimo piccione sanguinolento. Perché non farlo con «la persona della foresta»? Anche il direttore del santuario Bosf dice che questi animali «ci aiutano — anche se non ce ne accorgiamo — a conservare la foresta che dà aria pulita, a mantenerla ordinata». Ha scritto «ordinata»? Ecco che subito, nella nostra mente allenata, all’immagine dell’orango soccorritore si sovrappone quella dell’operatore ecologico, per non parlare della patente di taglialegna che esce da un altro video della Bbc: si vede una femmina allo stato selvatico che trova una sega e comincia a tagliare un ramo impeccabilmente, manco fosse un falegname. Il nostro bisogno di antropoformismo è duro a svanire. Ma se ci fa ricordare che la natura intorno a noi si sta squagliando e la colpa è anche nostra, evviva la foto di Anih. Lo diceva anche Jane Goodall, che ha passato la vita con i cugini degli oranghi: «Se sperimentiamo l’effetto di farmaci sugli scimpanzé, non è logico supporre che ci siano somiglianze anche fra i nostri sentimenti?».

Simona Bertuzzi per “Libero quotidiano” il 5 gennaio 2020. Aveva ragione l' amica fondatrice della «Piccola fattoria degli animali» quando diceva che i maiali possono essere meglio di certi fidanzati perché sono «pulitissimi, rispondono ai comandi e si fanno grasse risate in più sono intelligenti» cosa che non sempre i fidanzati sono, e sarà forse per questo che lei scelse di non sposarsi e dedicare la sua vita a salvare questi grossi, grassi mammiferi. La verità è che le ultime classifiche sull' intelligenza nel mondo animale - maiali compresi - sono una ghiotta sfida per noi umani che ci vantiamo sempre di essere mille passi avanti ma ci crogioliamo nel nostro angolino comodo e frega nulla di quel che accade in natura. Di animali dotati di fine intelletto è pieno il mondo e tocca farsene una ragione, signori. Possono cambiare di posizione in classifica, salire o scendere in graduatoria a seconda di chi la stila (l'ultima in ordine di tempo è quella di Amoreaquattrozampe.it) ma il club degli intelligenti si compone sempre degli stessi soggetti.

Lo scimpanzè per esempio. Simile a noi per fattezze e comportamenti, questo si sa, è curioso di fatti e dettagli e capace di maneggiare utensili. Fosse tutta lì la faccenda. C' era uno scimpanzè di nome Cico che viveva nella tenuta alle falde del Monte Adone in Emilia. Dipingeva bellissimi quadri astratti con pennelli e acquerelli mentre il suo amico Oliver - un cucciolo della stessa specie - giocava con Lego e Barbie e prendeva il biberon girellando per casa come un bimbo di due anni. Certo in natura la vita è un tantino più bastarda e feroce e funziona così (lo dimostrò una ricerca di Adriana Lowe dell' Università del Kent): i maschi stringono alleanze, studiano strategie e quando serve fanno fuori i figli dei rivali per piazzare i propri, le femmine di contro "osservano dalle retrovie", e alla fine poverette scendono a compromessi: cercano l'amicizia dei potenti per ottenere protezione o favori oppure fanno figli e si tengono alla larga dai maschi in carriera.

Dei maiali si è detto, intelligenza, risate e capacità di interagire coi padroni. Aggiungo, non per conoscenza diretta ma perché lo raccontò la stessa amica della fattoria (a proposito, si chiama Federica Trivelli e la sua pagina Facebook è un tripudio di maiali bellissimi) sono capaci di pianti strazianti se muore un compagno e si abituano al focolare domestico come un centenario stanco. Quanto al farsi capire «certo che ci parlo», dice Federica, «ogni grugnito ha un senso, c' è un grugnito per l' allerta, uno per il cibo, uno per il saluto e uno per il rammarico».

I delfini. Ci sono anche loro. Tanto per cominciare usano un vocabolario di duecento suoni, che li rende già molto più avanti di tanti umani fermi a tre mugugni e due bestemmie. Ultrasuoni e schemi di movimento li aiutano a capire e a rendersi socievoli con gli altri essere viventi e sono capaci di riconoscersi davanti a uno specchio, se mai servisse. Nel loro caso basterebbe vedere l' effetto che fanno ai bimbi in visita all' acquario di Genova. Saltano e piroettano appena vedono un pargolo. Non sono in paradiso ma è come se lo fossero. E sono capaci di gesti eclatanti, le mamme soprattutto, quando un cucciolo è in pericolo.

Il pappagallo è un incontro interessante. E non solo perché chi scrive ne vede uno tutte le mattine appollaiato sulla spalla del padrone alla fermata del tram... aspettano entrambi il bus ed entrambi si stizziscono se non arriva. Ma perché ha doti riconosciute da tutti come sorprendenti. Memorizza le parole degli umani e le ripete (talvolta fino allo sfinimento), anche se non sempre riconosce il loro significato, e risolve qualche problema di logica, cosa rara di questi tempi grami. E attenzione perché c' è un pappagallo, il cenerino, che ha le stesse capacità di un bimbo di 4 anni e per questo intriga gli studiosi più di mille altri misteri. C' è chi dice che sappia esprimere una frase intera nel contesto di una conversazione, sarà per questo che piaceva da impazzire ai greci?

La balena. Ecco sulla balena, che inghiottì papà Geppetto e fece esplodere la fantasia di milioni di bimbi, i pareri sono controversi. Ma anche questo gigante del mare (può arrivare a 33 metri di lunghezza) ha incredibili capacità linguistiche e comunicative. C' è una specie - la megattera - che emette suoni simili a dolci melodie, qualcuno nel '70 tentò persino di farne un disco.

Il gatto e il cane li mettiamo a pari merito sebbene la classifica in questione ponga prima il cane del gatto. Oddio, difficile parlare di loro senza suscitare proteste di parte perché in fondo siamo tutti uguali, o di qua o di là dalla barricata e tutto si riduce all' eterna diatriba - banalmente umana - su chi sia il più brillante. Gli studi si sprecano. Chi dice che il cane sappia adottare la prospettiva umana (studio pubblicato su Animal Cognition). E chi sostiene che il gatto distingua il proprio nome e quindi eventuali comandi da parole affini (uno studio dell' università di Tokyo pubblicato su Scientific Reports). La verità forse è solo nel mezzo. Intelligentissimi tutti e due e capiscono tutti e due, solo che mentre i cani sono più sottomessi, paciosi e limpidi, i gatti restano lì ritti sulle zampe, lo sguardo profondo come il mare, con quel mistero meraviglioso e impenetrabile che si portano appresso che rende loro maledettamente altezzosi, introversi, seduttivi e noi schiavi dell' intrico della loro mente.

E veniamo al polpo signori. Il polpo è brutto, bizzarro, molle, testone e ha tentacoli che lo rendono un tantino inquietante, ma oltre a inchiostrarsi (termine prestato dalla Walt Disney per definire il momento in cui spruzza inchiostro contro il nemico) è maledettamente arguto. Se trova un guscio di cocco lo usa come rifugio e muove i tentacoli come apribottiglie. È solitario ed è capace di mangiare i suoi simili se non gli vanno a genio. La sua fama tra gli umani è dovuta, più che ai cacciatori di frodo, al povero polpo Paul che nel 2010 predisse tutte le partite del mondiale di calcio in Germania. Non ne sbagliava una, viveva in un acquario pubblico di Oberhausen e forse divenne famoso suo malgrado e senza godersi in premio neanche un giorno di libertà. Morì dopo la prova calcistica e il mondo lo pianse.

Lo scoiattolo è l' insospettabile intelligentone del club. Piccolissimo, velocissimo, quasi impercettibile. Ha la memoria di un elefante, e usa una serie impressionante di trucchi e magheggi per sopravvivere nel bosco come in mezzo agli uomini. Mangia di tutto, non temete. E come una brava formichina fa scorte di cibo per i momenti di magra, ritrova i bocconi che ha nascosto con cura settimane prima e confonde i ladri, tutti quanti, bizzarro e gaio come lo rese mago Merlino nella Spada nella roccia.

L' elefante, eccolo, come dice il detto "memoria di elefante", ricorda tutto compresi gli sgarbi (ma non è provato) e la posizione degli altri animali del branco. Quello che non si dice però è che è capace di bisbigli affettuosi e gesti di tenerezza verso chi è in difficoltà. Lo rivelò anni fa uno studio dell' università di Atlanta pubblicato sulla rivista Peerj che dimostrava come gli elefanti delle riserve della Thailandia fossero capaci di consolare i tristi (elefanti ovviamente), i depressi e i cuccioli che cadevano e si facevano male. In un video che ha fatto il giro della rete un elefantino cercava di risalire la riva di un fiume e fuggire la corrente, si mosse il branco in suo aiuto e il piccolo ebbe salva la via.

E ritorniamo all' elenco delle menti fini. Dove si infilano il gufo, il topo, il falco e il macaco Rhesus. Il gufo intelligente e notturno al punto da stimolare la fantasia di maghi e stregoni. Il topino si sa, è la vittima prediletta delle sperimentazioni sugli animali poiché ha la sfortuna di avere cellule del cervello simili a quelle dell' uomo (anche se uno studio recente lo ha messo in dubbio). Una scrittrice, Elisabetta Dami, ne ha fatto l' eroe letterario dei bimbi (Geronimo Stilton) ma non tutti lo amano anche se quest' anno si dice che vada a ruba in Russia perché il 2020 è l' anno del topo nel calendario cinese. Quanto al falco, c' è il proverbio, giusto? "hai la vista del falco" e loro, i falchi, vedono incredibilmente bene.

Infine il Macaco Rhesus è un incredibile organizzatore, che in India predilige i templi religiosi e si gode talvolta la venerazione dei fedeli.

Sul cavallo, scusate, varrebbe la pena un trattato. Qui il direttore Vittorio Feltri potrebbe dire molto di più. E avrebbe ragione da vendere perché di cavalli dovrebbe parlare chi li conosce. Tutti gli altri possono ammirare e tacere. Il loro fisico, il loro sguardo fiero, le loro cavalcate strepitose e quei muscoli che vibrano all' unisono con la perfezione. Avvicinarsi con cautela, toccarli lievemente sussurrare e amare, solo questo so dire dei cavalli.

Ci sono due specie che la classifica in questione non cita. I magnifici corvi neri capaci di pensiero astratto (studio di Cambridge) e le orche che il film ha descritto come assassine ma capiscono e dialogano con chi le ama. L' orca Wilkie di Antibes dice «hello!» alla sua addestratrice e non è semplice suggestione... La meraviglia della natura o forse solo intelligenza animale. Ma state tranquilli non c' è nulla di artificiale.

  Da corriere.it il 15 gennaio 2020. «Oggi ho trovato supporto in uno dei posti forse più improbabili». Inizia così il post di Gemma Copeland su Facebook. La neomamma inglese stava visitando lo zoo di Schönbrunn, a Vienna, quando si è appartata in un angolo per allattare il figlio Jasper di 15 mesi. La donna si è messa vicino al recinto di «Sol», una femmina di orango. L’animale si è subito alzato e si è diretto verso Gemma, si è seduto e ha iniziato a guardarla intensamente, poi si è avvicinato al vetro di protezione come per baciarla. Una scena emozionante. Il video ha raccolto milioni di visualizzazioni. Solo in seguito, Emma ha scoperto che l’orango aveva lei stessa dato alla luce da poco un cucciolo, purtroppo nato senza vita. «Saremo anche di due specie diverse, ma l'allattamento al seno ci ha unite oggi in un momento unico che rimarrà con me per sempre».

·        Gli eroi animali.

Fra gli eroi del passato un piccione (femmina). Portò un messaggio per 265miglia, nonostante le ferite e salvò 194 soldati. Meritò la Croix de guerre. Viviana Persiani, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. Va bene gli uomini, immortalati da gesta eroiche e non solo, ma non scordiamoci di tanti animali che hanno avuto un ruolo importante nella storia del mondo. Chi ha mai sentito parlare di Cher Ami? Questo leggendario piccione ha compiuto una impresa così eroica che il suo corpo è stato imbalsamato ed è visibile, allo Smithsonian Institution. Il volatile era stato regalato da un gruppo di amatori alla divisione Signal Corps dell'Esercito degli Stati Uniti d'America che, durante la Prima Guerra Mondiale, operava in Francia. Il 3 ottobre del 1918, per il maggiore Charles Whittlesey e i suoi 500 uomini sembravano finite le possibilità di salvezza. Situazione disperata: senza cibo e munizioni, i membri appartenenti al «Battaglione Perduto» della 77ª divisione parevano inesorabilmente perduti. Non solo i tedeschi, ma anche il fuoco amico degli alleati, ignorando la loro posizione, aveva ridotto il gruppo a 194 superstiti. Rimanevano solo tre piccioni, nella speranza di mandare messaggi al centro operativo. I primi due vennero abbattuti dai tedeschi. Toccava a Cher Ami volare con l'astuccio legato alla zampa e il disperato messaggio: «Ci troviamo lungo la strada parallela alle coordinate 276,4. La nostra artiglieria sta effettuando uno sbarramento proprio sopra di noi. Per l'amore di Dio, fermatevi». Il piccione viaggiatore venne preso di mira dai fucili tedeschi. In un primo momento, riuscì ad evitare le pallottole, ma poi fu colpito al petto, all'occhio, alla zampa. Eppure nonostante le ferite, Cher Ami riuscì a volare, per 265 miglia, mettendoci solo 65 minuti per consegnare il messaggio. Grazie alla sua impresa, i 194 uomini si salvarono, così come anche il piccione viaggiatore, curato immediatamente, pur perdendo la zampetta, sostituita da una protesi di legno. Al suo arrivo in America, Cher Ami (che era un esemplare femmina, ma lo si scoprì solo durante l'imbalsamazione), considerata eroe di guerra, venne insignita della Croix de guerre e della medaglia Oak Leaf Cluster. Morì nel 1919. Un altro animale che, per motivi diversi, è riuscito a guadagnarsi un posto nell'olimpo degli immortali è il cavallo Marengo (il cui nome deriva dalla famosa omonima battaglia), appartenuto a Napoleone Bonaparte. Lo stallone arabo dell'imperatore, che non era completamente bianco come afferma la leggenda, era arrivato, dall'Egitto, in Francia, nel 1799, quando aveva 6 anni. Pur essendo di piccola taglia, dimostrò di essere un cavallo coraggioso e veloce, tanto che accompagnò il famoso condottiero durante le battaglie di Austerlitz, Jena, Wagram e Waterloo, finendo per essere ferito almeno otto volte. A seguito della sconfitta Napoleone lo abbandonò al suo destino. Che non fu infausto. Catturato da William Petre, venne portato in Inghilterra e venduto al tenente colonnello Angerstein delle Guardie dei granatieri. Morì a 38 anni e il suo scheletro (senza uno zoccolo, utilizzato dagli ufficiali come tabacchiera) è oggi esposto al National Army Museum di Chelsea, Londra. A proposito di cavalli, come dimenticare Bucefalo e il suo sodalizio con Alessandro Magno. Talmente affini, che il cavallo, recalcitrante alla monta, si lascio cavalcare solo dal re macedone. Alessandro ci riuscì con uno stratagemma; aveva capito, infatti che l'animale si spaventava nel vedere i movimenti della sua ombra. Decise così di rivolgergli il muso verso il sole, riuscendo a domarlo. Per vent'anni, il cavallo partecipò a tutte le conquiste del suo illustre proprietario fino a quando, durante la battaglia dell'Idaspe, Bucefalo fu ferito a morte. Ciò non gli impedì di servire fedelmente il suo Alessandro, conducendolo alla vittoria. Stremato, il cavallo morì alla sera, venendo sepolto con tutti gli onori militari che si devono agli eroi. Tanto che, sul luogo della sua sepoltura, venne fondata la città di Alessandria Bucefala (odierna Jhelum, città del Punjab, provincia del Pakistan). 

·        Le dimensioni contano in amore.

Da dailymail.co.uk il 21 agosto 2020. Si tratta di un vecchio dibattito: le dimensioni contano davvero? Sì, se sei un coleottero maschio che quasi sempre possiede un pene che è più lungo del corpo. Il vero mistero diventa allora come utilizzarlo. Gli esperti hanno scoperto che gli scarafaggi concentrano l’erezione tutta in una parte del membro fino all’eiaculazione quando lo allungano al massimo nella fessura della femmina. Ma maschi e femmine si sono co-evoluti determinando anatomie compatibili per assicurare riproduzione. Se i maschi possono avere un pene impressionante, la fessura della femmina è altrettanto lunga. "Solo i membri più lunghi saranno dunque in grado di fecondare le uova", spiega il dottor Yoko Matsumura, ricercatore presso l'Università di Kiel. “Un altro vantaggio di avere il pene lungo è che in tal modo alcuni insetti riescono a "raschiare" via gli spermatozoi di altri maschi che si sono depositati nella femmina, ‘facendo da concorrenti”.

·        Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali.

Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali. Uno studio ha analizzato la durata media della vita di un centinaio di mammiferi. Scoprendo che, come per la nostra specie, in media le femmine vivono più a lungo dei maschi. Anna Lisa Bonfranceschi La Repubblica il 27 marzo 2020. Le femmine vivono di più, ma sostanzialmente invecchiano alla stessa velocità dei maschi. Il vantaggio in termini di vita vissuta che si osserva nei mammiferi sarebbe piuttosto dovuto a un minor tasso di mortalità in tutte le età. Così racconta uno studio pubblicato su Pnas, che ha cercato di capire se anche tra altri mammiferi in natura, così come si osserva per la nostra specie, le femmine vivessero più a lungo dei maschi. Infatti, ricordano in apertura del loro studio i ricercatori guidati da Jean-François Lemaître del Cnrs - Université Lyon 1, è ben noto come nella popolazione umana le donne vivano più a lungo degli uomini. È donna anche la stragrande maggioranza dei supercentenari. Ma cosa succede per gli altri mammiferi? Sebbene fosse infatti diffusa l'idea che lo stesso si osservasse in altri mammiferi, studi che indagassero a fondo la questione non sono mai stati fatti, spiegano gli scienziati. Che hanno così deciso di colmare questo gap analizzando la durata della vita di maschi e femmine di 134 popolazioni di 101 differenti specie di mammiferi, come canguri, elefanti, orche, leoni, gorilla, pipistrelli, alce e stambecchi per esempio. È così emerso come effettivamente, anche in natura in generale le femmine di mammifero vivono più a lungo dei maschi: hanno in media una vita più lunga del 18,6%, contro quasi l'8% che si osserva tra donne e uomini. Le femmine battevano su questo campo i maschi in circa il 60% delle popolazioni analizzate. Ma perché? Secondo i ricercatori quanto osservato non sarebbe un effetto imputabile a un invecchiamento che viaggia a due diverse velocità nei due sessi – che avrebbe dovuto, secondo questa ipotesi, essere dunque più lento nelle donne. Il guadagno femminile in termini di vita vissuta sarebbe piuttosto dovuto a un minor tasso di mortalità in tutte le età, scrivono i ricercatori. Senza concentrarsi particolarmente su aspetti strettamente genetici, alla base di quanto osservato ci sarebbero: “interazioni complesse tra condizioni locali ambientali e costi riproduttivi sesso-specifici”, come scrivono i ricercatori. Nei leoni per esempio, spiega Tamás Székely della University of Bath, tra gli autori del paper, il vantaggio in durata della vita delle leonesse (che in natura vivono circa il 50% in più dei maschi, spiega) non sarebbe dovuto ai maggior rischi corsi dai maschi, che per esempio combattono con altri maschi per la conquista delle femmine, e dunque a una sorta di selezione sessuale. "Le leonesse vivono in branco, dove sorelle, madri e figlie cacciano insieme e si prendono cura una dell'altra, mentre i maschi spesso vivono soli con i propri fratelli e non godono della stessa rete di supporto – ha spiegato Székely – un'altra possibile spiegazione per le differenze osservate è che la sopravvivenza delle femmine aumenta quando i maschi forniscono parte o tutte le cure parentali. Funziona così anche negli uccelli. Mettere al mondo la prole e prendersi cura dei piccoli diventa un costo in termini di salute notevole per le femmine, che si riduce se entrambi i genitori contribuiscono alla loro crescita".

·        Il Maschio Madre.

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 26 ottobre 2020. Allo zoo Dierenpark di Amersfort, Olanda, continua la lotta di due pinguini gay. Questa volta, sempre nel tentativo di diventare papà, i pinguini maschi gay hanno rubato l’intero nido alle pinguine lesbiche. Sono gli stessi pinguini Africani che l’anno scorso avevano sottratto un uovo a un’altra coppia ma non si era schiuso e non avevano un piccolo pinguino da accudire. Sander Drost, guardiano dello zoo, sostiene sia improbabile che le nuove uova si schiudano. Sono di due pinguine e non sono state fecondate. I pinguini gay, coppia dominante nel recinto costruito 17 anni fa,  attualmente fanno a turno per covare le uova ma è difficile che si schiudano. A RTV Utrecht, Drost ha detto:”Nel recinto ogni coppia ha la sua tana ma loro ne hanno due”. I pinguini si riproducono due volte l’anno e presto la coppia di pinguine lesbiche costruirà un nuovo nido. Mark Belt, un custode dello zoo, ha spiegato che l’omosessualità e abbastanza comune dei pinguini ma “ciò che rende questa coppia straordinaria è che ha rubato un uovo”. Non è la prima volta che i pinguini gay cercano di covarne uno. L’anno scorso a Valencia una coppia è riuscita a farne schiudere uno con successo. Le due pinguine lesbiche, Electra e Viola, all’Acquario Oceanografico di Valencia, in Spagna, hanno covato l’uovo di un’altra coppia.

Quando è il maschio a partorire:  il «miracolo» dei cavallucci marini. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Sara Moraca. Nel periodo compreso tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate li si può osservare con un pancione turgido, spesso aggrappati con la coda a una cima o a una pietra sul fondo del mare. In questo caso, però, è il padre a occuparsi della gestazione e del parto: la famiglia dei Syngnathidae, a cui i cavallucci marini appartengono, costituiscono l’unica eccezione del genere nel mondo animale. La femmina depone le uova in una speciale sacca incubatrice nel ventre del maschio, situata vicino all’apertura anale. Alla schiusa, il maschio espelle gli avannotti con delle contrazioni addominali simili al parto femminile, evento piuttosto insolito in natura, chiamato gravidanza maschile. «Assistere a uno di questi eventi è qualcosa di eccezionale. Nel giro di pochi secondi vengono alla luce decine di piccoli cavallucci. Si tratta di un evento diverso rispetto a qualunque altra cosa vista sui fondali», racconta Roberta Eliodoro, archeologa e subacquea, proprietaria di un diving a Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), che da quindici anni monitora una colonia di cavallucci marini sita sui fondali sabbiosi del luogo. In Italia esistono due specie fondamentali di cavallucci: il cavalluccio marino dal muso corto (Hippocampus hippocampus), che vive prevalentemente tra le foglie di posidonia oceanica, e il cavalluccio marino dal muso lungo o cavalluccio camuso (Hippocampus guttulatus), che vive tra alghe, mangrovie e coralli; entrambe le specie vivono a una profondità non superiore ai 60 metri. «Rispetto al passato se ne vedono meno, ma gli avvistamenti qui a Marina di Gioiosa sembrano essere maggiori rispetto al resto d’Italia, dove questi incontri sono diventati piuttosto rari. Chi si immerge fino a 5-6 metri ha buone possibilità di avvistarne qualcuno, non serve andare fino a profondità elevate. Fino a qualche anno fa, in occasioni di mareggiate, venivano trovati spiaggiati perché difficilmente riescono a contrastare il moto ondoso», spiega Eliodoro. Il fondale di Marina di Gioiosa sprofonda poco lontano dalla riva fino a toccare i 400 metri di profondità: questo favorisce la presenza dei microcrostacei di cui i cavallucci marini sono golosi, il cosiddetto krill, e rende l’ambiente marino particolarmente ricco di nutrienti. Nonostante siano diminuiti gli avvistamenti, non ci sono trend circa la crescita/ diminuzione della popolazione delle due specie di cavallucci marini presenti nelle acque del nostro paese: la IUCN, Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, chiarisce infatti che i dati a disposizione della comunità scientifica a livello globale non sono sufficienti per chiarire lo stato di conservazione della specie e dichiararne l’eventuale vulnerabilità. I dati sono carenti anche per altre specie non presenti in Italia, mentre in Mediterraneo è stato possibile dichiarare la relativa vulnerabilità. «Si tratta di animali difficili da studiare, ma sappiamo che negli ultimi decenni le due specie residenti in Italia hanno avuto un forte declino. L’inquinamento, la pesca a strascico e il cambiamento climatico costituiscono stress per queste specie, che però a volte riescono a trovare comunque condizioni favorevoli alla sopravvivenza, come dimostra un recente studio sul Golfo di Taranto, un’area fortemente antropizzata dove le popolazioni di cavallucci sono però ancora presenti», spiega Elena Papale, etologa all’Istituto per lo studio sugli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino del CNR. A livello globale, dati della ONG Oceana chiariscono che sono circa 37 milioni i cavallucci marini che vengono pescati per l’essicazione, la produzione di rimedi tradizionali o per l’immissione in acquario. Ecco perché vederne ancora nei nostri mari ci deve far sentire molto fortunati.

·        Animali a fuoco.

Da tgcom24.mediaset.it il 2 gennaio 2020. Nello zoo di Krefeld, in Germania, un violento incendio è scoppiato poco dopo la mezzanotte provocando la morte di almeno 30 animali. Tra le fiamme sono deceduti soprattutto gorilla, oranghi e scimmie, ma anche pipistrelli e uccelli. Secondo la polizia, a causare il rogo sono state alcune lanterne volanti (fatte di carta e con piccole fiamme all'interno) lanciate in cielo in occasione del Capodanno e finite nelle zone dove erano rinchiusi gli animali. Lo zoo di Krefeld, città a pochi chilometri a nord di Duesseldorf e vicina al confine olandese, è stato aperto nel 1975, e ogni anno è visitato da 400mila persone. Tra gli animali morti ci sono cinque oranghi, due gorilla, uno scimpanzé e varie scimmie, pipistrelli e volatili. Il racconto dei testimoni - Il capo della polizia, Gerd Hoppmann, ha riferito che vari testimoni hanno visto le cosiddette lanterne volanti volare a bassa quota sopra l'area dove erano rinchiusi gli animali, poco dopo mezzanotte, e poi di aver visto scatenarsi l'incendio. Gli investigatori hanno ritrovato resti di lanterne nello zoo, alcune con messaggi scritti a mano all'interno. "Una tragedia abissale" - Sono solo due gli scimpanzé salvati dalle fiamme dai vigili del fuoco. Sono ustionati ma in condizioni stabili, come ha fatto sapere il direttore della struttura Wolfgang Dressen. "E' quasi un miracolo che Bally, femmina di 40 anni, e Limbo, maschio più giovane, siano sopravvissuti a questo inferno", ha detto aggiungendo poi che molti dipendenti dello zoo sono scioccati. "Dovremo lavorare seriamente in questo momento di lutto, è una tragedia abissale", ha aggiunto. Il direttore ha anche sottolineato che molti degli animali morti appartengono a specie vicine all'estinzione in stato di libertà. L'appello della polizia - L'uso delle lanterne volanti è illegale a Krefeld e in molte altre parti della Germania, dove ai privati è consentito invece comprare e sparare fuochi d'artificio. La polizia ha chiesto che le persone che le hanno lanciate, o chi è stato testimone del loro lancio, si presenti alle autorità per fornire informazioni.

L’eutanasia non ha effetto, gorilla di Krefeld ucciso a colpi di mitra. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it. Era uno dei due soli esemplari sopravvissuti all’incendio della serra delle scimmie allo zoo di Krefeld, in Germania, scatenato da una lanterna volante liberata in cielo la notte di Capodanno. Le ferite riportate erano però troppo profonde e non curabili e per questo, per lenire le sue sofferenze, i veterinari avevano deciso di sottoporlo ad eutanasia. Qualcosa però non ha funzionato, i farmaci non lo hanno addormentato, e alla fine le autorità hanno autorizzato un poliziotto ad abbatterlo a colpi di mitraglietta. Lo rivela l’Associated Press citando l’agenzia tedesca Dpa, che ha diffuso oggi la notizia. La triste sorte è capitata ad un gorilla che, assieme ad una femmina di orangutan, era stato l’unico sopravvissuto al terribile rogo. Non è stata però una fortuna: le loro condizioni erano apparse fin da subito disperate al punto che i veterinari non hanno avuto dubbi sul da farsi. Ma sul gorilla l’eutanasia non ha avuto effetto e quindi è stato necessario procedere con un metodo più cruento ma altrettanto efficace per mettere fine al forte dolore provocato dalle ustioni. La vicenda aveva suscitato particolare clamore ed emozione in Germania, al punto che all’indomani dell’incendio decine di persone si erano recate allo zoo in una sorta di pellegrinaggio, portando fiori e lumini davanti all’ingresso (il parco era rimasto chiuso) in omaggio agli animali morti. Nell’incendio aveva perso la vita anche Massa, 48 anni, il più anziano gorilla di pianura occidentale vivente in parchi europei, che era inserito in un programma di ripopolazione della sua specie, considerata a rischio estinzione.

·        Sofferenza, morte ed estinzione degli animali.

Il "catastrofico declino" della fauna selvatica: in 50 anni persi due terzi della popolazione globale. La Repubblica il 10 settembre 2020. L'allarme lo lancia il Wwf. "Dai pesci degli oceani e dei fiumi alle api, fondamentali per la nostra produzione agricola, il declino della fauna selvatica influisce direttamente sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza di miliardi di persone". Il rischio estinzione diventa sempre più realtà. Diete più sane e rispettose dell'ambiente e ridurre gli sprechi. Così, forse, si può evitare l'estinzione degli animali. Il Wwf lancia l'allarme con un rapporto che contiene numeri da brividi: in 50 anni abbiamo perso il 68% della popolazione globale selvatica. Un danno causato dalle nostre azioni, a cui solo l'essere umano può porre rimedio. Se non si vuole fare per amore degli animali, almeno per la propria salute e sopravvivenza, legata a quella dell'ambiente selvatico. Il Living Planet Report 2020, il rapporto annuale del Wwf che monitora la riduzione delle popolazione globale di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci, quest'anno ha registrato un calo medio di due terzi degli animali selvatici. "Il rapporto sottolinea come la crescente distruzione della natura da parte dell'umanità stia avendo impatti catastrofici non solo sulle popolazioni di fauna selvatica, ma anche sulla salute umana e su tutti gli aspetti della nostra vita", ha affermato Marco Lambertini, direttore generale del Wwf Internazionale: "Non possiamo ignorare questi segnali: il grave calo delle popolazioni di specie selvatiche ci indica che la natura si sta deteriorando e che il nostro pianeta ci lancia segnali di allarme rosso sul funzionamento dei sistemi naturali. Dai pesci degli oceani e dei fiumi alle api, fondamentali per la nostra produzione agricola, il declino della fauna selvatica influisce direttamente sulla nutrizione, sulla sicurezza alimentare e sui mezzi di sussistenza di miliardi di persone". "Il Living Planet Report raccoglie l'ennesimo sos lanciato dalla Natura che, questa volta, i leader mondiali che si riuniranno (virtualmente) tra pochi giorni per la 75esima sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, non potranno ignorare". Il calo medio del 68% negli ultimi 50 anni è una catastrofe e "una chiara prova del danno che l'attività umana sta arrecando al mondo naturale". Se non si interviene, sottolinea il rapporto, si va verso l'estinzione sicura e la distruzione degli ecosistemi da cui tutti noi dipendiamo. Tra i cambiamenti necessari: rendere la produzione e il commercio alimentare più efficienti ed ecologicamente sostenibili, ridurre gli sprechi e favorire diete più sane e rispettose dell'ambiente. La ricerca mostra che l'attuazione dell'insieme di queste misure, consentirà al mondo di alleggerire le pressioni sugli habitat della fauna selvatica, invertendo così i trend negativi. "Nella migliore delle ipotesi queste perdite impiegherebbero decenni per invertire la rotta e sono probabili ulteriori perdite irreversibili di biodiversità, mettendo a rischio la miriade di servizi ecosistemici da cui le persone dipendono", ha affermato David Leclère, autore principale dell'articolo e ricercatore presso l'International Institute of Applied System Analysis. A fianco delle statistiche allarmanti, ci sono esempi di alcuni casi che mostrano il potenziale di ciò che si può ottenere con un'azione immediata, collettiva e decisa: la tartaruga caretta nel Simangaliso Wetland Park, Sudafrica, lo squalo pinna nera del reef in Australia occidentale, il castoro europeo in Polonia, o le tigri e i panda, tutti aumentati nel loro numero globale. Il Living Planet Report 2020 è stato diffuso proprio in prossimità della 75esima sessione dell'assemblea generale delle Nazioni Unite che si terrà martedì prossimo, nella quale i leader dovranno esaminare i progressi compiuti sugli obiettivi di sviluppo sostenibile dell'agenda 2030, l'accordo di Parigi sul clima e la Convenzione sulla diversità biologica. Spiega Marco Lambertini: "Il modello 'bending the curve', fornisce una prova preziosa per poter sperare nel ripristino della natura capace di fornire alle generazioni attuali e future ciò di cui hanno bisogno: secondo questo modello i leader mondiali devono, oltre agli sforzi di conservazione, creare un sistema alimentare più sostenibile e eliminare la deforestazione, una delle principali cause del declino della popolazione della fauna selvatica, dalle catene di approvvigionamento".

Remo Sabatini per "ilmessaggero.it" il 5 novembre 2020. La loro colpa è stata quella di aver trovato la porta del recinto aperta. Il resto, purtroppo, è soltanto cronaca. Sì perché i due scimpanzè che vivevano in un recinto di uno zoo olandese, non avevano fatto altro che approfittare dell'incauta dimenticanza di qualche custode, tutto qui. Siamo in Olanda, al DierenPark Amerfoort, uno zoo di una ventina di ettari situato ad ovest di Amersfoort, nella provincia di Utrecht. Sono quasi le dieci del mattino e i visitatori sono ancora scarsi. In un'area espositiva, ci sono alcuni scimpanzè che si accorgono della porta che non è stata chiusa a dovere. L'occasione è ghiotta e in men che non si dica ne approfittano per uscire dal recinto che li ospita da anni. Così, curiosi e probabilmente spaventati da quel mondo che non conoscono, si avventurano per i viottoli dello zoo. A quel punto scatta l'allarme. Qualcuno, infatti, si è accorto dei due fuggiaschi e si teme per l'incolumità dei presenti. Certo, si potrebbe immaginare, arriverà del personale specializzato che narcotizzerà gli scimpanzè e li rimetterà in gabbia. La realtà, purtroppo, sarà ben diversa e saranno gli stessi portavoce dello zoo a raccontarla sui social. «Questa mattina intorno alle 10,30 del mattino, scrivono, due scimpanzè sono fuggiti dal loro recinto. La situazione era sotto controllo e nessun visitatore o dipendente è rimasto ferito. Il protocollo Animal Escaped prevede, tra l'altro, che i visitatori e il personale vengano portati in sicurezza». Tuttavia, «per evitare ulteriori escalation, i due scimpanzè maschi sono stati uccisi. Ci dispiace profondamente per quanto accaduto». Così, mentre la situazione sembrava essere sotto controllo, invece di narcotizzare i fuggiaschi, si è deciso di farli fuori. «Un sedativo, hanno poi spiegato, avrebbe impiegato almeno 10 minuti prima dell'effetto anestetico in uno scimpanzè». Dieci minuti che hanno significato la differenza tra la vita e la morte dei due sfortunati scimpanzè che, fuori dalla loro gabbia, hanno trovato soltanto pallottole.

Uomini o animali. Inchiesta sulla battaglia contro orsi, lupi e cinghiali che divide l’Italia. Carlo Bonini, Enrico Ferro, Cristina Nadotti, Enrico Leva. Repubblica. Data di pubblicazione: 3 Settembre 2020. In un Paese abituato a dividersi su tutto, e con una radicalità di posizioni che si traduce spesso nella condanna all’impotenza, c’è un conflitto antico quanto le specie viventi che ha popolato le cronache di questa estate di orsi, lupi, cinghiali. In uno schema amico-nemico, vita-morte, l’animale che fugge l’uomo che gli dà la caccia, che lo abbatte per difendere ciò che gli è caro – la casa, la vigna, il podere, il gregge, la mandria – è diventato alternativamente occasione di apologo della libertà o, al contrario, personificazione della nostra paura ancestrale di essere improvvisamente e nuovamente anche prede e non solo predatori. Gli orsi sono finiti in tribunale, i cinghiali sono diventati materia di emendamenti al “Decreto semplificazione” post-covid. Abbiamo perciò fatto un viaggio in questo impazzimento italiano, per provare ad afferrarne la sostanza, dunque le ragioni e gli interessi. Raccontando gli animali, ma soprattutto gli uomini, per ciò che sono. Dunque, per ciò che vogliono. Provando a indicare una strada che ci sottragga a un’alternativa del diavolo. Uomini o animali, appunto.

In principio fu per la vita…Il sacrificio di Daniza, la resistenza di Papillon e con loro un solco profondo che divide pastori e animalisti, indigeni e turisti, comunità montane e Stato italiano. Sono trascorsi ventun anni da quando il Parco Adamello Brenta, la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica decisero di salvare un piccolo nucleo di orsi da una inevitabile estinzione in Slovenia. Nacque così il progetto Life Ursus, che decollò grazie a un finanziamento dell’Unione Europea. Tra il 1999 e il 2002 vennero rilasciati dieci orsi e a ognuno fu assegnato un nome: Masun, Kirka, Daniza, Joze, Irma, Jurka, Vida, Gasper, Brenta, Maya. Gli orsi rilasciati dal 1999 al 2002. Da sinistra in alto: Masun, Kirka, Daniza, Joze, Irma, Jurka, Vida, Gasper, Brenta e MayaUno studio di fattibilità realizzato qualche mese prima aveva dato risultati incoraggianti, sia in termini di spazi che di consenso: 1.700 chilometri quadrati sembravano più che sufficienti per ospitare gli orsi e più del 70% della popolazione si espresse a favore della loro introduzione in quell’area. Tra il 2002 e il 2003 si registrarono il primo e il secondo parto. Oggi si stima che gli orsi siano ormai un centinaio, il doppio di quelli previsti sulla carta. E qui cominciano i problemi.

…poi fu questione di morte. Troppi esemplari in poco spazio, con poco cibo a disposizione. Gli orsi attaccano le greggi al pascolo, si avvicinano ai recinti, insidiano malghe e casere, attaccano gli uomini. La gente del posto non li chiama più orsi ma “grandi carnivori” e scompaiono anche i nomi che vengono sostituiti da sigle come M49, Dj3, Jj5. Il gruppo Facebook “Malghe unite-grandi carnivori” è una macabra galleria fotografica di carcasse, ognuna con la propria data, con la propria storia, con lo sfogo del pastore vittima di turno dell’assalto. “Noi badiamo alle nostre pecore, lo Stato badi ai suoi orsi”, protestano evidenziando insieme uno strappo e la linea di confine che gli orsi hanno finito senza colpa per tracciare. “Di qua noi, di là gli orsi e tutti coloro che li difendono”. Non c’è più mediazione, non c’è più spazio per la concertazione. E questo indirizza anche la linea della Provincia Autonoma di Trento, che con il suo presidente Maurizio Fugatti si schiera a favore della cattura, della castrazione e, all’occorrenza, anche dell’abbattimento degli animali problematici, in aperta contrapposizione con il ministro all’Ambiente Sergio Costa. Oggi, il numero certo di animali giovani e adulti presenti è pari a 66, dei quali 27 maschi e 39 femmine. La stima della popolazione complessiva, prendendo in considerazione anche la quota dei cuccioli nati nel 2019,  si aggira tra gli 82 e i 93 esemplari.

Il sacrificio di Daniza. Nel 2014, l’attenzione degli animalisti si spostò in quest’area delle Alpi centrali per la morte di Daniza. Fu uccisa da un fucile spara siringhe ai piedi delle Dolomiti. Era arrivata nel 2000 dalla Slovenia ma a Ferragosto, insieme ai suoi due cuccioli, aveva aggredito un cercatore di funghi nella foresta vicino a Pinzolo. Venne dichiarata “pericolosa” e si aprì la caccia intorno alla Val di Borzago. Nei giorni precedenti erano state segnalate incursioni a Spiazzo e Bocenago, con l’uccisione di alcune pecore. La Provincia Autonoma di Trento ne ordinò prima l’abbattimento e poi solo la cattura. Una volta circondato, all’animale fu sparato un proiettile farmacologico carico di Zoletil, un sonnifero. L’orsa Daniza con i suoi cuccioliDaniza si sarebbe dovuta addormentare per essere catturata dalla squadra d’emergenza, ma da quel sonno profondo non si svegliò più.  Le informazioni sull’operazione vennero documentate da una nota burocratica della Provincia di Trento: “In ottemperanza all’ordinanza che prevedeva la cattura dell’orsa Daniza, dopo quasi un mese di monitoraggio intensivo, la scorsa notte si sono create le condizioni per intervenire, in sicurezza, con la telenarcosi. L’intervento della squadra di cattura ha consentito di addormentare l’orsa, che tuttavia non è sopravvissuta. È stato possibile catturare con la medesima modalità, per poi prontamente liberarlo, anche uno dei due cuccioli, che è stato dotato di marca auricolare per assicurarne il costante monitoraggio. A tal fine sul posto è già operativa la squadra d’emergenza”. Immediata arrivò la nota dell’allora ministro all’Ambiente Gian Luca Galletti: “Davvero una brutta notizia. Mi preme la sorte dei due cuccioli. Vanno seguiti e protetti per garantirne il costante benessere e consentire loro di diventare adulti. Così come vanno adottate le migliori soluzioni per l’intera popolazione di orsi del Trentino, Veneto, Lombardia e Friuli. Facciamo in modo che quanto accaduto ci serva da insegnamento per il futuro”.

Le foto di Daniza e dei suoi cuccioli si moltiplicarono sui social network, gli animalisti insorsero minacciando tutti coloro che nell’uccisione avevano avuto una parte, persino il raccoglitore di funghi aggredito nel bosco. Fu l’incipit. Di un prima e di un dopo. Perché il sacrificio di Daniza cambiò tutto.

Il mistero degli elefanti morti in Botswana. L'esperto: "Cianuro, bracconieri o nuova malattia". Pubblicato giovedì, 02 luglio 2020 da La Repubblica.it. Una malattia nuova, un terribile avvelenamento o la mano dei bracconieri. Resta un grande mistero, che tenteranno di chiarire le analisi di laboratorio previste in Zimbabwe, Sudafrica e Canada, il perché della morte di oltre 356 elefanti avvenuta in Botswana in poco più di tre mesi. Mai si era osservato un numero così alto di pachidermi morti per cause sconosciute. Le carcasse di maschi, femmine e giovani elefanti sono state trovate per la maggior parte vicino a specchi d'acqua nella zona di Seronga, delta dell'Okavango, fin dal marzo 2020, lo stesso periodo in cui anche in Africa sono iniziate le limitazioni turistiche legate al Covid-19. Le carcasse degli elefanti davano l'idea che gli animali fossero morti "cadendo faccia a terra" ha raccontato Niall McCann, direttore della conservazione dell'Ong National Park Rescue. Gli animali sono apparsi deboli, malati, secondo alcune testimonianze "incapaci di cambiare direzione" oppure "camminavano in cerchio prima di accasciarsi a terra", racconta chi li ha visti. Dettagli che fanno pensare a un problema di tipo neurologico che potrebbe essere dovuto a una inspiegabile malattia. Oggi, sottolineando il mistero sulla morte degli elefanti e precisando che non si può escludere nulla (anche se sembra affievolirsi la pista dei bracconieri), il governo del Botswana ha fatto sapere che sono in corso diversi accertamenti sulla morte degli animali e 275 carcasse di elefanti su 356 casi segnalati sono sotto osservazione. Campioni di tessuto e di cervello verranno inviati a laboratori in Zimbabwe, Canada e Sudafrica per cercare di saperne di più. Nella quasi totalità dei casi presi in esame gli elefanti morti a terra avevano ancora le zanne, oggetto del desiderio del bracconaggio. In Botswana, Paese che recentemente aveva prima riaperto alle licenze di caccia e poi richiuso per via del Covid-19, vive una popolazione di oltre 130 mila elefanti sui circa 400 mila individui presenti in tutta l'Africa. "Se vogliamo salvare questi animali  capire cosa sta succedendo in Botswana è fondamentale" racconta a Repubblica il conservazionista Davide Bomben. Torinese, bloccato in Italia per il lockdown e pronto a ripartire per l'Africa "appena si potrà", da anni Bomben addestra i ranger anti-bracconaggio delle riserve di Botswana, Sudafrica, Namibia e altri Paesi ed è presidente dell'Associazione Italiana Esperti d'Africa e istruttore capo della Poaching Prevention Academy. Il Botswana lo conosce molto da vicino. "Sono in contatto con i veterinari che operano sul Delta dell'Okavango e mi dicono che è davvero poco chiaro cosa stia succedendo. All'inizio pensavano all'antrace, ma ora sembra escluso. Al momento non si intravede una soluzione, ma spaventa la velocità con cui muoiono gli elefanti. Ad oggi credo si possano fare tre ipotesi: l'uso di cianuro, quello di un altro veleno utilizzato dai bracconieri, come accadde in Zimbabwe, oppure - e questa al momento è la più probabile - una malattia di cui non siamo a conoscenza". Bomben racconta che negli ultimi mesi nella zona del Delta è presente una grande quantità d'acqua. Secondo lui è possibile, come già accaduto in passato in Africa, che "sia stato versato del cianuro, solitamente usato nelle miniere. Quando il fiume entra in Botswana dopo un corso molto veloce rallenta: lì gli elefanti, che a differenza di altri animali consumano molta più acqua, potrebbero essersi avvelenati. Ma è solo un ipotesi. Così come potrebbero essere stati usati dei diserbanti come il carbofuran o altri veleni, che solitamente però lasciano le carcasse molto gonfie. In passato i bracconieri hanno usato il veleno per uccidere gli elefanti e prendere l'avorio: in quel caso ne sono stati uccisi 60 ma solo tre furono ritrovati, dato che anche una volta avvelenati questi si spostano. Qui il mistero si infittisce però, perché in Botswana il 70% (degli elefanti morti negli ultimi mesi, ndr) è stato trovato morto vicino a bacini d'acqua". La caratteristica che più colpisce del terribile destino di questi pachidermi è che "secondo diverse persone sono stati visti camminare in cerchio prima di crollare. Questo fa pensare a qualche problema neurologico. Il problema è che il Botswana non è così attrezzato per riuscire a estrarre campioni di cervello da analizzare, senza contaminarli: serviranno sforzi giganteschi per ottenere indicazioni chiare su quanto avvenuto" spiega il conservazionista. In Botswana, dove si sta giocando una battaglia fondamentale per la conservazione ma ancora oggi vengono brutalmente uccisi i rinoceronti per il loro corno, l'ondata di elefanti morti preoccupa sempre di più un Paese che basa buona parte del suo Pil sul turismo (il 12%). "In Africa il turismo legato agli animali fornisce lavoro a 6 milioni di persone, tantissime famiglie dipendono da questo. E' importante ottenere risposte chiare su queste morti, sia per agire nel tentativo di curare gli elefanti e sia - se fosse legato al bracconaggio - per smantellare eventuali reti criminali" chiosa Bomben. "Questa storia ha il potenziale di una crisi sanitaria" sostiene addirittura il dottor McCann del National Park Rescue, precisando che nulla si può escludere "che si tratti di parassiti specifici o persino del Covid-19". La particolarità delle morti riguarda il fatto che, qualunque cosa sia, sembra colpire solo gli elefanti in Botswana. In Namibia per ora non sono stati registrati casi e anche animali che in passato furono trovati morti a causa di avvelenamenti, come iene o avvoltoi, non sembrano essere stati coinvolti. Quel che è certo è che serve una soluzione immediata per arginare il problema: tra il 2007 e il 2014 il numero di elefanti è crollato di quasi il 30% e una moria del genere, proprio nel Botswana che ospita la maggior parte dei meravigliosi pachidermi africani, potrebbe essere letale per il futuro di questi straordinari mammiferi. 

Filvio Cerutti per "lastampa.it" il 25 giugno 2020. Si sono accaniti sulle uova. Prima protezione di futuri piccoli. Le hanno colpite con dei mattoni e ne hanno distrutte tre su sei. Un dolore troppo forte per la mamma cigno che dopo alcune settimane è morta di “crepacuore”. Questa triste storia arriva dal Regno Unito, dove un gruppo di ragazzi era stato visto lanciare dei mattoni e pietre lungo il canale di Manchester a Kearsley il 20 maggio scorso. Stavano mirando verso l’isola proprio nel punto dove sapevano che i cigni avevano deposto le uova. Solo tre di sei sono sopravvissute. Gli attivisti della fauna selvatica che avevano tenuto d'occhio i cigni hanno detto che nelle ultime settimane ne era rimasta solo una probabilmente cadute vittime dei cani randagi. In questa situazione l’esemplare maschio ha deciso di lasciare il nido, senza più tornare rompendo quel legame di profonda fedeltà che lega questi tipi di animali. Si ritiene che sia andato via per il troppo stress sopportato. Purtroppo, all'inizio di questa settimana, il cigno femmina è stato trovato morto nel suo nido. «Non c'è molto che io possa dire. Probabilmente è morta per il cuore spezzato dopo aver perso le sue uova e il fedele compagno volato via» ha detto l'attivista per la fauna selvatica Sam Woodrow. Ora il Rspca (Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals), oltre a comunicare il rammarico per quanto accaduto, ha deciso di approfondire le indagini sui vandali che, più degli altri animali, hanno fatto danno: «I cigni, i loro nidi e le loro uova sono protetti dal Wildlife and Countryside Act del 1981.

Da "corriere.it" il 5 giugno 2020. Un’elefantessa incinta è morta in Kerala dopo - denunciano le autorità - «aver mangiato un ananas imbottito di petardi». Le immagini, strazianti, dell’animale in fin di vita mentre cerca sollievo in un fiume sono state postate da un ufficiale forestale che ha partecipato ai tentativi di soccorso. Ed hanno fatto il giro del mondo. «Scusa sorella - ha scritto su Facebook Mohan Krishnan, che ha assistito alla morte dell’elefante e scattato le foto - Con la bocca e la lingua distrutte dall’esplosione, camminava affamata senza riuscire a mangiare. Ma forse essere stata più preoccupata per la salute del cucciolo dentro di sé che per la sua fame». La notizia dell’atto di estrema crudeltà ha scosso non solo l’India. E, secondo quando riportano i media locali e l’agenzia Reuters, sono in corso indagini per appurare l’accaduto e trovare i colpevoli. Le autorità hanno riferito che l’incidente è avvenuto il 23 maggio nel distretto di Palakkad, nello stato del Kerala, nell’India meridionale, vicino a terreni agricoli dove altre volte contadini hanno usato il metodo di imbottire la frutta con i petardi per tenere lontani gli elefanti e altri animali selvatici dai raccolti. I responsabili potrebbero essere accusati di crudeltà verso gli animali per cui sono previste sia multe che pene più severe. L’India ha la più grande popolazione mondiale di elefanti asiatici, specie in via di estinzione. Gli episodi di conflitto tra uomo e animale non sono rari poiché gli elefanti si avvicinano spesso agli insediamenti umani a caccia di cibo. L’elefantessa incinta era uscita dal Parco Nazionale della Silent Valley.

No, la storia dell'elefante non è andata come hanno raccontato. Secondo quanto ricostruiscono i siti indiani l'elefante ha avuto un problema alla bocca ma, al momento, mancano le prove per confermare come e quando è avvenuto l'incidente. Federico Giuliani, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. Ha fatto commuovere il mondo la storia dell'elefante incinta morto in un fiume nel Kerala, nel Sud dell'India, dopo aver ingerito un ananas imbottito di petardi che gli è esploso in bocca, condannandolo a morire di fame, insieme al cucciolo che portava in grembo. Ebbene, questa storia, così com'è stata raccontata in un primo momento, potrebbe essere una fake news. Stando a quanto fatto notare da Bufale.net, un portale di fact checking, emergono delle discrepanze tra la narrazione offerta dai media di tutto il monto e il possibile, reale svolgimento dei fatti. Come ha riferito il sito indiano The Quin, la divisione forestale di Mannarkkad ha spiegato che, ad oggi, non vi è alcuna conferma che l'animale abbia consumato un ananas. La gente locale, infatti, non avrebbe potuto dare da mangiare un frutto carico di petardi a un elefante selvatico all'interno della foresta. Sarebbe stato semplicemente molto pericoloso. L'ipotesi non è tuttavia da escludere a priori, visto che gli autori del gesto potrebbero essere stati alcuni allevatori che vivono ai margini della medesima foresta dove è avvenuto il fatto. In ogni caso, fare del male a qualsiasi animale, per qualsiasi motivo, è fortemente condannato.

Indagini in corso. Per fare chiarezza, le autorità del Kerala hanno nominato tre squadre per portare avanti le indagini. Anche la polizia sta attualmente indagando sulla questione. Il sito Dna India afferma inoltre che nel rapporto post-mortem dell'elefante non sarebbero state trovate prove che all'animale sarebbe stato dato da mangiare un ananas pieno di petardi. La bestiola ha sì avuto un problema alla bocca ma, al momento, mancano le prove per confermare come e quando è avvenuto l'incidente. Il documento citato riporta che l'elefante ha subito lesioni alla bocca e non è stato in grado di mangiare per giorni, ha detto Surendrakumar, capo guardiano della fauna selvatica del Kerala. "Non ci sono ancora prove del fatto che qualcuno abbia dato deliberatamente un ananas carico di petardi all'elefante, ma stiamo indagando", ha spiegato. Un uomo, però, è già stato arrestato per il suo presunto coinvolgimento nell'uccisione e altri sono stati interrogati, ha annunciato il ministro della Foresta, K Raju. L'elefante, trovato ferito lo scorso 25 maggio, due giorni prima della morte, si era allontanato in un villaggio nel distretto di Palakkad il mese scorso da un parco nazionale adiacente. Bisogna infine ricordare che gli esplosivi mescolati con alcune sostanze commestibili vengono spesso usato dagli abitanti della zona per proteggere le loro colture da cinghiali e altri animali.

Elefante ucciso con ananas esplosivo: arrestato il primo responsabile. Riccardo Castrichini il 07/06/2020 su Notizie.it. Arriva l'arresto per l'uomo responsabile di aver ucciso un'elefante con un ananas esplosivo. La polizia indiana ha provveduto all‘arresto dell’uomo che nei giorni scorsi aveva ucciso un elefante con un ananas pieno di esplosivo. La storia della morta dell’elefantessa, tra l’altro incinta, nello stato meridionale del Kerala aveva fatto rapidamente il giro del mondo, per la brutalità delle sue immagini e perchè la morte era arrivato da un pratica di caccia davvero distruttiva nei confronti della natura e di chi la abita. L’arrestato si chiamo P.Wilson, e ora dovrà rispondere dell’accusa di aver collocato sul terreno frutti pieni di esplosivi per tenere gli animali, principalmente cinghiali, lontani dalla sua piantagione di gomma. La morte dell’elefante rientra infatti in un quadro ben più grande in corso nell’Asia meridionale, ovvero una guerra tra uomo e natura, con la perdita di foreste in favore dell’espansione urbana. Stando a quanto riferito dal capo guardiano della fauna selvatica del Kerala a Afp Surendra, ci sarebbe stato fin da subito la confessione da parte dell’arrestato: “L’uomo ha ammesso di aver usato noci di cocco piene di esplosivo per colpire gli animali selvatici”. I funzionari forestali dello stato indiano hanno detto di non essere stati in grado di stabilire quando l’elefantessa di 15 anni abbia ingoiato il frutto esplosivo, ma è stata trovata ferita il 25 maggio, due giorni prima della sua morte. L’esplosione aveva causato gravi danni alla bocca, impedendole di mangiare o bere per giorni.

Indagine shock su allevamenti asiatici: “Volpi bastonate e scuoiate vive per pellicce”. Le Iene News il 07 luglio 2020. Gli investigatori di Humane Society International hanno registrato queste terribili immagini in undici allevamenti selezionati casualmente in un paese asiatico. L’organizzazione non esclude che “le pellicce di questi animali possano arrivare anche in Italia”. Sono immagini terribili quelle riprese dagli investigatori di Humane Society International in undici allevamenti di un paese asiatico, tra i maggiori produttori ed esportatori di pellicce in tutto il mondo. Le inquietanti immagini che potete vedere qui sopra mostrano i maltrattamenti che questi animali subiscono, come le ripetute ripercussioni alla testa che lasciano l'animale rantolante a terra. “Scene infernali” le ha definite Martina Pluda, Direttrice di Humane Society International Italia. L’organizzazione Humane Society non esclude che le pellicce così ricavate dagli animali possano arrivare anche in Italia, che importa da paesi asiatici. Come riporta Humane Society International, nel 2017 il valore importato è stato di 89,6 milioni di dollari, il 34% del quale (30,6 milioni di dollari) dalla sola Cina. “Questi animali sono condannati a una vita alienante in minuscole gabbie e ad una morte terrificante”, ha detto Martina Pluda. “Colpiti alla testa con una barra di metallo e spesso scuoiati vivi. Chiunque pensi che la pelliccia sia un oggetto di lusso deve guardare i nostri filmati per rendersi conto che non è così. Ogni designer che presenta le pellicce in passerella, ogni rivenditore che le mette sugli scaffali dei propri negozi e ogni consumatore che le indossa, finanzia questa vergogna che non è né glamour né trendy. È una crudeltà e i consumatori, in Italia e nel mondo, possono aiutarci rifiutando di comprare e indossare capi e accessori di pelliccia”. “Finché permetteremo l’allevamento di visoni”, continua la direttrice di Humane Society International, “rimarremo il fanalino di coda in Europa. Già molti paesi come l’Austria, la Slovenia, il Regno Unito hanno vietato gli allevamenti di animali da pelliccia e molti altri, ad esempio la Germania, li stanno eliminando gradualmente. L’Italia deve intraprendere questo primo passo importante, seguito da un divieto d’importazione e vendita”. Proprio gli allevamenti di visoni sono stati al centro dei riflettori in questi mesi per la vicenda dell’abbattimento di 10mila visoni in Olanda dopo alcuni casi di sospetto contagio da coronavirus dagli animali all’uomo, in particolare a due allevatori. Un caso che ha colpito successivamente anche la Danimarca, dove circa 11mila visoni sono risultati positivi al Covid-19. Un tema che abbiamo approfondito a Iene.it: aspettando Le Iene. Giulia Innocenzi ha intervistato in merito l’allevatore Massimiliano Filippi. Secondo i dati riportati da Humane Society International, sarebbero 100 milioni gli animali uccisi in tutto il mondo ogni anno per la pelliccia, ovvero tre animali al secondo. Mentre in Italia, secondo i dati di Essere Animali, sono presenti ancora oltre 10 allevamenti in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Abruzzo dove vengono allevati 100.000 visoni.

Allevamento da incubo: i maltrattamenti su maiali che mangiamo.  Le Iene News il 21 febbraio 2020. Carcasse abbandonate per giorni, letame ovunque, condizioni di sicurezza degli addetti ignorate. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli hanno raccolto la testimonianza di un ex impiegato di un allevamento di maiali, che denuncia le terribili condizioni in cui questi animali, destinati a finire sulle nostre tavole, sono costretti a vivere. Le immagini che vedete nel servizio di Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli parlano da sole. Sono registrate in un grande allevamento di maiali in Italia. La voce è quella di un ex dipendente di quel posto, si chiama Marco e ha 40 anni. “Questo mestiere è uno stile di vita, non un lavoro”. Lui è stato per molto tempo un imprenditore, ma dopo anni è costretto a vendere la sua attività per via di alcune difficoltà finanziarie. Marco vende così la sua azienda a un imprenditore suinicolo, che decide di tenerlo a lavorare con lui vista la sua grande esperienza nel settore. In pratica continuava a fare lo stesso lavoro di sempre, ma adesso da dipendente. Nel giro di poco tempo però nascono le prime tensioni, e il rapporto tra i due inizia a incrinarsi. “Mi occupavo di circa 16mila maiali. Lui pretendeva il massimo”, racconta Marco. Da quello che ci dice, Marco sembra davvero preoccuparsi del benessere degli animali. E come lui tantissimi altri allevatori in Italia. Questo, stando al racconto del nostro testimone, sembra proprio di no. “Nei mesi estivi non andavano le ventole e alcuni maiali morivano asfissiati”, ci racconta Marco: “L’abbeveratoio non era spontaneo, all’80% non veniva rimosso il liquame”. Insomma uno scenario che sembra davvero terribile. Anche alcune norme di sicurezza sul lavoro non sarebbero state rispettate. Marco decide di rivolgersi al sindacato e iniziare a filmare quello che succede in quell’allevamento. Potete vedere i video nel servizio, con una avvertenza: se siete particolarmente impressionabili, le immagini possono essere davvero disturbanti.  Stando al suo racconto, questa situazione sarebbe durata per anni e a un certo punto Marco dice di aver iniziato a non sopportarla più. “Avevo problemi alle gambe, di pressione, soffrivo di crisi di panico”, ci racconta.

“Mi venivano attacchi di panico nei capannoni, ho fatto un periodo di un anno e mezzo che ero… poi ho seguito i consigli di mia moglie e mi sono rivolto a un medico e a uno psicologo. È qui che mi viene diagnosticato un disturbo da stress da lavoro correlato”. Attualmente Marco non lavora più in quell’allevamento, perché il suo capo l’ha licenziato. Solo in un secondo momento si è rivolto ai Nas. Il nostro testimone è tornato a fare altri video per capire se qualcosa fosse cambiato in quell’allevamento e noi, per capire qualcosa di più, ci siamo rivolti al vicepresidente della Lav Roberto Bennati. “Noi ci occupiamo tutti i giorni di combattere e denunciare le violenze sugli animali”, ci dice. “Non tutti sono così, ma ci sono alcuni allevamenti che purtroppo ha queste condizioni”. Dopo aver visto le immagini che abbiamo portato, la Lav ha deciso di andare avanti anche per conto proprio. Le ulteriori immagini che vi mostriamo sono davvero durissime. Ci sono addirittura immagini di maiali che divorano le carcasse di altri maiali, morti e apparentemente lì abbandonati da giorni. “Sicuramente una struttura di questo tipo non garantisce l’igiene sanitaria degli animali e un allevamento come questo genererà solo animali che sono un pericolo per la salute umana. Sono immagini che non hanno bisogno di nessun commento”, chiude Bennati guardando il video delle carcasse di maiali impilate l’una sopra l’altra in una cella senza refrigerazione attiva. “È un girone infernale, qualcosa di veramente incredibile”. A questo punto Matteo Viviani va a parlare direttamente con il proprietario dell’allevamento. Lui prima nega ogni possibile negligenza o maltrattamento, ma dopo aver visto le immagini che abbiamo raccolto e incalzato dalle domande della Iena ci dice: “Ho sbagliato e cerco di rimediare in tutti i modi possibili”. Non basta però: Matteo Viviani chiama i Nas. Che il giorno dopo arrivano a controllare. Speriamo davvero che simili condizioni per i poveri animali possano non ripetersi più.

Kenya, bracconieri uccidono due rarissime giraffe bianche: «Ne resta un solo esemplare». Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Quando nel 2017 furono avvistate per la prima volta, le loro immagini fecero il giro del mondo entusiasmando gli animalisti. Due esemplari di rarissime giraffe bianche sono stati uccisi dai bracconieri a Garissa, nel Kenya orientale. A trovare le carcasse di una femmina e del suo cucciolo sono stati i ranger della riserva naturale Ishaqbini Hirola Conservancy. Dagli esami delle ossa degli animali è emerso che le uccisioni sono avvenute 4 mesi fa. Ora rimane solo un esemplare maschio che vive ancora nella stessa riserva. Il manto bianco di questa particolare giraffa è dovuto al leucismo, una condizione genetica che impedisce alle cellule della pelle di produrre pigmentazione. A differenza delle giraffe albine, questi animali continuano a produrre un pigmento scuro nei tessuti molli, come quelli degli occhi che restano quindi di colore scuro (le giraffe albine hanno invece gli occhi rosa): «Siamo l'unica comunità al mondo a custodire la giraffa bianca - ha dichiarato in un comunicato Mohammed Ahmednoor, il responsabile della riserva -. Le uccisioni sono un duro colpo per gli straordinari passi compiuti dalla comunità per conservare specie così rare e un campanello d'allarme che richiede sostegno sempre maggiore agli sforzi di conservazione». Ai primi di agosto del 2017 sui canali social di Greenpeace Africa fu postato un video che mostrava per la prima volta le rarissime giraffe bianche e segnalava il loro particolare gene che impedisce la pigmentazione delle cellule. In generale la conservazione delle giraffe è diventata un problema in Africa. Secondo un rapporto dell'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) tra il 1985 e il 2015 nel continente è avvenuta una «silenziosa estinzione» di questo mammifero: gli esemplari sono diminuiti del 40% e oggi ne rimangono solo 98 mila. La situazione è particolarmente grave in Africa orientale dove il numero delle giraffe nello stesso periodo è diminuito di oltre il 60% e dal 2016 l'animale è considerato «una specie vulnerabile».

Ida Artiaco per "fanpage.it" il 18 febbraio 2020. Sorridenti e felici, mentre torturano letteralmente uno squalo mako, una specie in via di estinzione, tirandogli la coda e spalancandogli la bocca. Stanno facendo il giro del web le immagini condivise sulla pagina Facebook "South Santa Rosa News" che mostrano alcuni cittadini accanirsi contro uno squalo lungo circa tre metri che, afferrato a riva a Navarre Beach, splendida lingua di sabbia lungo la costa della Florida, e ormai diventato innocuo, è morto dopo tre ore di combattimento sabato scorso, nel tentativo di liberarsi e tornare al largo. Il che ha dato vita ad una serie di polemiche. Della cattura non si sa molto, almeno stando a quanto riportato dalla stampa locale. La responsabilità sarebbe del cosiddetto "Team Dorsal", un gruppo di amanti della pesca che si era riunito sulla famosa spiaggia in occasione dei festeggiamenti del Mardi Gras. Quello che è certo è che il gruppo di persone presenti in quel momento, lungo la spiaggia, come dimostrano le immagini diffuse su Facebook, si è dato un gran da fare per trascinare lo squalo a riva, fare selfie con lui, mettendosi anche a cavalcioni sulla carcassa dell'animale, che intanto moriva tra le granfie di quei curiosi. E la cosa ancora più grave, si legge su alcuni gruppi di ambientalisti, è che l'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) ha modificato lo status degli squali della specie mako da "vulnerabile" a "in via di estinzione" dopo un grave esaurimento del loro numero a livello globale, nonostante gli stessi squali svolgano un ruolo fondamentale nell'ecosistema marino, fungendo anche da indicatori della salute degli oceani. "Queste persone sono dei mostri – si legge su un commento lasciato da un utente sui social network -. Ridono e scattano foto mentre l'animale muore"; e ancora: "Sono molto rattristato, sia per lo squalo che per il fatto che ci sono ancora così tante persone con un livello di coscienza e compassione verso gli altri esseri viventi così basso"; oppure: "Dovrebbero essere identificati e denunciati", è la proposta di altri.

DAGONEWS il 5 febbraio 2020. Milioni di cani affetti da rabbia vengono uccisi ogni anno in macelli cambogiani prima che la loro carne venga venduta per essere mangiata. I cani indifesi vengono stipati in capannoni puzzolenti alla periferia della capitale, Phnom Penh, prima di essere uccisi in enormi vasche di cemento dove vengono fatti annegare. I poveri animali vengono tenuti in gabbie anguste, che vengono ammucchiate e accatastate sul retro di furgoni. I commercianti di carne di cane cambogiani sono noti per annegare, strangolare e pugnalare migliaia di cani al giorno. L'attività, abbastanza diffusa, traumatizza i lavoratori e li espone a rischi mortali per la salute come la rabbia. Non solo: il commercio di carne espone gli abitanti a un  rischio visto che la rabbia potrebbe potenzialmente trasmettersi agli umani. Le Ong stimano che da 2 a 3 milioni di cani vengano macellati ogni anno in Cambogia: ci sono più di 100 ristoranti di carne di cane nella capitale Phnom Penh e circa 20 nella città del tempio di Siem Reap. Le inquietanti immagini a Phnom Penh sono state scattate dal fotoreporter ambientalista britannico Aaron Gekoski, che ha descritto la scena come "l'inferno": «Queste immagini mi hanno perseguitato. Non riesco a togliermi dalla mente il terrore dei cani. La puzza, i guaiti gli attrezzi usati per ucciderli sparsi ovunque. È stato straziante vederli in questo stato. Alcuni tremavano, altri vomitavano o defecavano dappertutto. Alcuni mordevano le gabbie, facendosi cadere i denti». La Cambogia ha uno dei più alti tassi di rabbia al mondo: la maggior parte dei casi deriva da morsi di cane. La domanda di carne di cane è cresciuta nonostante le richieste di vietarla. Intanto il mercato non si arresta: i cani vivi possono valere da $ 2 a $ 3 al chilo, dando ai fornitori un incentivo a raccogliere quanti più animali possibile.

Indonesia, coccodrillo incastrato in una ruota: ricompensa per chi lo libera. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. Dal 2016 un coccodrillo si aggira nelle acque intorno alla città di Palu, nell'isola di Sulawesi (in Indonesia), con una ruota da moto incastrata nel collo. Crescendo l'animale rischia di rimanere strangolato: per salvarlo, le autorità locali hanno deciso di offrire una ricompensa a chiunque riuscirà a liberarlo, come si legge sull'Independent. Hasmuni Hasmar, direttore del centro provinciale per la conservazione delle risorse naturali (il BKSDA) non ha rivelato l'entità della somma destinata a chi riuscirà nell'impresa. Il rettile è sfuggente e difficile da avvicinare, tanto che non è nemmeno stato possibile stabilire con certezza a quale specie appartenga. «Chiediamo al grande pubblico di non avvicinarsi al coccodrillo e di non disturbare il suo habitat», ha specificato Hasmar. Dovrebbe trattarsi di un raro coccodrillo siamese (Crocodylus siamensis), originario del Sud-est asiatico, specie a rischio di estinzione: è classificato come «gravemente minacciato» di estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), e si lavora incessantemente per salvarlo dalla scomparsa totale.. Il coccodrillo di Palu, lungo quattro metri, è sopravvissuto al terremoto e allo tsunami che hanno devastato la regione nel 2018. Negli anni scorsi sono stati effettuati diversi tentativi di soccorrerlo, nessuno dei quali è però andato a buon fine: gli ufficiali del BKSDA hanno cercato di attirare il coccodrillo con esche di carne e di catturarlo con una trappola.

Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 10 febbraio 2020. Nel 2013 si fece un gran parlare della condanna a carico di un cittadino canadese che, incurante dell' obesità del suo gatto, continuò a sovralimentarlo fino a fargli raggiungere il peso di 11 chili. Limitato nell' espulsione delle feci e nella deambulazione, Napoleone (questo il nome della bestiola) venne soppresso per intercessione dell' Ottawa Humane Society. Non sorprese l'inclemenza dimostrata dalla magistratura nei confronti del padrone dissennato, in quanto volta, oltre che a punire il reo, ad imbrigliare un fenomeno più che mai incipiente: il sovrappeso patologico di cani e gatti domestici, spesso determinato dai loro padroni. Stando a una statistica del 2014 ad opera dell' APOP (Associazione Americana per la Prevenzione dell' Obesità negli animali domestici), oltre il 50% dei cani e dei gatti statunitensi è obeso. Insomma, nella nazione in cui la pinguedine rappresenta una delle piaghe più allarmanti per l' uomo, neppure gli animali sono risparmiati dai fastidi dell' ipernutrizione, quasi a significare che essi si ingozzino con le stesse ghiottonerie dei loro amici bipedi. Ebbene sì, tra le principali cause dell' obesità felina e canina vi sarebbe l' ostinazione dei padroni a condividere il loro companatico, ricolmo di grassi e zuccheri, con i pelosetti di casa. Si guarda alle leccornìe quale premio d' amore, e nonostante esse contribuiscano sul momento alla gratificazione di micio e fido, nel lungo termine ne minano la salute: ipertensione arteriosa, osteoartrite e cancro sono solo alcune delle conseguenze ipotizzabili nel tempo. Mediamente si stima che, la tendenza dell' uomo ad adeguare le abitudini dell' animale domestico alle proprie, accorci la vita della bestiola di circa 2,5 anni. E la situazione sembra sfuggire di mano anche nella patria dell'equilibrio e della genuinità gastronomica: stando a un sondaggio condotto dalla Pet Obesity Task Force italiana per Hill's Pet Nutrition su un campione di 4.300 animali domestici europei (di cui 1.300 italiani), il 46% dei gatti ed il 36% dei cani del Vecchio continente è sovrappeso. Le percentuali del Belpaese, nel dettaglio, si suddividono in un 26% relativo ai felini e in un 28% ai canidi. A contribuire all' accumulo di adipe, oltre alla continua disponibilità di cibo, sono anche fattori quali sterilizzazione e sedentarietà; è questo il motivo per cui, buona norma, sarebbe abituare fido a lunghe passeggiate. Quanto al micio e alla sua proverbiale indolenza, vi si può sopperire disseminando dei giochini per casa, in modo che il gatto si senta stimolato a tenersi in attività. Il dott. Diego Iannelli - medico veterinario - afferma: «Un animale sovrappeso rischia di sviluppare diverse patologie; le più comuni sono i problemi cardiocircolatori, i problemi articolari e il diabete. Anche l' anestesia si rende più complessa su un esemplare grasso in quanto, essendo il dosaggio dell' anestetico proporzionale al peso, richiede quantitativi maggiori, con tutti i rischi del caso. Il problema è che si tende a viziare cani e gatti superando un fabbisogno alimentare dicui purtroppo, il padrone stesso, non sempre conosce la stima. Il forte appetito dei cani, peraltro, non rende facile capire quando siano sazi, poiché si rimpinzano volentieri ogniqualvolta hanno cibo a disposizione. Occorrono abitudini regolari e inflessibili, così da non cedere dinanzi alla golosità della bestiola: se a quest' ultima manca il senso della misura, non può che essere il padrone a rivendicarlo».

Impiccano cucciolo di rottweiler a Taranto: la denuncia dell'Enpa. È il terzo caso di violenza in pochi mesi, questo orrore deve finire. La Gazzetta del mezzogiorno il 31 Gennaio 2020. Persone da identificare hanno impiccato, uccidendolo, un cucciolo di rottweiler nella pineta di Lido Azzurro a Taranto. Lo comunica l’Ente nazionale protezione animali (Enpa), precisando di aver ricevuto una segnalazione da alcune ragazze che stavano facendo una passeggiata a cavallo. L’Enpa spiega che «si tratta del terzo caso di violenza e maltrattamento nel giro di pochi mesi. Questi orrori devono finire, servono punizioni più severe e una maggiore attenzione da parte del Comune nelle zone di degrado della città». Oltre ai volontari Enpa della sezione di Taranto, sono intervenuti i vigili urbani del Nucleo Ambientale e i veterinari della Asl. L’Enpa ha sporto denuncia contro ignoti e, in caso di processo ai responsabili, si costituirà parte civile. «Il povero cucciolo, vittima di questo gesto orrendo - sottolinea l'associazione - era un rottweiler di circa quattro mesi. Solo venti giorni fa i volontari dell’Enpa di Taranto sono intervenuti in un’altra zona della città per recuperare due cani massacrati di botte, trovati morti in un campetto abbandonato. Prima di Natale c'era stato ancora un caso di impiccagione di un cucciolo, stavolta un cane lasciato legato per incuria in un balcone».

Taranto, cucciolo di Rottweiler impiccato  in una pineta. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Emily Capozucca. Denuncia dell’ Ente nazionale per la protezione degli animali per un atto di crudeltà verso un cucciolo di circa 4 mesi, trovato impiccato nella pineta di Lido Azzurro a Taranto. Purtroppo non si tratta di un episodio isolato di violenza e maltrattamenti ma è il terzo nell’arco di pochi mesi. «Purtroppo tante volte non arriviamo in tempo. Sono pochi i casi in cui riusciamo a salvarli» ha dichiarato Rosanna Pisani, presidente Enpa Taranto. E purtroppo questo del Lido Azzurro a Taranto non è tra i casi fortunati. Una segnalazione è arrivata ai volontari dell’Ente nazionale per la protezione degli animali (Enpa) di Taranto da parte di alcune ragazze che passeggiando a cavallo nei pressi della pineta del Lido hanno trovato un cane senza vita appeso a una corda. Un cucciolo, un rottweiler di circa quattro mesi. «Questi orrori devono finire, servono punizioni più severe e una maggiore attenzione da parte del Comune nelle zone di degrado della città» ha dichiarato l’associazione che con la sua sezione di Taranto è intervenuta sul posto insieme ai vigili urbani e ai veterinari della Asl. L’ente ha sporto denuncia contro ignoti e si costituirà parte civile. Tra i recenti casi di maltrattamento verso poveri animali indifesi, sempre a Taranto l’Enpa, appena 20 giorni prima di questo terribile episodio, aveva recuperato due cani massacrati di botte, trovati morti in un campetto abbandonato. Un altro caso di impiccagione di un cucciolo (questa volta per un incidente, dovuto a incuria) invece si è verificato prima di Natale, con la corda con cui lo tenevano legato in balcone, nonostante i vicini di casa abbiano più volte e inutilmente provato ad avvisare i proprietari del rischio che il cane poteva correre. « Un cucciolo, in particolare, mi è rimasto nel cuore, due anni fa. — ha aggiunto Rosanna Pisani —. Si trattava di una segnalazione che arrivava da un bambino di 12 anni. Ci ha chiamato per un cane legato muso e zampe e lasciato fuori al caldo nel mese di agosto. Lo abbiamo salvato e ora è felice in una nuova famiglia».

Pulcini triturati vivi, la Francia dice basta. Il Dubbio il 29 gennaio 2020. Il ministero dell’agricoltura annuncia una legge che dal 2021 vieterà la crudele pratica degli allevamenti. Il plauso degli animalisti. Da fine 2021, in Francia sarà vietato triturare vivi i pulcini maschi e castrare i porcellini senza anestesia. Lo ha annunciato il ministro dell’Agricoltura Didier Guillaume all’emittente Bfmtv, aggiungendo che il governo sta lavorando ad un apposito piano per migliorare la salute degli animali d’allevamento. Il futuro testo introdurrà la tracciabilità del loro benessere, la garanzia di un trasporto sicuro e informazioni trasparenti ai consumatori sulle pratiche di produzione delle carni acquistate. Plauso delle associazioni animaliste francesi da tempo in lotta contro la pratica crudele della triturazione dei pulcini maschi, inutili per l’industria delle uova. Secondo stime concordanti, a essere colpiti ogni anno, nel mondo, sono 7 miliardi di esemplari macinati vivi, folgorati o asfissiati insacchetti di plastica perchè per i pulcini, «l’obiettivo è quello di spingere le aziende a porre fine alla pratica l’anno prossimo. Va trovata una tecnica che funzioni su grande scala. Anche la ricerca deve fare la sua parte per cercare di determinare il sesso già dall’uovo» ha dichiarato Guillaume. L’esecutivo francese ha chiesto al Centro nazionale di riferimento per il benessere animale di stabilire tutte le pratiche dolorose ancora in vigore nel Paese e identificare delle alternative. Per incentivare l’attuazione del futuro piano, il ministro dell’Agricoltura ha riferito che «i finanziamenti pubblici saranno indirizzati in modo prioritario verso attività rispettose dei comportamenti naturali degli animali da allevamento». La Francia diventerà così uno dei principali Paesi di allevamento al mondo a mettere al bandoq uesta controversa pratica, vietata in Svizzera dallo scorso settembre seppur poco diffusa nel Paese elvetico. In Germania,un tribunale amministrativo ha invece autorizzato il macello dei polli maschi fin quando non verrà trovato un metodo per determinare il sesso dell’embrione già dall’uovo. Lo scorso novembre, sia Parigi che Berlino si erano impegnate a porre fine al «massacro dei polli», portando questa linea anche nei negoziati in corso sulla futura Politica agricola comune dell’Ue. Per il ministro Guillaume i finanziamenti europei agli allevatori andranno condizionati al rispetto delle norme di benessere degli animali. Una direttiva Ue del 2009 autorizza la triturazione fintanto causa la morte «immediata» dei polli con meno di 72 ore di vita. In Francia il Partito animalista ha ottenuto il 2% dei voti alle ultime europee e presenterà una decina di liste alle elezioni municipali di marzo.

Da ilmessaggero.it il 10 gennaio 2020. Le immagini di una mucca che si "inginocchia" poco prima di essere portata al macello sono diventate virali sul social network cinese WeChat. Nel video l'animale, in stato di gravidanza, sembra addirittura "piangere", consapevole del triste destino che l'attende. La mucca sembra provare in ogni modo a convincere i lavoratori del mattatoio di Shantou, nella provincia del Guangdong, a salvarle la vita: missione compiuta, visto che il video ha scatenato la solidarietà dei social, che nel giro di pochi giorni hanno raccolto 25mila yuan (più di 3mila euro) per risparmiarla dal macello. La notizia, riportata dal magazine cinese The Paper, risale a domenica scorsa. L'animale è stato ora affidato a un tempio buddista locale, il Golden Lion Temple di Jieyang, dove continuerà a vivere. Secondo i media cinesi, la mucca si è mostrata così attaccata alla vita proprio perché incinta. 

Salvezza per i macachi, da accecare in nome della scienza. La Lav promuove una petizione. Questa sperimentazione molto crudele non sarebbe necessaria nell'analisi fatta dagli animalisti. Ma il Ministero insiste: "Rispettati i protocolli". Margherita D'Amico il 05 giugno 2019 su La Repubblica. Una petizione dal titolo #civediamoliberi  lanciata dalla Lav e una dolorosa video indagine realizzata sotto copertura da Essere Animali nel laboratorio di un'università italiana concorrono a chiedere la salvezza per sei macachi, destinati ad essere mutilati chirurgicamente nella capacità di vedere, infine soppressi, nell'ambito di una sperimentazione scientifica autorizzata e finanziata al Dipartimento di Psicologia dell'Università di Torino che la conduce in collaborazione con l'Università di Parma. L'appello si rivolge a Giulia Grillo, ministro della Salute, reclamando la revoca dei permessi concessi agli atenei e la cessione degli animali a un'oasi di recupero. "Per cinque anni gli animali saranno sottoposti a un training che prevede l'immobilizzazione forzata più volte al giorno, quasi tutti i giorni, assieme all'asportazione chirurgica di aree della corteccia visiva con lo scopo di renderli clinicamente ciechi" afferma la Lav. "Questo invasivo, doloroso e lungo esperimento dovrebbe servire a ricreare un modello animale per lo studio delle persone affette da blindsight, ovvero che abbiano perso la vista a causa di un danno cerebrale, e lo studio include volontari umani naturalmente portatori di questo tipo di cecità, i quali si sottopongono volontariamente a tecniche non invasive di rilevazione. Questo fa decadere ogni giustificazione del ricorso alle scimmie, di cui abbiamo chiesto ragioni e dettagli al Ministero della Salute con una richiesta di accesso agli atti più di un anno fa, senza però ricevere alcuna risposta." Dicono i ricercatori Luca Bonini per l'Università di Parma e Marco Tamietto, che per l'Università di Torino è principal investigator del progetto Light-up: "Gli animali non verranno accecati, sarà invece prodotta una macchia cieca, circoscritta a una zona di pochi gradi del loro campo visivo e limitata ad un solo lato, destro o sinistro. Tale operazione è necessaria e sufficiente per conseguire i risultati sperimentali. Al contempo, l’animale rimarrà in grado di vedere e spostarsi normalmente nell'ambiente, alimentarsi e interagire con i propri simili. Inoltre" aggiungono "il progetto Light-up è stato approvato e finanziato dallo European Research Council, l'ente di ricerca più prestigioso e rigoroso a livello europeo. Tutte le procedure e gli aspetti etici sono stati vagliati e autorizzati prima dal comitato etico dell'Unione Europea, poi dai comitati etici e dagli organismi per la tutela del benessere animale delle Università di Torino e Parma, infine dal Ministero della Salute. "Tutti gli organismi di valutazione etica e scientifica che hanno esaminato il progetto hanno infatti confermato che per raggiungerne gli obiettivi la sperimentazione animale è indispensabile, e hanno convenuto che i macachi sono l’unica specie utilizzabile. A differenza di altre scimmie meno evolute, l’organizzazione cerebrale del loro sistema visivo è la più comparabile a quello umano, consentendo così di estendere i risultati direttamente all'uomo." La biologa Michela Kuan, responsabile nazionale Area ricerca senza animali per la Lav, ribatte: "Asportare una parte della corteccia visiva significa accecare l'animale che di fatto, al risveglio, non ci vede più. Il Ministero della Salute ha classificato questa sperimentazione con la più grave classe di dolore prevista, la sofferenza prolungata e terribile degli animali non è dunque una nostra opinione. Se le autorizzazioni etiche sono così esemplari, perché da oltre un anno ci si nega di prenderne visione? Ricordiamo che quasi metà del cervello di macaco non è significativamente simile a quello umano, infatti i circuiti corticali si evolvono in modo indipendente nelle diverse specie, e questo ci appare un significativo errore metodologico, mentre si dovrebbero implementare tecniche innovative sull’uomo quali TMS, fMRI, elettrocorticografia (ECoG)/elettroencefalografia intracranica (EEG), magnetoencefalografia (MEG), registrazioni con microelettrodi di insiemi di cellule o singole unità, cortico-Cortical Evoked Potentials, diffusion tensor imaging."  "In base alla legge vigente, il Ministero della Salute può autorizzare la sperimentazione sui primati non umani solo in casi eccezionali" dice Simone Montuschi, portavoce di Essere Animali "ciò nonostante, in base agli stessi dati ministeriali, negli ultimi anni le concessioni sono raddoppiate, fino a raggiungere 586 uccisioni di scimmie, e 580.073 animali in tutto, nel 2017. Per questo e a maggior ragione chiediamo che questo doloroso e superfluo esperimento sia subito fermato."

Esperimenti su macachi, l'Università di Torino: "Attacco a libertà ricerca". Dopo l'ordinanza del Consiglio di Stato che sospende la sperimentazione. La Repubblica il 25 gennaio 2020. "Le prove richieste con urgenza dal Consiglio di Stato sono già state presentate a tutti gli organi competenti durante l'iter per il conseguimento delle autorizzazioni necessarie a selezione e finanziamento del progetto". Lo afferma l'Università di Torino in merito all'ordinanza che sospende il progetto Light-Up che coinvolge macachi nella sperimentazione sui deficit visivi umani. L'ateneo esprime "preoccupazione per la crescente messa in discussione del principio costituzionale della libertà di ricerca". "La preoccupazione diffusa nella comunità accademica, accresciuta dalla pendente vicenda giudiziaria, - afferma l'Università di Torino - si unisce a quella per la rapida degenerazione del clima mediatico negativo montante che è causa di ingiustificata lesione all'immagine pubblica della ricerca - bene pubblico di primaria importanza - e degli Atenei coinvolti (Torino e Parma, ndr). L'auspicio che formuliamo è che la libertà di ricerca pubblica venga riaffermata al più presto e con chiarezza dalle istituzioni". L'Università fa riferimento alla decisione del Consiglio di Stato ha disposto la sospensione provvisoria della sperimentazione in corso su sei macachi nell'ambito di un progetto delle Università di Torino e Parma sui deficit visivi umani. "È l'Ente che sperimenta a dover provare che non esistono alternative a una sperimentazione invasiva sugli animali e foriera di sofferenze che la normativa europea e nazionale sul benessere animale, anche nelle sedi di sperimentazione, prescrive di evitare o ridurre entro rigorosi parametri fisiologici", è scritto nell'ordinanza 230 adottata dal Consiglio di Stato. Secondo la Terza Sezione del Consiglio di Stato è il Ministero della Salute che "deve, con massima urgenza, fornire tale prova sull'impossibilità di trovare alternativa ad una sperimentazione invasiva sugli animali nonché depositare una dettagliata relazione sulla somministrazione agli animali oggetto di sperimentazione di liquidi e cibo sufficienti, astenendosi da misure che finiscano per trasformare la doverosa erogazione di cibo e liquidi in forma di premio per asservire la volontà di animali sensibili come i primati". La decisione è provvisoria, in quanto adottata in sede cautelare in attesa che si pronunci sul merito il Tar del Lazio, che invece aveva respinto la richiesta di sospendere in via d'urgenza la sperimentazione. A presentare ricorso anche contro il Ministero della Salute era stata la Lav.

Koala in Australia: dopo gli incendi sono a rischio alluvioni. Martino Grassi il 18/01/2020 su Notizie.it.  Non c’è pace per i Koala australiani che sono riusciti a sopravvivere ai devastanti incendi che hanno messo in ginocchio l’intero paese, adesso sono a rischio per le inondazioni. Se da un lato, le piogge torrenziali che stanno cadendo in questi giorni sull’Australia hanno concesso un po’ di tregua ai vigili del fuoco impegnati nello spegnimento degli incendi che hanno distrutto il paese, dall’altro stanno mettendo a rischio i koala che si sono salvati, fuggendo dalla zone boschive. Dopo un lungo periodo di siccità si stanno registrando delle vere e proprie bombe d’acqua, soprattutto nelle zone meridionali, facendo scattare l’allarme inondazioni. Le abbondanti precipitazioni secondo gli esperti possono essere anche la causa di frane, contaminazione delle acque dai detriti e possono rendere difficoltosi gli interventi di soccorso dei vigili del fuoco.

Koala a rischio per le inondazioni. I numeri parlano da soli, nell’ultimo periodo, L’Australia ha visto morire più di 400 milioni di animali. Sono i koala la specie più colpita, molti dei quali morti bruciati vivi, ed i sopravvissuti hanno visto spazzare via il loro habitat. Secondo il governo australiano i piccoli marsupiali potrebbero essere inseriti nella lista delle specie a rischio. I media locali riferiscono delle “scene apocalittiche” su tutta l’isola, ed è iniziata una vera e propria corsa contro il tempo per salvare il maggior numero di animali dalle fiamme e delle inondazioni.

Paura nel Parco dei rettili. Nel Parco dei rettili, nel Nuovo Galles del Sud, la situazione è davvero drammatica, tutti gli operatori, con l’acqua fino alle ginocchia, sono costretti ad adagiare su alberi di gomma a tenere in braccio i piccoli marsupiali ed altri animali per salvarli. Le abbondanti precipitazioni hanno innalzato al di sopra della soglia di sicurezza anche il livello dell’acqua in cui sono gli alligatori, con il rischio che possano scappare.

Incendi Australia, l’allarme del Wwf: «Aiutateci a salvare gli ultimi koala». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Sala. Le immagini dei koala che cercano di scampare alle fiamme che da giorni devastano l’Australia - e che hanno già causato la morte di una trentina di persone e migliaia di sfollati - hanno commosso tutti. Ma la situazione è ancora più drammatica di quanto si possa percepire: la specie si è pericolosamente avvicinata alla soglia dell’estinzione. Già prima degli incendi poteva contare nel complesso solo su circa 80 mila esemplari. Ma diverse migliaia di questi — il numero è ancora difficile da quantificare — hanno perso la vita tra le fiamme o per effetto del fumo. A lanciare l’allarme è il Wwf, che ha avviato una campagna internazionale di raccolta fondi per il ripristino dell’ambiente e per il sostegno dei centri di recupero in cui migliaia di volontari stanno portando gli animali sottratti ai roghi.

L’emergenza non riguarda solo i koala, che sono colpiti doppiamente, dalle conseguenze immediate degli incendi e dalla scomparsa di migliaia di ettari di foreste di eucalipti, che sono la loro principale forma di sostentamento. Ad essere decimati sono anche opossum, canguri, wallaby, vombati, ornitorinchi, echidna e molti marsupiali rari, come l’antechino e il bandicoot, o specie che sono presenti solo nel continente australiano e per questo ancora più a rischio, come il Potoroo dai piedi lunghi (un marsupialeche vive solo nelle foreste umide e temperate dell’Australia sud-orientale) o la volpe volante dalla testa grigia, uno dei pipistrelli più grandi della terra. Complessivamente si stima che fino ad ora siano rimasti uccisi qualcosa come 1,23 miliardi di animali selvatici. «Ogni specie che scompare è na perdita inestimabile — commenta Isabella Pratesi, direttore Conservazione del Wwf Italia —. Dal punto di vista etico ed ecologico rappresenta un tassello fondamentale dell’attuale rete della biodiversità della terra e ha un ruolo unico nel delicato equilibrio dell’ecosistema in cui vive. La perdita di una sola specie può avere effetti disastrosi su moltissime altre a cui è legata da varie e complesse interazioni. Basti pensare al ruolo che molte specie frugivore svolgono nella disseminazione dei semi dei frutti o il ruolo che molti predatori hanno nella regolazione della densità delle specie erbivore». Per coadiuvare le attività di soccorso degli animali e per aiutare i centri dove vengono ricoverati l’associazione del panda ha attivato un numero solidale, il 45585, tramite cui fino al 29 gennaio sarà possibile effettuare donazioni: di 2 euro per ogni sms inviato dai cellulari tramite tutti i principali operatori e di 5 o 10 euro per le chiamate effettuate da rete fissa. I fondi serviranno anche per la messa a dimora delle prime 10 mila piante del progetto «Due miliardi di alberi per l’Australia», che si propone di ricreare gli habitat delle specie minacciate entro il 2030, anno simbolo per l’attuazione degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici. Il Wwf parla di «disastro annunciato» e ricorda come l’aumento delle temperature e il conseguente aumento del rischio incendi, era previsto da tempo. Nel 2013 un rapporto del Consiglio climatico dell’Australia , coordinato da Will Steffen, uno dei maggiori esperti mondiali in materia, evidenziava che nel decennio successivo al 2013 sarebbe stato molto probabile un aumento fino al 65% del numero di giorni con rischio estremo di incendio. «Quello che sta accadendo oggi, davanti ai nostri occhi, mostra i terribili danni che il negazionismo climatico ha provocato e sta ancora provocando — spiega una nota dell’associazione —. Chi lavora per l’inazione e il rinvio si macchia di crimini contro natura, che ormai si stanno traducendo in crimini contro l’umanità».

Incendi in Australia, allarme per le rarissime api liguri, ormai estinte in Italia. Luca Francescangeli il 16 gennaio 2020 su it.mashable.com. Appena arrivato con il traghetto a Penneshaw erano i colori e gli odori a darti il benvenuto a Kangaroo Island, l’Isola dei Canguri. Kangaroo Island era un paradiso di flora e fauna, un luogo unico al mondo. Qui residenti e turisti sembravano più dei rispettosi coinquilini, che dei padroni di casa. Ma in questi giorni l’isola è radicalmente cambiata, devastata dagli incendi che hanno colpito duro, soprattutto dall’inizio del nuovo anno. Secondo le ultime notizie, infatti, almeno metà dell’isola è bruciata, oltre 215 mila ettari andati in fumo (circa metà Molise, per capirci). La meravigliosa onda verde del parco nazionale di Flinders Chase è ormai solo un ricordo. Un ricordo ben impresso nella mia mente, insieme al mare di koala (circa 50 mila), canguri, wallaby e quokka che qui vivevano liberi, attraversando – di continuo e con un certo rischio – le strade in terra battuta rossa. Tra i tanti animali messi a rischio dagli incendi di Kangaroo, ce n’è uno poco noto ma che arriva direttamente dall’Italia. O meglio i cui antenati arrivarono via mare dall’Italia. Sono le api liguri, una specie di api nostrane, che dal 1885 si sono insediate stabilmente sull’isola, dichiarata poi santuario proprio per questo utilissimo e raro insetto. Queste api, infatti, esistono praticamente solo sull’Isola dei Canguri. In Italia sono scomparse. Adesso circa un quarto degli alveari di Kangaroo Island potrebbero essere stati persi negli incendi boschivi. Un patrimonio importantissimo per l’apicoltura mondiale, tanto che gli apicoltori italiani dell’ Unione Nazionale Associazioni Apicoltori Italiani si sono mobilitati per aiutare i loro colleghi australiani in difficoltà: “Purtroppo siamo solo all’inizio della stagione calda e già un quarto del patrimonio apistico dell'isola risulta perso a causa delle fiamme – ci spiega Francesco Panella, apicoltore e portavoce dell’associazione degli apicoltori - L'azienda apistica più grande è Island Beehive (1000 alveari a conduzione biologica) di proprietà di Peter Davis, decano dell'apicoltura. La sua azienda ha perso 400 alveari e il 90 per cento dei siti da loro utilizzati per le postazioni degli apiari è stato seriamente compromesso. Ciò significa che la vegetazione non darà nettare per numerosi anni a venire. È importante sostenere la rapida ricostruzione dell’ecosistema e per chi volesse dare il suo contributo abbiamo selezionato alcune campagne di raccolta fondi sicure”. Personalmente ho avuto la fortuna di visitare due anni fa la bee farm della famiglia Clifford (per ora scampata agli incendi e ancora operativa, come raccontano sulla loro pagina Facebook Clifford's Honey Farm). Quello che subito colpiva dei Clifford era il loro orgoglio nel lavorare con delle api davvero speciali, raccontando molto volentieri (soprattutto a noi italiani) la storia avventurosa di questi insetti, che avevano trovato una nuova vita su un’isola dall’altro capo del mondo. Una vita adesso a grandissimo rischio.

La legge degli umani? Lo sterminio. Il caso dei 10mila dromedari australiani. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 da F. Rondolino su Corriere.it. Le immagini drammatiche che giungono dall’Australia, devastata dalla siccità, dal caldo spaventoso e da incendi apocalittici, suscitano commozione e preoccupazione in tutto il mondo: ma non avrei mai saputo immaginare che, fra le misure prese per fronteggiare l’emergenza, potesse esserci anche il massacro dei dromedari selvatici, colpevoli di avere troppa sete e di compiere qualche danno mentre cercano di dissetarsi. La strage è cominciata mercoledì scorso, e durerà secondo i piani fino a domenica: una squadra di tiratori scelti, a bordo di elicotteri appositamente predisposti, ha avuto l’incarico di assassinare – pardon, «abbattere» – 10.000 dromedari in una remota regione sperduta nell’angolo nordoccidentale del South Australia che si chiama Terre di Anangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara, è più grande del Portogallo ed è popolata da appena 2300 umani, in stragrande maggioranza aborigeni. È stato il governo locale a deliberare la strage, sostenendo in un comunicato ufficiale che «la pressione sulle comunità aborigene» dei dromedari (e di altri «animali selvatici») si è fatta intollerabile, e che nelle «attuali condizioni di siccità» è necessario «porre sotto controllo la popolazione dei dromedari» – cioè sterminarli. Marita Baker, che fa parte del governo locale, ha spiegato a The Australian che la sua comunità è stata «inondata» di animali in cerca di acqua: «Siamo bloccati in condizioni disagevoli e nel caldo torrido – ha aggiunto – e ci sentiamo a disagio perché i dromedari arrivano e abbattono le recinzioni, girano fra le case e cercano di procurarsi l’acqua dai condizionatori». Il ragionamento non fa una grinza: la mia aria condizionata (che tra l’altro contribuisce attivamente al riscaldamento globale) vale la vita di diecimila animali. Erano stati gli inglesi, a metà dell’Ottocento e poi a ondate successive fino al 1920, a importare in Australia cammelli dall’Afghanistan e soprattutto dromedari dalla penisola arabica, da usare come animali da soma nella colonizzazione dell’outback – lo sterminato deserto australiano – e nello sfruttamento delle sue risorse minerarie. Perfettamente adattati al clima arido e desertico, docili e assai parchi nei consumi, i dromedari hanno avuto un ruolo essenziale nello sviluppo dell’Australia, trasportando merci di ogni genere, nonché cibo e acqua nelle regioni più remote, e facilitando la costruzione dell’infrastruttura telegrafica e ferroviaria del paese. Negli anni Trenta del secolo scorso la motorizzazione dei trasporti li rese inutili: molti di loro, lasciati in libertà, si sono rapidamente inselvatichiti e, in assenza di predatori naturali, si sono moltiplicati fino a raggiungere, oggi, la cifra stimata di un milione di esemplari. Molti? Pochi? Per farsi un’idea, bisogna ricordare che l’Australia è grande il doppio dell’India e non raggiunge i 25 milioni di umani. A occhio, dovrebbe esserci posto per tutti. Ma l’aspetto che mi colpisce di più nella notizia del massacro dei dromedari del South Australia, e che suggerisce una riflessione più generale, non è la disinvoltura delle motivazioni (il rischio di rimanere senza aria condizionata) e neppure la scelta in sé di difendersi con le armi: sono le modalità e le dimensioni del massacro che mi sconvolgono. Provo a spiegarmi: se un dromedario ti capita in cortile nel bel mezzo di una siccità e si avventa sulla tua provvista d’acqua, hai tutto il diritto di difendere con ogni mezzo la tua acqua, perché è la tua vita. E se non riesci a scacciare il dromedario in nessun modo, posso anche capire che tu decida di sparargli. Da un punto di vista squisitamente etologico, l’azione è del tutto giustificata: quando le risorse sono scarse e non bastano per tutti, ad appropriarsene è il più forte. Può non piacere, ma è la legge della natura. La legge degli umani invece è un’altra: è lo sterminio. Noi non ammazziamo il singolo dromedario che mi entra in cortile e neppure i dieci o i cinquanta che vagano per il villaggio: no, noi mobilitiamo uno stormo di elicotteri carichi di tiratori scelti e di dromedari ne ammazziamo diecimila in cinque giorni. Diecimila: quattro per ogni abitante di un pezzo di deserto più grande del Portogallo. Lo sterminio – cioè la distruzione indifferenziata di chiunque rientri in una determinata categoria considerata dannosa, che siano dromedari australiani o tutsi ruandesi – è una caratteristica esclusivamente umana. Non ha alcuna giustificazione evolutiva, non esiste in natura, non ha una spiegazione etologica: è il Male. A chi compie un atto efferato non bisognerebbe dire: «Sei una bestia», ma, più correttamente: «Sembri un uomo».

Friuli Venezia Giulia, la strage degli sciacalli dorati sulle strade: 15 esemplari investiti e uccisi in un anno. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Greta Sclaunich. Sembra un grosso cane (e infatti fa parte della famiglia dei canidi) ma è molto più raro. Anzi, lo sciacallo dorato o Canis aureus è il carnivoro più raro d’Italia dopo la lince. Secondo le stime fornite dallo zoologo Luca Lapini del Museo di Storia Naturale di Udine ce ne sarebbero meno di 85 esemplari al massimo tra Friuli Venezia Giulia, Veneto e Alto Adige (ma in queste due regioni in misura minore). E potrebbero diminuire ancora: nel 2019 ben 15 esemplari sono stati investiti e uccisi sulle strade del Friuli Venezia Giulia. Un trend che non accenna a fermarsi, dato che nei giorni scorsi ne è stato trovato un altro, in un raccordo autostradale nel Carso triestino. «Una mortalità elevata come quella dell’anno scorso corrisponde ad almeno il 10% dell’intera popolazione italiana: è un numero alto, bisognerebbe intervenire prima che lo sciacallo dorato rischi di scomparire dall’Italia», spiega l’esperto al Corriere. Lo sciacallo dorato è un canide originario dell’Asia di 12-15 chilogrammi di peso: la specie è arrivata in Italia dai Balcani nel 1984 a seguito della decimazione del lupo balcanico, suo naturale antagonista. Così, mentre il lupo (per il quale viene a volte scambiato, anche se è più piccolo) diventava sempre più raro, lo sciacallo dorato si espandeva - non solo in Italia ma anche in tutto il subcontinente europeo. Con il recente ritorno del lupo nel Triveneto gli equilibri sono cambiati di nuovo: Lapini ipotizza una possibile coabitazione delle due specie, prevedendo che nel medio-lungo periodo lo sciacallo si spingerà nelle zone più antropizzate, come i delta fluviali e le zone umide di pianura. Negli ultimi due anni sciacalli dorati sono stati avvistati anche in Lombardia, (Val Brembana, Provincia di Bergamo) e in Emilia Romagna (Provincia di Modena). Si tratta però di presenze isolate perché, come riporta Lapini, «è possibile stimare che nel nostro paese siano attualmente presenti al massimo 85 esemplari, suddivisi in almeno 10-17 gruppi riproduttivi, apparentemente distribuiti soltanto nel Triveneto». Dove, però, non mancano i rischi. Che non sono legati solo alla mortalità stradale (dal 2017 al 2019 gli incidenti hanno provocato almeno una trentina di vittime): l’esperto punta il dito anche contro gli abbattimenti illegali e la dispersione di esche avvelenate. «Per quanto riguarda gli incidenti, si può intervenire posizionando dei dissuasori sui bordi dei punti più a rischio. Per quanto concerne gli abbattimenti, bisogna invece intervenire sulla percezione pubblica di questi animali: lo sciacallo dorato non è pericoloso come molti credono», conclude.

Animali, la prima specie estinta nel 2020 è il pesce spatola cinese. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Lungo fino a 7 metri, viveva nel fiume Yangtze. Purtroppo nessun esemplare è conservato nemmeno in acquario. L’annuncio di «Science of The Total Environmental». Sono passati pochi giorni dall’inizio dell’anno e già è giunta notizia della prima specie estinta del 2020. Si tratta del pesce spatola cinese (Psephurus gladius, o Chinese Paddlefish in inglese) che vive(va) nel fiume Yangtze in Cina. Lo ha reso noto la rivista specializzata Science of The Total Environmental. L’Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) non ha ancora ufficializzato l’estinzione e si attende una comunicazione nel prossimo mese di giugno. L’estinzione, secondo gli autori dello studio guidati da Hui Zhang dell’Accademia cinese delle scienze ittiche, è avvenuta tra il 2005 e il 2010, ma già nel 1993 la specie era considerata funzionalmente estinta, cioè non era più in grado di riprodursi. Il pesce spatola cinese era lungo fino a 7 metri e pesava fino a 300 chili, tra i più grandi pesci di acqua dolce del mondo. Era uno dei due unici discendenti — l’altro vive in America — di una linea evolutiva diversificata e molto diffusa tra 75 e 34 milioni di anni fa. Un tempo comune nel bacino dello Yangtze, uno dei fiumi più inquinati al mondo e sbarrato da enormi e numerose dighe come quella delle Tre Gole, fino agli anni Settanta veniva pescato in quantità: circa 25 tonnellate all’anno. Ma già alla fine di quel decennio, a causa della pesca eccessiva, della sovrappopolazione e dello smembramento del fiume in bacini sempre più piccoli, la presenza dello Psephurus gladius subì un drastico crollo. Una campagna di studio condotta tra il 2017 e il 2018 rinvenne 332 specie di pesci nello Yangtze, ma di altre 140 storicamente presenti non si trovò traccia. Purtroppo del pesce spatola cinese non esistono esemplari negli acquari e nemmeno sono stati conservati tessuti con cellule potenzialmente viventi. In pratica lo abbiamo perso per sempre.

Gabbie più ampie e morte senza dolore per i conigli negli allevamenti. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Sala. L’Efsa invia alle istituzioni Ue le raccomandazioni sul miglioramento delle condizioni di «welfare» per gli animali destinati alla produzione alimentare. Aumentare lo spazio vitale durante il periodo di detenzione, prevedere sistemi di controllo della temperatura che permettano loro di non soffrire troppo il freddo o il caldo, evitare i periodi prolungati di privazione del cibo o dell’acqua, garantire loro una morte dignitosa, assicurandosi in particolare che i sistemi di stordimento che precedono la macellazione siano veramente efficaci. Saranno anche «solo» conigli destinati a morire, ma prima che ciò avvenga hanno tutto il diritto di vivere in maniera dignitosa. E affinché questo accada è opportuno che vengano predisposti tutti gli accorgimenti necessari per migliorare le condizioni di «welfare» negli allevamenti, durante il trasporto e negli impianti di macellazione. Le indicazioni sono contenute in due pareri che l’Efsa, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare che ha sede a Parma, ha prodotto su richiesta del Parlamento e della Commissione Europea e sulla base dei quali sarà possibile ragionare in vista di una revisione delle normative in materia. Perché nonostante i conigli siano, per numero di capi, i secondi animali più allevati (principalmente in cinque Paesi: Francia, Ungheria, Italia, Portogallo e Spagna) non esiste una legislazione specifica, come nel caso delle galline ovaiole, dei polli, dei suini e dei vitelli . Ci si affida dunque alle norme generiche per la protezione degli animali da allevamento di cui la Ue si è da tempo dotata (la direttiva è del 1998 ed è considerata una delle più avanzate), che tuttavia non sempre tengono conto delle esigenze specifiche di ogni singola tipologia di allevamento. Per questo lo scorso luglio l’allora presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, si era fatto promotore della richiesta all’Efsa, sollecitato anche dalla commissione agricoltura. Per l’elaborazione dei pareri sono stati predisposti due panel di studiosi e sono stati coinvolti 122 esperti di conigli di tutta Europa nella raccolta di tutti i dati e i suggerimenti disponibili sull’allevamento dei conigli nell’area europea. Quello che è emerso è in primo luogo la mancanza di dati omogenei e una delle principali osservazioni inviate alle istituzioni Ue riguarda proprio la necessità di monitorare in modo scientifico la situazione per potere aggiornare costantemente le politiche sul benessere degli animali. Ma già da subito è possibile fare qualcosa. La principale raccomandazione che arriva da Efsa è legata all’allargamento e al miglioramento strutturale delle gabbie, perché la costrizione e l’impossibilità di movimento è stata individuata come uno dei 20 fattori di rischio per la salute fisica e psichica dei conigli allevati. Va detto che esistono già oggi diversi metodi di allevamento, che vanno dalle piccole gabbie tradizionali, considerate la situazione peggiore per gli animali adulti che non hanno modo di muoversi, ai metodi biologici che prevedono ampi spazi e maggiore attenzione all’alimentazione. Non a caso l’Efsa rivela che queste ultimi garantiscano condizioni di welfare «generalmente buone». Per i cuccioli ancora non svezzati, invece, le condizioni migliori si riscontrano nelle conigliere rialzate, mentre l’allevamento all’aperto comporta per loro rischi di stress termico. Sono tanti gli aspetti su cui è possibile intervenire. I due dettagliati pareri — un centinaio di pagine ciascuno —, a cui ne seguirà un terzo a breve sugli abbattimenti di conigli non destinati a produzione alimentare, forniscono una serie di raccomandazioni utili. Bocciate le gabbie convenzionali. , si chiede il passaggio quanto meno alle cosiddette gabbie «arricchite», che prevedono uno spazio leggermente maggiore e la presenza di oggetti da rosicchiare, e in generale la riduzione dell’affollamento degli ambienti di allevamento. Quanto alla fase di macellazione, viene evidenziata, tra l’altro, l’importanza di affidare le procedure a personale preparato, che sappia individuare con certezza eventuali animali ancora coscienti dopo lo stordimento, affinché non vengano avviati a macellazione o scuoiamento mentre sono ancora in grado di provare dolore.

·        Azioni di tutela degli animali.

 

La lunga battaglia per salvare le giraffe dall'estinzione. Belle, eleganti e amate, ma rischiano di sopravvivere soltanto negli zoo. Il piano di un gruppo di scienziati per tutelare i mammiferi in pericolo. Luigi Guelpa, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. La giraffa è quasi a terra. Due uomini hanno teso una grossa corda nera davanti alle sue zampe per farla inciampare. L'animale sbatte contro la corda e sembra che il piano stia funzionando quando si riprende e ricomincia a correre. Il suo corpo oscilla avanti e indietro come un cavallo a dondolo. Altre sei persone afferrano le estremità della corda e le corrono dietro, tenendosi stretti e cercando di contrapporre la loro esigua forza al suo peso. Non ci sarebbe storia se nelle vene dell'animale non scorresse il tranquillante. La giraffa rallenta, barcolla e slancia le zampe di sghembo all'indietro, ma il suo collo lungo due metri è ancora rivolto decisamente verso il cielo. Una donna le salta addosso da dietro, le atterra sul collo e con un placcaggio degno di un rugbista la trascina a terra. Le persone che l'hanno sedata e fatta cadere sono un gruppo di scienziati, veterinari e guardie forestali che studiano le giraffe nelle poche zone del mondo in cui ancora vivono. Questi animali sono così familiari e amati da tutti che verrebbe da credere che il loro numero sia stabile e il futuro assicurato. Nessuna delle due cose è vera. Le ultime stime sullo stato delle giraffe ci dicono che negli ultimi 30 anni la popolazione in Africa è diminuita fino al 40 per cento e questo trend negativo non sembra fermarsi: attualmente sono solo circa 68mila (erano 140mila) gli esemplari rimasti liberi in natura. Ci sono almeno quattro elefanti africani per ogni giraffa, eppure continua imperterrita una sorta di discriminazione nei confronti di questo meraviglioso animale. Per gli altri, che stanno scomparendo, si moltiplicano appelli, raccolte di firme, petizioni. Per le giraffe, nulla. Silenzio assoluto. Come mai viene considerata di fatto un animale di serie B? Perché non interessa a nessuno la sua salvaguardia e la sua riproduzione? Le risposte sono diverse. Innanzitutto, la giraffa è un animale che piace molto, specie ai bambini, ma proprio per questo scatta un effetto paradossale: viene considerata sana e salva, senza pericoli. Tra l'altro ve ne sono ancora tante negli zoo e quindi, a forza di vederle, non sembrerebbe che ci sia un pericolo di estinzione. In secondo luogo, la giraffa, con quella sua particolare anatomia da animale immaginario, sette metri di altezza e la testa sempre in alto a brucare foglie di acacia, è meno reale di quanto appaia. Quasi un fantasma. Anche per gli ambientalisti più agguerriti che si occupano in modo specifico di proteggere gli animali dai soliti pericoli. Per assicurare un futuro alle giraffe, i ricercatori hanno bisogno di alcune informazioni basilari sui loro spostamenti. Qualche risposta la danno i localizzatori gps, ma per metterne uno su una giraffa bisogna prima catturarla e atterrarla. Per anestetizzarla di solito si usa l'etorfina, un oppioide mille volte più potente della morfina, ma alcune giraffe resistono a dosi che abbatterebbero di schianto un elefante. «Vogliamo che si rialzi al più presto», spiega Sara Ferguson, veterinaria della Ong Giraffe Conservation Foundation, la donna che le è saltata addosso per stenderla a terra. Ferguson e i suoi colleghi stanno cercando di capire perché le giraffe siano in pericolo e come salvarle prima che sia troppo tardi. Stanno percorrendo le poche zone dell'Africa in cui ancora vivono, per attaccare i localizzatori a centinaia di esemplari. È un'attività divertente, ma anche pericolosa, sia per per le persone sie per le giraffe. Julian Fennessy, fondatore e direttore della Ong, è guarito solo di recente dalla frattura di tre costole e da una slogatura alla spalla che si è procurato quando era stato travolto da una giraffa che stava cadendo. «Sono gli imprevisti del mestiere - minimizza -. L'importante è fissare il localizzatore». Quando Fennessy ci pratica un foro, l'animale quasi non reagisce. Fa passare un bullone d'acciaio attraverso il pertugio e aggancia il congegno. Si tende a dare per scontato che il maggior pericolo per le giraffe siano i bracconieri. In effetti gli uomini uccidono le giraffe con fucili, archi e lance. Incastrano le loro zampe in trappole circolari bordate di spine o punte di metallo. L'anno scorso in Uganda Sara Ferguson ha liberato decine di giraffe. «Abbiamo ripulito un'intera zona e il giorno dopo era di nuovo piena di trappole - racconta -. Diversamente dagli elefanti e dai rinoceronti, le giraffe non vengono uccise per rifornire il grande mercato internazionale illegale di parti del corpo. In paesi come il Kenya in genere vengono uccise per la loro carne, per sfamare se stessi, le famiglie e i villaggi». Ma il bracconaggio è solo uno dei molteplici pericoli: con l'espandersi degli insediamenti umani, quello della fauna selvatica si contrae, e dato che una maggior estensione di terra è dedicato all'agricoltura e all'allevamento, alle giraffe restano poche risorse. Già confinate nelle zone più aride, dovranno affrontare per via dei cambiamenti climatici stagioni dalle piogge più brevi e irregolari, oltre a periodi di siccità più intensi e prolungati. Una serie di concause che danneggiano il sistema immunitario degli animali rendendoli più vulnerabili alle malattie. L'equipe che sta piazzando i localizzatori spera che i dati possano tornare utili. Registrare gli spostamenti delle giraffe può aiutare le organizzazioni che si occupano della conservazione della fauna selvatica a individuare le zone che richiedono una maggior protezione. «Per scongiurare l'estinzione - sottolinea Maureen Kamau, direttrice dello Smithsonian biology institute della Virginia - si deve per forza incoraggiare la loro coesistenza con gli esseri umani. Stiamo studiando percorsi per rendere la loro presenza più conveniente della loro carne. Offriremo alle popolazioni locali prestiti, costruiremo pozzi e forniremo l'opportunità di sfruttare l'ecoturismo. È un passaggio fondamentale. Altrimenti, entro trent'anni, le uniche giraffe presenti al mondo saranno quelle in cattività negli zoo. Uno scenario orribile».

 Il Santuario dei Cetacei è invaso dalla plastica: chi inquina la fa franca e le istituzioni dormono. Nel 2015, oltre 60 tonnellate di rifiuti sono stati sversati nell'oasi marina protetta. Da quel giorno è iniziato un rimpallo delle autorità con un solo risultato: la spazzatura è rimasta lì e chi ce l'ha messa non ha avuto alcun problema. DEBORA FERRETTI - UNITÀ INVESTIGATIVA GREENPEACE il 25 giugno 2020 su L'Espresso. In Italia chi inquina non paga. E l'accollo finisce sulle spalle dello Stato, quindi sulle nostre. Da cinque anni una cinquantina di gigantesche balle di rifiuti giace nelle profondità nel Santuario dei Cetacei, un'area marina protetta dove nuotano delfini, balene e altre meravigliose creature. Nel tempo gli involucri di plastica che contenevano i rifiuti si sono completamente deteriorati e ora la plastica si sta diffondendo nelle acque e sui fondali del Golfo di Follonica, rilasciando soprattutto frammenti di plastiche. Un disastro ambientale che tutte le autorità conoscono, eppure nessuno ha cominciato a recuperare le balle se non i pescatori che le catturano nelle reti. Greenpeace ha condotto un'inchiesta che evidenzia come ambiente e salute pubblica non sempre sono al centro dell'attenzione delle istituzioni. Per rivendicare in maniera concreta i diritti dell'ambiente e dei cittadini e per definire responsabilità, errori e incompetenze nella vicenda delle “balle nel Santuario”, Greenpeace ha deciso di procedere con un esposto alla Corte dei Conti per danno erariale nei confronti della Regione Toscana, che aveva in mano quasi 3 milioni di euro per avviare il recupero delle balle e li ha restituiti.

La Storia. Il 23 luglio 2015 la motonave Ivy salpa da Piombino diretta a Varna, in Bulgaria, con un carico di 1.888 balle di rifiuti di plastica da incenerire. A causa di un'avaria, un'ora dopo la partenza il Comandante dà ordine di sversare in mare 56 balle. È così che 65 tonnellate di plastica finiscono nelle acque protette del Santuario dei Cetacei. Dell'incidente nessuna autorità marittima sa niente fino al 31 luglio, quando una balla finisce accidentalmente nelle reti di un peschereccio nel Golfo di Follonica. Inizia qui la sequela di gravi inadempienze e omissioni da parte dell'Autorità pubblica, oggetto della nuova inchiesta dell'Unità Investigativa di Greenpeace. Mancanze ed errori che hanno portato all'attuale stato di crisi ambientale, dichiarato da Ispra lo scorso 4 maggio. Ad oggi, infatti, sono riemerse in maniera accidentale 16 balle (l'ultima lo scorso 17 giugno), il che significa che oltre 45 tonnellate di rifiuti in plastica si trovano in mare da quasi 5 anni, con gravissime ripercussioni sull'ecosistema marino. «Che tutto ciò poi succeda nel Santuario dei Cetacei, che il ministero dell'Ambiente include fra le aree marine protette, è un'ulteriore aggravante: confermare che si può impunemente usare un'area protetta come una discarica di rifiuti destabilizza l'intero sistema legislativo a protezione dell'ambiente, e del mare in particolare» dice Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace. La Ivy arriva a Varna il 2 agosto e si procede allo scarico: mancano 56 balle. La Guardia Costiera di Piombino riceve notizia dell'ammanco dal notificatore della spedizione transfrontaliera, la Eco Valsabbia srl, società amministrata da Sergio Gozza, nome che ricorre spesso quando si tratta di spazzatura. Nonostante l'evidenza dei reati commessi da Sinan Ozkaya, in Comandante della nave Ivy - mancata comunicazione di sinistro e inquinamento ambientale - e l'urgenza di intervenire per bonificare la zona compromessa, la capitaneria di porto di Piombino non dà comunicazione alla Procura. Quali sono le azioni che avrebbe dovuto intraprendere la Capitaneria di Piombino? Così dichiara il senatore Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di Porto di Livorno fino al 2014 e noto alle cronache per la diligenza dimostrata nel gestire il naufragio della Costa Concordia: «Con il ritrovamento della balla la Capitaneria avrebbe dovuto fare indagini, verificare, perlomeno riferire alla Procura, come impone il codice di procedura penale». E questa è solo la prima tessera del domino di omissioni messe in luce dall'Unità Investigativa di Greenpeace. Nel settembre 2015 la Procura di Grosseto apre un procedimento penale a carico del Comandante della Ivy. Il procedimento riceve richiesta di archiviazione nel maggio 2016 e viene definitivamente archiviato nel novembre 2019 perché il pubblico ministero Anna Maria Navarro precisa che «non si tratta di rifiuti ma di materiale lavorato destinato alla Bulgaria».

Inchieste infinite. Insomma, secondo il tribunale, i rifiuti sono improvvisamente diventati merce. Anche se, in base a quanto afferma la giurista ambientale Paola Ficco, non dovrebbe essere così: «Fermo restando che i rifiuti possono essere merci, tanto che ne esiste una compravendita, sotto il profilo legislativo viene considerato rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfa, ha l'intenzione o l'obbligo di disfarsi”. Il codice con cui è stato identificato quel materiale (il codice Cer accompagnato dall'allegato VII) rende evidente l'intenzione del detentore di disfarsene. Si tratta di una circostanza inequivocabile: il materiale è da qualificarsi giuridicamente rifiuto a tutti gli effetti». La Procura di Livorno ha recentemente aperto un nuovo fascicolo sul caso della nave Ivy. Su richiesta della Procura di Grosseto, la direzione marittima di Livorno procede due volte a mappare i fondali per localizzare le balle (prima nel dicembre 2015 e successivamente nell'agosto 2016). Il secondo intervento conferma le posizioni del primo e la zona da bonificare risulta circoscritta. Tutto quindi sembra pronto per il recupero, invece alle localizzazioni non segue alcun intervento. Eppure la direzione Marittima è responsabile e ha piena autonomia operativa nelle situazioni di inquinamento. Nonostante l'obbligo di bonificare l'area, la direzione Marittima di Livorno sceglie di non decretare l'emergenza locale. «E non la decreta tutt'oggi, nonostante sia ancora possibile farlo» incalza il senatore Gregorio De Falco. C'è di più. L'Unità Investigativa di Greenpeace ha analizzato il tracciato dell'intero viaggio compiuto dalla Ivy, da Piombino a Varna, e ha rilevato che, oltre ai movimenti anomali segnalati dalla direzione Marittima di Livorno – gli stessi movimenti che hanno provocato gli sversamenti di rifiuti nel Santuario dei Cetacei – si sono verificate altre due situazioni insolite, sempre in acque territoriali italiane, al di fuori della zona di ricerca della Guardia Costiera. Durante la prima anomalia si verifica lo sversamento in mare di parte del carico, cosa è successo durante le successive due? Considerando che nessuna delle campagne di ricerca ha mai rintracciato tutte le 56 balle sversate, è possibile che l'area circoscritta per le ricerche non sia l'unica a dover essere sondata? Il dubbio è che parte delle balle di rifiuti giaccia su fondali mai mappati da chi di dovere.

Paga solo lo Stato (con i nostri soldi). Per garantire il trasporto dei rifiuti in Bulgaria, la Eco Valsabbia ha stipulato una fideiussione da 2,8 milioni di euro a favore del Ministero dell’ambiente e detenuta dalla Provincia di Grosseto, che serve a garantire da eventuali danni, anche ambientali, occorsi durante  il trasporto del materiale. La fideiussione può essere svincolata solo in seguito al ricevimento dei certificati di corretto smaltimento dei rifiuti. . In questo caso, nonostante una parte dei rifiuti non sia mai stata correttamente recuperata, visto che si trova in fondo al mare, e nonostante lo Stato stia sostenendo spese per la sua dispersione in mare, Eco Valsabbia ha comunque ottenuto lo svincolo della fideiussione. A svincolare la polizza è stato il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Nel frattempo, infatti, a seguito del trasferimento di alcune funzioni ex provinciali, la Regione ha preso il posto della Provincia in veste di di Autorità di spedizione. L’azione del presidente Rossi può considerarsi lecita? La giurista ambientale Paola Ficco risponde: «La fideiussione del notificatore, a mio giudizio, non avrebbe dovuto essere svincolata. Anzi essa avrebbe dovuto essere escussa unitamente a quella del comandante e dell’armatore della nave. Pertanto, ritengo che la Regione Toscana abbia adottato un provvedimento di svincolo molto opinabile».

Per l'Arpa non c'è alcun problema. A partire da dicembre 2015 l'Arpa Toscana (Agenzia regionale per la Protezione Ambientale) effettua ripetute analisi sulle balle che via via riemergono e sulle acque in prossimità del materiale ancora sommerso. In nessuno dei suoi rapporti, l'ultimo risale a febbraio 2020, Arpat mette mai in evidenza l'emergenza ambientale e la necessità di recupero immediato. «Arpat si esprime con un suggerimento di mera rimozione e non con una conclamata dichiarazione di “rischio ambientale”», commenta Paola Ficco, che continua: «Probabilmente la Capitaneria di porto, in ragione della blanda espressione dell'Arpat, ha valutato di non attivare il “Piano operativo di pronto intervento per la difesa del mare e delle zone costiera dagli inquinamenti accidentali da idrocarburi e da altre sostanze nocive”». Eppure Arpat sa che in quella zona ci sono tre impianti di allevamento di cozze: «I mitili sono esposti ad un rischio maggiore rispetto agli organismi filtratori della colonna d'acqua, poiché i sedimenti rappresentano una matrice di accumulo delle microplastiche che vengono così rese continuamente disponibili per gli organismi di questi ambienti», dice Francesco Regoli, direttore del Dipartimento di scienze della vita e dell'ambiente all'Università Politecnica delle Marche. Con quale criterio Arpat trae le conclusioni delle sue numerose relazioni, senza definire mai lo stato di emergenza? Un ente adibito alla tutela ambientale deve avere una visione a lungo termine sulle conseguenze di tonnellate di plastica in mare e fare la sua parte perché gli organi predisposti alla rimozione di questo inquinante agiscano in tempi rapidi e definitivamente. Oggi l'ente locale di controllo si trova in disaccordo completo con le valutazioni di Ispra, l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che ha decretato la crisi ambientale. D'altronde anche, il ministero dell'Ambiente, che ha facoltà di dichiarare lo stato di emergenza e procurarsi i mezzi e le competenze necessarie ad intervenire, non agisce mai in questo senso. Va da sé che un intervento intrapreso dal ministero grava giocoforza sulle casse dello stesso. Perché il ministero dell'Ambiente non dichiara l'emergenza ambientale in una situazione perfettamente aderente ai criteri che invece la imporrebbero? «Perché la competenza non è del ministero. Confermo che l'Ufficio di Gabinetto di questo dicastero, in ragione di quanto previsto dalla normativa, ha provveduto a richiedere la dichiarazione di stato di emergenza nazionale al dipartimento della Protezione Civile, per la quale siamo in attesa di ricevere formale riscontro», dichiara a Greenpeace il ministro Sergio Costa.

Arriva il Commissario per la rimozione: ma le balle non vengono rimosse. Il 25 giugno 2019 il Contrammiraglio Aurelio Caligiore, capo del Ram, Reparto Ambientale Marino, viene nominato Commissario straordinario del Governo per il recupero delle balle. Con la sua nomina si ricomincia a parlare della vicenda ma non si mettono in tavola i fondi per intraprendere azioni di recupero e bonifica. Caligiore mappa per l’ennesima volta i fondali del Golfo di Follonica e comincia una serie di azioni per cercare di ottenere la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale da parte della Protezione Civile. Per le emergenze nazionali, infatti, ci sono fondi dedicati e, inoltre, è consentito nominare direttamente le ditte d’appalto senza sottostare a tempi e modi dei bandi ordinari. Perché nel nostro Paese si deve invocare l’emergenza per cominciare ad agire? Una soluzione per intervenire anche senza fondi straordinari viene suggerita da Ispra: «Sia per condurre la ricerca dei materiali dispersi sia per controllare l’efficacia e adeguatezza delle attività di recupero, secondo la convenzione Ispra-Marina Militare del 2015, si propone l’intervento dei mezzi e degli specialisti della Marina Militare, certamente tra le pochissime con capacità adeguate e pronte presenti in Italia». Ma a nessuno è venuto in mente di attivare mezzi, attrezzature e uomini già disponibili. «Da anni la Marina Militare cerca di accreditarsi sul piano della protezione dell'ambiente, come dimostra questa convenzione. Ma nel momento in cui serviva la convenzione non è stata attivata. È assurdo sapere che da anni ci sono uomini e mezzi disponibili: viene il sospetto che sia tutta una finta. La vicenda delle “balle di Cerboli” è sui giornali da anni e non si può continuare a perder tempo», argomenta Alessandro Giannì, Direttore delle Campagne di Greenpeace. Dall’inizio di quest’anno, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli riceve ben quattro richieste di dichiarazione dello stato di emergenza da parte del Commissario straordinario Aurelio Caligiore, del Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, del Ministero dell’ambiente e di Ispra. Senza contare le svariate interrogazioni parlamentari che fioccano nel mese di maggio (Bonino, Fratoianni e De Falco). È proprio a De Falco che Borrelli dice le cose come stanno: «La difficoltà che abbiamo come dipartimento è ritrovare i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza, non essendo necessari provvedimenti per l’assistenza alla popolazione e per il ripristino dei servizi essenziali, che legittimano l’intervento emergenziale». Insomma, visto che nessuno si è fatto male o tanto meno è morto, la Protezione Civile non può intervenire.

Cinque anni dopo i rifiuti restano lì. Le normative quindi ci sono, ma non sono state applicate. E la vicenda delle balle di Cerboli è un pericoloso precedente ed evidenzia una serie di gravi mancanze da parte di ciascuna delle autorità predisposte ad agire. Alla luce di questa inchiesta, Greenpeace ha deciso di procedere con un esposto alla Corte dei Conti per danno erariale nei confronti della Regione Toscana che aveva in mano quasi tre milioni di euro per procedere al recupero delle balle e li ha restituiti.

Beatrice Montini per "corriere.it" il 25 giugno 2020. Siviglia, Madrid e Algemesi. Sono le tre città da cui provengono le immagini della video investigazione internazionale, raccolte dalla Lav a settembre 2019, che raccontano l’orrore della corrida. Gli «spettacoli» filmati mostrano quelle che si possono definire vere e proprie sevizie contro i tori, uccisi violentemente e dopo agonie e sofferenze che sembrano infinite. In più occasioni - ad esempio - il matador colpisce il toro con l’«estoque» (la spada usata dai toreri per dare il colpo finale) in maniera non corretta, causando agli animali gravi e lente emorragie, visibili soprattutto dalla bocca, che li porteranno a morire soffocati. In alcuni casi i tori si feriscono gravemente da soli per lo stress, appena entrati nell’arena. Ad Algemesi poi - una “plaza” molto importante e particolar - gli animali i vengono percossi e trascinati per le vie del paese prima dello spettacoli (il cosiddetto encierro, come a Pamplona). I tori qui sono mandati a morte giovanissimi (non oltre 3 anni di età), per questo motivo coloro che li uccidono sono chiamati “novilleros”, ovvero aspiranti toreri. Ma le video denunce non si fermano dentro le arene. Gli investigatori hanno filmato tori trasportati fuori dall’arena verso la struttura di macellazione interna. In diversi casi è stato filmato il sangue dei tori lasciato sul piazzale, a contatto con il pubblico che entra ed esce dall’arena (a stretto contatto con passanti e in alcuni casi anche con dei bambini). · È stato documentato come la carne di toro ucciso nelle arene sia venduta in alcune macellerie e ristoranti locali. In alcuni casi quella stessa carne viene trasportata fuori senza alcun criterio igienico-sanitario e di fronte a minorenni. Ma oltre alla crudeltà verso i tori, la denuncia arriva per sottolineare un altro aspetto della corrida, forse meno conosciuto: cioè che la corrida beneficia di finanziamenti pubblici europei nonostante la volontà contraria del Parlamento Ue. A fine ottobre 2015, infatti, il Parlamento Europeo (con 438 sì, 199 no e 50 astensioni) ha approvato un emendamento al bilancio 2016 che prevede «che non si debbano utilizzare fondi della PAC (politica agricola comune, ndr) né di qualsiasi altra linea di finanziamento europeo per sostenere economicamente attività taurine che implichino la morte del toro». Le sovvenzioni della Pac costituiscono il 31,6% delle entrate per gli allevamenti di animali destinati alla Corrida. In particolare dalle Pac sono arivati 130 milioni di euro che si aggiungono ai 571 milioni disposti dalle varie parti delle autorità spagnole. Ma cosa pensano di questo gli spagnoli? Il primo giugno scorso il ministero della Cultura di Madrid ha pubblicato nuovi dati statistici sulla corrida che ne confermano la fase oramai continua di crisi. Gli spettacoli nelle arene nel 2019 sono diminuiti del 63,4% rispetto al 2007. Nonostante questo dato, ciò che emerge dal rapporto è che dal 2007 gli allevamenti di tori destinati alla Corrida sono aumentati da 1327 a 1339. Ma non solo: nel 2019 risultano registrati come professionisti nel settore 9.993 persone, rispetto a 7.907 del 2017. «Come è possibile che un settore in calo e in difficoltà aumenti in maniera tale la presenza di professionisti nel settore, di cui 991 che hanno oltre 65 anni? - si chiede la lav - La corrida è uno spettacolo insostenibile, da anni contestato perché contraro a etica e tutela degli animali, diseducativo eppure offerto in spettacolo anche ai minori - afferma Roberto Bennati, direttore generale dell’associazione animalista – Oggi più che mai, poi, nell’emergenza Covid-19, è criminale ignorare i rischi sanitari di arene dove si semina il sangue di questi animali, macellati sul posto in strutture attigue e non isolate, con dubbi standard di sicurezza. Come può l’Unione Europea finanziare questo orrore? E’ ora di dire basta».

Corrida, fine dello spettacolo finanziato anche dagli italiani? Le Iene News il 23 giugno 2020. Il coronavirus ha messo particolarmente in crisi la corrida, e ora in tanti stanno facendo pressione sul governo per mettere fine a tutti i sussidi pubblici al settore, anche quelli dall'Europa, cui contribuiamo anche noi italiani. Sono in tanti a chiedersi se il coronavirus segnerà la fine della corrida in Spagna. Questo non solo perché lo spettacolo, che inizia a marzo e finisce a ottobre, quest’anno non è ancora partito, visto che sono vietati gli assembramenti. Ma anche perché il governo ha stanziato per tutti gli aiuti per questo periodo difficile, escludendo però la corrida. Anche perché gli animalisti, al grido di "la tortura non è cultura", stanno facendo pressione proprio sul governo per mettere fine a tutti i contributi pubblici che riceve la corrida. E quindi anche quelli legati alla politica agricola comune, cui contribuiamo anche noi italiani con le nostre tasse. La pac, politica agricola comune, sono l'insieme di regole e soldi per chi fa agricoltura e allevamenti. Si tratta di oltre 300 miliardi per sette anni. Un report del 2013 dei verdi spagnoli del Parlamento europeo ha calcolato che di questi alla corrida vanno 130 miloni di euro l’anno. Il pagamento della pac, infatti, viene erogato a pioggia, cioè con pagamenti diretti a seconda degli ettari di terreno o il numero di capi. E quindi non conta che fine farà l’animale. E la corrida non riceve solo finanziamenti europei. Sempre il report dei Verdi spagnoli ha calcolato che di sussidi dalla Spagna il settore riceve 571 milioni di euro l’anno. "Senza i contributi pubblici la corrida non sopravvivrebbe", sostiene Eleonora Evi, eurodeputata M5S. Come mostrano in esclusiva le immagini filmate da un investigatore della Lav in una delle ultimissime corride di ottobre scorso a Madrid, lo spettacolo è scandito da una sua ritualità. Prima di entrare nell'arena il toro viene trafitto da un arpione di 9 centimetri, così si mette immediatamente sulla difensiva, perché il toro è un erbivoro che altrimenti non sarebbe portato ad attaccare l'uomo. Poi cominciano tre fasi della corrida. Il primo è quello del cavallo del picador, che inserisce una lancia di legno con la punta affilata di anche trenta centimetri dentro i muscoli dei tori. Poi sulle ferite vengono conficcate le banderillas, arpioni da 6 centimetri, che rimangono dentro l'animale. E poi arriva la fase finale, il tercio de muerte, con il mantello, così l'animale si esaurisce completamente. Il torero si posiziona nell’angolo cieco del toro, perché il toro ha gli occhi sulle parti laterali del muso, e lo colpisce con la spada nel torace. Ma per decretare la vittoria del torero il toro deve cadere, e allora con una spada tra la prima e la seconda vertebra cervicale gli taglia il midollo spinale. Così l'animale si accascia a terra, e muore per il soffocamento causato dal sangue in un lasso di tempo che va da uno a tre minuti. Come premio al torero, se il pubblico ha apprezzato lo spettacolo, si taglia l’orecchio del toro, talvolta quando l'animale è ancora vivo. E questo viene lanciato anche al pubblico, e spesso sono i bambini a raccoglierlo e a mostrarlo con orgoglio, come si vede nelle immagini raccolte dalla Lav. E proprio sui bambini l'Onu nel 2018 ha fatto una raccomandazione alla Spagna: “Andrebbe proibita la partecipazione dei bambini sotto i 18 anni sia come toreri che come spettatori”. Già perché i bambini possono anche imparare a diventare toreri, e uccidere tori all'età di quattordici anni, come mostrano le immagini registrate da Animal Guardians. La carne ottenuta dai tori che hanno partecipato alla corrida può essere venduta, ma va indicata la sua provenienza, visto che, come spiega a Giulia Innocenzi Marta Estaban, "è considerata un sottoprodotto perché è di un colore scuro, è dura e secca, e conservata in malo modo". Anche a causa dello “stress del trasporto e della corrida, gli sbalzi emotivi, l’intenso lavoro dei muscoli e le ferite”, come spiegano i veterinari spagnoli di Avatma. Inoltre la carne di toro ha anche "un rischio molto elevato di contaminazione batterica, a causa delle lesioni che subiscono questi animali durante la corrida. Ed è per questo che costa molto poco, circa un euro al chilo. "In questo c’è una violazione molto chiara della pac", commenta Roberto Bennati della Lav a Giulia Innocenzi. "L’Unione europea, attraverso la politica agricola comune, vuole garantire che il cibo che arriva sulla tavola dei cittadini sia di qualità". E proprio in questi mesi si sta discutendo la riforma dei finanziamenti all'agricoltura, e sui sussidi alla corrida c'è da scommettere che si aprirà un vero e proprio campo di battaglia. "Già nella scorsa legislatura abbiamo tentato di emendare il bilancio dell’Unione europea per evitare di finanziare pratiche antistoriche come la corrida", spiega l'eurodeputata Evi. "Venne votato a larga maggioranza, ma successivamente calpestato dal Consiglio e dalla Commissione europea, perché le modifiche per entrare in vigore devono essere fatte all’interno della pac". Staremo a vedere come andrà a finire.

Da "repubblica.it" il 14 febbraio 2020. Due sub italiani, Simone Musumeci e Antonio Di Franca, hanno eseguito un incredibile salvataggio di uno squalo balena rimasto impigliato in un pezzo di corda di una rete da pesca. I subacquei si sono imbattuti nell’esemplare di quattro metri durante un’immersione nell'isola di Fuvahmulah, Maldive. Lo squalo balena stava nuotando vicino alla loro barca con una spessa corda legata intorno alla testa. Musumeci e Di Franca non hanno esitato ad avvicinarsi al pesce tagliando la corda con dei taglierini. Il salvataggio è avvenuto nel giro di dieci minuti ad una profondità di quattordici metri. Una volta libero, lo squalo balena si è allontanato velocemente per poi tornare indietro verso i due sub quasi a volerli ringraziare. "È stato un momento indescrivibile - hanno raccontato i sub - non lo dimenticheremo mai!"

Nicola Pinna per “la Stampa” il 25 maggio 2020. Ad Alessandro è sembrato di essere diventato il protagonista felice di una favola. Una specie di cartone animato che ieri mattina ha avuto come scenario i monti del Trentino: un angolo verde, quasi incantato, a poco più di duemila metri. «È stato il giorno più bello della mia vita, ho coronato un grandissimo sogno». Alla mamma che ha assistito all' incontro tra Alessandro e un orso apparentemente mansueto è sembrato di vivere un terribile incubo. Ma per fortuna tutta l' avventura è finita con una dose pazzesca di apprensione e moltissima emozione. «Io - racconta Alessandro - speravo davvero che succedesse. E quando ho visto l' orso spuntare tra i cespugli mi sono molto emozionato. Ero davvero felicissimo». Ma anche lucido e prudente: piccoli passi e nessun movimento brusco. La gioia del piccolo Alessandro, 12 anni, studente di prima media nel piccolo paese di Sporminore, si nota chiaramente nel video che ha registrato frettolosamente il compagno della mamma e che in un attimo è finito sui social. Alle 10.30 del mattino la famiglia Franzoi stava facendo un pic-nic in alta quota, nel cuore delle Dolomiti: «Eravamo partiti da casa poco prima, lo facciamo spesso - dice lo zio Federico - In montagna c' erano tante persone ma c' era silenzio. Alessandro si è allontanato pochi metri da noi per andare a cercare le gemme del Pino Mugo. A un certo punto ci siamo resi conto che è sbucato dal verde seguito da quell' orso. Noi ovviamente ci siamo allarmati, mentre lui era davvero tranquillissimo». I segreti giusti su come comportarsi di fronte a un orso, il piccolo Alessandro li aveva studiati proprio in questo periodo. Nei giorni in cui le scuole sono rimaste chiuse lui ha continuato da casa i suoi viaggi virtuali in mezzo alla natura. «Gli animali e i boschi sono la sua passione - racconta ancora lo zio Federico - Legge tanti libri, studia e sogna di fare avventure e scoperte». Per questo sapeva che l' unica cosa da fare, di fronte a un orso, è mantenere la calma. «Non dovevo spaventarlo e mi dovevo soltanto allontanare - ha spiegato lui stesso alla mamma e ai nonni - Era importante andar via velocemente ma senza far temere all' orso di poter essere in pericolo». I biologi confermano tutto e così il dodicenne che sogna di vivere tra gli animali ha convinto il temutissimo re dei boschi a cambiare strada e a sparire nel fondo di una vallata. In un attimo, il coraggioso Alessandro ha sgretolato molti dei luoghi comuni sul gigante dei boschi, che in più zone d' Italia è finito spesso nel mirino delle doppiette. Per tutta la giornata ha continuato a ripetere alla mamma quanto sia stata grande la felicità: «Sai quale è stato il segreto? Non l' ho guardato negli occhi e così l' orso ha capito che io non ero un suo nemico. E io adesso sono il bambino più felice del mondo».

L’orso polare sempre più a rischio 10 cose che forse non sapete di lui. Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 da Corriere.it.

Specie vulnerabile. L’orso polare è già classificato tra le specie vulnerabili della lista rossa dello Iucn, l’Unione internazionale per la conservazione della natura. Ma se non si interverrà in fretta sui cambiamenti climatici che stanno riducendo sempre di più i suoi habitat da qui al 2050 potrebbe andare perso fino al 30% della popolazione. A lanciare l’allarme, in occasione della Giornata mondiale dell’orso polare che si celebra ogni anno il 27 febbraio, è il Wwf che ha avviato una campagna di adozioni per sostenere il progetto «Last ice area», che punta alla conservazione di un’area dell’Artico a cavallo tra Canada e Groenlandia, una delle meglio conservate di quella parte di mondo, per garantire un rifugio sicuro al carnivoro terrestre più grande del pianeta.

La scomparsa dei ghiacci. Ma qual è la relazione tra i cambiamenti climatici e la fragilità di questa specie? Gli orsi polari hanno bisogno del ghiaccio marino mer potersi muovere in vasti territori in cerca di cibo. Lo scioglimento dei ghiacci e la riduzione del permafrost ha però ridotto di molto gli habitat, limitando di conseguenza le possibilità di spostamento e di caccia. L’organizzazione Polar Bear International calcola ad esempio che la popolazione di orsi nella baia di Hudson, in Canada, si è già ridotta di un terzo fra il 1987 e il 2017. Di qui l’appello alle istituzioni internazionali per porre un freno al surriscaldamento del pianeta, obiettivo peraltro fissato dalle Nazioni Unite con gli accordi di Parigi. «Occorre fare pressioni su governi e aziende — commenta il Wwf — puntando sempre più su energie da fonti rinnovabili e tagliando drasticamente le emissioni di CO2 provocate dai combustibili fossili, responsabili dell’effetto serra e dell’innalzamento delle temperature».

Sono mammiferi marini. Ma voi cosa sapete degli orsi polari? Ecco dieci curiosità su questa specie affascinante, che colpisce per la sua maestosità e bellezza. La prima è che, dato che trascorrono la maggior parte della loro vita sui ghiacci marini dell’Oceano Artico, habitat dove procacciano il loro cibo, gli orsi polari sono l’unica specie di Urside al mondo ad essere considerata un mammifero marino, al pari dei cetacei (balene, orche e delfini) e delle foche.

In realtà sono neri, non bianchi. La pelliccia dell’orso polare è traslucida e ci appare bianca solo a causa del riflesso della luce. Sotto tutta quella spessa pelliccia, la loro pelle è nera.

Possono nuotare per ore. Nelle gelide acque dell’Artico, oltre a raggiungere una velocità che va fino a circa 10 chilometri orari, gli orsi polari possono percorrere a nuoto lunghe distanze per molte ore senza sosta, solo con lo scopo di spostarsi da un pezzo di ghiaccio all’altro. Le loro grandi zampe anteriori sono adatte al nuoto: le usano per pagaiare in acqua tenendo invece le zampe posteriori piatte, come un timone.

Meno del 2% della loro caccia ha successo. Anche se circa la metà della vita di un orso polare viene spesa a caccia di cibo, questa attività ha raramente successo. Le foche dagli anelli e le foche barbute rappresentano le principali prede dell’orso polare, che si alimenta anche di carcasse di cetacei o di piccoli mammiferi, uccelli e uova.

Il dna dalle impronte. Una nuova tecnica innovativa sviluppata dai ricercatori svedesi di AquaBiota e dal Wwf Alaska, permette agli scienziati di isolare il Dna di un orso polare anche solo dalla sua impronta nella neve. Due minuscole palline di neve provenienti da una traccia di orso polare sono in grado di rilevare il Dna e il sesso dell’orso polare a cui apparteneva l’impronta.

Le altre minacce. Nonostante il cambiamento climatico rimanga la principale minaccia per la sopravvivenza dell’orso polare, questo grande predatore deve affrontare molti altri rischi. Le industrie di estrazione del petrolio e del gas stanno rivolgendo i propri interessi verso l’Artico aumentando il rischio di incidenti e distruzione dell’habitat. Le fuoriuscite di petrolio possono intossicare gli orsi, avvelenando l’habitat e le prede di cui si nutrono. Gli orsi polari sono anche tristemente esposti a sostanze chimiche tossiche come i pesticidi, che vengono assunti tramite le prede. Veri e propri interferenti endocrini i pesticidi alterano la fisiologia della specie e la sua capacità di riprodursi. Come se tutto questo non bastasse, la fusione del ghiaccio marino, causata dal cambiamento climatico, è alla base dell’aumento dei conflitti tra l’uomo e l’orso polare: d’estate nei villaggi gli orsi affamati vanno in cerca di cibo facilmente accessibile. Fortunatamente, le comunità locali stanno imparando ad adattarsi alla presenza dell’orso polare e ad adottare misure preventive per ridurre il rischio di conflitti. Il WWF è impegnato in diversi progetti che mirano a mitigare queste minacce per la sopravvivenza dell’orso.

Gli ibridi di orsi grizzly-polari. Nel 2006, i test genetici hanno confermato l’esistenza di individui ibridi tra rso polare e orso grizzly, noti anche come grolar bears o pizzly bears. L’orso ibrido assomiglia fisicamente a un incrocio tra le due specie, ma poiché gli ibridi selvatici sono di solito nati da orse polari, vengono allevati e si comportano come tali. La capacità degli orsi polari e dei grizzly di incrociarsi non è sorprendente se si considera che gli orsi polari si sono separati dalla linea evolutiva dagli orsi bruni da «soli» 600.000 anni.

Le 19 sottopopolazioni. La popolazione mondiale di orso polare conta tra i 22 mila ed i 31 mila individui. I ricercatori la dividono in 19 unità o sottopopolazioni. Di queste solo una subpopolazione è in aumento, 5 sono stabili, mentre 4 sono in declino. Sulle restanti 9 lo status di conservazione resta sconosciuto, a causa della mancanza di dati scientifici attendibili.

Pesa come 10 uomini. Un maschio di orso polare può pesare fino a 800 chili, circa il doppio delle femmine, ed arrivare a misurare quasi 3 metri di lunghezza. L’elevata mole rende questo animale il più grande carnivoro terrestre del pianeta.

Un super-olfatto. Gli orsi polari hanno un olfatto molto sviluppato, che usano per localizzare le foche (sue prede principali) che escono fuori dalla banchisa polare per respirare. Una volta individuata un’apertura nella crosta ghiacciata, l’orso è in grado di attendere pazientemente l’uscita della preda, e di rilevarla anche sotto un metro di neve e ghiaccio.

Peta: stop alla campagna contro le pellicce, ora tocca a lana e pellami. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandro Sala. Missione compiuta. La pelliccia è sempre meno di moda, le grandi maison vi hanno rinunciato e soprattutto tra i giovani i capi provenienti dal mantello degli animali hanno perso appeal. Per questo l’organizzazione internazionale People for Ethical Treatment of Animals (Peta) ha deciso dopo quasi trent’anni di dire stop alla campagna che l’ha resa famosa in tutto il mondo. «Meglio nude che in pelliccia» è stato qualcosa di più di uno slogan e il fatto che a interpretarne lo spirito siano state star del calibro di Kim Basinger, Pamela Anderson, Eva Mendes o la nostra Elisabetta Canalis, assieme a dozzine di altre celebrità internazionali, ha fatto sì che il messaggio diventasse virale anche in epoca pre-social. Il risultato? La pelliccia è passata da oggetto del desiderio a capo visto con disgusto. Non da tutti, ovviamente. Ma che il sentiment popolare sia cambiato è testimoniato, oltre che dal disimpegno dei principali marchi del fashion, anche da alcune scelte eclatanti, come quella della California, che ha deciso di vietare la vendita di pellicce sul territorio dello Stato, o quella della regina Elisabetta, che ha deciso di rinunciare ai velli di ermellino per passare a capi di origine sintetica. Ma se una battaglia può dirsi vinta, la guerra non è ancora finita. La decisione di Peta di interrompere la più iconica delle proprie campagne è legata alla necessità di avviare una nuova fase di mobilitazioni per una moda sempre più etica, che rinunci completamente ai materiali di origine animale. Insomma, nel mirino ora finiranno pellami di vario genere e la lana, la cui produzione non è esente da forme di maltrattamento e di sofferenza. Tanto più che ormai esistono molti materiali di origine naturale o sintetica che sono in grado di rimpiazzare i pellami senza che questo penalizzi la creatività degli stilisti. «Non c’è alcun motivo per cui la moda debba basarsi sullo sfruttamento degli animali — sottolinea Dan Mathews, vicepresidente di Peta e ideatore della campagna, che da tempo sta incontrando le principali case di moda presentando loro questi tessuti innovativi e le loro potenzialità —. Lo hanno capito tutti i grandi marchi che sempre più si stanno orientando verso una produzione sempre più cruelty free e attenta all’ambiente. E il motore del cambiamento sono i giovani: sono loro, i clienti di oggi e di domani, a dettare la linea. Con le nostre campagne abbiamo acceso i riflettori su quello che c’è dietro la produzione di pelli e pellicce. Ma la vera differenza la fa la nuova sensibilità delle persone, ovvero del mercato, che poi per le imprese è la cosa che più conta». La campagna era iniziata nel 1990, quando le icone rock The Go-Go’s per la prima volta posarono nude in un poster che diceva «We’d rather Go-Go naked than wear fur!» («Preferiamo andare nude piuttosto che in pelliccia», con tanto di gioco di parole sul nome della band), da cui era stato poi mutuato il fortunato slogan. Il poster era stato venduto ai concerti della band e il ricavato era stato devoluto a Peta. Altre star avevano fatto altrettanto, partecipando in alcuni casi anche a manifestazioni in pubblico. Tra i tanti episodi va registrato un significativo passaggio di testimone tra Kim Basinger, che fu tra le prime a condividere il messaggio del gruppo animalista, e la figlia Ireland Basinger-Baldwin. L’attrice Gillian Anderson, invece, aveva preso posizione con Peta durante una Festa della Donna: «Questo è il mio corpo e ci faccio ciò che mi pare — aveva spiegato —. Oggi lo sto usando per difendere gli animali e il loro diritto di vivere come gli pare, naturalmente, con la pelle ancora attaccata al corpo». Finisce dunque un’era, ma — fa sapere Peta — non calerà l’attenzione sulla produzione di pellicce. Perché è vero che nel mondo occidentale la pelliccia è sempre meno attrattiva, ma in altre aree continua ad essere un capo di abbigliamento accettato e richiesto. E visto che la nuova priorità sono i pellami, già si immagina un’evoluzione della campagna con le star svestite: «Meglio mostrare la propria pelle che indossare quella altrui». Finisce un’era, sì. Ma ne inizia subito un'altra.

Mathews (Peta): «Io, ambasciatore della moda che non uccide. E tutti gli stilisti mi chiamano». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandro Sala. I tabù sul superamento della pelliccia stanno cadendo uno dopo l’altro. Se anche la regina Elisabetta ha dato il proprio benestare alla sostituzione dei velli di ermellino con prodotti di origine sintetica, vuol dire che l’era fur-free è davvero iniziata. Che si tratti di una scelta etica o solo di immagine, poco cambia: i grandi marchi rinunciano alle pellicce e qualcosa inizia a muoversi anche a livello legislativo: la California, primo Stato al mondo, ha deciso di vietare del tutto la vendita, entro i propri confini, dei capi di pelliccia, prevedendo multe via via crescenti per i trasgressori. E una proposta analoga è stata avanzata a New York. Tutte ottime notizie per Dan Mathews, vicepresidente di Peta, l’organizzazione ambientalista che ha fatto della lotta alle pellicce una delle proprie bandiere. E che proprio ieri ha annunciato lo stop, dopo 30 anni, all’iconica campagna «Meglio nude che in pelliccia», perché l’obiettivo è stato raggiunto. Già un anno e mezzo fa il numero due di Peta era stato a Milano per incontrare alcune case di moda (e lo aveva incontrato anche il Corriere), per parlare loro di materiali alternativi che possano sostituire nelle collezioni non solo le pellicce ma anche le pelli. E nei giorni scorsi ci è ritornato. Mathews non deve neppure fare la fatica che fanno i venditori a domicilio di aspirapolveri, bussando ad ogni porta sperando che qualcuno apra: sono gli stessi stilisti che oggi lo vogliono come consulente per capire come completare la loro svolta green. «E pensare che fino a qualche tempo fa mi consideravano il nemico» ricorda rievocando le tante irruzioni alle sfilate dei grandi marchi quando, con ogni stratagemma (tipo vestirsi da sacerdote) riusciva ad infiltrarsi per poi lanciare i messaggi di Peta. «Oggi, invece di chiamare la polizia per farmi allontanare, mi fanno entrare nei loro atelier dall’ingresso principale».

Una rivoluzione copernicana. Ma è un impegno reale o stanno inseguendo il trend del momento?

«Magari qualcuno lo fa per interesse, per cercare di non perdere una clientela giovane e sempre più attenta alle tematiche della sostenibilità ambientale, come ci dimostrano Greta e i ragazzi dei Fridays for future. Ma nel complesso, e soprattutto in Italia, mi sembra di vedere un’attenzione sincera».

Sta dicendo che gli stilisti italiani sono più sensibili degli altri?

«In parte sì e lo dimostra il fatto che ogni volta che un grande marchio decide di rinunciare alle pellicce c’è anche una presa di posizione pubblica contro le crudeltà nei confronti degli animali. Lo ha fatto Armani (vedi qui), uno dei pionieri, già qualche anno fa; lo ha fatto Miuccia Prada nei mesi scorsi. Spesso all’estero si limitano a passare ai prodotti eco senza prendersi la briga di spiegare perché. Con alcune eccezioni. Stella Mc Cartney, per esempio, è da sempre in prima linea nelle battaglie contro i maltrattamenti di animali».

E’ stata la prima di una lunga serie...

«Sì, ha dimostrato che si poteva fare un’alta moda cruelty free e conquistare un proprio spazio di mercato. Le pellicce sono il state primo passo, ora bisogna puntare a sostituire anche le pelli e gli altri prodotti di origine animale con materiali di provenienza vegetale. Non c’è solo il cotone. Sono tanti i nuovi tessuti eco e spesso gli stilisti non li conoscono. Vogliamo affiancarli e aiutarli in questo percorso di consapevolezza».

E questa è un po’ la missione che lei sta compiendo a Milano...

«Sì, a Milano e non solo. E non io soltanto. Siamo ambasciatori dei materiali alternativi e andiamo ad incontrare i produttori di tutto il mondo. Proponiamo loro tessuti ricavati da fibre naturali che hanno degli effetti visivi e tattili molto simili alla pelle o che la fanno completamente dimenticare dando ai creativi opportunità nuove. Il sughero è uno dei trend del momento, alle sfilate di New York abbiamo presentato con lo stilista Stephen F una intera collezione uomo interamente vegan e molti abiti sono stati realizzati con questo materiale. Ma stiamo proponendo anche tessuti diversi, derivati dai funghi, dalle fibre del finocchio o dell’ananas, tanto per fare degli esempi. E non c’è solo la salvaguardia degli animali ma anche quella dell’ambiente, sia perché i processi produttivi sono più puliti, sia perché queste fibre sono spesso ricavate dagli scarti di lavorazione, come nel caso dell’ananas».

Anche l’industria della pelle utilizza materiali di recupero, ovvero le pelli di animali macellati che dovrebbero essere altrimenti smaltite.

«Non vengono usate solo pelli di animali destinati all’alimentazione umana, pensiamo ai coccodrilli o ai serpenti. E comunque la lavorazione delle pelli ha, nei diversi processi, un impatto ambientale molto forte. Noi in ogni caso ci battiamo per uno stile di vita differente a 360 gradi: sosteniamo l’alimentazione vegana e quindi nel nostro orizzonte vediamo una produzione di carne sempre più limitata, di conseguenza anche un minor numero di pelli di scarto. Ecco perché bisogna puntare da subito sui materiali alternativi, la cui richiesta da parte dei consumatori sta già aumentando e lo farà sempre di più».

Materiali che però sono spesso più costosi. Ci sono marche che producono scarpe in versione tradizionale e in versione vegan e le seconde, a parità di modello, costano di più. Legittimo da parte dei consumatori scegliere le più convenienti...

«È questione di economia di scala. Più aumenta la richiesta più aumentano i volumi degli scambi. E di conseguenza il gap dei costi si riduce. In ogni caso oggi chi sceglie prodotti vegan lo fa anche se costano di più perché in quel prezzo c’è un valore aggiunto, la motivazione etica che accompagna la scelta. Ed è noto che sono sempre di più le persone che adottano uno stile di vita veg, con le varie sfumature. E’ una tendenza che non si può fermare».

Perché Peta porta avanti questa attività? Vi si immagina sempre sulle barricate, nelle piazze a protestare, nei flash mob...

«Perché questi nuovi materiali sono spesso prodotti da piccole aziende espressioni del territorio, che non hanno la forza economica per farsi rappresentare nel mercato globale. Noi non ci guadagniamo, neppure un euro. Ma ci guadagnano gli animali e l’ambiente e questo è quello che per noi conta».

Quindi mai più campagne con modelle seminude che rilanciano lo slogan «Meglio nude che in pelliccia»?

«I nostri testimonial sono sempre stati importanti per rilanciare i nostri messaggi. Le campagne di Peta sono tante e in tanti campi e le grandi star continueranno ad affiancarci. Credo che continuerete a sentire parlare di noi».

Sudafrica: meno rinoceronti uccisi, ma è vietato abbassare la guardia. Giacomo Talignani il 6 febbraio 2020 su La Repubblica. Nel 2019 sono stati ammazzati dai bracconieri 594 esemplari, nel 2014 erano il doppio. Ma è presto per esultare: il corno, che vale come la cocaina, è richiestissimo dal mercato asiatico. Qualcosa sta cambiando. Dopo anni di sforzi, tentativi, morti e guerre, uno dei meravigliosi animali simbolo della biodiversità mondiale ha qualche nuova chance di sopravvivenza in più. In Sudafrica, patria dei rinoceronti, la lotta al bracconaggio pare infatti dare i primi frutti: negli ultimi cinque anni il numero di esemplari uccisi è calato costantemente. Lo scorso anno sono stati 594 gli animali ammazzati per il prezioso corno, nel 2014 erano addirittura 1215. Cifre che fanno ben sperare, perché la strada per proteggere questi animali è impervia e sempre in salita. In Asia le popolazioni di rinoceronti di Giava sono ormai ridotte all'osso, ne restano poco più di 70 esemplari. Stessi numeri, più o meno, per il rinoceronte di Sumatra, sempre più vicino all'estinzione secondo la lista rossa Iucn. E sempre dall'influenza dell'Asia, nasce la preoccupazione per le altre specie di rinoceronte, come quelli neri e bianchi che ancora per numeri (circa 5000 i primi e meno di 20 mila i secondi) sono presenti nelle riserve africane. E' il mercato nero asiatico infatti, dalla Cina al Vietnam, a guidare la domanda per l'avorio, capace di valere a peso anche più della cocaina, con singoli corni venduti a oltre 300 mila dollari. Finché continuerà ad esistere la richiesta di corni, spesso ridotti in polvere e utilizzati nella medicina tradizionale asiatica, senza alcuna prova scientifica, perfino per combattere il cancro, la lotta per la conservazione dei rinoceronti sarà durissima. Intanto però, un mix di azioni, portate avanti nelle riserve sudafricane, e soprattutto nel Kruger National Park che ospita la maggior parte degli animali, hanno portato a un calo importante degli animali uccisi dai bracconieri. Nel rapporto  diffuso dal  "Department of environment, forestry and fisheries" del Sudafrica viene specificato come la National Integrated Strategy to Combat Wildlife Trafficking (NISCWT) ha registrato nel 2019 la morte di 594 rinoceronti rispetto ai 769 del 2018. In calo anche il bracconaggio di elefanti, con 31 uccisioni nel 2019 rispetto alle 71 del 2018. Secondo "Save The Rhino", storica associazione in difesa di questi mammiferi, buona parte del calo delle uccisioni è riconducibile agli sforzi fatti per proteggerli, a partire dalla formazione e l'uso di squadre di ranger che rischiano la vita pur di salvare i rinoceronti. E' anche possibile che, essendo diminuiti per numero, i bracconieri facciano più fatica a trovare rinoceronti all'interno delle riserve. Altrettanto, per salvare questi animali, sono fondamentali poi la conservazione dei loro habitat e l'insegnamento ai bambini nelle scuole in modo da fargli conoscere la bellezza di queste specie che, anche se convivono nello stesso luogo, spesso i piccoli sudafricani delle aree povere e rurali non hanno la fortuna di vedere. Lodando i risultati ottenuti, il Wwf sottolinea che "è importante notare come oggi l’uccisione dei rinoceronti non sia ascrivibile a gesti di bracconieri isolati, ma sia un vero e proprio business condotto da organizzazioni criminali transnazionali che cooperano con i Paesi consumatori di corno di rinoceronte come Cina, Malesia, Singapore, Vietnam e Giappone. La chiave vincente per contrastare e contenere questi crimini di natura transnazionali è stata la riposta coordinata tra diverse organizzazioni fra cui: l’Unità per i furti di bestiame e le specie in via di estinzione della polizia sudafricana, la Direzione delle indagini sui crimini prioritari (Hawks), il sistema dei Parchi Nazionali e delle aree protette sudafricane, gli ispettori per la gestione ambientale e le dogane e la National Prosecuting Authority". Una task force necessaria per riuscire a contenere le incursioni dei bracconieri che, soprattutto di notte, agiscono in maniera brutale e priva di scrupoli pur di ottenere il prezioso corno di rinoceronti neri e bianchi. Animali che, come nel caso del rinoceronte bianco settentrionale, sono stati portati dall'uomo verso l'estinzione, tanto che ora si creano embrioni in laboratorio pur di preservarne la specie. Dunque, se la riduzione del numero di casi di bracconaggio è un segnale positivo, il problema non va affatto considerato come risolto ed è vietato abbassare la guardia dato che - sostiene il Wwf - "i rinoceronti sono ancora oggi fortemente minacciati dalle organizzazioni criminali e dalla mancanza di un habitat adeguato alla loro sopravvivenza e riproduzione". 

Botswana, all'asta le licenze per uccidere gli elefanti. Da aprile apre la caccia. Per partecipare gli offerenti dovranno depositare 18mila dollari. Fino a un anno fa era in vigore il divieto di attività venatoria. La Repubblica il 07 febbraio 2020. Oggi si battono all'asta le licenze per uccidere gli elefanti. Succede in Botswana, il Paese con la popolazione di pachidermi più numerosa al mondo: 130mila. Per partecipare bisognerà versare la somma di circa 18mila dollari. La maggior parte degli offerenti sono americani molto facoltosi. Il governo ha stabilito una quota di 272 elefanti "abbattibili" nel 2020, di cui 202 destinati agli stranieri. Quest'anno offre sette "pacchetti" di 10 elefanti ciascuno, secondo quanto riferito dalla casa d'aste Auction It Ltd, responsabile della vendita per conto di Gaborone. La stagione della caccia va da aprile a settembre, la stagione secca, quando l'erba è bassa e gli animali sono più visibili. Fino a un anno fa il Paese africano era considerato il santuario della fauna selvatica per le leggi messe in campo a protezione dell'ambiente. Ma nel maggio dell'anno scorso l'amministrazione del nuovo presidente, Mokgweetsi Masisi, aveva fatto decadere un precedente divieto di caccia varato dall'ex presidente Ian Khama nel 2014. Potenti lobby esercitavano da tempo pressioni sulle autorità per ottenere la rimozione del divieto di caccia dei pachidermi. La revoca del divieto aveva sollevato un polverone e moltissime critiche. Per giustificare il provvedimento, le autorità di Gaborone avevano argomentato che gli animali distruggono colture su vasta scala e minacciano la sopravvivenza stessa dei residenti in alcune zone rurali.

Avorio, in Botswana licenze all'asta per uccidere 70 elefanti. Le Iene News il 9 febbraio 2020. Con Luigi Pelazza siamo stati in Africa del Sud per raccontare come il bracconaggio e la caccia spietata all’avorio rischiano di far scomparire dal nostro pianeta animali come elefanti e rinoceronti. Il Botswana mette all’asta sette licenze per uccidere 70 elefanti. Questo paese nel sud dell’Africa assieme a Zimbabwe e Namibia ospita il 60% dei pachidermi del mondo. Qui la loro caccia è spietata per ricavare e vendere l’avorio dalle loro zanna, come ci ha raccontato per i rinoceronti Luigi Pelazza nel servizio qui sopra. Ora il presidente del Botswana ha messo all’asta sette “pacchetti” di caccia per uccidere fino a 70 animali. Verranno assegnati ai primi sette cacciatori che depositeranno 18mila dollari per partecipare all’asta che darà loro diritto ad ammazzare 10 elefanti a testa. Ma il timore è che il numero di animali cacciabili possa aumentare fino a 200. In Botswana la caccia ai pachidermi è vietata dal 2014, ma dallo scorso anno e’ stata parzialmente riaperta. Con Luigi Pelazza siamo stati in Namibia raccontarvi il lavoro che tutti i giorni fanno le squadre di ranger nel fronteggiare proprio i bracconieri, quelli che vanno a caccia di rinoceronti ed elefanti. Questi animali da 3 tonnellate sono preda dei bracconieri per il loro corno, fatto di cheratina, considerata nella medicina cinese un materiale con proprietà miracolose. I rinoceronti vengono addormentati con pesanti sonniferi e depredati del loro corno, che viene venduto sul mercato nero e può valere fino a 2 milioni di euro. Le corna vengono tagliate dai bracconieri con una motosega mentre gli animali dormono. Al loro risveglio si ritrovano incapaci di stare sulle proprie zampe. E molte volte muoiono dissanguati.

·        L’Orso Papillon.

(LaPresse l'8 settembre 2020) - È durata poco meno di due mesi la seconda fuga dell'orso M49, scappato dal recinto del Casteller a fine luglio: Papillon, come lo aveva ribattezzato anche il ministro dell'Ambiente Sergio Costa, è stato infatti catturato nella tarda mattinata di oggi. A darne notizia è stato il Corpo forestale provinciale di Trento, specificando che l'operazione è stata portata a termine nella zona del Lagorai, dove l'animale si trovata nell'ultimo periodo, mediante trappola a tubo, già utilizzata in passato per lo stesso esemplare. In attesa di dettagli, che saranno comunicati in serata, la notizia ha già scatenato le proteste degli ambientalisti. "Inconcepibile la gestione degli orsi da parte della Provincia di Trento", si legge in una nota del Wwf che parla di "vera e propria persecuzione verso Papillon". Secondo l'associazione, "M49 sarà a breve rinchiuso nell'area faunistica del Casteller, dove oggi sono già reclusi altri due orsi, DJ3 e M57, e dalla quale è già fuggito due volte negli scorsi mesi, mostrando da un lato la sua enorme voglia di libertà, e dall'altra la scarsa sicurezza e adeguatezza della struttura". Condanna è stata espressa anche dall'Ente Nazionale Protezione Animale che in una nota ha definito la nuova cattura di M49 "l'atto estremo di una ignobile persecuzione dell'animale simbolo della biodiversità, della libertà e della natura". Secondo l'Enpa, si tratta di "un orso che non si è mai reso colpevole di nessun atto di aggressione verso gli umani ma che è diventato suo malgrado elemento di gioco politico". L'Ente ha anche chiesto l'intervento dell'Unione Europea e del ministro Costa, che già in passato si era schierato a favore dell'orso. Lo stesso ministro, in un tweet pubblicato ad agosto dopo la fuga, lo aveva definito "una leggenda" per la "prorompente voglia e la passione di vivere liberi e in natura". Soddisfazione è stata invece espressa da Coldiretti. "La cattura fa tirare un sospiro di sollievo a chi vive la montagna e si sente indifeso di fronte ai pericoli di un esemplare del quale è stata scientificamente accertata l'aggressività, responsabile da solo del 30% dei danni provocati dagli orsi presenti in Trentino", si legge in una nota dell'associazione che ha elencato le presunte 'malefatte' di M49, "protagonista nel 2019 di 44 incursioni, tra stalle (26 casi), alveari (11 casi) e persino abitazioni (7 casi) e ha sbranato 13 mucche, 7 cavalli, 17 pecore e capre e 3 galline, oltre a ferire altri animali, secondo l'analisi dei dati della Provincia di Trento".

Paola Mastrocola per “la Stampa” l'8 settembre 2020. La prima volta non lo sapevo. Credevo fosse un gioco. Stavo rincorrendo farfalle, mi piacciono da morire. Me l' aveva insegnato la mia mamma, a farne scorpacciate. Andavamo a caccia tutto il giorno, lei ed io, poi la sera ci facevamo un' insalata di farfalle. Buona, dietetica. Mia madre non era tanto carnivora, preferiva la verdura, o le carni leggere, volatili Acchiappare minuscoli esserini che ti svolazzano intorno è molto divertente. Se era stagione, ci mettevamo anche due funghetti di contorno. Ma io i funghi non li sapevo trovare; giravo giravo, e sì, li cercavo, ma non so come non riuscivo mai a vederli. Secondo me si nascondono, i funghi. Oppure mi distraevo. Sono un orso molto distratto, anche se non me ne accorgo di esserlo. Diciamo che mi distraggo anche dal mio essere distratto. Penso ad altro, o c' è sempre qualcosa che mi attira e mi porta da un' altra parte, non so, un fruscio, una nuvola che passa. Comunque, la prima volta mi avete preso di sorpresa. Se era un gioco, non mi è piaciuto per niente. Mi avete legato, elettrizzato, intontito. Non so cosa mi avete fatto, mi girava la testa e non riuscivo più ad alzarmi. Appena ho potuto me ne sono andato. Mi dispiace, ma non ci posso stare rinchiuso. Non so se riuscite a immaginare Se vi chiudessero in casa, se vi dicessero di non uscire più, di non passeggiare, non correre, non vedere gli amici, non giocare tra gli alberi Si chiama lockdown, in inglese. Mai sentito? Sono scappato tutte le volte che mi avete preso. Non era scappare, era solo che dovevo andarmene. Un istinto, mi capite? Ma perché v' incaponite tanto con me? Non avete altro a cui pensare? Stanno per iniziare le scuole, per esempio, e io lo so che adesso per voi è un problema: il distanziamento, i banchi nuovi con le rotelle, le mascherine. Dovete difendere i vostri cuccioli, volete che vadano a imparare tante cose, ma anche che stiano al sicuro. Lo capisco bene, è giusto. E allora perché non vi dedicate ai vostri problemi? La disoccupazione, i licenziamenti, il PIL che non cresce Avete la vostra vita, io ho la mia. Pensate che sia facile fare l' orso solitario che vaga per i boschi sempre in cerca di cibo? Eh sì, perché anch' io mi devo sfamare. E a volte farfalle e funghi non mi bastano. A volte mi avvicino alle vostre case. D' accordo, non si fa. Ma se voi lasciate i bidoni pieni di spazzatura Sento l' odore. L' olfatto non è cosa da poco, non si può ignorare. Cerco di tenermi lontano, lo so che vi faccio paura. Sono grosso. Se mi alzo sulle zampe posteriori sono alto due metri, credo. E sono scuro, ho una pelliccia bruna come la notte. Ma non dovete fermarvi all' aspetto, al colore del pelo Non potremmo fare che io vivo la mia vita e voi la vostra? Umani e orsi: possono convivere, no? Io per esempio non vi catturo. Non mi passa neanche in mente, eppure ci metterei poco: vi prendo per il collo e vi metto in una gabbia. Vi piacerebbe? Lasciatemi andare. Inutile che mi circondiate con recinti di ferro alti 4 metri e barriere elettrificate. Noi orsi siamo forti. Con una zampata riusciamo a divellere pali e inferriate. Li scardiniamo da sotto. Lasciate perdere. Adesso sono chiuso in una specie di cassa tubolare, un cilindro che ha un gusto di metallo. Cos' è, una tana, una cuccia per cani? O sono finito all' ospedale? Mi va troppo stretto, non riesco a muovere neanche una zampa. Ed è buio, un buio pauroso. Mi sa che ci avete riprovato. Mi avete catturato un' altra volta. Perché? Tra poco è autunno. Stavo completando la mia riserva di grasso, tempo un mese o due e me ne andavo in letargo. Conosco una grotta, sui monti. C' è fresco, si sta bene. Mi accoccolavo lì e dormivo tutto l' inverno. Che male vi facevo? E poi, c' è una cosa che non capisco. Voi li orsi li amate. La prova è che ai vostri cuccioli regalate un sacco di orsacchiotti. Appena nati e poi per anni, non fate altro che riempirli di orsi di pezza, orsi come me I vostri bambini ci tengono stretti nel lettino, non si addormentano senza di noi. Gli fate vedere anche i cartoni animati di noi orsi, e loro impazziscono per l' orso Yoghi, col suo berretto verde e la cravatta da uomo. E allora poi perché ci date la caccia? Il cinema non è la vita, è ovvio. Ma nel cinema, nelle storie che inventate, c' è la vita come dovrebbe essere. Ci sono prigionieri che scappano dal carcere, e li chiamate eroi. Pensate al conte di Montecristo, a Papillon Mi avete chiamato orso M49, e poi Papillon. E va bene. Ma il mio vero nome, il nome che mi ha dato la mia mamma quando sono nato, non lo conoscete. Non me l' avete neanche chiesto. Non ve lo perdono. Il nome è il primo regalo che ci fa la vita Mi avete definito anche «orso problematico». E questo mi fa tristezza, per voi più che per me. Ma cosa dite, come parlate? E che razza di gente siete? Davvero per voi la libertà è un problema? Mi avete anche messo un collare. Un collare strano che manda segnali. Lo so che così mi controllate. Non va bene. Non mi va di essere sorvegliato, spiato. Non sono come voi, che vi fate monitorare dai vostri telefonini Vi rubano i dati, sanno tutto di voi: la posizione, i gusti che avete, i prodotti che usate. Dovreste smetterla, e imparare a sciogliervi dai lacci. Dovreste imparare a essere liberi, invece di imprigionare noi. Se volete vi insegno come si fa. Non si può vivere con un collare. Scusate se me lo sono tolto, a un certo punto mi prudeva il collo, un fastidio infinito. L' ho rosicchiato. Ecco, se mi liberate vi insegnerò come si rosicchiano i collari.

Abruzzo, l'orsa con 4 cuccioli attacca il gregge e porta via una pecora. Pubblicato martedì, 25 agosto 2020 da La Repubblica.it. Nasconde prima i suoi quattro cuccioli dietro un cespuglio, poi assale un gregge sotto gli occhi terrorizzati del pastore. Protagonista della vicenda è l'orsa Amarena (F17), nota nell'ente Parco (Pnalm) dal 2016 e tornata in questi giorni nei dintorni di Villalago, in Abruzzo, sui crinali che circondano il lago di Scanno. L'orsa era diventata una celebrità dopo essere stata filmata con al seguito i suoi quattro cuccioli, la prova di un evento rarissimo nella storia del Parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. Con quattro bocche da sfamare, mamma orsa fa quello che può perché bacche, radici e frutta non sempre bastano: così ieri pomeriggio, verso le 17, Amarena è sbucata dal bosco e si è lanciata a tutta velocità verso un gregge di circa 500 capi che pascolava sul pascolo in pendio nella zona di Secinella di Villalago. Il pastore non ha potuto fare nulla: l'orsa ha azzannato una pecora e l'ha trascinata verso il bosco dove l'attendevano i 4 cuccioli. Alla scena avrebbero assistito anche alcuni carabinieri forestali. Le montagne intorno al lago di Scanno sono da sempre terreno di scorribande e sul monte Genzana, ai confini del parco, l'orso ha fatto in passato la sua comparsa tra le case di Frattura, la frazione di Scanno. Negli ultimi anni gli avvistamenti si sono invece moltiplicati anche nella zona di Sulmona, anche nelle zone periferiche della città. La segnalazione eccezionale, pochi mesi fa, è stato l'avvistamento di un orso sugli altopiani pescaresi della catena del Gran Sasso, sopra Villa Celiera, in una zona molto lontana dall'aerale solito degli orsi marsicani.

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 25 agosto 2020. Sono molto amareggiato dal crescente sentimento di ostilità nei confronti dei poveri orsi che, nel Trentino, sembra siano diventati pericoli pubblici. Io non sono un etologo e mi astengo dall'impartire lezioni in materia di fauna selvatica. Però due nozioni sui suoi comportamenti le posseggo, avendo letto sia pure distrattamente qualche trattato. L'orso è solitario, rifugge la compagnia, ama passeggiare più di notte che di giorno. Difatti quando un individuo è burbero e poco sociale viene definito orso. Già questo dovrebbe far capire a chi lo teme insensatamente che l'unico modo per non esserne aggredito è quello di evitare con cura di rompergli i coglioni. Comprendo che l'animale, avvistato nella vegetazione di un monte, possa suscitare in una persona curiosità tale da indurla a superare la distanza di sicurezza. Ma essendo noto che il bestione non è un micio, è sconsigliabile avvicinarsi troppo onde non insospettirlo. Esso infatti è consapevole che dall'uomo non può che aspettarsi del male e quindi è guardingo benché non abbia voglia di guerreggiare specialmente se è ben nutrito. Ecco il punto. Nelle valli del Trentino si è puntato alla ripopolazione delle stupende creature, e si sono spesi milioni per ottenerla. Adesso che è stata ottenuta, invece di nutrirla come Dio comanda, pretendiamo che si arrangi a procurarsi il cibo. E se un orso alla fame si avventa su una gallina (mi spiace per lei) ci stracciamo le vesti e invochiamo la fucilazione del plantigrado mangione. Dimostriamo così di essere completamente idioti. Prima vogliamo gli orsi sui monti e allorché li abbiamo pensiamo sia meglio abbatterli piuttosto che rifocillarli. Riveliamo pertanto una mentalità da trogloditi. E ci dimentichiamo perfino che questo animale è da sempre simbolo di tenerezza, tant' è che ogni bambino ha avuto in dono dai genitori un orsacchiotto morbido da cui per lungo tempo non si è mai separato, una specie di fratellino col quale giocare di giorno e consolarsi di notte, nel buio della camera da letto. Io ne regalai uno a mia figlia Fiorenza per un compleanno e a quaranta anni e più da quella circostanza lei se lo tiene ancora caro, un ricordo dolce. Credo che l'affetto di molta gente per gli orsi nasca proprio dal legame rassicurante che si stabilisce nell'infanzia tra il peluche e il bimbo che ne se impossessa. Certamente avvicinarsi a un'orsa che ha della prole non è prudente, le femmine di ogni mammifero e anche oviparo difendono preventivamente i loro piccoli attaccando con violenza. Chi non lo sa e le sfida appropinquandosi al gruppo rischia, e merita un morso. Troppi cretini dicono di voler difendere il pianeta dal surriscaldamento e poi non rispettano la natura, che è maestra di vita. Cari amici trentini, al posto di sterminare gli orsi invitateli a cena, come avviene in Abruzzo dove alcuni di essi la sera scendono in Paese e si recano, graditi ospiti, in gelateria. Ecco spiegati i motivi per cui il famoso M49, il magnifico esemplare sistematicamente sfuggito alla cattura e alla detenzione, mettendo in atto astuzie degne di Arsenio Lupin, suscita in gran parte del popolo una gran simpatia. I suoi tifosi sono addirittura aumentati dopo che esso è riuscito a guadagnarsi la libertà avendo divelto le inferriate che lo imprigionavano. Non solo. Successivamente, tornato in montagna a respirare aria buona, non inquinata dalla crudele umanità, si è tolto il collare ricognitivo, sicché i suoi schiavisti pensavano fosse morto, mentre era morto tale collare, e lui si è fatto beffe degli aspiranti becchini. Ovvio che qualsiasi animalista consideri questo orso un esemplare da adorare, un mito da tutelare. Mia madre diceva che noi cristiani abbiamo costruito le città per viverci; viviamoci e, anziché andare sui bricchi a scocciare la fauna, rechiamoci al supermercato, un luogo a cui gli orsi fa schifo.

 Tommaso Di Giannantonio per corriere.it il 25 agosto 2020. «Sono stati minuti di terrore, se non fossero arrivati i ragazzi ad aiutarmi non sarei vivo». La paura è stata tanta, ma il tono di voce è pacato e non lascia spazio a variazioni di intensità. Raggiunto al telefono mentre è stato dimesso dall’ospedale Santa Chiara di Trento, Diego Balasso — giovane carabiniere di 24 anni, originario di Recoaro Terme (Vicenza) ma di stanza in Trentino — ripercorre per filo e per segno l’attacco ricevuto da un orso nella serata di sabato, poco prima di iniziare il turno di notte, ad Andalo.

Innanzitutto, come sta?

«Sto bene. Non sono stato ancora dimesso dall’ospedale perché ho ancora le ferite aperte e i medici devono verificare la disinfezione».

Dove ha riportato le ferite?

«Farei prima a dirle dove non le ho riportate. Alla schiena, all’avambraccio sinistro, alle spalle e alla gamba sinistra dal ginocchio in giù, dove mi ha preso per trascinarmi».

L’orso le è sbucato all’improvviso?

«Praticamente stavo passeggiando lungo il sentiero che costeggia il lago di Andalo con una mia amica quando abbiamo sentito, prima, un rumore in acqua e, poi, la rottura di un ramo. La mia amica si è impaurita e si è un po’ allontanata, mentre io, continuando a sentire dei rumori, mi sono sporto a sinistra verso il lago e ho visto una sagoma nera a venti metri da me che risaliva il dirupo».

A quel punto cosa ha fatto?

«Quando ho capito che l’orso mi stava guardando ho urlato alla mia amica di non muoversi e sono rimasto immobile. Poi l’orso si è messo in piedi e si è piazzato davanti a me, iniziando a annusarmi. Io sono rimasto immobile. Dopodiché si è abbassato e mi ha dato due strattoni con i denti sotto il ginocchio. Io ho fatto un passo indietro e a quel punto mi è saltato addosso alla gamba e mi ha buttato a terra. Per fortuna avevo un piumino di montagna che ha diluito il suo impatto».

Come ha fatto a liberarsi?

«Inizialmente, mentre mi trascinava, ho provato a accendere la musica al telefono, ma non è servito a nulla. Poi gli ho lanciato addosso il telefono e il portafogli ma niente. Finché non mi ha infilato sotto la staccionata nell’intenzione forse di portarmi al lago. Mi sono aggrappato alle barriere di legno e sono riuscito a svincolarmi».

E l’ha lasciata perdere?

«No, ha continuato a inseguirmi, ma poi quando è tornato davanti a me ho avuto il riflesso di prendergli le orecchie e di tenergli la testa in basso, non so per quanto tempo. Poi mi ha attaccato di nuovo la spalla sinistra e in quel mentre è arrivato il fratello della mia amica e insieme ad altri ragazzi ha iniziato a urlare mettendo in fuga l’orso. Non fosse stato per loro non sarei vivo».

Ha avuto freddezza....

«Sono stati attimi di terrore, ma essendo un carabiniere ed essendo a contatto con i forestali conosco a memoria tutte le procedure da seguire in queste situazioni. L’intento dell’animale però è rimasto sempre uno».

Alla luce di quanto le è accaduto pensa che debbano essere abbattuti gli orsi problematici?

«Non sono né un animalista, né un esaltato per la caccia, ma sono per il quieto vivere con l’uomo e quello che mi è accaduto è una cosa ingiustificabile. Un animale così non può stare in circolazione. Sull’abbattimento non sono in grado di rispondere, ma un esemplare così è un pericolo per l’uomo».

Lei è un appassionato di montagna, ci tornerà?

«Si certo, sempre con tutte le accortezze».

·        I Nazi-Animalisti.

Paola Colaci per quotidianodipuglia.it l'11 luglio 2020. I treni veloci al Sud? La Puglia e il Mezzogiorno possono attendere. Per gli esperti del Ministero dell’Ambiente viene prima la tutela degli uccelli. Poi, semmai, toccherà al raddoppio della linea ferroviaria adriatica Bologna-Bari. In particolare, alla realizzazione del secondo e terzo lotto del tratto Termoli-Lesina, al confine con la Puglia. Un’opera strategica attesa dal 2001, da quando cioè fu prevista dalla Legge Obiettivo del governo di Silvio Berlusconi, e per la cui realizzazione sono già stati destinati 700 milioni di fondi Cipe. Un’infrastruttura che dovrebbe consentire il superamento di quel “collo di bottiglia” del binario unico, lungo 31 chilometri, che di fatto impedisce il raddoppio della linea ferroviaria nel tratto tra Pescara-Bari. Proprio nelle scorse settimane, però, il progetto definitivo presentato dalla Rete Ferroviaria Italia (Rfi) ha incassato una nuova bocciatura: quella degli esperti di tutela faunistica che in sede di commissione ministeriale di Valutazione di Impatto Ambientale, hanno dato parere negativo alla compatibilità ambientale al progetto. Tra le sottolineature, la presenza di rumori di cantiere che potrebbero arrecare danni all’avifauna. In particolare, alla specie protetta dell’uccello fratino. Da qui, dunque, la necessità di prevedere da parte di Rfi opportune opere di rinaturalizzazione di nuove aree e di interventi utili a ridurre il rumore e contenere ogni impatto sull’avifauna. Opere che il “braccio operativo” delle Ferrovie dello Stato ora dovrà provvedere a realizzare se vuole dare il via ai lavori. E seppure nei fatti si tratti di un ostacolo superabile, la nuova riprogrammazione comporterà inevitabilmente costi aggiuntivi e tempi più lunghi di realizzazione. Eppure nelle scorse settimane era stato proprio il premier Giuseppe Conte ad annunciare l’impegno formale del Governo a portare l’Alta Velocità al Sud. E nelle scorse ore il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Paola De Micheli scommetteva sul Piano #Italiaveloce da 200 miliardi di investimenti spalmati nell’arco di 15 anni. Nei fatti, però, su quel binario unico rimasto tale dal 1863 quando a inaugurarlo fu re Vittorio Emanuele II, c’è il rischio che di treni veloci non se ne vedano ancora per molto tempo. E se da Milano al Molise si viaggia a 200 km orari, nel tratto tra Termoli e Ripalta i convogli dovranno ridurre la velocità di marcia a 140 km orari. Di contro, l’unico a “volare” resta l’uccello fratino. Ma la Puglia non ci sta. «Al Sud non siamo bestie ma di certo gli uccelli sono maggiormente tutelati dei cittadini – tuona Rocco Palese di Forza Italia - Con tutto il rispetto per il fratino ci chiediamo se quelli del ministero vivano sulla Terra o sulla Luna. Di questo raddoppio si parla da 30 anni e, mentre aumentavano tempi e costi dell’opera, lo stesso ministero ha più volte espresso svariati pareri positivi. Tra ricorsi, controricorsi, pareri contrastanti, ordinaria e vergognosa burocrazia italiana, ora spunta anche il fratino. Tutto viene tutelato in questo Paese, tranne i cittadini, specie quelli del Sud, a cui di fatto viene negato il diritto alla mobilità che pure è costituzionalmente garantito». Ma a scendere in campo ora è anche la Cgil Puglia che, per voce del segretario generale Pino Gesmundo affonda il colpo: «Il blocco di quell’opera impedisce la valorizzazione dei nostri hub logistici e portuali, alle nostre imprese di essere collegati a uno degli assi della Trans European Network-Transport che lungo la costa Adriatica si ferma ad Ancona, a impedire il raddoppio della programmazione dei treni, che passerebbero da 80 a 150 al giorno. Non vorremmo che si ricominci con le schermaglie amministrative tra Regioni e Comuni, quindi forse è davvero il caso che lo Stato non perda tempo e utilizzi i poteri sostitutivi. Nel frattempo chiediamo ai ministri della nostra regione, ai parlamentari e al presidente Emiliano di intervenire usando tutti gli strumenti politici e istituzionali a loro disposizione».

Gli italiani sono sempre più animalisti (e sempre più veg). Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. Tanti lo fanno per amor proprio, ma altrettanti per puro amore nei confronti degli animali. È così che oggi quasi un italiano su dieci (l’8,9 per cento) non mangia carne e, addirittura, nessun alimento di origine animale. L’Eurispes anche in questa edizione del suo rapporto (il trentaduesimo) ha contato vegetariani e vegani nella nostra popolazione, e ha scoperto che sono in aumento. Per capire: nel 2019 i vegetariani e i vegani erano il 7,1 per cento, con un aumento di quasi due punti percentuali in soli dodici mesi. Il 23,2 per cento degli italiani che non mangia cibi legati agli animali ha dichiarato di farlo per il proprio benessere, lo stesso motivo che spinge il 18,7 per cento ad avere un’alimentazione priva di lattosio, il 14,6 per cento a mangiare cibi senza glutine, mentre il 16,3 per cento segue un’alimentazione regolarmente arricchita da integratori. Poi ci sono i vegetariani e i vegani che seguono questo tipo di dieta per puro amore nei confronti degli animali. Sono il 22,2 per cento, e certamente rientrano nelle percentuali degli italiani che accolgono in casa gli animali. L’Eurispes ha contato anche loro: sono quattro italiani su dieci (il 39,5 per cento), e anche questo numero è in aumento rispetto al 2019 di ben sei punti percentuali (erano il 33,6 per cento). Tra quelli che tengono in casa un animale spicca un dato: il 9,2 per cento ne tiene in casa tre, se non addirittura più di tre (il 3,6 per cento). Quasi stessa percentuale per chi ne tiene in casa due (il 9,6). Il 20,7 per cento solo uno. Non stupirà sapere che la metà di chi ha un animale tiene in casa un cane (il 48,8 per cento, per la precisione) e uno su tre invece un gatto (il 29,6%). Ma c’è un numero che salta agli occhi: l’1 per cento degli italiani che ha un animale tiene in casa un rettile. Che tradotto in numeri assoluti vuol dire che sono ben 150 mila le persone che scelgono di avere cobra e serpenti come animali di compagnia, la metà di quelli che tiene i cavalli nelle scuderie e i conigli nelle gabbiette. Per curare i loro animali gli italiani sembrano non badare a spese, secondo Eurispes. Uno su dieci spende fino a 200 euro ogni mese, mentre il 4,3 per cento fino a 300 euro e poco più del 2 per cento anche ben più di 300 euro sempre ogni mese. La cura per i propri animali continua anche dopo la loro vita: un italiano su quattro tra chi li possiede, dopo la loro morte, sceglie di seppellirli in un cimitero degli animali, mentre il 38,1 per cento opta invece per la cremazione.

"Io, vittima della follia di una nazi-animalista". Nel bel mezzo dello sciopero dei treni, una donna - per la precisione un'animalista - mi ha strappato la pelliccia dandomi della "stronza assassina". Serena Pizzi, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Quella che sto per raccontare è una storia (reale) di pura follia. Come ogni vero pendolare, anche io sono abituata agli scioperi, ai ritardi e alle cancellazioni dei treni dell'ultimo minuto. E se prima mi infuriavo, ora fumo una sigaretta in più e cerco una soluzione per tornare a casa. Esattamente questo ho fatto ieri sera. Invece di rimanere in balia degli eventi e congelare in stazione, ho trovato un'alternativa: salire su un treno e poi aspettare la coincidenza. La prima parte del viaggio è andata per il verso giusto. Treno in orario, carrozza calda e posto a sedere trovato con facilità. L'attesa per la seconda parte... non troppo. Mentre aspettavo la coincidenza, ero al telefono con un amico. Stavamo parlando del più e del meno, quando mi sono sentita tirare il mio cappotto di pelliccia. Inizialmente pensavo fosse un/una conoscente (un po' manesca) che volesse salutarmi, ma quando mi sono girata e ho visto che non c'era nessuno ho capito che non era proprio così. Va beh, continuo a parlare al telefono. Penso che qualcuno mi abbia urtato involontariamente, ma dopo qualche secondo sento un altro strattone. Questa volta perdo l'equilibrio, ma fortunatamente c'era un'altra persona lì vicino a me e mi tengo a lui. Mi rimetto in sesto e capisco che qualcuno ce l'ha con me. O meglio, con la mia amata pelliccia. Mi giro, mi rigiro, guardo a destra e a sinistra, fino a quando un signore mi fa notare che una donna mi ha strappato la pelliccia. Decido, quindi, di andare a cercare questa signora che ha avuto il coraggio di mettermi le mani addosso, di strapparmi la pelliccia, ma non di guardarmi in faccia per darmi della "stronza". Il primo tentativo va male. In effetti non sapevo neanche che faccia avesse. Il secondo è quello giusto. Mi trovo davanti una signora sulla cinquantina, dal volto un po' stanco e non troppo felice. "Scusi, è stata lei a tirarmi la pelliccia?", le domando. "Certo, chi gliela ha data? Madre Natura?", mi risponde. No, in effetti non me l'ha data Madre Natura, ma soltanto mia madre perché fa la pellicciaia. Apriti cielo, il delirio. "Ti devi vergognare, stronza - ha iniziato a blaterare davanti a tutti -. Io ti denuncio alle associazioni animaliste. Vallo a spiegare a loro. Quanti animali hai ammazzato assassina?" Credo che dalla sua bocca siano uscite altre follie, ma sinceramente non ricordo. In quel momento ero davvero furiosa, lei urlava e io pure. "Ma lei come si permette di strappare un vestito a una persona che nemmeno conosce? - le ho subito ribattuto - Come si permette di mettermi le mani addosso? Io sarei potuta cadere fra i binari. E ora me la ripara lei?!?". Ovviamente, la discussione è degenerata. Mi sono abbassata al suo livello e ci siamo ricoperte di insulti. Un grande classico. Dopo poco arriva il treno. Salgo e sono arrabbiatissima. Mi tolgo la pelliccia: è completamente aperta sulla schiena. Distrutta. Scendo dal treno e la porto a mia madre per fargliela aggiustare. "Ma la gente cos'ha nel cervello?", mi chiede lei cercando di non fomentarmi più di tanto. Sinceramente non lo so nemmeno io. Ma questa aggressione animalista mi sembra davvero esagerata.

·        Droga Animale.

Droga Animale. "Da focus.it il 27 dicembre 2019. Se pensiamo che la dipendenza da sostanze che alterano le percezioni sia una prerogativa umana, commettiamo un grosso errore. In natura, infatti, sono più di trecento le specie animali che si abbandonano ai vizi volontariamente e in qualche caso in maniera abituale. Eccone alcune...

L'animale più studiato per verificare le dipendenze da sostanze inebrianti è il gatto. A partire dall'erba gatta - o gattaia - che serve per pulire l'apparato digerente, il gatto selvatico sviluppa una dipendenza verso alcune piante che poi cercherà regolarmente. Tra queste, oltre alla già citata Nepeta Cataria (erba gatta, vedi i suoi effetti), ci sono il Teucrium Marum (camedio maro) e la Valeriana: la prima è un afrodisiaco che dà al maschio maggiore potenza prolungando l'erezione e alla femmina un comportamento voluttuoso. La valeriana invece è un potente allucinogeno.

Alla capra si deve la scoperta di sostanze che poi sono state consumate anche dall'uomo, come il caffè. Diversi racconti popolari spiegano come l'uomo, osservando il comportamento bizzarro ed esagitato delle capre che si erano cibate delle bacche di caffè, si sia spinto a provarle. In Etiopia e nello Yemen, invece, le capre sono ghiotte delle foglie di khat (Catha edulis Forsk, famiglia delle Celastraceae), pianta dalle proprietà euforico-eccitanti la cui masticazione impegna quotidianamente gli uomini che vivono in quelle regioni. Anche il consumo del 'fagiolo del mescal' - il seme della leguminosa Sophora secundiflora - che provoca stati allucinatori pari a quelli del peyote, è stato indotto dalla curiosità che suscitava il bizzarro comportamento delle capre.

In tema di "droghe animali", la predilezione degli elefanti va all'alcol: sono capaci di aspettare la maturazione dei frutti di diverse specie di palme di cui poi si cibano, visto che solo dopo l'inizio del processo di fermentazione il frutto diventa alcolico. Quest'attesa indica che la ricerca dell'alcol è intenzionale. Gli elefanti ubriachi diventano poi ipereccitati e, cosa più grave vista la mole, perdono la coordinazione motoria, si impauriscono facilmente e quindi diventano aggressivi. Un branco di elefanti ubriachi è un serio pericolo per l'uomo: non è raro leggere tra le cronache notizie di disastri provocati da questi animali. Per questo vizietto, in India, i pachidermi sono perfino utilizzati per stanare distillerie clandestine.

Il caso più divertente di sbornia collettiva è rappresentato però dai pettirossi americani. Questi si nutrono di bacche, specie quelle dell'arbusto conosciuto come California Holly, capaci di farli ubriacare. I pettirossi si cibano smodatamente di questa pianta (circa trenta bacche quando in realtà, per nutrirsi, ne basterebbero cinque). Dopo la scorpacciata, è possibile vedere stormi di uccelli che volano in modo caotico e comico; molti si divertono spingendosi in inseguimenti e giochi stupidi tra di loro, altri giacciono al suolo sbattendo le ali in una sorta di intorpidimento, altri ancora svolazzano addentrandosi in case e auto. Non si riporta nessuna morte per "overdose" da bacca, ma molti uccelli rimangono uccisi dalla interazione con l'uomo oppure sono facile preda di gatti e cani.

Anche comunissimi insetti come formiche e mosche non sono esenti dall'uso di sostanze stimolanti. Le mosche, ad esempio, sono molto attratte dal fungo chiamato amanita muscaria, il cui nome deriva proprio da "mosca", in quanto è noto che questi insetti sono attratti dai cappelli del fungo e ne rimangono "stecchiti".

Il comportamento più bizzarro che si osserva in natura tra gli insetti è quello del cervo volante. Queste creature sono consumatrici avide della secrezione di linfa in fermentazione delle querce. Il liquido in questione rappresenta una specie di birra naturale con la quale i cervi volanti si ubriacano. Dapprima cominciano a schiamazzare, poi cadono barcollando dall'albero, cercano di reggersi goffamente sulle zampe, peraltro senza successo, e smaltiscono la sbornia dormendo.

Anche le renne, che come aiutanti di Babbo Natale dovrebbero mantenere un certo decoro, sono animali "viziosi". La loro droga preferita è l'amanita muscaria (Agarico muscario), di cui sono abilissime ricercatici nelle foreste di betulle. Dopo la scorpacciata di funghi, le renne iniziano a correre e rincorrersi in modo scoordinato, si isolano dal branco e ciondolano vistosamente la testa, comportamento che, in generale per tutti gli animali, è segnale di stato alterato. L'auto-isolamento dal branco ha gravi ripercussioni sul gruppo: i piccoli, lasciati incustoditi, possono rimanere vittime dei lupi. Le renne sono anche molto attirate anche dall'urina dei propri simili, dato che contiene una percentuale molto alta di sostanza inebriante.

I cinghiali e i mandrilli sono i più grandi consumatori di iboga. Si tratta di una pianta (Tabernanthe iboga Baill., famiglia delle Apocynaceae) le cui radici sono allucinogene. Il maschio del mandrillo, in particolare, ha un comportamento interessante nei confronti di questa droga perché se ne ciba poco prima di un combattimento per stabilire la supremazia all'interno del branco, oppure per la conquista di una femmina. Il maschio, generalmente, si ciba della radice dell'iboga e attende circa un paio d'ore prima della lotta, proprio per permettere alla sostanza di sprigionare gli effetti. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che l'iboga venga utilizzata per aumentare la potenza e per attutire il dolore provocato dai colpi subiti. Proprio come succede per noi con la medicina omeopatica, anche il mondo animale regala esempi di assunzione di vegetali per i loro poteri medicamentosi. L'erba è usata come vermifugo e depurativo da gatti e cani, mentre l'ingestione di terra è necessaria a scimmie e uccelli per liberarsi dalle tossine dei cibi.

Gli scimpanzé della Tanzania usano le foglie di una pianta delle Asteraceae più che altro per l'agente antibiotico che contiene. Tartarughe e donnole mangiano origano e ruta disintossicanti, dopo aver divorato un serpente. I serpenti, dal canto loro, stimolano la capacità visiva cibandosi di finocchio.

E l'orso, non appena esce dalla tana del letargo, si "tuffa" sull'aro selvatico, che stimola la funzione intestinale ormai assopita. A metà strada tra l'utilizzo delle piante e degli insetti a scopo curativo e quello intenzionalmente usato per raggiungere una sorta di ebbrezza, ci sono le scimmie cappuccino. Come tutte le scimmie, anche questa specie utilizza le foglie di alcune piante - diverse a seconda della specie - come lenitivo per le punture di insetti e come antiparassitario.

La particolarità delle scimmie cappuccino, però, è che cospargono il proprio manto con esemplari di un particolare tipo di millepiedi (l'Anadenobolus monilicornis), ottenendo in tal modo uno stato di eccitazione che dura circa una trentina di minuti. Gli etologi hanno ipotizzato che la reazione è causata da qualche principio psicoattivo contenuto nelle piante di cui il millepiedi si nutre.

Anche i ricci sono molto ghiotti di vino. Essendo un formidabile insettivoro, il riccio è stato considerato dall'uomo un grande alleato per proteggere gli orti dall'attacco di larve e insetti. Un modo efficace per far sì che il riccio si senta a casa e divenga un ospite fisso dell'orto che si desidera preservare è quello di lasciare a sua disposizione una ciotola contenente del vino.

Anche le lumache sono in qualche modo alcoliste: vanno matte per birra e vino. Un vecchio rimedio per disinfestare le piante da quello che può diventare un vero flagello consiste, anche in questo caso, di servire loro una ciotolina contenente una delle due bevande. È il modo più biologico per catturarle ed eventualmente disfarsene...

Mucche, cavalli e anche pecore possono impazzire (e non è un eufemismo) se si cibano di alcune erbe che crescono in nord America e che vengono comunemente dette locoweed. Sono piante selvatiche e psicoattive per gli animali da pascolo, i cui effetti sono principalmente l'auto-isolamento e la perdita di appetito: i soggetti possono diventare cattivi e diffidenti anche nei confronti della mandria.

·        Cosa non si fa per il foie gras.

 Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2019. «Nei prossimi mesi presenteremo il primo prototipo, poi ci dedicheremo ad abbattere i costi di produzione. Prevediamo che il nostro foie gras coltivato in laboratorio arriverà nei supermercati entro tre-cinque anni». Nicolas Morin-Forest è un diplomato a SciencesPo (il prestigioso istituto universitario di Parigi) che assieme a due amici biologi vuole reinventare il foie gras, la più controversa delle specialità gastronomiche francesi. La start up Gourmey punta a creare un foie gras indistinguibile nell' aspetto e nel gusto da quello tradizionale, ma fabbricato a partire dalle cellule staminali prelevate da un uovo di anatra. «Vogliamo dimostrare che la carne creata in laboratorio senza uccidere animali non è fantascienza, sappiamo farla e può essere molto buona. Abbiamo scelto il foie gras per dimostrare che con le nuove tecniche si possono fare non solo hamburger o nuggets di pollo, ma anche prodotti molto sofisticati». Il «fegato grasso» di anatre e oche, che veniva già consumato dagli antichi romani, è diventato a partire dal Settecento un prodotto tipico della cucina francese, un simbolo del savoir vivre e del Sud-Ovest rurale, ma da qualche anno anche delle crudeltà che gli uomini infliggono agli animali. Nei menu natalizi francesi il foie gras era e per molti è ancora fondamentale; in questi giorni di scioperi contro la riforma delle pensioni e di blocco dei trasporti, tra tante preoccupazioni, c' è anche quella di una possibile penuria di foie gras a Parigi. Accanto alla tradizione c' è il disagio, specie nelle nuove generazioni, per i 30 milioni di anatre e le 260 mila oche ingozzate a forza. Il 20 ottobre scorso il comune di New York ha proibito la vendita della specialità in negozi e ristoranti a partire dal 2022, la produzione è già messa al bando in quasi tutta Europa, e secondo un sondaggio YouGov di un anno fa quattro francesi su 10 non comprano più foie gras per ragioni etiche. Il foie gras a partire dalle staminali fa parte dell' interesse mondiale per la carne di laboratorio. Nel 2013 fece scalpore il prototipo di hamburger da 290 mila euro finanziato da Sergey Brin (il co-fondatore di Google), che costa ormai 10 euro e che l' olandese Mosa Meat potrebbe fornire ai ristoranti a partire dal 2021. L' israeliana Aleph Farms lo scorso ottobre ha prodotto carne in vitro a bordo della Stazione spaziale internazionale, un colpo di marketing per dimostrare che il futuro - anche nei viaggi spaziali - appartiene alle sue bistecche in vitro. I laboratori di Gourmey si trovano a Evry, alle porte di Parigi, all' interno dell' incubatore di biotecnologie Genopole. «Siamo la prima start up di carne coltivata in laboratorio ad avere ottenuto finanziamenti dall' Unione Europea - dice Nicolas Morin-Forest -, e riceviamo fondi anche dallo Stato francese e da investitori privati». Il foie gras di laboratorio non è pensato solo per chi ha a cuore la sorte degli animali «ma soprattutto per chi si preoccupa per l' ambiente. I piccoli allevatori di qualità avranno sempre una loro clientela e noi pensiamo di essere complementari» dice Morin-Forest. «I nostri rivali invece, in prospettiva, sono i grandi allevamenti industriali, troppo inquinanti».

·        Animali da Salotto.

Claudia Osmetti per "Libero Quotidiano" il 25 agosto 2020. Un alpaca in salotto e la capra tibetana in giardino. Ma quali cani e gatti: gli animali da compagnia, adesso, si vanno a pescare tra le specie esotiche. Mufloni, piccoli arieti, suini thailandesi. E non si tratta mica più di qualche capriccio da star, modello George Clooney a braccetto con il suo maialino nano o Mike Tyson in posa accanto all'adorata tigre bengalese. Nossignori. La moda, qui, riguarda tutti: be', sì, tigri a parte. Lo dice chiaro che più chiaro non si può la Cia (la Confederazione italiana degli agricoltori) di Reggio Emilia: «È un vero e proprio boom, una pratica diventata comune», racconta la tecnica forestale Arianna Mariotti snocciolando gli schedari dell'associazione.  «E non si tratta di richieste di allevatori o altre persone del settore, sono cittadini privati che vogliono avere al proprio fianco questi animali per questioni puramente affettive. Concluso il lockdown, tra l'altro, le richieste stanno subendo un ulteriore incremento». Vuoi mettere andare a fare la spesa con un iguana al guinzaglio?

ASINELLO IN REGALO. Chiariamo subito: non tutti i cuccioli "selvatici" si possono adottare. Ché un conto è avere in casa un criceto che rosicchia carote tutto il giorno e un conto è un vitello che passa le ore a giocare con i bambini nel retro di un palazzo condominiale (sì, esiste: e pare che ci sia pure da divertirsi non poco). Le esigenze sono differenti e così anche l'impegno e la cura. Chiarito questo, però, largo alla fantasia. Da chi s' è messo in testa che non c'è niente di più ecologico di due mufloni uso taglia-erba da piazzare sul prato all'inglese della casa di campagna, a chi ha regalato per l'anniversario di nozze un bellissimo asino alla moglie (i diamantini son diventati banali, diciamocelo una volta per tutte). A Reggio Emilia prendono sul serio queste nuove affezioni con i "pet" più insoliti del pianeta, e infatti gli esperti dell'azienda sanitaria locale fanno ispezioni e controllo per attestare le condizioni degli animali e il loro trattamento. Più che giusto. Il punto, però, è che anche il resto d'Italia non riesce a resistere al sorriso disarmante di un lama peruviano. Giada è una ragazza di nemmeno trent' anni, della provincia di Cesena, che dopo essersi messa in tasca un diploma in Agraria ha deciso di dedicarsi alla sua passione: così ha aperto un allevamento di animali da compagnia "strani", che in breve tempo è diventato una fattoria di conigli nani, pecore svizzere e alpaca richiestissimi. Gli affari vanno bene (i suoi cuccioli, Giada, li cede solo a privati: astenersi perdigiorno) e ha anche iniziato a organizzare visite didattiche. Tra chi le chiede di adottare un mini maiale, chi si innamora dei suoi galli e chi a casa si vuole portare un'anatra da compagnia. È la carica dei cuccioli non convenzionali, che portano il buonumore anche solo a guardarli. E chi l'avrebbe mai detto che bastava una capretta per sentirsi un po' meno soli? Ovvio, ci vuole costanza. E anche un po' di buon senso: ché una colonia di tarantole velenose, forse, è meglio evitarla a priori e se i ricci sono vietati dalla legge perché rientrano in una specie protetta, un motivo ci sarà. Tuttavia roditori (nutrie comprese), furetti, uccelli e rettili stanno soppiantando, si fa per dire, nelle nostre case, i bassotti e i pastori tedeschi. A ognuno il suo: le capre nane sono molto giocherellone ma fanno un baccano che la metà basta quindi chi ama il silenzio è meglio si diriga su altri lidi; il petauro dello zucchero è un animale notturno che andrà d'accordo con gli insonni incalliti; le puzzole sono esemplari socievoli e si divertono con pressoché qualsiasi cosa capiti loro a tiro, ideali per i bambini.

TARTARUGHE E GERBELLINI. L'Enpa (l'Ente nazionale per la protezione degli animali) recupera ogni anno un numero sempre maggiore di tartarughe d'acqua, scoiattoli giapponesi, cincillà e gerbillini (ossia piccoli topolini). Segno che qualche imbecille che si stufa un po' troppo presto dell'animaletto particolare, c'è anche nelle file dei padroncini inusuali. Ecco, questo no. Per il resto, sappiate che non è più così strano vedere scorrazzare un tacchino in camera da letto.

·        Il Gatto.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 6 giugno 2020. «Io sono il gatto, sono leale. Io ho orgoglio e dignità. E ho il ricordo... Anch' io so amare. Ma solo con metà del cuore. Accetta quanto posso darti. Poiché se ti dessi tutto non riuscirei a sopportare il tuo inevitabile tradimento...», disse il felino saggio. Coloro che hanno la sensibilità di comprendere questa poesia di Paul Gallico hanno decifrato molto delle loro tigri da salotto, agli altri non vale la pena spiegare nulla, tanto non capirebbero. E ignorano che - come l' essere umano dall' intelligenza sofisticata - il gatto educato capisce quando è il caso di soprassedere a quelli che ritiene siano i suoi diritti, quando è il caso di comportarsi con savoir faire senza che ciò intacchi la sua autorità. Ma ci sono enigmi rimasti senza soluzioni che sfuggono pure agli scienziati. Domande che l' uomo si pone da secoli. Come fa, per esempio, il piccolo felino a sopravvivere ai mirabolanti atterraggi? Qual è il segreto dei suoi riflessi fulminei? Che in confronto il cane sembra un bradipo. Acrobazie incantevoli, che lasciano senza fiato: caratteristica, quasi proverbiale, che ha contribuito ad alimentare la leggenda delle sette vite (o nove secondo altre scuole di pensiero). «La capacità del gatto di raddrizzarsi in volo è nota a tutti. Quello che è meno noto, invece, è che questa sua abilità tira in ballo una notevole quantità di concetti scientifici. La fisica e la fisiologia del riflesso verticale affascinano, frustrano e sconcertano gli studiosi da sempre», spiega Gregory J. Gbur nel suo libro Perché i gatti cadono sempre in piedi e altri misteri della fisica (edito da Il Saggiatore) che ricostruisce la storia accreditata della sinuosa elasticità dei gatti: il paradosso di Schrödinger, le ipotesi bizzarre e anche l' imbarazzata ammissione della comunità scientifica di non riuscire a comprendere la meccanica dei miracolosi atterraggi. L'americano Gbur, professore della Carolina del Nord, si inserisce nella controversia che in due secoli ha coinvolto Isaac Newton, James Clerk Maxwell, i matematici Giuseppe Peano e Vito Volterra, Albert Einstein e persino lo scrittore ingegnere Carlo Emilio Gadda. Innanzitutto, quella che gli esperti chiamano «reazione di raddrizzamento aereo», è un riflesso istintivo che il gatto sviluppa dalla quarta alla sesta settimana, e si verifica anche quando lo si rilascia tenendolo a zampe in su. Quando comincia a cadere dall' alto, il felino ha il dorso verso il basso ed è piegato a semicerchio. La sua predisposizione naturale lo induce, dopo qualche decina di centimetri, a distendere i muscoli della schiena e ad allungare le zampe; così il ventre diventa convesso e la schiena concava, alterando il centro di massa e facendolo roteare; quindi deve solo mantenere questa posizione per atterrare sulle zampe. Ma è una teoria, che pur piacendo molto agli studiosi dell' Ottocento, vale solo se un gatto è sospeso a due punti fissi ai lati, il che gli permetterebbe di spostare il centro di massa sopra o sotto quei punti. Un gatto in caduta libera non è sospeso a nulla; una variazione nella posizione del suo corpo non influisce affatto sulla sua stabilità. La sfinge del focolare, come la chiamavano gli antichi egizi, «colta da un' improvvisa paura, piega la spina dorsale, protende lo stomaco e allunga le zampe e la testa come se cercasse di ritornare al punto di partenza, il che dà alle zampe e alla testa una leva maggiore. Così si ritrova a terra sulle quattro zampe e riesce a correr via ancora più in fretta». Cade sulle quattro zampe purché l' altezza del volo sia almeno di un metro e mezzo, il felino deve avere un tempo sufficiente per assumere la postura che lo salverà dall' attrazione gravitazionale terrestre. Uno studio recente dell' Università di New York su 137 gatti caduti dall' alto rivela che uno di questi è precipitato dal 32esimo piano riportando una lesione sul palato superiore e un collasso polmonare. Dopo due giorni di cure è stato dimesso, perfettamente guarito. Gli altri, quelli venuti giù dal settimo al 32esimo, avevano maggiori possibilità di sopravvivenza e meno danni fisici, rispetto a quelli "ruzzolati" dal secondo al sesto piano. Un risultato paradossale che sfida la legge di gravità di Newton, e che apparentemente trasgredisce un' altra legge della fisica newtoniana: quella di conservazione del momento angolare, «secondo cui un corpo rotante che non sia soggetto ad alcuna forza esterna persiste nel suo stato rotatorio e non può in alcun modo modificarlo». Quindi il micio per sua disgrazia dovrebbe atterrare sulla schiena. Invece no. Come è possibile che un gatto stravolga il pensiero di Newton? Magia e mistero a parte, la verità - come già aveva intuito nel 1895 il professore Giuseppe Peano dell' Università di Torino, che entrò a piedi giunti nella controversia, e lo fece senza formule matematiche ma con leggerezza, ironia e buon senso come era nel suo carattere - è che il piccolo felino «non è un corpo rigido ma è in grado di deformarsi per la sua spina dorsale flessibile; quindi si può scomporre idealmente in due cilindri corrispondenti alla parte anteriore del corpo e a quella posteriore; la parte anteriore ruota in senso orario mentre la parte posteriore ruota in senso anti-orario. E nell' insieme il gatto riesce a ruotare di 180 gradi in virtù del fatto che i due moti rotatori inversi, sommati, si elidono: dunque "fisicamente" il gatto resta sempre con momento angolare nullo». Maestro naturale di paracadutismo: il suo atterraggio morbido è dovuto ai muscoli particolarmente robusti in grado di assorbire la forza dell' impatto; ammortizzatori eccellenti da evitare che l' impatto spezzi le ossa dell' animale. E le zampe sotto il busto sono piegate in modo che l' urto venga trasmesso alle articolazioni invece che direttamente alle ossa. Ed è pure un esperto conoscitore della fisica dei fluidi: a differenza del cane, quando beve non immerge la lingua nel liquido ma arriva a lambirne la superficie con la punta. Così l' acqua si attacca alla lingua, grazie a una forza che agisce sulla superficie di un fluido. Strada facendo, il gatto ha svelato altre sorprese e provocato un graffiante malcontento nella comunità scientifica che sta cercando di replicare con le macchine l' abilità di volo del piccolo felino. Così come le modelle da anni tentano di imitarne l' elegante e la sinuosa camminata (catwalk). Senza riuscirci, ovviamente.

Piero Martin per “la Stampa” il 4 ottobre 2020. Se il cane è il miglior amico dell'uomo, il gatto è quello dei fisici. I nostri amici a quattro zampe sono infatti dei laboratori ambulanti. A venticinque anni dal primo articolo scientifico scritto da un gatto e a ottantacinque da quando un rappresentante della specie ha rischiato una delle sue sette vite per gettare luce sulla meccanica quantistica, sfogliamo alcune pagine di un ipotetico manuale di fisica felina. Il nostro libro non può che aprirsi con il più celebre tra i gatti «scienziati»: quello di Schrödinger. Il Nobel per la fisica nel 1933 gli chiese aiuto per un esperimento - per fortuna del felino solo mentale - che illustrava situazioni di indeterminazione nell'allora neonata meccanica quantistica ed interveniva in un acceso dibattito che appassionava lo stesso Einstein. Incidentalmente si dice che Schrödinger non possedesse un gatto, ma un cane. Che sia questo il motivo per cui nella scatola col veleno c'è finito il gatto? La vicenda del gatto quantistico, che poteva essere contemporaneamente vivo o morto, non solo ha poi ispirato serissimi esperimenti reali di fisica quantistica (senza gatti!), ma ha addirittura oltrepassato i confini dell'accademia fino a diventare icona pop ed essere ripresa in libri, film, giochi di carte e videogiochi. Pur non raggiungendo le stesse vette di celebrità anche il felino Chester si è guadagnato un posto nella letteratura scientifica. Letteralmente. Giusto un quarto di secolo fa è stato infatti autore di uno storico articolo in Physics Review Letter, rivista americana da sempre meta ambita dei fisici (Phys. Rev. Lett. v. 35, p.1442, 1975 è la citazione). Jack Hetherington, il suo padrone, era professore alla Michigan State University e aveva dattilografato un articolo dedicato all'atomo di Elio. Accortosi di aver usato nel testo il pluralis maiestatis, cosa non contemplata dalle rigide regole stilistiche della rivista dato che l'articolo aveva un solo autore, per evitare di spendere ore a dattiloscrivere nuovamente il tutto (all'epoca non esisteva il «Taglia e Incolla»), corresse solo il frontespizio aggiungendo il nome di un secondo autore il suo gatto Chester. Per non rendere la cosa troppo evidente lo ribattezzò F.D.C. Willard, ovvero Felix Domesticus Chester Willard, dove Willard era il nome del padre di Chester. Anche l'austera American Physical Society ha ripreso l'aneddoto in un comunicato stampa - guarda caso il 1 aprile 2014 - per dire che tutti gli articoli scientifici con autori gatti sarebbero stati liberamente disponibili sul suo sito web. La prestigiosa società scientifica americana, che conta 54000 membri, non è nuova a scherzose interazioni col mondo miagolante. Nel 2001 ha pubblicato una parodia intitolata «fisica felina» dove alcune leggi fondamentali vengono «adattate» ai quattro zampe. Ad esempio il principio di inerzia galileiano, che viene così riformulato: «Un gatto in quiete tenderà a rimanere in quiete a meno che su di esso non agisca qualche forza esterna, come l'apertura di una scatoletta di cibo o il veloce passaggio di un topo nei dintorni». Chi possiede un gatto sa di cosa parlo. Rimanendo in tema di meccanica classica va citato uno dei problemi sui quali i fisici si confrontano (seriamente): come fa un gatto in caduta libera da qualsivoglia posizione ad atterrare sempre sulle quattro zampe senza violare leggi fondamentali? La teoria di questa nota abilità è ancora oggetto di pubblicazioni: una tra le più recenti è apparsa nel 2018 nello European Journal of Physics per mano di due ricercatori dell'Istituto Reale di Tecnologia di Stoccolma. Se la caduta dei gravi ispirò Galileo, quella dei gatti incuriosì anche Maxwell, fisico scozzese dell'800 che però è passato alla storia per il suo fondamentale contributo all'elettromagnetismo. Disciplina in merito alla quale il gatto è un vero e proprio laboratorio semovente (o forse più spesso dormiente?). Basti pensare all'effetto triboelettrico, ovvero quel processo nel quale un oggetto accumula carica elettrica per strofinio (tribein in greco antico significa appunto strofinare) e può in seguito rilasciarla attraverso una piccola scarica. Un'esperienza che ci sarà senz' altro capitata quando si accarezza un gatto in una giornata secca: la sua pelliccia si carica facilmente e son scintille. Scintille feline che pare abbiano ispirato addirittura Nikola Tesla nei suoi studi sull'elettricità. In un racconto il geniale inventore descrive infatti il suo stupore nell'osservare l'elettricità statica in Maak, il gatto di famiglia (Maak in serbo significa proprio gatto). Dalla fisica quantistica a quella classica il fascino felino ha lasciato il segno. Anche la «big physics» non ne è indenne: Hello Kitty, il famoso personaggio dei cartoni - che in realtà pare non sia un gatto pur avendone le sembianze - è addirittura entrato nella comunicazione dell'International Linear Collider, un grande acceleratore di particelle che potrebbe essere costruito in Giappone. Insomma d'ora in avanti guardiamo con occhio diverso ai seicento milioni di gatti nel mondo: ciascuno di loro potrebbe un domani ispirare un Nobel!

Alberto Mattioli per “la Stampa” il 4 ottobre 2020. Ma perché limitarsi alla scienza? L’effetto del gatto è benefico in ogni campo dello scibile umano. Infatti il gatto piace alla gente che piace. Gattolici credenti e praticanti sono stati uomini politici (il cardinale di Richelieu, Churchill) e sant’uomini (Benedetto XVI, ma anche il suo predecessore Leone XII dava udienza tenendo in grembo Micetto, che alla sua morte fu adottato dall’ambasciatore di Francia a Roma, il quale era niente meno che Chateaubriand, è tutto nei Mémoires d’outre tombe), scrittori, poeti, artisti, musicisti, commediografi, attori (solo quelli non cani, però). Troppi per elencarli tutti, troppo illustri per non pensare che dietro ogni grande uomo ci sia un gatto, il quale è grande per definizione. Il gatto suscita l’ispirazione e aiuta la concentrazione. Stimola la fantasia e rende fantastica la realtà. Il tempo con lui è il tempo sospeso del sogno, della rêverie, dell’immaginazione. È un tempo senza tempo e, insieme, il tempo speso meglio. «La tua schiena accondiscende la carezza lenta della mia mano.  Hai accolto, da quella eternità che è già oblio, l’amore di una mano timorosa. Sei in un altro tempo. Sei il padrone di un abito chiuso come un sogno», scrive Borges al suo gatto, anzi al gatto di cui era l’umano. Pierre Loti fece battezzare i suoi. Noi, poveri bipedi limitati, dal gatto possiamo solo imparare, perderci in quelle pupille che sono la porta d’ingresso all’eternità, e dietro le quali è impossibile, o forse empio, non pensare che ci sia un’anima. «Il più piccolo dei felini, il gatto, è un capolavoro», diceva qualcuno che di capolavori s’intendeva: Leonardo da Vinci.

·        I Cani.

ANTONIO CALITRI per il Messaggero il 12 novembre 2020. Un concorso internazionale per individuare il cane più intelligente del mondo. Questo almeno è l'intento del dipartimento di etologia della Eötvös Loránd University di Budapest che dopo aver selezionato centinaia di esemplari tra i cani più geniali e intelligenti al mondo, ne ha individuato sei, tutti di razza border collie, che adesso si sfideranno in una sorta di talent simile a quelli che vediamo tutti i giorni in Tv per il miglior cantante, migliore chef e così via, trasmesso in live streaming fino a dicembre sul sito geniusdogchallenge.com. Un gioco ma anche un progetto sperimentale dell'università ungherese. Il metodo utilizzato dal team di Genius Dog Challenge per la selezione dei concorrenti al titolo di cane più intelligente del mondo è stato quello della capacità di riconoscere i nomi dei loro giocattoli. Claudia Fugazza, ricercatrice del team del professor Ádám Miklósi, ha spiegato al Guardian, che «abbiamo trovato sei di questi cani, tutti border collie, in Spagna, Norvegia, Ungheria, Florida, Paesi Bassi e Brasile» precisando che «naturalmente, non possiamo affermare che questa è un'abilità che appartiene solo ai border collie, ma in effetti sembra essere più frequente in loro». E forse non è un caso. Rico, Whisky, Max, Squall, Gaia e Nalani, questi i nomi dei cani che partecipano al titolo di genius.

LA SFIDA. Già nel 1994, il professor Stanley Coren, della British Columbia University di Vancouver, dopo aver sottoposto a una serie di test di intelligenza adattiva, istintiva e di obbedienza la maggior parte delle specie canine, nel volume The Intelligence of Dogs stilò la classifica dei cani più intelligenti del mondo. E al primo posto troviamo proprio il Border collie, seguito dal Barboncino e dal Pastore tedesco. E poi, Golden Retriever, Dobermann, Pastore scozzese, Labrador Retriever, Papillon, Rottweiler e Pastore australiano. Quindi nessuna sorpresa sul fatto che il concorso si svolga tra border collie. Più discutibile per gli scienziati è il fatto che la sfida è sulla capacità di imparare più velocemente i nomi di giocattoli. Il concorso infatti si svolge in due sessioni, nella prima, i sei concorrenti dovranno imparare sei nomi di giocattoli. Nella seconda invece, di nomi di nuovi giocattoli ne dovranno imparare dodici. Quella dell'apprendimento dei nomi degli oggetti è una capacità molto diversa è più difficile rispetto all'apprendimento dei comandi, campo in cui tutti i cani, seppur in maniera differente riescono. Sulla capacità di conoscere i nomi delle cose, esiste un precedente pubblicato sulla rivista Science del 2004 su un border collie che conosceva i nomi di ben 200 oggetti. «In due anni del nostro progetto» ha spiegato la dottoressa Fugazza «non siamo riusciti ad addestrare i cani a riconoscere il nome degli oggetti. Se fosse solo questione di associare un suono a un'azione sarebbe stato possibile». Ma che sia quello di conoscere i nomi degli oggetti un metodo per determinare l'intelligenza o la genialità non trova tutti d'accordo. Dal professor Coren che ha individuato l'istintività, l'obbedienza e l'adattamento all'italiano Angelo Quaranta, professore di fisiologia veterinaria dell'Università di Bari e tra i massimi esperti del settore. Per il docente barese, «quando si parla di intelligenza del cane, spesso si equivoca e si intende la capacità a svolgere dei compiti che sono specifici dell'uomo. E quello di conoscere parole dell'uomo, non è una qualità del cane e non dimostra che il cane è intelligente ma semplicemente che sa fare delle cose umane. E non mi sorprende che in questa iniziativa ci siano solo border collie, che è una razza molto reattiva all'uomo, omodipendente, ma non per questo è più intelligente». Come si può valutare all'ora l'intelligenza di un cane? «Per valutare l'intelligenza di un cane, come di qualsiasi altro animale, sarebbe più corretto utilizzare il metodo del problem solving, la soluzione di un problema, non umano però ma riguardante l'habitat dell'animale che si sta valutando».

Il cane e l'uomo, ventimila anni insieme. Laura Scillitani su La Repubblica il 3 novembre 2020. E' il nostro amico più antico: uno studio pubblicato su Science utilizza un approccio innovativo per analizzare il suo antico genoma. La nostra relazione con lui è molto più antica di quanto si pensava. Condividiamo con i cani parte della nostra storia evolutiva. “Quando nelle lunghe notti gelate levava il muso alle stelle gettando lunghi ululati nello stile dei lupi, erano i suoi antenati morti e ridotti in polvere, che levavano il muso alle stelle e ululavano nei secoli attraverso di lui.” Così scriveva Jack London ne “Il richiamo della foresta”, la celebre storia del cane Buck, che dopo mille peripezie tra i ghiacci del Klondike, riguadagna la libertà scappando coi lupi. Ebbene, una recentissima ricerca pubblicata su Science  ci rivela che gli antenati selvatici di Buck  e dei suoi conspecifici potrebbero aver iniziato a vivere in compagnia dell’uomo ben 20 mila anni fa. Molto tempo prima di ogni altro animale domestico: maiali, pecore e vacche ad esempio sono stati addomesticati nel Neolitico (8000 anni fa circa), quando con l’inizio dell’agricoltura si sono formati i primi insediamenti umani stabili. Lo studio vede la collaborazione di un team di 56 scienziati, tra genetisti ed archeologi, e si basa sull’estrazione del DNA da reperti ossei risalenti a circa 11 mila anni fa, appartenenti a 27 cani che hanno vissuto tra Europa, Siberia e Vicino Oriente. I risultati mostrano che 11 mila anni fa esistevano già 5 diverse linee evolutive  di cani nell’area indagata, e questo indica che la domesticazione deve risalire a molto prima, l’ipotesi è tra i 15 mila e i 20 mila anni fa, durante l’ultima glaciazione (Würm) del Pleistocene, quando le popolazioni umane erano ancora quelle dei cacciatori e raccoglitori. Nel corso degli ultimi 10 mila anni poi, questi primi cani si sono mescolati e spostati, dando origine a quelli che conosciamo oggi. I ricercatori hanno comparato i cambiamenti nel tempo delle popolazioni canine con quelle umane. In alcuni casi, i cambiamenti osservati nel genoma umano e quello dei cani coincidono. Ad esempio nel Neolitico, quando le prime popolazioni di agricoltori si sono spostate in Europa dal Vicino Oriente probabilmente avevano al seguito i loro cani. E ancora: il passaggio all’agricoltura ha segnato per l’uomo un aumento dei geni che codificano per l’amilasi, l’enzima che ci permette  di digerire l’amido, in corrispondenza di un aumento progressivo dei cereali nella dieta; ma la genetica ci mostra che lo stesso è avvenuto anche per i cani. Non sempre però le storie di uomini e cani viaggiano in parallelo: in altri casi i cambiamenti genetici osservati  nei cani non trovano un corrispettivo nelle popolazioni umane. L’ipotesi è che alcuni di questi cani vivessero a uno stato semi-brado e che si spostassero magari facendo visita a diversi accampamenti in cerca di cibo. E nel contempo, alcune popolazioni umane si sono spostate senza avere con se i cani. E il lupo? I risultati di questo studio indicano che i cani e l’attuale lupo euroasiatico sono due gruppi monofiletici, ovvero hanno un antenato comune, ma i cani restano più simili ad altri cani che ai lupi da un punto di vista genomico. Se i cani hanno un progenitore in una popolazione di lupi (o simile ai lupi attuali), nei tempi più  moderni non c’è invece stato contributo genetico del lupo nella diversità genetica dei cani. I ricercatori ipotizzano che i caratteri più lupini possano aver subito nella domesticazione una selezione negativa a favore di una maggiore mansuetudine.  Non vale lo stesso per i lupi, perché le analisi indicano invece tracce di DNA canino in quello dei lupi, ovvero c’è  un flusso genico dal cane al lupo moderno ma non viceversa. Questo potrebbe essere legato alla grande disparità nella grandezza delle popolazioni di cani e lupi, e dal fenomeno del randagismo canino che da sempre è diffuso un po' ovunque nel mondo. Per le popolazioni di lupo uno dei problemi principali di conservazione è proprio l’ibridazione con i cani, che nel nostro Paese è stata oggetto di due progetti finanziati dal programma europeo Life: Ibriwolf e Mirco Lupo. Ma torniamo ai cani: se ora sappiamo che vivono al nostro fianco dai tempi in cui eravamo nomadi, ancora è avvolto dal mistero dove questa domesticazione sia avvenuta per la prima volta, e il dibattito scientifico resta ancora aperto. Serviranno altri studi e un approccio multidisciplinare che abbracci antropologia, archeologia, etologia e genetica per svelare il mistero.

Sono in Puglia i resti del più antico cane italiano: tra 14mila e 20mila anni fa. La scoperta è dell'università di Siena: in particolare a Rignano Garganico e a Castro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Settembre 2020. Rinvenuti in siti paleolitici pugliesi alcuni resti che «testimoniano una presenza molto antica del cane, datata tra 14mila e 20mila anni fa». Lo rende noto l’Ateneo senese spiegando che si tratta «della scoperta, di fatto, del più antico cane italiano». Il rinvenimento è avvenuto nei siti di Grotta Paglicci a Rignano Garganico (Foggia) e Grotta Romanelli a Castro (Lecce) ed è opera dell’unità di ricerca di preistoria e antropologia del dipartimento di scienze fisiche, della terra e dell’ambiente dell’Università senese. Lo studio, frutto della collaborazione con altri enti nazionali e internazionali, è stato recentemente pubblicato sulla Scientific Reports. «Questa scoperta è di particolare interesse - spiega Francesco Boschin, archeozoologo dell’Università di Siena e coordinatore dello studio - in quanto i cani più antichi, riconosciuti con certezza dagli studiosi di preistoria, provenivano fino a ora da contesti dell’Europa centrale e occidentale datati a circa 16mila anni fa. I resti pugliesi rappresentano quindi, a oggi, gli individui più antichi scoperti nell’area mediterranea ma potrebbero rappresentare anche le prime testimonianze in assoluto del processo che ha portato alla comparsa del cane, il primo animale domestico». «Ulteriori ricerche - conclude l’Ateneo - potrebbero ora far comprendere il ruolo del cane nelle comunità paleolitiche, se possa quindi avere avuto una funzione nelle battute di caccia o di difesa degli accampamenti oppure un importante ruolo simbolico, che ha ancora oggi presso alcune popolazioni dove è considerato manifestazione terrena di spiriti o reincarnazione di defunti».

Felice Modica per “il Giornale” il 6 settembre 2020. La scoperta, da parte di ricercatori dell'Università di Siena - in collaborazione con altri Atenei e Enti nazionali e internazionali - nei siti paleolitici pugliesi, di Grotta Paglicci a Rignano Garganico (Fg) e Grotta Romanelli a Castro (Le), dei resti del «più antico cane italiano», al netto dell'orgoglio nazionale, è molto importante perché potrebbe gettare un po' di luce sul processo che ha portato alla domesticazione del lupo e alla comparsa del cane. I resti fossili sono datati tra 14mila e 20mila anni. Purtroppo, al momento non si conoscono molti altri dettagli. Come l'età alla morte, le dimensioni, la struttura, la posizione al rinvenimento. Tutti elementi che potrebbero concorrere a fornire indizi sulla risposta alla domanda che più ci preme: «che ci faccio io qua?». È questo che tutti ci chiediamo, apprendendo che in Puglia sono state trovate le spoglie mortali «del più antico amico dell'uomo». Aspettiamo di poter leggere Scientific Reports, la rivista su cui sono stati pubblicati gli studi coordinati dall'archeozoologo Francesco Boschin, dell'Università di Siena. Il quale spiega che «i cani più antichi riconosciuti con certezza dagli studiosi di preistoria, provenivano finora da contesti dell'Europa Centrale e Occidentale, datati a circa 16mila anni fa». Ciò che già conoscevamo è la lunghezza dei tempi della paleontologia. A tale proposito, il compianto Paolo Arbanassi (grande paleontologo triestino) la spiegava con l'esempio di una macchina del tempo che viaggi alla velocità di un secolo al secondo. In 20 secondi arriveremmo all'anno primo dell'era volgare, alla nascita di Cristo; in un minuto agli albori della Storia, con la possibilità di visitare l'Egitto predinastico o il regno dei Sumeri. In 5 minuti avremmo percorso 30mila anni, raggiungendo l'Europa dei ghiacciai, popolata di mammuth, orsi cavernicoli, rinoceronti lanosi. Ma, «pur viaggiando alla velocità di un secolo al secondo scriveva Arbanassi - occorrerebbero 100 ore, più di 4 giorni, per incontrare i primi gatti e i primi cani, più di 8 giorni per incontrare i dinosauri (gli ultimi dei quali vissero 70 milioni di anni fa), quasi un mese per coprire i 250 milioni di anni che ci separano dai probabili antenati dei mammiferi». I fossili pugliesi sono quindi, ad oggi, gli individui più vecchi scoperti nell'area mediterranea e potrebbero rappresentare anche le prime testimonianze in assoluto della comparsa del cane domestico. La domesticazione si fa risalire all'ultimo massimo glaciale, un periodo di forte crisi ambientale durante cui molte popolazioni animali europee, uomo compreso, cercarono rifugio in alcune regioni, quali ad esempio le penisole dell'Europa meridionale. Secondo Boschin il lupo, predatore sociale non troppo diverso dall'uomo, potrebbe aver individuato il modo per garantirsi la sopravvivenza, sfruttando gli avanzi delle prede dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, frequentandone le periferie degli accampamenti. Ci si interroga se la Puglia possa essere stata un centro di domesticazione. A suffragio di tale ipotesi, la somiglianza dei dati genetici del cane proveniente da Grotta Paglicci, datato 14mila anni fa, con un individuo di epoca comparabile, proveniente dal sito tedesco di Bonn-Oberkassel in Germania. Entrambi discenderebbero da una popolazione comune, più antica, diffusasi in varie parti d'Europa? Cane da caccia o difesa, o animale totemico, dal ruolo simbolico? Nessuno può dirlo con certezza, anche se il ritrovamento di due cani simili geneticamente affini induce a pensare che il cane potrebbe esser stato un elemento di contatto tra le comunità di cacciatori-raccoglitori dell'epoca.

Mariella Bussolati per it.businessinsider.com il 15 settembre 2020. Capita a tutti. All’inizio si dice che lo si farà solo per qualche mese, finché il cane è cucciolo, poi si enuncia che ora si metterà una regola, poi l’abitudine e la comodità fanno il resto. In pratica moltissimi proprietari condividono il letto con il proprio cane. Ma i pareri se questa sia un pratica positiva o no, sono sempre stati molto diversi. Un cane potrebbe portare malattie come micosi e virosi, ma anche zecche e pulci. E un altro problema è che il letto potrebbe puzzare e indubbiamente riempirsi di pelo. Un cane potrebbe avere anche un altro problema: russa ed emette gas intestinali. Inoltre dormendo nel letto, potrebbe confondersi riguardo le dinamiche del branco. Ma una nuova ricerca realizzata dalla Mayo Clinic di Rochester, Minnesota (Usa), sostiene invece che no, non ci sono problemi. Anzi: la presenza di un cane rende più sicuri e migliora il sonno. Solo l’addormentamento, in alcuni casi, viene ritardato, ma non se il cane, invece che sul letto, dorme nella stanza. Nel corso della storia e dell’evoluzione, gli uomini hanno sempre vissuto insieme in famiglie o gruppi sociali. Anche per quanto riguarda il sonno, l’abitudine di dormire da soli nelle proprie stanze è relativamente recente. Nei tempi passati era consuetudine condividere il letto con i parenti e, nel caso, anche con gli animali: avevano la possibilità di circolare liberamente in casa e di sicuro non disdegnavano un luogo morbido dove accucciarsi. Il cane è entrato nella vita dell’uomo, ma forse sarebbe meglio dire il contrario, circa 30-40 mila anni fa. Primi furono i lupi, che si avvicinavano in cerca di rifiuti e vennero utilizzati per accompagnare la caccia. Ma il loro comportamento poco prevedibile portò a selezionare prima un animale che potesse interagire di più e in un secondo momento razze vere e proprie. Una ricerca del Royal Institute of Technology di Solna, Svezia, che ha analizzato il Dna, ha permesso anche di capire che probabilmente il tutto è avvenuto nelle regioni dell’Asia meridionale. L’amicizia si sarebbe poi consolidata durante l’ultima glaciazione. Una recente ricerca di Animal friends, una associazione inglese, ha rivelato che oltre la metà dei possessori di cani e gatti condivide il letto col proprio animale. Ma le abitudini non si limitano a questa: il 18 per cento li lascia anche mangiare dal piatto e sorprendentemente il 30 per cento non li lava mai. Nella ricerca della Mayo Clinic le persone per sette notti hanno indossato un braccialetto di monitoraggio. E uno simile lo hanno fatto indossare al cane. L’efficenza del riposo era buona nell’80 per cento dei casi. Ancora migliore, l’83 per cento dei casi, quando il cane non stava sulle lenzuola ma in un altro punto della stanza. “Abbiamo notato che la gente si sente più sicura e prova un senso di maggiore comfort quando dorme vicino all’animale”, ha dichiarato la ricercatrice Lois Krahn, esperta di medicina del sonno. L’efficienza del sonno, tra l’altro, non dipende dal cane o dalla sua taglia: per dormire bene un chihuahua vale un San Bernardo o un levriero.

Giornata del cane, per un italiano su 4 è come un figlio. Pubblicato martedì, 25 agosto 2020 da La Repubblica.it. Il 26 agosto è la Giornata Internazionale del cane e tutto il mondo celebra l'amico a quattro zampe più amato dai pet lover. Secondo l'ultimo Rapporto Assalco Zoomark 2020, i cani presenti nelle famiglie italiane sono 7 milioni e un folto stuolo di sociologi e esperti del mondo animale sono pronti a sottoscriverne gli effetti positivi dai più piccoli agli over 65. Quali sono gli ambiti dove porta benessere? In primis nella famiglia. Come emerge dallo studio condotto da Swg per Ca' Zampa  -  il primo Gruppo in Italia di Centri per il benessere degli animali domestici presenti alle porte di Milano, Cremona, Udine e Mestre  - da cui emerge che il cane è un affetto molto importante tanto che per il 37% è considerato come un figlio; un dato che sale sensibilmente se si prende in considerazione la generazione Z (raggiunge il 51%) e gli abitanti del Nord Est Italia (41%). Secondo il 17% , ci si sente persino più compresi dai propri animali che da figli (12%), amici (10%) e genitori (9%) e per quasi 8 proprietari su 10 (75%) meritano solo il meglio soprattutto sotto il profilo alimentare (84%). A confermare il profondo legame uomo-cane è anche Giovanna Salza, presidente Ca' Zampa che afferma: "Studi e ricerche dimostrano che la presenza del cane trasmette benessere generale. Un cane in casa aiuta a stemperare le tensioni e crea coesione anche perché unisce la famiglia nella sua cura. Questo è un aspetto che a Ca' Zampa sentiamo molto: è opportuno pensare al benessere a tutto tondo del nostro cane, il che significa pensare alla sua salute, ma anche alla sua bellezza, alla sua forma fisica e alla sua educazione. Di tutto questo ci occupiamo in Ca' Zampa perché crediamo che se sta bene il nostro cane sta meglio tutta la famiglia". Benefici che si registrano già sui bambini, come dimostra lo studio di Fondazione Affinity da cui emerge che il 54% dei bambini afferma che il loro animale preferito è proprio il cane. Il 92% ritiene che donino amore più di ogni altro e il 60% ritiene che l'amico a quattro zampe aiuti ad amare e rispettare di più le persone. Lo stesso dicasi anche per gli over 65, come dimostra una ricerca condotta da Senior Italia Federanziani: per 9 over 65 su 10 vivere con un animale domestico migliora la vita. Ha un impatto positivo su umore e salute: riduce la sensazione di solitudine ed aumenta quella di serenità e, secondo quanto rilevato da Il Centro Studi Senior Italia, i possessori di cani pare abbiano il 57% in più di probabilità in più di svolgere attività fisica rispetto a chi non ha animali domestici tanto che gli anziani che vivono con un cane sono più in forma e dimostrano 10 anni in meno.

Daniela Uva per “Il Giornale” il 23 agosto 2020. Ogni anno di vita di un cane corrisponde a sette anni «umani». Chiunque è convinto di questa equazione, eppure adesso la scienza, per la prima volta, l'ha confutata senza alcun dubbio. L'età degli amici a quattro zampe non può essere calcolata in modo così semplificato, perché in realtà dipende da moltissimi fattori. Per esempio la taglia, gli incroci che si sono susseguiti nel corso del tempo e la razza dell'animale. Ecco perché è possibile che il cagnolino di casa sia in realtà molto più anziano di quanto si creda. A rifare completamente i calcoli è stato un gruppo di scienziati della facoltà di Medicina dell'università americana di San Diego, in California. Dai loro studi è emerso che un cucciolo di un anno potrebbe avere circa trent' anni umani. Potrebbe, insomma, essere già completamente adulto. Per arrivare a questo risultato, gli scienziati si sono concentrati su alcuni cambiamenti del Dna, che non comportano una modifica della sequenza del patrimonio genetico, ma l'accensione o lo spegnimento di alcuni geni. In particolare, il team ha esaminato il modo in cui particolari molecole si sono accumulate nel tempo in determinate aree del genoma umano e le hanno successivamente confrontate con la maniera nella quale si sono accumulate in aree simili nel genoma canino. I risultati, ottenuti analizzando i dati genetici di circa cento labrador retriever - cuccioli ma anche animali anziani - rivelano che ogni anno dell'animale non equivale a sette anni dell'uomo. I cani mostrano, infatti, un accumulo di molecole nel loro genoma molto più rapido rispetto agli umani nel proprio primo anno di vita, suggerendo che invecchiano a un ritmo decisamente più veloce di quanto si pensasse. Ma le scoperte non finiscono qui, perché gli scienziati si sono anche resi conto del fatto che con il passare del tempo, il tasso di invecchiamento di Fido rallenta rispetto a quello del suo padrone. Ecco perché gli scienziati hanno dedotto che al compimento dei 12 mesi i cuccioli sono dei «trentenni». Mentre all'età di quattro anni raggiungerebbero quota 54 in «anni umani», per poi raggiungere i 70 all'età di 14 anni. Naturalmente i conti dipendono anche dalla razza degli animali. I cani di taglia piccola tendono infatti a vivere più a lungo rispetto a quelli di maggiore stazza. Un Jack Russell, per esempio, compie 15 anni umani al termine del suo primo anno solare di vita, per arrivare a 23 nel secondo, a 28 nel terzo, a 32 nel quarto e a 56 nel decimo. Un cane di grossa taglia ha invece l'equivalente di 78 anni umani al compimento del decimo anno solare, un'età alla quale difficilmente riesce ad arrivare. «Se pensiamo all'invecchiamento in termini di età delle nostre cellule, questo nuovo documento è davvero utile per abbinare gli anni di umani e cani» commenta Lucy Asher, esperta di pubertà canina all'università britannica di Newcastle. «Ma se invece l'invecchiamento si considera in termini comportamentali, ormonali o di crescita i calcoli non possono essere così precisi. E questo spiega perché alcuni casi a due o tre anni agiscono ancora come cuccioli cresciuti. Questo perché da un punto di vista biologico l'animale ha raggiunto i trent' anni umani, ma sul fronte psicologico e ormonale è ancora instabile, ha ancora bisogno di crescere e per questo agisce come un adolescente in fase di pubertà». Insomma, i conti sono così semplici. Una cosa però sembra certa: se l'equivalenza di uno a sette fosse plausibile, gli esseri umani dovrebbero riprodursi a sette anni come fanno i cani a un anno. Questo non accade perché lo sviluppo biologico delle due specie è diverso: un cane di due anni è l'equivalente un ventenne ormai maturo, quello di un anno è invece come un teenager umano: scatenato, irresponsabile e con tanta voglia di divertirsi.

Francesco Tortora per "corriere.it" il 21 agosto 2020. «I cani non sono peluche. Hanno i loro bisogni, che devono essere presi in considerazione». Con queste parole Julia Klöckner, la ministra dell’agricoltura in Germania ha presentato la «Hundeverordnung» (norma sui cani), legge che renderà obbligatorio portare a spasso gli animali almeno due volte al giorno.

In vigore dal 2021. Il nuovo regolamento, che sarà presto presentato al Bundestag e dovrebbe entrare in vigore nel 2021, prevede che i padroni siano tenuti a portare fuori i cani per almeno un’ora ogni volta. Inoltre gli animali non dovranno essere lasciati soli a casa tutto il giorno e dovrà esserci una persona incaricata di prendersene cura. Secondo la ministra Klöckner la legge s’ispira a nuove scoperte scientifiche che dimostrano come i cani abbiano bisogno ogni giorno di «un numero sufficiente di attività e di stare a contatto con la natura». Inoltre anche legare i cani a una catena o al guinzaglio per lunghi periodi è soggetto a un divieto assoluto.

Le critiche. Secondo la ministra la legge è necessaria perché ci sono prove che dimostrano come almeno 9,4 milioni di cani di proprietà in Germania non ricevano gli stimoli di cui hanno bisogno. Ma non tutti all’interno della CDU, il partito di Klöckner, giudicano opportuno il provvedimento e anzi c’è chi lo considera addirittura ridicolo: «Non porterò il mio Rhodesian Ridgeback (cane di grande taglia spesso chiamato “cane africano cacciatore di leoni” ndr) per ore in giro con temperature di 32 gradi, piuttosto faremo un salto nel fiume per rinfrescarci» ha dichiarato il deputato Saskia Ludwig. Dello stesso avviso il collega Walther Schweiz che ironizza: «Presto diranno ai proprietari di gatti quanto spesso dovranno cambiare la lettiera».

Cani a spasso per legge. Ma così non è liberale. La Germania sta per emanare una norma di legge che renderà obbligatorio portare a spasso i cani due volte al giorno per un totale di almeno un'ora. Oscar Grazioli, Venerdì 21/08/2020 su Il Giornale. La Germania sta per emanare una norma di legge che renderà obbligatorio portare a spasso i cani due volte al giorno per un totale di almeno un'ora, come minimo. «I cani non sono peluche e hanno i loro bisogni e le loro esigenze» ha affermato Julia Klöckner, la ministra dell'agricoltura teutonica. Il progetto di questo nuovo regolamento, che sarà presto presentato al parlamento federale, prevede anche altre norme, tra le quali il divieto assoluto di legare i cani a catena o guinzaglio per lunghi periodi e il divieto di lasciare un cane da solo in casa tutto il giorno. Occorrerà la presenza di una persona che se ne prenda cura. Secondo la ministra Klöckner la legge si rende necessaria a seguito delle nuove scoperte etologiche, secondo cui i cani hanno necessità, ogni giorno, di attività fisica e di stare a contatto con la natura. Che ci siano molti cani sacrificati all'artrosi e all'obesità a causa delle abitudini pantofolaie di padroni che passano il tempo libero su un divano mangiando pop corn e guardando partite di calcio e telenovelas, è un dato di fatto. Se poi questi cani appartengono a determinate razze (penso ai poveri Beagle) che hanno bisogno di correre per chilometri ogni giorno e spegnere la loro inesauribile vitalità, viene da pensare che le riflessioni della ministra siano più che opportune. Ma c'è anche il rovescio della medaglia, che ha provocato non pochi mal di pancia nella stessa ala politica della Klöckner. Uscire una o due ore al giorno a passeggiare quando la giornata è torrida e l'umidità blocca il respiro è estremamente pericoloso per i cani brachicefali (quelli «tamponati» come Bulldog e Carlini) e può essere doloroso per quelli anziani pieni di artrosi. La deputata dell'Unione Cristiana Democratica Saskia Ludwig ha scritto su Twitter: «Non porterò il mio Rhodesian Ridgeback per due giri di passeggiate con una temperatura di 32 gradi, piuttosto faremo un salto nel fiume per rinfrescarci». Se penso poi al nostro paese fatto di casette antiche senza ascensore e con le scale di pietra e agli anziani del secondo piano che si godono il loro piccolo affetto abituato a farla nella lettiera, come i gatti, con tutto il rispetto per gli etologi sono certo che non stiano male né i cagnolini né le loro amate «mamme». Anche nel lockdown della casa, fresca e in ombra.

Barbara Majnoni per "it.businessinsider.com" il 5 luglio 2020. Il 22 giugno si è celebrata la giornata mondiale del cane in ufficio. Secondo il rapporto stilato da Assalco-Zoomark, nel 2018 le imprese in Italia che hanno aperto le porte agli amici a quattro zampe sono arrivate ad essere 7 milioni. I ricercatori della Virginia Commonwealth University dicono che diano parecchi benefici. Uno studio condotto dal Banfield Pet Hospital denominato PAWrometer Pet-Freindly Workplace conferma la stessa tesi. Anche la master coach Marina Osnaghi sostiene che la sola presenza di un cane stimoli legami profondi e sinceri, liberi da maschere, permettendo di vivere momenti di serenità e gioia. Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato l’etologo Roberto Marchesini, che ha da poco pubblicato Cane e Gatto, due stili a confronto per Apeiron Edizioni.

Professore, cosa dice al riguardo?

«Vorrei fare un preambolo. A me piacerebbe che ci fosse una riconsiderazione globale della figura del cane nella storia dell’uomo più da un punto di vista antropologico che non zootecnico. Perché fino ad adesso è sempre stato visto come un qualcosa da usare e addomesticare. Mentre in realtà l’uomo sorge con il cane, 40 mila anni fa. E il cane col tempo ha modificato l’identità dell’uomo, cambiando la sua ecologia, il suo impatto sul territorio, il suo modo di essere. E’ stato proprio l’ausilio, la presenza, il partner che gli ha permesso di espandersi su tutto il pianeta. Personalmente l’incontro col cane lo metto esattamente come la scoperta e l’utilizzo del fuoco e della pietra. Il valore di questa relazione è immenso».

Che tipo di rapporto si può instaurare col cane mentre siamo in ufficio?

«Diciamo che si sta verificando un cambiamento. Fino all’inizio del secolo scorso il cane era considerato un animale privato, da confinare nell’intimo della propria abitazione, era l’animale da compagnia, d’affezione, veniva definito pet. Oggi il concetto di pet è totalmente superato. Il cane ci accompagna nella vita di tutti i giorni. Lo si porta sui mezzi pubblici, in vacanza, in spiaggia, ovunque. C’è una dimensione sociale della relazione che prima non c’era. Prima si diceva: "Ho un cane". Oggi si dice: ‘Vivo con un cane’. Ed è molto diverso. Quindi è normale che le persone vogliano andare anche al lavoro col proprio Fido. Oggi siamo diventati tutti punkabbestia, cioè amiamo vivere col nostro cane in una maniera pubblica. Pensare che negli anni 90 li guardavamo tutti un po’ così, con sorpresa. Questa è la grande trasformazione».

Perché un datore di lavoro dovrebbe consentire la sua presenza?

«E’ nel suo interesse, perché si è scoperto che una persona contenta lavora meglio. Il punkabbestia il cane non lo vuole lasciare a casa, altrimenti si stizzisce. Inoltre bisognerebbe evitare di considerare il lavoro, lo studio, solo esclusivamente come degli obblighi, dei compiti, delle deontologie, perché così non rendiamo. Viceversa quando si opera con coinvolgimento tutto migliora. Però è chiaro che la partecipazione di un cane all’interno di dimensioni pubbliche richiede da parte del proprietario una maggiore attenzione educativa».

Quali dinamiche si possono creare i cani all’interno di un ufficio?

«La prima è quella che dicevamo del coinvolgimento della persona, cioè che è più con la testa lì sul lavoro e non a casa o altrove. Secondariamente la sua presenza ci infonde una maggiore sicurezza affettiva. Poi come terzo punto, il più importante per me, è che il cane crea collante sociale. Ovvero abbassa le tensioni tra le persone, se naturalmente si vive questa relazione in maniera sociale e non individualistica. Per farlo al meglio bisogna lasciarsi portare dal cane, un grande maestro di condivisione, in questa dimensione. D’altronde ci ha già aiutato in passato».

Quindi vuol dire che può mitigare gli animi di capo e colleghi?

«Questo non succede per magia. Ma se siamo abituati a vivere bene la nostra relazione col cane in una dimensione pubblica è facile che succeda, perché oltretutto aumenta il piacere di stare insieme. L’abbiamo già studiato in pet therapy. Ci sono pubblicazioni almeno di 20 anni che lo dimostrano. Però ci devono essere dei prerequisiti. Ovvero non ci deve essere un rapporto morboso o altri individui a cui il cane da fastidio. Perché il punto della questione passa sempre attraverso il rispetto dell’altro».

Ci sono razze più adatte a stare in ufficio?

«Non ci sono razze problematiche. Più che altro ci sono persone che prendono cani di una certa razza, senza sapere minimamente quali sono le tendenze, le propensioni e i bisogni di quella razza. Perché se prendo un molossoide, un cane con forte tendenza alla territorialità e lo porto in ufficio, lì non entra più nessuno. Se porto invece un maremmano abruzzese, il guardiano delle greggi, da quell’ambiente non farà invece più uscire nessuno. Questi cani, ad esempio, devono avere una corretta educazione altrimenti possono sorgere dei problemi. Dopo di che c’è il retriever, che è un pacioccone e sta bene un po’ con tutti, perché non è mai sazio di affettività. Però ha una certa stazza. In più è la versione canina di Pegga Pig, ama l’acqua, il fango, non ci si può aspettare che stia lì come un figurino. Poi ci sono cani più posati come il barboncino o altri di piccola taglia, oddio jack russell escluso, perché con una cinetica molto forte, per cui prende molto più spazio di un terranova».

Invece quali sono i più idonei se si lavora da soli in studio?

«Il migliore amico di un artista o di uno studioso è il gatto o il cane meticcio. Il gatto perché c’è senza essere invadente, quindi lascia spazio alla riflessione e all’estro. Il meticcio, invece, perché non ha propensioni molto forti come può essere uno di razza, in più ha molta creatività».

Cosa consiglia sul tema?

«Prima di intraprendere una qualunque esperienza di far conoscere l’ambiente. Bisogna agire per gradi. Iniziate a farlo venire in ufficio solo per vederlo. Poi per qualche ora e così via. Ma portate sempre anche la sua copertina, che diventa il suo luogo di rifugio, qualche orsetto in modo che possa stare tranquillo, senza richiedere la vostra vitale attenzione. E, fondamentale, l’acqua, da cambiare spesso per evitare che si formino dei microrganismi. Questo vale ovunque vi facciate accompagnare».

Daniela Uva per “il Giornale” il 27 maggio 2020. Testardi, disobbedienti, umorali e decisamente poco inclini a rispettare le regole. In apparenza questo potrebbe essere l' identikit seppure molto generalizzato dei ragazzi adolescenti. Croce e delizia dei loro genitori, messi a dura prova durante i complicati anni della pubertà. Eppure questa volta la fotografia non ritrae giovani esseri umani. Ma i nostri amici a quattro zampe. Perché anche loro vanno in crisi quando si trovano a dover superare il passaggio dall' infanzia all' età adulta. Cambiando completamente carattere. A dimostrarlo è un recente studio condotto dai ricercatori delle università di Nottingham, Newcastle ed Edimburgo in Gran Bretagna - e pubblicato sulla rivista scientifica Biology Letters. I ricercatori hanno osservato il comportamento dei cani durante la loro «adolescenza», per capire se questo momento così particolare per gli umani possa portare cambiamenti significativi anche nella loro indole. Così hanno scoperto che questi animali hanno maggiori probabilità di ignorare i comandi impartiti dal loro padroni e sono più difficili da addestrare all' età di otto mesi, proprio durante la loro pubertà. Un comportamento più pronunciato negli esemplari che hanno un attaccamento meno sicuro al loro proprietario. Che può creare molti problemi. «Quando attraversano questa fase così complicata, molti cani vengono abbandonati o mandati in adozione a causa della mancanza di obbedienza conferma Naomi Harvey della school of Veterinary medicine and science all' università di Nottingham -. Ma se i proprietari riescono a mostrare pazienza e amore, il loro animale torna presto come prima. Proprio come avviene con gli adolescenti più turbolenti, che poi si realizzano come adulti». Per arrivare a questa conclusione il team ha esaminato un gruppo di 69 cani, per studiare il loro comportamento da teenager. Gli scienziati hanno monitorato in particolare l' obbedienza di labrador, golden retriever e incroci fra le due razze all' età di cinque mesi - prima dell' adolescenza - e otto mesi, durante l' adolescenza. Nel corso della pubertà i cuccioli impiegavano più tempo a rispondere al comando «seduto», ma solo quando a parlare era il loro padrone. «Molti sospettavano da tempo che la pubertà influisse sul comportamento dei cani, ma non erano mai stati condotti studi scientifici a riguardo. Ora abbiamo qualche informazione in più e soprattutto le prove che si tratti di una fase passeggera» prosegue la ricercatrice, aggiungendo che una punizione potrebbe peggiorare qualunque comportamento problematico. «La pubertà è un momento delicato, i cani non sono più i teneri cucciolotti e hanno bisogno di attenzioni diverse va avanti Lucy Asher dell' Università di Newcastle -. Se i proprietari credono di non essere in grado di tenerli o addestrarli, possono decidere di abbandonarli o portarli nei canili». La conferma di questa teoria è arrivata quando il team ha preso in esame un gruppo più ampio: 285 fra labrador, golden retriever, pastori tedeschi e incroci. I proprietari e un istruttore hanno compilato un questionario che esaminava le reazioni dei cani. Dal quale ancora una volta è emerso come durante la pubertà tutti gli amici a quattro zampe si dimostrassero meno inclini a rispettare i comandi imposti dai loro proprietari. Proprio come avrebbero fatto gli esseri umani fra i 14 e i 16 anni nei confronti dei propri genitori. Una circostanza, questa, che ha fatto capire al team britannico come l' adolescenza sia una fase comune. E altrettanto complessa. «I nostri risultati indicano che esistono dei punti in comune fra noi e i nostri amici a quattro zampe a livello biologico e comportamentale, nonostante percorsi evolutivi differenti concludono i ricercatori -. Questo significa che abbiamo molte più cose in comune con i nostri animali di quanto si ritenesse in precedenza».

Oscar Grazioli per “il Giornale” il 26 maggio 2020. Due collaboratori del Guardian e dell' Observer, in un pregevole articolo pubblicato sulla prima testata, si interrogano sul perché il legame tra uomo e cane sia così forte, così magnetico. Raccontano i due reporter che all' inizio del lockdown causato del Coronavirus si sono trovati di fronte a una decisione molto dolorosa. Ziggy, il West Highland, che aveva viaggiato con loro in ogni angolo del pianeta, stava rapidamente e inesorabilmente declinando. Un tumore alla vescica ormai gli impediva una vita dignitosa costringendolo a espletare le sue funzioni organiche con crescente dolore. Da qui la decisione di porre fine alle sue sofferenze che si è concretata in una zona tranquilla ai margini della casa privata di un veterinario che viveva vicino a una foresta di betulle immersa nel silenzio, rotto solo dal cinguettio degli uccelli, quelli che Ziggy inseguiva per gioco, quasi fosse felice di non riuscire a catturarli e fargli del male. «Un' esperienza dolorosa e commovente - la definiscono i due compagni - con Ziggy intontito dai farmaci che non lasciava i nostri occhi, il muso sul nostro grembo, mentre noi eravamo seduti per terra accanto a lui». Quando è finita la mesta cerimonia, i due compagni si ritrovano a cena e riflettono e si chiedono se non sia in qualche modo sbagliato provare tanto dolore per la perdita di un cane, quando tanti altri stanno perdendo la vita di amici e parenti negli ospedali o nelle case di riposo. E il succo finale della riflessione è che non ci deve essere neanche un barlume di vergogna nell' essere parimenti addolorati per la scomparsa di un caro amico (umano) o di un altro caro amico con il quale hai vissuto 15 anni di vita intensa dalla mattina alla sera, magari a Gerusalemme, durante quattro anni di corrispondenza dalla città santa. Scienziati e psicologi stanno ancora cercando di capire la strana e millenaria relazione tra cani e uomini. Per quanto riguarda gli animali, il quadro è ragionevolmente chiaro: il lupo, da cui discendono tutte le razze di cani domestici, aveva già un cervello altamente evoluto, sofisticato e sociale. Man mano che i cani venivano addomesticati, quel cervello sembrava acquisire una spiccata sensibilità verso lo sguardo umano e il linguaggio del suo corpo in una sorta di allenamento durato millenni, che ha portato le due specie alle relazioni attuali. Da parte dell' uomo c' è sicuramente, almeno all' inizio della relazione, il fine utilitaristico dell' addomesticamento per usare il cane nella caccia, come ci descrive mirabilmente il padre dell' etologia Konrad Lorenz in quel piccolo capolavoro che è «E l' uomo incontrò il cane». Ma le spiegazioni di psicologi ed etologi sono molto più variegate e non sempre in accordo. Come hanno suggerito Marta Borgi e Francesca Cirulli del dipartimento di neuroscienze comportamentali presso l' Istituto Superiore di Sanità di Roma in un articolo su Frontiers in Psychology: «Perché gli animali costituiscano uno stimolo così attraente per l' uomo non è stato completamente chiarito. Gli esseri viventi attirano l' attenzione delle persone più degli oggetti, ed è stato ipotizzato che la ragione evolutiva, alla base di questa risposta, sia che prestare attenzione ad altri esseri viventi significhi aumentare le proprie capacità e, alla fine il successo, evolutivo». Altri credono a una maggiore attrazione per le specie che ci sono più vicine nell' albero genealogico o che sono simili in termini comportamentali o cognitivi. Poi c' è la nozione consolidata del «Kindchenschema» o «schema del bambino». Essa suggerisce che gli esseri umani sono attratti specificamente da animali che mostrano caratteristiche infantili con una testa grande e occhi tondi. «Alla fine - suggeriscono Borgi e Cirulli - forse la risposta è semplicemente Amicizia, quella vera, tenace, quella che vorrebbe averli con noi per tenerli sempre giovani. L' unico dono che non possiamo fare».

Perché i cani amano mettere il muso fuori dal finestrino? Da lastampa.it il 26 maggio 2020. Non tutti conoscono il motivo per cui i cani amano mettere il muso fuori dal finestrino dell'auto. La spiegazione va cercata non tanto nella voglia di libertà e aria fresca, ma nel loro naso. Addirittura a volte un viaggio in auto si può trasformare in una cocente delusione d'amore per i nostri amici a quattro zampe. Non tutti conoscono il motivo per cui i cani amano mettere il muso fuori dal finestrino della macchina. Noi abbiamo 6 milioni di recettori olfattivi nel naso, i cani fino 300 milioni a seconda della razza. Li usano per capire il mondo che li circonda, cercare cibo e affetti. Inoltre il processore olfattivo presente nel cervello dei cani è 40 volte più grande di quello umano. Anche il naso in quanto organo funziona diversamente ed è più sofisticato del nostro: ad esempio, le narici si muovono indipendentemente. Mentre annusano ‘tremano’ spingendo l’aria che è già nel naso verso l’interno, lasciando spazio ai nuovi odori in arrivo. E nell’espirazione l’aria esce dalle fessure laterali creando un vortice d’aria che aiuta altri odori a entrare nel naso. Un’altra tipicità è il muco che secernono dal naso e permette loro di assorbire meglio gli odori una volta leccato e tastato con la bocca. Questo serve in particolare per captare i feromoni prodotti dagli esemplari in calore. ecco perché a volte un viaggio in auto si può trasformare in una cocente delusione sentimentale sapendo di aver ‘sentito’ vicino il proprio amore, ma dover andare via…

Predatori e guardiani, le due anime dei cani (prima della mania delle razze). Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Rondolino. I cani si dividono fondamentalmente in due categorie: i predatori e i guardiani. È così da un tempo immemorabile, dai primordi della domesticazione del lupo: i cani, ci raccontano tutte le fonti storiche, sono sempre stati utilizzati per cacciare (o per combattere) e per fare la guardia. Ciò significa che per millenni ha operato una sorta di selezione naturale guidata dall’uomo che ha progressivamente affinato le qualità e le caratteristiche delle due famiglie. La mania di incrociare artificialmente fra loro i cani e creare così le varie «razze» è relativamente recente e risale all’Ottocento, e in questi ultimi anni, con l’invenzione dei cosiddetti «cani da borsetta», è decisamente degenerata. Un tempo si procedeva in modo molto più semplice, ancorché crudele: i cani da pastore che aggredivano il bestiame venivano soppressi, e in ogni caso non era consentito loro di riprodursi, e lo stesso avveniva per i cani da caccia che non disponevano di un sufficiente istinto predatorio. È con questo procedimento che, attraverso i secoli e i millenni, si è formato il carattere fondamentale dei cani. Ho la fortuna, a dire il vero casuale, di avere un rappresentante perfetto di entrambe le famiglie: Stella è una meticcia con un’altissima qualità predatoria, Bonnie è un’incorruttibile pastore maremmano-abruzzese. Le differenze sono sostanziali, e ogni volta mi meraviglio di come uno stesso animale possa sviluppare comportamenti così diversi. L’esempio più banale è il lancio della pallina: Stella si precipita a razzo e spesso riesce ad addentarla quando è ancora in volo, dopodiché si accuccia e comincia a rosicchiarla (non le ho mai insegnato il riporto perché mi è sempre sembrato una cosa un po’ sciocca); Bonnie invece rimane perfettamente immobile, perché il suo istinto predatorio è pressoché pari a zero. Se al posto della pallina ci fosse una pecora che corre, Bonnie resterebbe indifferente mentre Stella l’aggredirebbe all’istante, come ha fatto con le galline del vicino (è il movimento ad innescare la risposta predatoria). L’inverso accade quando si tratta di fare la guardia. Bonnie è una guardiana esperta, al divano di casa preferisce di gran lunga il giardino, dove si sistema sempre in punti leggermente sopraelevati che consentano al suo sguardo di controllare la situazione; se è in casa e percepisce qualche segnale sospetto, chiede di uscire e comincia a correre e ad abbaiare finché il pericolo (a me quasi sempre del tutto invisibile) è scomparso. Stella, se Bonnie dà l’allarme e si precipita a controllare, resta invece totalmente indifferente e prosegue il suo sereno riposo, come se nulla stesse accadendo. Ma quando le è capitato di vedere un cinghiale in giardino, si è lanciata subito verso di lui – e per fortuna è intervenuta Bonnie in funzione per dir così difensiva, abbaiando lungo un confine invisibile con convinzione sufficiente a far fuggire il pericoloso intruso (e Stella, in un sussulto di saggezza, ha rinunciato a rincorrerlo). Anche i movimenti sono diversi: Stella corre molto spesso, a volte anche quando non sarebbe affatto necessario, mentre Bonnie trotterella o passeggia tranquilla, e soltanto un evidente pericolo può spingerla a correre. Quando si riposa – e tutti i cani passano la maggior parte della giornata a riposarsi – si sceglie un posto di osservazione in giardino; Stella invece è molto più casalinga, e il suo piacere più grande è il divano o il lettone, dove può rimanere per ore senza dare segni di vita. Ma quasi ogni giorno si fa una lunga passeggiata, e a volte torna il giorno dopo. Bonnie, al contrario, non lascia mai il suo territorio, se non per qualche rapida puntata nei terreni circostanti, e soltanto nel caso in cui percepisca un pericolo. Per Stella io sono senza dubbio un riferimento forte, riposa spesso ai miei piedi e sono convinto che, in caso di necessità, sarebbe un perfetto cane da difesa personale; Bonnie invece si tiene più a distanza, è più autonoma e indipendente, e la sua preoccupazione principale è difendere la comunità: non soltanto noi, dunque, ma anche gli amici, i gatti, e la stessa Stella. Neanche a farlo apposta, Bonnie è bianca e Stella è nera.

I cani erano vissuti come animali domestici già duemila anni fa. Studio spagnolo: "I primi cani domestici erano più simili ai lupi e potrebbero essere stati utilizzati come aiuto durante la caccia. Ma con l'Impero romano divenne comune allevare cani di ogni forma, razza e dimensione, compresi piccoli esemplari simili ai moderni Pomerania". La Repubblica il 22 Marzo 2020. Fido, come lo conosciamo oggi e quindi come animale da compagnia, ha ben duemila anni. A testimoniarlo sono dei ritrovamenti in un sito archeologico nel Sud della Spagna, dove i resti di un piccolo cane, originario di un luogo distante migliaia di chilometri, sono stati rinvenuti dagli archeologi dell'Università di Granada, che hanno pubblicato i risultati del loro studio sulla rivista Archaeological and Anthropological Sciences. "I primi cani domestici erano più simili ai lupi e potrebbero essere stati utilizzati come aiuto durante la caccia. Ma con l'Impero romano le cose cambiarono e divenne comune allevare cani di ogni forma, razza e dimensione, compresi piccoli esemplari simili ai moderni Pomerania", spiega Rafael Martinez Sanchez, ricercatore presso l'Università di Granada. "Plinio il Vecchio ad esempio scrisse che questi cani avevano effetti positivi e venivano usati anche per aiutare le donne ad alleviare i dolori mestruali. Forse il naturalista romano intendeva riportare l'effetto rilassante di un cucciolo sulla pancia", prosegue il ricercatore. Il suo team ha trovato un cagnolino sepolto in un cimitero romano a Sud della Spagna. "Il cranio era molto piccolo, mentre le cavità orbitali erano molto grandi, come i moderni pechinesi. Doveva essere alto circa 22 centimetri. L'analisi dei resti e l'usura dei denti suggeriscono che il cane avesse tra i due e i quattro anni al momento del decesso, mentre delle ossa più piccole conservate all'interno dello scheletro indicano che probabilmente si trattava di una madre incinta", afferma ancora Martinez Sanchez, sottolineando che l'aspetto più interessante della loro scoperta riguarda la provenienza della cagnolina. "Dalle analisi risulta che l'esemplare fosse cresciuto lontano dall'Atlantico, forse in Italia o nel Mediterraneo orientale. I resti degli altri due cani ritrovati invece sembravano essere assolutamente locali", dichiara l'archeologo, ricordando l'usanza romana di trasportare animali come elefanti, struzzi o macachi e ipotizzando che i nostri antenati commerciassero anche animali domestici esotici. "La frattura dell'osso del collo indica che l'animale è stato ucciso violentemente, probabilmente a seguito della morte del suo proprietario", conclude il ricercatore.

Marinella Meroni per “Libero quotidiano” il 17 aprile 2020. Sfatato il falso mito che dormire con i propri animali faccia male, anzi è vero il contrario, confermato da studi scientifici. Quante volte abbiamo sentito dire che i nostri cani o gatti non dovrebbero riposare nella nostra stanza da letto e men che meno dormire accanto a noi perché non opportuno, poco igienico, e perfino sconsigliato perché disturberebbero il nostro sonno naturale. Invece dormire con loro non è solo bello, ma fa bene e migliora la qualità del sonno, soprattutto per il genere femminile. La conferma arriva da uno studio dei ricercatori dell' università Canisius College di Buffalo di New York (che nonostante il nome non ha niente a che vedere con i cani), pubblicato sulla rivista scientifica Anthrozoös, che dimostra, senza alcun dubbio, che le donne che dormono nel letto insieme al proprio cane hanno un migliore sonno notturno e riposano meglio di quelle che dormono con i loro partner, di norma mariti o compagni.

Relax. La ricerca ha infatti evidenziato che dormire con Fido «garantisca un maggiore relax alle donne, una qualità del sonno superiore e l' abbandono di pensieri negativi, provvedendo così a una fase d' addormentamento più rapida. Confrontati con i partner umani, i cani che dormono sul letto delle proprietarie vengono percepiti come elementi di minor disturbo, inoltre sono associati a sentimenti più forti di comfort e sicurezza». I motivi principali che contribuiscono a migliorare la qualità del riposo notturno nel gentil sesso sono sostanzialmente due: il primo è che le intervistate hanno dichiarato di essere svegliate meno o mai dal proprio cane rispetto invece ai loro partner umani che creano disturbo con movimenti, con il russare, o risvegli notturni. Il secondo è che le donne si sentono più sicure con Fido accanto, sapendo di essere avvisate e protette in caso di intrusi o pericoli. Fatto confermato dalla professoressa Christy L. Hoffman, autrice dello studio: «Le ricerche hanno scoperto che le donne si sentono più sicure la notte se hanno un cane accanto a loro, e a sentirsi più a loro agio sapendo che il loro animale le avvertirebbe nel caso in cui ci siano degli estranei o qualche altro tipo di emergenza, facendole percepire un livello di comfort e di sicurezza decisamente superiore al normale, stimolando inoltre a relax profondo e abbandono a pensieri negativi con sonno più rapido».

Ninna nanna. Ma non è finita qui. C' è un altro studio altrettanto interessante (pubblicato sulla rivista scientifica Mayo Clinic Proceedings)che ha scoperto che anche solo la presenza del proprio cane o gatto nella stanza da letto concilia il sonno sia a uomini che a donne, e a dormire meglio. A svelarlo gli specialisti di medicina del sonno del Center for Sleep Medicine della Mayo Clinic in Arizona, che affermano: «Abbiamo scoperto che molte persone in realtà trovano conforto e un senso di sicurezza nel dormire con i loro animali domestici in camera da letto. Oggi molti proprietari di cani e gatti sono lontani dai loro animali domestici per gran parte della giornata, quindi vogliono massimizzare il loro tempo con loro quando sono a casa. Farlo in camera da letto di notte è un modo semplice per realizzarlo. E ora i proprietari di animali domestici possono trovare conforto sapendo che non avrà alcun impatto negativo sul loro sonno, anzi lo migliora». Chiunque abbia un cane o un gatto sa bene quanto sia bello accoccolarsi con loro, quindi da oggi niente più scuse, dormire con loro fa bene!

È un maremmano o un gatto? Il senso di indipendenza che mi ha fatto innamorare del mio «cane-felino». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. Non avrei mai immaginato di innamorarmi così perdutamente di un maremmano. Quando prendemmo Bonnie, una cucciola di neanche due mesi che era stata abbandonata appena nata insieme a due sorelline – molti pastori hanno purtroppo l’infame abitudine di tenersi i maschi e buttare le femmine –, molti ci dissero che era uno sbaglio, che avremmo avuto enormi difficoltà di gestione, che il cane avrebbe potuto diventare molto pericoloso, e insomma che non si poteva compiere scelta peggiore. Terrorizzati e incoscienti, decidemmo di prendere ugualmente Bonnie. È vero: il pastore maremmano abruzzese – questo il suo nome ufficiale – può diventare un cane feroce: ma soltanto in circostanze particolarissime. Discendenti dei guardiani degli armenti che accompagnavano i pastori dell’Asia centrale sette o ottomila anni prima dell’era volgare, i maremmani sono abituati a fare da soli. Scrive Elena Garoni in un libro fondamentale che tutti dovrebbero leggere, «Piacere di conoscerti. Capire i cani con le motivazioni di razza» (Tea): «Non vengono sottoposti ad un addestramento, non rispondono ai comandi del pastore perché, per la maggior parte del tempo, il pastore non c’è, o dorme. Agiscono in squadra e rispondono alla motivazione ancestrale della difesa di ciò che per loro è prezioso: il gruppo affiliativo [cioè il gregge]. Per questo, la loro autonomia è molto alta, ed è difficile convincerli che non tutti gli ospiti sono ladri». Per un maremmano, prosegue Garoni, «il possesso di una risorsa è spesso una questione di vita o di morte: una ciotola lasciata in giro, un resto di cibo, o il passaggio di una soglia può scatenare una risposta avversativa importante, che rischia di venire fraintesa, condannandolo ad una fama di cane aggressivo». Ma è sufficiente saperlo, è sufficiente conoscere le caratteristiche ataviche della razza e rispettarle, e il maremmano diventa perfettamente innocuo. Raramente Bonnie risponde ai comandi, perché è abituata a fare da sé, ma non sbaglia mai una mossa e ha un controllo perfetto della propria forza e della situazione che si trova di volta in volta ad affrontare. Non cede alle lusinghe del biscottino, perché è capace di sopravvivere due settimane senza cibo, ma col tempo ha sviluppato un’intesa profonda con noi ed è in grado di capire e di farsi capire perfettamente con uno sguardo o un gesto appena accennato: per esempio, se vuole uscire in giardino mi viene vicino e appoggia delicatamente il muso sul mio braccio, e tanto basta. Non ama farsi coccolare troppo e tiene spesso le distanze, perché la distanza è lo spazio in cui è abituata ancestralmente a vivere e l’orizzonte è il suo unico limite, ma è capace di grandi affettuosità e tenerezze quando ne sente il bisogno e vuole rafforzare il legame affettivo con noi, per esempio dopo qualche giorno di assenza. Non gioca con la pallina, perché il suo istinto predatorio è pari a zero, né tantomeno la riporta, perché giudica l’atto intrinsecamente inutile, i suoi movimenti sono rigidi e spesso non si muove affatto, lo sguardo è ermetico, indifferente, lontano: ma la sua sola presenza è capace di trasmettere un senso di sicurezza e di familiarità che non credo di aver mai provato con nessun altro essere vivente. Quando piove e tira vento preferisce uscire in giardino, come se la situazione richiedesse un di più di attenzione, ma è anche capace di dormire per ore sul divano come il più pigro dei gatti. Eccoci al punto: i gatti. Col tempo mi sono convinto che la mia passione smisurata per Bonnie dipende dal fatto che in lei c’è qualcosa di felino: anzi, c’è l’essenza stessa della gattità: l’indipendenza. Per molti anni abbiamo avuto soltanto mici, e sebbene sia sciocco tentare una classificazione e stabilire una graduatoria fra cane e gatto, perché ciascuno è l’altra metà del mondo dell’altro, confesso una personale, ancorché minima predilezione per i felini, proprio a causa della loro indipendenza e del loro gusto per la libertà individuale, che considero un modello di virtù anche per noi umani. Sebbene non ci sia in realtà alcun rapporto fra i maremmani e i gatti, e anzi etologicamente le differenze siano incolmabili, c’è qualcosa nella mia percezione e nel mio rapporto con loro che li accomuna, e che me li fa amare senza riserve. Un animale non è un oggetto o un giocattolo o un burattino o un pelouche, ma un individuo: e un individuo è soprattutto tale se è capace di bastare a se stesso.

Da ilgazzettino.it il 13 dicembre 2019. Colpo di scena nella morte di Massimo Sartori, il 49 di Pozzonovo nel padovano: ad uccidere l'uomo non sarebbero stati i morsi dei due rottweiler, bensì un malore. Il sospetto che la causa del decesso non fosse da attribuire ai due cani della compagna di Sartori erano stati sollevati già da  Aldo Costa, direttore del settore Veterinario dell'Ulss 6: «I suoi cani potrebbero anche aver tentato di "chiamarlo"».

Autopsia annullata, l'indagine dei medici sul corpo ha chiarito le cause del decesso. Il dato sulla morte di Sartori è emerso oggi dopo l'ispezione sul corpo, come si è appreso da fonti della Procura di Rovigo titolare dell'indagine per competenza territoriale. I segni dei morsi dei due cani, una femmina di nove anni e un maschio di due, non sono mortali. L'uomo - come avevano ipotizzato ieri i carabinieri - si sarebbe sentito male (era cardiopatico) e sarebbe caduto e poi morto a causa delle patologie pregresse mentre i due molossi lo avrebbero morso solo successivamente e non in modo fatale. La Procura ha già disposto la consegna della salma ai familiari per il funerale, annullando l'annunciata autopsia.

La lotta contro il mercato della carne di cane arriva al Parlamento europeo. Monica Skripka su Le Iene News il 17 gennaio 2020. Dopo le minacce subìte a Langoan, l’attivista italiano Davide Acito ha incontrato alcuni europarlamentari a Strasburgo e hanno parlato dell’orrore del macello di cani. A fine riunione il nostro connazionale è riuscito a strappare alcune promesse ai rappresentanti italiani. Continua la lotta contro l’orrore del macello dei cani. L’attivista italiano Davide Acito, di Action Project Animal, è riuscito a strappare alcune promesse agli europarlamentari italiani: “Da oggi in poi, ogni mossa a contrasto di questa terribile pratica sarà accompagnata dalla firma di almeno un eurodeputato italiano”, dice Davide. Durante la riunione per la difesa dei diritti degli animali che si è svolta ieri a Strasburgo, l’iniziativa degli attivisti è stata appoggiata anche da alcuni parlamentari europei. Stefan Bernard Enk, Klaus Buchner, insieme a Sandra Gabriel, Sebastian Margenfelden e Davide Acito, hanno trattato il tema più importante: quello del mercato di carne di cane in Indonesia (che potete vedere nel video sopra) e come bloccarlo. “Il prossimo step è fare un grande congresso e invitare gli ambasciatori dell’Indonesia, Corea e Vietnam. Vogliamo presentare anche una lettera alle autorità locali di Tomhon, che sarà accompagnata da più firme dei parlamentari europei”, ha dichiarato Davide Acito a Iene.it. Alla riunione di Strasburgo ha partecipato anche l’europarlamentare italiana Eleonora Evi del Movimento 5 Stelle, che si è resa disponibile e ha preso parte da subito a questa battaglia. “È un argomento talmente orribile che appena sarà più conosciuto, reagiranno non solo l’opinione pubblica, ma anche le istituzioni. Queste manifestazioni che vengono chiamate tradizionali e culturali non hanno niente di tutto ciò. Spero che l’Europa possa reagire davanti a queste pratiche crudeli e barbare”, ha detto Eleonora Evi a Iene.it. Per l’europarlamentare italiana la lotta deve avvenire non solo a livello diplomatico: “Il cuore del problema è cercare di intervenire di più sui trattati commerciali che vengono negoziati”, cioè una volta che gli stati come Cina e Indonesia vogliono commerciare con l'Europa, devono evitare certe cose. Cani uccisi, gabbie con dentro altri animali in attesa del loro destino, sangue ovunque. Sono immagini molto forti quelle registrate a Langoan, dove Acito è riuscito a scampare da un macellaio che armato di bastone ha minacciato gli attivisti. “Ho visto molte uccisioni di cani, ma queste in Indonesia sono molto forti”. A Tomhon i cani, una storia purtroppo già sentita, vengono presi brutalmente a bastonate, picchiati a morte e bruciati per passare direttamente sui banchi del mercato o nelle padelle pronti per essere mangiati. E ad assistere a questo macabro spettacolo spesso ci sono anche bambini, che abituati all’usanza locale sembrano non mostrare alcun ribrezzo per quello che vedono.

Le 10 razze di cani più amate. Al Femminile.com. Le 10 razze canine preferite in Italia. Le statistiche lo dimostrano: gli Italiani amano gli animali, soprattutto i cani. Su una popolazione di 60 milioni di abitanti, i pet domestici sono circa 60,2 milioni, questo vuol dire che il rapporto è di 1 a 1 tra gli animali domestici e la popolazione residente. I cani nelle case italiane sono pari a 7 milioni e questo numero tende costante ad aumentare.

Alcune razze canine di tendenza in passato. Innanzitutto, la prima razza di cane di tendenza è stato il collie negli anni '70. Grazie alla serie cinematografica con protagonista la tenera Lassie, tutti improvvisamente volevano l'amichevole cane pastore. Negli anni '90, è esplosa, invece, la moda del dalmata, grazie al film d'animazione Disney, La Carica dei 101. Tuttavia, oggi, quali sono le razze canine per cui tutti impazziscono?

I cani più amati d'Italia. Stando sempre ad alcuni sondaggi sulla popolazione, è stato possibile individuare le 10 razze preferite in questi ultimi anni. Alcune sono talmente popolari che avremmo potuto aspettarcelo, ma altre, invece, sono entrate in tendenza solo di recente. 

Il pedigree non è tutto. Sebbene questi cani vengano spesso fotografati e filmati per spot pubblicitari o altri scopi promozionali, ricordati sempre che, se sei alla ricerca del tuo amico a quattro zampe, la sua razza non è tutto, anzi. Bisogna conoscere le caratteristiche caratteriali del proprio cucciolo, ma ci sono molti cani che non hanno un pedigree e che attendono fiduciosi una famiglia tutta per loro. Che siano di razze "di tendenza", che abbiano un pedigree non ancora "alla moda" o che siano dei trovatelli, una cosa è certa: l'amore che un cane è in grado di dare sarà sempre un bene inestimabile.

10. Rottweiler. Per anni, questa razza canina è stata ritenuta " pericolosa". Fortunatamente, questa credenza sta scomparendo, tanto da portare il Rottweiler alla decima posizione delle razze preferite dagli italiani. Inizialmente, la sua stazza può intimidire, ma, alla fine, il Rottweiler si rivela un vero e proprio gigante buono, sia con gli adulti che con i bambini. A solo un'esigenza: meglio non tenerlo in un appartamento senza giardino.

9. Segugio. Un cane dinamico e attivo: il Segugio è entrato solo di recente, proprio come il Rottweiler, in questa classifica. Questa razza ha due particolarità: da una parte è dolce con i bambini, dall'altra è sia fedele che dinamico con il proprio proprietario. Con lui, le passeggiate in mezzo alla natura saranno davvero straordinarie!

8. Bulldog francese. Grazie ai social, il Bulldog francese è da anni in top 10. È un cane calmo e amorevole. Infatti, non è solo la sua fama sui social a renderlo una delle razze più amate: il suo carattere allegro e la sua natura affettuosa attraggono sempre più persone, in particolare le famiglie, visto che il Bulldog francese ama i bambini. Infine, data la sua piccola taglia, è il cane ideale per chi vive in un appartamento senza giardino.

7. Boxer. Un altro gigante dal cuore buono: il Boxer si guadagna la settima posizione nella classifica. Se sceglierai un Boxer, preparati a lunghe passeggiate all'aria aperta... ma tieniti pronta a tanto amore: è un cane molto affettuoso, sorprendentemente adatto alla vita in famiglia con bambini.

6. Chihuahua. Negli anni 2000, i Chihuahua sono diventati veri cani di tendenza grazie a Paris Hilton e al suo cucciolo, portato a tutti gli eventi come una celebrità.  Come razza, il Chihuahua non è proprio adatto a tutti, soprattutto se hai dei bambini piccoli in casa, che possono "spaventare" il cucciolo, già timoroso di natura. Tipico dei Chihuahua è il loro attaccamento estremamente forte al loro padrone, per questo motivo è importante istruirli in modo tale che non diventino eccessivamente gelosi di altri animali o umani. Per la sua piccola taglia, è un cane ideale per un appartamento.

5. Jack Russell Terrier. Un vero vortice di energia: ecco il Jack Russell al quinto posto. Il Jack Russell è un cane molto attivo ed energico, per questo richiede un'educazione adeguata affinché non prevarichi sul padrone. Inoltre, i suoi proprietari devono essere persone attive e che lo tengano impegnato con attività sportive, per esempio l'agility, o giochi come il frisbee. Pensi di essere pronta per questo terremoto di energia e amore?

4. Golden Retriever. Il Golden Retriever ha perso solo da qualche tempo il podio come cane preferito dagli italiani. Il suo carattere equilibrato e calmo rende il Golden Retriever il cane di famiglia perfetto. Anche i bambini piccoli, che si scatenano e ci giocano non sempre con attenzione, troveranno un amico a quattro zampe perfetto. Il Golden Retriever cerca sempre di compiacere il proprio proprietario: questo lo rende particolarmente socievole e adatto a persone che sono alla prima esperienza con un cucciolo. I Golden Retriever sono solo dei veri cani di famiglia!

3. Labrador. Solo da poco tempo, il Labrador non è più al primo posto della classifica: questa razza canina continua comunque a piacere a molti italiani. Quasi nessun'altra razza di cane è più giocosa e amabile del Labrador, che adora giocare per ore ed essere coccolato. Se scegli questa razza, dovrai fare attenzione solo a una cosa: la dieta del tuo cucciolo. Infatti, il Labrador ama mangiare, ma, soprattutto in età più avanzata, rischia le problematiche legate al sovrappeso. nfine, se ami il mare o il lago, il Labrador è perfetto: infatti, è un grande amante dell'acqua!

2. Setter inglese. Con grande sorpresa, il Setter Inglese si classifica secondo. È un cane estremamente attivo e dinamico, quindi piccola avvertenza: non chiuderlo mai in un appartamento. Per il resto, è un amico ideale: ama stare in famiglia, giocare all'aria aperta ed è molto affettuoso caratterialmente.

1. Pastore Tedesco. Al primo posto, a grande sorpresa, troviamo il Pastore Tedesco. Un vero e proprio cane da famiglia: possiede un forte istinto protettivo, inoltre è fedele, affidabile e attento. Con lui, dolcezza e protezione non mancheranno mai! Come altri cani da pastore o da guardia, è molto intelligente e ama superarsi. Affinché il tuo amico a quattro zampe non si annoi, dovresti "sfidarlo" giocosamente, per esempio con semplici attività di ricerca. Fuori dalla classifica: il meticcio. Fortunatamente, sono sempre di più gli italiani che scelgono di adottare i meticci dai canili. Avere a che fare con cucciolo senza pedigree è una continua sorpresa: difficilmente si riescono a riconoscere le razze mescolatesi nel suo DNA, soprattutto nei primi mesi di vita, e per questo bisogna essere pronti "a tutto".

Questa "incertezza", però, viene ripagata dal gesto di aver regalato una famiglia al vostro nuovo amico a quattro zampe. Solo per questo, sarà legato a te per sempre e te lo dimostrerà ogni giorno... con ogni scodinzolio di coda.

·        Storia di Saturn, l’alligatore americano morto a Mosca a 84 anni.

Da lastampa.it il 25 maggio 2020. Saturn è morto a 84 anni. Età a parte, la vita di questo alligatore del Mississipi non si può dire che non sia stata avventurosa: sopravvissuto alle bombe della seconda guerra mondiale a Berlino e, dice la leggenda, appartenuto al leader nazista Adolf Hitler, si è spento nello zoo di Mosca dove ha vissuto dal 1946. La sua storia, almeno quella conosciuta, inizia nel 1936 quando venne donato allo zoo di Berlino dopo essere nato negli Stati Uniti. Nel novembre 1943 la città tedesca venne pesantemente bombardata dagli Alleati. In particolare nella notte fra il 22 e 23 di quel mese, gli ordigni danneggiarono pesantemente le aree a ovest del centro, incluso il distretto di Tiergarten, proprio dove c’era lo zoo. Un rapporto dell’epoca racconta che quattro coccodrilli vennero uccisi scagliati in strada dalla potenza delle esplosioni. Ma non Saturn che riuscì a sopravvivere e a fuggire. Per tre anni visse fra le rovine della città fin quando venne trovato dai soldati britannici che lo consegnarono ai militari sovietici e finì per essere portato nello zoo di Mosca. Lì è vissuto per altri 74 anni, raggiungendo così la ragguardevole età di 84 anni: almeno una trentina in più rispetto a quanto mediamente vivono gli esemplari in natura. Forse addirittura il più vecchio al mondo, anche se è impossibile dirlo: nello zoo di Belgrado in Serbia vive un altro alligatore maschio, Muja, che attualmente ha 80 anni e potrebbe superarlo. Di certo Saturn può vantare tanti racconti e leggende che gli sono stati attribuiti: «Appena arrivato a Mosca – racconta l’agenzia stampa Interfax – si è diffuso il mito che Saturn non provenisse dallo zoo di Berlino ma che appartenesse a una collezione privata del leader nazista Adolf Hitler». Una voce mai confermata e respinta dallo zoo moscovita secondo il quale gli animali «non appartengono alla politica e non devono essere ritenuti responsabili dei peccati umani». Altri miti raccontano che quando venne costruito nel 1990 un nuovo acquario, Saturn si rifiutò di mangiare cibo per 4 mesi quasi non volesse abbandonare la sua vecchia casa. E si dice anche che nel 1993, quando dei carri armati si spostarono lungo la tangenziale, Saturn pianse a causa della vibrazioni, ma che in realtà quelle lacrime fossero dovute al ricordo della battaglia di Berlino. Insomma un animale circondato da racconti davvero curiosi. «E' una grande gioia che ognuno di noi abbia potuto guardarlo negli occhi – raccontano dallo zoo moscovita – , stargli vicino in silenzio. Ha visto crescere molti di noi. Speriamo di non averlo deluso».

Storia di Saturn, l’alligatore americano morto a Mosca a 84 anni. Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. Potrebbe essere un’incredibile storia di guerra. Oppure un’avvincente spy story, un intrigo internazionale. O forse il racconto di una sopravvivenza in condizioni al limite dell’impossibile. Di certo Saturn, alligatore di 84 anni morto l’altro giorno nello zoo di Mosca, nel corso della sua vita ne ha viste tante, tantissime: le Olimpiadi di Berlino nel 1936, la battaglia di Berlino, la sconfitta del nazismo e la stretta di mano tra russi e americani, poi la guerra fredda e il trasferimento oltrecortina, nell’allora Unione Sovietica. Il grosso lucertolone si è spento per vecchiaia, «a un’età veramente notevole», come afferma la nota del giardino zoologico della capitale russa riferendosi al fatto che la vita media di un alligatore in libertà di norma spazia tra i 30 e i 50 anni. Fosse stato umano, potremmo immaginare Saturn — chissà — come un testimone del tempo, un avventuriero, un giornalista, uno «007» o un caparbio soldato capace di sopravvivere in ogni modo alla ferocia della guerra. L’alligatore, lungo circa tre metri e mezzo, era nato a metà degli anni Trenta nelle paludi del Mississippi, Usa, per ritrovarsi pochi mesi dopo a Berlino. Fu un «regalo» del comitato olimpico americano agli organizzatori tedeschi dei Giochi del 1936, quelli che avrebbero dovuto magnificare il nazismo ma che poi videro l’afroamericano Jesse Owens, primo e indimenticabile «figlio del vento», vincere quattro medaglie d’oro stracciando tutti nei 100 e 200 metri, nella staffetta e nel salto in lungo. Specialità, anche se questa è un’altra storia, in cui Jesse battè il tedesco Lutz Long, che divenne suo amico fraterno e che poi morì in Sicilia, combattendo contro gli americani. L’affollato e monumentale Olympiastadion teatro delle gare d’atletica filmate da Leni Riefenstahl non era nemmeno troppo lontano dallo zoo di Berlino (rimesso a nuovo sempre in vista delle Olimpiadi) dove intanto Saturn era finito per dimorare e si dice che Hitler fosse assai incuriosito dalla sua presenza, tanto da andare a vederlo più volte. Ma è a partire dal 23 novembre 1943 che la storia del grosso rettile incrocia incredibilmente la seconda guerra mondiale. Durante un terribile bombardamento il giardino zoologico venne devastato provocando una strage di circa 16 mila animali morti nelle esplosioni o di fame, per il successivo abbandono. Ma Saturn in qualche modo sopravvisse. Come avesse trascorso i tre anni successivi è un mistero, forse si cibò delle carogne di animali morti disseminati per lo zoo. Fatto sta che venne trovato — immaginarsi la loro sorpresa — tra le macerie di Berlino nel 1946 da un drappello di soldati britannici. Che poi lo regalarono ad alcuni ufficiali dell’Armata Rossa. Fu così che Saturn fu portato allo zoo di Mosca. Diventandone subito una delle principali attrazioni. Figurarsi: era il lucertolone Usa che aveva conosciuto il Führer ...Negli anni ‘50 — siamo nel frattempo entrati nell’era kruscioviana che vide per qualche istante affievolirsi la morsa della Guerra Fredda — gli Usa regalarono all’Unione Sovietica un alligatore femmina più giovane. Si chiamava Shipka, si accoppiarono ma senza progenie poiché tutte le uova erano sterili. Quando lei morì, Saturno — hanno raccontato in questi giorni i giornali moscoviti che hanno dato ampio spazio alla storia dell’alligatore — era così angosciato che rifiutò il cibo per diversi mesi. Tra acciacchi dovuti alla vecchiaia, il morso alla mano di un guardiano che cercava di dargli da mangiare, i dispetti di alcuni giovinastri ubriachi che gli tirarono dei sassi provocandogli alcune ferite, l’alligatore ha assistito alla perestroika, al crollo del comunismo, vide Gorbaciov, Eltsin, Putin. Nel 2015 la Lacoste — la griffe francese di moda sportiva, quella del logo del coccodrillo — sponsorizzò un documentario sulla sua via. Quella di un longevo alligatore, a suo modo testimone del tempo.

·        Storia di Codamozza, la balena mutilata che gira in lungo e largo il Mediterraneo.

Corri, corri e scappa dal male. Storia di Codamozza, la balena mutilata che gira in lungo e largo il Mediterraneo. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Gli Dei si rassegnarono alla sconfitta, si convinsero che con l’uomo avevano fallito, sentendosi chiedere per miracolo di concedere lo scambio: una favolosa coda di cavallo per cui si era disposti a cedere pure la vista. La vanità più estrema. Codamozza è una balena che la coda non la ha più, nuota senza tregua da un punto a un altro del Mediterraneo, si tiene cara la vista: è passata davanti alla Siria, si è fermata ad ammirare i monti dello Shuf, ha girato in tondo Cipro e Creta, e giù fino a Cartagine. Non si sa se la coda gliela abbia portata via una nave, una rete, un cavo. Da anni la seguono gli scienziati dell’Istituto Tethys: qualunque sia la causa della mutilazione discende da un maleficio umano, dicono. E ora servirebbe un Achab al contrario, un capitano folle che rincorra la balena col morboso proposito di salvarla, di porre riparo alla ferita, sacrilega, che ne ha dilaniano la coda. Un morbo progressivo che le strappa la carne a bocconi enormi, ne riduce la mole. Il male non si ferma, e Codamozza corre avanti, per lasciarselo dietro, per rallentarne la corsa. E non si sa se vuole vincerlo, se sa di dover perdere. Nuota senza coda che è come camminare senza gambe, anzi correre velocissimo: sceglie i luoghi più belli del mare Antico, ci punta gli occhi, li divora. La bellezza è rimasta l’unica cosa che riesce a mangiare, senza coda non può più spingersi nel ventre del Mediterraneo, riempirsi la bocca di acqua e plancton. Mangia bellezza, che non le riempie la pancia ma la sostiene a galla, la aggrappa alla linea della vita. Si è fermata un giorno, fra Scilla e Cariddi, ora guarda con pena l’Etna: spera in un suo gioco di fuochi, che tanti ne ha visti di meravigliosi, e un altro sarebbe un regalo gradito: non le colmerebbe i fianchi, sguarniti di un grasso che non tornerà più, le darebbe la forza di continuare il giro, di riempire la pancia degli occhi. Bellezza, solo quella chiede: un ultimo boccone di un mondo meraviglioso, prima di andarsene a fondo, trascinandosi dietro per pietà, senza rancore, una umanità matrigna che assiste a un dramma di cui è causa senza avere il coraggio di buttarsi in una impresa folle: riparare ciò che forse non è più aggiustabile.

·        Il tonno rosso del Mediterraneo.

Il tonno rosso del Mediterraneo, una ricchezza in mano a pochi. Sandro Vitiello il 20 agosto 2020 su  ponzaracconta.it. Il tonno è una ricchezza che attraversa i mari della nostra isola ma che diventa una condanna se pescato. Ne abbiamo scritto in diverse occasioni – e ci siamo fatti promotori di iniziative che potessero essere di sostegno ai pescatori della nostra isola –  ma, ad oggi, la situazione non è cambiata poi di tanto. Nei mesi passati sono stati scaricati nel porto di Ponza diversi quintali di tonno ma è ben poca cosa rispetto a quanto rimane attaccato agli ami delle coffe a pesce spada. Tagliato il filo e buttato via il pesce alle profondità del nostro mare. Ci auguriamo che si trovi una soluzione per la nostra gente e anche per i tanti pescatori italiani che vivono di questo. E’ di oggi una importante inchiesta del quotidiano “la Repubblica”, a firma di Carlo Bonini (et Al.), che racconta e mette in fila fatti e misfatti. E’ molto lunga ma non abbiamo trovato motivi per eliminarne delle parti. Parole pesanti che gettano una luce nuova sulla pesca e sul commercio del tonno rosso a livello mondiale. Racconta di uomini per bene che hanno passato la vita sul mare e vivendo delle creature del mare e ci sono le storie di criminali mafiosi che acquistano per quattro soldi il pescato, lo conservano senza nessuna regola e lo vendono anche quando il pesce è andato a male. Centinaia di persone avvelenate a causa di questi individui senza scrupoli. Pigliatevi il tempo necessario, leggete questo lungo documento, ci spiega tante cose. Buona lettura.

Inchiesta sulla corsa all’oro del Mediterraneo.

Carlo Bonini, Antonio Fraschillà, Salvo Palazzolo, Sara Scarafia. Giorgio Ruta su L'Espresso il 20 agosto 2020. Può arrivare a tre metri di lunghezza e 700 chilogrammi di peso. È un tonno, ma non qualsiasi. È il tonno per eccellenza. Lo chiamano l’oro rosso del Mediterraneo, nei cui fondali ha il suo habitat. Rosso come il color mattone della sua carne morbidissima e dal sapore intenso, ricca di proteine e Omega-3 (più del doppio di quelle di un tonno di altra specie). E d’oro, perché il suo costo al chilo può arrivare a non avere prezzo. Soprattutto perché le sue guance, i suoi filetti, la sua ventresca sono in cima alla inesauribile domanda del mercato giapponese, che, infatti, assorbe il novanta per cento del “tonno rosso” pescato nel Mare Nostrum, ed è capace di batterlo all’asta per cifre record. Come quella pagata lo scorso inverno al mercato di Tokyo (il più grande al mondo) per un singolo esemplare di circa 3 quintali. Due milioni e 700mila euro. Novemila e seicento euro al chilogrammo. In un mercato drogato da formidabili margini di profitto, la sostenibilità della filiera di pesca è a rischio. E il circuito parallelo della pesca illegale, per lo più controllato dalla criminalità organizzata, si allarga. Le antiche “tonnare” sono un ricordo ingiallito del passato. I Signori dell’oro rosso – come raccontiamo in questa inchiesta – sono imprenditori e broker spregiudicati, pescatori in regime di quasi monopolio, che si muovono tra le nostre coste e le acque spagnole, francesi e maltesi. Il “nostro” tonno rosso va a Tokyo. Quello sulle nostre tavole, spesso spacciato per ciò che non è, arriva dall’Oceano Indiano, dal Pacifico, dall’Atlantico.

Un affare da 65 miliardi l’anno. Dopo anni di pesca selvaggia che ne avevano messo a repentaglio la specie, il tonno rosso è tornato nel Mediterraneo. In quantità. Grazie al sistema delle quote introdotto a metà degli anni Novanta, e alla nascita delI’Iccat, l’organismo che vigila sul rispetto della pesca del tonno tra Atlantico e Mediterraneo, la specie è tornata ad avere numeri importanti. Ma a poterlo pescare sono solo poche flotte di pescherecci, sopravvissute agli anni di magra e sufficientemente lungimiranti da acquistare in quel periodo quote di pescato quando tutti scommettevano sulla fine del tonno rosso, né immaginavano l’esplosione di una cultura dell’alimentazione, anche domestica, basata sul consumo di pesce crudo, né, tantomeno, una ulteriore crescita del mercato di elezione: quello giapponese. Oggi, il 90 per cento del tonno rosso pescato tra Mediterraneo e Atlantico vola nel Sol Levante. Non prima però di essere ingrassato, perché è così che lo vogliono i giapponesi: molto grasso. E più è grasso, più pesa. Più pesa, più costa. È stato creato così un sistema di gabbie, dove, per mesi, fino a tremila tonni vengono ingozzati con tonnellate di pesce azzurro e calamari finché non raggiungono il peso e le dimensioni chieste dal mercato giapponese. Un sistema dannoso per l’ambiente, come vedremo. Alcuni numeri documentano la dimensione del business. La fortissima richiesta giapponese, alimentata dal boom mondiale del consumo di sushi e sashimi di qualità, ha fatto balzare su scala mondiale il fatturato della pesca del tonno rosso a un livello mai immaginato prima: 40 miliardi di dollari all’anno, cui ne vanno aggiunti almeno altri 25 del mercato illegale. Un fiume di denaro controllato da pochi imprenditori. In Italia, ad esempio, quasi il 70 per cento delle quote con il sistema della circuizione, enormi reti che consentono di pescare in quattro giorni anche mille tonni, è gestito da una dozzina di pescherecci tra Cetara e Salerno, in Campania. Il sistema delle gabbie è invece monopolio di quattro imprese: quella dei fratelli Fuentes, in Spagna, e dei tre maltesi Azzopardi. Al resto degli operatori del settore restano solo le briciole. “E sulle nostre tavole arriva tonno dell’Oceano Indiano oppure tonno rosso pescato di frodo e senza controlli, nonostante questo sia un pesce talmente delicato che se trattato male produce subito istamina, che provoca in chi la ingerisce forti intossicazioni”, dice Alessandro Buzzi del Wwf, uno dei massimi esperti di pesca del tonno rosso che da anni si batte per una filiera sostenibile e trasparente.

Il sistema delle quote. Il tonno rosso nasce e migra tra le coste europee dell’Oceano Atlantico e quelle del Mediterraneo, dove arriva in tarda primavera per “svernare” con i piccoli appena nati e affamati. Banchi che arrivano a contare fino a mille, duemila tonni si concentrano in alcune zone, come le coste scogliose e le grotte marine del basso Tirreno, e poi scendono più a Sud, verso il Canale di Sicilia. Da sempre, il tonno rosso è stato cercato come l’oro. La statistica più recente del pescato annuale fatta dall’Iccat parte dal 1952, quando l’andamento della cattura mondiale di tonno rosso registrava 28mila tonnellate circa. Un andamento altalenante, ma sostanzialmente crescente di pescato si sarebbe registrato fino al 1996, con un picco di oltre 53mila tonnellate. Ed è proprio quello l’anno che fa suonare un campanello d’allarme: il rischio di estinzione della specie. Nell’autunno del 1996 vengono così introdotte le quote e affidato all’Iccat il loro controllo con personale a bordo dei pescherecci. “Rischiavamo davvero in quegli anni l’estinzione – dice Buzzi – L’introduzione di un limite e di controlli stringenti, con commissari a bordo dei pescherecci autorizzati, consente, oltre 24 anni dopo, di poter dire oggi che c’è una ripresa di questa specie. Il che, al contrario di quello che si potrebbe pensare, non ci lascia affatto tranquilli. Avvertiamo infatti un allentamento della tensione e osserviamo preoccupati la domanda impazzita, a cominciare dal Giappone, di un mercato fuori controllo”. Per il 2020, la quota mondiale di pescato è stata fissata in 36mila tonnellate, la più alta dal 2006. E di questa quota, l’Europa ha poco più della metà: 19.460 tonnellate, di fatto divisa tra tre Paesi: la Spagna (6.107 tonnellate), la Francia (6.026) e l’Italia (4.756). Nel resto del Mediterraneo, la quota più significativa va al Marocco (3.234), seguito da Tunisia (2.655) e Libia (2.255). Mentre nel resto del mondo solo due marinerie possono davvero pescare tonno con numeri importanti a ridosso anche delle nostre coste: quelle del Giappone (con quota fissata a 2.815 tonnellate) e della Turchia (2.305). Esistono delle quote anche per le “gabbie in mare”, il sistema di ingrassamento del tonno da giugno fino a settembre per soddisfare la domanda giapponese. Nel Mediterraneo sono attive circa quaranta gabbie, sparse tra le acque di Croazia, Malta, Spagna, Francia e le coste della Grecia. Ma, soprattutto, sono non più di quattro le aziende in grado di alimentare sistemi di gabbie che possono raccogliere fino a 3-4mila tonni. E sono tutte concentrate in Spagna e a Malta. Il sistema è comunque controllato e tracciato: “I giapponesi pagano tanto ma vogliono il massimo dei controlli e della certificazione – continua l’esperto del Wwf – Ogni tonno pescato viene numerato e registrato come se fosse un’auto: in modo da seguire tutti i passaggi prima della vendita al mercato di Tokyo”.

I Signori delle reti. Sulla carta, le quote dovrebbero impedire la costituzione di monopoli e oligopoli. In realtà, nel triangolo Italia-Spagna-Malta, grazie all’uso delle gabbie, il sistema somiglia molto a un oligopolio di ferro. Iniziamo dall’Italia. È l’unico Paese che impedisce di fatto la libera concorrenza tra pescherecci perché ripartisce la sua quota tra le singole marinerie e non la utilizza in generale come tetto massimo di pescato. La Regione Siciliana ha presentato per questo vari ricorsi contro, lamentando che questo sistema esclude inesorabilmente dal mercato le tonnare storiche che pure vorrebbero riaprire, come quelle di Favignana o della Sardegna. Perché il sistema, appunto, si basa, nella ripartizione, sulle quote fissate all’indomani del 1996, quando molte tonnare chiusero scommettendo sulla fine dell’oro rosso. Sta di fatto che oggi il mercato della pesca del tonno per l’Italia è controllato da soli 21 pescherecci che utilizzano la cosiddetta “circuizione”: un sistema che prevede l’uso di enormi reti circolari che si restringono non appena i banchi di tonno vi hanno fatto ingresso. E ne consentono la cattura e il trasporto da vivi verso le gabbie in altre acque, dove vengono messi all’ingrasso. Di questi 21 pescherecci, 12 sono di stanza tra Cetara e Salerno, in Campania. Al punto che la marineria di questo piccolo paese della costiera amalfitana ha da sola una quota di pescato per il 2020 pari a 1.586 tonnellate, poco meno di quelle autorizzate per l’intera Libia e la Tunisia. Le famiglie dei signori del tonno di nome fanno Ferrigno, Pappalardo, Della Monica. In parte sono immigrati di ritorno dal Canada, dove, nei primi del Novecento, alcuni cetaresi tentarono la fortuna e soprattutto appresero e affinarono la tecnica della pesca per circuizione. Un sistema che consente di pescare in soli quattro giorni anche tutta la quota annuale assegnata di tonno. Migliaia di esemplari catturati vivi e trasferiti con imbarcazioni di Mazara del Vallo o di altre marinerie che non hanno quote verso le gabbie maltesi e spagnole a una velocità di crociera che non deve mai superare i tre nodi, per non fare sfinire il tonno durante questa migrazione in cattività e danneggiarne la carne prima del periodo dell’ingrasso. A Cetara, che è senza dubbio il regno del tonno rosso, alcuni pescherecci arrivano a fatturare anche un milione di euro all’anno. E, non a caso, il sindaco del paese è un armatore, Fortunato Della Monica: “Ci accusano di avere un monopolio. Ma noi questo monopolio l’abbiamo costruito investendo nelle quote quando tutti le vendevano e pensavano che la pesca del tonno fosse finita – dice – Nel 2009, le barche con quote in Italia erano appena 12. Nessuno credeva in questo settore. Invece, noi tra il 1996 e il 2014 abbiamo continuano ad acquistare quote da altre imbarcazioni. Adesso tutti le rivogliono indietro”. Certo, colpisce che il ministero dell’Agricoltura abbia consentito un aumento di quote nel 2020 per circa 448 tonnellate e oltre la metà, 254 tonnellate, sia andato al sistema della circuizione, quindi sempre a chi, di fatto, è già in una posizione di quasi monopolio. Negli anni Ottanta, quelli della pesca selvaggia, alcune imbarcazioni potevano anche ospitare elicotteri che seguivano i banchi di tonno. Oggi è vietato. “Per l’individuazione utilizziamo solo il sonar e siamo molto controllati”, dice Della Monica. Che, però, quando sente parlare di affari d’oro si inalbera:  “Guardate che questa è stata un’annata pessima – dice ancora – Gli allevatori in mare ci hanno pagato il tonno 4 euro al chilo e anche meno. Di fatto, abbiamo dimezzato i fatturati. Loro dicono che è calato il mercato giapponese, ma noi non ci crediamo. La verità è che chi ha il monopolio sono quelli delle gabbie a Malta e in Spagna e se ne approfittano. Ecco perché dobbiamo creare una filiera autonoma con gabbie e sistemi di allevamento anche in Italia”.

I Signori delle gabbie. Quello indicato dal sindaco di Cetara è indubbiamente uno snodo chiave di un mercato drogato dalla richiesta giapponese. I padroni delle gabbie in mare comprano infatti in media il tonno vivo catturato con le reti a circuizione tra i 10 e i 15 euro al chilo, per rivenderlo poi ai grossisti giapponesi ad un prezzo fino a dieci, venti volte superiore. Tra i 150 e i 300 euro al chilo. E anche i padroni delle gabbie hanno un nome. Sono i fratelli Fuentes in Spagna e gli Azzopardi a Malta. L’ideatore e pioniere del sistema di ingrassamento del tonno in gabbie a mare si chiama Charles Azzopardi. È un maltese che ha messo in piedi un impero che fattura oltre 30 milioni di euro all’anno. Altri due Azzopardi, omonimi ma non parenti in linea diretta, hanno creato negli anni aziende simili. Nelle loro gabbie in mare, il tonno viene ingrassato per mesi, e poi, ad uno a uno, gli esemplari vengono uccisi singolarmente con un colpo di fucile, non uno di più. Perché se il tonno perde sangue, i giapponesi pagano molto meno. A Malta, il mercato del tonno rosso vale oltre 160 milioni di euro, il 3 per cento del Pil dell’isola. Ma anche i fratelli spagnoli Fuentes hanno fatturati a sei zeri. E, anche in questo caso, i soldi arrivano dal Giappone e dalle aste milionarie nei mercati di Tokyo e delle grandi città nipponiche. Soltanto nel principale mercato di Tokyo, Tsukiji, recentemente trasferitosi in una zona più ampia, ogni giorno vengono acquistati dai ristoranti e pescherie della città derrate di pesce per 21 milioni di euro. Una cifra enorme, spesa in gran  parte per acquistare tonno rosso, la cui asta si tiene ogni giorno alle 3 del mattino. Partecipano all’incanto i 900 grossisti accreditati. E, in media, un tonno rosso viene venduto a 20mila dollari. Anche se per alcuni esemplari particolarmente pregiati perché di grande massa grassa il prezzo può salire a dismisura.

Il mercato del pesce a Tokyo, in Giappone. Tanto per dire, hanno fatto storia gli acquisti di Kiyoshi Kimura, titolare della grande catena di sushi Zanmai. Nel 2013, arrivò a pagare 1 milione e 700mila euro un tonno di 222 chili. Lo scorso anno ha pensato bene di ripetersi, spendendo 2 milioni e 700mila euro per un esemplare pescato nel nostro mare. Soltanto il grande mercato centrale di Tokyo muove una cifra annuale che si aggira intorno ai 4 miliardi di euro. E non sorprende che per il nuovo mercato grossisti e governo giapponese abbiano investito una cifra intorno ai 5 miliardi di euro.

Favignana, la tonnara che non c’è più. Eppure, nella Grande corsa all’oro rosso qualcuno è rimasto indietro. Con la beffa, per giunta, di vedersi passare davanti ogni anno enormi banchi di tonni. Basta spingersi fino a Favignana, dove, a sentire Salvatore Spataro, l’ultimo rais, il tonno è nel destino di chiunque nasca sull’isola.

Salvatore, al timone del suo gozzo in un giorno di bonaccia, con l’isola che sembra poggiata su uno specchio, per quanto il mare è immobile, ricorda di quando, bambino, si svegliava all’alba per preparare i mucchietti di peli di noce di cocco che servivano a fare le reti. Ricorda l’ingresso, a 14 anni, in “camperia”, lì dove d’inverno si lavorava in vista della “calata” di primavera. Erano gli anni d’oro, quando si tiravano su tra canti e preghiere più di duemila tonni. Quando non c’erano aliscafi e rumore, né squali bianchi a spaventare i branchi.

Salvatore Spataro, l’ultimo rais di Favignana. Oggi, Salvatore Spataro è arrabbiato. Deluso. Quest’anno, a Favignana, non si sono neppure calate le reti. E nel 2019, l’ultima volta che ci hanno provato, hanno tirato su quasi niente: 20 tonni. Già, a Favignana, l’isola con la tonnara dalla storia millenaria che i Florio fecero diventare moderna inventando la conserva sott’olio e unica tonnara fissa autorizzata in Sicilia, pescare il tonno non conviene più. E con i tonni rossi se ne sta andando via anche il patrimonio di saperi che per secoli si è tramandato di padre in figlio. Il rais se la prende con le quote. Con quelle 32 tonnellate annue assegnate a Favignana che non permetterebbero nemmeno di rientrare delle spese. È Filippo Amodeo a fare i conti: nel 2019, per gettare le reti sono stati spesi 800mila euro, che sono stati appena coperti dal pescato. Zero utili. Amodeo è il nipote di Nino Castiglione, che gestì la tonnara di Favignana dal 1985 al 1997 per poi rientrare nel 2017 scongiurando il rischio che quello che era stato lo stabilimento dei Florio fosse cancellato dall’elenco delle tonnare fisse autorizzate, come accade dopo dieci anni di inattività. Amodeo oggi, con cugini e fratelli, guida un’azienda, la Nino Castiglione, che a Trapani inscatola e distribuisce tonno in tutto il mondo fatturando 100 milioni di euro. Tonno pinna gialla, però, dunque di provenienza oceanica. Un paradosso per un figlio di Favignana sotto i cui occhi passano banchi da migliaia di tonni. “Per garantire la sostenibilità economica della tonnara di Favignana – dice Amodeo – dovrebbero assegnarci una quota di almeno 80-90 tonnellate. E, soprattutto, comunicarcelo con anticipo. L’anno scorso abbiamo saputo che avevamo 30 tonnellate l’8 maggio, alla vigilia della calata delle reti. Si pesca tra maggio e giugno ma una tonnara deve cominciare a prepararsi almeno sei mesi prima”.

Le due isole rivali. La storia delle quote, nate per salvaguardare la specie, racconta che alle tonnare fisse italiane ne spettino l’8 per cento, con un incremento del 20 per cento ogni tre anni. E che di tonnare fisse autorizzate in Italia ce ne siano cinque. Favignana, in Sicilia. E quattro in Sardegna: Cala Vinagra e Isola Piana a Carloforte, Capo Altano a Portoscuso e Porto Paglia, che si dividono 403 tonnellate di pescato. Sulle loro ragioni torneremo tra poco. Intanto, addentriamoci ancora a Favignana. Nello stabilimento oggi c’è solo Giuseppe Giangrasso, 85 anni, “Peppe nnue” (Peppe due) per gli isolani, una vita intera dentro alla tonnara: prima da addetto a sgozzare i tonni che le barche portavano a terra e oggi guardiano di quello che ormai è un museo. “Vorrei che la tonnara tornasse a vivere come quando ero ragazzo”. Lo stabilimento allora era il cuore dell’isola, con centinaia di operai, come racconta “Peppe nnue” mostrando prima gli spogliatoi maschili e femminili, quindi i grossi ganci ai quali i tonni venivano appesi un’intera notte a dissanguare, e infine la zona dell’inscatolamento. In quegli anni, a Favignana, il tonno era ovunque. Maria Guccione, 83 anni, isolana e attivista di Italia Nostra, ex assessora all’Ambiente, ricorda che da bambina vedeva gli spazzini usare le scope fatte con le code dei tonni. Perché “del tonno non si butta niente”, dice. E parla di “business”, ma anche di “interessi”. Di un trattamento di favore alle tonnare sarde “che si prendono tutto”. “Chi vuole far morire la tonnara di Favignana? Con il tonno, qui, potremmo vivere e creare posti di lavoro”. Come lei, la pensa tutta l’isola, compreso il sindaco Giuseppe Pagodo. Recentemente finito in un’indagine per corruzione, nel 2017 pubblicò il bando per consentire alla ditta Castiglione di riprendersi la tonnara e scongiurare la cancellazione dell’impianto. Eppure, Favignana, poco più di 4mila abitanti, nell’estate breve del Covid che ha asciugato i risparmi e ridotto i turisti, continua a prendersela con le quote e con “i sardi che si prendono tutto”. Peccato che, a quattrocento chilometri di distanza, le tonnare sarde raccontino un’altra storia. Gli impianti sono gestiti da due società – “Tonnare Carloforte Piam” e “Tonnare Sulcitane” – che lavorano con una gestione unitaria. “Noi non ci siamo mai fermati – racconta Andrea Farris, direttore di “Tonnare Sulcitane” – abbiamo continuato a calare le tonnare anche quando le quote erano anti-economiche. Poi, quando finalmente abbiamo raggiunto il break-even, il punto di pareggio, circa 120 tonnellate a impianto, sono state autorizzate altre due tonnare fisse che ci hanno messo di nuovo in difficoltà. Una è Favignana, che non ha nemmeno calato le reti”.

Per un tonno made in Italy. Eppure, la “guerra” tra Sicilia e Sardegna potrebbe capovolgersi in alleanza. Da entrambe le parti arrivano proposte. Per salvarsi e vivere di tonno. Anche se il percorso non sembra proprio semplice. Perché quasi tutto il pescato della Sardegna viene già venduto in blocco ai giapponesi. Visto che il mercato italiano non è considerato redditizio con i suoi 11, 12 euro al chilo. Un prezzo che, nell’anno del Covid, è per giunta sceso a 2,50 euro. Quello che sardi e siciliani vorrebbero fare è provare a trattenere una parte dei tonni in Italia per creare un prodotto di eccellenza. In Sardegna, il progetto prevede non più tonno pescato e rivenduto in 40 giorni agli stranieri, ma tenuto in vita per 4 mesi dentro alle gabbie per essere destinato al mercato domestico. “L’idea – spiega Farris – è quella di far vivere il tonno alimentandolo naturalmente con i banchi di sardine, così da avere il tempo per commercializzarlo in Italia come prodotto di alta qualità”. L’idea piace a Favignana, che punta anche sullo storico stabilimento a fini turistici: “Potrebbe diventare un museo vivo, dove il tonno si lavora in diretta – dice Amodeo – con tanto di schermi e telecamere per mostrare le fasi della mattanza. Potrebbe anche nascere una scuola di cucina, per recuperare tutto il patrimonio di ricette legate al tonno. Potremmo poi realizzare un nuovo prodotto inscatolato, di vero tonno rosso. È un progetto che ho illustrato alla ministra Teresa Bellanova, che ci consentirebbe il rilancio non solo della tonnara, ma di tutta Favignana. Però, se la pesca del tonno non è sostenibile economicamente, ci dobbiamo rinunciare”. Ecco perché a Favignana chiedono più quote, chiedono l’assegnazione per tempo. Perché “noi i tonni li sappiamo pescare”.

“Noi che peschiamo in nero”. Il tonno è un business. E detenerne le quote di pescato è come avere un assegno circolare: se non cali le reti, rivendi le tue tonnellate. E ti metti in tasca il grano senza neanche vedere l’acqua. Come ha fatto Castiglione, che quest’anno ha ceduto le sue di quote ai “palangari” di Marsala, i pescatori che catturano i tonni con l’antico sistema di lenze con ami sospese. Perché la guerra delle quote si combatte anche tra i pescherecci: in Sicilia la fetta grossa delle quote per la pesca al palangaro – il 23 per cento del totale – le detiene Marsala che di fatto ha la leadership italiana con una ventina di pescherecci autorizzati. Marsala, quando partirono le quote, ha potuto dimostrare la sua attività prendendosi quasi tutte le tonnellate.  Per tutti gli altri, che non fatturavano la pesca o non la fatturavano del tutto, la porta si è chiusa. Definitivamente. A Porticello, borgo marinaro in provincia di Palermo, il venerdì che è quasi sera ritornano i pescatori dopo una settimana in mare. Pietro Corona, 44 anni, pesca da quando ne ha sette. Da luglio ad aprile, a strascico. A maggio e a giugno va in cerca di alalunga, pesce spada, e anche tonno. Chi non ha le quote, può pescare i tonni solo una decina di giorni all’anno, quando il ministero dà il via libera alle quote accessorie. Tutti gli altri giorni, quando i banchi di tonni rossi passano sotto alle barche, pescarli non si può. E se finiscono all’amo “accidentalmente” vanno ributtati in mare. Ma chi lo fa? “Io i tonni li pesco perché devo far mangiare la mia famiglia”, dice Corona. È la storia più antica del mondo. Di tonno in vendita dovrebbe essercene poco. E per questo esistono le quote. Ma, tra maggio e giugno, tonno se ne trova ovunque, specie al Sud. Tonno non tracciabile, pescato illegalmente e potenzialmente molto pericoloso per la salute. “Ci costringono a lavorare male e di nascosto – continua Corona – con la paura di essere beccati”. Chi pesca senza autorizzazione rischia una multa di 3mila euro e, in caso di recidiva, il sequestro della barca fino a sei mesi. “Ma c’è chi nonostante tutto ci prova per portare a casa qualche soldo. Noi chiediamo solo di poter pescare i tonni che passano sotto alle nostre barche”, dice Gaetano Treviso, anche lui pescatore di lungo corso. “Non tutti rischiano la multa, ma ributtare in mare un tonno è un delitto”. A Porticello, una delle marinerie più grandi della Sicilia, i pescatori chiedono che l’assegnazione delle quote venga riaperta. “I tonni ci sono. Chi è rimasto fuori dalla prima assegnazione non ha più avuto una finestra per inserirsi”, dice Giuseppe D’Acquisto, che gestisce una coop che rappresenta una quarantina di pescatori. Le quote accessorie – la finestra temporale di poche settimane durante la quale il ministero garantisce la pesca libera fino al raggiungimento di un tetto – si esauriscono in appena sette giorni. “Il risultato è che c’è la corsa alla pesca e il prezzo del pesce si abbatte. Arriva fino a 4 euro a chilo, che non ripaga nemmeno la fatica di pescarlo”.

Il mercato illegale. C’è poi l’altro mercato, quello illegale. Che in Europa sposta 2500 tonnellate all’anno, per un giro d’affari di 13 milioni di euro. È un mercato in continua crescita. Come dimostra il campanello d’allarme che, invariabilmente, inizia a suonare ogni mese di giugno, quando scattano i primi sequestri di pesce fuori quota. È sempre la stessa storia. “Tonno senza alcuna certificazione di provenienza. Lo troviamo nei mercati, sui banchetti in strada di qualche ambulante, e anche in alcuni ristoranti”, racconta il maggiore dei carabinieri Giovanni Trifirò, comandante del Nas di Palermo. E non è solo storia di piccoli pescatori che provano ad arrangiarsi piazzando il loro piccolo tesoro. Il 21 giugno di due anni fa, la Guardia Civil spagnola ferma a Valencia un camion frigorifero proveniente dalla Sicilia. Trasporta tonno rosso. I militari del “Seprona”, il “Servicio de Protección de la Naturaleza”, si insospettiscono, perché l’autista ha con sé 100mila euro in contanti. Vengono fatti degli approfondimenti sulla documentazione che accompagna il pesce ed emergono subito delle lacune nelle attestazioni che riguardano la provenienza del tonno. Una cosa invece è certa: a gestire quel carico che ufficialmente proviene dalla Calabria è una società di import/export siciliana di un imprenditore catanese. Il tonno viene sequestrato e la svolta arriva qualche giorno dopo, quando i carabinieri del Nas comunicano che l’imprenditore che sta gestendo quel carico illegale è imparentato con un altro imprenditore che ha avuto guai con la giustizia: arrestato negli anni Novanta per associazione mafiosa, per poi essere assolto. È una traccia importante. Perché il mercato illegale del tonno ha una dimensione transnazionale, esattamente come il mercato legale. Guardia Civil e carabinieri del Nas formano un “Joint investigation team”, una “squadra investigativa comune”. A coordinare il lavoro degli investigatori, gli esperti di Europol, che hanno seguito le rotte clandestine del tonno. Il 22 ottobre del 2018 scatta l’operazione “Tarantelo”. La Guardia Civil arresta 76 persone in Spagna e sequestra oltre 80 tonnellate di tonno rosso pescato illegalmente. Scattano perquisizioni anche in Italia, Francia, Portogallo e Malta. Tassello dopo tassello, viene scoperto il canale attraverso cui si muove il mercato illegale del pesce al riparo di società legali: sull’asse Malta-Marsiglia, “avvalendosi del vettore su ruota”, scrivono gli investigatori. E i siciliani hanno un ruolo importante. L’indagine è tutt’altro che chiusa. Dietro a quel commercio illegale di tonno c’è una grande macchina specializzata nel riciclaggio di soldi e nell’evasione fiscale. Ogni società ha una storia, in una girandola di prestanome e altre società ancora. “La mattina dell’operazione, scattarono perquisizioni anche in 23 ditte italiane”, racconta il maggiore Trifirò. E fu sequestrata parecchia documentazione, per trovare il filo di transazioni e importazioni. “Tarantelo” ha fatto emergere i tanti trucchi attraverso cui il tonno illegale veniva gestito con la documentazione di società regolari. E c’è ancora tanto da scoprire sul mercato illegale del tonno rosso, anche se è sempre una corsa contro il tempo. “Gli affari attorno al tonno illegale sono collegati direttamente alle frodi alimentari – spiega il contrammiraglio Roberto Isidori, direttore marittimo della Sicilia Occidentale e comandante della Capitaneria di porto di Palermo – I principali rischi per la salute dei consumatori sono dovuti alle condizioni antigieniche in cui il pesce viene trasportato e immagazzinato”. A volte, i pesci vengono anche nascosti sott’acqua, in attesa di essere trasportati. Altre, vengono utilizzate delle gabbie dotate di segnalatori Gps. La posta in gioco è alta. “Esiste un’economia del tonno illegale – il contrammiraglio Isidori suggerisce che l’approccio migliore è quello di una visione d’insieme – Non bisogna certo criminalizzare talune marinerie, ma spesso ci troviamo di fronte a una vera e propria filiera di persone che operano nell’illegalità”. Il direttore marittimo della Sicilia Occidentale, che ha prestato servizio anche in Sardegna, offre una chiave di lettura: “Già nel passato c’era una quota di non dichiarato, così quando si sono stabilite le quote in base al pescato ufficiale i numeri sono stati più bassi della cifra reale”. E c’è un sommerso che continua a restare tale.

Un veleno chiamato istamina. Un’emergenza scoppiò all’improvviso nel maggio dell’anno scorso. Nel giro di pochi giorni, a Palermo, si registrarono 15 casi di intossicazione alimentare. Tre persone finirono in ospedale. “Cominciammo ad esaminare caso per caso – spiega il maggiore Trifirò – C’era da capire da dove arrivasse quel pesce avariato”. Alcuni raccontarono di averlo comprato al mercato di Ballarò. Altri, da venditori ambulanti della zona della stazione centrale. Altri ancora a Carini. Scattarono perquisizioni, sequestri, chiusure di attività. “Ma c’era un muro di omertà attorno a quella catena del tonno venduto illegalmente”. Si riuscì a ricostruire che alcune partite arrivavano da pescatori locali. Altre non è chiaro da dove. Perché, intanto, anche a Catania cominciarono a verificarsi dei casi di intossicazione, alcuni gravi. Le indagini del Nas portarono alla scoperta di un deposito all’ingrosso di tonno rosso del tutto illegale. Una novità rispetto agli altri sequestri, che riporta nuovamente alla necessità di avere una visione d’insieme: l’affare del tonno è sempre più un affare che attira gruppi organizzati. Quest’anno, magari, con numeri leggermente inferiori, per l’emergenza Covid. Anche se i sequestri di pesce illegale si sono ripetuti. Ma nessuno è finito in ospedale. Resta però il bilancio pesante dell’anno scorso in Sicilia: 400 casi di intossicazione. “Non bisogna abbassare la guardia – dice ancora il comandante del Nas di Palermo – il consumatore deve sempre ricordare l’importanza del mantenimento della catena del freddo nei prodotti ittici. Perché soprattutto nei periodi estivi le alte temperature facilitano i processi di degradazione, che producono quantità importanti di istamina, sostanza responsabile della cosiddetta “sindrome sgombroide”, intossicazione alimentare che può scatenare gravi reazioni allergiche giungendo in alcuni casi allo shock anafilattico“. I controlli si sono fatti sempre più accurati. Carabinieri e capitanerie di porto operano insieme ai tecnici dei servizi veterinari delle aziende sanitarie, gli esami degli istituti zooprofilattici sono poi un momento importante delle indagini. “Determinante è diventata ormai l’attività di intelligence – spiegano gli investigatori – perché a mare è diventato ormai sempre più difficile intercettare i pescatori che si dedicano a questo tipo di attività. Bisogna sorprenderli a terra, magari al momento in cui il tonno viene trasferito dall’imbarcazione ai furgoni”. Qualche giorno fa, a Termini Imerese, gli uomini della Capitaneria di porto hanno fatto un vero e proprio inseguimento per bloccare l’ennesimo carico di pesce illegale. “Talvolta, arrivano indicazioni anche dagli stessi pescatori per bene, che sono la maggioranza – dice il contrammiraglio Isidori – perché cresce sempre di più la consapevolezza di un impegno comune per la tutela del mare”.

Gli affari dei boss. Chi c’è davvero dietro il traffico illegale del tonno? Chi lo alimenta? Bisogna tornare all’indagine di Europol per provare a dare qualche risposta. La traccia della società catanese trovata dall’Europol riporta infatti a un’indagine fatta dai carabinieri del Reparto Operativo di Catania alla fine degli anni Novanta: una rete di società controllate dai clan Santapaola e Ludani comprava il tonno a quattro euro al chilo dai pescatori siciliani – un prezzo imposto dai boss – e lo rivendeva a 9 euro ai giapponesi, tramite una società di intermediazione internazionale di Sanremo. Un sistema che ha fatto guadagnare milioni di euro a Cosa nostra siciliana. Nella Sicilia orientale, i boss avevano il monopolio del mercato del tonno. I pescatori che si ribellavano al sistema, venivano pesantemente minacciati. Un vero e proprio racket, che fra il 1997 e il 1999 iniziava ad estendersi anche nella Sicilia occidentale, in Calabria e in Sardegna. Poi, l’operazione della direzione distrettuale antimafia di Catania, con arresti e sequestri, mise un argine al monopolio dei padrini. Ma solo per qualche tempo. Nel commercio del pesce gli imprenditori più rampanti dell’organizzazione hanno visto sempre una grande opportunità. Negli ultimi anni, il business è diventato addirittura una delle priorità di Cosa nostra siciliana. Le procure di Roma e Caltanissetta hanno scoperto che Salvatore Rinzivillo, originario di Gela trasferitosi nella Capitale, puntava al controllo del mercato del pesce in Sicilia e nel centro Italia. Un pranzo con i figli del boss palermitano Giuseppe Guttadauro (suo fratello Filippo è cognato del superlatitante Matteo Messina Denaro) battezzò il piano. Parliamo di aristocrazia mafiosa: negli anni Ottanta, Giuseppe Guttadauro era aiuto primario della Chirurgia dell’Ospedale Civico e capomafia del clan di Brancaccio; ora, i due figli (Filippo e Francesco, quest’ultimo già condannato per associazione mafiosa) gestiscono delle aziende in Marocco che si occupano di esportazione di pesce. I poliziotti della squadra mobile di Caltanissetta e i finanzieri del Gico di Roma intercettarono anche un altro pranzo importante, a Milano. I commensali parlavano di “documenti” per definire alcune pratiche societarie. E neanche si nascondevano poi tanto. “Tu devi pensare che a Gela hai una famiglia tu. E io ho una famiglia là. Fra noialtri non ci deve essere né mio né tuo”. Ecco la mafia che si riorganizza, al di là dei clan e trasformando il pesce del Mediterraneo in oro. E il tonno è la grande occasione che i padrini non vogliono lasciarsi sfuggire. All’inizio degli anni Novanta, erano i clan Trapanesi a immaginare grandi affari sull’asse Malta-Sicilia. Progettavano l’importazione di pesce “per miliardi di lire”, così almeno dicevano nelle intercettazioni. Una strana storia quella, mai del tutto chiarita. Che, per certo, portava ad alcuni colletti bianchi su cui aveva indagato il commissario Rino Germanà, che, il 14 settembre 1992, i boss più sanguinari di Cosa nostra provarono ad uccidere. Quel giorno, sul lungomare di Mazara del Vallo, c’erano Leoluca Bagarella, il cognato di Riina, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, quest’ultimo è ancora oggi ricercato. Erano i mesi della “mattanza”, così li chiamava il capo dei capi, Salvatore Riina, intercettato in carcere qualche anno fa. “Il giudice Falcone voleva vedere la mattanza a Favignana, ma la mattanza gliel’ho fatta io”, diceva al compagno dell’ora d’aria. Poi, il boss se la prendeva con il pm dell’inchiesta “Trattativa Stato-mafia”, Nino Di Matteo: “Gli faccio fare la fine del tonno, come a Falcone”. Riferimenti macabri. La cultura mafiosa, che si alimenta di sangue e affari, ha sempre provato a fagocitare la Sicilia, con i suoi simboli e la sua storia. Ma anche sul fronte del pesce tanti uomini si sono ribellati. L’ultima sfida, a Porticello, dove alcuni anni fa era sorto un vero e proprio mercato ittico illegale: un gruppo di pescatori ha denunciato e sono intervenuti i carabinieri.

Cosa mangiamo. Conviene fare un’ultima domanda. Cosa arriva sulle nostre tavole? Che tonno mangiamo? È prevalentemente tonno a pinna gialla pescato in mari lontanissimi. Il pregiato tonno rosso del Mediterraneo sui banchi delle pescherie si trova solo d’estate e una grossa quota è pescata illegalmente con rischi per la salute legati all’istamina. Tutto il resto? Tonno decongelato che arriva da lontano: Oceano Indiano, Oceano Pacifico, Oceano Atlantico. “Il 75 per cento del tonno che si compra nei punti vendita della grande distribuzione è tonno a pinna gialla che dal Mediterraneo non è mai passato. Vive in paesi come Sri Lanka, Cile, Costa D’Avorio”, dice Valentina Tepedino, medico veterinario specializzata nel settore ittico e direttrice dell’Eurofishmarket, un’azienda che si occupa di controllare la qualità del pesce. “Il guaio è che la maggior parte delle persone non sa che cosa sta mangiando”. Le etichette dovrebbero essere chiare e indicare non soltanto la specie di tonno (ne esistono dieci al mondo, due sole nel Mediterraneo) ma anche dove è stato pescato, mentre molto spesso si trovano solo informazioni generiche: “L’unica spiegazione è perché il prodotto non è tracciabile”, dice Valentina Tepedino. Ma la mancata tracciabilità non è l’unico rischio. Secondo l’esperta, da vent’anni in giro per i mercati, c’è in circolazione una grande percentuale di tonno con additivi: pesce trattato con monossido di carbonio o con nitrati e nitriti, per mantenere il colore inalterato anche dopo giorni. Il tonno vero, spiega Tepedino, non ha un colore brillante. “È più scuro – spiega – quando lo tagli diventa rosso mattone, quasi come fosse carne di bovino. E, invece, quello che si trova in commercio in alcuni casi tende addirittura al colore ciliegia. E, soprattutto, non cambia colore dopo il taglio”. Eurofishmarket ha lanciato una petizione per rendere obbligatoria la dichiarazione in etichetta sull’utilizzo dei coadiuvanti tecnologici ammessi, come l’acqua ossigenata, e per sensibilizzare la grande distribuzione, e le istituzioni, a un sistema di controlli più accurato che permetta di scovare gli additivi non autorizzati. “Le additivazioni con nitrati e nitriti e monossido di carbonio non sono consentite e quindi non vengono dichiarate, turbando fortemente il mercato – dice ancora Valentina Tepedino – I produttori onesti che non fanno trattamenti propongono un prodotto meno accattivante, più costoso e meno competitivo”. Un’ulteriore spiegazione: “Per i trattamenti con monossido di carbonio non c’è un rischio sanitario diretto per il consumatore. Ma se parliamo di nitrati e nitriti, la loro tossicità è dimostrata per il rischio di potenziale formazione di nitrosammine, sostanze che possono diventare cancerogene”. Le frodi riguardano anche la vendita di tonno decongelato venduto come fosse fresco. “Possiamo pagare a caro prezzo per un prodotto che non è quello che pensiamo di acquistare”. Dunque, che cosa stiamo mangiando quando nel nostro piatto c’è il tonno? Spesso è un tonno congelato e decongelato più volte, pescato in mari lontanissimi, che potrebbe essersi rifatto il trucco. E il tonno in scatola, che in Italia occupa una grossa fetta di mercato? Con Franco Andaloro, direttore della sede siciliana della stazione zoologica di Napoli, abbiamo fatto un esperimento su dieci scatolette di marche e prezzi diversi, trovate sugli scaffali di un supermercato siciliano. Il risultato è sorprendente: nessuna contiene tonno pescato nel Mediterraneo. “Per l’inscatolato una recente regolamentazione comunitaria toglie la necessità di specificare che tipo di tonno sia – dice Andaloro – Si può usare genericamente la dizione “tonno””. E infatti in molte scatolette, si legge solo “tonno“. In alcune “tonno pinne gialle”, “un tonno atlantico”, in altre “tonno obesus”, “un tonno del Pacifico”. Di tonno rosso e alalunga, gli unici presenti nel Mediterraneo, non c’è traccia.

Una minaccia all’ecosistema. Torniamo così alle distorsioni del sistema. L’aumento delle quote di pescato autorizzato ha creato un aumento di produzione che non trova più spazio nelle grandi gabbie di allevamento. “Circolano con insistenza voci di tonni in grandi reti che vengono trasportate per mesi e oltre i limiti consentiti dalle norme per il Mediterraneo – spiega il biologo marino Franco Andaloro, uno dei massimi esperti del settore – Tonni che dovrebbe essere invece liberati. La Commissione Europa sta accendendo i riflettori, perché qualcosa di strano sta avvenendo”. Il tonno pescato e non messo nelle gabbie, o messo di frodo nelle gabbie al di là del numero consentito, viene comunque ingrassato e venduto magari in giro per l’Europa a prezzi elevati: non ai Giapponesi, che continuano a pagare tanto e ad essere rigidi sui controlli.

Gabbie offshore. Quel che è certo è che il sistema delle gabbie e l’anomalo ingrassamento del tonno stanno scompaginando l’ecosistema del pesce azzurro. “Sì, perché per creare un chilo di massa grassa nel tonno occorrono tra i 20 e i 30 chili di pesce azzurro e calamari – spiega Simone Mirto, ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche, che ha studiato gli effetti sull’ambiente degli allevamenti di tonno – E’ vero che, in generale, l’impatto degli allevamenti sull’habitat marino circostante è limitato, perché le gabbie sono ad elevata profondità e lontane dai fondali, ma lo stesso non si può dire per il sistema di sostenibilità ambientale in genere: non ha alcun senso utilizzare migliaia di tonnellate di pesce azzurro per ingrassare di qualche chilo un gruppo di tonni”. Per una gabbia di tremila tonni servono quattromila tonnellate di pesce azzurro al giorno, che in Spagna e a Malta arriva dal Nord Europa o dalle coste dell’Africa, dove una pesca selvaggia e a basso costo sta portando all’estinzione di alcune specie e sta riducendo la pescosità del mare. Ecco dove può portare la guerra per l’oro rosso se non torneremo a sorvegliarla molto da vicino.

·        La mappa degli volatili in Italia.

Ecco la mappa degli volatili in Italia: in aumento falchi e picchi, calano allodole e cardellini. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it. Il primo fu realizzato a Firenze nel 1990, l’ultimo l’anno scorso a Pisa. Crescono gli atlanti ornitologici urbani, che in Italia raggiungono quota 61 e in Europa 122. Si tratta di un elenco completo e aggiornato delle mappe dove vivono e si riproducono gli uccelli in città ed è stato pubblicato dalla Lipu-BirdLife Italia in un volume dal titolo Urban bird atlases in Europe, che raccoglie gli atti della tavola rotonda realizzata a Napoli lo scorso 27 settembre nell’ambito del 20esimo Convegno italiano di ornitologia (Cio). Ma coma emerge da questa mappatura dei volatili che sempre più popolano le aree metropolitane? Al consolidamento di specie presenti da tempo nei centri storici (come piccioni, rondoni, merli e storni) si affiancano ora due tendenze: una positiva, che vede una netta espansione del colombaccio, l’altra negativa che riguarda i passeri (passera europea e passera d’Italia), le cui popolazioni, in media negli ultimi 10 anni, si sono dimezzate. Tra le specie in aumento troviamo falco pellegrino, gheppio, gabbiano reale, picchio verde, picchio rosso maggiore e codirosso comune. Tra le specie che invece soffrono di più i cambiamenti dell’habitat troviamo, nelle zone più periferiche ai confini tra città e campagne, l’allodola, il saltimpalo e il beccamoschino, mentre anche la rarefazione di verdone e cardellino ci svela un eccessivo consumo di suolo. Infine, la distruzione della vegetazione nelle zone umide e lungo i corsi d’acqua fa sì che usignoli di fiume e cannaiole siano sempre più rari. In particolare, le specie che nidificano negli habitat incolti (terreni con erbe spontanee, cespuglieti, siepi), sono molto utili per monitorare le dinamiche di trasformazione urbana e di consumo del suolo. A tal fine ne sono state identificate sette: l’usignolo, il saltimpalo, l’usignolo di fiume, il beccamoschino, il canapino comune, l’averla piccola e il cardellino. E proprio nell’Atlante realizzato a Pisa l’anno scorso queste specie sono diminuite del 35% negli ultimi 20 anni e del 41% nell’area urbana di Livorno, a conferma di habitat sempre più compromessi dal consumo di suolo ad uso urbano. L’Italia è il paese che in Europa, e nel mondo, ha realizzato il maggior numero di atlanti ornitologici urbani: 41 le aree coinvolte, tra cui Torino, Genova, Milano, Venezia, Pisa, Roma, Napoli e Cagliari, mentre Firenze è la prima città ad avere tre edizioni pubblicate, con una quarta in corso di realizzazione. La presenza di atlanti ornitologici è molto diffusa anche in Europa, con 15 Stati e 89 città coinvolte, da Barcellona a Parigi, da Vienna a Bruxelles, da Londra (suo il primo atlante europeo del 1977) a Praga, Berlino e Varsavia, da Amsterdam fino a Mosca.L’importanza degli atlanti ornitologici, per la compilazione dei quali servono tempi di studio che vanno da 1 o 2 anni fino a 10 anni, è stata sottolineata anche da Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), che dal 2018 li ha inseriti in maniera sistematica tra gli indicatori del Rau (Rapporto qualità dell’ambiente urbano). «Si tratta della panoramica più completa e aggiornata sulla presenza di avifauna nei centri urbani, realizzata anche grazie al contributo di ornitologi europei - spiega Marco Dinetti, responsabile Ecologia urbana della Lipu-BirdLife Italia - La metodologia di indagine dell’atlante ornitologico urbano si è rivelata uno strumento utile sia da un punto di vista scientifico perché gli uccelli, che fungono da indicatori, forniscono informazioni sulla qualità ambientale, sia per una corretta pianificazione urbanistica e una gestione sostenibile del verde urbano». «Un contributo fondamentale al lavoro degli atlanti - conclude Dinetti - è venuto dal gruppo di lavoro Avifauna urbana, attivo dal 1990, il cui scopo è la standardizzazione delle metodologie, il confronto e lo scambio di dati e informazioni. Un impegno costante e capillare che, grazie al coinvolgimento delle persone in un’ottica di “citizen science”, ha portato finora risultati rilevanti e una conoscenza approfondita delle dinamiche ornitologiche in rapporto anche ai cambiamenti di habitat in atto nelle aree urbane».

·        L’Ostrica.

Giorgio Dell’Arti per “la Repubblica” il 10 novembre 2020. «Ardito fu colui che per primo mangiò un' ostrica» (J. Swift, Polite conversation).

Uova. D' estate, se la temperatura dell' acqua è di almeno 20 gradi, un' ostrica può deporre da quindici a cento milioni di uova.

Larva. In tutta la vita un' ostrica nuota liberamente nei mari solo per due settimane, i primi quindici giorni della sua vita, ovvero quando è solo una larva.

Acqua. A due settimane di vita l' ostrica, se non è stata mangiata dai pesci, si aggrappa al primo oggetto duro e pulito che le capita a tiro. «E lì rimane, saldamente ancorata grazie al suo piede sinistro che, a quanto pare, è diventato una valva, come capita invariabilmente ai piedi di tutte le ostriche. Si dedica al bere, e ben presto sviluppa un' invidiabile capacità in materia, tanto che con il bel tempo, quando la temperatura si mantiene sui 25 gradi, può facilmente ingollare da venticinque a ventisei litri d' acqua all' ora».

Maschio. Per il suo primo anno di vita l' ostrica è un maschio. Feconda al meglio alcune centinaia di migliaia di uova. Poi un giorno arriva un forte desiderio di maternità e Lui diventa lei.

Femminilità. A sette anni circa un' ostrica è nel pieno rigoglio della sua femminilità.

Nemici. Le ostriche hanno otto nemici: l' uomo, che la protegge dagli altri solo per poi mangiarsela; la stella marina che la avvinghia con le sue lunghe braccia, le divarica a forza le valve, la penetra con il suo stomaco e la digerisce; l' Urosalpinea cinerea, una sorta di lumaca che crea minuscoli fori tondi nelle conchiglie; la cliona ( Cliona celata), una spugna marina che scava minuscole gallerie in tutta la conchiglia, finché l' ostrica, tentando di tappare i fori, diventa debole e smagrita e a quel punto la spugna la soffoca dall' esterno; e poi le sanguisughe, le ombrine nere e le cozze che le si appiccicano addosso, la Crepidula fornicata e persino le anatre, che atterrano sui banchi di ostriche per un tempo sufficientemente lungo e per un pasto disastrosamente abbondante.

Sigillato. «Chiuso, sigillato, solitario come un' ostrica» (C. Dickens, Canto di Natale).

Uomo. L' uomo si ciba di ostriche fin da quando era poco più evoluto di una scimmia.

Lapide. «C. Pearl Swallow morì avvelenato da un' ostrica» (Frase scolpita su una lapide nel cimitero Paris Hill del Maine. Pearl significa perla e swallow ingoiare).

Fosforo. Le ostriche forniscono vitamine ed energia. Prevengono la gotta, rinforzano i denti, mantengono dritte le gambe dei bambini, rendono la pelle degli adolescenti pulita e luminosa e contengono più fosforo di qualsiasi altro alimento.

Eloquenza. Cicerone mangiava ostriche in gran quantità per essere più eloquente.

Luigi XI. Luigi XI mangiava ostriche per ordine dei medici e obbligava i grandi uomini che lo affiancavano a inghiottire quotidianamente una certa quantità di quella ricca fonte di fosforo: «Luigi era giunto alla conclusione che i professori dovessero brillare per intelligenza perché rappresentavano lui, le roi terrible, e quindi bisognava che non lo deludessero. Quindi una volta all' anno, volenti o nolenti, per ordine del sovrano agli studiosi veniva servita una cena in cui i sapientoni erano obbligati a mangiare ostriche, e in quantità prodigiose. Quella dose massiccia, ragionava il re, sarebbe servita a renderli intelligentissimi e a mantenerli tali».

Trecento. «Prendete trecento ostriche pulite e buttatele in una pentola piena di buon burro» (incipit di un' antica ricetta).

Annuncio. «Cercasi cuoco, bianco, necessaria conoscenza ostriche. Presentarsi dopo le 13, Iliffe, 847 E. Allegheny» (annuncio sul Philadelphia Inquirer, marzo 1941).

Mussolini. «Un tizio, che di cognome fa Mussolini ma vive vicino a Biloxi, nel Mississippi, giura di aver curato sette vergini frigide nutrendole regolarmente con le lunghe ostriche brunastre, di sesso maschile, dei vicini bayous ». 

·        Le Vongole.

Gemma Gaetani per “la Verità” il 23 agosto 2020. Si fa presto a dire «vongola», ma quello della vongola è un vero e proprio universo. Vongola, infatti, è il nome di tutta una serie di molluschi bivalvi, circa 400, appartenenti alla amplissima famiglia dei veneridae. Quelle, però, che abitualmente finiscono nei nostri piatti e che, ancor prima, noi italiani troviamo in vendita quando dal pescivendolo o al banco del pesce fresco del supermercato cerchiamo le «vongole» (la parola deriva dal latino conchla, diminutivo di concha, cioè conchiglia) sono tre. Innanzitutto la Chamelea gallina o Venus gallina cioè la vongola comune: qualcuno la chiama lupino, ma il lupino è un altro genere cioè il Dosinia. La vongola comune è anche detta vongola gallina e, in alcune zone dell'Adriatico, «purassa», «poraccia», «puvraz», cioè «poveraccia» rispetto all'ostrica e alla cozza, ma anche rispetto alla seconda nostra vongola, la Venerupis decussata cioè la vongola verace. Abbiamo infine la giapponese naturalizzata italiana Venerupis philippinarum anche conosciuta come falsa vongola verace. Sono tutti e tre molluschi bivalvi, con la bella conchiglia robusta costituita da due valve uguali e dalla forma arrotondata, vivono raggruppati nei fondali sabbiosi a massimo 20 centimetri di profondità per proteggersi dai predatori, ma presentano delle importanti differenze che è utile conoscere. La vongola comune è quella più piccola e con le valve più chiare rispetto alla sorella verace, italiana fin dalle origini, e alla sorellastra verace importata dall'Asia, che sono più grandicelle e dalla conchiglia un po' più scura. La vongola comune perlopiù non viene allevata, ha un diametro che può arrivare al massimo fino a 4,5 cm, e in genere nel mar Adriatico a un anno di vita è larga tra i 12 e i 17 mm e supera i 20 al secondo o terzo anno. Rispetto a questa, la vongola verace autoctona ha conchiglia con più costolature, colore esterno bianco-grigio-giallastro con presenza di macchie e striature più scure e colore interno biancastro con eventuale macchia violacea. Può raggiungere una larghezza massima di circa 6 cm ma generalmente resta sui 3-4 cm. Si trova pescata e, assai più raramente, d'allevamento. La vongola filippina ha guscio di forma ovale e giunge fino a 8 cm di larghezza, rispetto alla verace nostrana ha forma più tonda e anche la sua colorazione è più vivace e variegata. Le vongole, come gli altri bivalvi, sono molluschi che filtrano l'acqua di mare in cui si trovano, nutrendosi delle sostanze che essa contiene tramite due appendici dette «sifoni». La vongola comune e quella verace autoctona hanno sifoni separati e perciò vengono anche chiamate «cornute». La falsa vongola verace, invece, ha i sifoni uniti, separati per qualche millimetro solo alla fine e per questo danno l'impressione di un unico, largo sifone. Che è anche più lungo: infatti i sifoni della comune sono molto corti rispetto a quelli assai più sviluppati di entrambe le veraci. La verace autoctona è l'unica vongola verace autoctona del Mediterraneo. La vongola comune e la verace nostrana sono raramente coltivate, come dicevamo, si raccolgono piuttosto su banchi naturali. Per aumentare la produzione interna ma anche esterna, cioè quella per l'esportazione, la disponibilità della comune e della verace selvatiche non sarebbero state sufficienti a coprire le richieste e, inoltre, la pesca intensiva a fini commerciali avrebbe rischiato di instradarle verso l'estinzione. Quindi, nel marzo 1983, gli operatori della pesca della Laguna di Venezia hanno importato il primo lotto di seme di verace filippina, 200.000 esemplari lunghi 3 mm poi seminati sui bassi fondali lagunari vicino a Chioggia. L'anno successivo sono stati importati un milione e mezzo di altri esemplari, estendendo l'impianto in altre zone dell'alto Adriatico. L'Italia è così diventata un campione europeo e mondiale di venericoltura: se al primo posto, come prevedibile, si trova la Cina con un milione e mezzo di tonnellate di vongole annue, al secondo posto mondiale e al primo europeo ci siamo noi, con le nostre 50.000 tonnellate. In Europa copriamo il 90% della produzione, il 6-8% è della Spagna e il restante 2% è francese. Il 70% della nostra produzione è assorbito dal mercato interno, il restante è esportato soprattutto verso il mercato europeo. Noi consumiamo soprattutto vongole fresche, il trasformato e il congelato che troviamo sui nostri banchi solitamente non è italiano. Sull'allevamento della giapponese, l'esperto di molluschi Francesco Paesanti, anche studioso delle veraci nella Sacca di Goro, in un'intervista ha spiegato i termini dell'alta produttività: «Occorre seminare animali già di taglia superiore a 15 mm in quanto altrimenti i predatori se li mangiano tutti. In genere sono necessarie due primavere per ottenere un prodotto idoneo al mercato europeo. Infatti si seminano animali dove in 1 kg ci sono mille vongoline e si raccolgono come prodotto adulto 70 vongole in 1 kg». Le vongole veraci false, quindi, sono sempre di allevamento, mentre quelle veraci autoctone, che possono costare anche il 70% in più delle prime, sono quasi sempre frutto di pesca selvatica. Il successo dell'allevamento della falsa vongola verace è stato decretato da vari fattori: si adatta bene a diverse salinità dell'acqua, ha un periodo riproduttivo che dura il doppio rispetto alla verace, resiste bene anche in un'acqua poco ossigenata e ha una crescita più rapida, perché raggiunge in due anni la misura che la verace autoctona raggiungere in tre. Se questo determina la possibilità di trovare vongole a buon mercato tutto l'anno, dall'altra parte comporta differenze anche di gusto, nella nostra triade, che è bene conoscere. Generalmente, le vongole comune e verace nostrana, non essendo allevate, sono più saporite. Non che la falsa verace non lo sia, anzi grazie all'allevamento noi troviamo sempre vongole in buona quantità e questo è positivo. Nella preferenza decisamente appassionata che molti hanno nei confronti della vongola non allevata verace nostrana forse riecheggia la primaria modalità di approvvigionamento delle vongole, cioè la raccolta manuale delle selvatiche, che spesso, le donne più che gli uomini, facevano attendendo la bassa marea. Spiega Cibo. La storia illustrata di ciò che mangiamo: «Nel XIX secolo, in Nord America le vongole iniziarono a diventare sempre più apprezzate. Sembrava che, contenendo poca sostanza commestibile, raccoglierle fosse un'impresa, eppure divennero parte della cucina locale della costa est degli Stati Uniti, con la clam chowder, e della sua cultura con la tradizione dei clambake. Altri piatti che hanno una lunga storia di raccolta locale sono gli spaghetti alle vongole in Italia, i curry del Kerala, in India meridionale, e le terrine e le zuppe giapponesi». Quando le vongole non erano allevate, anche In Italia la pesca era svolta al modo antico, con rudimentali attrezzi a mano, sorta di grandi rastrelli che oggi vengono ancora usati, per esempio, per raccogliere le telline, considerate le «cugine delle vongole». Dalla fine degli anni Sessanta si è diffuso l'uso delle «vongolare», particolari barche che setacciavano le vongole dai fondali sabbiosi tramite una gabbia di rete metallica manovrata manualmente con un'asta di legno, poi ancora, corda e verricello. Le odierne vongolare hanno draghe idrauliche turbosoffianti che penetrano nel primo strato di fondale sabbioso e prelevano i molluschi. La normativa vigente prevede che si possano pescare soltanto 400 kg di vongole al giorno per imbarcazione e che la taglia minima di pesca, la cosiddetta taglia commerciale, sia di 25 mm. A questo proposito l'Italia è stata protagonista di una querelle, insieme con la Spagna che, per ora, ci vede vincitori. È stata infatti prorogata a tutto il 2020 la deroga alla direttiva Ue del 2015 che stabiliva la taglia minima di pesca di 25 mm: nel caso delle vongole italiane Venus gallina dell'Adriatico, che non riescono a raggiungere i 25 mm, la tolleranza minima parte da 22 mm. La nostra vongola è così tutelata dalla concorrenza spagnola, molto battagliera contro la deroga: avendo vongole più grandi, diversamente da noi, la Spagna avrebbe volentieri colmato il buco rappresentato dalla mancata raccolta delle vongole italiane da 22 mm, ma per ora la manovra non è riuscita. Le vongole vanno acquistate sempre nei sacchetti interi, mai sfuse, con certificazione di provenienza e marchio Cee, e vive. Non devono mai essere consumate crude, anche se non bisogna cuocerle troppo a lungo altrimenti diventano gommose. Quando i gusci si aprono, col calore del fuoco, sono cotte: gettate via le vongole i cui gusci non si sono aperti dopo la cottura. Lavorare le vongole fresche può essere impegnativo, ma niente porta in tavola il profumo del mare come un piatto di italianissimi spaghetti alle vongole. E non è solo il profumo. i sapori del mareLe vongole ci portano anche alcuni nutrienti del mare, essendo un alimento proteico tipicamente marino, molto ricco di vitamine e sali minerali: 100 grammi hanno soltanto 74 calorie, a fronte di ben 11 grammi di proteine, 2.5 di carboidrati e 2.5 di grassi (67 mg di colesterolo). Non devono essere consumate troppo spesso se si hanno già problemi di ipercolesterolemia, di fegato o se bisogna controllare il sodio (le vongole non vanno salate, sono già sapide per conto proprio, contenendo 1.202 mg di sodio), ma per il resto via libera. Con 628 mg di potassio, 183 mg di fosforo, 28 mg di ferro, 92 mg di calcio, 18 mg di magnesio, 0,1 mg di vitamina B6, 16 g di vitamina A e tracce di vitamina C le vongole aiutano a mantenere la pressione sanguigna e il bilancio idrico nella norma, altresì regolando la ritmicità del cuore e l'eccitabilità neuromuscolare. Il fosforo, in particolar modo, aumenta la resistenza fisica e presenta un effetto tonico e corroborante nei confronti della fatica. Anche il potassio collabora in questo senso: coi suoi quasi 700 milligrammi, in sinergia con il magnesio, ripristina l'efficienza muscolare soprattutto durante gli stati di stanchezza o di perdita di sali minerali per via del caldo, come succede durante la stagione estiva. La vitamina A contrasta i radicali liberi e l'invecchiamento cellulare, anche di pelle, capelli e vista, e la vitamina C rafforza il sistema immunitario.

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Terremoto dei ricchi.

Giovanni Caprara per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. «Guardando le mappe, il sisma è avvenuto in una zona dove non ci si aspettava una forte accelerazione del terreno» spiega Lucia Luzi, direttore della sezione di Milano dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). L'epicentro, dalle prime valutazioni, è stato collocato tra Corsico e Pero, 6 chilometri a Ovest del capoluogo, mentre la profondità dove si è scatenato è stimata intorno ai 56 chilometri. «Sotto l'area milanese ci sono diverse faglie e quindi il territorio non fa eccezione rispetto al resto dell'Italia che è tutta a rischio sismico - prosegue la scienziata -. Tuttavia l'ultimo terremoto più significativo della zona si è registrato nel 1951 nel Lodigiano e aveva raggiunto la magnitudo di 5.4 della scala Richter. Nel Milanese storicamente si avvertono di più i risentimenti di altri sismi che avvengono più lontano, come quello del 2012 a Mirandola. Guardando ai secoli passati, un effetto analogo a quello di oggi lo si può cogliere nel 1473, con le incertezze del caso naturalmente». Per spiegare l'origine dell'evento attuale bisogna ricorrere in generale alla spinta esercitata dalla placca africana verso il Nord, contro la placca europea la quale, poi, è suddivisa in placche minori come quella adriatica che a loro volta esercitano pressioni in varie direzioni. «Di conseguenza, in questo contesto geologico, tutta la zona dal Piemonte al Friuli-Venezia Giulia - precisa Carlo Doglioni, presidente dell'Ingv - subisce una contrazione da Nord a Sud che può andare da meno di un millimetro all'anno nell'area lombarda a circa due millimetri verso la zona friulana». «Ma le strutture tettoniche sono variegate fra loro e anche quella del 1951 era differente rispetto all'attuale - continua Lucia Luzi -. Le faglie nell'area milanese sono perciò diverse e per ora la loro attività è stata contenuta come la storia dimostra. Certamente le zone più pericolose della penisola sono lungo l'Appennino; però non possiamo escludere nulla. La scossa nel Milanese, essendo generata direttamente nel nostro sottosuolo, si è avvertita più brevemente ma più intensamente mentre le altre di risentimento che arrivano per l'epicentro più lontano sono più lunghe nel tempo». Tra l'altro per il sisma del 1951 erano emerse polemiche perché alcuni ritenevano allora che la causa fosse legata alle estrazioni petrolifere effettuate dall'Eni. «Invece le verifiche condotte successivamente - precisa il presidente Doglioni - hanno dimostrato l'assenza di qualsiasi legame, la sua origine era molto più in profondità». Nell'area dell'Italia settentrionale, Lombardia inclusa, le valutazioni dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia hanno registrato nella storia del millennio passato 110 terremoti significativi, dal Piemonte al Friuli-Venezia Giulia, partendo da quello di Brescia del 1065. Il più distruttivo colpì Verona nel 1117 raggiungendo una magnitudo 6.7 della scala Richter. Nel 2004 l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ha elaborato la prima mappa di pericolosità sismica del territorio e da allora con strumenti sempre più diffusi e sofisticati viene aggiornata fornendo le indicazioni appropriate per le costruzioni antisismiche. A livello locale, poi, le regioni compiono un ulteriore lavoro di dettaglio con le mappe di microzonizzazione. Ma queste non sono ancora state realizzate in molte zone della penisola.

Terremoto a Milano, il geologo: "Come se le Alpi si stessero avvicinando agli Appennini". Tiziana De Giorgio su La Repubblica il 18 dicembre 2020. Alessandro Tibaldi, docente di Geologia strutturale all’università Bicocca: "Non c'è da allarmarsi, movimenti che rientrano nella normale attività sismica dell'area. Altre scosse? Non sono da escludere". "È una magnitudo importante, ma non possiamo dire che sia forte. Non c'è da allarmarsi". Alessandro Tibaldi insegna Geologia strutturale all'università Bicocca ed è un esperto di terremoti. Professore, l'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia lo definisce come il terremoto più forte, con epicentro nel Milanese, degli ultimi cinquecento anni. "Generalmente la magnitudo che colpisce il sottosuolo di Milano è inferiore. Questa è sicuramente più elevata ma non produce in ogni caso danni importanti. Certo rimane la paura, me ne rendo conto, specialmente per chi vive ai piani alti".

A cosa è dovuta una scossa come questa?

"La causa risiede nel classico sistema della tettonica a placche: la placca africana e quella europea si stanno avvicinando, la zona mediterranea è al confine tra le due e questo genera una compressione che produce movimenti sulle faglie tettoniche, che si trovano distribuite su tutto il territorio italiano. Alcune hanno movimenti più importanti, altri più limitati e liberano meno energia".

È quello che succede nella zona di Milano, considerata a basso rischio?

"Esattamente. Nel sottosuolo della Pianura padana, sepolte sotto la coltre di depositi di varie alluvioni, ci sono alcune di queste faglie che permettono dei movimenti di avvicinamento tra la zona a Nord della Pianura e quella a Sud: è come se Alpi e Appennino si stessero avvicinando lentamente".

Vada avanti.

"Questo movimento avviene a scatti, lungo le superfici delle faglie. Ed ecco che a ogni scatto corrisponde a un terremoto. Ma l'avvicinamento è più importante nella zona a Est della Pianura ed è in quest'area che si hanno i terremoti più forti. Si spiegano così la zone con una sismicità importante del Veneto, Friuli o la zona meridionale dell'Emilia Romagna".

E sotto i piedi del capoluogo lombardo invece?

"Il movimento delle faglie è molto più limitato, quindi i terremoti sono più piccoli e liberano meno energia. E il fatto che ce ne siano tanti a bassa sismicità è positivo".

Perché?

"L'energia non si accumula, come invece è successo in passato nei terremoti in Veneto e in Friuli, dove si è liberata all'improvviso, provocando danni enormi".

Spesso però si sono avvertiti terremoti che non avevano l'epicentro qui. Quali sono le zone sismiche vicine più a rischio?

"La zona di Parma, la fascia ai piedi dell'Appennino, mentre nella fascia a Nord, iniziando da Brescia ci si sposta verso Salò, il lago di Garda, Verona e poi andando ancora più a Est fino al Friuli, alla fascia pedemontana, la più pericolosa del Nord. È come se, procedendo verso oriente, aumentasse gradualmente la presenza sismica. Ma se a Milano le scosse si possono sentire, qui non producono danni".

La gente, però, si preoccupa. In un anno terribile come questo poi... con l'epicentro pure vicino.

"Lo capisco. Ma non ci sono ragioni per allarmarsi, perché rientra nella normale attività sismica di quest'area".

Dobbiamo aspettarci altre scosse dopo questa?

"Nessuno lo può escludere, i terremoti non si possono prevedere".

·        Assicurazione obbligatoria contro le calamità naturali.

Assicurazione obbligatoria contro le calamità naturali: una legge la prevede ma è ferma da un anno. Pubblicato martedì, 08 settembre 2020 da La Repubblica.it. Come ogni anno la storia si ripete: l'estate volge al termine, il maltempo ricomincia ad abbattersi sul Paese, si fa la conta dei danni e c'è chi rimpiange di non aver stipulato per tempo un'assicurazione. Quale? Quella contro i cosiddetti "danni catastrofali", che ripaga i danni subiti dalle abitazioni durante alluvioni, terremoti, frane, esondazioni. Fenomeni tutt'altro che sporadici in un territorio a rischio sismico e idrogeologico come quello italiano. Secondo lo studio pubblicato da Ivass nel luglio 2019 "Calamità naturali e coperture assicurative: valutazione dei rischi e policy options per il caso italiano", i terremoti dal 1950 a oggi hanno causato cinquemila vittime mentre le alluvioni 1.200 tra morti e dispersi. I danni per il patrimonio abitativo italiano sono immensi: 108 miliardi di euro per i terremoti tra il 1967 e il 2017. Tutti erogati dallo Stato, quindi dai contribuenti, e sempre con anni di ritardo. Anche per questo l'associazione Konsumer Italia è tornata sul tema proprio in questi giorni. L'obiettivo è far approvare la proposta di legge avanzata dalla deputata Michela Rostan, depositata a fine giugno 2019 ma impantanata nella commissione Finanze della Camera da novembre, dove non è stata mai neanche discussa. Il testo prevede un'assicurazione per danni catastrofali obbligatoria per tutti i proprietari di un immobile, con premio interamente detraibile in dichiarazione dei redditi. "È un tema sociale - spiega il presidente dell'associazione Fabrizio Premuti - perché non è giusto che chi non è proprietario di immobili debba pagare, attraverso le tasse, la ricostruzione delle case degli altri. Chi ha un patrimonio immobiliare è giusto che se lo garantisca". Una assicurazione di questo tipo, però, non è facile da far accettare a tutti proprio perché non tutti vivono in aree a rischio. "È il principio della mutualità: pensate a chi abita vicino ai Campi Flegrei, un'assicurazione avrebbe costi enormi. Ma se tutti stipulano una polizza, il sistema si regge: pagare tutti per pagare meno". Ma quanto costerebbe una polizza per danni da terremoti e alluvioni? Lo studio di Ivass ha fatto una proiezione: il premio annuo medio arriverebbe massimo a 130 euro. Ma per case costruite con criteri moderni, quindi più resistenti, il premio si abbasserebbe del 30%. Proteggere tutte le case italiane dal solo danno alluvionale costerebbe 8 euro per abitazione, che salirebbero a 20 per quelle in aree più esposte. Anche nella passata legislatura era stata depositata una proposta di legge simile, mai arrivata a dama. Quella attuale prevede alcuni correttivi che l'hanno resa più appetibile per le compagnie assicurative. Ad esempio: non sono assicurabili gli immobili abusivi o con abusi edilizi sopravvenuti (se non condonati) e il fondo di garanzia statale da 200 milioni - poi alimentato dalle stesse compagnie - che si fa carico di tutte le spese di perizia per calcolare i danni. Il fondo garantirebbe anche i cittadini nel caso di assicurazioni inadempienti o che nel frattempo sono fallite. L'altro grande vantaggio dell'assicurazione obbligatoria, spiega ancora Premuti, è che non dovendosi sobbarcare le spese di riparazione e ricostruzione, dopo una catastrofe naturale "lo Stato avrebbe le risorse per rimettere in sesto le infrastrutture, tutto ciò che è pubblico e in tempi più brevi. Ricordo infatti che nel centro Italia, le persone che tutt'ora ricevono un contributo per l'alloggio sono cinquantamila. E sono passati quattro anni".

·        Terremoto e ricostruzione. 

L'Irpinia 40 anni dopo: un terremoto anche politico. Concetto Vecchio su La Repubblica il 5 novembre 2020. Un libro di Toni Ricciardi, Generoso Picone e Luigi Fiorentino ricostruisce la più grande catastrofe dell'Italia repubblicana: il sisma che sconvolse il Mezzogiorno nel novembre 1980 fece esplodere la questione settentrionale favorendo l'affermarsi della Lega. Sant'Angelo dei Lombardi, mattina del 25 novembre 1980. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini è rannicchiato in un'auto nera, le mascelle serrate, gli occhi fissano il vuoto. Giovannino Russo e Corrado Stajano, inviati sui luoghi del disastro, chiedono a un alto funzionario del Quirinale: "Che dice il presidente?". E lui: "E' sconvolto. Siamo senza parole". Sono passati quarant'anni dal terremoto in Irpinia, e ogni italiano che era nell'età della ragione serba nel cuore la sua immagine: le dirette televisive, il vecchio presidente con la pipa che tuona contro i ritardi e fa rimuovere il prefetto, paesi come presepi sepolti sotto cumuli di rovine imbiancate dalla neve, donne con gli scialli in fila per i pasti, un'Italia antica e lontana che ci muove a compassione.

Il terremoto ha ferito a morte il Mezzogiorno. Il 23 novembre è una domenica. Rai Due sta trasmettendo il secondo tempo della partita del giorno della serie A in differita, alle 19,34 un boato squarcia la quiete, la terra trema, e sono novanta secondi che sembrano non finire mai. Decimo grado della scala Mercalli. L'istituto di sismologia di Belgrado calcola che si è liberata una quantità di energia pari allo scoppio di 35milioni di tonnellate di esplosivo. Il sisma sconvolge tre regioni: Campania, Puglia e Basilicata, un'area di sei milioni di abitanti. I morti sono 3934. I feriti novemila. I senzatetto trecentomila. A Sant'Angelo dei Lombardi, un paese di 5170 abitanti, muoiono in 482. Il terremoto ha ucciso il sindaco e molti consiglieri comunali. L'ospedale, inaugurato nel novembre del 1979, e un intero condominio di cinque piani si sono sbriciolati come una pasta di mandorla rinsecchita. Hanno retto le case contadine e sono implose le palazzine e i villini della speculazione edilizia. In occasione del quarantennale esce ora Il terremoto dell'Irpinia. Cronaca, storia e memoria dell'evento più catastrofico dell'Italia repubblicana (Donzelli). L'hanno scritto Toni Ricciardi, storico delle migrazioni, Generoso Picone, firma del Mattino, e Luigi Fiorentino, attuale capo di gabinetto del ministro della Pubblica istruzione. Sono tutti avellinesi, e hanno memoria diretta della tragedia, e di quel che ne seguì. Una minuziosa ricostruzione dei fatti. Come spesso accade nelle disgrazie italiane la vicenda del terremoto assumerà col tempo una doppia faccia. All'inizio, di fronte a tutto quel dolore, solleva un'ondata di solidarietà sincera e generosa. Accorrono in Irpinia in tanti per dare una mano. Molti sono giovani volontari dal Nord solidale, ma arrivano anche Giovanni Paolo II e Lech Walesa, Claudio Abbado e Nanni Moretti. Alberto Moravia scrive un lungo reportage per l'Espresso. Il Mattino ospita le riflessioni puntute di Leonardo Sciascia, che smonta la retorica dei paesi presepe. E' un anno terribile, il 1980. La tragedia piomba sul Paese alla fine di una lunga sequela di lutti e di stragi. L'Italia è per molti versi ancora un Paese arretrato e provinciale, e il terremoto svela una periferia contadina svuotata dall'emigrazione in Svizzera. In tutta la provincia di Avellino uno su due vota dc, a Sant'Angelo dei Lombardi, questa percentuale arriva al 70 per cento. Ma gli incredibili ritardi nei soccorsi provocano la collera popolare e aprono una crepa. La Democrazia cristiana, il partito Stato, finisce sul banco degli imputati. La gente implora aiuto a Pertini e il Presidente tuona sulle macerie. All'indomani, il 26 novembre, Il Mattino farà un titolo che è nella storia del nostro giornalismo: "Fate presto". "Non abbiamo santi in paradiso" piangono le donne vestite di nero di Laviano davanti a Miriam Mafai, la grande inviata di Repubblica. Gli italiani imparano a conoscere nomi di paesi fin lì sconosciuti, come Lioni, dove conteranno mille morti "e non sappiamo nemmeno dove metterli". Scriverà Geno Pampaloni, il 25 novembre sulla Nazione: "Il terremoto si è abbattuto su un lembo dell'Italia più nobile e più derelitta. E' una vecchia cara Italia, tanto poi più cara, quanto più abbandonata dalla fortuna: lusingata da mille parole, circuita da mille retoriche, ingannata da mille promesse, e ancora una volta chiamata alla prova della sventura". E' l'Italia della malora e maledice il suo destino. Russo e Stajano pubblicano un libro, nella collana saggi dell'editore Garzanti, quella con la copertina color cammello. Esce come istant book nel febbraio 1981, con le foto di Giovanna Borgese: Terremoto. Colpisce il sottotitolo: Le due Italie sulle macerie del sud: volontari e vittime, camorristi e disoccupati, notabili e razzisti, borghesi e contadini, emigranti e senzatetto. Raccontano questa scena nell'appendice del libro, dove hanno raccolto gli appunti presi sotto la pioggia e la neve, "parole che sono chiazze d'inchiostro diluito": "Un uomo di una quarantina d'anni guarda nel vuoto, davanti alla sua casa lesionata, all'ingresso di Sant'Angelo dei Lombardi. C'è una confusione enorme, un ingorgo di macchine di privati, di ambulanze della Croce Rossa toscana, di autocarri, per l'unica strada che porta al paese distrutto. L'uomo non sembra accorgersi di quanto accade a pochi passi da lui. Dice: "Ho perso mio figlio di sedici anni nel crollo della chiesa. Ma qui ci sono almeno mille persone sotto le macerie. Qualcuna sarà ancora viva". "Solo due ore fa sono arrivate due pale meccaniche " ci informa un finanziere che sta estraendo un cadavere dal carcere crollato. "Fino alle 10 di stamattina non c'era niente di utile per aiutarci a scavare". Scriverà a caldo il direttore di Repubblica Eugenio Scalfari: "Adesso è il momento della solidarietà nazionale, ma passerà presto". Ricciardi, Picone e Fiorentino fanno soprattutto un bilancio di quel che accade dopo, quando il terremoto si tramuta in Irpiniagate. Una legge votata dal Parlamento, il 15 maggio 1981, la 219, ampliò a dismisura il perimetro del cratere permettendo di accedere ai fondi fino ai paesi del Lazio e della Puglia, e quindi fuori dalle tre province più colpite, Avellino, Salerno e Potenza. In totale vennero distribuiti così ai 542 Comuni 14.000 miliardi più 60.000 miliardi per sostegni all'industrializzazione. Un'altra legge, la De Vito, permise di accedere ai contributi per farsi la casa anche a chi viveva con i genitori. I modi disinvolti, spesso clientelari, di questa distribuzione di denaro pubblico, figlia di quell'Italia selvaggia, crearono una riprovazione emotiva nelle zone più produttive del Paese e furono all'origine del sorgere delle Leghe: quella lombarda di Umberto Bossi, e quella veneta, di Franco Rocchetta. Il Senatur prese a cannoneggiare contro "l'affare sporco" dell'Irpinia. Passata l'emozione per i morti e i lutti la ricostruzione aveva finito così, nel breve volgere di qualche anno, per rinfocolare l'eterno antimeridionalismo, trasformando per la prima volta la questione settentrionale in un'offerta politica concreta. La questione meridionale cominciò lentamente a uscire dall'agenda politica, anche sull'onda di una violenta campagna di stampa del Giornale di Indro Montanelli. E a nulla valse il fatto che - per colmo di contraddizione - a beneficiare della ricostruzione erano quasi tutte aziende e imprese del Nord. La tesi problematica del libro, è che al netto degli sprechi - i costi per le infrastrutture lievitarono di 27 volte - e delle ruberie, la ricostruzione portò a un cambiamento profondo, innescando una modernizzazione in una terra che fin lì aveva conosciuto soltanto l'emigrazione. Il doposisma, insomma, finì per rappresentare "un processo di accelerazione della storia". A cominciare dalla nascita della Protezione civile, che venne affidata a un galantuomo democristiano come Giuseppe Zamberletti. Scrive Ricciardi, che si dilunga in un'analisi fattuale sull'Irpinia di oggi: "Lo spreco ci fu, il clientelismo pure, come il malaffare e l'ingerenza della camorra, ma se colpa ci fu, questa fu ascrivibile all'Italia del tempo, alla sua classe dirigente". Picone fa notare che non fu indifferente alla furia contro "l'economia della catastrofe" il fatto che la classe dirigente irpina si era fatta nel tempo classe dirigente nazionale. Nel 1988 il suo figlio più talentuoso, Ciriaco De Mita, era diventato addirittura premier. Capo del governo e segretario Dc. Insomma, era il re d'Italia. E l'Irpinia veniva identificata con De Mita e "i magnifici sette": Agnes, Aurigemma, Bianco, De Vito, Gargani, Mancini. Tutti potenti e riveriti a Roma. La battaglia contro gli sprechi era una lotta contro i notabili di Avellino. Un campo dove, com'era tipico in quegli anni, nobiltà e opacità si mescolavano di continuo. L'assessore regionale Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br, nel 1981 era stato liberato grazie a una colletta che la Dc impose agli industriali impegnati nei lavori della ricostruzione. Il 7 aprile 1989, al culmine delle polemiche, venne varata una Commissione d'inchiesta sul terremoto, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro. Il 3 dicembre 1988 l'Unità, diretta da Massimo D'Alema, aveva fatto questo titolo in prima pagina: "De Mita si è arricchito col terremoto". De Mita querelò. Ma D'Alema in tribunale spiegò che il punto di domanda del titolo si era perso in tipografia. Fu creduto. Anche De Mita uscì indenne dalle inchieste. Anni dopo D'Alema regalò quella prima pagina al vecchio nemico. Che l'ha poi appesa al muro del suo salotto a Nusco. Ed è la morale di questo controverso capitolo italiano a cui oggi è giusto guardare con gli occhi asciutti degli storici.

Massimo Malpica per “il Giornale” il 23 agosto 2020. A quattro anni dal sisma del centro Italia che distrusse Amatrice, Accumoli e Arquata, squassando città e paesi anche con le scosse dell'autunno successivo, e uccidendo 300 persone, la ricostruzione procede a stento. Deve ammetterlo anche il commissario alla ricostruzione, Giovanni Legnini, in un rapporto sullo stato dell'arte post-terremoto decisamente poco lusinghiero. Tanto che l'ex sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, ammonisce le istituzioni: «Chi verrà ad Amatrice il 24 (domani, anniversario del terremoto) chieda scusa, e si adoperi per la ricostruzione». Che, come detto, se non è ferma certamente zoppica, sia sul fronte degli edifici privati che (ancora peggio) per le strutture pubbliche. Le cifre sono impietose. Il boato di quella notte ha reso inagibili 80mila edifici, 50mila dei quali danneggiati in modo grave. Al 30 giugno erano state presentate quasi 14mila richieste di contributo per la ricostruzione, ma quelle accolte sono solo 5.325. E per 678 domande respinte il grosso quasi 8000 richieste è ancora «in fase di lavorazione», con tempi di istruttoria che, secondo le vecchie regole, dovrebbero durare circa un anno. Ma di anni, appunto, ne sono passati già quattro. Gli interventi di ricostruzione già realizzati sono solo 2.544, la metà dei contributi erogati. Gli altri sono ancora in fase di cantiere, 2.758. Ma va anche peggio sul fronte pubblico, con un divario che mostra come la mano dello Stato non abbia lavorato alacremente. Su 1.405 opere già finanziate per il ripristino, si è passati all'azione per poco più del 10% di queste, con 86 costruzioni terminate e 85 cantieri ancora aperti. Nel dettaglio, su 250 scuole che avrebbero dovuto essere ricostruite, ne sono state completate solo 17, meno del 7%, e i cantieri aperti sono solo sei. Per 75 scuole non si è proprio avviato alcun intervento, mentre 88 progetti sono ancora in fase preliminare di gara, e i lavori attendono di essere affidati. È andata meglio alle chiese, (ricostruite 100 su 940 finanziate, mentre 45 edifici religiosi sono ancora cantieri aperti), ma solo un cimitero dei 76 da rimettere in piedi è stato ripristinato, e su nove ospedali da ricostruire, cinque sono al palo, tre in fase di progettazione e uno soltanto ha visto aprire i cantieri. E ancora, solo due interventi sui 48 previsti per restaurare mura, torri e palazzi di interesse storico sono partiti, mentre su 126 municipi danneggiati, non ne è stato ricostruito nessuno, e solo per due sono stati avviati i lavori. Praticamente tutto fermo anche il fronte dell'edilizia residenziale pubblica, con 311 interventi programmati e appena sette conclusi. E su 2,1 miliardi di euro di fondi stanziati, i quattrini erogati sono stati solo 200 milioni, meno del 10 per cento. Il quadro, insomma, è desolante. E infatti Legnini, presentando il rapporto, spiega di voler «incrementare» i lavori «in misura sempre maggiore nei prossimi sei mesi e di vedere aperti almeno 5mila cantieri privati e pubblici per la prossima primavera, con un ritmo crescente nei mesi e negli anni successivi». Auspici basati sulla speranza che l'ordinanza 100, che prevede procedure di semplificazione, e il decreto legge 76 di luglio che contiene strumenti per accelerare i lavori facciano quello che la mano pubblica in questi 1.500 giorni non è riuscita a fare. Un auspicio condiviso anche dal consiglio nazionale degli architetti, che commentando il rapporto di Legnini si augura «una svolta radicale nell'approccio alla ricostruzione».

Terremoto in Centro Italia: i fondi ci sono, ma nessuno li spende. Le Iene News il 20 gennaio 2020. Dal 24 agosto al 30 ottobre 2016 tre potentissime ondate sismiche devastano alcune zone del Centro Italia, tra cui Amatrice, uccidendo oltre 300 persone. A tre anni e mezzo dal terremoto dei 2 miliardi di euro di incentivi per la ricostruzione ne sono stati erogati appena 14 milioni. Un fallimento che già serpeggiava tra gli sfollati, incontrati da Giulio Golia a un mese dal sisma di Amatrice. Il 24 agosto 2016, alle ore 3:36 della notte, una scossa di magnitudo 6.0 colpisce il Centro Italia, con epicentro tra i comuni di Accumoli e di Arquata del Tronto. Tra il 26 e il 30 ottobre di quell’anno alcune potenti repliche investono l’area del confine umbro-marchigiano e poi la zona della provincia di Perugia, tra Norcia e Preci. In tutti i morti sono stati trecento, quasi 41.000 gli sfollati. La macchina dei soccorsi si mette in moto immediatamente. A distanza di quasi 4 anni il Corriere della Sera però traccia una fotografia impietosa della realtà: l’Unione europea ha stanziato 2 miliardi di euro per incentivi per la ricostruzione, ma a un anno dal sisma di quei soldi erano stati erogati appena 14.6 milioni di euro! Uno scandalo, se si pensa poi che nello stesso periodo sono stati erogati ben 8 miliardi di euro di detrazioni per lavori di ristrutturazione, ma che non riguardano le zone terremotate del Centro Italia. È il flop della misura del “sisma bonus”, che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto aiutare un paese a fortissimo rischio sismico e con un patrimonio edilizio per la gran parte non a norma. Il risultato? La detrazione fiscale per interventi edilizi antisismici è stata per sua natura più abbordabile per chi aveva redditi alti, e tra l’altro questa misura non ha avuto neanche la dovuta pubblicità.  Un ultimo dato scoraggiante, raccontato ancora dal Corriere della Sera: la Cassa Depositi e Prestiti ha stanziato per le emergenze terremoto in Italia ben 13 miliardi di euro, ma a 3 anni da quel sisma  meno di un miliardo sé stato effettivamente speso. Con Giulio Golia, nel servizio che vi riproponiamo qui sopra, avevamo camminato sulle macerie del terremoto nel Centro Italia, parlando con i terremotati a un mese dalla tragedia. “Se siamo ancora vivi lo dobbiamo al cuore degli Italiani che non ci hanno mai abbandonato. Sulla mancanza dello Stato sarà la Storia e la coscienza di ognuno a condannare chi non ha fatto e poteva fare!”, aveva scritto su Facebook Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice ai tempi del terremoto. Per le strade di quei borghi squartati dal sisma sono comparsi alcuni striscioni. “Il tempo passa, la ricostruzione è ferma e il paese muore”, si legge su uno di questi. Su altro invece il messaggio è lapidario: “2016-2019 terremotati dimenticati”. Abbiamo accompagnato a Preta, a 4 chilometri da Amatrice, Bruno, 74enne che si è salvato dal terremoto scappando in auto a Roma. “Non so cosa troveremo là”, ci ha detto l’uomo, che non era ancora tornato a vedere la sua casa e il suo paese. “A colpo d’occhio credo di aver perso un centinaio di amici”. Con lui e la sua famiglia, siamo andati anche ad Amatrice, il cui corso centrale era ormai un cumulo di macerie, con l’orologio del campanile rimasto fermo a quelle fatidiche 3.36, quando la scossa ha devastato la zonaTerremoto e ricostruzione. Spesi 15 milioni su 2 miliardi: il flop del piano. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Mario Sensini. Corsa alle detrazioni, ma nessuno usa il bonus ricostruzione. Nel 2017 lo Stato ha speso 5 miliardi per riparare i danni provocati dai terremoti . Inutilizzata la flessibilità di bilancio ottenuta nel 2016 per finanziare la messa in sicurezza del patrimonio edilizio. Ed è stato poi con queste spese che il governo ha spiegato alla Ue, a posteriori, come è stata utilizzata la flessibilità di bilancio del 2017. Mettendo sotto la voce terremoto le piastrelle, i doppi vetri, le caldaie e i parquet. Eppure, il sismabonus ed il nuovo piano di prevenzione sismica erano stati presentati come un’esigenza ormai ineludibile per un Paese colpito da terremoti fortissimi e un patrimonio edilizio vecchio e di pessima qualità. «Data la frequenza dei terremoti distruttivi e le sofferenze che hanno causato alla popolazione italiana, il governo intende mettere in atto un piano per affrontare il rischio sismico in modo più energico e rapido di quanto non sia stato fatto in passato» scriveva il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan alla Commissione Ue il 27 ottobre del 2017, un giorno dopo il terremoto di Visso, e due giorni prima di quello devastante di Norcia. «Abbiamo deciso di riservare una quota importante dei nuovi investimenti pubblici alla messa in sicurezza delle scuole e degli edifici pubblici. Inoltre saranno incrementati gli incentivi fiscali per le ristrutturazioni sismiche degli edifici privati, con un costo di bilancio stimato nel 2017 di 2 miliardi di euro» scriveva Padoan.Quel piano non è mai effettivamente decollato. Vuoi perché la detrazione del sismabonus (che può arrivare a 80 mila euro per unità immobiliare) si sconta in cinque anni, e non in dieci come le altre, e così diventa accessibile solo ai “ricchi”, quelli che pagano almeno 10-15 mila euro di tasse l’anno ed hanno il margine per scontare la detrazione. Vuoi perché, come dicono i costruttori edili, l’Agenzia delle Entrate, limitando ad esempio in modo ferreo e tardivo la possibilità di cedere la detrazione, quel credito fiscale, alle imprese che realizzano i lavori, ha fatto di tutto per scoraggiarne l’utilizzo. In ogni caso nessuno, nel governo, lo ha mai effettivamente promosso. L’unica pubblicità al sismabonus l’hanno fatta le imprese, i professionisti interessati, e i volontari di protezione civile. Le cose pare siano andate appena un po’ meglio nel 2018, ma gli interventi agevolati dalla detrazione sono stati comunque pochissimi. Nonostante il sismabonus sia applicabile praticamente in tutta Italia (zone sismiche 1, 2 e 3), e sia stato esteso alla demolizione e alla ricostruzione degli edifici. Un meccanismo che consentiva alle imprese di acquistare vecchi immobili, ristrutturarli sismicamente, e rivendere gli appartamenti con uno sconto di 70/80 mila euro sul prezzo di mercato. Che cominciava a funzionare, ma che ora, avvicinandosi la scadenza del regime a fine 2021, non interessa più le imprese. Nonostante mille morti e tre terremoti distruttivi solo negli ultimi dieci anni, in Italia una strategia per la prevenzione del rischio sismico ancora non esiste. Considerato il sismabonus e la detrazione fiscale del 19% sul costo dell’assicurazione contro le calamità naturali (introdotta nel 2019), lo Stato investe per la prevenzione attiva meno di 20 milioni di euro l’anno. Dal 2009 ad oggi, però, lo Stato ha speso in media 5 miliardi di euro l’anno per riparare i danni causati ai privati dalle calamità naturali. Cioè una somma superiore di duecentocinquanta volte a quella investita nella prevenzione dei rischi.

·        Catastrofi naturali: conseguenze inescusabili.

Fabrizio Colarieti per l'ANSA il 9 settembre 2020. Non fu solo colpa del terremoto, ma anche dell'uomo. E' la conclusione a cui è giunto il giudice monocratico del Tribunale di Rieti, Carlo Sabatini, chiudendo, con 5 condanne per complessivi 36 anni di carcere, il primo processo nato dalle inchieste sul sisma che la notte del 24 agosto 2016 rase al suolo Amatrice (Rieti). Per il Tribunale del capoluogo sabino, e per il pm Rocco Gustavo Maruotti, che sosteneva l'accusa in aula, a causare il crollo delle due palazzine gemelle di piazza Augusto Sagnotti (ex Iacp) fu l'incuria dell'uomo. Perché quelle case popolari, oltre ad essere abusive, erano anche costruite male. Talmente male che non avrebbero potuto sopportare un sisma, anche di magnitudo inferiore a quello che si registrò ad Amatrice. Una tomba per 18 dei 21 inquilini che quella notte non uscirono vivi da quei condomini, crollati a 'pancake', cioè un solaio sopra l'altro, come hanno sostenuto i periti dopo aver analizzato ciò che rimaneva di pilastri troppo sottili, armature esigue e calcestruzzo a bassa resistenza. Una responsabilità - tradotta nei reati di omicidio colposo plurimo, crollo colposo, disastro e lesioni - che il Tribunale, accogliendo la tesi della Procura, ha ritenuto di attribuire a tutti e 5 gli imputati con pene che vanno dai 5 ai 9 anni di reclusione: Ottaviano Boni (9 anni), all'epoca direttore tecnico dell'impresa costruttrice Sogeap; Luigi Serafini, amministratore unico della stessa impresa (8 anni); Franco Aleandri, allora presidente dell'Iacp (7 anni); Maurizio Scacchi, geometra della Regione Lazio-Genio Civile (5 anni); Corrado Tilesi, ex assessore del Comune di Amatrice (7 anni). Il Tribunale li ha, inoltre, condannati, insieme ai responsabili civili (Ater, Regione Lazio e il Comune Amatrice), al futuro risarcimento dei danni in favore delle parti civili, da stabile in sede civile, e al pagamento di provvisionali per ciascun familiare che vanno da circa 20mila euro a quasi 400mila. "Lo dissi già 4 anni fa, dopo i primi accertamenti, che quegli edifici di edilizia popolare sarebbero crollati con qualsiasi sisma si fosse verificato ad Amatrice, perché erano stati progettati e costruiti in violazione delle norme previste per le costruzioni in zona sismica e perché i funzionari pubblici che avrebbero dovuto vigilare sulla loro realizzazione non lo fecero" ha commentato all'ANSA il pm Maruotti, il lacrime al momento della lettura della sentenza. "Resta il rammarico - ha aggiunto il magistrato - per i 18 morti che si potevano e dovevano evitare. Ho ringraziato tutti i familiari delle vittime per la gratitudine dimostratami, ma a loro ho detto che ho fatto semplicemente il mio dovere nell'unico modo che conosco. Spero solo che questa sentenza serva a riconciliare i cittadini di Amatrice con quello Stato che 30 anni fa li ha traditi con condotte scellerate". Soddisfatto il legale dei familiari delle vittime, Wania Della Vigna: "È stata fatta giustizia per intere famiglie sterminate la notte del 24 agosto 2016. Quelle palazzine, costruite dallo Iacp tra 1973 e il 1977, crollarono come castelli di carte senza lasciare scampo a chi le abitava. Le vittime ignoravano che erano completamente abusive. Costruite con i soldi pubblici e in totale difformità al progetto iniziale, senza autorizzazione sismica del Genio civile e senza certificazione di abitabilità del Comune di Amatrice".

Paolo Mastri per “il Messaggero” il 30 ottobre 2020. Come tre terremoti. Nei due minuti scarsi della sua corsa dal fianco del Monte Siella, quota 2.027 sul versante orientale del Gran Sasso, all' Hotel Rigopiano, 800 metri più a valle, la valanga assassina del 18 gennaio 2017 ha smosso per tre volte i sismografi dei laboratori dell' Istituto di fisica nucleare, nelle viscere della grande montagna. È accaduto quando la massa di neve si è infilata in uno stretto canyon incontrato lungo il vallone, che l' ha indirizzata verso 29 vite innocenti, e poi in coincidenza con un paio di cambi di pendenza. Tutto ha concorso ad amplificare la potenza della massa di neve, giunta ad impattare l' edificio dell' albergo alla velocità di 28 metri al secondo, i circa cento chilometri orari che hanno determinato il collasso della struttura. Lo svela la ricerca di Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, Politecnico di Torino, Istituto svizzero Wsl e Università di Monaco, pubblicata sulla rivista Scientific Reports. Dati preziosi, con il terzo anniversario della tragedia ormai in vista e un processo che stenta a entrare nel vivo. Proprio oggi, tra eccezionali misure antivirus per i 250 partecipanti, riprende al tribunale di Pescara l' udienza preliminare contro i 30 imputati dei due filoni principali. Numeri e valutazioni scientifiche fatalmente destinati a punteggiare la ricostruzione dei fatti. A partire dagli orari. La valanga, secondo il pool di ricercatori, si è messa in movimento alle 16.41.59; scendendo a valle per quasi due chilometri e mezzo è entrata in un canyon, ha affrontato due cambi di pendenza e alle 16.43.20 ha travolto l' hotel. Interessante scoprire che alla ricostruzione cronologica si è giunti incrociando la testimonianza oculare dei due superstiti che si trovavano all' esterno dell' edificio, il manutentore e un ospite che era andato a prendere delle medicine in macchina, con la cronologia delle richieste di aiuto telefoniche, uno dei tanti terreni di scontro in sede processuale. Alle 16.30 è avvenuta l' ultima chiamata dall' hotel e alle 16.54 c' è stato un tentativo di invio di un messaggio WhatsApp. «Di qui - spiega Thomas Braun, ricercatore dell' Ingv - la prima possibilità di restringere la finestra temporale a 24 minuti. Successivamente abbiamo cercato dei segnali sismici ipoteticamente generati dalla valanga. Quel giorno eravamo nel pieno della sequenza sismica dell' Italia centrale, con epicentri a circa 45 chilometri a ovest di Rigopiano. È così che abbiamo notato che la stazione Gigs, posizionata sotto il Gran Sasso, aveva registrato un segnale anomalo nei 24 minuti identificati come finestra temporale del distacco della valanga». La ricerca si è concentrata quindi sulla provenienza del segnale, fino a individuare le tre fasi sismiche attivate dalla valanga in corrispondenza di particolari caratteristiche del tracciato. Giustizia e scienza proseguiranno adesso in direzioni opposte. La prima calando la millimetrica cronologia della sciagura nel quadro delle certezze processuali acquisite, l' altra ponendo una domanda cruciale per la sorte delle terre mobili del nostro appennino. «Applicando questa metodologia multidisciplinare - spiegano gli autori della ricerca Seismic signature of the deadly snow avalanche of January 18, 2017, at Rigopiano - si può quindi immaginare un potenziale uso della rete di stazioni sismiche, appositamente configurata per i territori montani, per monitorare valanghe in luoghi remoti e impervi, utile per una più completa comprensione del fenomeno».

Stefano Buda e Paolo Vercesi per “il Messaggero” il 27 settembre 2020. Archiviare il caso Muriana. Lo chiede la Procura di Pescara riguardo all'ex capo della squadra mobile pescarese, Pierfrancesco Muriana, finito sotto accusa per calunnia nell'ambito dell'inchiesta sulla tragedia dell'hotel Rigopiano, in Abruzzo. La vicenda prese le mosse da una contro-denuncia presentata dall'avvocato Monica Passamonti per conto del carabiniere forestale Michele Brunozzi e ha scatenato un clamoroso conflitto istituzionale tra Polizia e Carabinieri forestali andato avanti a colpi di esposti, non senza imbarazzi nei rispettivi vertici. Tutto si lega al filone d'indagine sulla telefonata di D'Angelo, cameriere del resort che già la mattina del 18 gennaio 2017 tentò di contattare i soccorsi: la sua chiamata risultò dai tabulati ma, non si sa come, scomparve dagli atti dell'inchiesta per poi riapparire successivamente. Circostanza che si tinse di giallo e questo determinò l'apertura di un procedimento bis per presunto depistaggio che coinvolse l'ex prefetto Provolo e altre sei persone. Ma, soprattutto, prese forma una serie di procedimenti paralleli frutto di veleni (leggi esposti, controesposti e controdenunce). L'ex capo della mobile presentò infatti per primo un esposto in Procura contro tre carabinieri forestali, sostenendo che i militari ostacolarono le indagini sul depistaggio dell'inchiesta. In particolare riferì che pochi giorni dopo la tragedia aveva trasmesso via Pec ai forestali l'annotazione dell'agente Crosta riguardante la telefonata effettuata dal cameriere del resort Gabriele D'Angelo per chiedere aiuto al Coc di Penne. Ebbene, secondo Muriana i forestali alterarono quell'annotazione e ritardarono l'invio del documento in Procura. L'esposto fece scattare un'indagine sui forestali per falso materiale e falso ideologico, ma le accuse risultarono infondate e il giudice archiviò, su richiesta della stessa Procura. L'avvocato Passamonti, nel frattempo, aveva presentato una denuncia per calunnia contro Muriana al fine di tutelare i propri assistiti. Denuncia alla quale finì per sovrapporsi un ulteriore esposto contro l'ex capo della mobile, questa volta per favoreggiamento, presentato da Alessio Feniello, padre di una delle 29 vittime. Muriana, di fronte ad una situazione difficile e inaspettata, non resse la pressione. Anche perché i carabinieri forestali vennero scagionati e di conseguenza lui si ritrovò a passare da accusatore ad accusato. La richiesta della Procura di archiviare il procedimento nei suoi confronti arriva oggi in seguito all'interrogatorio dello scorso luglio, davanti al procuratore aggiunto Anna Rita Mantini e al sostituto Luca Sciarretta, nel quale l'ex dirigente della mobile ha avuto modo di chiarire sotto ogni aspetto le motivazioni delle sue accuse, convincendo gli inquirenti della sua azione in buona fede. Interrogatorio al quale Muriana avrebbe dovuto essere sottoposto già la mattina del 16 giugno, giorno in cui era atteso sotto gli uffici della Procura dai suoi legali, Marco Spagnuolo e Augusto La Morgia. Muriana non si presentò e un paio di ore più tardi fu rivelato il dramma che solo per miracolo non si trasformò in tragedia: quella mattina Muriana aveva tentato di togliersi la vita con il gas di scarico dell'auto. Trovato sotto un cavalcavia nella periferia di Francavilla al Mare, fu salvato grazie a soccorsi tempestivi. Dopo alcuni giorni passati in ospedale sotto osservazione, Muriana si è ristabilito e ha riacquisito serenità. All'interrogatorio di luglio davanti ai pm ha ricostruito la vicenda, a partire dalle deleghe ricevute e dal ruolo svolto nelle indagini. In particolare ha riferito delle attività svolte spiegando quando e a chi ne riferì gli esiti. Quindi si è soffermato sulle ragioni dell'esposto contro i carabinieri forestali ribadendo come all'epoca fosse persuaso dell'esistenza di una serie di irregolarità che meritavano un approfondimento investigativo. La richiesta di archiviazione avanzata adesso dalla Procura potrebbe mettere fine a questa stagione di veleni sul caso Rigopiano, ma l'ultima parola spetta al Gip.

Rigopiano: l'ex capo della Squadra mobile tenta il suicidio prima di un interrogatorio. Le Iene News il 18 giugno 2020. L’ex capo della Squadra mobile di Pescara ha tentato il suicidio poche ore prima di essere sentito in Procura. Nei servizi di Roberta Rei, Pierfrancesco Muriana ci ha parlato di presunti depistaggi e di telefonata occultate a proposito della tragedia dell’Hotel Rigopiano in cui morirono 29 persone sotto a una valanga. Pierfrancesco Muriana ha tentato il suicidio poche ore prima di essere sentito in Procura a Pescara per l’inchiesta bis sulla tragedia di Rigopiano, dove una valanga di 40mila tonnellate il 18 gennaio 2017 ha spazzato via un hotel seppellendo vive 29 persone in Abruzzo. Noi de Le Iene abbiamo incontrato l’ex capo della Squadra Mobile nell’inchiesta di Roberta Rei che hanno cercato di ricostruire l’intera vicenda attraverso i tanti misteri che dopo oltre 3 anni ancora non stati chiariti. “C’è stata una manovra di depistaggio che è proprio il tema dell’inchiesta bis sull’occultamento di questa telefonata”, aveva detto proprio Muriana a Roberta Rei nel servizio che potete vedere qui sopra. Il riferimento sembra essere alla chiamata fatta in Prefettura il giorno della strage da parte del cameriere dell'hotel Gabriele D'Angelo. “Aveva capito che stava succedendo qualcosa di brutto”, ha raccontato il fratello gemello di Gabriele. Ma ieri mattina Muriana non si è presentata in procura dove era atteso per un interrogatorio. L’ex capo della Squadra mobile deve rispondere di calunnia nei confronti di carabinieri. Dopo ore di attesa, Muriana è stato trovato da una pattuglia dei Forestali nei pressi di Francavilla al Mare (Chieti) riverso nella sua autovettura. Non sarebbe in pericolo di vita nonostante l’intossicazione da monossido di carbonio. Ed è stato comunque sentito dai magistrati. Nell’inchiesta bis sulla tragedia di Rigopiano sono finiti non solo quelli indagati per presunto depistaggio ma anche chi doveva indagare. Le prime indagini sulla prefettura di Pescara, il luogo dove sarebbe scomparsa la telefonata di Gabriele D’Angelo, le ha fatte la Squadra mobile di cui Muriana era il capo. A telecamere spente ci dice: “Ho avuto l’impressione di aver fatto una scoperta importante, perché spostava l’orologio della richiesta dei soccorsi. Sarà il processo a dire se cambiava o meno l’esito, però sicuramente era un elemento che andava messo nel patrimonio informativo”. Si sapeva, insomma, già dal mattino delle difficoltà all’hotel Rigopiano. “Se quella telefonata fosse stata nascosta... sarebbe grave”, sostiene poi Muriana. Gabriele D’Angelo chiamava dalla mattina per chiedere soccorso, le autorità erano state informate, eppure i soccorsi partirono solo dopo la tragedia. Muriana aveva mandato anche una lettera di scuse a Stefano Feniello, il padre di una delle 29 vittime. “È una presa per i fondelli, le scuse sono assolutamente tardive”, aveva replicato il papà che quel 18 gennaio 2017 ha perso il figlio a soli 28 anni. “Perché non ha segnalato alla Procura quella telefonata? Avrebbe dovuto chiedere scusa subito dopo e dichiarare a chi di competenza quanto accaduto. Perché, invece, manca questa telefonata dal tabulato? Hanno cercato di coprirsi a vicenda, ma gli è andata male perché c'è stata gente che gli è stata col fiato sul collo. Sono personaggi squallidi. Mi fanno solo ridere”.

Paolo Mastri per “il Messaggero” il 6 marzo 2020. L'ipotesi del pareggio in questa partita non era contemplata. La vittoria dei carabinieri forestali, nello scontro tra gli investigatori pescaresi impegnati nelle indagini sulla tragedia di Rigopiano, si traduce però in una autentica debacle per l'ex capo della squadra mobile Pierfrancesco Muriana, che vede finire in archivio le accuse di falso rivolte ai colleghi con gli alamari e si ritrova a sua volta indagato per favoreggiamento del depistaggio delle indagini, con all'orizzonte la probabile contestazione aggiuntiva di calunnia. Lo rivela nel suo provvedimento il gip Elio Bongrazio, che ha accolto in pieno le richieste dei pubblici ministeri Anna Rita Mantini e Salvatore Campochiaro: «È già all'attenzione dell'autorità inquirente l'operato del personale della squadra mobile inerente la delega impartita il 23 gennaio 2017». Tutto ruota intorno a una notizia chiave per le indagini, la telefonata con la richiesta di soccorso che un cameriere dell'albergo fece la mattina del 18 gennaio 2017, cinque ore prima della valanga, rimasta nascosta alla Procura della Repubblica per quasi due anni. È, insomma, l'ora zero della sciagura costata la vita a 29 persone e lesioni varie agli 11 superstiti; il momento dal quale far partire il ritardo delle varie autorità pubbliche nella focalizzazione del problema e nell'avvio delle operazioni di soccorso. La principale nuvola di polvere da far sparire sotto il tappeto. A novembre scorso, in seguito a un interrogatorio di alcuni avvocati difensori, Muriana segnalò ai Pm di Pescara la falsificazione della mail inviata dal suo ufficio ai forestali il 27 gennaio 2017: il documento conteneva l'annotazione di servizio dell'agente Clementino Crosta, che apprese da una testimone la telefonata del cameriere D'Angelo, mai registrata nei brogliacci. Le alterazioni informatiche, secondo il poliziotto, avrebbero coperto l'omissione dei forestali, che informarono la Procura della cosiddetta telefonata fantasma soltanto il 12 novembre 2018, dopo che il caso fu svelato da un'inchiesta della Rai. L'archiviazione delle accuse contro tre carabinieri, il tenente colonnello Annamaria Angelozzi, il maresciallo Carmen Marianacci e l'appuntato Michele Brunozzi, si risolve però in un boomerang per l'ex capo della mobile. Sulla base di una perizia informatica e dell'interrogatorio degli indagati, i magistrati ritengono insussistente l'accusa di falso materiale escludendo il dolo anche nell'ipotesi di falso ideologico: in base alla delega di indagine ricevuta in condominio, è il ragionamento, i carabinieri avevano legittimamente ritenuto che spettasse alla polizia informare la procura su quanto scoperto dall'agente Crosta. La tardiva iniziativa dei forestali, che comunque si attivarono 22 mesi dopo l'informativa ricevuta dalla squadra mobile, è stata infine valutata dai magistrati come semplice errore. Sembra una querelle tra investigatori. È invece un punto di snodo decisivo nel filone relativo al depistaggio delle indagini, che vede indagati il prefetto dell'epoca Francesco Provolo e altri dirigenti di palazzo del governo. Sono gli uffici dove fu la squadra mobile a bussare, in base alla delega della Procura, alla ricerca, fra l'altro, dei brogliacci di segnalazioni e richieste di aiuto. E invece, rimarca severamente il gip nel decreto di archiviazione, «nella corposa informativa che ne seguiva non è fatta menzione di quanto il suo estensore aveva appreso dall'agente Crosta, circa un mese prima, come invece sarebbe stato opportuno ai fini dell'indagine». Conclusione che ricalca il tenore di un contro esposto presentato contro Muriana da uno dei carabinieri prosciolti, ponendo più di un punto interrogativo sull'atteggiamento morbido della squadra mobile nei confronti di un'altra articolazione del Viminale. Veleni destinati a intossicare il processo madre che stenta ancora a decollare.

La tragedia e l’abbandono. «Rigopiano ha ucciso i miei genitori e i miei sogni. Ma ora sono pronto a ripartire». Marco aveva 28 anni e un ristorante appena aperto. La valanga gli ha distrutto la famiglia e lo ha riempito di debiti. Lasciato solo dallo Stato, ha dovuto mollare. Ora fa il pescivendolo a Pescara. E non ha rinunciato ai suoi sogni. Maurizio Di Fazio il 21 gennaio 2020 su L'Espresso. Poco prima della tragedia, a 28 anni, Marco aveva coronato il sogno della sua vita. Quello di aprire La Barrique, un locale di alto livello nel centro di Pescara, la sua città. Un posto dove degustare aperitivi, ascoltare musica dal vivo e far fruttare il suo neo-patentino da sommelier, con una selezione di vini di qualità. La laurea in Scienze Politiche, già ottenuta, poteva riposare in un cassetto. «L’avevo aperto otto mesi prima con il sostegno dei miei genitori: avevano fatto da garanti, altrimenti niente fido bancario, ed erano molto presenti nella vita quotidiana del locale. Anzi, mio padre aveva ripreso apposta a cantare in pubblico, rispolverando la sua tribute-band dedicata a Lucio Battisti. Una seconda giovinezza per lui, funzionario dell’Agenzia delle entrate. Dopo la catastrofe mi sono tatuato una frase ripresa da “Amarsi un po”’, una delle sue canzoni preferite. "Uniti, e indivisibili. Vicini, ma irraggiungibili". E l’ho fatta scrivere sulla mia pelle ricalcando fedelmente la calligrafia di mia madre. Rappresenta il collegamento invisibile, ma eterno, fra noi tre». La Barrique, carica di quei debiti senza più garanti, ha presto chiuso i battenti. Il ragazzo ha dovuto prendere decisioni rapide, drastiche, più grandi di lui. Quella valanga ha stravolto e continua a tormentargli l’esistenza. Nel dramma dell’hotel Rigopiano, il 18 gennaio di tre anni fa, Marco Foresta ha infatti perso entrambi i genitori, Bianca Iudicone e Tobia Foresta. Due delle 29 vittime del resort abruzzese seppellito da una slavina di neve e negligenze. Figlio unico, si è ritrovato così costretto a ripartire da zero, da solo. Nessun aiuto pubblico per lui. Lo Stato cieco e distante, che ti abbandona nel momento del massimo bisogno. Marco non ha avuto nemmeno accesso alla pensione di reversibilità: «La legge non contemplava il mio caso perché avevo più di 26 anni ed ero già laureato, con un piccolo reddito: per paradosso, quello del locale che ho dovuto chiudere. Di fatto i miei genitori hanno buttato via 55 anni di contributi. Il lavoro di due vite vanificato. E tutto questo mi fa ancora male, sì». Marco accenna un sorriso carico di tristezza: «Nella sfortuna, per assurdo, bisogna essere fortunati: e a me non è capitato». Anche perché c’era il mutuo della villetta di famiglia a Città Sant’Angelo ancora da pagare: «Ho dovuto accollarmelo, con il rischio concreto di perdere la casa da un momento all’altro. E questa è solo una delle spese che mi sono ritrovato addosso di punto in bianco. Per ora il mutuo me l’hanno sospeso, perché non riuscivo e non riesco a coprire la rata mensile. Ma fino a quando durerà? Io vorrei solo vivere dignitosamente». A tutto questo va sommata la chiusura, naturalmente, anche del negozio d’intimo della mamma: «Il tempo di fare una svendita e ho cessato l’attività». Spentasi l’eco delle promesse della politica, e della solidarietà dei talk-show con voci narranti e filtri choc, Marco Foresta si è ritrovato solo, pieno di debiti e senza prospettive. E qui ha incontrato, stavolta sì, una persona che si è comportata in una maniera generosa e disinteressata, che l’ha assunto nei muri dello stesso negozio che apparteneva alla mamma trasformatosi, nel frattempo, in una pescheria. Tutti i giorni lo si vede in azione, con i capelli fluenti raccolti, alle prese con spigole e gamberetti, salmoni e cozze da pulire. «Quest’imprenditore del pesce di Pescara, Quinto Paluzzi, aveva sempre dichiarato (e non lo conoscevo di persona) che se avessi avuto necessità urgente mi avrebbe preso a lavorare con lui, come simbolo e anima di quel negozio, di quel luogo. E ha mantenuto la promessa, dandomi una mano enorme in un momento di estrema difficoltà». Non sarà il mestiere della sua vita, ma lo onora con dedizione e impegno: «Una scialuppa di salvataggio per me. In attesa di ripartire, di trovare sbocchi professionali più consoni ai miei studi e alle mie passioni». Ora siamo arrivati al terzo anniversario della catastrofe: in quell’albergo a 1.200 metri d’altezza, in quei giorni, doveva esserci pure lui. «Infatti risultavo nell’elenco dei prenotati… Giusto all’ultimo decisi di non salire e di lasciar andare solo i miei genitori. Avevano lavorato tanto durante le feste di Natale, se lo meritavano un weekend di relax e mio padre avrebbe dovuto, di lì a breve, operarsi a una spalla». I ricordi nella testa di Marco fluiscono: «Mi avevano scritto su WhatsApp che avevano sentito delle scosse di terremoto e che l’albergo era isolato, separato dal resto del mondo da un muro di neve. L’inquietudine tra gli ospiti era alta, ma era molto complicato sentirsi, la linea telefonica andava e veniva, potevamo solo mandarci messaggi. L’ultima volta che sentii mia madre fu intorno alle 16, una cinquantina di minuti prima dell’apocalisse. Mi mandò foto dell’interno dell’hotel, delle finestre da dove si vedeva che il paesaggio esterno era completamente glaciale e bloccato. Mi diceva che però li avevano rassicurati sull’arrivo imminente di una turbina, per liberarli. Ma il tempo passava e di questo mezzo, indispensabile in una situazione-limite come quella, neanche l’ombra. Come gli altri clienti e i dipendenti della struttura, i miei volevano andarsene al più presto, l’agitazione era totale, tutti cercavano invano di far ripartire le macchine, avevano pagato il conto e fatto il check-out, le valigie pronte da un pezzo. Nella borsa di mia mamma ritrovai persino il buono per il recupero del pernottamento non goduto». Poi, il silenzio improvviso. «Dopo le quattro del pomeriggio mia madre non ha più risposto e all’inizio non mi preoccupai: le linee non prendevano, poteva starci benissimo quel black-out di informazioni. Intorno alle 19.30 cominciarono però a circolare le prime notizie poco rassicuranti. Mi informò anche la mamma della mia ragazza, volontaria alla protezione civile; ma all’inizio si parlava di una caduta parziale del tetto. Fu allora che cominciai a collegare, a cercare di comprendere quello che poteva essere accaduto. Trascorsi l’intera notte incollato davanti alla tv». Marco si ravvia i capelli, e riavvolge il film dell’orrore psicologico dei ricordi. La storia di un ragazzo obbligato a crescere alla velocità della luce. Nelle ore dell’incertezza, del balletto dei brandelli di notizie, gli toccò addirittura tranquillizzare i suoi parenti. «Sì, perché nessuno sapeva che fossero proprio lì, soltanto io ne ero a conoscenza. Il compito più complicato fu con mia nonna, che abitava lontano e aveva sentito in televisione della sciagura. La rassicurai facendole credere che i miei stavano in un altro albergo. Finché ho potuto, ho cercato di nasconderle la verità». Seguirono i giorni dell’altalena di angosce e speranze, reali o artefatte, delle ricerche spasmodiche dei superstiti, dei soccorsi eroici, delle fughe di notizie, delle leggende metropolitane, delle passerelle di palazzo. Dei silenzi assordanti e dei fiumi tossici di parole. «Arrivavano voci frammentarie e incerte. La degenerazione di un contesto orribile di per sé. Qualcosa di doppiamente crudele, una lotteria spietata. “Abbiamo sentito delle voci provenire dal salone sommerso...”: ma non era vero niente. C’erano rappresentanti delle istituzioni che davano per sopravvissute persone che non lo erano affatto». Una tragedia evitabile, fin dalle sue origini. «L’hotel non poteva essere costruito in quell’area già in passato flagellata da valanghe. La magistratura accerterà le responsabilità e le modalità con cui vennero prestati i soccorsi. Un cocktail di inefficienza e impreparazione, con l’aggravante dei depistaggi che stanno venendo a galla oggi. Chi doveva operare e muoversi in quei frangenti delicati non ne è stato all’altezza». Il processo Rigopiano va avanti, tra archiviazioni eccellenti e nuovi fronti d’indagine. «Noi del Comitato dei parenti delle vittime continuiamo ad aspettarci giustizia, lotteremo fino alla fine. Ci siamo sentiti colpiti anche dalle istituzioni, parecchi degli indagati sono parte dello Stato, sindaci o prefetti. Sta emergendo di tutto, ma prima o poi arriveremo a un traguardo, e qualcuno dovrà pagare». Passa un gruppo di suoi coetanei, lo salutano con affetto, lo incoraggiano: «Non arrenderti». In questi tre anni gli amici sono stati indispensabili per lui, gli hanno fatto scudo e l’hanno protetto soprattutto all’inizio. Ma un ruolo decisivo l’ha svolto Magda, la sua ragazza, che conobbe una ventina di giorni prima del disastro: «A ridosso di Capodanno era venuta nel mio locale, La Barrique, a chiedere informazioni sul veglione del 31 dicembre. Lei in pratica non li ha quasi conosciuti i miei: li ha intravisti, forse, una volta. Magda s’è ritrovata subito catapultata, insieme a me, in una situazione assurda, ai confini della sopportazione umana. E nonostante ci fossimo appena conosciuti mi ha riempito immediatamente di affetto, vicinanza e amore. Di certo eravamo partiti, come si dice, col piede sbagliato». Accenna un altro sorriso, e trattiene le lacrime. È ancora presto per tratteggiare il suo futuro. Marco non dispera: lo deve ai genitori scomparsi, alla sua fidanzata, a se stesso. Un giorno, chissà, «farò un master da giornalista sportivo, mi ha sempre affascinato quel mondo, con mio padre condividevo la passione per l’Inter, conservo tuttora l’audio della telefonata che dopo la tragedia mi fece l’ex capitano neroazzurro Zanetti». Oppure tornerà a quel sogno accantonato troppo presto: un locale tutto suo, di vini e musica. «Ora però devo pensare ad arrivare a fine mese». E continua ad andare in montagna: «A me e ai miei è sempre piaciuto sciare, avevamo questa passione, andavamo spesso in settimana bianca. “Uniti, e indivisibili”. No, nessuno mi toglierà mai la montagna, perché in tutta questa dannata vicenda la natura non ha colpe, non c’entra nulla: è stata tutta opera dell’uomo».

Rigopiano, a tre anni dalla tragedia ancora nessuna giustizia. Le Iene News il 18 gennaio 2020. Il 18 gennaio 2017 una valanga ha travolto l’hotel a Farindola, uccidendo 29 persone. Oggi a Rigopiano si tiene una messa in ricordo delle vittime. Noi de Le Iene ci stiamo occupando di questa tragedia, cercando di capire cosa è realmente accaduto e se la strage poteva essere evitata. Erano le 16 e 47 del 18 gennaio 2017 quando 40mila tonnellate di neve travolsero l’hotel Rigopiano di Farindola. C’erano 40 persone presenti nella struttura in quei giorni, tra ospiti e personale: solo 11 sopravviveranno. Ventinove persone hanno perso la vita, in una delle più gravi tragedie che ha colpito il nostro Paese negli ultimi anni. Oggi sono passati esattamente tre anni da quel tragico giorno e, mentre si svolgono le commemorazioni per ricordare chi ha perso la vita, resta aperta una domanda: è stata fatta giustizia per quello che è accaduto? Perché forse non tutto quello che poteva essere fatto per salvare quelle vite è stato davvero messo in campo, perché forse era possibile evitare quella tragedia. Noi de Le Iene, come vedete nel servizio qui sopra, ci stiamo occupando di quanto accaduto in quelle drammatiche ore e nei giorni (e mesi) successivi. Subito dopo la slavina, ci volle del tempo perché i soccorritori credessero davvero a quanto accaduto: a causa di questo ritardo e delle difficili condizioni meteo, i primi aiuti arrivarono sul luogo solamente all’alba del giorno dopo. Le attività dei vigili del fuoco, della protezione civile e di tutti coloro che intervennero sul posto furono eroiche e portarono al salvataggio di 9 persone rimaste intrappolate sotto le macerie. Per la maggior parte dei presenti nell’hotel, purtroppo, non ci fu nulla da fare. Non è però su questo che si concentrano ora le ombre: c’è la scoperta di una telefonata fatta da Gabriele D’Angelo – cameriere dell’hotel – ore prima della valanga alla Prefettura, in cui si chiedeva di evacuare la struttura a causa di una serie di scosse di terremoto che avevano interessato la zona e della paura degli ospiti. Quelle richieste però sarebbero state ignorate. Il procedimento principale su quanto accaduto quel giorno è partito senza che la telefonata di D’Angelo emergesse, e le posizioni di 22 indagati sono state archiviate. Quella telefonata è stata nascosta? E, se sì, perché? È a queste domande che cerca di rispondere il filone bis dell’inchiesta su Rigopiano: parliamo di quella sul presunto depistaggio che sarebbe avvenuto all’interno della Prefettura. Secondo l’accusa formulata dai pm gli indagati, nonostante fossero stati sollecitati a fornire agli investigatori ogni elemento utile alle indagini, avrebbero omesso di riportare nelle loro relazioni le segnalazioni di soccorso che il 18 gennaio 2017, giorno in cui l’hotel fu travolto da una valanga, erano pervenute alla Prefettura di Pescara. In particolare sarebbe stata nascosta appunto una telefonata del cameriere Gabriele D’Angelo. A dicembre il ministero della Giustizia si è costituito parte civile nei confronti dell'ex prefetto di Pescara e altri 7 dirigenti pubblici nel procedimento per il presunto depistaggio sul disastro dell'hotel Rigopiano. Insomma Gabriele D’Angelo chiamava dalla mattina per chiedere soccorso, le autorità erano state informate, eppure i soccorsi partirono solo dopo la tragedia. Il procedimento per il presunto depistaggio è in corso, e un nuovo filone di indagine è stato aperto. Speriamo che prima o poi venga data giustizia alle 29 persone che hanno perso la vita e a tutti i loro cari che ancora lottano per scoprire la verità. 

Depistaggio a Rigopiano, il ministero della Giustizia si costituisce parte civile. Le Iene News il 13 dicembre 2019. Il ministero guidato da Alfonso Bonafede si è costituito parte civile nei confronti degli imputati nel procedimento per il presunto depistaggio sul disastro all’hotel Rigopiano. Il 18 gennaio 2017 ventinove persone morirono travolti da una valanga. La promessa è finalmente mantenuta: il ministero della Giustizia si è costituito parte civile nei confronti dell'ex prefetto di Pescara e altri 7 dirigenti pubblici nel procedimento per il presunto depistaggio sul disastro dell'hotel Rigopiano di Farindola. La richiesta è stata presentata dall'avvocatura dello Stato de L'Aquila nell'udienza preliminare a Pescara. Secondo quanto scritto nella richiesta, il ministero ritiene che la condotta dei dirigenti della Prefettura avrebbe leso l'immagine e il prestigio della giustizia. Secondo i capi d'accusa "hanno pesantemente pregiudicato il funzionale e organico svolgimento dell'attività investigativa propria dell'Autorità procedente", si legge sull'atto. Il lavoro della magistratura sarebbe stato ostacolato, secondo l’atto, "costringendo uomini e mezzi messi a disposizione dallo Stato a un non previsto aggravio di impegno e sforzo che ha inciso gravemente sul raggiungimento da parte della pubblica amministrazione degli altri obiettivi istituzionalmente curati". Da oltre un mese il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva promesso la costituzione in parte civile del ministero e finalmente la sua promessa è stata rispettata. Noi de Le Iene vi stiamo raccontando con Roberta Rei e Marco Fubini cos’è accaduto il 18 gennaio del 2017, quando una valanga travolse l’hotel Rigopiano causando la morte di 29 persone. Nei servizi che potete rivedere qui sopra e cliccando qui, vi abbiamo raccontato di cosa sembra non aver funzionato nella catena di comando dei soccorsi e in particolare di una telefonata d’aiuto, arrivata ore prima del disastro e che sarebbe stata ignorata, che sarebbe poi stata nascosta durante le indagini. Dopo le 22 archiviazioni nel processo principale e mentre prosegue l’indagine sul presunto depistaggio, dopo i nostri servizi è stata aperta una nuova indagine. 

Tragedia di Rigopiano: le nuove indagini e quella riunione segreta. Le Iene News il 9 dicembre 2019. Una nuova indagine della procura è stata aperta su Rigopiano dopo i servizi di Marco Fubini e Roberta Rei sulle telefonate di Gabriele D’Angelo che sarebbero state nascoste. Noi vi proponiamo una nuova testimonianza che getta ulteriori ombre sul caso. Il 18 gennaio 2017 una valanga di 40mila tonnellate ha spazzato via l’hotel Rigopiano dov’erano presenti 40 persone. Solo undici di loro sopravviveranno, 29 moriranno. Questa settimana sono state archiviate le posizioni di 22 indagati. A oggi l’unico condannato è Alessio Feniello, padre di una delle vittime, per violazione dei sigilli: è colpevole di aver portato dei fiori nel luogo dove il figlio Stefano è morto. Al di là dell’apparente assurdità di questa condanna, quello che ai parenti delle vittime non va giù è proprio l’archiviazione di quei 22 indagati. “Ho provato subito rabbia, sgomento, dolore” ha detto Gianluca Tanda, fratello di una delle vittime, a Roberta Rei. Dopo la messa in onda dell’ultimo servizio di Marco Fubini e Roberta Rei, in cui si raccontava di una telefonata d’aiuto che sarebbe stata nascosta durante le indagini, qualcosa si è mosso: tre carabinieri forestali sarebbero finiti sotto indagine per falso materiale e falso ideologico. Partiamo dall’inizio: c’è sempre stato raccontato che le prime richieste di aiuto sarebbero arrivate dopo la valanga delle 16.47 e che quindi ci sarebbe stato ben poco da fare. La verità però sembra essere differente: le prime telefonate, quelle che sarebbero sparite, sono arrivate molto prima della tragedia. Gabriele D’Angelo, volontario della Croce Rossa e cameriere dell’hotel Rigopiano, ha cominciato a chiamare già dalla mattina, cinque ore prima della valanga in cui anche lui ha perso la vita. Parliamo della telefonata delle 11.38, di cui esisterebbe uno screenshot del telefono fatto dei Ros e che sarebbe stata ignorata. Quella mattina l’hotel era circondato da due metri di neve e 40 persone erano intrappolate nella struttura: le strade infatti erano completamente bloccate. La situazione diventa tragica alle 10.25, quando la terra ha cominciato a tremare per una serie di scosse di terremoto. Gabriele chiama la Prefettura, dove c’era il centro di coordinamento dei soccorsi. Non solo i soccorsi non partono, ma durante le indagini quella telefonata sarebbe sparita. Nell’inchiesta bis sul presunto depistaggio non ci sono solo coloro che avrebbero nascosta la telefonata ma anche quelli che dovevano indagare. Nei nostri servizi vi avevamo raccontato anche di un’altra telefonata, fatta anche questa da Gabriele quella mattina e che sarebbe a sua volta sparita: quella dei suoi amici della Croce Rossa, che loro hanno annotato sul registro del centro soccorsi. I suoi compagni della Croce Rossa avrebbero avvertito i loro superiori, ma nulla sarebbe stato fatto. Per due lunghi anni anche questa telefonata non viene messa agli atti. Sei giorno dopo la tragedia, ci sarebbe stata una riunione tra il Prefetto e le massime autorità in gioco. “Ci siamo incontrati in uno sgabuzzino con un tavolo”, ci ha detto uno dei funzionari che sarebbe stato presente a quella riunione. “È chiaro che tutto veniva coordinato dal Prefetto”. Questo incontro sarebbe avvenuto mentre i soccorritori stavano ancora scavando tra le macerie di Rigopiano. “Ricordo che ci fu un battibecco, il Prefetto diceva che probabilmente si sapeva che era arrivata una telefona al centro di coordinamento dove c’era la Croce Rossa”, ci dice il funzionario. “Una telefonata sul fatto che avevano chiesto l’evacuazione di Rigopiano”. Quella di Gabriele D’Angelo? “Sì”. A questo punto Roberta Rei gli chiede chi ne stesse parlando: “Il prefetto Provolo e Verna”. L’ingegner Verna era il coordinatore del Posto di coordinamento avanzato presso la sede della Croce Rossa, voluto dalla Prefettura, di cui vi abbiamo parlato nel precedente servizio. “Il Prefetto voleva scrivere qualcosa e Verna disse con toni accesi: ‘No no, io non sapevo niente”, continua il funzionario. Secondo lui Verna avrebbe avuto paura che gli dessero la responsabilità per quella telefonata che era arrivata. “Verna coordinava gli interventi su quel territorio, era competente per Farindola”, ricorda. L’ingegnere aveva risposto in modo evasivo alle domande di Roberta Rei. Da quella riunione sembra che la telefonata di Gabriele D’Angelo non sia mai emersa. In quella riunione “il Prefetto voleva rimettere tutto un po’ in ordine”, continua il funzionario. Da quello che ci racconta già sei giorni dopo la tragedia quella telefonata era nota alle autorità, ma da lì non sarebbe mai emersa. Un mese fa il premier Conte e il ministro della Giustizia Bonafede hanno promesso di costituirsi parte civile nel processo Rigopiano, ma a oggi non è ancora successo. Roberta Rei è andata a parlare con Bonafede, che ha assicurato che l’avvocatura dello Stato ha ricevuto mandato di costituirsi parte civile e ha ribadito le sue assicurazioni ai familiari delle vittime. Nelle prossime puntate dell’inchiesta torneremo a parlarvi di molte altre cose che sembrano non tornare in questa vicenda. 

Da ''Libero Quotidiano'' il 17 gennaio 2020. Perdere un figlio è atroce. Ma a 72 anni pesa ancora di più. Sapere poi che si sarebbe potuto salvare, ti spezza ancora più il cuore». Così Loredana Lazzari, mamma di Dino Di Michelangelo, il poliziotto morto insieme alla moglie Marina Serraiocco nella tragedia di Rigopiano, tre anni fa. Come lei anche William Biferi, fratello di Luana, la giovane giocatrice di calcio morta il 18 gennaio 2017 nell' hotel dove lavorava come aiuto cuoco. E poi Francesco D' Angelo, fratello di Gabriele, il cameriere dell' albergo, e tutti gli altri familiari. «Avevano chiesto aiuto, invece non sono stati creduti, sono stati derisi», si disperano. È il momento della commemorazione, ma anche della voglia di giustizia, eppure nonostante i 25 imputati nell' inchiesta principale sulla tragedia dell' hotel di Farindola (Pescara), il processo non è ancora cominciato. Le accuse vanno da: crollo di costruzioni o altri disastri colposi, omicidio e lesioni colpose, abuso d' ufficio, falso ideologico. Al centro dell' inchiesta, condotta dal procuratore capo di Pescara Massimiliano Serpi e dal sostituto Andrea Papalia, la mancata realizzazione della carta valanghe, presunte inadempienze su manutenzione e sgombero delle strade che portavano al relais in montagna e tardivo allestimento del centro di coordinamento dei soccorsi. Come chiesto dalla procura, le posizioni che riguardano il versante politico della vicenda sono state archiviate il 3 dicembre. Nella prossima udienza, il 31 gennaio, il gup scioglierà la riserva sulla decisione relativa all' unificazione dell' inchiesta madre con il procedimento bis, riguardante un presunto depistaggio. Gli imputati, nonostante le sollecitazioni a fornire ogni elemento utile alle indagini, hanno omesso di riportare nelle relazioni le segnalazioni di soccorso pervenute in prefettura quel 18 gennaio, in particolare le richieste di D' Angelo che chiamò i soccorsi e non fu creduto per questo i brogliacci sono stati nascosti. Sulla tragedia sono stati aperti altri due fascicoli che coinvolgono alcuni carabinieri accusati di falso. «Non vendetta, ma giustizia», implorano le famiglie dei morti.

Rigopiano, la lettera del vigile del fuoco a Francesca: «La nostra lotta disperata per salvare il tuo Stefano». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Il pompiere estrasse dalle macerie la coppia. Il ragazzo era morto sotto la valanga che travolse e distrusse l’hotel. La firma è di «un vigile del fuoco». Niente nome, perché per i vigili del fuoco vale la squadra. Valgono la fatica, la tensione, la gioia e il dolore di tutti. E con la firma di uno sono tutti i vigili del fuoco che scrivono a Francesca, la ragazza che sotto la valanga di Rigopiano ha perduto Stefano, l’uomo che avrebbe sposato. Questa è la loro lettera per lei.

"Francesca ciao, io sono un vigile del fuoco che ha lavorato a Rigopiano. Eravamo quelli che hanno lavorato quando in molti erano già convinti che fosse inutile fare sforzi. Io insieme a tanti miei colleghi invece abbiamo creduto fino all’ultimo di trovare qualcuno vivo, compreso il tuo uomo. Non vogliamo più sentirci ringraziare, abbiamo fatto il nostro lavoro e basta. Però mi ricordo perfettamente quanto ci arrivava dalle tue indicazioni, e non puoi avere idea di quanto abbiamo studiato e analizzato e poi infine lavorato come mai ho fatto nella mia vita per cercare e cercare, disperatamente. Le indicazioni che ci arrivavano da te le abbiamo avute in testa per ore e ore e forse ancora oggi non ci hanno abbandonato del tutto. Abbiamo creato aperture in ogni punto per cercare, ci siamo incastrati in ogni buco facendo entrare i colleghi più minuti, ci siamo bloccati all’interno di punti dove si faceva fatica a respirare per quanto minuscoli erano gli spazi. Non siamo riusciti a trovarlo. Non possiamo dirti quanti di noi ti sono vicini e quanto avremmo fatto per estrarlo e per estrarre vivi tutti quelli che mancavano. Ci dispiace. Un vigile del fuoco."

L'eroe di Rigopiano: "Non scordo quei morti. La cura è salvare vite". Il maresciallo della Gdf Lorenzo Gagliardi fu il primo a raggiungere l'hotel sotto la valanga. Chiara Giannini, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale.  Con i suoi uomini attraversò la bufera e muri di neve per arrivare a Rigopiano, dove il 18 gennaio del 2017 quaranta persone furono travolte dalla furia di una valanga scatenata da un terremoto che fece crollare l'hotel in cui si trovavano. Solo undici di loro sopravvissero e furono salvati da chi per giorni lavorò per estrarli vivi. Lorenzo Gagliardi, comandante della stazione del soccorso alpino di Roccaraso, oggi continua a fare il proprio lavoro. È stato promosso maresciallo aiutante della Guardia di Finanza, corpo in cui lavora da trent'anni e ha un solo desiderio, che «tragedie di questo tipo possano non avvenire più». I ricordi di quella notte sono ancora nitidi. «Certi momenti non li può dimenticare, perché ciò che accadde è stato un evento unico nel mio percorso lavorativo - racconta -. Ho lavorato su valanghe, su terremoti, ma mai avevo affrontato i due eventi insieme che provocano il crollo di una struttura. Eravamo stati allertati per un'altra valanga con una persona che è poi stata ritrovata morta su Campotosto e poi nel corso del viaggio dalla mia sala operativa fummo dirottati verso Rigopiano dove però non avevamo idea di cosa fosse successo». Intorno all'una di notte arrivarono lungo la strada dove una colonna di mezzi fermi era bloccata dietro a una turbina con neve altissima e tronchi a ostruire il passaggio. Non si passava. «Chiesi ai volontari del soccorso alpino - ricorda - se se la sentissero di andare su. Partimmo in 12, di cui 4 della Guardia di Finanza, dopo aver preso il materiale necessario. Camminammo per due ore e mezzo con una bufera e il rischio di valanghe, tenendoci a debita distanza l'uno dall'altro per consentire l'eventuale autosoccorso. Perché la montagna non ti avvisa se decide di far cadere altra neve». A illuminare il cammino solo le torce. Quando arrivarono si trovarono davanti una scena surreale e drammatica. Il resto fa parte di una storia che tutti tristemente conoscono. Gagliardi e i suoi uomini non abbandonarono il campo fino a intervento concluso, lavorando in squadra con tutti i soccorritori. Per giorni si impegnarono per cercare di salvare la vita a quante più persone possibile. Con una serenità tipica di chi ha votato la propria vita ad aiutare gli altri, spiega: «Oggi continuo a essere a disposizione dell'utente. Fa parte del mio lavoro, per lo più mi occupo di soccorso in montagna, ma facciamo qualsiasi attività dove serve». E ammette che ha salvato altre vite. Come l'anno scorso a Capodanno, quando coi suoi uomini intervenne «per portare in salvo un uomo che per tre giorni era rimasto isolato in un rifugio». Ancora sotto la neve, ancora in mezzo alla bufera, di nuovo dopo ore di cammino. La sua gratificazione più grande è «quella di qualsiasi soccorritore: quando riesci a salvare vite umane e riportarle dai loro familiari». Paura? «Il rischio c'è sempre - spiega Gagliardi - e quando parto avviso sempre mia moglie. Ma ci addestriamo per questo, è il nostro compito. Certo, valutiamo il rischio, non andiamo sprovveduti. Ma il caso lo devi accettare. Perché poi la parte più bella, come a Rigopiano, è quando vedi un bambino che esce dalle macerie e ti sorride». Il finanziere alle commemorazioni ha incontrato le famiglie dei superstiti o di chi ha lasciato la vita a Rigopiano. «Ancora - dice - qualcuno ci ringrazia. Rimpianti? So che ho fatto tutto il possibile, ma spero che in futuro cose così non accadano più».

Tragedia Rigopiano, il cuoco sopravvissuto: "Da allora mai più in vacanza". A tre anni dalla valanga che travolse l'hotel, il cuoco Giampiero Parete racconta di vivere ancora un incubo: "Quella giornata ci ha cambiato, i miei figli hanno paura". Giorgia Baroncini, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. A tre anni di distanza dalla tragedia di Rigopiano, c'è chi vive ancora un incubo. Era il 18 gennaio 2017 quando una valanga ha distrutto l'hotel causando 29 vittime, tra ospiti in vacanza e lavoratori. "Da quel buio non siamo mai usciti del tutto, non siamo più sereni. Quella giornata ci ha cambiato per sempre", ha dichiarato Giampiero Parete, il cuoco di Pescara sopravvissuto insieme alla moglie e ai due figli piccoli alla tragedia di Rigopiano. Come ricorda il Messaggero, Parete fu il primo a chiamare i soccorsi (che hanno ignorato inizialmente l'allarme) subito dopo aver visto crollare davanti a suoi occhi l'albergo. All'interno c'erano la moglie e i bimbi. E da lì è inziato l'incubo dal quale tutta la famiglia non riesce più a uscire. "Ma non è più come una volta. D'allora non abbiamo fatto più vacanze. Non ce la sentiamo. Sicuramente non andremo più a fare una settimana bianca", ha raccontato l'uomo al quotidiano. I suoi due figli di 9 e 11 anni sono rimasti traumatizzati da quanto accaduto. "La neve che prima amavano come tutti i bambini ora non la vogliono più vedere. Hanno paura. Quando ci è capitato di dover andare per qualche giorno fuori città, non in ferie, mi hanno chiesto: 'Papà, ma dobbiamo per forza andare in un albergo? Papà, ma sei sicuro che sia abbastanza resistente?' Volevano essere rassicurati sul fatto che non crollasse, che le strutture fossero solide. Prima della tragedia, era invece tutta un'altra cosa". L'uomo ha poi raccontato di essere in terapia con tutta la famiglia. "Siamo seguiti da uno psicologo, da cui ci rechiamo una volta a settimana. Il mese di gennaio poi per tutti noi è il periodo peggiore dell'anno, in cui affiorano alla memoria tanti ricordi negativi. È una specie di tabù". Sempre presente in tribunale per le udienze relative all'inchiesta sulla tragedia, Parete si è detto fiducioso. "Credo che la verità verrà fuori, anche se ci vorrà del tempo - ha affermato l'uomo -. Credo nel lavoro degli inquirenti. Io non mi espongo molto. Non parlo in generale perché mi reputo l'ultima ruota del carro. Nel senso che ci sono persone che hanno perso genitori, figli, fratelli, sorelle. Io invece ho a casa tutti i miei cari. Nutro un profondo rispetto per loro e soprattutto per coloro che non ci sono più. Gente che ho conosciuto, con cui ho parlato e con cui ho vissuto il loro ultimo giorno. È un peso che mi porterò per sempre".

Rigopiano, il padre di una vittima: "Quella lettera di scuse è una presa in giro”. Le Iene il 13 gennaio 2020. Il padre di Stefano Feniello, morto a 28 anni sotto la valanga che ha spazzato via l’Hotel Rigopiano, critica la lettera di scuse dell’ex capo della Mobile: "Scuse tardive: perché non ha detto alla Procura della telefonata del cameriere dell’hotel?”. Con Roberta Rei e Marco Fubini abbiamo raccontato tutti i punti oscuri di questa tragedia. "La lettera di scuse dell'ex capo della Squadra Mobile Pierfrancesco Muriana per quanto mi riguarda è una presa per i fondelli, le scuse sono assolutamente tardive”. A scrivere questo duro attacco è il papà di Stefano Feniello, una delle 29 vittime della tragedia del 18 gennaio 2017 a Rigopiano, dove una valanga di 40mila tonnellate ha spazzato via un hotel, seppellendo vive oltre 40 persone. Una tragedia di cui vi abbiamo raccontato nei servizi di Roberta Rei e Marco Fubini, nei quali vi abbiamo anche raccontato i troppi misteri, tra cui le richieste d’aiuto che sarebbero state ignorate e le telefonate che sarebbero sparite. Il papà di Stefano Feniello, morto a soli 28 anni, ha aggiunto: “Muriana avrebbe potuto dichiarare a suo tempo le colpe di Angelozzi (il colonnello della forestale, ndr.), come detto poi nel servizio de Le Iene. Ho saputo della sua esistenza dal servizio andato in onda in tv e su Facebook, l'indomani l'ho attaccato. Ecco perché oggi mi cita nella sua lettera di scuse. Perché non ha segnalato alla Procura quella telefonata? Avrebbe dovuto chiedere scusa subito dopo e dichiarare a chi di competenza quanto accaduto. Perché, invece, manca questa telefonata dal tabulato? Hanno cercato di coprirsi a vicenda, ma gli è andata male perché c'è stata gente che gli è stata col fiato sul collo. Sono personaggi squallidi. Mi fanno solo ridere”. Il riferimento sembra essere alla chiamata fatta in Prefettura il giorno della strage da parte del cameriere dell'hotel Gabriele D'Angelo. “Aveva capito che stava succedendo qualcosa di brutto”, ha raccontato il fratello gemello di Gabriele a Roberta Rei. Esattamente un mese fa il ministero guidato da Alfonso Bonafede si era costituito parte civile nei confronti degli imputati nel procedimento per il presunto depistaggio sul disastro all’hotel Rigopiano, tra cui l’ex prefetto di Pescara e altri 7 dirigenti pubblici. Una richiesta presentata dall'avvocatura dello Stato de L'Aquila nell'udienza preliminare a Pescara, in quanto il ministero ritiene che la condotta dei dirigenti della Prefettura avrebbe leso l'immagine e il prestigio della giustizia. Secondo i capi d'accusa "hanno pesantemente pregiudicato il funzionale e organico svolgimento dell'attività investigativa propria dell'Autorità procedente", si legge sull'atto. Intanto, dopo le 22 archiviazioni nel processo principale e mentre prosegue l’indagine sul presunto depistaggio, dopo i nostri servizi è stata aperta una nuova indagine.

Rigopiano, il ricordo di Francesca: 58 ore accanto al fidanzato morto. Debora Faravelli il 16/01/2020 su Notizie.it. Francesca Bronzi, sopravvissuta alla tragedia di Rigopiano, ha raccontato i dettagli dei giorni passati al buio sommersa dalla valanga. A tre anni dalla tragedia di Rigopiano in cui persero la vita 29 persone, la sopravvissuta Francesca Bronzi ha rievocato quei giorni trascorsi sotto la neve nell’attesa dei soccorsi. Insieme a lei c’era il fidanzato, che poi ha scoperto essere morto, e altri due ragazzi, Vincenzo e Giorgia.

Francesca Bronzi ricorda Rigopiano. Essendo tutto buio non aveva potuto rendersi conto del fatto che il fidanzato Stefano Feniello, che giaceva accanto a lei, aveva perso la vita. I due si erano recati nell’hotel il giorno prima della calamità per festeggiare i suoi 28 anni e i loro primi cinque anni assieme. Era una sorpresa del ragazzo, che aveva prenotato di nascosto. Di quelle terribili 58 ore passate sepolta vita sotto la valanga ha ricordato che con la torcia del telefono era riuscita a vedere la sua mano. Anche se l’ha sempre chiamato senza ricevere una sua risposta, non ha mai voluto crederlo morto. Queste le sue strazianti parole: “Volevo credere che fosse svenuto e sono rimasta lì sotto, tutto quel tempo, pensando a questo: lui è soltanto svenuto, presto ci tireranno fuori di qui e staremo bene“.

Le ore trascorse sotto la valanga. Ha spiegato che la percezione all’interno dell’hotel era completamente diversa da quanto accaduto in realtà. Lei e gli altri sopravvissuti erano infatti convinti che si fosse trattato di un terremoto. Non capivano infatti perché vi fossero rami conficcati tra neve e macerie. Fino a che i telefonini non si sono scaricati erano riusciti a percepire almeno il tempo che passava, ma quando si sono spenti a lei non è rimasto altro che pregare in attesa che qualcuno arrivasse a soccorrerli. Nella tasca della sua giacca ha anche trovato la foto di sua nonna morta tre settimane prima. L’ha presa, l’ha guardata e si è affidata a Dio. Non ha però nascosto il fatto che la paura di morire era molta, tanto da aver avuto un momento di sconforto in cui si è messa ad urlare. Temeva infatti che tutti fossero morti e che quindi nessuno avesse avvisato il paese della tragedia avvenuta. Poi la luce in fondo al tunnel. Sono giunti i soccorsi che non smetterà mai di ringraziare per averla estratta viva e con cui ancora dopo tre anni ha mantenuto un rapporto. Pensando a quei giorni, il primo ricordo che le è venuto in mente è stato quello di Stefano, con cui sognava di sposarsi e fare una famiglia. Della sua morte è venuta a sapere soltanto alcuni giorni dopo essere uscita dall’hotel.

Francesca, sepolta per 58 ore a Rigopiano: «Nel buio ho perso Stefano, ora lui è sempre con me». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. A distanza di tre anni dalla tragedia dell’hotel sommerso dalla valanga parla una delle superstiti, che perse il ragazzo: «Mi aveva fatto una sorpresa, sognavamo dei figli». «Con la torcia del telefono sono riuscita a vedere la mano di Stefano, era a un paio di metri da me. Al polso aveva l’orologio che gli avevo regalato io. Mi sono allungata, ho cercato in tutti i modi di muovermi e raggiunge quella mano finché sono arrivata a toccare le dita. Lo chiamavo ma non ha mai risposto. Non ho voluto pensarlo morto. Volevo credere che fosse svenuto e sono rimasta lì sotto, tutto quel tempo, pensando a questo: lui è soltanto svenuto, presto ci tireranno fuori di qui e staremo bene». Siamo nella cucina di casa sua a Montesilvano, vicino Pescara. Anzi no. Siamo a Rigopiano, sotto un cumulo spaventoso di neve, alberi, ghiaccio, macerie... Francesca Bronzi, 28 anni, ci porta con lei nei ricordi delle sue 58 ore da sepolta viva, sotto la valanga che ha sbriciolato, spostato, sommerso l’hotel Rigopiano e le vite di 29 persone. Fra quelle persone c’era anche Stefano Feniello. Il giorno prima della valanga — che venne giù il 18 gennaio del 2017 — Stefano e Francesca erano riusciti a salire fin lassù, in mezzo a muri altissimi di neve, per festeggiare i 28 anni di lui e i loro cinque anni assieme. «Aveva prenotato di nascosto, mi aveva fatto una sorpresa», ricorda lei mentre abbraccia Safira, il suo cagnolino.

Dove eravate lei e Stefano quando è arrivata la valanga?

«Davanti al caminetto, nella sala comune. All’improvviso è stato come se qualcuno avesse buttato giù una bomba dalla canna fumaria e siamo volati via. Quando tutto è finito c’era un caldo infernale, fumo e un odore tossico. Mi sono ritrovata rannicchiata, con le ginocchia al petto, ero volata via assieme alla poltrona sulla quale ero seduta e due travi si erano fermate a un centimetro dalla mia testa, sostenute proprio dalla poltrona. Una trave separava me da una coppia, Vincenzo e Giorgia. Eravamo finiti in spazi piccolissimi. Non si riusciva a respirare. Ho chiamato Stefano, all’inizio ho sentito come un lamento, flebile. Poi più nulla. A un certo punto non trovavo un filo d’aria pulita e ho detto: basta non ce la faccio più. Mi sono arresa, ho chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti, non c’era più né il caldo né quell’odore. Faceva un gran freddo, avevo addosso soltanto jeans e maglietta. E Stefano niente, non dava segni di vita».

Che cosa vedeva attorno a lei?

«Macerie, pezzi di arredamento. Quando ho illuminato la prima volta davanti a me mi sono spaventata perché ho visto le corna di un cervo: erano quelle che stavano sopra il caminetto, lì sotto però rendevano tutto più spettrale di quanto già fosse. E poi né io né Vincenzo e Giorgia capivamo perché ci fossero tutti quei rami, quei pezzi di albero conficcati fra neve e macerie... Perché eravamo convinti che fosse stato un terremoto, non una valanga».

C’erano state scosse già la mattina del 18.

«Sì, alcune le abbiamo sentite fortissime. La gente era spaventata, volevano tutti tornare a casa ma c’era troppa neve e nevicava ancora tantissimo. In attesa che arrivasse la turbina qualcuno andava fuori a spalare la neve dall’auto ma era inutile, dieci minuti dopo era di nuovo tutto coperto. Io e Stefano ci eravamo convinti ormai di dover passare lì una seconda notte. Il terremoto però preoccupava tutti, anche il personale che cercava di non darlo a vedere. Una scossa mi ha sorpreso mentre ero sotto la doccia e si è bloccata la porta. Mi ha salvato Stefano forzandola».

Torniamo sotto la valanga. Aveva la percezione del tempo?

«Sì. Finché i telefonini mio e di Giorgia non si sono scaricati abbiamo saputo che ora fosse. Ci dicevamo: ora arrivano i soccorsi, ora arrivano. Ma le ore passavano e non sentivamo niente. Vincenzo era vicino alla neve, ogni tanto ne prendeva un pezzetto e ci bagnavamo le labbra, ma era piena di vetri, rami. Io sentivo freddo e a un certo punto ho tirato con la forza il giubbino che era rimasto attaccato alla poltrona. Nella tasca ho trovato la foto di mia nonna, che io adoravo e che era morta tre settimane prima. Io sono credente, ho guardato quella foto e mi sono affidata a Dio. Ho pregato tantissimo. So che lì sotto qualcuno è stato accanto a me a controllare che finisse tutto bene».

Ha pensato che avrebbe potuto non farcela?

«Ho avuto un momento di sconforto, mi sono messa a urlare. Per fortuna c’erano Vincenzo e Giorgia, vicino a me. Lui cercava di incoraggiarci ma io avrei voluto sentire soltanto la voce di Stefano. La paura più grande era morire lentamente là sotto. Pensavo: e se sono morti tutti? Giù in paese penseranno che non si prendono i telefoni ma che stiamo bene. E come fanno a capire che abbiamo bisogno dei soccorsi? Quando si sono spenti i telefoni è stato spaventoso...»

Per il buio?

«Sì. Era un buio che quasi faceva male agli occhi tanto che era denso. La notte ha sempre una sua luce. Lì invece era il nulla. L’essenza del nulla. Il tempo era dilatato, lentissimo».

E poi finalmente sono arrivati i soccorsi.

«Abbiamo sentito una voce di un vigile del fuoco che diceva: c’è qualcuno? Ci sentite? Aveva l’accento toscano. Ho cominciato a piangere di gioia. Da quel momento a quando mi hanno tirata fuori sono passate 23 ore. Hanno salvato prima Vincenzo e Giorgia e io pensavo: se succede qualcosa proprio adesso? Una scossa... Quando vedi che ce l’hai quasi fatta diventi impaziente, vuoi uscire. E allora mi sono mossa, non so come mi sono infilata nel triangolino che ci permetteva di comunicare. Mi hanno passato del te, il più buono di tutta la mia vita. Quando sono finalmente riusciti a tirarmi per le spalle ho sentito un dolore allucinante alle gambe che per 58 ore erano rimaste attaccate al mio petto... I vigili del fuoco sono stati eccezionali, gente straordinaria che poi siamo andati a trovare, tutti e tre assieme. Erano Usar toscani («Usar: urban search and rescue», specializzati nel salvataggio sotto le macerie, ndr), con loro mantengo ancora oggi un rapporto bellissimo».

Qual è stata la prima persona cara che ha visto dopo i soccorritori?

«Mio padre. Lui e mamma hanno sentito che ero salva dalla televisione. Sono corsi in ospedale ad aspettare che arrivassi. Ricordo che mio padre si è inginocchiato accanto a me, mi accarezzava e piangeva. Non riusciva a credere che fossi viva e che avessi soltanto graffi e lividi».

Quando ha saputo che Stefano non c’era più?

«Alcuni giorni dopo».

Se adesso facciamo il suo nome, qui, qual è la prima immagine che le viene in mente?

«Lui che sorride. La sua voglia di futuro, di famiglia e di bambini. Ricordo la sua grinta, la sua dolcezza, la sua capacità di sorprendermi sempre».

Per esempio quando?

«Per esempio quando mi chiese di sposarlo. L’ha fatto scrivendolo sulla neve. Eravamo in vacanza in Alto Adige. Lo ha scritto e poi ha tirato fuori da un taschino questo (mostra l’anello diamante che porta al dito). Lo teneva in alto con i guantoni infilati, a momenti lo fa cascare in mezzo alla neve... È stato un giorno di felicità assoluta. Stefano è sempre qui, accanto a me».

Avevate una data per il matrimonio?

«Il 16 giugno del 2018. Avevamo bloccato la chiesa e il ristorante. Saremmo andati a vivere in un appartamento sotto casa dei suoi, in un paese qui vicino a Montesilvano. Io mi sono laureata in Scienze motorie nel 2014 ma poi ho cambiato i miei piani di vita e mi sono messa a lavorare in un negozio di un centro commerciale proprio perché volevamo sposarci e mettere su famiglia. Dopo Rigopiano ho provato a seguire la specializzazione, a Firenze. Ma ho capito che stavo fuggendo da qui e allora sono tornata. Oggi faccio consulenze per un’associazione che si occupa di consumatori».

Come vi eravate conosciuti con Stefano?

«Io sono appassionata di balli caraibici. Non avevo un partner per ballare e chiesi al ragazzo della mia palestra se conosceva qualcuno. Lui disse: ti presento un amico. Era Stefano».

Come si impara a convivere con un trauma così grande?

«Mi sto facendo aiutare da uno psicologo, e dalla fede. Il dramma della tragedia e delle mie ore sotto la valanga l’ho messo un po’ da parte. Per me il vero trauma è stato perdere lui. In questi tre anni mi sono concentrata soltanto su quello: cercare di accettare la sua perdita. Ma è difficile, fa male. Poi, certo: più passa il tempo e più tornano a galla anche i ricordi della tragedia. La neve adesso mi mette ansia soltanto a vederla».

È più andata a Rigopiano?

«Soltanto due volte, con delle amiche. È stato un po’ come andare a trovare Stefano. Lui è stato cremato ed è a casa sua ma per me andare lì sarebbe troppo doloroso. Troppe emozioni da gestire, non ce la farei».

Conserva messaggi, foto, chat di Stefano?

«Ho cambiato e cancellato tutto, le fotografie le ho scaricate su una memoria esterna. Questa è la casa dei miei genitori. Nella mia stanza c’era una fotografia di Stefano e io non ho voluto entrarci per due mesi. Poi un giorno l’ho tolta e ho ripreso a dormire nel mio letto. Mi sono cancellata dai social, ho chiuso il mio profilo Facebook. All’inizio non volevo che nessuno lo nominasse, solo io potevo. Non voglio che capiti per caso di averlo di fronte a me, non voglio inciampare nell’immagine del suo volto, non voglio che mi guardi dallo schermo del telefonino ogni volta che lo accendo. E invece voglio andare a cercarlo io ogni volta che ne sento il bisogno. Magari dieci, cento, mille volte al giorno ma solo quando lo decido io perché voglio passare un po’ di tempo e pensieri con lui. È una cosa fra me e lui. Se n’è andato ma non mi ha mai lasciata».