Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2019
LO SPETTACOLO E LO SPORT
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Scandali Stellari.
Demi Moore racconta: "Violentata a 15 anni".
Charlize Theron.
Brad Pitt e Angelina Jolie.
I Ritrovi delle Star.
Lorenzo Riva il super collezionista di Hollywood.
Benedetta Paravia.
Adelaide Manselli, ma tutti la conoscono con il nome di Anna Pannocchia.
Riconosciuti Figli d'arte. Camilli e gli altri.
Il maestro Riccardo Muti.
Plácido Domingo: l'highlander dell'opera.
Vittorio Grigolo: tenore rock.
Ezio Bosso ed “I Sani Cronici”.
Roberto Bolle ed i Ballerini.
L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona.
Canzoni stralunate.
Da Prince a Zucchero, le accuse di plagio più clamorose nella musica italiana.
Zucchero. Questa Italia non mi piace.
Nel nome di Mariele Ventre: gli eterni bambini dello Zecchino d’Oro.
I Tiromancino ed i Zampaglione.
Queste vuote teste di "Rap".
Chi decide cosa ascoltiamo?
Disco rotto. Meglio Live.
Ecco come funziona l'organizzazione dei concerti live in Italia.
Vercelli: sigilli a mille giostre in Italia autorizzate senza controlli in cambio di tangenti.
La storia non detta del Carnevale di Rio.
La Verità in tv è femmina. Roberta Petrelluzzi; Franca Leosini; Federica Sciarelli.
I 30 anni di “Un giorno in pretura”.
“Tutta la verità” sui casi controversi.
Blob Job di Marco Giusti.
La Claque non è Bue.
Se nei programmi passa quello che il pubblico vuole vedere.
La televisione si nutre del passato.
Televendita dell’arte.
Gli addetti stampa dello spettacolo: Enrico Lucherini.
Racconta Adriano Aragozzini.
Marracash.
Rino Barillari.
Giorgio Lotti.
Marcellino Radogna
Giovanni Ciacci.
Beppe Convertini.
Vieni avanti, Savoia: Emanuele Filiberto.
Gli influencer dello spettacolo & Company. Kim Kardashian, Chiara Biasi, Chiara Ferragni e Fedez, Giulia De Lellis, Greta Menchi, Valentina Pivati, Elisa Maino.
Maurizio Seymandi ed il telegattone.
I figli delle stelle.
Il bimbo di Benigni: Giorgio Cantarini.
Liam e Noel Gallagher. I fratelli coltelli degli Oasis.
Albertino.
Thegiornalisti.
I Cugini di Campagna.
Stefano De Martino.
Rocco Papaleo.
Rosanna Lambertucci.
Coez.
I Mogol.
Edoardo Bennato.
La vita normale del figlio di Bruce Springsteen.
Renato Zero.
Lino Capolicchio.
Non è la D'Urso.
Fuori la Ciccia. Vanessa Incontrada.
Andrea Delogu.
Michele Cucuzza.
Luca Sardella.
Amadeus ricorda gli anni bui.
Ilaria D’Amico.
Alessia Marcuzzi, un impensabile aneddoto.
Isola dei Famosi 2019: Riccardo Fogli e la verità sul tradimento.
Antonio Zequila: Er Mutanda.
Miriam Leone.
Dj Ringo.
Luca Argentero.
Camila Raznovich.
Selvaggia Lucarelli.
Barbara Chiappini.
Alba Parietti: “Alla camomilla dei buoni preferisco l’adrenalina dei cattivi”.
Lorella Cuccarini e Heather Parisi. Nemiche amatissime.
Viola Valentino.
Carolyn Smith.
Paola Ferrari.
Maurizio Costanzo e Maria De Filippi.
Maurizio Costanzo. Uno di Noi.
Pippo Baudo: «Non rimpiango niente (anzi, due cose)».
Smaila & Company. Le avventure dei Gatti di Vicolo Miracoli.
Enrico Vanzina.
I Montesano.
Lando Buzzanca.
Andrea Giordana.
Carlo Verdone.
Francesca Manzini.
La Super Simo.
Antonella Clerici, pop e imperfetta.
Fabio Volo.
Marisa Berenson.
Helmut Bergher: il diavolo.
Elisa Isoardi.
Le Parodi e la cucina.
Mara Maionchi: “la starlette”.
Levante.
Il Watusso Edoardo Vianello.
Fabio Rovazzi contro i superficiali.
Tiziano Ferro e l'amore.
Ezio Greggio vs Vittorio Feltri.
Massimo Boldi.
Enrico Brignano.
Stefano Accorsi.
Kasia Smutniak.
Francesca Barra.
Valeria Golino e le quote rosa.
Violante Placido.
Ornella Muti.
Silvio Berlusconi, la confessione di Carlo Freccero: "Perché devo tutto a lui".
Lucci tra Lele Mora e Emilio Fede.
Enrica Bonaccorti: "Perché mi hanno fatta fuori dalla tv”.
Gemma Galgani. Tina Cipollari. "Quanto prende al mese per fare la cafona".
L’irruenza di Magalli.
Caccia alla Volpe.
Nina Zilli.
Antonella Mosetti.
Art Attack Giovanni Muciaccia.
Antonio Lubrano: il difensore civico.
Manuela Blanchard: Manuela di Bim bum bam.
Simone Annicchiarico, l'astro nascente della tv scomparso.
Banfi e capelli.
Raffaella Carrà: "Se ho fatto delle cazzate è perché le avevo scelte io".
Marco Columbro: il templare.
Parla Carmen Russo ed Enzo Paolo Turchi.
Bertolino e il calcio per i bimbi delle favelas con la maglia dell’Inter.
Con Paolo Bonolis: addio “Libertà”.
Così diventai Carlo Conti.
Giorgio Panariello.
Parla Nek.
Ed Sheeran l'artista più ascoltato al mondo.
Alberto Camerini.
Marco Masini e la sfortuna.
L’ipocrisia su Mia Martini.
Loredana Bertè.
Grillo e Celentano. I Santoni della Tv. Ne parlano Michelle Hunziker, Antonio Ricci e Teo Teocoli.
Eros Ramazzotti.
Fiorello e il fastidio sui presunti compensi.
Rosalino Cellamare: detto Ron.
Parla il Pupo.
Sono Lory, non sono una santa.
Sabrina Paravicini: insultata perché malata.
Claudia Pandolfi.
Sara Tommasi.
Piera Degli Esposti.
Justine Mattera ed i colpi di culo…
Valentina Ruggeri: “Così George Clooney mi ha scelto..”
Dov’è la Vittoria (Risi)?
Le Donatella.
Viky Moore.
Sonia Eyes.
Franco Trentalance.
Davide Iovinella. Il calciatore porno.
Siffredi Family.
Amandha Fox a Pulsano.
Moana Conti.
Max Felicitas.
Valentine Demy.
LadyBlue – Angelica.
Veronica Rossi.
Sabrina Sabrok. Porno Satana.
Bridget the Midget - Cheryl Murphy: Porno sangue.
Malena. Filomena Mastromarino.
Valentina Nappi.
Carolina Abril.
Natalie Oliveros. Nome d'arte, Savanna Samson. Dal porno al Brunello.
Eva Henger.
Morena Capoccia.
Rossana Doll.
Omar Pedrini.
Ottavia Piccolo.
Miriana Trevisan.
Roberto Brunetti, “Er Patata”.
Tina Turner compie 80 anni.
Parla Stefania Casini.
Martina Smeraldi.
Milly D’Abbraccio.
Priscilla Salerno.
Giuseppe Povia.
Alanis Morissette.
Natalie Imbruglia.
Giordana Angi.
Piero Pelù.
Parla Giorgia.
Parla Luisa Corna.
Giorgio Mastrota.
Natalia Estrada senza rimpianti.
Parla Enrico Beruschi.
Parla Anna Maria Barbera.
Parla la cornuta Simona Izzo.
Parla il truffato Corrado Guzzanti.
Elena Santarelli e la guerra contro il tumore del figlio.
Si parla di Ambra Angiolini.
Francesco Renga.
Pamela Petrarolo.
Caterina Balivo.
Mara Venier.
Stella Manente.
Che allegria, c'è Diaco.
Chi è Alessio Orsingher marito di Pierluigi Diaco.
Aldo Baglio confessa.
Franco Battiato: il ritorno del maestro.
Memo Remigi.
Quelli di Propaganda Live.
Milva ne fa 80.
Ornella Vanoni: ragazza irresistibile.
Peppino di Capri, 80 anni e non sentirli.
Gli ABBA: i giganti del Pop.
Rosalina Neri.
Giovanna Ralli.
Cucinotta: “51 anni di magia grazie a Massimo Troisi”.
Martina Colombari.
Paola Turci.
Sabrina Salerno.
Dramma per Valentina Persia.
Si parla di Paola Barale.
Raz Degan.
Alena Seredova.
Eleonora Pedron.
La velina Mikaela Neaze Silva.
Lorena Bianchetti.
Bianca Guaccero.
Parla Rita Dalla Chiesa.
Ilary Blasi. Lady Totti.
Sylvie Lubamba riparte dalla moda.
Le Donatella tornano alla musica.
Ligabue tra Palco e realtà.
Le corna di Clizia Incorvaia a Francesco Sarcina.
Pippo Franco.
Christian De Sica.
Antonio Sorgentone.
Taylor Mega.
Giorgia Venturini.
Sara Manfuso.
Hoara Borselli.
Gigi Marzullo.
Vittoria Hyde: front woman dei Vittoria and the Hyde Park.
Alfonso Signorini.
Edwige Fenech.
Tony Sperandeo.
Gli Iglesias.
Michelle Pfeiffer.
Jennifer Aniston.
Benji & Fede.
Romina Mondello.
Daria Bignardi.
Federico Paciotti.
Giorgio Poi.
Michele Bravi e quell’incidente mortale.
Domenico Diele.
Sabrina Ferilli.
Mariana Rodriguez.
Giusy Ferreri.
Elodie: "Sexy come Rihanna? Magari..."
Francesco Gabbani.
Ermal Meta: «Così ho scoperto l’Italia».
Magari Mika.
Magari Moro.
Meglio Mora.
Fabio Concato.
Niccolò Fabi.
SECONDA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
1999-2009-2019. Pamela Prati: ogni dieci anni annuncia un matrimonio.
Carlo Taormina: “Se sono un grande avvocato…lo devo a mia moglie!”.
Il Matrimonio di Eva Grimaldi.
Ana Bettz, la cantante imprenditrice.
Gabriel Garko.
L’amore saffico delle Spice Girls.
I Porconi del Gangnam.
Corinne Clery.
Catherine Spaak. Quella sex symbol rivoluzionaria ed eterna.
Il Personaggio Platinette.
Guillermo Mariotto: “una gran mignotta”.
Malgioglio intervista Cristiano.
Comanda Vladimir Luxuria.
Asia Comanda, Morgan subisce.
Gianluca Grignani.
Benji e Fede bullizzati.
Diana Del Bufalo.
J-Ax insulta Matteo Salvini.
Fermato per furto il cantante Marco Carta.
Gerry Scotti.
Caduta Libera, il campione Nicolò Scalfi.
Caduta Libera. Il Campione Christian Fregoni.
Caduta Libera: battuto il campione Gabriele.
Giuseppe Cruciani: “Le mie passioni? La radio e le donne”.
Abramo Orlandini il maggiordomo di Vittorio Sgarbi.
Pio e Amedeo. I filosofi trash della tv.
Simona Tagli.
Ramona Badescu.
Mauro Marin.
La Gatta morta Marina La Rosa.
Al Gf la figlia d’arte Serena Rutelli.
Martina Nasoni, vincitrice del GF 2019
I guai di Gianni Nazzaro.
Gigi D’Alessio.
Gérard Depardieu.
Franca Valeri: non mi annoio.
Parla Lina Wertmüller.
Giancarlo Giannini.
Franco Zeffirelli teme la morte.
Guai, amori e Oscar di Vittorio Cecchi Gori.
Luca Barbareschi e "La mafia dei froci".
Lucrezia Lante della Rovere.
Il J'Accuse di Roman Polanski parla molto di sé e della sua "persecuzione".
Umberto Orsini si racconta.
Pierfrancesco Favino e le donne.
Nicolas Vaporidis.
Giulio Scarpati, il medico in famiglia.
Pupi Avati.
Ferzan Ozpetek.
Maurizio Ferrini.
Ficarra e Picone.
Lizzo.
Mary Rider.
Rebecca Volpetti.
Gabriele Paolini.
Alex Britti.
Juliette Binoche.
Marta Flavi.
Le Rodriguez.
Mario Lavezzi.
Saverio Raimondo.
Gianna Nannini.
Creedence Clearwater Revival.
Red Hot Chili Peppers.
Andrea Scanzi.
Arturo Brachetti.
Roberto D’Agostino.
Mandy Jean Prince in arte Prince.
Luana Borgia.
Angela Gritti.
Francesca Conti Cortecchia.
Costantino Vitagliano.
Giuliano Fildigrano in arte Julius.
Maria Giovanna Ferrante diventata Mary Rider.
Viviana Bazzani.
La confessione di Ivana Spagna.
Monica Bellucci: «Non mi spaventa il corpo che cambia».
Giovanni Allevi.
Ronn Moss: il Ridge di “Beautiful”.
Keanu Reeves. Quello che non sapevate di lui.
Renzo Arbore.
Marisa Laurito ed i falli.
Sandra Milo ed il Fisco.
Claudia Gerini: ho detto tanti no.
Stefani Sandrelli apre il cuore.
Max Pezzali e gli 8-8-3.
Enrico Ruggeri.
Cesare Cremonini.
I Morandi.
Francesco Facchinetti: “Io, Jim Carrey e quel folle weekend…”.
Daniele Bossari.
Cristina Chiabotto.
Parla Gino Paoli.
Shel Shapiro.
Francis Ford Coppola: l’ultimo Re di Hollywood.
Essere Martin Scorsese.
Clint Eastwood.
Giorgio Tirabassi.
Quentin Tarantino.
Oliver Stone.
Parla Carla Signoris.
Parla Vasco.
Achille Lauro come l' armatore.
Salmo e i concerti sulla nave.
I Linea 77.
Una vita da Madonna.
Miles Davis.
Michael Stipe ed i Rem.
Elton John.
Lodovica Comello.
I Ricchi e Poveri.
Giorgio Moroder: Viva gli anni Ottanta!
Tatti Sanguineti. Patate, patacche e "fake".
Fonzie e la sua vita da dislessico.
Robert De Niro e la famiglia arcobaleno.
Al Pacino.
Jack Nicholson, il ghigno folle dell'antieroe di Hollywood.
Il segreto della longevità: Kirk e Anne Douglas.
Sofia Loren.
Gina Lollobrigida.
Claudia Cardinale.
Sharon Stone.
Olivia Newton-John: la guerriera.
Il 2 volte premio Oscar Jodie Foster.
Diane Keaton ed il suo funerale.
Buon compleanno Meryl Streep: l'attrice compie 70 anni.
Britney Spears, dramma senza fine.
Anna Mazzamauro.
Milena Vukotic: «Ero per tutti la Pina di Fantozzi.
Ilona Staller ed i suoi cimeli.
Barbara Bouchet.
Ludovica Frasca.
Angela Cavagna.
Paola Caruso: ci è o ci fa.
Debora Caprioglio.
Serena Grandi.
I Pentimenti di Claudia Koll.
Anna Falchi.
Tinto Brass, una grappa, un sigaro e i trastulli della provincia italiana.
Chi guida la Lamborghini?
Frankie Hi NRG.
Arisa
Annalisa
Emma Marrone.
Alessandra Amoroso.
I Boomdabash.
Antonella Ruggiero e la sua voce.
Marcella è Bella.
Rita Pavone.
Donatella Rettore.
Caterina Caselli: «Ho battuto il cancro, e sono tornata».
Gerardina Trovato.
Lo Stato Sociale.
Sara Wilma Milani.
I 50 anni di Jennifer Lopez.
Paolo Conte.
Lucio Dalla Genio senza tempo.
Bob Dylan: perché è il cantautore più influente del rock.
Nunzia De Girolamo: “Finalmente è esplosa la mia femminilità”.
Nathalie Caldonazzo.
Dilettatevi con Diletta.
Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina».
Aida Yespica.
Loretta Goggi.
Danika Mori.
Alessandro Haber.
Tutto su Pedro Almodovar.
Antonio Banderas.
Brigitte Bardot: la prima vera animalista.
Delon, vittima di una cultura del linciaggio.
Il professor Jovanotti.
Pilar Fogliati.
Philippe Daverio.
Alberto Angela.
Giacobbo, misteri in tv e ossa rotte.
Federico Fazzuoli, storico conduttore di “Linea Verde”.
Daniela Martani.
Laura Chiatti.
Bella Hadid.
Patrizia De Black.
Massimo Giletti.
Claudio Cecchetto.
Maria Teresa Ruta.
Vinicio Capossela.
Marco Ferradini ed il suo Teorema.
Maddalena Corvaglia.
Lucia Sinigagliesi: la donna del del Guinness World Records.
Serena Enardu.
Gianluca Vacchi.
Alberto Dandolo.
Robbie Williams.
Bill Murray, l’outsider.
John Travolta.
Takagi & Ketra.
James Senese.
Paolo Brosio.
Giulia Calcaterra.
Guido Bagatta.
Claudio Lippi.
Trio Medusa.
Isabella Ferrari.
Giangiacomo Schiavi. Il regista che ha fondato la TV.
Milly Carlucci.
Lucia Bosé.
Mina.
Patty Pravo.
Serena Autieri.
I Bastards Sons of Dioniso.
Paolo Vallesi.
Stefano Zandri, in arte Den Harrow.
Ndg (acronimo del suo vero nome, Nicolò Di Girolamo).
Eleonora Giorgi.
Aiello.
William Shatner.
Gregoraci e Briatore.
Andrea Roncato.
Flavio Insinna: "Grazie a Fabrizio Frizzi sono un conduttore".
Stefania Nobile e Wanna Marchi.
Achille Bonito Oliva.
Da Vasco a Loren, storie (famose) dal carcere: quando attori e cantanti finiscono dietro le sbarre.
Amanda Lear: 80 anni d’arte tra Disco music, pittura e teatro.
Silvio Orlando.
Nina Moric.
Richard Gere.
Irina Shayk.
Paola Senatore.
Antonio Albanese Cetto La Qualunque.
I Ghini.
Alessandro Gassmann.
Silvio e Gabriele Muccino, fratelli-coltelli.
Mauro Pagani racconta Guccini.
Gianni Fantoni.
Emily Ratajkowski: "È difficile essere sexy".
Valentina Dallari.
Marco Mengoni.
I Negramaro.
Francesco Incandela.
Giulia Accardi, la modella curvy.
I Ristoratori Vip. Abbasso i cuochi d'artificio. Chef Rubio & compagni...
Oliviero Toscani.
Raoul Bova.
Malika Ayane.
Ricky Gianco.
Raf e D’Art.
Francesco Nuti.
Anna Galiena.
Claudio De Tommasi, vj storico.
Beatrice Venezi.
Susanna Torretta e il giallo della morte della contessa Vacca Agusta.
TERZA PARTE
SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
La cupola dei conflitti d’interesse ignorati.
Claudio Bisio il comunista.
Al Bano nella lista nera di Kiev.
Toto Cutugno viene bandito in Ucraina.
Sanremo 2019: i cantanti che hanno vinto più volte il festival.
Michele Torpedine: il talent scout.
Festival di Sanremo: le 25 canzoni più belle di sempre.
Presentatori Sanremo: tutti i “condottieri” del Festival della Canzone Italiana.
Sanremo: tutte le vallette che hanno partecipato al Festival.
Aneddoti, curiosità e drammi, amori e scandali a Sanremo.
Johnny Dorelli: «Modugno arrivò secondo e mi prese a schiaffi al Festival.
I 12 big che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo.
La biellese Gilda, vinse un Festival (minore).
Guida minima ai conflitti d’interesse di Baglioni.
Mahmood. Il vincitore politicamente corretto.
Simone Cristicchi e la sua “Abbi cura di me”.
Sanremo, 30 fatti poco noti della serata finale.
Sanremo, il Festival dalla A alla Z.
Troppi compagnucci? Per la Rai si vive di "contiguità amicale".
Litigi e battute, Sanremo specchio d'Italia.
"Aiutini", code, bufale: tutto ciò che non vedete in tv.
Sanremo 2019, settant’anni di canzoni, non sempre lo specchio del Paese.
Sanremo solo a Sinistra.
Sanremo, Iva Zanicchi: "Ospite? Devi essere di sinistra".
Sandro Giacobbe: “Sanremo non ha voluto la mia canzone per Genova”.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli italiani e lo sport? Ne parlano tanto... ma ne fanno poco.
Milano-Cortina, le olimpiadi ed il Movimento 5 cerchi.
Coni, i conti che non tornano.
Il Podista Fantozzi.
Great e quel record nazionale negato perché non ha cittadinanza.
Osvaldo ballerino, seconda vita: nel calcio ero solo un numero.
Berruti: «I miei inaspettati 80 anni Sono bi-bastone, non più bi-turbo».
Mi ritiro…e poi?
L'addio al campo. Paolo Silvio Mazzoleni.
Antonio Cassano.
Balotelli e le balotellate.
Roma. Edin Dzeko, Capitan passato e Capitan futuro.
Miralem Pjanic.
Messi è meglio di Cristiano Ronaldo.
Cristiano Ronaldo: il comunista.
Ronaldo (il Fenomeno).
Maradona nella casa del sonno.
Dino Zoff.
Albertosi. Nome ordinario, Enrico. Nome straordinario, Ricky.
Buffon: "Qui per aiutare dalla panca".
Gigi Riva.
Tardelli, dall’urlo al Mondiale: «Ho 65 anni, mi sento un ragazzino».
Non sa chi è Paolo Rossi?
Gianluca Pagliuca.
Claudio Marchisio saluta il mondo del calcio.
Samuel Eto'o lascia.
Genio e Sregolatezza: Paul Gascoigne.
Eric Cantona.
Zlatan Ibrahimovic: La Furia.
Maldini Family.
Fiorentina, ecco Ribery.
Gabriel Batistuta.
Icardi e le regole del Mobbing.
Sandro Mazzola.
Gianni Rivera.
Calcio Dotto (Emanuele).
Sandro Piccinini.
Che brutto il calcio moderno, ha tolto l’anima al pallone.
"Così ho fatto entrare Italia-Germania nel mito".
San Siro: la storia di un tempio del calcio (1926-2019).
Sla, ecco perché uccide i calciatori.
Davide Astori, la scoperta agghiacciante: tra il 1980 e il 2015 190 giovani atleti morti come lui.
Sport e demenza.
Beppe Marotta vs Fabio Paratici.
Pallonari. Figli di…
Il Calciomercato. Il Romanzo dell’Estate.
Calcio e business: ecco le plusvalenze delle squadre di Serie A.
Prestiti e panchine: così il calcio italiano brucia i suoi giovani talenti.
Calcio, quanto ci costa la sicurezza negli stadi.
Ladri di Sport e pure di Calcio.
Platini. Quei sospetti di corruzione sull’assegnazione al Qatar dei mondiali.
Quelli che…sono in fuorigioco.
Zdenek Zeman.
Non solo Allegri e Mihajlovic, guarda le sexy figlie dei mister.
Il Guerriero Mihajlovic.
Morta la bimba di Luis Enrique.
Silvio Baldini: l’anarchico.
Stiamo Allegri.
Giovanni Galeone.
Maurizio Sarri. Da bancario a banchiere.
Il Giramondo Stramaccioni.
Arrigo Sacchi: «Vendevo scarpe».
Antonio Conte e la stella in panchina.
Calcio: Ritiri ed Ammutinamenti.
Ancelotti 60.
Trapattoni ne fa 80.
Quando gli allenatori "marcano visita".
Quei grandi allenatori che a volte ritornano.
Calcio, da Simeone a Mazzone: quando l'esultanza degli allenatori è una provocazione.
Thohir lascia l'Inter con un capolavoro.
Palermo calcio, Zamparini ai domiciliari.
Razzismo: così il calcio italiano si sta ribellando.
Questo calcio "sessista" e la saggezza della Morace.
Violenza di genere: due pesi e due misure.
Il Calcio e l’ideologia.
Il marcio nascosto di Calciopoli.
Bruno Pizzul.
Ma Baggio è Baggio.
Il Calcetto è per vecchietti.
Roberto Mancini. Il Ct della Nazionale dei Record.
Gli Immortali del Calcio.
Francesca Schiavone ed il cancro.
Le Ombre sull'alpinismo.
Tania Cagnotto.
Valentino Rossi, i primi 40 anni del Dottore di Tavullia.
Formula Uno, Hamilton 6 volte campione del mondo.
La vita spericolata di Raikkonen.
Schumacher family.
Damiano Caruso e la mafia.
Vincenzo Nibali.
Mario Cipollini.
Saronni vs Moser.
La Maledizione del Tour.
Il Doping. Tutti dopati. Armostrog: anche senza si vince lo stesso.
L’affaire Marco Pantani.
Schwazer, una perizia dei Ris per provare la sua innocenza.
Marcello Fiasconaro il re degli 800.
Potenza della Fede.
Benedetta Pilato: non ho l’età.
Magnini si ribella dopo la squalifica.
Le memorie di Adriano Panatta.
Nicola Pietrangeli ed il funerale al Foro Italico.
Dino Meneghin.
Messner, il Re degli Ottomila a quota 75.
Messner…e gli altri.
La discesista Sofia Goggia.
Manfred Moelgg, le 300 gare del veterano dello sci.
Lorenzo Bernardi: Mister Secolo della pallavolo.
Chiude la palestra di Oliva. Salvava i bimbi dalla strada.
Ai Giochi 2020 la boxe data in appalto. La crisi nerissima dell’ex nobile arte.
Frankie Dettori.
Varenne va in pensione.
Gli Scacchi. Garry Kasparov.
I 70 anni del bigliardino.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
PRIMA PARTE
SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Scandali Stellari.
HOLLYWOOD FETISH! Da “Daily Mail” il 25 agosto 2019. Jenny Norback, nome d’arte Mistress Scarlett, è la dominatrice che soddisfa le fantasie sessuali di molte celebrità di Hollywood. Nel libro "The Scarlett letters", in uscita ad aprile, racconta di come attori, musicisti, sceneggiatori e registi la pagassero per essere frustati, picchiati e legati. Incontrava le star a feste fetish private ed esclusive, oppure la andavano a trovare nel suo "dungeon", ma ai nomi preferisce i soprannomi. Allude ad un attore strafamoso per il cui bacio uomini e donne farebbero carte false, che ama piuttosto essere sottomesso. La pagò profumatamente per tirare corde attaccate al piercing di una parte molto privata. Un altro è lo sceneggiatore che a letto si comporta come il personaggio più noto che abbia creato per il grande schermo. Spiega Jenny: «Aveva queste richieste superelaborate, scene dettagliate che voleva realizzare. Era divertente, insolita una simile immaginazione. Veniva con i costumi impeccabili ed era come una intera produzione». Secondo lei, a Los Angeles il fetish è così diffuso perché le celebrità sono contornate da "yes men", gente che dice loro sempre sì, e quindi vogliono provare ad essere dominate, spesso in modo violento.
Tim Teeman per “Daily Beast” il 21 ottobre 2019. Nel dicembre 2011, circa sette mesi prima di morire, l’86enne Gore Vidal disse all’amico Scotty Bowers: «Pensi che potresti portarmi Bob?». Ovvero Bob Atkinson, uno dei suoi gigolò preferiti, incontrato nel 1948. «A Gore piaceva Bob perché era stato in Marina e aveva un cazzo grosso come il braccio di un bimbo», spiega Bowers, che ha scritto il racconto della sua vita da pappone per i ricchi e famosi di Hollywood nel libro "Full Service: My Adventures in Hollywood and the Secret Sex Lives of the Stars". Su di lui Matt Tyrnauer ha fatto il documentario "Scotty and the Secret History of Hollywood", presentato sabato 11 novembre al New York Doc Festival. Libro e film sono ricchi di gossip (il 94enne ha fatto e organizzato molto sesso), spiegano come le vite sessuali delle celebrità siano state protette dai loro sudi e dagli stessi media. Bowers, benzinaio dell’Hollywood Blvd., faceva incontrare l’élite gay (e qualche etero arrapato). Fece sesso con Walter Pidgeon, Cole Porter (“Poteva fare pompini a 20 ragazzi, uno dietro l’altro, e ingoiava sempre), George Cukor (“succhiava cazzi con efficienza fredda e veloce”), Cary Grant e Randolph Scott (“Noi tre insieme facemmo molte marachelle sessuali”). Fece cose a tre anche con Edoardo VIII, Duca di Windsor (“Mi spompinava da professionista”) e Wallis Simpson (“di sicuro lei preferiva il sesso omosessuale”). Scrive Bowers: “Spencer Tracy mi prese il pene e iniziò a mordermi il prepuzio”, mentre Vivien Leigh “aveva un orgasmo dietro l’altro con lui, ognuno più rumoroso del precedente”. Con Noel Coward il sesso non era penetrativo ma strettamente orale, con Edith Piaf Bowers fece l’amore a lungo e lentamente, finché lei non si appisolò. Come Vidal, il suo amico faceva sesso con uomini e donne. A Charles Laughton piaceva mangiare escrementi di giovanotti nei suoi sandwich, Tyrone Power invece godeva a farsi urinare addosso. Montgomery Clift era schifiltoso e si lamentava se gli arrivava un pene di un millimetro più lungo. Qualcuno dubita della veridicità dei racconti di Bowers, ma molti lo ritengono onesto, attendibile, non in cerca di fama personale. Lo stesso Vidal ammise che il suo amico conosce tutti e non mente mai. Quindi nemmeno quando dice di aver fatto sesso con Vidal e con star come Rock Hudson, Tyrone Power, e Charles Laughton. Si incontrarono dopo la seconda guerra mondiale. La prima volta andarono in giro in Chevrolet per un’ora e mezza a guardare la "merce" (giovani gigolò hot): «Ovunque ti girassi, ce n’era qualcuno» dice Bowers. Per 20 dollari fissava appuntamenti fra clienti e gigolò. La prima sera lo fece uscire con uno studente americano. Gli piacque e tornò da lui, che gli presentò Bob Atkinson: «Gore aveva un cazzo di taglia media, circa 7 centimetri, sembrava circonciso ma non lo era. Gli piaceva più penetrare che essere penetrato, ma con Bob si faceva penetrare. Non faceva sesso con tutti gli uomini che gli presentavo, a volte gli piaceva solo parlare con loro». Le poche volte che Bowers fece sesso con Vidal fu “piacevole, non amore folle”. Vidal "non era timido, ma piuttosto aggressivo e insistente. Sessualmente faceva tutto. Succhiava il cazzo, si faceva succhiare, ma preferiva scopare. Noi due abbiamo scopato, giocavamo con i rispettivi cazzi. Ti prendeva il cazzo e boom, consumava velocemente". Prosegue nel racconto: «Gore mi chiese il favore di farlo incontrare con il mio amico Tyrone Power, in cambio accettò di unire al sesso Charles Laughton. Non era il suo tipo, Charles era un vecchio porco, ma volevano conoscersi. Lo stesso fu con Tyrone Power». Bowers ricorda che a una festa Jacqueline Kennedy si infilò in stanza con un uomo: «Si parla sempre di JFK che scopava a destra e a sinistra, ma anche lei era una regolare sgualdrinella. Veniva qui per vedersi con William Holden. Grace Kelly faceva lo stesso. Quando io mi organizzai con il duca e la duchessa di Windsor, organizzai per loro un incontro al "Beverly Hills hotel". Lei era il capo, lui era timido. Fu lei a dirgli come ci si comportava con i ragazzi: «Succhiagli il cazzo, fai questo, fai quello». L’incontro fra Vidal e Power andò così: «Gore mise il cazzo fra le gambe di Tyrone e lo scopò. Poi si spompinarono. Charles e Gore se lo succhiarono e ovviamente a Tyrone piaceva farsi pisciare addosso, perciò lo facemmo. Gore non se lo fece ripetere due volte». Bowers presentò Vidal a Rock Hudson: “Scopammo in tre prima nel periodo in cui stava diventando un attore famoso. Gore ci fece pressoché tutto. Iniziarono con una pomiciata, poi penetrò Rock. Rock aveva un bagno turco e ci infilammo lì. Gore gli strofinava e gli succhiava l’uccello. Pomiciavamo, succhiavamo, scopavamo. Lo facemmo a tre una dozzina di volte e sono certo che loro due lo abbiano fatto anche per conto proprio. E sono sicuro che Gore glielo mise nel culo». (Richard Harrison, ex modello e attore che frequentava la palestra di Rock Hudson, rammenta: «Si sedeva in sauna e il suo cazzo era così grosso che arrivava al gradino di sotto. Tutti i ragazzi se ne lamentavano, ma lui non lo usava, gli piaceva prenderlo). Vidal chiese a Bowers di presentargli James Dean: «Gli dissi che Jimmy aveva un cazzetto ma glielo presentai lo stesso. Gore ci uscì pensando di volerci fare sesso, ma invece lo mandò al diavolo. Gli presentai dozzine di persone, anche in Italia. Erano dei tipi che ricordavano uno studente americano pulito. Niente capelli lunghi o troppi muscoli. Erano scelti in base all’immagine dell’amore adolescenziale di Vidal, ovvero Jimmie Trimble (morto a Iwo Jima). Lo menzionava spesso. Ne era infatuato, fu uno dei suoi primi amori. Vidal aveva un sano appetito sessuale ma il ragazzo doveva piacergli. Veniva da me e mi indicava: ‘Ecco, mi piace quel tipo’. Non sempre erano più giovani. I suoi assistenti erano belli, ma non so se ci abbia fatto sesso. Di certo, lui infilava la mano a toccarti il cazzo, era quel tipo lì. Tutti lo sapevano. Non so se fece sesso con Paul Newman. Non è una cosa impossibile. Diceva che Paul lo aveva fatto con gli uomini». A Gore non piaceva essere descritto come gay, perché al tempo significava essere effeminato, camp, freak, fuori dalla società: «Diceva sempre. "Faccio sesso con gli uomini ma non sono gay". Dal suo aspetto non avresti detto che era gay. Non si comportava come tale. Negli anni ’80, quando cominciò l’AIDS, era preoccupato dei nuovi incontri. Ma al principio pensò che avrebbe escluso gli uomini che sembravano malati e dato una possibilità a quelli dall’aspetto sano». L’HIV cambiò i suoi comportamenti sessuali? «Ha incontrato qualcuno, per farsi una sega, senza toccare. Non l’ho mai visto usare un preservativo, ma potrebbe averlo fatto. Era comunque un attivo, non un passivo, perciò correva meno rischi. Una volta volle guardarmi mentre scopavo con una donna che gli piaceva. Si masturbò guardandoci. Avevo anche un bel ragazzo gay, che Gore volle scoparsi». Bowers poi conobbe Howard Austen, il compagno con il quale Vidal restò per 52 anni: «Howard usciva a rimorchiare e condivideva con Vidal. Non pescava solo dalla strada, c’erano anche altri giovanotti disponibili. Howard in generale rimorchiava più di Gore. Erano una bella coppia, ti facevano sentire a casa. Era una relazione alla pari, andavano d’accordo come due soci, onesti. Facevano tutto in modo grazioso, mai pacchiano». Vidal non espresse mai gradimento per i minorenni: «Che diamine, no! I ragazzi che gli procuravo all’inizio erano della sua stessa età. Quando invecchiò, avevano tra i 20 e i 30 anni. In Italia lui e Howard rimorchiavano ventenni. Quando Howard morì, nel 2003, Gore metteva i suoi cd e piangeva a dirotto. Lo amava molto». Vidal continuò ancora frequentare gigolò: «Non nel suo ultimo anno. Stava sulla sedia a rotelle e non si muoveva bene, ma voleva guardare. A casa sua c’erano bellocci trentenni, ma non succedeva niente. Pensava di voler andare a letto con qualcuno, invece desiderava solo compagnia». Bowers non fu l’unico pappone al quale Vidal si rivolse negli ultimi anni. Usò per anni anche i servizi di Dave Damon: «Era simpatico, uno dei più grandi rimorchiatori al mondo. Eravamo diversi: io chiamavo solo gente che conoscevo personalmente, lui non aveva idea di chi ti portasse a casa». L’ultima apparizione pubblica di Vidal fu alla presentazione del libro di Bowers, nel 2012 allo Chateau Marmont, poi ci fu il declino fisico: «Era tremendo vederlo ridotto così, alla fine. Era un uomo meraviglioso, dolce, arrabbiato per come veniva gestito il nostro paese». Bowers tiene in vita la tradizione del non mettere nessuna etichetta quando si tratta di sesso: «L’ultima volta che ho fatto sesso con un tizio è stato una settimana fa, con un 95enne. Ma ancora mi capitano anche più giovani». E a sua moglie Lois sta bene così.
DAGONEWS il 5 novembre 2019. Il capitano della barca sulla quale è stata vista per l'ultima volta l'attrice Natalie Wood prima di annegare in circostanze misteriose ha rilasciato un’intervista a quasi 40 anni dalla sua morte. In un'intervista esclusiva con il dottor Oz, Dennis Davern ha descritto la stanza in cui Wood e il marito Robert Wagner avevano avuto una rissa esplosiva prima che lei morisse, e come l'attore Christopher Walken sia scoppiato a piangere dopo aver appreso della sua scomparsa. «Sembrava che una tempesta avesse attraversato quella stanza. C’era un casino. Ho trovato uno dei suoi orecchini, era stato gettato in un angolo – ha detto Davern - Non so se le era stato strappato dall'orecchio o cosa, ma c'era un orecchino in un angolo. I cuscini erano dappertutto. La stanza era un disastro. C'era stata una battaglia lì dentro». Il corpo di Wood, 43 anni, fu trovato al largo della costa dell'isola di Catalina, nel sud della California, dopo essere scomparsa dallo yacht della coppia, lo Splendor, nel novembre 1981. Il caso affascinò il pubblico dopo che emersero una serie di dettagli contrastanti sulle circostanze che portarono alla morte. All'epoca, Wood stava girando il film di fantascienza “Brainstorm” ed era stata in gita sullo yacht nel fine settimana con Wagner, Davern e il co-protagonista Christopher Walken. Davern ha rivelato il momento in cui l'attore è scoppiato in lacrime quando ha saputo che era scomparsa: «Non ha detto una parola, ha solo pianto. Era devastato». La causa della morte di Wood, inizialmente archiviata come annegamento accidentale, è stata successivamente cambiata in "annegamento collegato ad altri fattori indeterminati", dopo che il dipartimento dello sceriffo di Los Angeles ha riaperto le indagini. Davern ha presentato nuove prove nel 2011 dopo aver detto agli investigatori che Wood aveva remato in un gommone, anche se era noto per essere terrorizzata dall'acqua scura. Ha affermato anche di aver visto Wagner discutere sul ponte con Wood e che l'uomo lo aveva costretto a stare in silenzio.
Il figlio dell'attore che ha interpretato Tarzan uccide la madre a coltellate. Il figlio dell'attore che ha interpretato Tarzan in tv negli anni '60, ha ucciso la madre a coltellate e l'omicidio ha sconvolto il cuore della California. Carlo Lanna, Giovedì 17/10/2019, su Il Giornale. Un brutale omicidio è avvenuto in California. La vittima è Valerie Lundeen Ely, 62 anni, moglie di Ron Ely, attore che negli anni ’60 ha portato in tv il mito di Tarzan. Come riporta Il Corriere, la donna sarebbe stata uccisa dal figlio trentenne della coppia e, fino ad ora, il movente dell’omicidio ancora non è stato rivelato alla stampa. Dopo una chiamata al 911, la polizia ha trovato il corpo della donna senza vita con ferite multiple sul corpo. Una volta che gli agenti hanno parlato con Ron Ely, il trentenne Cameron è stato identificato come killer. Il figlio della coppia, qualche minuto dopo, è stato trovato fuori l’abitazione di Hope Ranch, sobborgo di lusso sito in Santa Barbara. Il trentenne, secondo le autorità, avrebbe rappresentato una minaccia e, quattro di loro, avrebbe aperto il fuoco finendo per uccidere il giovane. Le dinamiche comunque sono ancora al vaglio degli inquirenti. Un grave lutto per la vita di Ron Ely. L’attore è conosciuto principalmente per aver preso parte, dal 1966 al 1968 alla serie tv ispirata alla vita di Tarzan, in onda in America sul canale della NBC e che ha riscosso anche un notevole successo. Successivamente ha preso parte a diversi film d’azione fino a quando non ha condotto negli anni ’80 un quiz musicale. Nel 2014 è la sua ultima apparizione in tv.
La moglie dell’attore che interpretò Tarzan uccisa a coltellate dal figlio. Pubblicato giovedì, 17 ottobre 2019 da Corriere.it. La moglie dell’attore americano Ron Ely, celebre per aver interpretato Tarzan, alla metà degli anni’60 in un popolare sceneggiato tv, è stata pugnalata a morte nella loro casa in California dal loro figlio trentenne, che è stato poi colpito e ucciso a colpi di pistola dai vicesceriffo locali. Rispondendo a una chiamata fatta al 911, le autorità hanno trovato Valerie Lundeen Ely, 62 anni, morta con ferite multiple da arma da taglio. Gli agenti hanno parlato con Ron e hanno identificato suo figlio, il 30enne Cameron, come sospettato, e lo hanno trovato fuori dalla loro abitazione di Hope Ranch, un sobborgo di case di lusso vicino Santa Barbara in California. Le autorità affermano che il giovane ha rappresentato una minaccia per gli agenti e quattro di loro hanno aperto il fuoco uccidendolo. Ron Ely, 81 anni, è conosciuto in particolare per aver interpretato Tarzan nell’omonima serie della Nbc degli anni 1966-1968, ma è stato anche il protagonista del film d’azione "Doc Savage, l’uomo di bronzo" del 1975 e per aver condotto un quiz musicale sulle tv americane « Face the Music» negli anni’80. La sua ultima apparizione risale al 2014 nel film tv Expecting Amish.
Da tgcom24.mediaset.it il 17 ottobre 2019. Vero e proprio dramma familiare per l'attore americano Ron Ely, celebre per aver interpretato Tarzan nell'omonima serie della Nbc degli anni 60: la moglie è stata pugnalata a morte nella loro casa in California dal loro figlio trentenne, che successivamente è stato ucciso a colpi di pistola dai vicesceriffo locali, intervenuti sul luogo del delitto. La ricostruzione dei fatti parte da una richiesta di aiuto fatta al 911. Le autorità hanno trovato Valerie Lundeen Ely, 62 anni, morta con ferite multiple da arma da taglio. Gli agenti hanno parlato con l'attore e hanno identificato suo figlio, il 30enne Cameron, come sospettato, e lo hanno trovato fuori dalla loro abitazione di Hope Ranch, sobborgo di case di lusso vicino Santa Barbara in California. Ron Ely ha indicato il figlio come l'autore dell'omicidio. Secondo le autorità il giovane avrebbe rappresentato una minaccia per gli agenti e quattro di loro hanno aperto il fuoco, uccidendolo.
LA CARRIERA DI RON - L'interpretazione che ha dato maggiore popolarità a Ron Ely è sicuramente quella di Tarzan nella serie TV in onda su NBC dal 1966 al 1968. In seguito l'attore ha recitato anche in altre serie come "The Aquanatus", "L'uomo del mare", interpretando un Superman "alternativo" in "Superboy" fino ad apparizione a cavallo tra fine Novanta e Duemila in "Renegade" e "Sheena.
«Ho smascherato un predatore sessuale. Le accuse di Asia reggono». Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 da Corriere.it In «Predatori» Ronan Farrow racconta l'inchiesta che scatenò il #metoo: i ricatti ... «Sto andando a fare un'intervista» dissi a mia sorella Dylan. Frugai tra i contatti del telefono e rimasi per un attimo indeciso se chiamare un numero che non sentivo da tempo. «Sto andando a fare un’intervista» dissi a mia sorella Dylan.«A un’attrice famosa. Accusa una persona molto potente di un reato piuttosto grave». (…) Al telefono, quel giorno di febbraio, rimase un attimo in silenzio. «E mi chiedi un consiglio?» disse infine. Le sue accuse e le domande che erano rimaste in sospeso tra noi in merito al mio aver fatto abbastanza, e averlo fatto in tempo, per sostenerla, avevano messo una distanza tra noi che nelle foto della nostra infanzia non c’era. «Sì, ti chiedo un consiglio» dissi. Sospirò. «Be’, questa è la parte peggiore. La massa di pensieri. L’attesa che la storia esca. Ma una volta uscita è tutto molto più facile. Dovresti dirle soltanto di tenere duro. È come strappare via un cerotto». «Se riesci a incastrarlo» aggiunse Dylan «non fartelo scappare, d’accordo?» Nel frattempo, anche Weinstein stava dandosi da fare per conto suo. Mentre settembre lasciava il posto a ottobre, si rivolse alla figura chiave delle sue rivendicazioni su un possibile conflitto d’interesse. Chiese a una delle assistenti di fare la telefonata. Su un set cinematografico di Central Park, un’altra assistente allungò il telefono a Woody Allen. A Weinstein serviva un manuale d’istruzioni strategico, per respingere le accuse di molestie sessuali e per sapere come comportarsi con me. «Come hai affrontato la faccenda?» chiese Weinstein a un certo punto. Chiese ad Allen di intercedere in qualche modo. Allen scartò immediatamente la proposta, ma ribatté che la sua esperienza poteva tornargli utile. Quella settimana, le ricevute della carta di credito di Weinstein registrarono l’acquisto di un libro di interviste scritto da uno degli ammiratori incalliti di Allen, che documentava tutti gli argomenti schierati in campo da lui e dal suo esercito di investigatori privati e addetti stampa per infangare la credibilità di mia sorella, del pubblico ministero e di un giudice che aveva ipotizzato che la ragazza stesse dicendo la verità. «Gesù, mi spiace davvero tanto» disse Allen a Weinstein al telefono. «Buona fortuna». Quando i revisori cominciarono a chiamare le fonti a tappeto, Weinstein raddoppiò le minacce. Il primo lunedì di ottobre mandò al «New Yorker» la prima lettera dei suoi avvocati. (…) La lettera risentiva chiaramente della recente conversazione di Weinstein con Woody Allen. Harder (uno degli avvocati di Weinstein, ndr) dedicava diverse pagine all’argomentazione secondo cui l’aggressione sessuale ai danni di mia sorella mi rendeva inadatto a occuparmi di Weinstein. «Il signor Farrow ha diritto alla sua rabbia privata» scrisse Harder. «Ma nessun editore dovrebbe permettere che questi sentimenti personali creino e diano sostanza a un’inchiesta infondata e diffamatoria nata dalla sua animosità personale». A qualche isolato di distanza, mi sedetti a una scrivania libera del «New Yorker» e chiamai la Weinstein Company per avere un commento. Il receptionist con cui parlai mi disse in tono nervoso che avrebbe controllato se Weinstein era disponibile. Poi udii la familiare voce roca baritonale. «Wow!» disse con entusiasmo beffardo. «A cosa devo l’onore?» Il fiume di inchiostro scritto su di lui prima e dopo di rado si soffermava su questo aspetto: era piuttosto divertente. Ma era facile non accorgersene quando passava fulmineamente alla rabbia (…). «Non sei riuscito a salvare una persona a cui volevi bene e adesso pensi di poter salvare tutti». Lo disse sul serio. Veniva da credere che stesse brandendo un detonatore contro Aquaman. La prima volta che vidi mia sorella Dylan dopo l’uscita degli articoli, lei saltò in piedi e mi abbracciò. (…) Ripassai mentalmente immagini di Dylan e me (...) Ricordai mentre posizionavamo quei mitici re e draghi di peltro, e il risuonare di una voce adulta che la chiamava. L’espressione spaventata, terrorizzata. La sua richiesta: se mi succede qualcosa di brutto, verrai ad aiutarmi? E io che glielo promettevo. In campagna, con la figlia che ci sgambettava intorno, mi disse che era orgogliosa dell’inchiesta. Era grata. Sapeva che era stata dura. E qui le mancò la voce. «Nessuna storia per te» dissi. Ogni volta che aveva raccontato la sua storia, da bambina e anche in seguito, aveva sempre avuto la sensazione che le persone si voltassero dall’altra parte. «Giusto» rispose lei. Per ogni storia raccontata, ce n’erano innumerevoli altre, come la sua, che non lo erano state. Asia Argento incarnava, più di ogni altra fonte, un groviglio di contraddizioni. Dopo aver partecipato alla mia inchiesta, raggiunse un accordo economico con un attore, Jimmy Bennett, il quale sosteneva che Asia aveva fatto sesso con lui quando aveva diciassette anni. (...) la stampa sottolineò la contraddizione stridente fra l’uso di un accordo di riservatezza da parte dell’attrice e le sue accuse di essere vittima di uno che li impiegava d’abitudine. Quest’ultima vicenda non ha alcun riflesso su una verità incontrovertibile: la storia di Asia Argento su Harvey Weinstein reggeva, corroborata da resoconti di testimoni oculari e di persone cui era stata riferita all’epoca. I perpetratori di abusi sessuali possono anche essere dei sopravvissuti. Ma questa idea ha poco credito in un ambiente dove ci si aspetta che le vittime siano dei santi, o altrimenti vengono liquidate come peccatori (…). Nel corso delle telefonate di quell’autunno, Asia sembrava consapevole che la sua reputazione era troppo compromessa, che l’ambiente in Italia era troppo feroce perché lei potesse sopravvivere al processo. (...) Mentre l’attrice si dibatteva nell’indecisione, il suo compagno, lo chef Anthony Bourdain, intercedette più volte. Le disse di andare avanti, che ne valeva la pena, che avrebbe fatto la differenza. Argento decise di parlare pubblicamente. Quella sera, mentre uscivo dal lavoro, Remnick mi chiamò per dirmi di essere stato contattato dal compagno di Asia Argento, Anthony Bourdain. In passato Bourdain aveva appoggiato l’intenzione di Asia di parlare, ma avvertii lo stesso un tuffo al cuore: spessissimo le donne che avevano deciso di tirarsi indietro lo avevano fatto per intervento di un marito, un fidanzato, un padre. Essere contattati da figure significative di rado era foriero di buone notizie. Ma tutte le regole hanno delle eccezioni: Bourdain aveva detto a Remnick che il comportamento predatorio di Weinstein era nauseante, che «tutti» lo avevano saputo per troppo tempo. «Non sono religioso» aveva scritto. «Ma prego che abbiate la forza per pubblicare questa storia».
Silvia Nucini per ''Vanity Fair'' il 22 ottobre 2019. Domenica pomeriggio. Devo mettermi in contatto con un numero a New York, ma per due volte mi comunicano variazioni del numero stesso. L’ultima prevede che io chiami un server italiano, digiti un codice segreto attivo solo per 45 minuti, rimanga un po’ in attesa ascoltando una musica da ascensore e poi venga collegata con il mio interlocutore, Ronan Farrow. Trentun anni nascosti sotto una faccia che definire angelica è una semplificazione, Farrow è figlio dell’attrice Mia Farrow e del regista Woody Allen (ma per le illazioni vedi box a pag. 76) e soffre da sempre della sindrome «il più giovane della stanza». Nella sua, di stanza, racconta la mamma Mia, si chiudeva a leggere La metamorfosi di Kafka. «Era alle elementari», specifica. Lo iscrivono al college a 11 anni, a 15 si laurea in filosofia. A 22 anni prende un dottorato in legge a Yale e lavora prima con Obama e poi con il segretario di Stato Hillary Clinton. A 25 ha voglia di riprendere gli studi, vince la borsa di studio Rhodes e va a Oxford dove fa un dottorato in filosofia. Intanto compare nella lista dei meglio vestiti al mondo di Vanity Fair America. Mentre è a Oxford pensa che non gli dispiacerebbe fare il giornalista. Torna in America, comincia a lavorare e, quattro anni dopo, vince – insieme alle colleghe del New York Times che hanno indagato sullo stesso scandalo – un Pulitzer grazie all’inchiesta, pubblicata sul New Yorker, in cui svela la storia di molestie e abusi sessuali a carico del potentissimo produttore di Hollywood Harvey Weinstein – faccia da orco, modi arroganti – accusato da un’ottantina di donne tra cui l’attrice e regista Asia Argento. A meno di due anni dall’uscita di quell’articolo – seguito da molti altri approfondimenti su nuovi filoni della storia – Farrow pubblica Predatori, una monumentale inchiesta nell’inchiesta in cui il giornalista racconta i retroscena della sua attività investigativa e della complicata rete di pressioni, connivenze, ricatti e spionaggio messa in moto da Harvey Weinstein per intimidire le vittime delle sue aggressioni e ostacolare il lavoro investigativo del giornalista. Nel libro, sottoposto al rigoroso fact checking (si racconta di una telefonata di controllo con la Nbc durata 10 ore), si fanno tutti i nomi e i cognomi e c’è chi, come il pluricitato Dylan Howard, vicepresidente del gruppo Ami che controlla numerosi media americani, come il National Enquirer, ha cercato di bloccarne la pubblicazione, minacciando di fare causa alle librerie che lo hanno ordinato. È soprattutto per tutelarsi da ogni rischio di censura preventiva, e per proteggere alcune testimonianze inedite, che sto chiamando New York componendo il prefisso di Roma.
La voce allegra, ma stanca, che mi risponde all’altro capo di questa triangolazione telefonica è la fotografia perfetta dello stato d’animo di Farrow.
«Sono esausto, ma orgoglioso. Questo libro è un atto d’amore e di coraggio da parte delle donne che mi hanno parlato senza risparmiarsi». Tra queste c’è anche sua sorella Dylan, che da tempo accusa il loro padre, Woody Allen, di averla molestata quando aveva sette anni. Farrow, che non ha rapporti con il regista, racconta che quando Harvey Weinstein viene a sapere che il giornalista sta indagando su di lui, chiama Allen per chiedergli una mano. «Gesù, mi dispiace tanto. Buona fortuna», risponde il regista. E sembra di vederlo pronunciare questa frase che assomiglia alla battuta di un suo film.
Predatori, in inglese, si intitola Catch and Kill che è il metodo che utilizza una certa stampa per insabbiare gli scandali, tenendo le notizie nel cassetto per proteggere i colpevoli. Crede che aver smascherato questo meccanismo cambierà il modo in cui i media gestiscono certe notizie?
«Il metodo “Catch and Kill” è metafora di un meccanismo più ampio in cui sistemi giuridici, politici e di informazione cospirano per mettere a tacere la verità e intimidire chi la cerca. Prima di pubblicarle, non so mai che effetti sortiranno le mie inchieste, ma credo che le cose che racconto in questo libro siano inoppugnabili e creino un precedente dal quale in poi dovremmo sempre chiederci, quando abbiamo a che fare con certi mondi, se chi ha il potere non stia dirottando il sistema e manipolando l’opinione pubblica».
Harvey Weinstein aveva creato, per proteggersi, una rete di spionaggio di cui lei stesso è stato vittima. Nel libro racconta di aver cambiato temporaneamente casa durante l’inchiesta. Ha temuto davvero per la sua vita?
«Sono stato sempre molto consapevole che il rischio che correvo era relativo: vivo in un Paese in cui i giornalisti sono protetti dal Primo Emendamento. E so bene che, se facessi inchieste sul potere in Pakistan o in Russia, correrei rischi molto più seri. Ma le complicate strategie – con coinvolgimento della società di intelligence privata israeliana Black Cube – che sono state messe in atto nei miei confronti sono la dimostrazione di quanto la libertà di stampa sia fragile anche nei Paesi democratici. Non penso che i giornalisti americani dovrebbero essere sorvegliati, intimiditi e minacciati. E invece succede. Abbiamo bisogno di editori e direttori coraggiosi, come quelli del New Yorker che hanno salvato e pubblicato la mia inchiesta. Cosa che invece la Nbc, l’emittente televisiva per la quale lavoravo durante la mia indagine, non ha fatto. Bloccando, con la scusa che non fosse completo, la messa in onda del servizio».
Nel libro non cita mai il movimento #MeToo . Perché?
«Ho detto spesso che ammiro le attiviste che stanno cercando di attuare un cambiamento della società e considero Tarana Burke, la donna che ha coniato il termine #MeToo , un’eroina. Tutto questo esiste ed è il fondale delle mie storie, del tributo al coraggio delle mie fonti. Penso, come recita la vecchia regola del giornalismo, che sia sempre meglio “show, don’t tell”, mostrare piuttosto che raccontare. Mi sembra più utile, per esempio, parlare di mia sorella Dylan che prende coraggio e dà la sua prima intervista televisiva, piuttosto che dedicare un capitolo al movimento».
Parlando di Dylan, lei ammette, come fratello, di non aver fatto abbastanza.
«Per me era importante che potessi scrivere liberamente delle accuse di mia sorella e anche che potessi ammettere che sono una di quelle persone che vivono accanto a una vittima e le dicono di lasciare perdere, e tacere. Per molti anni ho ritenuto ciò che era accaduto un disturbo, qualcosa che la stava distraendo dal farsi una vita e una carriera, e che la stava lentamente distruggendo. Ma quando finalmente l’ho ascoltata davvero, e ho capito quanto fossero convincenti le sue affermazioni, mi sono reso conto che il suo rifiuto di tacere era un grande gesto di coraggio. E che io avevo sempre sbagliato».
La sua inchiesta su Weinstein e anche questo libro, i cui disegni all’inizio di ogni capitolo sono di Dylan, costituiscono per lei una qualche forma di risarcimento nei confronti di sua sorella?
«Questa vicenda è qualcosa che va oltre lei e oltre me, e riguarda lo schema, che ho ritrovato praticamente in ogni storia che ho raccolto, in cui c’è una donna che vuole parlare e un fratello, un padre, un compagno che le dice di tacere. Spero che quello che è accaduto a me possa essere d’esempio per altre persone».
Harvey Weinstein, in una lettera inviata ai suoi capi alla Nbc, affermava che lei non fosse la persona giusta a cui lasciar fare questo genere di inchieste, a causa della sua storia famigliare. Non pensa, invece, che sia vero il contrario, che lei è stata la persona giusta proprio per la sua storia famigliare?
«Tutti i giornalisti che negli anni hanno cominciato a girare intorno a questa inchiesta, senza poi riuscire a portarla a termine, si sono molto appassionati e sono diventati sensibili al tema. Se qualcuno si appassiona e si ossessiona, mi sembra solo il segno che è un bravo giornalista. Non credo proprio di aver avuto un conflitto di interessi nel trattare questa storia, semplicemente, come ogni giornalista che mette il dito dove qualcuno non vorrebbe, sono diventato oggetto di attacchi personali. È brutale e scorretto, ma fa parte dei rischi del mestiere. A guardarle in retrospettiva, quelle illazioni non sono altro che i tentativi di un uomo disperato pronto a tutto pur di farmi tacere: purtroppo ha trovato chi lo ascoltava alla Nbc. Il sistema dei predatori si sosteneva».
Nel libro, tra le altre, c’è la dolorosissima testimonianza di Brooke Nevils, sua ex collega alla Nbc la cui denuncia, finora rimasta senza nome, portò al licenziamento di Matt Lauer, star del programma televisivo Today , che abusò di lei ripetutamente e violentemente.
«Il suo è un caso emblematico di come certi fatti non vengano poi negati da chi li ha commessi, ma gli venga attribuito un senso diverso. Lauer disse di avere avuto con lei una relazione. Ma la donna ha argomentazioni convincenti, basate su elementi concreti, per affermare che quello che è accaduto non è stato affatto consensuale. Quindi gravissimo».
La storia è piena di artisti e personaggi famosi, che non abbiamo mai smesso di ricordare e omaggiare, nonostante in privato fossero esseri umani deplorevoli. È giusto separare il valore artistico e politico delle persone dalla loro vita privata? E perché, invece, in questa vicenda alcune persone sono state ostracizzate e condannate all’oblio?
«Penso ci siano forme di potere e privilegio che alleggeriscono alcuni dalle loro responsabilità: i soldi, il successo nelle arti o in campo scientifico. Si trova sempre una buona scusa quando il sistema si corrompe, così i criminali possono agire indisturbati, fare del male ad altre persone, quando è evidente che andrebbero, invece, fermati. È un problema culturale generale, non solo del mondo artistico: si chiude un occhio di fronte ai potenti. Io non credo, come giornalista e come avvocato, che dovremmo mai proteggere dalle loro responsabilità le persone, anche se sono dei grandi talenti. La legge deve essere ugualmente dura verso chi ha potere e chi non ce l’ha, verso chi eccelle in qualcosa, come verso chi non sa fare nulla»
Dopo l’esplosione del #MeToo si è fatto un gran parlare, in Italia e in Europa, di come la linea di demarcazione tra seduzione e molestia sia stata confusa dall’atteggiamento radicale della corrente americana del movimento. Che cosa ne pensa?
«Le mie inchieste parlano di accuse serie e circostanziate di abusi sessuali».
Una molestia è tale ovunque o cambia a seconda del contesto culturale in cui avviene?
«Sono un avvocato, tendo a usare le parole secondo il loro senso da un punto di vista legale. Se vuole sapere se i contesti culturali modificano, nel tempo, il senso alle cose, la risposta è: certamente».
Gli atteggiamenti predatori sono sempre esistiti o Weinstein e gli altri sono figli della nostra cultura?
«Sono sempre esistiti e le donne hanno anche sempre parlato. La differenza, ora, è che vengono ascoltate».
Aver scoperchiato questo verminaio ha cambiato il suo modo di guardare alle cose?
«Non avrei mai scritto Predatori se pensassi che è una storia senza speranza. Questa speranza me la danno persone come Sleeper, la fonte segreta – posso solo dire che è una donna e che per me è diventata un’eroina del #MeToo – che mi ha aiutato, dall’interno, a scoprire le attività di spionaggio di Black Cube o come Igor Ostrovskiy, investigatore privato (la sua bio di twitter recita “investigatore con una coscienza”, ndr) incaricato di pedinarmi che, a un certo punto, ha capito che cosa stava facendo e mi ha contattato per dirmi che era emigrato in America ispirato da certi valori che stava infrangendo. Questa non è solo una storia che parla di come si possa occultare la verità, ma di come, ogni volta che è avvenuto qualcosa di sbagliato, ci sia stato un testimone disposto a denunciare. Il libro contiene una proposta di matrimonio al suo compagno Jon Lovett. Ho voluto far vedere che cosa significa lavorare a inchieste così impegnative, e non potevo nascondere quanto il lavoro avesse messo a repentaglio la mia relazione. Io, come tutti quelli che svolgono professioni complicate, ho bisogno del sostegno di chi mi sta intorno, e Jon è stato la mia forza. Quindi sì, gli ho chiesto di sposarmi. Lo ha scoperto leggendo le bozze del libro. Fortunatamente mi ha detto di sì».
QUALCOSA E’ CAMBIATO (E IL #METOO HA ROTTO IL MENGA). Valerio Cappelli per il “Corriere della sera” il 14 agosto 2019. In una rete di accuse di molestie è finito il pesce più grosso della scena musicale. Placido Domingo, il più celebre tenore al mondo, è accusato da 51 tra cantanti, ballerine, musiciste, impiegate dei teatri: alcune denunciano pressioni sessuali per avere ingaggi, e un diniego - riporta l'Associated Press , che ha condotto l' inchiesta - le danneggiava professionalmente. Negli Stati Uniti la risposta è stata immediata: Domingo è sovrintendente della Los Angeles Opera, che in un comunicato ha subito promesso di «assumere consiglieri esterni» per indagare. E l' Orchestra di Filadelfia ha già disdetto la sua partecipazione alla serata d' apertura a settembre. Il Festival di Salisburgo, invece, dove Domingo canterà il 25 agosto nella Luisa Miller , si è schierato con lui. La presidente Helga Rabl-Stadler: «Lo conosco da 25 anni e oltre che dalla sua competenza sono rimasta impressionata fin dall' inizio dal modo in cui si rivolge agli impiegati del Festival, che conosce per nome». Fa una citazione in latino, in dubio pro reo , «nel dubbio, a favore dell' imputato». E poi: «È irresponsabile arrivare ora a sentenze. Canterà da noi come previsto». Tutte le voci contro il tenore per ora sono anonime, tranne il mezzosoprano Patricia Wulf, che aveva cantato all' Opera di Washington con lui. «Mi addolora sentire di avere irritato o messo a disagio chiunque», ha detto Domingo. «Credo che le mie interazioni e amicizie siano sempre state consensuali. Chi mi conosce sa che non sono il tipo che intenzionalmente offende, fa del male o mette in imbarazzo. Ma mi rendo conto che i ruoli e gli standard, oggi, sono differenti dal passato». Le accuse vanno dalla fine degli anni 80 al 2000. Una donna ha detto che Domingo ha allungato la mano sotto la sua gonna, altre tre sarebbero state forzate a baciarlo in camerino, negli hotel o in altre occasioni. «Una mano sul ginocchio a un pranzo di lavoro è strana», ha detto una. Domingo si sarebbe fatto avanti con drink e cene. In molte erano state preavvertite da colleghe: «Non restate da sole con lui in ascensore». Secondo una voce, il cantante avrebbe messo 10 dollari sulla credenza dopo un rapporto in un hotel: «Non voglio che ti senta una prostituta, ma non voglio nemmeno che paghi tu il parcheggio dell' auto». Domingo, 78 anni, ha affermato che «accuse anonime così lontane nel tempo sono preoccupanti e imprecise». L' anonimato, secondo tante donne coinvolte, è «per paura di rappresaglie o umiliazioni pubbliche: lavoriamo ancora nel mondo della musica».
“IL #METOO? OGNI CACCIA ALLA STREGA PRIMA O POI FINISCE”. Riccardo Staglianò per “il Venerdì - la Repubblica” il 16 agosto 2019. Credevano fosse amore e invece era un fine settimana a New York. E pioveva. Questa è la versione Twitter della trama dell' ultimo, travagliato film di Woody Allen. C' è un romantico Gatsby che a vent' anni veste le stesse giacche di tweed dell' ottantatreenne regista, suona al piano Everything Happens to Me scritta nel 1940 da Matt Dennis e, invece di optare per una stanza su Airbnb, prende una suite a un simil-Plaza con vista su Central Park. C'è la sua fidanzata Ashleigh, sirenetta dell' Arizona in trasferta, che fatalmente si invaghisce prima del regista anzianotto che deve intervistare, poi di un attore che la invita a cena puntando al dopocena. I dolori del giovane Gatsby crescono nell' attesa. Fin quando non incontra Selena Gomez ex-star Disney che ha 28 anni ma ne dimostra 16 scarsi, e su Un giorno di pioggia a New York torna il sereno. La quarantanovesima pellicola del cineasta più genialmente nevrotico di sempre è da un anno ferma al palo perché Amazon non vuole più distribuirla in ragione del ricicciamento di polverose accuse di molestie contro l' autore (già demolite da un giudice) da parte di Dylan, figlia adottiva di Mia Farrow e dello stesso Allen. Fortunatamente il film uscirà il 10 ottobre in Italia via Lucky Red, e in Germania e Spagna. Sapendo quanto sia diventato parossistico il clima sulle improprietà sessuali a Hollywood e quanti riverberi autobiografici certi spunti di finzione potranno avere, sorprende che il regista abbia replicato lo schema nabokoviano. Evidentemente per Allen l' idea platonica dell' amore non sopravvive alla maggiore età. Ma una cosa è il codice penale, che lo scagiona, altra è la polizia morale che lasciamo ai sogni più scatenati del Family Day di Verona. Mi sembra più utile, per farsi un' idea del tipo di dialettica interna alla coppia che probabilmente ci farebbe digrignare i denti se riguardasse un nostro caro amico, leggersi il colloquio che l' anno scorso Babi Christina Engelhardt ha avuto con Hollywood Reporter. Nel '76 era una modella sedicenne dalla bellezza contundente. Ebbe per otto anni una storia con Allen, allora quarantunenne. È lei la vera Tracy di Manhattan. Dice: «È stata una storia d' amore che mi ha reso ciò che sono adesso. Non ho alcun rimorso». #MeToo e Amazon, da accordi preliminari con la produzione che l' ha resa possibile, sono le due parole tabù della conversazione che segue. Allen si trova a Milano per la regia teatrale del Gianni Schicchi di Puccini. Alle due in punto, davanti alla porta del camerino alla Scala che scopriremo essere grande come un mini-appartamento liberamente ispirato a Versailles, si accalcano quattro addetti. Nessuno osa bussare, se non quando arriva la sua publicist personale. L' uomo che ci accoglie, con una camicia button down kaki su un paio di pantaloni di cotone kaki e un paio di scarpe stringate color ciliegia, è l' icona più celebre dell' umorismo ebraico newyorchese, con i soliti occhiali e solo la voce leggermente meno squillante di un tempo. A un certo punto il fratello confida a Gatsby che non intende più sposare la compagna perché trova la sua risata insopportabile. Lo sconsolato commento è: «Ci sono così tante cose che possono rovinare un rapporto».
Vero, ma esiste una via di salvezza?
«È una delle cose tristi della vita. Le relazioni tra uomini e donne hanno un' accordatura molto fine e delicata. Se nel suo organismo manca anche un piccolo elemento, tipo lo zinco o il ferro, può avere anche tutti gli altri ma quella singola mancanza alla fine la può uccidere. Lo stesso avviene nelle relazioni. Devi avere tutto, altrimenti falliscono. O continuano tra troppi conflitti».
Restando nella metafora, magari può aiutare qualche integratore?
«Certo, c' è chi prova con la terapia di coppia, chi con lo yoga, a volte funziona ma non troppo spesso. Le cose che ti fanno star bene, avere una barca o guardare il baseball o fare una passeggiata in montagna, sono quelle che aspetti con trepidazione. Se invece stare insieme diventa un lavoro - molta gente dice della propria relazione "bisogna lavorarci" -, un' incombenza, allora non è più divertente. Le relazioni dipendono moltissimo dalla fortuna».
Che tipo di relazioni aveva all'età di Gatsby e Ashleigh?
«Io mi sono sposato per la prima volta a vent' anni. Era una ragazza molto carina ed è stata una svolta importante perché il matrimonio ci ha costretto a uscire dalla casa dei genitori, trasferirci a Manhattan e cominciare a lavorare e guadagnare. Siamo stati sposati per qualche anno e poi ci siamo allontanati, naturalmente. Ma siamo ancora amici adesso che lei ha ottant' anni».
Cosa ha imparato da allora?
«Mah, che è essenzialmente fortuna. Poi, ovvio, devi imparare come si litiga e fare un passo indietro affinché le abitudini seccanti dell' altra persona non ti feriscano troppo. Imparare la tolleranza. Ma il grosso lo fa la fortuna dell' incontro».
Pollard, il regista del film, è così deluso dei suoi ultimi lavori che pensa di smettere. Ho letto che lei era talmente insoddisfatto di Manhattan, il capolavoro di cui ora si festeggia il quarantennale, che non voleva che United Artists lo distribuisse. Com' è possibile?
«Non c' è alcuna correlazione tra gusti del pubblico e dell' autore. Quando finisco un film il più delle volte lo trovo deludente rispetto a come l'avevo scritto. Vedo un sacco di errori. Nel caso di Manhattan mi sembrava eccessivamente predicatorio, didascalico, avevo spiegato e detto troppo. Il messaggio del film non si deve mai trovare in bocca a un personaggio. Altre volte invece faccio un film, come Hollywood Ending, che a me piaceva molto e non è piaciuto quasi a nessuno. Raramente, come in Match Point, trovo invece che è venuto esattamente come doveva venire. La verità è che quando scrivi è tutto perfetto ma poi, come dice il mio amico Marshall Brickman, "ogni giorno sul set arriva un camion pieno di nuovi compromessi". Vorresti 200 comparse ma hai i soldi solo per 50 e così via».
Gatsby, seppur molto giovane, va dallo psicoanalista. Pensa ancora che salvi la vita?
«Io ci sono sempre andato. Per me funziona, certo meno di quanto uno desidererebbe, ma aiuta. Credo che se ognuno si fermasse per un' ora al giorno per parlare dei suoi sentimenti più profondi senza inibizioni a un professionista che ascolta, anche senza dire niente, col tempo comincerebbe a capire delle cose sul suo conto. C' è gente che non si ferma mai a pensare a se stessa».
A un certo punto fa dire a un personaggio che tutti i giornali sono tabloid, affamati di gossip: lo crede anche lei?
«No, sono un grande fan dei giornali. Ho fatto un film che si intitola Scoop e volevo fare prima il giornalista sportivo, poi mi ha affascinato la cronaca nera. Ho sempre avuto un'idea epica del giornalismo, col cronista che scopre qualcosa che alla fine salva il tipo dalla sedia elettrica. Penso che sia uno dei pochi mestieri al tempo stesso drammatici ed eccitanti».
La battuta più amara del film è «Il tempo vola. E vola in economy». Come si attrezza per la traversata?
«Purtroppo è la verità. Passa alla svelta per tutti, poveri o ricchi, ed è un viaggio assai scomodo. Ciò però non ha cambiato la mia routine. Sul lavoro sono stato molto fortunato ma esistenzialmente sono nella stessa barca di tutti, gli sfortunati e quelli con molto più successo di me. Come ho mostrato una volta in un film (Stardust Memories) siamo passeggeri di treni diversi ma tutti con la stessa destinazione finale».
Ha qualche trucco per non pensarci?
«Certo, dal momento che non c' è niente che puoi fare, almeno bisogna provare a non pensarci. Distrarsi. Qualcuno lo fa guardando il calcio, o aiutando gli altri, o drogandosi ma alla fine proviamo tutti a nasconderci da una realtà molto spiacevole, per evitare che ci paralizzi».
Ai tempi di Manhattan stilò una lista di «ragioni per cui valeva la pena vivere». L'ha aggiornata da allora?
«All' epoca una spettatrice mi mandò una lettera per rimproverarmi di non aver incluso i figli. Ma io non ne avevo ancora. Adesso non farei mai l' errore di non citare le mie due figlie Manzie e Bechet».
Di quella lista non esiste più il ristorante Elaine's. Perché era così speciale?
«Ci ho cenato tutte le sere per dieci anni, allo stesso tavolo. Fuori poteva esserci una tormenta di neve, magari era mezzanotte ma dentro incontravi il sindaco di New York, i campioni del basketball, Antonioni, Fellini o Simone de Beauvoir. Era incredibile! Un posto unico, al contempo tranquillo e rilassato. Non ci sarà mai più niente del genere».
Le abitudini sono il suo forte. A partire dal font Windsor EF Elongated dei titoli dei film.
«Certo! Quando ho cominciato tutti spendevano un sacco di soldi per i titoli mentre io volevo spenderne solo per il film. Quindi ho trovato quel carattere, che bastava per tutto ciò che volevo dire. Coi soldi che risparmiavo ci potevo prendere 10 comparse o due giorni di riprese in più».
Registi preferiti? Persone che la fanno ridere?
«Scorsese, sempre amato, o Francis Ford Coppola, ma anche Paul T. Anderson. Sono i primi che mi vengono in mente. Quanto al ridere, buona domanda: lo scrittore S.J. Perelman mi fa ridere sonoramente: non devo impegnarmi, l' onere del divertimento è tutto su di lui. Rido anche con vecchi film, con W.C. Fields o Groucho Marx. Poi guardo il comico Mort Sahl, è un genio che potrei stare a guardare tutto il giorno, ma non mi fa ridere a bocca aperta come gli altri citati. Non conosco i comici contemporanei perché non vado più nei locali. In tv, quando torno da cena alle 10 o alle 11, vedo giusto un po' di baseball o i tg. E non guardo le serie. So che sono buone, perché gente che rispetto mi dice "questa è magnifica", ma il mio stile di vita non mi mette in contatto con loro».
In che modo il pubblico europeo è diverso da quello americano?
«Il vostro è più sofisticato. Quando noi guardavamo stupidaggini con Doris Day voi avevate già a che fare con Fellini. Eravate più adulti. Noi abbiamo sempre un piede nell' escapismo mentre voi fate film più duri, conflittuali. Però, nonostante le dicerie, i miei film che vanno bene in America tendono ad andar bene anche in Europa».
Qualche tempo fa Philip Roth, con mossa piuttosto rara, annunciò che avrebbe smesso di scrivere perché sentiva di aver dato il meglio. Mai sfiorato da tentazioni simili?
«No, Roth era una persona molto più profonda, intelligente e colta di me. Io farò film sin quando qualcuno mi pagherà per farli».
E quando non lavora cosa fa?
«Niente, perché lavoro sempre. Ma diciamo che mi sveglio presto, faccio un po' di tapis roulant, mi metto a scrivere a macchina (non ho un computer), pranzo con mia moglie, lavoro un altro po', mi alleno al clarinetto e andiamo a cena fuori. È una vita tranquilla dove non succede niente ma che a me va benissimo. Monotona e bella. Scrivo sette giorni alla settimana. Sul letto. Mi diverte come altri si divertono a pescare. L' anno prossimo uscirà una mia autobiografia (il #MeToo aveva osteggiato anche quella). È tanto che non scrivo per il New Yorker perché ormai non c' è più spazio: metà della pagina è presa dalle illustrazioni! E non ci sono altri posti dove pubblicare scrittura comica. Oggi c' è molta più politica».
A proposito, com' è per lei vivere nell' America trumpiana?
«Che posso dire? Significa Trump 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. Io l'ho diretto in Celebrity, ma sono stremato dal vederlo dappertutto. Mai vista una copertura analoga. È come uno tsunami di pubblicità. Vorrei anche altre notizie, i risultati di baseball, le critiche teatrali. Sul suo conto non c' è niente da dire che non sia già stato detto migliaia di volte».
So che non vuole parlarne, ma non coglie una discreta ironia nel fatto che l'aver fatto alle donne le cose che Trump ha detto di aver fatto non gli abbiamo impedito di diventare presidente mentre lei è vittima da anni di una campagna di riprovazione intensissima?
«Colgo un milione di ironie! Che posso dire? Ha a che fare con i meccanismi di ciò che diventa notizia, che fa comprare i giornali o accendere la tv. E se sei un personaggio pubblico devi abituarti. E comunque sono cose che vanno e vengono. Ho sempre pensato che l' unica risposta sia alzarsi presto e sgobbare senza sosta. Me lo ricordo da quando ho iniziato: non leggere le recensioni, non credere quando scrivono che sei un genio o un idiota. Non pensare ai soldi ma solo a lavorare bene. Così avrai abbastanza per campare, con un pubblico, magari piccolo, e tutto il resto andrà a posto da solo. È il modo in cui ho vissuto la mia vita. Sveglia presto, dopo quello stupidissimo tapis roulant - lo odio! -, e mettersi sotto a scrivere. Non vado alle prime dei miei film, non vado alle feste, vivo una vita tranquilla di solo lavoro».
Ma crede che, alla fine, la caccia alle streghe finirà?
«Tutte le cacce alle streghe finiscono prima o poi. Per definizione non sono una buona cosa. Tendono a esaurirsi col tempo, si smorzano fino a spegnersi».
“LA CACCIA ALLE STREGHE FINISCE PRIMA O POI”. Gloria Satta per “il Messaggero” il 25 agosto 2019. Parola d'ordine: resistere, resistere, resistere. «Spero di girare film il più a lungo possibile. E finché c'è qualcuno pronto a finanziarmi, vado avanti», sussurra Woody Allen, sorriso triste, solito maglione di shetland, modi da gentiluomo d'altri tempi. «Come mi sento? Più ansioso e vulnerabile che mai. Ma a 83 anni non mi lascio sorprendere da niente». Facile capire a cosa il regista si riferisce, anche se per suo espresso desiderio restano fuori dalla suite dell'elegante Hotel Le Bristol di Parigi, proprio le tempeste recenti che hanno investito la sua vita: le nuove accuse di abusi da parte di Dylan, la figlia adottata con Mia Farrow (e smontate già vent'anni fa dalla magistratura), l'ostracismo degli editori americani decisi a non pubblicare le sue memorie, il rifiuto di Amazon di distribuire negli Usa il nuovo film Un giorno di pioggia a New York, il 50mo (il regista ha fatto causa per 68 milioni di dollari), la condanna del protagonista Timothée Chalamet e del movimento #MeToo. Convinto che «la caccia alle streghe finirà», come ha detto di recente, Woody oggi parla della commedia romantica Un giorno di pioggia a New York, nelle sale italiane il 10 ottobre distribuita da Lucky Red. Al centro della storia due giovanissimi fidanzati (Gatsby interpretato da Chalamet, 23, e Ashleigh portata sullo schermo da Elle Fanning, 21) che, nel corso di un week end a Manhattan, faranno incontri inaspettati, vivranno avventure impreviste e impareranno a crescere. Al cast si aggiungono Selena Gomez, Jude Law, Liv Schreiber, Rebecca Hall, Diego Luna. I fan del regista ritroveranno dialoghi scoppiettanti, scorci struggenti della città, vecchie giacche spigate di Ralph Lauren, cene eleganti nell'Upper East Side, musei, puttane bellissime e sagaci, musica degli Anni 40.
Prima di tutto, è contento di essere a Parigi?
«Sì, anche se sono stanchissimo: ho appena finito di girare in Spagna, a San Sebastian, un film provvisoriamente intitolato Rifkin's Festival. Il lavoro è la mia vita».
In Un giorno di pioggia a New York Schreiber fa un regista che rinnega il proprio film. Capita anche a lei?
«Spesso. Finché scrivo e scelgo gli attori mi sento fortissimo, ma quando vedo il lavoro fatto rimango deluso. La realtà è diversa da come la immagini».
Gatsby, nel film, è molto romantico: le somiglia?
«Sì. Anche se gli altri mi percepiscono come un uomo spiritoso e divertente, io ho sempre avuto un'anima sentimentale. Non compaio più nei miei film perché sono troppo vecchio per interpretare un ruolo romantico».
Come mai ha scelto Chalamet che, dopo le accuse di Dylan, ha dichiarato di essersi pentito di aver lavorato con lei e devoluto il suo compenso alle organizzazioni anti-molestie?
«Timothée mi è stato segnalato dallo scenografo Santo Loquasto che l'aveva visto in teatro. L'ho incontrato, mi è piaciuto e l'ho scritturato. Non me ne pento, è stato bravissimo soprattutto nel recepire tutto quello che di mio aveva il suo personaggio».
Come sono i ventenni di oggi rispetto all'epoca in cui lei aveva la stessa età?
«Sono molto più intelligenti e sofisticati. Sanno tutto di sesso, droga, politica. Io ero molto più terra-terra».
Ha mai giocato a poker, come Gatsby?
«Certo. Nel 1967, quando girai in Gran Bretagna un film orrendo, Casinò Royale, giocavo a carte tutte le sere per arrotondare. E mentre gli altri si divertivano, io ero serissimo: da un full o un poker dipendeva la mia sopravvivenza».
Dica la verità, si sente più europeo che americano?
«Mi sento molto fortunato perché da ben 50 anni, dai tempi di Prendi i soldi e scappa, l'Europa accoglie i miei film a braccia aperte. Non ho mai capito perché, forse migliorano quando vengono tradotti».
È anche più facile, per lei, trovare i finanziamenti nel Vecchio Continente?
«Io prendo i soldi dove li trovo. Negli Stati Uniti i produttori pretendono di mettere bocca nel mio lavoro. In Europa, invece, mi lasciano totalmente libero».
Com'è, dal suo punto di vista, l'America di Donald Trump?
«Frenetica. Sono un democratico e alle presidenziali ho appoggiato Hillary Clinton, convinto che Trump non potesse vincere. Mi sono sbagliato e ora aspetto le prossime elezioni per assistere alla rivincita dei democratici».
Che ricordo ha del presidente quando, nel 1998, ha fatto l'attore nel suo film Celebrity?
«Trump è stato bravissimo. Sul set era curioso, faceva tutto quello che gli chiedevo e sapeva a memoria le battute. Oggi, come presidente, è tutta un'altra cosa!».
Ha mai subito una censura, si è imposto a volte dei limiti?
«I miei film non sono mai stati censurati in nessuna parte del mondo. Mi è capitato di rado di cancellare una battuta perché temevo che potesse offendere qualcuno».
Vale ancora la mitica lista delle 10 cose per cui vale vivere, da lei letta nel suo film Manhattan?
«Oggi che sono padre di due figlie (Manzie e Bechett, adottate con Soon-yi, ndr), aggiungerei la paternità. Tutta la mia vita ruota ormai torno alle ragazze e a mia moglie, dalla scelta dei film da vedere ai ristoranti».
Pensa che lo streaming finirà per uccidere le sale?
«Quello che sta succedendo mi rende molto triste. Sono cresciuto convinto che andare al cinema fosse uno dei grandi piaceri della vita: il sabato sera con la ragazza, la domenica pomeriggio con la famiglia. Non ha eguali il fascino della sala buia in cui dei personaggi carismatici parlano dal grande schermo. Non è la stessa cosa guardarli sul computer come fanno le mie figlie. Per me, la lenta erosione della sala è un fatto terribile».
Dove vede il suo futuro?
«Là dove la gente avrà ancora voglia di vedere i miei film. Non ho mai sbancato i botteghini, ma posso contare su un pubblico affezionato in tutto il mondo. Anche in America».
“HO FATTO TUTTO QUELLO CHE IL #METOO VUOLE”. Monica Monnis per Elle.com il 17 settembre 2019. Woody Allen non ha bisogno di Scarlett Johannson. Certo, la tenace difesa della sua pupilla dalle pagine di Hollywood Reporter non può che avergli fatto piacere, ma il suo arco ha delle frecce ancora più affilate, che ha provveduto a scagliare in un'intervista con la testata francese Le Point, rilasciata in occasione della proiezione del film Un giorno di pioggia a New York che venerdì ha aperto il sipario sul Deauville Film Festival. Il regista 83enne, come riporta Le Figaro, ha dichiarato con la sua consueta tranquillità serafica di essere da sempre dalla parte delle donne, ma non solo. Woody Allen si considera un portavoce del #metoo e un esponente di primo piano nella battaglia rosa del gender pay gap. "Adoro Woody. Gli credo e lavorerei con lui in qualsiasi momento", ha detto Scarlett giusto una manciata di giorni fa attirando su di sé le ire di Dylan Farrow, figlia adottiva di Allen e sua principale (e unica) accusatrice, che in passato lo ha denunciato per abusi sessuali per poi reiterare l'addebito proprio nell'ondata post Weinstein nel corso della caccia agli orchi di Hollywood (“Scarlett ha una lunga strada da percorrere per comprendere il problema che sostiene di supportare", ha scritto sui social). Anche Javier Bardem, Anjelica Huston, Catherine Deneuve e Prince Brosnan si sono schierati con il regista di Manhattan mentre Amazon gli girava le spalle mettendo in stand by la distribuzione USA del suo ultimo film (Un giorno di pioggia a New York che in Italia uscirà nelle sale il prossimo 10 ottobre) così come alcuni dei suoi protagonisti vedi Michael Caine, Timothée Chalamet, Greta Gerwig e Colin Firth. "Non mi sento nella lista nera. Continuo a fare film, mentre le altre persone di quella black list non possono lavorare: sono in prigione o si suicidano", ha detto Allen riferendosi inequivocabilmente a Weinstein e Epstein. “Nel corso della mia carriera ho lavorato con centinaia di attrici e nessuna di loro, neanche una volta, ha mai avuto modo di lamentarsi né di me né della mia etica professionale. Ho diretto donne al massimo della loro popolarità per anni e le abbiamo sempre pagate la stessa cifra dei loro colleghi uomini. In pratica ho fatto tutto ciò che il MeToo spera di realizzare", ha poi specificato, schierandosi dalla parte del movimento femminista che dalla sua nascita, l'ha di fatto inserito nella lista dei “carnefici”. Dritto per la sua strada e sicuro del suo comportamento ineccepibile sul set (nemmeno una delle attrici che ha lavorato con lui ha mai sostenuto il contrario, va detto), Mr Allen non è per niente interessato a quello che pensano di lui sulle Hollywood Hills: "Non me ne può fregare di meno. Io non ho mai lavorato a Hollywood, ho sempre lavorato a New York. Se anche più nessuno avesse finanziato i miei film, i miei spettacoli teatrali o pubblicato i miei libri, io mi sarei comunque alzato e avrei continuato a scrivere perché è quello che faccio. Quindi io lavorerò sempre, quello che succede a livello commerciale alle mie opere è un'altra questione. Io non ho neanche mai pensato di ritirarmi". Thanks Scarlett, ma Woody sembra non aver bisogno di nessuna "buona parola".
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 15 dicembre 2019. Ventidue anni di matrimonio, due figli, una vita in simbiosi fra Italia, Londra e Los Angeles: il loro sembrava un amore inossidabile. Lui, l' inglese premio Oscar Colin Firth, quando gli hanno intestato una stella sulla Walk of Fame, l' aveva dedicata alla moglie: «Guardo la stella, ma vedo lei, che ha sempre camminato con me». Lei, l'italiana Livia Giuggioli, quando la intervistavano sulla Eco-Age fondata per supportare le aziende sulla via della sostenibilità, diceva «mio marito è la mente, io solo quella che mette a terra le cose». Sembrava che niente potesse scalfirli, a maggior ragione quando l' anno scorso avevano affrontato uniti la bufera mediatica di un tradimento con le recriminazioni a mezzo stampa del presunto amante di lei. Ieri, però, una nota congiunta dei loro avvocati ha annunciato: «Si sono separati. Mantengono una stretta amicizia e rimangono uniti dall' amore per i figli. Chiedono gentilmente che sia rispettata la loro privacy». Colin e Livia si erano conosciuti nel 1996 in Colombia, sul set della miniserie Nostromo . Il nostromo era Claudio Amendola: il trentacinquenne Colin Firth non era ancora così famoso, la Darcy-mania dovuta a Orgoglio e Pregiudizio sarebbe scoppiata da lì a un attimo. Livia aveva 26 anni ed era una studentessa romana giunta lì per un' esperienza da assistente di produzione. Colin, che girava scene a cavallo assai pericolose e aveva appena rischiato di rompersi il collo, racconterà: «Stavo passando momenti miserabili e avevo davanti altri quattro mesi di riprese e lei è apparsa. È stato amore a prima vista, ho immediatamente sentito che era straordinaria. Era una bellezza italiana e la donna più intelligente del pianeta». Narra la biografia scritta da Alison Moloney che lui la vide stringere la mano a tutti e a tutti rivolgersi nella loro lingua e che le chiese subito un appuntamento e, che a fine riprese, erano una cosa sola. Si sposano in niente, il 21 giugno 1997, a Città della Pieve, dove mettono su casa. La Darcy-mania è all' apice e i giornali descrivono Livia come invidiatissima. «Poverina», dirà lui all' Observer , «mi aveva incontrato prima e non mi aveva mai sentito nominare». A costruire la favola contribuisce la mamma della sposa, descrivendo il genero come un lord inglese: «Usa a mia figlia molto rispetto. A Roma, la riportava a casa sempre prima delle 23 e lui dormiva in albergo». Colin, che era reduce da una storia con l' attrice Meg Tilly, dalla quale aveva avuto Will, oggi 29enne, raccontava di aver sempre creduto a un' idea romantica del mestiere d' attore, impossibilitato a innamorarsi per non perdere la creatività: «Idea che Livia ha spazzato via». Così, mentre lei prende un dottorato, lui impara l' italiano e intanto la sua carriera decolla. Arrivano Il diario di Bridget Jones , La ragazza con l' orecchino di perla e I l discorso del Re , Oscar miglior attore 2011. Cresce lui e cresce lei, che nonostante due figli, nati nel 2001 e nel 2003, fa la produttrice, diventa un' attivista per i diritti delle donne e costruisce sulla causa ambientalista una società di consulenza di successo. Colin e Livia, sui red carpet, alle serate benefiche o a Buckingham Palace, sono sempre belli, eleganti ed etici. Tutto molto splendente, finché il 6 marzo 2018 spunta sui giornali una storiaccia d' infedeltà. Si scopre che l' anno prima i Firth hanno denunciato il corrispondente dal Brasile dell' Ansa, Marco Brancaccia. Il giornalista sostiene d' aver avuto con Livia una relazione durata due anni e confessa di aver scritto all' attore per rivelargli di essere stato con la moglie. Presto, lei deve ammettere d' aver frequentato quell' uomo, anche se per poco, fra il 2015 e il 2016, in un periodo in cui lei e il marito si erano separati in segreto. Brancaccia minaccia altre rivelazioni, ma non ci saranno né le rivelazioni né il processo: un accordo extragiudiziale sottrae la vicenda all' ulteriore morbosità. I Firth fanno sapere che è tutto a posto, stanno ancora insieme. Passano poi 17 mesi, e ora si scopre che, forse, di quella tempesta non restava solo l' eroico esempio di aplomb inglese dimostrato da Colin davanti all' email rivelatrice del rivale. Pare che gli avesse risposto: «Lei vuole farmi soffrire, ma a me spiace che soffra anche lei». La suocera aveva ragione: Colin era un gentleman. Difficile che ora si smentisca con dichiarazioni di segno diverso.
Coppie che scoppiano e che resistono: il matrimonio ad Hollywood. Angela Parolin il 30/05/2016 su marieclaire.com. DOPO LA NOTIZIA CHE IL MATRIMONIO TRA JOHNNY DEPP E AMBER HEARD È FINITO, QUALI SONO I MATRIMONI PIÙ BREVI E LUNGHI DI HOLLYWOOD? Non è un bel momento quello per Johnny Depp, dopo esser stato preso di mira dai social l’anno scorso per la trascuratezza con cui si è presentato al Festival di Venezia dell’anno scorso, torna a far parlar di sé. Recente la notizia che il Capitan Sparrow stia divorziando dalla giovane Amber Heard e come allegato alla notizia ci sarebbe un’ordinanza restrittiva per Depp nei confronti dell’ex moglie per violenze domestiche. Sono solo 15 i mesi di matrimonio fra i due, ma tra i divi di Hollywood c’è anche chi è durato molto meno, ma per fortuna ci sono anche coppie che durano dagli anni ’70. E che non si dica che sono le nuove generazioni quelle che non credono nel matrimonio e che non si impegnano a mantenere il rapporto con il proprio partner, è di Rodolfo Valentino e Jean Acker il record del matrimonio più breve della storia, appena sei ore, nemmeno il tempo di digerire il pranzo del ricevimento. Li segue un’altra coppia di attori storici: Ernest Borgnine e Ethel Merman sono stati sposati per 32 giorni. È anche vero, però, che tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 le celebrità iniziarono a sposarsi e divorziare talmente velocemente da fare la fortuna per le riviste di gossip. Tra questi è il caso di Rick Salomon che nel suo curriculum presenta ben due matrimoni della durata di una stagionatura di una forma di parmigiano: nel 1998 con la sorella Halliwell Shannen Doherty, nove mesi, e nel 2007 con l’ex bagnina di Baywatch Pamela Anderson, 2 mesi; ma entrambe le signore Salomon, avevano alle spalle altri matrimoni brevi. Infatti, nel 1993 il matrimonio tra la Doherty e Ashley Amilton dura 5 mesi, mentre la Anderson, dopo una cerimonia su di uno yacht, rimane sposata con Kid Rock per 3 mesi e 23 giorni. Ma ad Hollywood ci sono anche matrimoni che durano dagli anni ’70, come quello tra la grande Meryl Streep e lo scultore Don Guimme, il loro “I do” risale ben al 1978, e festeggiano 36 anni di matrimonio Dustin Hoffman e Lisa Gottsegen. Tra la generazione più giovani spiccano i matrimoni di Tom Hankscon Rita Wilson e di Hugh Jackman con Debora-Lee Furness. Tom Hanks, dopo aver incontrato la collega sul set di Un ponte di guai, divorzia dalla prima moglie e si sposa nel 1988 con la Wilson, mentre il nostro Wolverine incontra la propria futura moglie, di ben 13 anni più grande, su un set di un film australiano e, dopo essersi messo in ginocchio durante un picnic, nel 1996 diventano marito e moglie. Concludiamo con il matrimonio dello scanzonato Will Smith che dal 1996 è sposato con Jada Pinkett e del Footloose Kevin Bacon che festeggia 28 anni di matrimonio con Kyra Sedgwick, incontrata sul set di Lemon Sky. Ogni tanto, non solo sullo schermo, l’amore vince nell’universo complicato di Hollywood.
QUEST'AMERICA di Anna Guaita Martedì 22 Luglio 2014 su Il Messaggero. Quando la coppia non scoppia. Qualche giorno fa ho promesso a un mio lettore di trattare un argomento positivo. In un commento, il lettore Peaeye scriveva: «I media in generale tendono a riportare cio' che e' negativo ed aberrante molto, molto di piu' del positivo e normale. Prenda Hollywood, per esempio. Ci sono moltissimi attori che non fanno le corna al coniuge e non usano droga. Ma di che cosa parlano quasi sempre giornali e notiziari TV e Internet se non dei divorzi, dell'alcolismo, delle droghe, degli eccessi e dei reati dei famosi?» Io gli ho risposto che è vero, che i media tendono ad attenersi al cinico detto «if it bleeds, it leads» (se è un fatto di sangue, va in prima pagina). Però devo ammettere che anche io soffro del fatto che le buone notizie non “fanno notizia”. E’ vero che internet ha aperto la porta a un’infinità di video teneri e buonisti che hanno milioni e milioni di hits, ma le storie di sangue-omicidi-corna-tradimenti inevitabilmente attirano più click, mentre se ci mettiamo a sfogliare le riviste pettegoliere troveremo una marea di storie di attori e cantanti che si tradiscono, e nessuno o quasi nessun commento su coppie solide e felici come Tom Hanks e Rita Wilson, Michelle Pfeiffer e Michael Kelley, Warren Beatty e Annette Bening, Hugh Jackman e Deborra Furness. Potrei andare avanti: sapete che Denzel Washington e Pauletta Pearson sono sposati da 32 anni, hanno 4 figli, e lui ha candidamente ammesso che si era innamorato lui per primo e che lei aveva rifiutato ben tre richieste di matrimonio prima di cedere? Che Jeff Bridges e Susan Geston sono marito e moglie da 33 anni e che lui non si vergogna di dire pubblicamente che nel 1977 si era innamorato nell’arco di una settimana, ed era così cotto che si ridusse a inseguire quella giovane fotografa per mezza America, e che da allora durante tutti questi anni insieme e la nascita di tre figli il segreto della loro felicità è che tutti e due hanno un forte senso dell’umorismo, amano molto flirtare, preservare la loro intimità e fare spesso l’amore? E Dustin Hoffman e Lisa Gottsegen sono sposati da 34 anni, hanno 4 figli, 2 nipoti, e hanno una loro ricetta per tenere vivo l’amore: «Essere onesti l’uno con l’altro – dice Dustin -: vi assicuro che è un modo per continuare a volersi bene». Di coppie non scoppiate Hollywood è piena, anche fra i 40-50enni. Pensate a Ben Affleck e Jennifer Garner, a Sarah Jessica Parker e Matthew Broderick, a Kyra Sedgwick e Kevin Bacon. Sono raramente sotto i riflettori dei pettegolezzi, e condividono una simile ricetta: «Facciamo del tutto per passare tempo da soli – rivela Jennifer - anche dedicandoci a piccole cose di poca importanza». Ma no, le coppie felici sono uno dei segreti meglio protetti di Hollywood. Scommetto che nessuno di voi sa che Meryl Streep è sposata da 36 anni allo scultore Don Gummer, che hanno 4 figli e vivono vite assolutamente normali, come me e voi, e la sera discutono su chi dovrebbe mettere i piatti nella lavastoviglie. L’attrice che ha vinto tre Oscar, otto Glden Globes, due Emmys e non so più che altro, dice con semplicità : «Se non avessi Don al mio fianco, sarei emotivamente morta. Non so cosa farei se non avessi mio marito». Tutti ricorderanno che a lungo la coppia più esemplare e solida del mondo del cinema fu quella di Paul Newman e Joanne Woodward. Per 50 anni, paparazzi e cronache rosa tentarono di attribuire a questi due attori bellissimi e “roventi” relazioni extraconiugali. Si dice che un giorno Paul abbia reagito irritato: «Perché dovremmo cercare un hamburger fuori, quando a casa ci aspetta una bistecca?» Pare che in realtà sia una frase apocrifa, oltreché alquanto volgaruccia. Quel che è vero è che nel 2005, tre anni prima che il cancro lo stroncasse, Paul Newman ha effettivamente raccontato il segreto del loro lungo e felice matrimonio in una intervista a un mensile: «Perché fare del male al proprio compagno? Nessuno è obbligato a restare sposato se non lo vuole – ha detto -. La porta non è chiusa a chiave. Noi siamo sempre rimasti insieme per il fatto che ci vogliamo bene, che ci piace essere sposati e che pur essendo persone molto diverse, siamo pazienti l’uno verso l’altro e non ci soffochiamo a vicenda». Ecco, caro Peaeye, le consegno una bella notizia: anche Hollywood è piena di persone leali, fedeli ai compagni, persone che non sniffano coca, che non si ubriacano e che crescono con affetto e devozione figli sani e belli. Mi farebbe piacere che qualcuno ci raccontasse lo stesso di attori e celebrità italiane. Non saremo mica tanto diversi, no?
Maria Teresa Moschillo per Mondo Fox l'8 maggio 2017. Stanno insieme dal 1983, ma non hanno mai pensato neppure per un attimo di sposarsi. Goldie Hawn e Kurt Russell sono una delle coppie più invidiate e longeve di Hollywood. A suggellare la loro unione in modo ufficiale - ormai escluso il fatidico "Sì, lo voglio"! - ci hanno pensato le due stelle che da ieri ornano la celebre Walk of Fame con i loro nomi. Sono l'una accanto all'altra e lo saranno per sempre. Come riportato da Variety, la coppia è stata premiata con l'assegnazione delle tanto sospirate stelle lungo l'iconica passeggiata hollywoodiana. Con loro c'erano Kate Hudson - figlia avuta da Goldie Hawn con il precedente marito Bill Hudson (e che non sta con Brad Pitt!) - i suoi fratelli Oliver Hudson e Wyatt - l'unico figlio che l'attrice ha avuto da Russell - e alcuni cari amici, tra cui Quentin Tarantino e Reese Whiterspoon.
Reese ha tenuto un toccante discorso durante la cerimonia di consegna delle stelle e ha faticato a trattenere le lacrime! La prima volta che mi sono innamorata di una star del cinema si è trattato di Goldie Hawn. Oh mio Dio, mi viene da piangere! Non riesco ancora a credere che lei mi abbia chiesto di essere qui oggi. Sono la sua più grande fan, è il mio idolo. Lei ha fatto in modo che le donne facessero finalmente cose diverse nei film, ha ispirato tutte noi. Grazie per averci fatto sorridere.
La Whiterspoon ha ribadito la sua emozione con un affettuoso post condiviso su Instagram. L'atmosfera della cerimonia è stata estremamente gioiosa - lacrime di Reese a parte! - e Goldie e Kurt si sono prestati volentieri ai flash dei fotografi, tra tenerezze e baci. I due sono apparsi come sempre uniti e complici, molto affiatati e visibilmente emozionati. Come riportato da People, Goldie non ha potuto fare a meno di commentare con la sua consueta ironia.
Non avevamo mai avuto una cerimonia così prima d'ora. Alla fine è come se ci fossimo sposati! E ancora: Questo significa molto per me e mi fa riflettere. Quando sono venuta qui per la prima volta ero una ballerina e ho portato le mie scarpette da ballo in cerca di un agente. Non ho trovato un agente, ma ho trovato un favoloso dentista. Questa stella fa parte di tanti "sì". Non avevo idea di cosa significasse essere una stella quando le persone non sapevano neppure chi fossi. Nella vita ho detto sì a Kurt Russell. Ho detto sì a Bill Hudson e senza di lui non avrei avuto Katie e Oliver. Vorrei che mia madre e mio padre potessero vedermi!
Ovviamente, anche Kurt Russell ha detto la sua. Grazie ai miei figli Boston, Oliver, Kate e Wyatt. Qualsiasi padre si sentirebbe benedetto ad avervi ricevuto in dono. Goldie, a te devo tutta la mia meravigliosa vita. Ti amo, Goldie. Tutte le stelle del cielo o di questo viale non valgono quanto te. Non c'è nessun altro che che potrei desiderare più di Goldie Hawn. Questo riconoscimento è arrivato in un momento d'oro per la carriera dei due attori. Goldie tornerà presto al cinema con la commedia Snatched, mentre Kurt Russell è attualmente sugli schermi con Guardiani della Galassia Vol. 2.
"La nostra relazione è come una montagna da scalare". Orlando Bloom è innamoratissimo della sua Katy Perry. Orlando Bloom in una recente intervista dichiara tutto il suo amore verso Katy Perry, intanto i due pensano con ponderazione al matrimonio. Carlo Lanna, Venerdì 23/08/2019, su Il giornale. Nel corso di quest’anno si dovrebbe celebrare uno dei matrimoni vip più attesi. L’attore Orlando Bloom e la cantante Katy Perry presto o tardi convoleranno a nozze e, dopo un periodo di crisi, i due ora sono più innamorati che mai. Schivi dai paparazzi, sono stati fotografati insieme qualche giorno fa per la premiere di "Carnival Row", la serie Amazon di cui Bloom è protagonista. Proprio in questa occasione l’attore è stato intervistato da Yahoo, e incalzato sulla sua relazione con Katy Perry, ha confessato tutto l’amore che prova per la cantante di “I Kissed a Girl”. "Siamo molto abitudinari in tutto quello che facciamo. A casa abbiamo una lavagna su cui ci scambiamo frasi d’amore – rivela l’artista -. Il segreto della nostra unione? La continua voglia di cambiamento, crescita ed evoluzione". Un amore che fino a qualche tempo fa è rimasto celato e di cui ora Orlando Bloom non può far a meno di professare. "Katy è una donna straordinaria. Anche se prima di conoscere lei sono stato già sposato e divorziato, non ho alcuna intenzione di ripetere gli errori del passato –confessa -. Entrambi siamo consapevoli di cosa significa il matrimonio." E poi aggiunge. "La nostra storia è come una montagna da scalare. Lei ama le cose semplici e io apprezzo Katy proprio per questo". In attesa di conoscere la data del loro matrimonio, sembra che l’unione fra i due è impossibile da scalfire. Neanche le recenti accuse di molestie ai danni della Perry hanno smosso il cuore di Orlando Bloom.
Coppie famose che si sono lasciate… ma insieme stavano benissimo. Johnny Depp e Kate Moss? Gwyneth Paltrow e Chris Martin? Coppie scoppiate che rimpiangiamo. Perché? Manuela Ravasio il 31/07/2015. Le coppie dell'estate 2015. C'eravamo tanto amati: eppure ora meglio non incontrarsi in giro potrebbero dirsi, stando ai rumors. Megan Fox e Brian Austin Green si sono detti addio dopo 11 anni insieme, Will Smith e Jada Pinkett sono sull'orlo del divorzio: altro addio hollywoodiano in questa estate 2015? Ma che succede all'ex Principe di Bel Air che è riuscito a fare di una famiglia una spa di talenti (vedi Willow Smith nuovo volto di Marc Jacobs)? Succede che dalla semplice ironia dell'essersi trovato tra i Google Alert per un presunto divorzio dalla moglie e averne riso assai (così ha confessato Smith) si passa ai rumors sempre più insistenti che dichiarano: dopo 17 anni la coppia starebbe divorziando. E anche in pompa magna (vedi 240 milioni di dollari da spartire). Will continua, però, a dichiarare via social «So, in the interest of redundant, repetitious, over & over-again-ness... Jada and I are... NOT GETTING A DIVORCE!!!!!!!!!!!!!». Prima di loro: Charlize Theron e Sean Penn, freschi di rottura dopo il Festival di Cannes. Perché più del voyeurismo delle cabine nei bagni mediterranei tira il voyeurismo dei tempi andati? Ovvero la nostalgia per coppie famose che insieme non stanno più ma che rimpiangiamo ancora quando arriva l'ora del becero (e amato) gossip? Perché Jennifer Aniston rimane sempre e comunque la preferita ad Angelina Jolie - nonostante la Jolie provi a mettere bandiere di pace in tutto il pianeta? Il caso, ultimo e ancora caldo, è dato dalla coppia Johnny Depp e neo moglie Amber Rose. Di Depp si parla perché non di soli Pirati dei Carabi vive Depp e al botteghino su altri film sta facendo cilecca, della coppia Depp-Rose si (s)parla perché ci sono troppe ex con cui il neo cinquantenne volto di Dior stava meglio. Ma non solo Depp-Rose anche il tormentone Paltrow-Martin-Lawrence continua a mantenere caldi gli animi: Jennifer Lawrence e Chris Martin starebbero di nuovo insieme ma senza averlo comunicato al mondo intero, eppure con la ex moglie Gwyneth Paltrow il cantate dei Coldplay continua a farci vacanze e incontri felici (dicono per il bene dei figli). Ma il punto rimane: come è possibile che Gwyneth Paltrow fosse antipaticissima prima - quando era compagna di Martin - ma ora risulta simpaticissima con il cuore semi-rotto per la fine del matrimonio? E ancora: se Hollywood ci ha insegnato che le coppie che non scoppiano alla fine esplodono (vedi Tim Robbins e Susan Sarandon, Melanie Griffith e Antonio Banderas) perché ci ostiniamo a credere che lontano da Los Angeles le cose vadano meglio, specie a coppie idilliache per outfit e lifestyle? I cinque anni di amore tra Alexa Chung e Alex Turner erano la notizia più felice che l'Inghilterra avesse avuto (altro che polpettone Kate-William), eppure sono esplosi in sordina anche loro…e che dire di quando Monica Bellucci ha dichiarato amore eterno e aperto a Vincent Cassel ma ognuno a casa sua (e magari con altri in camera da letto)? Anche la Los Angeles più cool formata dall'ex di Sofia Coppola Spike Jonze e Karen O ha resistito dopo meravigliosi mesi di amore e matrimoni artistici: ma poi arrivederci. E che dire delle coppie "rimaniamo amici": per quanto Jessica Biel e Justin Timberlake siano adorabili in versione genitoriale chi non ha sognato il ritorno di fiamma con Cameron Diaz quando tra i due neo-genitori non tirava una bell'aria? Del resto Cameron Diaz neo sposa con Benji Madden non era la cougar numero uno (in tempi in cui neppure Cougar Town con Courteny Cox andava in onda)? C'eravamo tanto innamorati - di loro.
Alexa Chung e Alex Turner. Lei è la it-girl del Regno Unito, lui l'enfant prodige che spacca il cuore con gli Artic Monkeys: sono la coppia perfetta dal 2007 al 2011. Poi si lasciano e da qualche mese Alexa sta con Alexander Skasgard attore di True Blood.
Chris Martin e Gwyneth Paltrow. Sposati dal 2003 hanno avuto due figli, Apple Blythe Alison e Moses Bruce Anthony. Si separano nel marzo 2014. Lui ora flirta con Jennifer Lawrence.
Diane Keaton e Woody Allen. Si conoscono nel 1968, girano insieme sette film, vince l'Oscar con il film che Woody scrive su loro, Annie Hall. Diane lo lascia per Warren Beatty nel 1978.
Gli Scoppiati. Tutte le coppie che si sono amate e abbiamo amato.
Jennifer Aniston e Brad Pitt. Nel 1997 conosce Brad Pitt, lei è la stella Friends, lui l'uomo d'America. Si sposano nel 2000 nel 2005 si separano: perché lui ha già perso la testa per Angelina Jolie. Dopo il cuore a pezzi Jennifer si fidanza nel 2011 con Justin Theroux.
Johnny Depp e Kate Moss. Kate Moss conosce Johnny Depp quando lui è appena uscito dalla relazione con Winona. Boom: coppia mediatica ritratta da Ron Galella ovunque.
Karen O e Spike Jonze. Spike Jonze ex marito della Coppola ha una relazione con Karen O a partire dal 2005, insieme i due lavorano su Nel paese delle creature selvagge e Her si lasciano nel 2011 e Karen sposa Barney Clay.
Liz Hurley e Hugh Grant. Hugh Grant per 13 anni è il brit man a fianco di Liz Hurley vestita di spacchi by Versace. Lo scandalo scoppia quando nel 1995 è fotografato con una prostituta. Si lasciano 5 anni dopo.
Madonna e Guy Ritchie. Fine 1998 dopo Sean Penn e Carlos Leon arriva il regista inglese. Hanno un figlio, Rocco, si sposano in un castello in Scozia nel 2000, adottano David Banda nel 2005. Divorziano nel 2008.
Megan Fox e Brian Austin Green.
Melanie Griffith e Antonio Banderas. Nessuna ci credeva ma dopo 18 anni la coppia bollente Melanie Griffith e Antonio Banderas si lasciano nel 2014: insieme hanno una figlia, Stella.
Monica Bellucci e Vincent Cassel. Italia-Francia: si sposano si amano, si lasciano. E tutti parlano di flirt di Monica con un magnate a zero.
Salma Hayek e Edward Norton. Si conoscono nel 1999 e rimangono fidanzati fino al 2003: lei poi si innamora di Francois-Henri Pinault da cui ha avuto una figlia nel 2007. Edward ci prova con Drew Barryomore ma sposa Shauna Robertson nel 2013.
Vanessa Paradis e Johnny Depp. Si conoscono nel 1998, hanno due figli, Lily Rose Melody e John Jack Christopher: vivono in un castello in Francia. Divorziano dopo 14 anni, nel 2012. Lui sposa nel 2015 Amber Heard.
Will Smith e Jada Pinkett. dopo 17 anni la coppia starebbe divorziando. E anche in pompa magna (vedi 240 milioni di dollari da spartire).
Cameron Diaz e Justin Timberlake. Ora sono entrambi felici e sposati ma dal 2003 al 2006 sono la coppia d'oro tutta basket e party.
Demi Moore e bruce Willis. Prima di finire in depressione per la rottura con Asthon Kutcher Demi ha avuto una lunga e felice relazione matrimoniale con Bruce Wills, suo marito dal 1987 al 2000 da cui ha avuto tre figlie.
Johnny Depp e Winona Ryder. Dal 1989 al 1993 sono la coppia grunge per eccellenza: recitano insieme in Edward Mani di Forbici e lui porta fiero il tatuaggio Winona Forever. Poi si lasciano e arriva Kate Moss…Per Winona no more love.
Robin Wright e Sean Penn. Sean Penn dopo Madonna ama solo Robin Wright, da cui ha due figli, Dylan Frances e Hopper Jack: divorziano nel 2010. Penn si fidanza con Charlize Theron nel 2013 ma la coppia sembra essere già scoppiata.
Susan Sarandon e Tim Robbins. La coppia più solida di Hollywood dura dal 1988 al 2009, lei è più grande di lui di 12 anni, insieme hanno due figli Jack Henry e Miles. La Sarandon, oggi 69enne è fidanzata con un broker di 30 anni più piccolo, Jonathan Bricklin.
Uma Thurman e Ethan Hawke. Si sposano il 1 maggio del 1998, hanno due figli, Maya Ray e Levon Roan, divorziano nel 2005 e tre anni dopo Ethan sposa la loro baby sitter Ryan.
Scandali di Hollywood: i 10 casi che hanno scosso il mondo delle star. Thewebcoffee il 12 Settembre 2018. Hollywood Babilonia: i dieci scandali che hanno scosso il mondo delle star. Si sa, le star di Hollywood sono sempre sotto i riflettori, ed essere famosi e popolari è qualcosa che non tutti riescono a gestire facilmente. Non esiste privacy. Tra tutti gli scandali, alcuni possono rovinare la carriera dei nostri beniamini, di qualcuno ne avrete sicuramente sentito tanto parlare. Ecco quindi dieci scandali che hanno scosso le fondamenta di Hollywood!
Chris Brown e le percosse a Rihanna. Bene, dobbiamo ammettere che Chris Brown è un buon cantante e un bravo ballerino, ma ha scaricato la sua promettente carriera nel bagno, dopo aver picchiato la sua ex ragazza, Rihanna. Per questo motivo il cantante era stato arrestato però, dopo aver pagato una cauzione di 50.000 dollari, venne subito rilasciato. Secondo quanto riferito dal The News Of The World, Rihanna aveva perdonato il violento Brown, ma ha cambiato idea dopo aver discusso con la sua famiglia e con gli amici vicini.
Sandra Bullock, Jesse James e la dipendenza da sesso. Tre giorni dopo che Sandra Bullock si era aggiudicata il suo primo Oscar nel 2010, si è scoperto che il marito Jesse James era colpevole di tradimento, nei confronti della moglie, con diverse donne, da lungo tempo. James è diventato – per sua stessa ammissione – “l’uomo più odiato del mondo”. In seguito allo scandalo, Jesse James si è fatto curare in rehab per dipendenza dal sesso, mentre la Bullock ha subito chiesto il divorzio. Ciò, però, non l’ha fermata, e ha deciso di continuare il processo di adozione di suo figlio Louis, da sola. Anni più tardi, James ha affermato di non avere "rimpianti“.
Britney Spears fuori controllo si rasa la testa. Dopo l’ennesima serata di follia, Britney Spears si ritrova senza capelli. Sempre sotto i riflettori, nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli. Dopo essere stata brevemente ricoverata in un centro di disintossicazione, la cantante è entrata dal suo parrucchiere di Los Angeles, ha preso un rasoio elettrico e si è rasata a zero, da sola, sotto gli occhi di decine di testimoni stupiti. I familiari hanno dichiarato pubblicamente che la donna in quel periodo “stava mandando a rotoli la sua vita”.
“E’ entrata e ha detto che voleva rasarsi la testa e quando abbiamo rifiutato di farlo, ha afferrato il rasoio elettrico e fatto tutto da sola”, ha raccontato il parrucchiere. Inutile dire che le foto della cantante calva sono presto diventate virali.
Brad Pitt e Jennifer Aniston divorziano. Brad Pitt e Jennifer Aniston una volta erano conosciuti come la coppia di potere di Hollywood, prima che Angelina Jolie entrasse in scena. Aniston e Pitt erano sposati da cinque anni e stavano insieme da sette. La coppia si separò nel 2005. Brad e Angelina si sono innamorati sul set di ‘Mr. & Mrs. Smith‘ e sono stati insieme da allora, prima di dividersi nel 2016.
Woody Allen sposa la figliastra. Woody Allen ha letteralmente scioccato il mondo nel 1992. Allen aveva una relazione con Mia Farrow sin dal 1980, ed insieme avevano dei figli adottivi. Nel 1992 Farrow scoprì alcune foto compromettenti di Woody con una delle figliastre di 20 anni e si scatenò l’inferno. Allen lasciò Mia e si sposò con Soon-Yi Previn il 22 dicembre del 1997. Sono coppia da allora.
Scandalo a luci rosse per Ben Afflleck. Ben Affleck è sicuramente il protagonista di uno degli scandali più recenti: finito nell’occhio del mirino mediatico, l’attore ed ex marito di Jennifer Garner, è stato accusato di aver molestato un’attrice e poi una conduttrice tv durante una trasmissione. L’attrice è Hilarie Burton, e sull’onda emotiva scatenata dal caso Weinstein, ha dichiarato di aver subito molestie dall’attore. Era il 2003 e la ragazza, allora 21enne, conduceva un programma su Mtv. È stato lì che Affleck, ospite, le si è avvicinato e le ha toccato il seno sinistro. <<Ci risi su per non piangere. Ero una ragazzina e non lo dimentico>>, ha twittato la Burton. E poche ore dopo l’attore si è scusato pubblicamente, anche lui rigorosamente con un tweet. Ed è una doppia denuncia, quella piovuta in casa Affleck per molestie sessuali, che penderebbe anche sul capo del fratello Casey Affleck, mossa da due donne che hanno collaborato alla realizzazione di Io sono qui, documentario dedicato a River Phoenix. Un’accusa infamante, tanto che quando vinse l’Oscar nessuno lo applaudì.
Ira in India per un bacio di Richard Gere. Un bacio in pubblico di Richard Gere dà scandalo in India. L’attore, testimonial di una campagna anti-AIDS, ha scatenato la rivolta dei nazionalisti hindu, scesi in piazza a Mumbai, Varanasi e Meerut per gridare la loro rabbia. «Uccidiamo l’infedele che ha infangato la nostra cultura», avevano inneggiato in piazza gli estremisti hindu, contro l’attrice Shilpa Shetty, 31 anni, addirittura oggetto di minacce di morte dopo il bacio con il famoso attore americano, 57 anni, di fede buddista.
La morte di Brandon Lee. Senza ombra di dubbio, però, tra le scomparse più misteriose, svolte nelle più oscure circostanze, figura la morte di Brandon Lee. Trasfigurato nel protagonista Eric Draven, Brandon sarebbe dovuto entrare in un appartamento ricreato sul set de Il Corvo. Con in mano le buste della spesa. doveva essere aggredito, stando alla sceneggiatura del film, da alcuni malfattori. L’attore Michael Massee, interpretando il personaggio di Funboy, avrebbe dovuto sparare al giovane attore di origini asiatiche. Si sarebbe dovuto trattare di una semplice ripresa. Eppure, negli studi di Los Angeles a otto giorni dalla fine delle riprese per Il Corvo, la scena divenne mortale. Era il 31 marzo 1993.
Le spose bambine di Charlie Chaplin. Chaplin era il più amato di tutte le stelle del cinema muto. Ma aveva anche una predilezione per donne molto giovani. La sua prima moglie, Mildred Harris, aveva solo 17 anni (e Chaplin 29), quando si sono sposati nel 1918 per una gravidanza: hanno divorziato nel 1921. Chaplin ha poi sposato la sedicenne Lita Grey nel Messico, a causa di una gravidanza. La sua terza moglie, Paulette Goddard, aveva 21 anni quando hanno iniziato a frequentarsi, ma la sua quarta e ultima moglie, Oona O’Neill (nella foto), aveva 18 anni (al lui 54) quando si sposarono, il 16 giugno del 1943 e rimasero insieme fino alla morte di lui, il 25 dicembre del 1977.
Bill Cosby. Nell’immaginario collettivo è soprattutto il protagonista della serie televisiva «I Robinson», il moraleggiante papà che tutti, negli anni Ottanta, sognavamo di avere. Tu combini un disastro, lui ti aiuta a uscirne senza fartela pesare troppo, ma comunque spiegandoti com’è che si deve stare al mondo. Pensate un po’ all’impatto che ebbero le accuse di stupro, piovutegli addosso a partire dal 2004. Triste ma vero: il Dottor Robinson esisteva soltanto sul piccolo schermo.
Non solo Harvey Weinstein & Co: I 50 scandali che avevano già sconvolto Hollywood. Antonella Catena il 17 ottobre 2017 su Amica. Non solo Harvey Weinstein (e Kevin Spacey, Dustin Hoffman & Co)… La storia di Hollywood è fatta di scandali sessuali che hanno coinvolto divi, registi, produttori tutti potentissimi. Scandali fisici come quello dell’ex boss della Miramax (1.0 potremmo definirli: tradizionali) e virtuali, con al centro sex tape e/o foto “private” rubati, hackerati e pubblicati sul web (2.0, quindi). Eccovi la lista degli scandali (reali e virtuali) che hanno fatto la storia di Hollywood. Jennifer Lopez: nel 2011 è al centro dello scandalo del sex tape girato durante la luna di miele del 1997, protagonisti tra le lenzuola lei e il primo marito Ojani Noa. Fu lui stesso a farlo circolare, cercando di venderlo al miglior offerente? Così si disse all’epoca. JLO portò l’ex marito in tribunale, e il giudice decretò che il video non poteva essere pubblicato. Da allora il sex tape è in un deposito della polizia, di Los Angeles ma periodicamente il socio di Noa minaccia di impugnare la prima sentenza…
Hugh Grant: la prostituta Divine Brown poteva essergli fatale. Nel 1995, l’anno dopo “Quattro matrimoni e un funerale”, lo beccarono a Los Angeles, in atteggiamenti inequivocabili per cui aveva pagato 50 dollari (la tariffa di DB). Invece ce l’ha fatta a ritornare la star che era (anzi, di più). La fidanzata allora in carica Liz Hurley, dopo avergli imposto il test dell’HIV, gli è rimasta amica.
Jennifer Lawrence: mai rubare foto private all’attrice più ricca del reame hollywoodiano, soprattutto se è una tosta come JLaw. L’ha imparato a sue spese l’hacker che un paio di anni fa (quando lei era l’attrice più pagata) ha rubato dallo smartphone dell’attrice circa 60 foto “private”. Perez Hilton le pubblicò sul suo sito, ma le rimosse subito, per paura di ritorsioni da parte della potentissima JLaw. All’hacker/ladro andò meglio con il furto delle foto nude di Ariana Grande e Kate Upton.
Bill Cosby: prima che scoppiasse lo scandalo Harvey Weinstein, con 60 donne molestate dagli Anni 70 (colleghe, collaboratrici, aspiranti attrici, una Miss America), era lui il “mostro”. Lo scandalo scoppiò nel 2014: nel giugno 2017, l’attore è apparso in tribunale ma il processo è stato annullato e dovrebbe essere riaperto nei prossimi mesi (i giurati non hanno trovato un accordo, ma le accuse restano). In mezzo, la cover del “New York” con le fotografie di tutte le sue vittime e la difesa della figlia di lui (”Sono accuse razziste, dietro a queste donne c’è la paura che mio padre ha sempre fatto all’establishment”). Altro che Dottor Robinson…
Miley Cyrus in realtà voleva fare un regalo al boy friend Liam Hemsworth. Così chiese all’amico fotografo Vijat Mohindra di scattarle qualche immagine “privata”. L’amico obbedì, ma poi mise tutto sul suo sito. La cantante all’epoca aveva solo 18 anni appena compiuti
Rihanna fu al centro dello scandalo nel 2009, quando sue foto nude (“Private”, disse) apparvero online. BadRiRi mise subito tutti ko, facendo calare il silenzio assoluto.
Woody Allen: lui la sua amante monorenne/figlia adottiva della moglie allora in carica l’ha sposata. Tutto cominciò quando Mia Farrow trovò le foto nude della giovanissima figlia Soon Yi nei cassetti dell’allora marito. Aggiungete l’accusa di violenza della figlia adottiva Dylan Farrow.
Michael Jackson: la rivista online Radar ha scritto che nel ranch di Neverland, dopo la sua morte, furono ritrovati “documenti che mostrano che era un manipolatore, un perverso che usava droga e sesso folle, sangue e immagini sessualmente esplicite per piegare i bambini alla sua volontà. C’erano immagini disgustose e assolutamente scioccanti di torture sui bambini, bambini e adulti nudi e sesso femminile sadomaso”…
Marilyn Monroe: da un divano di produttore all’altro, per diventare una super star (e morirne). Leggete “Blonde” di Joyce Carol Oates (Bompiani) e capirete cosa significa subire il casting couch (divano del produttore, appunto).
Harry Cohn: il produttore che inventò la leggenda del casting couch da cui sono passate, oltre alla Monroe, giovani aspiranti attrici, attricette e super star della Hollywood degli Anni d’oro come Lana Turner, Gloria Swanson, Joan Crawford, Ava Gardner… Si dice che fu lui il primo a cominciare la “tradizione” alla Columbia, dove aveva un “private room” comunicante col suo ufficio. Darryl F. Zanuck (boss della Warner Bros e poi della 20th Century Fox), “riceveva” tutti i giorni dalle 16 alle 16.30. Judy Garland, nelle sue memorie, ha scritto di essere stata molestata a 16 anni da Louis B. Mayer, mogul della MGM…
Scarlett Johansson nel 2011 era sposata con Ryan Reynolds. Durò pochissimo ma lui fece in tempo a fotografare l’intimità della consorte: scatti “per uso personale”, che però qualcuno rubò, mise sul web e regalò al mondo. Il matrimonio finì poco dopo. Ryan non ne ha mai parlato. Scarlett invece ha detto: “Non me ne pento: erano foto private e io faccio ciò che voglio col mio corpo. È chi le ha rubate che è malato”.
Roman Polanski: non solo il caso di violenza alla tredicenne Samantha Geimer nel 1977 (a casa di jack Nicholson), per cui, per scappare al secondo mandato d’arresto, scappò dagli States e ancora non può tornarci. Altre tre donne lo accusano di violenza carnale: di cui l’ultima, una svizzera, è uscita allo scoperto a cavallo dello scoppio del caso Weinstein.
Christina Hendricks, la segretaria red hair più famosa della tv (complici anche i vestiti/scollature Anni 60 di Mad Men) è stata al centro dello scandalo hot delle foto in topless rubate e messe on line nel 2012. Riuscì a farle ritirare, dichiarando anche che non era lei ma un’altra donna: nessuno le credette, però. Le sue misure non sono certo comuni.
Paris Hilton nel 2005 finì on line con dozzine di foto nude, alcune di lei in compagnia di un’altra donna. In realtà lo scandalo rientrò subito, tanto PH era inflazionata (la chiamavano prezzemolina): si parlò molto di più di quanto i suoi amici celeb fossero terrorizzati dal fatto che, oltre alle foto, le avessero anche rubato l’agenda con tutti i loro indirizzi.
Michael Douglas: nel rehab per sex addicted in Arizona, prima di Harvey Weinstein, ci è andato lui, auto denunciatosi malato di dipendenza sessuale già negli Anni 90. Nel 2013 la moglie Catherina Zeta Jones ha minacciato il divorzio, dopo che Michael aveva dichiarato di aver contratto il cancro per il troppo sesso orale praticato.
Kim Kardashian c’è cascata più volte (e come dubitarne): il primo scandalo fu per il video sexy con l’ex Ray J. Sono seguiti poi quello per le fotografie in cui nuda cuoceva le uova (!!!!) e infinie quello legato alle immagini “per uso personale” che il marito Kanye West avrebbe tweettato lui stesso (involontariamente?)… Aggiungete i fake della quasi sosia Amia Miley (professione porno star) che periodicamente ricompaiono nel web.
Justin Timberlake ha imparato a sue spese che con Mila Kunis i giochi possono diventare pericolosi. Nel 2011 i due avevano girato insieme Amici di letto e si erano scattati delle foto “particolari” che lei teneva sul cellulare. In una lui era sdraiato nudo sul letto, in un’altra aveva un paio di shorts rosa in testa e nella terza mostrava in primo piano i suoi genitali. Quando qualcuno rubò il cell dell’attrice e fece circolare le foto, Mila e Justin negarono tutto quello che il sito TMZ aveva scritto a proposito.
John Travolta e il caso del massaggiatore, a quanto pare palpeggiato un po’ troppo dall’attore. Il sexsual harasssment non conosce discriminazione sessuale, a quanto pare. Quando uscì la notizia, un non certo fedelissimo assistente dell’attore rivelò al mondo che JT era gay e aveva avuto una relazione di 6 anni con un uomo…
Arnold Schwarzenegger: sposato a una Kennedy (Maria Shriver, per la cronaca), governatore della California. Il tempo di non esserlo più e, nel 2011, si scoprì della sua passione per il sesso fuori dal matrimonio e del figlio avuto dalla ex domestica. La moglie lo lasciò dopo 25 anni di matrimonio.
Kristin Davis, la Charlotte di Sex and the City, ha imparato a sue spese che gli ex sono altamente pericolsi, soprattutto quando loro non sono più nessuno e tu sei diventata invece una star tv. Nel 2008 alcune foto dell’attrice nuda girarono sul web: a scattarle, nel 1992, l’ex Eric Stapelman. Attraverso i suoi avvocati, l’attrice fece ritirare le foto pubblicate sul sito TMZ, dopo aver comunque dichiarato che erano fake, false.
Tiger Woods: carriera e vita finita dopo lo scandalo sessuale del 2009. Prima il multiplo tradimento, poi la dichiarazione di sex addiction. Recidivo.
David Letterman: i tradimenti confessati in diretta, nel suo show. Nel 2009 comincia una relazione con una sua assistente e subisce il ricatto di un produttore dello show che vuole 2 milioni di dollari in cambio del silenzio. David Letterman invece lo denunciò, confessando anche il proprio tardimento, in diretta tv: non perse né la moglié nè il posto alla CBS.
Jessica Alba nel 2010, mentre era incinta della prima figlia Honor (ora aspetta la terza) fu vittima di un hacker che rubò e pubblicò foto di lei topless. La stessa cosa toccò anche a Christina Aguilera (che non era incinta).
Vanessa Williams: nel 1984 la prima Miss America black perse il titolo (e oltre 2 milioni di dollari in contratti pubblicitari) per essere apparsa nuda su Penthouse. Nuda e con un’altra donna.
Vanessa Hudgens: nel 2007, a 18 anni, per i fan era ancora la star disneyana di High School Musical. Pensate lo shock (o il contrario?) quando sul web apparvero foto di lei in look e pose non propriamente disneyane… Foto vere, scattate con la sua approvazione, di cui VH periodicamente continua a dirsi pentita (“È stato il momento peggiore della mia vita”).
Ben Affleck si è scagliato definendosi “scioccato” contro Harvey Weinstein, ma subito dopo uno stuolo di attrici ha raccontato delle sue avances/ dichiarazioni non proprio da gentiluomo.
Taylor Swift ha rischiato due volte. Dopo la rottura con Harry Styles qualcuno minacciò di regalarci immagini hot della coppia. Ma non successe nulla. Forse per paura del precedente: ovvero quando gli avvocati della cantante americana erano intervenuti a gamba tesa contro il sito Celeb Jihad che aveva pubblicato sue foto in topless. Erano falsi, dissero. Ma pretesero il ritiro immediato dal web.
Rob Lowe: nel 1989, a 22 anni, il bellissimo RB rischiò la carriera appena cominciata quando un video sexy di lui con una ragazza fece il giro del pianeta. Soprattutto perché lei era visibilmente minorenne. Lui si difese non negando i fatti, ma dicendo che era convinto che la ragazza avesse 21 anni. A tutt’oggi giudica le reazioni “esagerate”.
Colin Farrell nel 2006 ha scoperto a proprie spese il lato negativo dell’avere una relazione (“Soprattutto sessuale”) con una playmate. Nel suo caso, è stata Nicole Narain, una volta lasciata da lui e anche in crollo professionale, a vendicarsi mettendo in rete le prove visive delle loro acrobazie sessuali. Non solo tra le lenzuola. Colin poi è riuscito a far bloccare il video, ma troppo tardi: chi era riuscito a vederlo, non l’ha mai dimenticato.
Eric Dane, la star di Grey’s Anatomy, e la moglie Rebecca Gayheart nel 2009 sono stati i protagonisti di un triangolo molto hot con Kari Ann Peniche, tutto filmato e fatto circolare nonostante, come dissero i due, si trattasse “di un semplice divertimento privato”.
Charlie Sheen: oltre alla droga e all’Aids, l’addiction mai curata per i festini porno, per cui avrebbe pagato giovani attori/attrici dai 25.000 ai 35.000 dollari. La moglie (una delle 5) Denise Richards l’ha lasciato quando qualcuno ha parlato…
Charles Chaplin: ha sposato 17enni (Mildred Harris, la prima moglie), 16enni (Lita Grey) e 18enni (Oona O’Neill). Sullo schermo era Charlot, nella vita adorava le lolite.
Casey Affleck: un Oscar (nel 2017, come Miglior attore protagonista per Manchester by the Sea) e l’accusa accusa di molestie sessuali plurime ai danni di due donne, nel 2010. In entrambi i casi fu raggiunto un accordo, senza che l’attore fosse portato in tribunale. Comunque la moglie Summer Phoenix l’ha lasciato.
La star di Jersey Shore Nicole Polizzi in arte Snooki è recidiva. Per due volte è capitato che finissero on line sue foto nude e che dovessero intervenire i rappresentanti legali: “Si tratta di foto vecchie che qualcuno si diverte periodicamente a far ricircolare”. Aspettiamo il terzo round.
Blake Lively nel 2011 mostrò scollatura e altri dettagli del suo corpo al mondo, in una serie di foto che poi però furono dichiarate fake nonostante i tatuaggi identici, negli stessi identici punti…
Brad Pitt è finito su Playmate per delle foto di nudo apparse nel 1995, scattate a St Barts, mentre era in vacanza con l’allora fidanzata Gwyneth Paltrow: foto subito ritirate dal giornale, per un’immediata minaccia legale e finanziaria firmata dai legali della star. Più o meno nello stesso periodo, Gwynnie subì le molestie di Harvey Weinstein, ne parlò con Brad che disse al produttore di lasciare in pace la sua fidanzata. Ma non lo denunciò e, come tutta la Hollywood che conosceva benissimo le abitudini del produttore, se ne stette zitto. Per omertà? Paura?
Kanye West nel 2010 ha fatto tutto da solo. Esattamente come Anthony Weiner, il politico nonché marito (poi abbandonato) dell’assistente di Hillary Clinton… Nel senso che KW prima si è fotografato nudo, poi ha messo on line le foto col suo “dick” in bella vista: “Regali per donne che mi amano”, disse. E lo mise anche in una canzone: cercate Runway, ogni riferimento è più che chiaro.
Sex harassment. Hollywood style, oltre 50 anni fa: Tippi Hedren ha dichiarato che Alfred Hitchcok prima minacciò di bloccarle la carriera e poi lo fece, quando lei rispedì al mittente le sue pretese variamente erotiche. Chissà se Melanie Griffith (la figlia di TH) e Dakota Johnson (la nipote) tra qualche anno faranno le stesse rivelazioni… Speriamo di no.
Bryan Singer: il regista di X-Men e I soliti sospetti è stato accusato di stupro dall’attore Michael Egan, all’epoca minorenne: caso archiviato.
Maureen O’Hara: ufficialmente era la compagna cinematografica ideale di John Wayne, una rossa di carattere che solo il cowboy N 1 riusciva a dominare. Nella realtà, finì in tribunale, a Los Angeles, dopo che la rivista scandalista Confidencial aveva scritto che la polizia l’aveva beccata a fare “il gioco delle scatole cinesi” (oggi lo definiamo altrimenti) sui sedili del Grauman’s Chinese Theatre, con un misterioso e aitante sudamericano. Era il 1957.
Lady Gaga ha fatto tutto da sola, postando di sua spontanea volontà delle foto nude sul suo sito LittleMonsters.com: una risposta a quelle pubblicate senza la sua approvazione poco prima?
Eddie Murphy era l’attore, non solo comico, più pagato di Hollywood quando fu beccato in macchina con un trans.
La fidanzatina d’America e il sex addicted. La coppia Sandra Bullock/Jesse James scoppiò quando qualcuno fece circolare foto di lui con altre donne: foto inequivocabili. Lo scandalo ha fatto malissimo a lui che dal nulla aveva conquistato Hollywood come principe consorte.
Pee Wee Herman: Paul Reubens (nome vero) era l’idolo dei bambini che a quanto pare lui contraccambiava con troppo amore… Nel 2002 è stato arrestato per possesso di materiale pedo-pornografico: una decina di anni prima era finito al centro di uno scandalo per essere stato scoperto a masturbarsi in un cinema porno di Hollywood.
Lana Turner: lei era stata una bellissima (famosa per i golfini attillatissimi); lui, l’amante Johnny Stompanato, era un gangster. Fu trovato morto, nella villa della diva, nel 1958: a sparargli, la figlia di lei adolescente, Cheryl, che aveva sentito i due litigare e non voleva che lui picchiasse ancora la madre. I giudici credettero a questa versione, ma il gossip ha sempre parlato della dipendenza sessuale della Turner e del fatto che probabilmente Stompanato aveva cominciato a rivolgere le sue attenzioni anche alla figlia. Ma i fan credettero alla versione ufficiale e fecero tornare Lana Turner in testa al box office: da quel momento fu di nuovo una star (anche in tv, con I peccatori di Peyton Place)…
Minka Kelly negli States è famosa per lo show tv Friday Night Lights. E per un filmato di 30 minuti che il sito TMZ ha esaltato come una delle migliori performance erotiche di sempre. “Peccato” che nessuno l’abbia visto mai, visto che è stato subito ritirato. Comunque anche lei ha detto di aver subito molestie da parte di Harvey Weinstein.
Natalie Wood era stata un’attrice bambina, poi aveva conquistato l’America con Gioventù bruciata con James Dean e Sal Mineo (entrambi al centro di voci di giochini sessuali, anche omo. Il secondo finì per morirne). Tra un ciak e l’altro, però lei si incontrava con Nicholas Ray, regista del film che aveva 30 anni più di lei, era sposato e fu anche accusato di violenze a minorenne: Natalie aveva infatti 16 anni, all’epoca. Anni dopo, quando le voci circolarono, disse di essere stata consenziente.
Nicholas Ray, l’uomo (sposato e adulto) che fece sesso con la minorenne Natalie Wood. Caso simile a quello di Kristen Stewart e Rupert Sanders, il regista (sposato e adulto) di Biancaneve e il cacciatore. Kristen non era minorenne, però. E subito dopo fece coming out, dichiarandosi lesbica.
Errol Flynn: la passione per le ninfette e il processo per violenza carnale a due minorenni, nel 1942.
Marion Davies, la prima amante che conquistare Hollywood grazie alle minacce del potentissimo William R. Hearts (guardate Quarto potere d Orson Welles per saperne di più). La sfida era tra lei e Gloria Swanson che l’amante se lo era scelto anche lei doc: John Kennedy, padre del presidente assassinato a Dallas nel 1963.
Roscoe “Fatty” Arbuckle: era il comico N 1 al box office, quando nel 1921fu accusato di aver violentato fino alla morte (con una bottiglia…) l’aspirante attrice Virgina Rappe. Il tribunale alla fine di un processo mediatico epocale lo giudicò innocente (e forse era vero), ma lui orami era un morto che cammina… Carriera e soprattutto vita, finita.
Nicola Bambini per vanityfair.it il 16 ottobre 2019. «Ha minacciato di uccidermi e poi si è infilato al pistola in bocca, sparando però un colpo contro il soffitto, proprio mentre nostra figlia dormiva». Fuoco e fiamme tra Jeremy Renner e Sonni Pacheco: la battaglia legale tra l’attore americano e la modella canadese, separati dal dicembre del 2014 dopo neppure un anno di matrimonio, si accende per questioni legate all’affidamento della piccola Ava. Secondo quanto riportato dal portale TMZ, lei ha accusato l’ex marito di aver abusato di alcol e stupefacenti, per poi minacciarla di morte. In una lite sarebbe persino spuntata un’arma, che però Jeremy avrebbe puntato contro se stesso. Inoltre, stando ai nuovi documenti legali, la star di «The Avengers» avrebbe pure lasciato della cocaina sopra un mobile di casa, facilmente raggiungibile dalla figlia. La secca sentita da parte dello staff di Renner non si è fatta attendere: «Il benessere di Ava è sempre stato e continua ad essere il focus principale della vita di Jeremy. Starà alla corte prendere una decisione per quanto riguarda l’affidamento della bambina», continua il comunicato, «ma è importante sottolineare come la le dichiarazioni di Sonni siano state fatte con uno scopo ben preciso in mente». L’attore californiano, due volte candidato all’Oscar, ci ha inoltre tenuto a precisare che per smentire le affermazioni di Sonni riguardo presunte dipendenze, si è sottoposto per tre mesi consecutivi a test casuali e tutti hanno dato esito negativo: «Non sono io ad avere problemi di droga», è stata la replica di Renner, che ha persino assunto uno psicologo che monitorasse gli incontri con la figlia. Tra l’altro, sempre secondo TMZ, pare che pure Jeremy abbia chiesto al tribunale di limitare il tempo che Ava passa con la madre, fin quando lei non avrà risolto i suoi problemi. I fan di Occhio di Falco sostengono il proprio beniamino e considerano le accuse della donna una sorta di vendetta per la relazione finita male, altri invece si schierano a fianco della modella canadese e chiedono una sanzione severa. Un caos in cui – come spesso accade in queste situazione – la principale vittima rischia di diventare la figlia.
Da ilsussidiario.net il 16 ottobre 2019. Il legale dell’attore ha evidenziato che il suo assistito è «pulito» e che si è sottoposto a dei test per provarlo: in base alla sua ricostruzione, Sonni Pacheco starebbe tentando di vendicarsi per la fine del matrimonio. L’ex moglie di Jeremy Renner ha parlato anche di abuso di droghe: il 48enne avrebbe lasciato della cocaina su un bancone nel bagno di casa nei giorni in cui aveva la custodia della figlia Ava. E il Daily Mail muove pesanti accuse nei confronti di Renner: tre donne avrebbero raccontato di aver avuto dei rapporti sessuali e di aver preso cocaina mentre la figlia Ava era in casa con loro. Il tabloid britannico spiega che l’ex fidanzata Carmen Orford ha dichiarato in Tribunale di aver visto Renner lasciare delle sostanze stupefacenti alla portata della piccola. Naomi Moore, ex tata, ha affermato che l’attore si ubriacherebbe ogni notte e organizzerebbe regolarmente feste rumorose, sempre nei periodi in cui ha la custodia di Ava.
ONDA SU HENRY FONDA. Cesare Lanza per “la verità” il 15 agosto 2019. Il 12 agosto di 37 anni fa moriva Henry Fonda. Un protagonista del mondo del cinema, una figura controversa e descritta, anche dai figli, con parole contraddittorie. Era un uomo molto riservato, poco incline a parlare di sé e della sua via privata. Di certo, si sa che ha avuto una vita sentimentale molto intensa: matrimoni ufficiali, amanti segrete e relazioni extraconiugali. È considerato tra gli attori di Hollywood più seduttivi e chiacchierati, nel mirino dei gossip dell' epoca. Andiamo per ordine: cinque matrimoni con vari divorzi, inizialmente con Margaret Sullavan (nome d' arte di Margaret Brooke Sullavan Hancock, Norfolk, 16 maggio 1909 - New Haven, 1º gennaio 1960), un' attrice cinematografica e teatrale statunitense, dalla quale si divise dopo soli due anni. A seguire le nozze con l' aristocratica Frances Ford Seymour Brokaw, deceduta nel 1950: una donna che era stata violentata quando aveva otto anni, con conseguenze psicologiche mai rimarginate, fino al suicidio quando aveva solo 42 anni. Da lei ha avuto i due figli, noti attori, Jane e Peter. In seguito ha sposato la produttrice teatrale e attrice Susan Blanchard (una figlia adottata, Amy). La quarta fu la contessa italiana Leonarda Afdera Franchetti, infine la documentarista televisiva Shirlee Mae Adams. Più intrigante, con molte smentite e indirette ammissioni, la sequenza delle sue amanti famose: Barbara Stanwyck, Gene Tierney, Patricia Farr, Tallulah Bankhead, Dorothy McGuire, Shirley Ross, Joan Crawford. Un episodio sgradevole e poco chiaro riguarda le botte alla quarta moglie, secondo il racconto, non si sa quanto affidabile, ricavato da un' intervista ad Afdera Franchetti, dalla quale era separato da tempo. Afdera, una vulcanica baronessa, «protagonista dei più grandi balli novecenteschi», e di molti clamorosi amori: è stata immortalata da Oriana Fallaci tra i suoi «antipatici» e trasformata nella protagonista del romanzo Penelope alla Guerra. («Un buon libro, contenente un sacco di palle», ha detto la baronessa). Afdera ha sposato, e lasciato, Henry Fonda. La sua storia è molto interessante: miliardaria, figlia di un mercante ed esploratore ebreo, che diede a tutti i suoi figli nomi africani (Afdera significa vulcano di Etiopia). Amica di Marylin Monroe, Gary Cooper, Luchino Visconti, Stanley Kubrick e Billy Wilder, e di Ernest Hemingway. Insomma, all' epoca, una vera regina del jet set. Quattro giorni in carcere, a Rebibbia, per aver portato tre sigarette di marjiuana al pittore Mario Schifano, suo grande amico. E Fonda, come l'aveva conosciuto? «A Roma, era il 1956, passeggiavo in via del Babuino con Audrey Hepburn ed entrammo in una galleria dove avevamo visto due strani dipinti, alcune monache che giocano a tennis. Dissero che un americano li aveva prenotati, ma io pagai cash e li presi. Qualche giorno dopo, a un party a casa mia, arrivò Fonda che stava girando Guerra e Pace con Audrey. Si stupì di trovare a casa mia i quadri che aveva prenotato. Nacque un bel rapporto, segreto all' inizio. Eravamo andati, una volta, un gruppo di amici, a fare una gita a Pamplona e lì incontrammo Ernest Hemingway che era molto amico di mio fratello Nanuk e glielo andò subito a riferire... Ed Henry, appena tornati a Venezia mi riempì di botte. Avevo 25 anni, Fonda 48. Pensò solo che era troppo vecchio... E mi menò». Un' altra storia controversa: Henry Fonda non ha mai amato i figli. Se ne è parlato tanto, c' è una terribile e recente testimonianza nel libro di un suo figlio. Ma si stenta a crederlo... Con questa inattesa «rivelazione» un altro degli ultimi miti americani, rimasto quasi immune da scandali e pettegolezzi, finisce nell' elenco delle star oscurate da vizi più o meno gravi. A rivelare i segreti della vita privata di uno dei più amati attori per famiglie è Peter Fonda, figlio minore di Henry e ammirato protagonista di Easy Rider. In un libro uscito negli Stati Uniti: si intitola Don' t tell Dad (Non dire Papà) e si sofferma sullo scarso affetto che Henry aveva per i figli. In particolare, Peter ricorda di quando sua sorella maggiore Jane si ferì da bambina alla schiena mentre nuotava. Tornando in casa, Jane iniziò a lamentarsi per il dolore, ma la reazione del padre fu freddissima: «Continuò ad occuparsi dei propri affari», ricorda Peter, «e poi, stufo di ascoltare il pianto di Jane, uscì di casa seccato». Il libro è pieno di veleno... Peter racconta anche di essere stato totalmente devastato, all'età di dieci anni, quando, rimasto orfano della madre, venne a sapere che suo padre aveva una relazione con un' altra donna. La notizia sarebbe arrivata al piccolo Peter in modo talmente brutale che, per il dolore, il bambino cercò di spararsi un colpo di pistola allo stomaco. Nella biografia, Peter Fonda parla anche dei suoi problemi con la droga, legando anche questi alla carenza di affetto con il padre. Alla fine c' è comunque un ricordo tenero di Peter per il padre: poco prima di morire, Henry lo chiamò e gli sussurrò: «Ti amo molto, ragazzo, voglio che tu lo sappia». Henry Fonda, come attore, sembrava nato per il genere western. Ci sono un ventina di titoli nel suo curriculum: Alba fatale, Sfida infernale, Il Massacro di Fort Apache di John Ford, C' era una volta il West di Sergio Leone, Il mio Nome è Nessuno. Diede il suo volto a Lincoln, Roosevelt, Nimitz, MacArthur, Wyatt Earp, ma anche a Tom Joad, Mr. Davis, giurato n°8 di La Parola ai Giurati, a Manny Balestrero di Il Ladro. Di sé stesso e della sua vita di attore Henry ha detto: «Diventare un attore può essere imbarazzante perché devi piangere o apparire nudo di fronte a tutti. La recitazione può essere anche considerata una sorta di confessione virtuale sulla tua infanzia disturbata o sulle tue crepe emotive». In contraddizione con quanto scritto dal fratello Peter nel suo libro acidissimo, ecco invece la versione della figlia Jane: «Mio padre è stato un grande uomo prima che un attore. Antirazzista e coraggioso, amava scrivere e leggere, mai si è sentito una star». E a proposito delle riprese del film Sul Lago dorato, in cui recitarono insieme: «A mio padre, che amava la perfezione, non piaceva niente che non fosse stato provato: la mia scena era quella in cui vado a parlargli per dirgli: "Voglio essere tua amica", anche perché non eravamo stati mai tanto vicini. Quindi c'era un primo piano suo e io ho aspettato fino all' ultimo momento, prima di fare una cosa non programmata, ciò che mio padre non amava affatto, quando gli ho detto: "Voglio essere tua amica", gli ho toccato la mano e a lui sono venute le lacrime al volto». Anche Peter, al di là del libro, lo ha ricordato - in altre occasioni - con tenerezza: «Mio padre Henry non parlava mai, ma ha insegnato tutto a me e Jane, con il suo esempio. Quando il suo Paese ha avuto bisogno di lui, ha rischiato la vita. Non approvava la guerra, ma lui ha lasciato una vita bella e comoda, perché lo riteneva giusto. E anche in famiglia, pur con tutti i suoi difetti, le difficoltà generazionali e di comunicazione, ci ha insegnato valori come l' onestà, la sincerità, l' impegno civile, la giustizia. Il male e il bene spesso nascono in famiglia».
Il suo nome completo era Henry Jaynes Fonda (Grand Island, 16 maggio 1905 - Los Angeles, 12 agosto 1982). Nacque nel Nebraska dal pubblicitario William Brace Fonda e da Herberta Krueger Jaynes. La famiglia Fonda, da parte paterna, era di origine olandese, pur avendo come capostipite un italiano immigrato da Genova nei Paesi Bassi, in un' epoca non ben determinata del XV secolo. Nel 1642 alcuni membri della famiglia emigrarono in America e furono fra i primi colonizzatori olandesi che si trasferirono nell' attuale Stato di New York, dove fondarono la città che da loro prese il nome di Fonda. La bisnonna, Harriet McNeill, era un'immigrata irlandese. La sua identità di attore è stata quasi sempre l'americano democratico e non violento, ha confermato anche sullo schermo i suoi ideali libertari e pacifisti. Spesso, con iniziative personali, si è battuto in campagne politiche a favore di candidati del Democratic party. Dopo aver studiato teatro e recitazione, si laureò in giornalismo all' Università del Minnesota. Debuttò a Broadway con grande successo e, subito ingaggiato dal produttore Darryl Zanuck, firmò un contratto quinquennale con la Fox ed esordì nei primi Technicolor dell' epoca. È stato il solo attore americano presente in tre film sulla seconda guerra mondiale: Il Giorno più lungo, La Battaglia dei Giganti e Midway. Inoltre è apparso in Mussolini: ultimo Atto (1974), un film più storico che bellico. Sul Lago dorato (1981) è stato il suo ultimo film, l' unico Oscar vinto. Malgrado uno curriculum intenso e progressivo, si è fermato nel cinema dal 1948 al 1955, per ritornare al teatro, ma con risultati altalenanti. È considerato il patriarca di una stirpe di celebri attori, oltre ai suoi figli Jane Fonda e Peter Fonda, anche i suoi nipoti Bridget Fonda e Troy Garity. Nonostante l'importanza (sul set per oltre 45 anni) e il valore riconosciuto delle sue interpretazioni cinematografiche, Fonda ha atteso fino al 1981 per un Oscar alla carriera e l' anno successivo per l'Oscar come miglior attore protagonista (singolare curiosità), nel ruolo del professore in pensione, dell' amaro Sul Lago dorato con Katharine Hepburn. C' è poco da stupirsi tuttavia. Disprezzava apertamente l'ambiente del cinema in generale e quello di Hollywood in particolare: il suo unico, vero grande amico era James Stewart, che gli è stato vicino fino al giorno della sua morte, a 77 anni, per infarto.
Jane Fonda è felice di essere arrestata per la seconda volta in una settimana. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 su Corriere.it da Paola Caruso. L’attrice, 81 anni, fermata per la seconda volta in una settimana per le sue proteste sul clima: «Greta mi ispira, ogni venerdì in piazza. Sorrisi e pollici in su davanti ai fotografi. Jane Fonda, 81 anni, è felice di essere arrestata per la seconda volta nell’arco di una settimana a Washington D.C. per aver organizzato una manifestazione illegale, ma pacifica, contro il cambiamento climatico davanti al Campidoglio (l’arresto precedente risale al 12 ottobre). L’attrice premio Oscar è decisa a portare avanti la sua battaglia ecologica e ha intenzione di farsi arrestare «ogni venerdì», tant’è che si è presa una pausa dal set della serie «Grace and Frankie» e si è momentaneamente trasferita nella Capitale. La star dice di essere stata ispirata da Greta Thunberg e di voler usare la sua popolarità hollywoodiana per sensibilizzare gli americani sui temi ambientali. Non è la prima volta che lotta per un ideale: tutti la ricordano agguerrita quando in gioventù protestava contro la guerra del Vietnam, guadagnandosi il soprannome di «Hanoi Jane». Ora è la nuova eroina green a stelle e strisce. «Jane, Jane», hanno urlato i manifestanti mentre gli agenti la portavano via senza strattoni, insieme ad altre 17 persone arrestate, tra i quali anche l’attore Sam Waterston, 78 anni, coprotagonista con lei della serie «Grace and Frankie», che forse molti ricordano per il suo ruolo tv in «Law & Order» . Nessun disordine si è verificato durante la manifestazione, neanche durante gli arresti. Jane, ammanettata con le fascette, ha detto di essere contenta che questa volta le abbiano legato le mani sul davanti, perché il 12 ottobre, con le mani legate sulla schiena ha fatto fatica a salire sul furgone della polizia senza poter usare le mani per aggrapparsi a qualcosa. «Sono vecchia», ha ammesso, ma «ho ancora tanto da dire». Qualcuno nella folla le ha urlato: «Cosa vorresti dire al presidente Trump?». Ridendo, la sua risposta è stata secca: «Non sprecherei fiato». Appuntamento a venerdì prossimo per una nuova manifestazione.
Jane Fonda compie 82 anni e viene arrestata per la quinta volta. Gli attivisti le cantano «Happy birthday». Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 da Corriere.it. Jane Fonda lo aveva annunciato: «Passerò il mio compleanno in carcere». E così è stato. L’attrice che il 21 dicembre compie 82 anni, è stata arrestata venerdì 20 dicembre a Washington, per la quinta volta durante la protesta contro i cambiamenti climatici davanti al Campidoglio. Per lei finire in manette è quasi un’abitudine. D’altra parte, lo aveva messo in conto quando qualche mese fa si è trasferita nella Capitale degli Stati Uniti per diventare un’attivista per l’ambiente (con tanto di manifestazione in piazza ogni venerdì del mese), mollando tutti gli impegni sul set, per seguire le orme di Greta Thunber dalla quale prende ispirazione, per sua stessa ammissione, attraverso il gruppo green «Fire Drill Fridays» creato da lei. Con il suo solito cappottino rosso, la star due volte premio Oscar, sorride e saluta mentre gli agenti la portano via e gli altri manifestanti le cantano «Happy birthday». Le sue mani sono legate da fascette che per fortuna, come da suo desiderio, le bloccano i polsi davanti al corpo e non dietro la schiena come sarebbe corretto. Una cortesia, quella delle mani legate davanti, che gli agenti hanno nei suoi confronti dal secondo arresto, avvenuto a metà ottobre, quando ha dichiarato che con le mani dietro la schiena non riusciva a salire sul furgone della polizia. Insieme alla diva sono stati arrestati anche il direttore di Greenpeace’s Oceans Campaign negli Stati Uniti, John Hocevar, e l’attivista Heather Booth. Prima di finire in manette, l’attrice si è rivolta ai manifestanti da un podio abbellito da un cartello con il messaggio «Buon 82esimo compleanno, Jane» per chiedere un intervento sulle emissioni di gas serra e da dove ha sottolineato il legame tra la crisi climatica e la salute umana. «Il cambiamento climatico è un problema di salute pubblica», ha detto Fonda, che ha spiegato che l’aumento delle malattie respiratorie, come l’asma, e altri mali è legato alla crescita dell’inquinamento. E non saranno le 82 primavere a fermare la sua battaglia ecologica: presto la rivedremo in piazza, come ha promesso.
MARILYN NON SI SUICIDO MA FU UCCISA DALLO PSICHIATRA. Leonardo Coen e Leo Sisti per "il Venerdì di Repubblica" - articolo del 9 maggio 2012
SECRET. OGGETTO: Marilyn Monroe. Internal Security.
DATA: 19 agosto 1955.
NUMERO DI PROTOCOLLO: 40018.
MITTENTE: John Edgar Hoover, Director Federal Bureau of Investigation. DESTINATARIO: Dennis A. Flinn, Director Office of Security (SY), Dipartimento di Stato, 515 22nd Street N. W., Washington, D.C. Venti righe. Molte cancellate per coprire i nomi dei collaboratori Fbi. Scrive Hoover: «Un informatore, attendibile in passato, il 12 agosto ci segnala che... (censura)... della Reuters News Agency ha contattato l'ambasciata sovietica di Washington. In risposta ad una richiesta da... (censura)... avvertì che l'ambasciata sovietica ha ricevuto una lettera dal manager di Marilyn Monroe contenente la domanda di un visto per visitare l'Unione Sovietica. Secondo... (censura)... la questione è ora sottoposta ad esame... (censura)... avvertì inoltre che... (censura)... ha parlato di questa materia con l'addetto culturale dell'ambasciata sovietica. L'informatore ha anche aggiunto che il 12 aprile del 1955 un reporter del New York Post ha contattato l'ambasciata sovietica di Washington e ha fatto delle richieste riguardanti la domanda di Marilyn Monroe per il visto... (censura) ... informò il reporter che la lettera che richiedeva il visto era firmata dal suo manager ed è arrivata il 12 agosto del 1955 ed è stata presa in considerazione. Tutti questi dati sono stati forniti per sua informazione con la richiesta che non siano ulteriormente diffusi per proteggere l'identità dell'informatore in questo caso». Come mai il temutissimo e potente boss dell'Fbi si pigliava la briga di scrivere personalmente al Dipartimento di Stato segnalando che l'attrice più famosa e popolare d'America aveva chiesto un visto per l'Urss? Bisogna entrare nel clima di quegli anni, agli sgoccioli del maccartismo, e in piena Guerra fredda. Hoover è al vertice del Bureau dal 1924 (ci resterà sino al 1972): di lui si parla molto oggi, grazie al film J. Edgar di Clint Eastwood. Leonardo DiCaprio interpreta Hoover: un uomo che incarnava l'ipocrisia della cultura puritana, quell'America ossessionata dai «rossi, dai neri e dai pederasti ». Un uomo con molte fobie. Quella degli stranieri, per esempio. Non era mai stato all'estero, salvo una scappata in Messico. Il suo rapporto con la sessualità era controverso, e nel film di Eastwood si palesa una possibile relazione omosessuale con Clyde Tolson, il suo vice, al quale lascerà l'eredità e che verrà seppellito accanto a lui. Per J. Edgar, Marilyn è l'oggetto del peccato. Una sgualdrina. Peggio: una che frequentava i «nemici» degli Stati Uniti. Come Arthur Miller. Il grande drammaturgo in odore di comunismo che Marilyn aveva incontrato nel 1951 e che nel 1956 sarebbe diventato il suo terzo marito. Come incastrare questa coppia malefica? L'Fbi sguinzaglia i suoi segugi. Cerchi Marilyn e trovi i fratelli Kennedy, John e Bob, il presidente e il ministro della Giustizia, entrambi amanti della donna che faceva sospirare il mondo intero. Pure Ted, il fratello minore. E poi: Frank Sinatra, Peter Lawford, attore e cognato dei Kennedy, Sammy Davis jr., Lee Strasberg, il regista che aveva fondato l'Actor's Studio a New York. Una Hollywood sulfurea, con i suoi agganci mafiosi (Sam Giancana finanzia i film di The Voice). Sono oltre 2700 i documenti Fbi che riguardano direttamente e indirettamente Marilyn Monroe, e l'ultimo è anche il più scabroso. Riguarda una nota vicenda: quella di un filmino porno girato in 16 mm che dura pochi minuti. L'anno scorso venne messo all'asta a Buenos Aires e fecero scalpore su internet le brevissime scene in cui si vede una ragazza molto somigliante alla giovane Marilyn - al tempo in cui ancora si chiamava Norma Jean Baker - che ha un rapporto orale con uno sconosciuto partner. L'Fbi lo aveva bollato Unnatural acts nel rapporto del febbraio 1965 (memorandum protocollato 145-3217-1). Anzi, gli spioni federali avevano poi caricato la dose: Perverted act. Povera Marilyn: nemmeno da morta la lasciano in pace. Il suo corpo senza vita era stato trovato il 5 agosto del 1962. Ma il suo nome rimbalza da un dossier all'altro per anni e anni ancora. La vicenda del filmino è grottesca: Joe Di Maggio, il grande campione di baseball, suo secondo marito ma forse anche l'unico che l'abbia amata veramente, fece di tutto per recuperare la pellicola compromettente, messa in vendita da un misterioso ricattatore. Offre 25 mila dollari, una somma cospicua all'epoca. L'Fbi registra l'indiscrezione, ma non agisce come dovrebbe per smascherare il ricattatore. L'informatore che ha rivelato l'inghippo era presente alle trattative, in un locale di New York, dove era stata esibita la «pizza» del filmato. Invece di indagare, l'Fbi raccomanda di «evitare ogni fuga di notizie perché potrebbe essere compromesso il nome della fonte». E invita a non «discutere della faccenda fuori dagli uffici dell'Fbi». Sono tre righe in carattere maiuscolo e sottolineate perentoriamente. Un ordine. In verità, i guai di Marilyn erano stati causati involontariamente da Arthur Miller che frequentava - pubblicamente - fin dagli anni Quaranta personaggi che i servizi di sicurezza Usa tenevano d'occhio notte e giorno. Per estensione, dunque, anche la Monroe diventa una «di sinistra », come lo era notoriamente Miller. I file che lo riguardano erano qualificati internal security. E lo stesso destino è applicato a Marilyn. Ogni contatto dell'attrice è vivisezionato, persino quando va in Inghilterra in viaggio di nozze. La storia con Miller finisce, ma ormai lei resta invischiata nei meccanismi - questi sì, perversi - del Grande Occhio di Hoover. Che la segue ovunque. Pochi mesi prima di morire, il 19 febbraio del 1962, le capita di andare in Messico, da Miami. Organizza tutto Frank Sinatra, che si appoggia all'ex presidente messicano Miguel Alemán Valdés. Gli spioni non solo registrano l'episodio ma si allarmano perché lei ha viaggiato con alcuni membri dell'American Communist Group in Mexico (Acgm): lo certifica il rapporto 105-40018-2. La prova che la cittadina 40018 è una sovversiva. Anche leggendo i fascicoli segreti Fbi, la tentazione è quella di ricostruire la storia di Marilyn Monroe cominciando dalla fine, ossia dalla morte che nell'immaginario collettivo resta uno dei grandi misteri americani, come l'assassinio di John Kennedy, che verrà ucciso un anno dopo. Un filo doppio, anzi triplo, lega Marilyn ai Kennedy. Tutti ricordano l'attrice sbronza mentre canta happy birthday al compleanno di John del giugno 1962. Pochi, invece, conoscono il contenuto della lunga, dettagliata ed inquietante nota informativa numero 61-9454-28, inviata da uno special agent e registrata il 19 ottobre 1962. Eccone alcuni stralci: «Robert Kennedy era profondamente coinvolto dal punto di vista emotivo con Marilyn Monroe. Le aveva promesso ripetutamente di divorziare dalla moglie per sposarla. Alla fine, Marilyn si rese conto che Bobby non aveva alcuna intenzione di sposarla e, in quel periodo, la 20th Century Fox aveva deciso di cancellare il suo contratto. Era diventata inaffidabile, arrivava tardi sul set, ecc. ecc. Inoltre lo studio aveva difficoltà finanziarie a causa delle grosse spese nel film Cleopatra (...). Marilyn telefonò a Robert Kennedy dalla sua casa di Brentwood, California, a tu per tu al Dipartimento di Giustizia di Washington, e gli riferì la cattiva notizia. Robert Kennedy le disse di non preoccuparsi per il contratto (...) si sarebbe occupato di ogni cosa. Quando nulla avvenne, lei lo chiamò ancora da casa al Dipartimento di Giustizia, a tu per tu, e in quest'occasione i due ebbero uno scambio di parole spiacevole. Si dice (testualmente: reported) che lei abbia minacciato di rendere pubblica la loro storia». Perché l'investigatore racconta questo episodio? Perché c'era sempre stato il dubbio che Marilyn Monroe fosse stata lasciata morire, invece di salvarla. Almeno, questo è il dubbio che traspare leggendo il seguito della nota: «Il giorno in cui Marilyn morì, Robert Kennedy era in città, registrato presso il Beverly Hills hotel. Per coincidenza l'albergo si trova dall'altra parte della strada in cui, anni prima, suo padre Joseph Kennedy aveva vissuto per un certo periodo con Gloria Swanson. Fatto sta che, lo stesso giorno, Bob lascia l'albergo e si reca da Los Angeles a San Francisco con un volo Western Airlines e alloggia al St. Francis Hotel, il cui proprietario era un suo amico. Robert Kennedy, da un altro albergo, il St. Charles Hotel, sempre di San Francisco, chiama Peter Lawford, per sapere se Marilyn è già morta. Peter Lawford aveva composto il numero di Marilyn e controllato ancora dopo per essere certo che non rispondesse». Più sotto, si accenna a una relazione lesbica di Marilyn con ... (censura)... «durante un rapporto sessuale con Marilyn. In alcune occasioni, John F. Kennedy partecipava ai festini (sex parties) con...(censura)... attrici». Si riferisce pure che uno di questi party era stato filmato da un detective privato di Los Angeles. Sic transit gloria mundi.
DAGONEWS il 14 settembre 2019. Judy Garland era così ossessionata dal sesso negli ultimi anni della sua vita che cercò di allungare le mani sotto la gonna della sua giovane assistente in una limousine. L'attrice, sulla quale è stato girato un nuovo film biografico interpretato da Renee Zellweger, era al suo quinto matrimonio e prendeva droghe quando è stata trovata morta per overdose da barbiturici a Londra nel 1969. Aveva solo 47 anni. La sua assistente personale, Stevie Phillips, racconta alcuni aneddoti devastanti della sua vita come quella volta in cui l’ha minacciata con un coltello o si è tagliata il polso mentre la guardava. Inoltre durante una delle loro numerose corse in auto Garland iniziò a tentare di insinuarsi sotto i suoi vestiti: «La sua mano ha iniziato un viaggio dal mio ginocchio, dove l'aveva messa quando la macchina si è mossa, fino al mio cavallo. La sua mossa non è stata involontaria. Judy non faceva nulla inavvertitamente. L'idea di essere intima con Judy mi disgustava. Volevo rifiutarla. E non era solo perché era una donna, anche se una relazione con un'altra donna non mi interessava. Era perché non mi piaceva». Ma era paralizzata dalla paura e continuava a chiedersi se avrebbe potuto perdere il lavoro se avesse offeso Judy. Alla fine, però, ha preso coraggio, ha afferrato la sua mano e l’ha appoggiata sul suo grembo con un sorriso. L'aggressività sessuale di Garland viene raccontata da una rissa del 1963 al Savoy, dove attaccò la moglie di uno dei suoi amanti. Phillips ha raccontato che le due «cercavano di uccidersi, scalciando, strappandosi vestiti e capelli. Entrambe sanguinavano. Avevano gli abiti strappati. Erano quasi nude nel corridoio del quinto piano». In un altro hotel, Garland, totalmente drogata, uscì in lingerie sul balcone per cantare un pezzo del Mago di Oz a una folla di uomini: lei piangeva, ma da sotto gli uomini fischiavano e urlavano alla stella seminuda. In un’altra occasione puntò il coltello alla Phillips accusandola di aver rubato i sonniferi: in realtà era stato il medico a prenderseli. Phillips ha sempre creduto che avrebbe dovuto essere ricoverata in ospedale, ma che molte persone facevano soldi grazie a lei. L’assistente ha anche ricordato una serata al Ritz-Carlton di Boston nel 1963, durante un tour di concerti quando Garland improvvisamente si tagliò il polso durante la loro conversazione. «Il momento è stato reso ancora più orribile dal fatto che quando ha fatto il taglio, mi stava guardando e sorrideva - ha scritto Phillips - Molti dei suoi tentativi di suicidio erano per attirare l'attenzione di chiunque fosse il suo amante del momento». E in quell'occasione, David Begelman, un talent scout con cui Garland aveva una relazione, si precipitò rapidamente nella stanza per aiutare il cantante. Dopo alcuni punti al polso, Garland si è esibita più tardi quella notte. Aveva firmato con MGM a soli 13 anni e si dice che il co-fondatore dello storica compagnia privata di cineproduzione Louis B. Mayer l'abbia messa in ridicolo perché in sovrappeso in giovane età. Si pensa anche che la compagnia la tenesse in piedi grazie a un cocktail di farmaci. Anfetamine per mantenerla energica, barbiturici per aiutarla a dormire di notte. I boss della compagnia sono anche accusati di aver molestato Garland dall'età di 16 anni. Da quel momento le sue relazioni sentimentali sono state distruttive: si è sposata per la prima volta a 19 anni e ha accusato almeno due dei suoi cinque coniugi di averla picchiata. Ha avuto tre figli, ha avuto almeno due aborti dopo essere stata messa sotto pressione da suo marito, sua madre o dalla MGM.
· Demi Moore racconta: "Violentata a 15 anni".
Demi Moore racconta: "Violentata a 15 anni". L'attrice sta per pubblicare la sua autobiografia in cui si apre su molti temi: figli, mariti e la sua difficile infanzia. E racconta di quella bambina non nata. La Repubblica il 13 settembre 2019. Violentata a 15 anni. A raccontarsi a 360 gradi al New York Times è l'attrice Demi Moore, la cui autobiografia Inside Out è in uscita il 24 settembre. "Questo libro è una storia di sopravvivenza, successo e resa, così come di resilienza", spiega il comunicato che accompagna il libro. "È il ritratto onesto e straziante di una donna dalla vita ordinaria e iconica allo stesso tempo". L'attrice ha raccontato di aver subito violenza in adolescenza e di essersi trasferita dalla casa di sua madre per vivere con un chitarrista quando ha compiuto 16 anni. Due anni dopo Demi Moore ha sposato il musicista rock Freddy Moore, un'unione che la star del cinema ammette di aver rapidamente sabotato con la sua infedeltà. L'attrice è poi stata sposata altre due volte, la prima con Bruce Willis (dal 1987 al 2000) con cui ha avuto tre figlie e Ashton Kutcher, di quindici anni più giovane. Nell'autobiografia a cuore aperto, l'attrice racconta che all'epoca del matrimonio con Kutcher aveva perso un bambino e che si sente responsabile di questo aborto perché all'epoca aveva ricominciato a bere. "Come donna, madre e moglie, ci sono alcuni valori che ritengo sacri, ed è con questo spirito che ho scelto di andare avanti con la mia vita", ha detto parlando del tema dell'aborto. Ha perso la bambina quando era incinta di sei mesi e ha rivelato che che lei e Ashton intendevano chiamare la piccola Chaplin Ray. Poco dopo il suo aborto l'attrice ha iniziato a bere di nuovo, dopo aver rinunciato a alcol e droghe per 20 anni. Si incolpò per la perdita della figlia. Demi e Ashton in seguito hanno cercato di avere un bambino dopo il loro matrimonio del 2005, ma per Moore l'alcool divenne un problema fuori controllo e iniziò ad abusare di un farmaco oppiaceo, il Vicodin, prima che nel rapporto con Ashton arrivassero i tradimenti di lui. Ora Demi ha una relazione con stilista serba Masha Mandzuka. L'attrice è anche protagonista di una copertina di Harper's Bazar che ha fatto parlare perché vede Demi Moore, che oggi ha 56 anni, nuda sulla famosa rivista, un "remake" di cover a molti anni di distanza, l'attrice infatti era apparsa incinta e senza veli a 28 anni.
DAGONEWS il 23 settembre 2019. Demi Moore a cuore aperto ha descritto di essere stata violentata a 15 anni da un uomo che ha pagato la madre alcolizzata 500 dollari per poter abusare di lei. Moore, ora 56enne, ha parlato con Diane Sawyer di alcuni dettagli strazianti del suo nuovo libro, Inside Out, durante la trasmissione “Good Morning America”. Uno degli aneddoti più scioccanti che ha condiviso risale all’adolescenza quando sua madre Virginia King iniziò a portarla nei bar in modo che insieme attirassero l'attenzione degli uomini. Moore ha ricordato come, dopo una gita, è tornata a casa e ha trovato un uomo più anziano che aveva una chiave della loro abitazione. «Dopo averla violentata mi disse: "Come ci si sente a essere fottute per 500 dollari?". È stato uno stupro e un tradimento devastante». Alla domanda di Sawyer se pensava di essere stata venduta da sua madre, lei ha risposto: «Dal profondo del mio cuore, penso di no. Non credo che sia stata una transazione, ma lei gli ha comunque dato l'accesso e mi ha messo in pericolo». Moore è nata nel New Mexico, ma suo padre biologico ha lasciato sua madre prima che lei nascesse. È stata cresciuta da sua madre e dal secondo marito di sua madre, Dan Guynes, che pensava fosse il suo vero padre fino all'età di 13 anni quando ha scoperto la verità dal suo certificato di nascita. Sia lui che sua madre erano alcolizzati e sua madre ha tentato il suicidio molte volte. Nel suo libro, Moore ricorda di aver cercato di salvare la vita di sua madre almeno una volta «Ricordo di aver usato le mie dita, quelle piccole da bambina, per far uscire le pillole dalla sua bocca» ha scritto nel libro. Durante l’adolescenza, sua madre e Guynes si lasciarono e loro due si trasferirono a Hollywood, dove è avvenuto lo stupro e dove poco dopo, a 16 anni, iniziò la sua carriera da attrice. Oltre a riflettere sulla sua infanzia, ha ricordato i problemi che ha avuto nella sua vita adulta, incluso il crollo del 2012 a una festa durante la quale aveva assunto un cocktail di droghe. «Immagino che la domanda sia stata come sono arrivata a quel punto. Semplicemente mi ero persa. Se dovessi guardare indietro, direi che mi sono accecata e mi sono perso».
Da Mtv.it il 24 settembre 2019. Demi Moore sta per pubblicare un libro autobiografico che si intitola "Inside Out" e, secondo alcuni tabloid americani che l'hanno potuto sfogliare in anteprima, come Radar, ci sono diversi dettagli sulla sua relazione con Ashton Kutcher che ancora non conoscevamo. Il primo è una rivelazione piccante: la star ha raccontato di aver acconsentito a fare sesso a tre con l'ex e con un'altra donna, cosa che oggi, se tornasse indietro, non rifarebbe: "È stato un errore". Demi, che è più grande di Ashton di 16 anni, ha aggiunto: "Volevo solo mostrargli quanto io possa essere fantastica e divertente". L'attore avrebbe poi usato la cosa a tre come scusa per un suo tradimento: nel 2010, mentre Demi Moore stava girando "Another Happy Day" a New York, erano usciti alcuni gossip secondo cui lui aveva portato a casa loro un'altra ragazza conosciuta mentre stava giocando a bowling con la figlia della moglie e di Bruce Willis, Rumer. La 56enne ha spiegato di avere visto quei titoli e di aver cercato un confronto con Ashton Kutcher: "Siccome avevamo portato una terza parte nella nostra relazione, mi ha risposto Ashton, questo aveva confuso i confini e per qualche ragione giustificava quello che aveva fatto. Cercava di scaricare la sua colpa". Poco prima della separazione nel 2011, lui l'avrebbe tradita di nuovo, durante l'addio al celibato del collega Danny Masterson. Demi Moore ha detto di averlo scoperto attraverso Google alert: "Sentivo la nausea nel mio stomaco - ha scritto - Sapevo che quella ragazza non stava mentendo". Un altro drammatico momento che ha portato alla fine del loro matrimonio è stato svelato dal New York Times: Demi Moore e Ashton Kutcher stavano per diventare genitori ma al sesto mese di gravidanza persero la bambina che stavano aspettando. I due attori sono stati sposati dal 2005 al 2011, quando lui aveva fatto le valigie e aveva lasciato la loro casa. Nel 2013 era arrivato il divorzio ufficiale.
La madre fragile, lo stupro, l’alcol: Demi Moore e il suo libro shock. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. «Mia madre non è cresciuta, è stata forgiata», ha detto Tallulah Willis, la figlia 25enne di Demi Moore al giornalista del New York Times salito sulle colline di Beverly Hills per intervistare l’attrice 56enne in occasione dell’uscita del suo libro, «Inside Out», pubblicato da Harper negli Stati Uniti. L’autobiografia-scandalo, che sta raccontando al mondo la verità della vita della star d’acciaio, venerata come una divinità, chiacchierata per gli amori-bambini (da Ashton Kutcher, 16 anni più giovane, a Harry Morton, vent’anni meno di lei) e le passioni complicate; ma anche paladina anzitempo dell’equità retributiva nel mondo dorato di Hollywood; protagonista di pellicole fuori dagli schemi (come il film «Proposta indecente», con Robert Redford) e di film di successo, da «Ghost-Fantasma» a «Codice d’onore», «Soldato Jane» (di cui fu anche produttrice). Adesso ha deciso di raccontare il lato buio della sua vita, dall’inizio. Di mettere nero su bianco quell’abisso tra il glamour «out» e i dettagli intimi e difficili, il «dentro» più amaro. A cominciare dalla sua infanzia raminga, con continui spostamenti tra New Mexico, Pennsylvania e Ohio; e con entrambi i genitori alcolizzati. «A 12 anni mia madre tentò per la prima volta di suicidarsi - si legge nel libro -. Ricordo di aver usato le mie dita, le dita piccole di una bambina, per togliere dalla bocca le pillole che mia madre aveva ingerito». I ripetuti tentativi di suicidio furono per Moore la fine della sua infanzia. Seguirono una rivelazione scioccante dopo l’altra. La prima, che l’uomo che lei chiamava papà e amava come tale non era in realtà il padre biologico. Dopo il divorzio dei genitori la Moore andò a vivere con la madre. In quegli anni accade un altro episodio sconvolgente: poco più che bambina, è vittima di uno stupro. Nel libro scrive che quando aveva 15 anni la madre tornò a casa con un uomo più grande. Lui la violentò e poi le chiese come si sentiva ad essere stata venduta dalla madre per soli 500 dollari. «Nel profondo del cuore no, non credo che si sia trattato di una semplice transazione - scrive a proposito del fatto se fu venduta o meno dalla madre -. Tuttavia gli diede accesso a me e mi fece del male». In seguito abbandonò la scuola e la madre e si trovò a vivere con un chitarrista. Due anni dopo sposò il musicista rock Freddy Moore, ma l’unione non durò molto. Nel libro ripercorre i matrimoni (Bruce Willis, dal 1987 al 2000; Ashton Kutcher dal 2005 al 2013), il rapporto con le tre figlie, nate dal matrimonio Bruce Willis (Rumer, 31, Scout, 28 e Tallulah Belle, 25), e quello con il successo. A 19 anni, senza alcuna esperienza nel campo della recitazione, ebbe una parte nella soap opera «General Hospital» ma poi cominciò anche con l’alcol e la droga, alternando percorsi difficili di riabilitazione. Negli anni ‘90 inizia l’ascesa verso il successo, che la porta a diventare l’attrice più pagata di Hollywood, tanto da vedersi affibbiare il nomignolo di «Gimme Moore», che gioca sull’assonanza con la frase «dammi di più». Ma adesso desidera che il pubblico la veda finalmente come lei vede se stessa, senza barriere o trucchi. Vulnerabile, vera. «Non come su una copertina, non come un personaggio», ha dichiarato in più di un’intervista, nel tour per promuovere il libro. Un processo per riscoprirsi, per ritrovarsi, al di là del successo. Un percorso di guarigione, doloroso e pieno di demoni e fantasmi. Come quello del patrigno, Danny Guynes, che morì suicida nel 1980. Pochi anni dopo Demi entrò in un percorso di «rehab» per disintossicarsi da alcol e droghe. Nel libro Moore racconta anche del suo matrimonio con Kutcher e di quanto devastante fu per lei scoprire del suo tradimento. Kutcher lo ammise, ma si sentì anche giustificato a farlo perché la coppia aveva avuto un menage à trois. Durante il matrimonio con Kutcher, Moore rimase anche incinta. Aveva 42 anni e perse il bambino al sesto mese di gravidanza. La Moore sostiene che Ashton non le diede il supporto necessario e di essere così ricaduta nell’alcolismo. Nel 2012, dopo mesi di feste, alcol e una drastica perdita di peso, venne ricoverata in ospedale, prima di ricominciare con la riabilitazione: «All’inizio della mia carriera ho intrapreso un percorso di vera autodistruzione». «Nonostante i successi avuti», ammette: «Se porti dentro di te un pozzo di vergogna e un trauma irrisolto, nessuna somma di denaro, nessuna celebrità, può riempirla». Al suo fianco oggi ci sono le figlie, che la capiscono. «Cresciamo pensando che i nostri genitori siano degli dei dell’Olimpo. Ovviamente, diventando adulte, iniziamo a renderci conto di quanto i nostri genitori siano solo persone», ha detto la figlia Scout. «E va bene così».
Le confessioni di Demi Moore: intimità a tre con il marito Ashton Kutcher. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. L’ultima rivelazione è quella di essere stata venduta dalla madre per 500 dollari e di conseguenza violentata, a 15 anni, da un uomo entrato tranquillamente in casa con le chiavi. Ma c’è anche la confessione d’aver fatto sesso a tre per accontentare il giovane marito: «Ho detto sì per farmi accettare e per paura di perderlo». E c’è il racconto del momento drammatico in cui lei, dodicenne, salva la mamma dal suicidio: «Ricordo di aver usato le mie dita, le dita piccole di una bambina, per toglierle dalla bocca le pillole che aveva ingerito». C’è il momento in cui, sedicenne, scopre che suo padre non era suo padre. C’è l’adolescenza in cerca di fortuna fra abuso di alcol e cocaina. L’autobiografia di Demi Moore, Inside Out, edita da HarperCollins, è finalmente uscita negli Stati Uniti ed è un sollievo, poiché lo stillicidio di anticipazioni seguitava dal 12 settembre, cominciato con un’intervista sul New York Times e una copertina di Harper’s Bazaar, sulla quale Demi posa nuda a 56 anni. Nuda l’avevamo già vista anche con il pancione, anno 1991, su una cover di Vanity Fair Usa che inaugurò un genere assai emulato. La volontà di fare notizia e, in definitiva, di essere amata, c’era già allora. A Demi non bastava essere la star di Ghost, film che nel ’90 era stato campione di incassi nel mondo, lei voleva stupire, imporre tendenze, aprire strade. È stata la prima diva a reclamare parità di cachet fra attori e attrici e la prima a incassare 12,5 milioni di euro per un film (Striptease). E pazienza se all’aumento salariale corrispondeva un’impennata del tasso erotico, già cominciata con Proposta indecente e Rivelazioni. Demi è stata la prima celebrità a sposare un toyboy, Ashton Kutcher, 15 anni meno di lei. La prima a pentirsene e, poi, la prima a fidanzarsi con un ex della figlia. Era il 2012, lei aveva 50 anni, il ragazzo, Harry Morton, 31, però non tutte le strade mai battute portano in bei posti. Rumer, avuta da Bruce Willis, secondo di tre mariti, smise di parlarle. Non era l’unico motivo, scopriamo adesso. Rumer si era allontanata già quando la madre aveva avuto un collasso per aver fumato cannabis e inalato ossido di azoto. Le sorelle Scout e Tallulah si erano defilate prima ancora, tutte stufe dell’altalena di depressione, alcolismo, droghe e periodi di rehab in cui la mamma si dibatteva, specie da quando aveva perso la bimba che aspettava da Ashton. Era al sesto mese di gravidanza, rivela adesso, voleva chiamarla Chaplin Ray, e dopo aveva ripreso a bere, incolpandosi dell’aborto. Poi, era diventata dipendente dagli psicofarmaci, quindi aveva scoperto che Ashton l’aveva tradita due volte. Lui (attualmente sposato con l’attrice Mila Kunis) ha risposto su Twitter in modo singolare: «Avevo scritto un tweet molto crudele, poi ho guardato mio figlio, mia figlia, mia moglie e l’ho cancellato». Segue un secondo tweet, corredato di numero di cellulare: «Per sapere la verità scrivetemi». Inutile farlo. Il numero, in realtà, dà accesso a un social di sua proprietà: Ashton se n’è approfittato per fare pubblicità al suo nuovo business. Nella ridda di rivelazioni, le reazioni sono imprevedibili e anche ridicole. C’è Demi che confessa di sentirsi in colpa per aver ferito i sentimenti dell’attore Jon Cryer, col quale ebbe un flirt quando lui aveva 19 anni e lei 21, e dice: «Sono stata insensibile perché con me lui aveva perso la verginità». E Cryer cinguetta via social «tranquilla, hai poco da starci male, avevo già perso la virginità al liceo». Il risultato è che, se Demi ha scritto un’autobiografia per essere amata per quel che è, rischia semmai di essere compatita. Negli ultimi anni, racconta, ha affrontato un percorso di riabilitazione post traumatica e di disintossicazione dalle dipendenze e ha recuperato il rapporto con le figlie. Però nell’eccesso di anticipazioni drammatiche e lacrimevoli, la serenità tanto faticosamente conquistata non fa notizia.
Demi Moore, «Kutcher mi ha tradita due volte, per lui ho fatto sesso a tre». Pubblicato domenica, 22 settembre 2019 da Corriere.it. Non è ancora in distribuzione (uscirà martedì 24 settembre), ma l’esplosiva autobiografia di Demi Moore, «Inside Out», continua a far parlare per le scioccanti rivelazioni della sua autrice. Che torna a parlare della sua storia d’amore con Ashton Kutcher (con cui è stata sposata dal 2005 al 2011), incontrato a una festa di amici comuni nel 2003 e di cui, racconta la diva, si è innamorata nonostante fosse di 15 anni più giovane di lei. All’inizio, scrive Moore, la loro relazione era perfetta. Secondo quanto rivela «RadarOnline», i problemi sono cominciati dopo che Moore ha abortito spontaneamente al sesto mese di gravidanza, e diversi successivi tentativi di fecondazione in vitro falliti. Nel libro l’attrice racconta che l’ex marito l’ha tradita due volte, con Brittney Jones e Sara Leal, e che per rendere più «pepata» la loro relazione le avrebbe proposto un ménage à trois con un’altra donna. Il rapporto a tre risalirebbe al 2005, pochi mesi prima del loro matrimonio, in un periodo in cui l’ex soldato Jane stava provando ad avere un bambino: Moore spiega di aver accettato di fare sesso a tre solo per essere accettata da Kutcher come moglie. «Volevo mostrargli quanto poteva essere fantastico e divertente», ha rivelato, ammettendo poi però che quell’incontro «è stato un errore». Poi il capitolo dei tradimenti, che sarebbero arrivati negli anni successivi. Secondo quanto riporta il «Daily Mail», nel 2010 Demi Moore era a New York City sul set del film «Another Happy Day» quando lesse per caso su una rivista di gossip che Kutcher aveva dormito con Brittney Jones, all’epoca 21enne. Nonostante i problemi di coppia, nel 2011 Demi era ancora intenzionata a tenere in piedi il suo matrimonio. Suo marito, forse, un po’ meno. Demi racconta di aver saputo da un alert di Google che Kutcher aveva passato una notte selvaggia nella sua suite dell’Hotel Hard Rock di San Diego con Sara Leal, una texana 22enne conosciuta alla festa di addio al celibato dell’amico Danny Masterson, proprio nel giorno del loro sesto anniversario. La ragazza raccontò ai giornali che a rimorchiarla era stato proprio l’attore; aggiungendo che, pochi minuti dopo il loro incontro, lei, Kutcher e un’altra giovanissima ragazza si erano ritrovati a mollo in una fantastica vasca idromassaggio sul balcone della suite. «Mi sono sentita male. Sapevo che era vero», confida l’attrice nel suo libro. Inevitabile la decisione di separarsi, alla fine del 2011. Demi e Kutcher hanno divorziato ufficialmente due anni dopo, nel 2013. L’attore di «Jobs» oggi è sposato con Mila Kunis, da cui ha avuto due figli. «Questa è la verità di Demi», sarebbe stato il suo commento secondo quanto riferisce «UsWeekly». Demi, invece, da allora non ha frequentato ufficialmente nessun uomo.
Da Huffingtonpost il 21 settembre 2019. L’avrebbe tradita due volte e in più gli avrebbe chiesto di avere un rapporto a tre. Demi Moore racconta nella sua autobiografia, Inside Out, i segreti della sua relazione con Ashton Kutcher. Secondo quanto rivelato da RadarOnline, nel libro l’attrice racconta che l’ex marito ha avuto dei rapporti con Brittney Jones e Sara Leal e che per rendere più “intrigante” la loro relazione le ha chiesto di partecipare a un incontro tra lui e un’altra donna. Il rapporto a tre si sarebbe verificato a pochi anni dal matrimonio, avvenuto nel 2005. Probabilmente nel periodo in cui Moore stava provando ad avere un bambino. In Inside Out l’attrice afferma di aver detto di sì solo per essere accettata come moglie: “Volevo mostrargli quanto poteva essere fantastico e divertente”. I tradimenti sarebbero arrivati negli anni successivi. Secondo quanto riporta il Daily Mail, Moore era a New York City nel 2010 quando sulla rivista “Star” ha letto che Kutcher aveva dormito con Brittney Jones. I due si sarebbero incontrati durante una festa. “Era paranoico e non voleva scrivere nulla che lo mettesse nei guai. Gli ho chiesto se volesse incontrarmi e mi ha detto di si”, ha rivelato la Jones. All’epoca Kutcher aveva negato qualsiasi accusa. Moore nel libro, invece, racconta di averne parlato direttamente con l’ex marito che ha ammesso di averla tradita e ha cercato una giustificazione. “Ashton ha detto che avere un rapporto a tre ha rotto gli argini e, in una certa misura, questo ha giustificato ciò che ha fatto dopo”, ha scritto Moore, secondo RadarOnline. Sono rimasti insieme, comunque. Il secondo tradimento raccontato da Moore è avvenuto con l’allora 22enne Sara Leal a una festa di addio al celibato. “Mi sono sentita male. Sapevo che era vero”, ha scritto l’attrice nel suo libro. Ashton e Demi si sono separati alla fine del 2011 e hanno divorziato ufficialmente due anni dopo nel 2013. L’attore di “What Stays In Vegas” è ora sposato con Mila Kunis con cui ha due figli. Secondo UsWeekly, ha commentato così il libro di Moore: “Questa è la verità di Demi”.
Clarissa Valia per Tpi.it il 25 settembre 2019. Ashton Kutcher ha deciso di rispondere alle dichiarazioni scioccanti della ex moglie Demi Moore contenute nel libro Inside Out uscito ieri, 24 settembre. Nella sua autobiografia l’attrice racconta, tra le altre cose, dei tradimenti subiti dall’ex marito Kutcher.“Ashton Kutcher mi ha tradito due volte. Ho detto sì a un rapporto a tre per essere accettata” scrive nel libro Demi Moore, dove ha anche raccontato l’inizio della loro storia e l’aborto: “Avevamo appena iniziato a uscire insieme, era il 2003, io avevo 42 anni e lui 15 di meno, sono rimasta incinta poco dopo, di una bambina, a cui avremmo voluto dare il nome di Chaplin Ray, ma al sesto mese di gravidanza ho avuto un aborto spontaneo”. L’attore, 41 anni, ha esortato i fan su Twitter a “mandargli un sms per scoprire la verità”. E, parlando di Demi Moore ha dichiarato: “Ho resistito a pubblicare un tweet cattivo per il bene della sua famiglia – la moglie Mila Kunis e il loro figli Wyatt, 4 anni, e Dimitri, 2. “Stavo per premere il pulsante invia su un tweet davvero duro. Poi ho visto mio figlio, mia figlia e mia moglie e l’ho cancellato” ha scritto l’attore su Twitter. Altri utenti hanno invece risposto al tweet in cui l’attore pubblicava il numero di telefono e hanno inviato un sms per “scoprire la verità”. La risposta proviene da un sistema automatico collegato a una piattaforma di messaggistica chiamata Community. Il testo di risposta è stato condiviso sul social da diversi utenti: “Qui Ashton. Questo è un testo automatico per farti sapere che ho ricevuto il tuo messaggio”. Ashton Kutcher e Demi Moore si sono separati alla fine del 2011 e hanno divorziato ufficialmente nel 2013. Lui ora è sposato con Mila Kunis con cui ha due figli. Demi Moore oggi è fidanzata con la stilista serba Masha Mandzuka.
Dagonota: Ashton ha usato l'attenzione mediatica sulle sue avventure sessuali per rilanciare una start-up (oggi è un venture capitalist di grande fiuto e indiscusso talento). Su Wired si racconta la storia di questa Community, una specie di social network che avrebbe messo in contatto gente comune e star di Hollywood, anche via sms. Ma il sistema è andato in tilt dopo pochi minuti.
DAGONEWS il 26 settembre 2019. Continua l’intemerata di Demi Moore nei confronti dell’ex marito Ashton Kutcher che continua a essere tirato in ballo per sponsorizzare la biografia dell’attrice “Inside Out”. Dopo aver rivelato i tradimenti del marito e il fatto di essere stata costretta a fare sesso a tre, adesso Kutcher finisce sotto accusa per una serie di scatti sui quali Demi punta il dito. «Mi ha fatto vergognare» ha detto ricordando un’immagine di lei in mutande da lui prontamente pubblicata sui social. L'attrice ha inoltre accusato Kutcher di averla incoraggiata a bere, facendola ripiombare nel tunnel dell’alcolismo dalla quale era riuscita a uscire venti anni prima. Moore ha raccontato che voleva essere una "ragazza divertente e normale" che era in grado di "bere un bicchiere di vino a cena o fare un giro di tequila a una festa" perché pensava che fosse quello che voleva Kutcher: «Quando ho alzato il gomito, però, mi ha mostrato una foto che mi aveva fatto: avevo la testa appoggiata sul water. All'epoca sembrava uno scherzo. Ma era davvero solo mortificante». Sulla foto in mutande del 2009, invece, Kutcher aveva replicato: «Era un bikini, non biancheria intima. Mi stava stirando i pantaloni. Sembra strano, ma eravamo vicino a una spiaggia e lei indossava un bikini, mi stirava i pantaloni! E comunque prima di pubblicare quella foto le ho chiesto se potevo farlo». Nonostante non perda occasione per infangare la loro storia, Moore ha scritto nel libro: «Sono grata ad Ashton, che ci crediate o no. Qualsiasi dolore abbiamo attraversato insieme ha permesso a entrambi di crescere e diventare le persone che siamo oggi».
Da ilmessaggero.it il 3 novembre 2019. La figlia di Demi Moore, Tallulah Willis, ha parlato per la prima volta dei problemi di dipendenza dall'alcol della madre. L'attrice ha avuto diversi problemi legati all'abuso di alcolici e ovviamente questi suoi eccessi sono stati notati dalle sue figlie che hanno vissuto male la condizione della mamma. L'attrice in un primo momento sembrava essere guarita, qualche anno fa ha avuto invece una brutta ricaduta: «Era come se il sole tramontasse e come fosse arrivato un mostro», ha raccontato la giovane in un programma televisivo statunitense, come riporta la stampa locale, «Ricordo che ero molto ansiosa quando sentivo che i suoi occhi si chiudevano mentre parlava con me, capivo che era ubriaca». Tallulah spiega che la dipendenza della mamma l'ha portata a sentirsi poco amata da Demi e aggiunge che se fosse stata sobria probabilmente sarebbe stata anche più affettuosa con le sue figlie. Demi Moore ha parlato più volte dei suoi problemi di dipendenza, della riabilitazione e della ricaduta, ma sentire quello che si è vissuto in casa dalle figlie è qualcosa che non era mai accaduto.
Antonella Catena per amica.it il 3 novembre 2019. Ci sono cose che delle figlie non vogliono rivivere. Che è meglio che non rivivano. Ci sono cose che una madre aspetta a rendere pubbliche. Aspetta che le figlie siano abbastanza grandi. perché sa che significa riportarle laggiù…Rumer Willis, Scout e Tallulah Willis oggi sono delle little women. Delle giovani donne. La prima è nel cast di C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino.
Demi Moore: chi sono le sue tre figlie? Sono le figlie di Demi Moore e Bruce Willis. La coppia d’oro della Hollywood degli action hero (lui, papà) e della prima diva a essere pagata quasi come un uomo (lei, mamma). Per la cronaca: 12.500.000 per Striptease. Anno 1996. Oggi Demi Moore è la scrittrice numero uno d’America. La sua aubiografia/memoir/confessione è stata in testa alla lista dei best-seller del New York Times. Si intitola Inside Out. Racconta molte cose. Tante che le sue figlie, ha detto Demi, possono affrontare solo ora. Che sono cresciute. Inside Out sta continuando a scioccare gli USA. Demi continua a promuoverlo. L’ha hatto al podcast di Krista Smith, giornalista hollywoodiana potenstissima. E a Red Table Talk, lo show su Facebook in cui Jada Pinkett Smith, sua madre e sua figlia Willow ospitano celebrity in vena di chiacchierate tra donne a cuore aperto. Guardatele e ascoltatele qui e qui sotto.
Demi Moore e i fantasmi del passato. «Non ho mai voluto nascondere nulla alle mie figlie. È solo che ci sono cose da cui, quando sono piccole, vuoi tenerle lontane. Anche se famno parte della tua vita». Ha detto così, la 56enne Demi Moore. Ecco perchè Inside Out è stato scritto/pubblicato solo ora. A confessione si aggiungono confessioni, però. Se la madre dice ciò, le figlie raccontano quello che all’epoca vedevano. Sapevano. Provavano. A un certo punto, nel periodo peggiore, Rumer dovette chiamare il 911. La madre stette male di fronte a lei, per un mix di droghe leggere e nitro: «Si spaventò. Pensò che potessi morire davanti a lei, vedendomi sul pavimento». Per tre anni, Demi e le figlie non si sono più parlate. Nel libro, Demi confessa la dipendenza dall’alcol e il fatto che a vent’anni faceva uso di cocaina. Poi il rehab, negli Anni 80. Più o meno quando incontrò Bruce Willis. Sono stati sposati dal 1987 al 2000. Rumer è nata nel 1988. Scout nel 1991. Tallulah nel 1994. C’è una foto, su un red carpet, in cui madre e figlie sono vestite uguali. Hanno tutte i capelli corti. Demi per esigenze di copione (in Soldato Jane faceva la marine), le figlie e Bruce per complicità famigliare. Nel suo libro, Demi dice di essere stata sobria e pulita per quasi 20 anni. E di esserci ricaduta, nelle sue addiction, durante il matrimonio con Ashton Kutcher (2005-2011). Di essere stata male, soprattutto, subito dopo la fine della loro unione, nel 2012.
Mamma era un mostro. Rumer, Scout e Tallulah c’erano e vedevano tutto. Demi ci dice che ha aspettato a rimetterle di fronte a quei fantasmi… L’ha fatto adesso che sono cresciute. Raccontandoci tutta la sua storia. La loro storia. Con Rumer e Tallulah, è andata da Jada Pinkett Smith. E insieme sono tornate indietro nel tempo, ricordando i momenti più brutti delle dipendenze. Tallulah, la più piccola: «Era come un mostro che arrivava. Sentivo aumentare l’ansia dentro di me quando iniziavo a vedere i suoi occhi che si chiudevano piano, mentre parlava». Rumer: «Era strano. Mi arrabbiavo… Mi ritrovavo a parlarle come fosse una bambina. In quei momenti non era più la mamma con cui eravamo cresciute». Della volta che chiamò il 911 ricorda: «Ero lì, con gli uomini del 911. pensavo che mamma poteva morire. Che avrei dovuto dir alle mie sorelle che non l’avrebbero rivista mai più. Che non avrei mai dimenticato l’immagine di lei che stava male». Oggi dicono che Inside Out è la sua visione della storia. Il punto di vista è quello di mamma. È lei l’io che narra. Dicono anche che si è presa tutte le responsabilità delle sue scelte e delle sue azioni. Buone o cattive che fossero. Alla fine, dice Rumer, «mamma si è data la possibiltà di raccontare anche i suoi momenti peggiori. Non di nasconderli. Con la sua storia ci dice che possiamo attraversare anche momenti terribili e uscirne. Che siamo tutti dei sopravvissuti». E sì, Demi. Le tue figlie sono cresciute… E tornando a quella foto di tanto tempo fa, oggi hanno i capelli lunghi come i tuoi…
· Charlize Theron.
Charlize Theron giovanissima con Barbara d’Urso: gli esordi italiani dell’attrice. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 da Corriere.it. Sono due donne famose, a loro modo, nel rispettivo mondo lavorativo. Una è un'attrice famosissima e di livello mondiale e l'altra è la conduttrice più amata del piccolo schermo italiano. Non hanno solo la popolarità in comune, anzi: Barbara d'Urso stupisce tutti pubblicando una foto sul suo profilo Twitter. La d'Urso compare accanto a una giovanissima Charlize Theron, già bellissima e nei tratti molti simili a oggi. Il primo lavoro come modella per la Theron è stato proprio in Italia, precisamente nel 1991 quando, a 16 anni, ha partecipato al concorso internazionale New Model Today per modelle emergenti a Positano. Classificandosi ovviamente al primo posto. A condurre quella serata era proprio Barbara d'Urso, accompagnata da Carlo Massarini.
Charlize Theron: «Mia madre ha ucciso mio padre con un colpo di pistola». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. Charlize Theron non ha paura di parlare dell'infanzia difficile. In occasione della promozione del suo ultimo film «Bombshell» l'attrice premio Oscar, 44 anni, ha raccontato una vicenda traumatica del suo passato: sua madre Gerda ha ucciso suo padre Charles con un colpo di pistola quando lei aveva 15 anni. Il padre era un alcolizzato e spesso in casa si dimostrava violento. «Non sai mai come reagisce una persona con una dipendenza». E così una sera tornado a casa ubriaco e con una pistola in mano, madre e figlia si sono spaventate. «Eravamo nella mia camera da letto — ha spiegato la star — quando lui è arrivato con una pistola. Abbiamo cercato di bloccare la porta per non farlo entrare, mettendoci davanti, ma lui si è allontanato e ha sparato tre colpi alla porta. È stata una fortuna che non ci abbia ferite. A quel punto mia madre ha impugnato un'altra pistola che avevamo in casa e lo ha ucciso, ponendo fine alla minaccia». Si tratta di legittima difesa, insomma, tant'è che la madre non è stata incriminata, ma la vicenda ha lasciato una ferita nell'infanzia di Charlize. «Non mi vergogno a parlarne — precisa l'attrice —.Penso che più parliamo di queste cose, più capiamo di non essere soli...». Aggiungendo dettagli sul padre del quale ovviamente non ha un bel ricordo. «Era un uomo malato, io l'ho sempre visto in quelle condizioni». Vivere con un'alcolizzato com'era? «Una situazione senza speranza». Un altro momento negativo della sua vita, confessato durante un'intervista, è stato quando è stata molestata da un famoso produttore di Hollywood al primo provino. Al tempo aveva 19 anni. Un sabato sera lei aveva appuntamento con lui nella sua camera dl'albergo e il produttore in pigiama ha allungato le mani. «È strano, tante ragazze parlano di storie simili, ma quando ti succedono, sei solo stordita, non sai cosa fare».
Da it.notizie.yahoo.com il 19 dicembre 2019. Charlize Theron ha deciso di mettere le cose in chiaro, invitando i media ad usare i pronomi femminili quando si parla della figlia transgender Jackson, adottata quando era ancora molto piccola, nel 2012, in Sudafrica. Madre della piccola Jackson, una ragazzina transgender di 7 anni, Charlize Theron ha chiesto ai media di usare i pronomi giusti, ovvero femminili, ogni qualvolta si riferiscono alla figlia. A tal proposito, nel corso di una recente intervista l’attrice ha dichiarato: “Per me che sono sua madre è importante far sapere al mondo che mi farebbe piacere se si usassero i pronomi corretti, nel riferirsi a lei”. Per poi aggiungere: “A volte è capitato anche a me di usare i pronomi sbagliati, parlando di lei in un’intervista. È una cosa che davvero la ferisce. Non voglio essere quel tipo di mamma”. Come dichiarato da Charlize Theron in un’intervista rilasciata al Daily Mail, infatti, Jackson si identifica come una ragazza e l’attrice, in qualità di genitrice, farà sempre di tutto affinché i propri figli possono essere liberamente ciò che vogliono. A tal proposito ha affermato: “Anche io pensavo che fosse un maschio, fino a quando a tre anni non mi ha guardato negli occhi e mi ha detto “Non sono un maschio!””. D’altronde, come da lei stesso sottolineato, il suo compito è quello “di amare i miei figli e fare in modo che abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno per essere ciò che vogliono. E farò tutto ciò che è in mio potere perché i miei ragazzi abbiano questo diritto”.
· Brad Pitt e Angelina Jolie.
Anticipazione Stampa da “Oggi” il 2 ottobre 2019. In un’intervista al settimanale OGGI, Brad Pitt racconta come la sua esperienza di vita abbia influito nella scelta di fare il film «Ad Astra»: «Certamente ha influito, dovevo comprendere molte cose: la rottura di una famiglia penso sia una delle situazioni più difficili. Volevo riflettere sulle mie colpe, su come fare meglio, perché non volevo andare avanti così...». E facendo il paragone con il protagonista del film, Roy, che sta solo con la sua mente, sull’orlo della follia, dice: «Io parlo con me stesso forse troppo. Quella chiacchiera mentale che dura tutto il giorno e sembra continuare nel sonno. E ti svegli e continua ancora. Bisogna stare allerta: la mente non si ferma mai e ti fa perdere di vista le cose alle quali lavori, che segui o che ami. Controllare la propria mente è una delle sfide più difficili».
Brad Pitt ha passato 18 mesi negli Alcolisti Anonimi dopo il divorzio da Angelina Jolie. Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Corriere.it. La trasformazione di Brad Pitt «in un uomo migliore» era stata rivelata dallo stesso attore in una lunga intervista a GQ nel 2017, dove aveva parlato, fra le altre cose, anche della sua ritrovata sobrietà, dopo il tumultuoso divorzio da Angelina Jolie, annunciato (a sorpresa) a settembre di un anno prima. E di recente il protagonista di «Once Upon A Time In Hollywood» è tornato ad affrontare i demoni di quel doloroso periodo della sua vita sul New York Times. «Ognuno di noi porta con sé nella vita dolore, sofferenza e perdita e anche se passiamo la maggior parte del tempo a nasconderle, loro sono lì, sono dentro di te». E rifugiarsi nell'alcool e nelle droghe, come Pitt aveva fatto per anni, ha solo aggravato il problema. «Avevo spinto le cose troppo oltre - ha infatti ammesso la 55enne star - così ho rimosso ogni cosa legata al bere e sono entrato negli Alcolisti Anonimi per il successivo anno e mezzo. Avevo tutti questi uomini seduti in circolo, che erano aperti e onesti in un modo che non avevo mai sentito e in quello spazio sicuro non giudicavano e, quindi, non ti giudicavi. Alla fine è stato davvero liberatorio poter esprimere i lati più brutti di te stesso e in questo ho trovato un grande valore». La bottiglia non è però stata l'unico vizio contro cui Pitt ha lottato in passato. «Negli anni Novanta avevo tutte le attenzioni su di me - ha detto ancora l'attore - e così mi sono trasformato in una sorta di eremita e mi facevo di marijuana fino a perdermi nell'oblio». Oggi però l'attore ha smesso di preoccuparsi così tanto di soddisfare le aspettative altrui, trasformandosi in «quell'uomo migliore» che si proponeva di essere due anni fa e questo grazie anche alla decisione di diradare le apparizioni sul grande schermo, per dedicarsi ad altro. «Ho passato troppo tempo della mia vita a lottare contro i pensieri negativi e a sentirmi legato a essi o ingabbiato da essi e questa cosa è semplicemente ridicola - ha spiegato la star di «Ad Astra» -. D'ora in avanti fra un film e l'altro ci saranno delle pause molto più lunghe, ma solo perché adesso ci sono molte altre cose che voglio fare. Quando ti senti come se avessi stretto qualcosa fra le braccia per troppo a lungo, allora significa che è tempo di andare ad abbracciare qualcosa d'altro».
E SE VI DICESSIMO CHE I BRANGELINA NON DOVEVANO ESISTERE? Carlo Lanna per Il Giornale il 3 ottobre 2019. Oltre al chiacchieratissimo divorzio fra Angelina Jolie e Brad Pitt che, per mesi, ha popolato le prime pagine dei settimanali di gossip, ora dai magazine americani, come scrive Us Weekly, spunta un’indiscrezione bomba che potrebbe alzare un altro polverone sulla coppia più amata dal cinema. Secondo una fonte anonima e vicina alla stessa Angelina Jolie, pare che l’attrice abbia avuto diverse pressioni per celebrare il matrimonio con Brad Pitt. La Jolie dal quel che sembra, non era poi così tanto convinta di legarsi a una star del calibro di Brad Pitt. Il motivo? È sconosciuto. La dichiarazione della gola profonda pare comunque sia priva di fondamento dato che, nel corso del tempo in cui la Jolie è stata sposata con l’attore di Ad Astra, più volte ha affermato di essere profondamente felice di vivere assieme a Brad Pitt. I due hanno condiviso un amore profondo, e hanno messo su una famiglia perfetta e invidiata da tutti. Queste rivelazioni sembrano essere legate alla voglia, da parte di Angelina Jolie, di voltare pagina una volta per tutte e di scrivere la parola fine alle pratiche del divorzio. "Angelina è molto grata a Brad Pitt per la vita gli ha regalato, nonostante tutto – afferma poi la gola profonda – Ora pensano solo ai figli e alle loro priorità." I due si sono legati sentimentalmente sul set di Mr. & Mr Smith nel lontano 2005. A quel tempo Brad Pitt era sposato con Jennifer Aniston.
Sandra Rondini per ilgiornale.it" il 14 Novembre 2019. “Angelina prova molto risentimento verso Brad. Lo ritiene responsabile per averle impedito di vivere, per averle rovinato la vita e i sui sogni e quella che aveva immaginato per i loro figli”. Parola di un insider di Us Weekly che aggiunge un’altra tessera al puzzle infinito del divorzio tra le due star di Hollywood, trasformatosi in una lunga e estenuante guerra di nervi e non solo per questioni finanziarie. Prima che la separazione mettesse la parola ‘fine’ alla favola dei “Brangelina, sempre in giro per il mondo con la loro tribù di sei figli”, la Jolie, come racconta l’insider del magazine, sognava una vita unica e originale per la sua famiglia. “Aveva in mente di girare sempre il mondo, di vivere come una nomade insieme ai suoi figli che voleva imparassero tante lingue e si sentissero cittadini del mondo. A porre un freno a questi sogni è sempre stato Pitt che voleva per i suoi figli una vita più normale, con un posto che potessero chiamare ‘casa’, una città in cui crescere e farsi degli amici”, ha spiegato la fonte. Due visioni opposte e incompatibili, quindi, che nel corso della lunga relazione che ha unito i due attori si sarebbero scontrate a più riprese, con la Jolie che però riusciva spesso a spuntarla, trascinando tutta la famiglia nei posti più sperduti del mondo. “Brad voleva restare a casa con i bambini, mentre Angelina voleva che i figli si sentissero a casa ovunque, che parlassero un milione di lingue. Su Brad ha pesato il suo alcolismo, non è stato abbastanza forte da opporsi perché si sentiva in colpa”, ha aggiunto l’insider, sottolineando come sia la Jolie la matriarca della famiglia che “tutto ordina e dispone”. "Prima del divorzio, l'intera famiglia ha condotto un'esistenza molto nomade a causa dell'irrequietezza di Angie. Brad voleva che i bambini avessero più stabilità mentre la Jolie non faceva che ripetergli che stavano dando ai bambini un'infanzia idilliaca, regalando loro la possibilità di vedere così tanti paesi diversi, imparare tante lingue e vivere esperienze uniche, totalmente diverse da quelle monotone dei loro coetanei, ma a Brad non è mai andata giù questa cosa, la trovava destabilizzante per i figli. Per lui avere radici è importante per la propria identità”, ha concluso l’insider, spiegando così perché oggi Pitt si ostini a risiedere a Los Angeles, obbligando anche l’ex moglie e i figli minorenni a vivere nella stessa città. Secondo l’accordo di custodia per i figli questo è il prezzo che la ‘nomade’ Angelina Jolie deve pagare per altri sette anni, quando tutti i figli saranno maggiorenni e lei potrà finalmente andare a vivere dove vuole. “Ma fino ad allora – ha concluso la fonte - il fatto di risiedere in una città che detesta sta esacerbando ancora di più l’astio che la Jolie prova verso Pitt, colpevole di aver reso banale la vita sua e dei loro figli”.
ANGELINA SOLO DI NOME. Sandra Rondini per Il Giornale.it il 15 settembre 2019. Secondo quanto riportato dal tabloid americano “Page Six”, Angelina Jolie starebbe usando il figlio Maddox contro l’ex marito Brad Pitt. È quanto sostiene un insider della coppia che ha rivelato al magazine che la recente intervista rilasciata da Maddox su suo padre sarebbe la prova che l’attrice sta usando il figlio perché non è soddisfatta dall’accordo di divorzio e vorrebbe ridiscutere alcuni termini. Maddox ha un pessimo rapporto con il suo padre adottivo dal giorno in cui l’attore lo colpì perché si era messo in mezzo in un litigio tra lui e la Jolie, difendendo sua madre cui è molto legato. Il diverbio culminato con Brad Pitt che diede un pugno a Maddox mentre tutta la famiglia si trovava in volo su un jet privato nel 2016 sarebbe la causa della rottura definitiva tra i due nonostante gli innumerevoli tentativi da parte di Pitt di farsi perdonare. Il fatto che per la prima volta Maddox non sia sfuggito ai reporter e anzi si sia fermato apposta per farsi intervistare, rispondendo però solo a domande su suo padre di cui non ha mai parlato prima in pubblico e con cui non parla nemmeno in privato, è considerato sospetto da diversi addetti ai lavori. Su Brad Pitt Maddox ha risposto molto vagamente alle domande dei giornalisti che gli chiedevano quale fosse lo stato attuale dei suoi rapporti con lui: “Che posso dirvi? Accadrà quel che deve accadere”. Quanto, poi, alla possibilità di una visita paterna nel campus universitario dove da quest’anno studia Biochimica, ha risposto sempre in modo vago e ripetendo, ancora, sibillinamente: “Non ne so nulla...Accadrà quel che deve accadere”. Ma cos'è che deve "accadere" si stanno chiedendo in tanti, interrogandosi su cosa intendesse davvero dire il ragazzo con quelle parole. Maddox, che è una matricola della "Yonsei University di Seoul", in Corea del Sud, “è parso stranamente disponibile e sembrava preparato per l'intervista, come se la Jolie gli avesse messo in bocca le parole da dire perché arrivasse chiara al padre la minaccia che se non accetta una nuova negoziazione Maddox non vorrà vederlo mai più", ha detto un insider a “Page Six”. Questa doveva essere per Brad Pitt l’estate da trascorrere con i suoi figli, finalmente tutti insieme e senza la presenza di un’assistente sociale a mediare i loro colloqui. Perché dal divorzio nel 2016 Pitt ha potuto vedere i suoi 6 figli, tre naturali (Shiloh e i gemelli Knox e Vivienne) e i tre adottati con la Jolie (Pax, Zahara e Maddox - ma quest'ultimo quasi mai presente ai colloqui col padre) solo in presenza di terzi e mai da solo. Era poi stata la Jolie in persona a chiedergli lo scorso luglio di occuparsi dei figli a tempo pieno quest’estate mentre lei era impegnata sul set del nuovo film della Marvel, “Eternals”. E all'attore non era parso vero. Ma, a quanto pare, la tregua con l'ex moglie è durata poco. “Fa tutto lei, tira la corda come vuole, ricattando Brad con l’arma dei figli e l’intervista rilasciata da Maddox è la prova di questa strategia”, ha concluso l'insider di "Page Six". Il magazine ha cercato di contattare i due attori per un commento in merito, senza però ottenere risposta.
Angelina Jolie posa nuda a 44 anni, con le sue "cicatrici visibili e invisibili". La Repubblica il 7 novembre 2019. Non è più il corpo della ventenne ribelle e un po' punk, ma quello maturo, fiero e sensuale di una donna che, a 44 anni, ha vissuto battaglie fisiche (due mastectomie e un'ovariectomia preventive) ed emotive, primo fra tutti il divorzio complicato da Brad Pitt. Angelina Jolie si mette a nudo sulla copertina di Harper's Bazaar. Coperta solo da un velo trasparente, che esalta ancora di più le sue forme, l'attrice si rivela per quello che è, fuori e dentro. Nell'ultimo numero del 2019, la celebre rivista di moda le dedica un ampio spazio per raccontarsi e raccontare dei suoi sei figli, del suo ex marito, dell'impegno decennale per i diritti delle donne e l'istruzione femminile, del desiderio di lasciare gli Stati Uniti per trasferirsi forse in Africa. Ma c'è qualcosa che Angelina Jolie ha conservato della ventenne amante delle calze a rete e dei pantaloni in pelle, ed è lo spirito libero e anticonformista. Che oggi, a 44 anni, le fa dire a tutti: "Ricordate di essere voi stessi, indipendentemente da ciò che può compromettere la vostra capacità di essere liberi" (a cura di Marisa Labanca)
Da tgcom24.mediaset.it il 6 novembre 2019. Angelina Jolie si mette a nudo, per una serie di scatti sensuali per il fotografo Sølve Sundsbø e in un'intervista nel numero di dicembre di Harper's Bazaar. L'attrice parla soprattutto dei figli, degli ultimi difficili anni dopo la separazione da Brad Pitt e del suo impegno sociale: "Voglio che i miei figli crescano nel mondo. Mi piacerebbe vivere all'estero e lo farò non appena avranno 18 anni. Adesso devo restare dove il loro padre sceglie di vivere...". Coperta solo da un velo trasparente bianco la star di "Malficent" è più bella e sensuale che mai e sembra rinata: "Il mio corpo ha attraversato molto negli ultimi dieci anni, in particolare negli ultimi quattro e ho cicatrici sia visibili che invisibili da mostrare", ha detto: "Quelle invisibili sono le più difficili da guarire. La vita a volte fa molti giri. A volte ti fai male e vedi quelli che ami soffrire... Adesso però sento il sangue tornare nel mio corpo". I quattro anni di cui Angelina parla sono quelli trascorsi dalla separazione da Brad Pitt ad oggi. Anni durante i quali l'attrice racconta di essersi concentrata sulla sua carriera e sui suoi figli e di non aver potuto "ascoltare" il suo spirito "libero e selvaggio". "La parte di noi che è libera, selvaggia, aperta, curiosa può essere chiusa dalla vita. Dal dolore o dal male", ha raccontato: "I miei figli conoscono il mio vero io e mi hanno aiutato a ritrovarlo e ad abbracciarlo. Hanno vissuto molto. Imparo dalle loro forze. Come genitori, incoraggiamo i nostri figli ad abbracciare tutto ciò che sono... Non possiamo impedire loro di provare dolore, angoscia, dolore fisico e perdita. Ma possiamo insegnare loro a vivere meglio attraverso tali sofferenze". Adesso l'attrice sembra sentirsi pronta a dare nuovamente espressione al suo animo e mentre continua la sua lotta per la libertà e l'uguaglianza di genere nel mondo condivide le sue speranze per il nuovo anno: "Il mio sogno per tutti nel 2020 è di ricordare chi sono e di essere chi sono indipendentemente da ciò che potrebbe compromettere la loro capacità di essere liberi" e ha concluso: "Se senti di non vivere pienamente la tua vita, prova a identificare cosa o chi ti impedisce di respirare. Identifica e combatti tutto ciò che ti opprime. Ha molte forme e sarà un lotta diversa per ognuno".
Brad Pitt: «Io miracolato, ho vinto alla lotteria: ma non chiamatemi Sex Symbol». Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Valerio Cappelli su Corriere.it. Prima che rivenga inghiottito dalle sue guardie del corpo, Brad Pitt finalmente libero sembra uno studente fuori quota, l’aria sbarazzina easy going, pronto a dividere una birra. Con la sua immutata bellezza assassina, porta i basettoni lunghi e un numero imprecisato di bracciali, collanine, anelli. Dopo il divorzio da Angelina Jolie, e il crollo dell’immagine della famiglia perfetta, quanti erano pronti a scommettere che la fama di Brad Pitt sarebbe aumentata? In Ad Astra del regista «intellettuale» James Gray, spunta dalle tenebre dell’abisso e si illumina d’immenso nei panni di Roy, un astronauta in cerca del padre, Tommy Lee Jones, che fa lo stesso mestiere, è disperso nello spazio e persegue un progetto catastrofico per la Terra.
Thriller fantascientifico più dalla parte di Solaris che di Gravity?
«Sì, è un viaggio in cui Roy scopre segreti che minacciano l’esistenza umana. Mi affascinava una storia intimista nello spazio infinito. Il padre, ritenuto morto, era un genitore che lo ha abbandonato da piccolo e la sua assenza ha fatto di Roy, che continua a idolatrarlo, una persona solitaria incapace di esprimere le sue emozioni. Sta perdendo la sua umanità, sta diventando come suo padre».
Se si parla di sfida...
«Parola abusata, ma stavolta ci sta. È stata la mia più grande sfida come attore: tirar fuori emozioni, solo, nello spazio, senza una vita affettiva. E poi sul set, in tuta, me ne stavo lì a penzolare dai fili, sospeso a dieci metri da terra».
Ma quale è stato il viaggio più avventuroso che ha fatto nella sua vita?
Quando da ragazzo ho lasciato il Missouri e sono andato a Los Angeles con 2-300 dollari in tasca, senza conoscere nessuno, senza la minima idea di quello che avrei fatto. Sono un miracolato che ha vinto la Lotteria, e resto un istintivo».
E se non le piace una domanda cosa fa?
«Non nascondo il fastidio. Per esempio, quando mi dicono che sono ancora un sex symbol, scuoto la testa e svicolo».
Come ha lavorato sulla solitudine dell’astronauta?
«Per quanto cerchiamo di nasconderle, ci portiamo dentro dolori e ferite dell’infanzia».
Ha pescato nel dolore per il divorzio?
«Beh, il mio astronauta è un eroe fragile. Un attore deve usare quei sentimenti, deve essere onesto, vulnerabile, aperto, non cercare di essere simpatico o antipatico».
Il regista dice che ha una grande compassione.
«Siamo troppo abituati a creare barriere, a negare il dolore, la vergogna. Siamo partiti da una domanda: c’è la possibilità di un rapporto migliore con le persone che amiamo e con noi stessi?»
Gray dice anche che lei lo chiamava alle due di notte…
«Davvero? Ma era lui che mi chiamava! Siamo amici dagli Anni 90, era da tanto che volevamo lavorare insieme. Certo essendo anche produttore avevo qualche preoccupazione in più. Ci sono rimandi, citazioni di cinema e romanzi…da Cuore di tenebra di Conrad a Moby Dicke Apocalypse Now. In questa storia, immensa e delicata ed è nell’equilibrio di questi due elementi che ci siamo concentrati, puoi trovare archetipi. Credo nella forza del mito. Ma gli eroi di James hanno una visione personale. Quanti film di fantascienza toccano davvero la nostra anima? Io non sono un tipo daGuerre Stellari».
È anche un film sulla memoria. Lei è un cinefilo come il suo amico Quentin Tarantino?
«No, da giovane andavo al Drive In, ora se guardo un film in tv mi sintonizzo su una commedia, le tragedie non ce la faccio. Ma sono cresciuto con i film degli Anni 70, grande periodo dove non trovi buoni o cattivi ma un’umanità complessa. E credo che qui possiamo ritrovarla».
Pensa che potrà ambire al suo primo Oscar?
«Intanto aspettiamo che esca e vediamo le reazioni del pubblico. Ogni anno gente di talento prende la statuetta e altre di eguale talento non la prendono. Hanno vinto tanti miei amici. Sono contento lo stesso».Così parlò Brad Pitt, stella di Hollywood tra le stelle dell’universo.
· I Ritrovi delle Star.
Da "tg24.sky.it" il 4 ottobre 2019. Si chiama “Lowell Cafe” e si trova a West Hollywood, in California. Il locale, primo nel suo genere negli Stati Uniti, ha aperto l’1 ottobre e già registra code all’ingresso. Serve cibo, caffè, spinelli legali, infusi e dolci con marijuana e altri prodotti. A Los Angeles ha aperto il primo Cannabis cafe degli Stati Uniti. Il locale si trova a West Hollywood, in California, e si chiama “Lowell Cafe”. Nel cafe vengono serviti - in modo legale - cibo e bevande "tradizionali", ma anche infusi e alimenti fatti con la cannabis. “Mangia, bevi e fuma” è il motto del locale. Il primo Cannabis cafe degli Usa ha aperto l’1 ottobre e già registra code all'ingresso. La California ha legalizzato la cannabis per uso ricreativo nel novembre del 2016. Poi, dal primo gennaio 2018, nello Stato è diventato legale vendere marijuana a scopo ricreativo. La cannabis, in realtà, si può consumare solo in luoghi e feste privati. O, come nel caso del “Lowell Cafe”, in locali che hanno ottenuto un permesso particolare. Per ora, il “Lowell Cafe” è il primo nel suo genere negli Stati Uniti. Il locale ha oltre 200 coperti, con sale sia all’interno sia all’esterno. Nel locale non si vende alcol, perché in California è vietata la vendita e il consumo di prodotti alcolici insieme alla cannabis. Il locale vende anche spinelli legali e altri prodotti contenenti cannabis. Al “Lowell Cafe” si può consumare legalmente cannabis, insieme a dolcetti e pietanze varie. Il locale ha un sistema di areazione d’avanguardia, per evitare lo spargimento di fumi e odori particolari dentro e soprattutto fuori.
DAGONEWS il 3 ottobre 2019. Era lo Studio 54 della cucina raffinata e il Circo Massimo della celebrità; nell'infinita festa che era New York negli anni '80, il “Quilted Giraffe” era il posto dove vedere ed essere visti. L'elegante sala da pranzo argentata è diventata il punto di connessione tra le star del cinema e artisti, leggende del rock, magnati e potenti politici. Il “Quilted Giraffe” non era solo cucina: tra il 1975 e il 1992, fu il ristorante più costoso d'America e il luogo dove gli ospiti potevano acquistare sigari cubani illegali ed essere portati a casa in Rolls Royce. Farsi di cocaina ovunque e fare sesso nei bagni. A gestirlo c’erano Barry Wine e la moglie Susan, diventati il volto di quel parco giochi per chi poteva permettersi una cena che in quegli anni costava mediamente per tavolo 442 dollari. Tra gli ospiti Jackie O era fissa, Madonna era così in confidenza che entrava in cucina insieme a Warren Beatty mentre Trump teneva banco al suo tavolo preferito: rigorosamente quello vicino al bagno così da poter vedere chi andava in bagno e sapere a chi non stringere la mano. Ai tavoli del “Quilted Giraffe” si sedavano regolarmente Woody Allen, Mick Jagger, Gwyneth Paltrow, Diane Sawyer, Yoko Ono, Bernie Madoff e un gruppo di potenti uomini di Wall Street che si definivano "Lucky Sperm Club". Ma anche Henry Kissinger, Bunny Mellon e Adnan Khashoggi. Anche l’iconico piatto non poteva che rispecchiare gli anni folli: il celebre antipasto “the begger's purse” era caviale, creme fraiche condito con foglia d'oro e servito su una serie di steli. Chi lo ordinava da tradizione doveva ammanettarsi e gustarsi il piatto solo con la bocca. In quegli anni “Quilted Giraffe” incarnava perfettamente l'era in cui era nato, un tempo in cui New York City era una mecca edonistica di eccesso, potere, sesso, droga e denaro. Un ex dipendente ha raccontato: «Giravano così tanti soldi. Erano gli anni '80! La gente si faceva di coca dappertutto. Una volta una coppia iniziò a fare sesso nell’atrio. Mi ricordo che ci fermammo tutti per guardarli». La Sony acquistò l'edificio AT&T in Madison Avenue che ospitava il ristorante al piano terra nel 1991. Dopo 18 anni i Wine, stanchi del faticoso impegno quotidiano, vendettero il contratto di locazione a Sony per un importo a sette cifre. Hanno ufficialmente chiuso i battenti la vigilia di capodanno nel 1992. Barry Wine ora passa la maggior parte del tempo a lavorare nel suo attico a Chelsea dipingendo e disegnando gioielli. I ricordi del ristorante sono sparpagliati in tutta casa: tazze, menu e ritagli di giornale. Quando gli è stato chiesto se avrebbe mai preso in considerazione l'idea di aprire un altro ristorante, ha detto: «No», e ha aggiunto: «Mi sento di aver realizzato molte cose che non erano state fatte prima».
· Lorenzo Riva il super collezionista di Hollywood.
Dal vestito bianco di Marylin Moroe alla F1 di Prost, Lorenzo Riva il super collezionista di Hollywood. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 da R. Burattino su Corriere.it. Se la sua vita fosse un film sarebbe «C’era una volta… a Hollywood». L’amore per il cinema, la passione per le star e la voglia di vivere seguendo il modello del self made man americano hanno segnato il destino di Lorenzo Riva. Milanese, 32 anni, fondatore della LR Wonder Company, azienda di cosmetici di lusso e uno dei più ricercati collezionisti di memorabilia del grande schermo, esposti come in un museo tra le sedi di via Sant’Andrea e Buccinasco. «L’abito bianco usato da Marilyn Monroe nel film “Gli uomini preferiscono le bionde”, un paio di ballerine di Audrey Hepburn, il cappello nero di Michael Jackson con la sua firma, il guanto di Freddy Krueger in “Nightmare”. Ma anche il vero Oscar alla carriera dell’attrice Margaret Schell del 1985, le gigantografie di Hulk e Superman o 110 autografi originali, da Liz Taylor a Steve McQueen fino a John Wayne». Lorenzo viaggia in tutto il mondo per lavoro o per comprare questi ricordi («oggetti storici che ispirano la mia creatività»), partecipa alle aste internazionali o frequenta circoli di collezionisti. Un altro grande entusiasmo sono i motori. «Ho acquistato la F1 del 1999 di Alain Prost, le tute di Ayrton Senna e il suo primo kart, ho pure tanti caschi di piloti, tra cui quello di Michael Schumacher”. Ecclettico e inarrestabile. Gwyneth Paltrow, Julia Roberts, Michelle Pfeiffer e Nicol Kidman sono sue fan ma anche fonti d’ispirazione per creare i prodotti al veleno di vipera, alla bava di lumaca, alla placenta vegetale, all’oro 24 carati o al caviale. “Ho studiato al liceo classico – racconta —, poi mi sono iscritto a Economia alla Cattolica, ho dato soltanto un esame (voto: 29). I miei genitori volevano che mi laureassi, invece, io andavo in giro per Milano in cerca di ispirazione. Idealmente mi piaceva la moda ma non ero competente». La sua attività è nata nel 2012 in un piccolo laboratorio di Affori: «Ho conosciuto un chimico, Domenico Guarino, è stato lui a iniziarmi alla cosmetica, un campo in cui le potenzialità sono maggiori e il valore cresce con il tempo. Dopo quasi 11 mesi ho proseguito da solo: il primo anno ho fatturato 30 mila euro, il secondo 400 mila e nel 2019 3 milioni di euro». Il mio modello di business? «Evoca quello degli Usa — risponde — dare un’anima al proprio prodotto. Mi piace l’idea di vendere un sogno, dare vita a qualcosa di magico e apparentemente inarrivabile e renderlo alla portata di tutti. Nella creazione ho voluto trasmettere la stessa emozione che provo io quando trovo l’oggetto del desiderio, è come se la donna scegliendo i miei cosmetici si facesse accompagnare per mano in un mondo di meraviglie hollywoodiane». L’intera produzione è italiana e dietro ci sono qualità e ricerca. «Quando ho saputo che la principessa Kate Middleton andava matta per i cosmetici a base di veleno d’ape, ho trovato il modo di utilizzare questo principio attivo tanto ambito mettendolo a disposizione di tutti». Oltre 200 personaggi della moda, dello spettacolo, della musica e dello sport seguono il lavoro di Lorenzo Riva. Tra i vip di casa nostra, lo stilista Stefano Gabbana che non può fare a meno di un «magico» integratore che fornisce all’organismo i nutrienti indispensabili per migliorare l’idratazione della pelle, il tono e contrastare l’ossidazione cutanea. Il mantra. “Per avere successo nella vita e negli affari non è sufficiente avere un ispiratore, un mentore, occorre l’intuito, la genialità e anche un pizzico di fortuna”. Proprio come in «The Founder» del regista John Lee Hancock, con Michael Keaton: una buona idea conta, ma non basta per il successo. Per fare il vero salto di qualità servono visione, lavoro e caparbietà.
· Benedetta Paravia.
Azzurra Barbuto per “Libero Quotidiano” il 3 ottobre 2019. Quando nel 2002, fresca di laurea in giurisprudenza, Benedetta Paravia arrivò in Arabia Saudita per una vacanza di quattordici giorni, a Dubai vivevano appena un centinaio o due di italiani, oggi essi sono circa 20 mila. «Sono comunque esigui rispetto a indiani, filippini, americani e inglesi», specifica la salernitana, la quale si innamorò di quei luoghi da "Le mille e una notte" proprio durante questo primo viaggio, tanto da decidere di prolungare il soggiorno di tre mesi e poi di trasferirsi in pianta stabile laggiù, dove dimora tuttora. «È stato amore a prima vista, appena scesa dall' aereo ho sentito un' energia speciale e sono stata stregata dall' odore del deserto», ricorda Paravia, che negli Emirati è «produttrice di contenuti per il mondo arabo», ossia di documentari che vengono trasmessi sulle tv locali, e conduce a capo scoperto il programma "Hi Dubai" con un team da lei selezionato e composto soprattutto di giovani donne. «La mia missione è fare sapere al mondo intero che l' Islam è pacifista e che gli arabi non sono terroristi, né maschilisti, bensì generosi, aperti, cortesi nonché molto simili alla gente del Mezzogiorno: fanno a gara per pagare il conto, ti accompagnano fino al portone, ti accolgono a qualsiasi ora», puntualizza Benedetta. «La loro ospitalità è proverbiale proprio come quella di calabresi e napoletani. Se sei ospite a casa loro, quasi ti imboccano, ti riempiono di cibo e di premure». Paravia dal 2003 è una sorta di ambasciatrice non governativa della nostra penisola nonché un ponte tra il Belpaese e gli Emirati Arabi. Infatti è stata lei ad abbattere quell' argine culturale che impediva alle emiratine di venire a scoprire lo stivale, convincendo le famiglie a consentire alle universitarie diciasettenni e diciottenni di raggiungere l' Europa per seguire corsi mirati, affidandole proprio a Benedetta, che in brevissimo tempo ha conquistato la fiducia del popolo arabo. Così da sedici anni, in collaborazione con la Fondazione Antonio Genovesi Salerno, creata dal padre di Benedetta dopo il terremoto dell' Irpinia per agevolare la ripresa del Sud, l' italiana accompagna sul nostro territorio fanciulle provenienti dagli Emirati al fine di fare conoscere loro altre realtà e le nostre tradizioni. Durante questi viaggi di studio le giovani non visitano soltanto i musei, ma pure le istituzioni, incontrando ministri. «Io ho cambiato Dubai e la cultura di quel luogo», dichiara Benedetta. Ella ha favorito inoltre l' apparizione delle ragazze arabe in tv e suoi giornali, addirittura senza il velo. «Nel 2002, a Dubai, fui scelta come testimonial di Cartier subito dopo Monica Bellucci, poiché incarnavo un tipo di bellezza molto simile a quella araba. In quel periodo, infatti, le emiratine non potevano fare le modelle, esporsi. Così decisi che mi sarei impegnata per fare in modo che anch' esse fossero libere di mostrare la propria avvenenza. E ce l' ho fatta. Le donne arabe mi adorano», afferma con orgoglio Benedetta. Ma come è riuscita questa bella connazionale, da perfetta sconosciuta quale era allorché arrivò in quel lontano Paese, ad introdursi nella società fino a diventare un punto di riferimento? «La gavetta a Dubai è più dura che in Italia. Sebbene gli arabi amino vestire e mangiare italiano ed esplorare le nostre città d' arte, vige una sorta di pregiudizio degli emiratini nei confronti degli abitanti della penisola, i quali sono considerati poco affidabili negli affari poiché spesso tali si sono dimostrati», dice Benedetta, la quale, durante la sua prima vacanza da quelle parti, rischiò persino l' arresto. «Uno dei figli del re provò a baciarmi ed io gli diedi uno spintone che lo fece cadere per terra. Il mio fidanzato di allora era certo che ci avrebbero sbattuti in gattabuia, invece, dopo una settimana, ricevetti la telefonata di questo sceicco il quale voleva farmi sapere che non aveva mai conosciuto una ragazza onesta come me. Diventammo amici e tuttora sia lui che sua moglie sono come fratelli per me», racconta Paravia. Se solo avesse voluto, la salernitana adesso sarebbe stata principessa, in questi lustri ha ricevuto decine e decine di proposte di matrimonio, tuttavia «ha scelto di essere coerente e seguire sempre il cuore». LUOGHI COMUNI Non la pensano allo stesso modo le connazionali che si recano a Dubai in cerca di fortuna. «Negli Emirati giungono di frequente italiane tra i diciotto e i cinquant' anni con scopi poco virtuosi. Mi capita di vedere queste signore mature fasciate in abiti molto scollati, sperano di fare colpo e arricchirsi». Altro che velo e tuniche, a Dubai «le donne arabe e straniere possono fare ciò che vogliono ed uscire persino seminude», sottolinea Benedetta. Nei pressi delle moschee così come all' ingresso dei centri commerciali sono affissi cartelli che invitano all' adozione di un abbigliamento appropriato, eppure Paravia assicura che pochi osservano codeste regole. Gli Emirati stanno attraversando una rivoluzionaria fase storica, denominata dal re e vicepresidente di Dubai, il settantenne Mohammed bin al Maktoum il quale ha inaugurato questo corso all' inizio del millennio, "rinascimento globale arabo", che riguarda in particolare il gentil sesso. Pure l' erede al trono dell' Arabia Saudita, il trentatreenne Mohammed bin Salman al Saud, sta contribuendo a questa svolta. «Gli Emirati detengono un importante primato: hanno il ministro donna più giovane al mondo, nominata appena ventenne. Da circa un anno in Arabia Saudita le signore possono guidare, inoltre ora il Paese accoglie sia i turisti, i quali prima non potevano accedere, sia gli investitori esteri di genere femminile senza che siano necessari un tutor e uno sponsor». A proposito del settantenne re di Dubai, qualche mese fa scandalizzò il pianeta la notizia della fuga, con un bottino di 58 milioni di dollari e figli al seguito, di sua moglie, 45 anni, la quale ha chiesto asilo politico in Inghilterra sostenendo di essere vittima di soprusi. Paravia, che conosce bene entrambi, dubita che la consorte di Mohammed abbia subito restrizioni della sua libertà. «Non usava il velo ed il re, che è un uomo gentile e moderno, l' ha sposata anche per questo». «Dubai non è solo la mia residenza, è altresì la mia casa, sebbene nel mio cuore il posto d' onore sia occupato dalla mia famiglia e dalla mia patria», conclude Benedetta.
· Adelaide Manselli, ma tutti la conoscono con il nome di Anna Pannocchia.
Giulio Pasqui per Il Fatto Quotidiano il 4 ottobre 2019. Si chiama Adelaide Manselli, ma tutti la conoscono con il nome di Anna Pannocchia. Grazie a Maccio Capatonda, sin dagli anni Duemila, ha avuto diversi ruoli in televisione (dagli indimenticabili Mai Dire al DopoFestival di Sanremo del 2008), al cinema e pure in radio, tanto da diventare un personaggio simpatico e apprezzato da tutti. E poi? Di lei si erano perse le tracce. “Soltanto nell’ultimo anno ho avuto quattro esaurimenti nervosi”, racconta a ilfattoquotidiano.it. “Questa situazione mi ha portato a perdere il mio lavoro. Infatti, oltre a lavorare assieme a Maccio, avevo un posto fisso da commessa in un negozio di lusso a Milano. Avendo chiesto troppi giorni di malattia nell’ultimo anno, mi hanno dovuta licenziare per giusta causa”. In più, secondo quanto racconta Adelaide/Anna, anche il suo “padrino” è scomparso nel nulla: “I film con Maccio erano un lavoretto in più per arrotondare: non rappresentavano un’entrata così importante, semmai erano un impegno gratificante. La gente mi riconosceva per strada, e io con Maccio avevo stretto anche una bella amicizia. Ma all’improvviso anche lui è sparito e non si è fatto più sentire, senza spiegazioni. Questa cosa mi ha fatto soffrire, non posso negarlo”. “Il mondo dello spettacolo le ha chiuso le porte?”, chiediamo. “Non so cosa sia successo. D’accordo, Maccio non mi ha più chiamata, ma io ci sono rimasta talmente male che non sono andata a bussare alla porta di nessuno. Anche perché in tutti questi anni mi trovavo così bene con lui che non ho mai cercato nessun altro regista”. La 45enne milanese spiega quindi cos’è successo nella sua vita negli ultimi mesi: “Ora mi sento un po’ meglio: sto facendo un percorso di cure, ma mi manca lavorare. Non fare niente tutto il giorno crea un circolo vizioso che ti porta alla depressione. Mi diletto a fare dipinti, fare gioiellini e scrivere poesie, ma non basta. I risparmi economici sono quelli che sono e voglio tornare in pista. E se Maccio volesse rifarsi vivo, per me sarebbe un gran bel regalo”.
· Riconosciuti Figli d'arte. Camilli e gli altri.
Riconosciuti Figli d'arte. Camilli e gli altri. NEL NOME DEL PADRE (E DEL SUO COGNOME). Rimarranno indimenticabili i duetti virtuali di Manuela Villa con suo padre Claudio durante le soirée televisive di Paolo Limiti in quel programma simbolo degli anni '90 che era il Paolo Limiti Show, acmé di una succosa cultura popolare ormai scomparsa e non viziata dal monstrum ingombrante e fascinoso del trash. Padre e figlia, lui in un filmato d' epoca in bianco e nero e lei vestita in grande toletta, cantavano a momenti alternati Un amore così grande. Se rinverdiamo oggi quella pantomima della paternità (così il conduttore aiutava Manuela nella sua battaglia), è perché in questi giorni è stata diffusa la notizia del riconoscimento di Fabio Camilli come il figlio naturale di Domenico Modugno (post mortem), certo più per la celebrità mai spenta del cantante di Polignano, che per la notorietà del figlio. Ma a ben avvoltolare i ricordi, una storiografia volontaria della casistica è possibile. Il confine del riconoscimento genitoriale per i figli da parte dei padri non è obolo contemporaneo ma risale, come il mondo, alla notte dei tempi. Nell' antica Roma, per esempio, non bastava venire al mondo in una famiglia romana per avere la certezza di venirvi allevati: appena uscito dal grembo materno, il neonato veniva posto dalla levatrice sul suolo di casa davanti al pater familias. Se era maschio, figlio della moglie legittima e sano (cioè non deforme, in tal caso poteva anche essere soffocato), il padre lo sollevava da terra; questo gesto, che ha un che di teatrale - di cui la ritualistica famigliare tanto romana quanto greca è piena - significava riconoscerlo e al contempo stabilire dei diritti su di lui, in pratica fino alla sua maggiore età gli apparteneva. Se decideva di non tenerlo, esso veniva esposto (da qui, probabilmente è derivato fino a oggi il cognome "Esposito") sulla porta di casa: non gli apparteneva. E si fece spazio, proprio in quell'epoca, il brocardo "mater semper certa est", che assimila la donna che ha partorito con la madre del minore, su cui si fonda ancora oggi il principio codicistico italiano, che pure ha superato la differenza tra figli legittimi e illegittimi (però solo negli anni '70). Senza scomodare, però, Ottaviano che nel 39 a.C. ripudia la moglie Scribonia per avergli dato una figlia femmina, Giulia , che non riconosce, o Picasso che - crudele con le mogli e compagne - diede invece il proprio cognome a ogni nato dalle sue molte relazioni, o ancora Guy Erminio , che solo alla morte del padre e per testamento (si legga pentimento) scoprì d' esser figlio del pittore Giovanni Boldini , il caso di Camilli è solo l' ultimo in ordine di tempo. Prima di lui, Pippo Baudo riconobbe il figlio Alessandro (nato nel 1972 dalla relazione con Mirella Adinolfi) soltanto nel '96; Vasco Rossi nel 2003 il figlio Lorenzo , che poi ha presentato al pubblico tramite i giornali con una boutade: "Scusate il ritardo, questo è Lorenzo"; il calciatore Paulo Roberto Falcao ha lungamente negato di essere il padre di Giuseppe (1981) anche in tribunale, che però nel '99 sentenziò a suo sfavore. E ancora il caso di Maradona (padre assai prolifico) che nel suo periodo napoletano ha avuto una relazione con Cristiana Sinagra da cui è nato nel 1986 Diego Maradona Jr. , che il campione ha riconosciuto solo nel '93 e dopo lotte legali e mediatiche; come quelle che hanno costretto/convinto l' attore americano Jude Law a prendersi le responsabilità sulla figlia Sophie . Molti anni trascorrono anche affinché Cristiana (nata nel '76) possa utilizzare il cognome Calone ( Massimo Ranieri ). Strano a dirsi, più pacato è Vittorio Sgarbi che dei suoi tre figli (un maschio e due femmine), tutti riconosciuti pacificamente, si proclama "genitore" (che dunque ha generato) e non "padre" (che ha cresciuto). Certo, quanto la questione confini con l' amore filiale e il desiderio di pronunciare la parola tanto primordiale come ovvia "papà" e quanto, invece, abbia a che fare con il torbido denaro, con l' eredità e il tornaconto, è un interrogativo che non può avere una risposta (o una sola risposta). Tuttavia, a noi basta ricordare cosa Honoré de Balzac scrive in Fisiologia del matrimonio: "Nell' amore di una moglie per un marito, e dei figli per il loro padre, il denaro non dovrebbe entrare".
· Il maestro Riccardo Muti.
"Vorrei dedicare i miei ultimi anni a insegnare musica". Il maestro Riccardo Muti compie 78 anni e si racconta: "I Wiener mi vedono come un padre". Piera Anna Franini, Martedì 30/07/2019, su Il Giornale. Incontriamo il direttore d'orchestra Riccardo Muti (Napoli, 28 luglio 1941) il giorno del suo 78esimo compleanno. Un brindisi con i suoi ragazzi dell'Orchestra Cherubini e dell'Italian Opera Academy, poi ritorna al lavoro. Pezzo dopo pezzo sta costruendo le Nozze di Figaro di Mozart che dirigerà - in forma di concerto - il 31 luglio a Ravenna e il 3 agosto al teatro Galli di Rimini. Il 2 agosto lascia il podio ai cinque direttori che hanno partecipato alla masterclass, tre orientali, un austriaco e l'italo-tedesco Nicolò Umberto Foron, un prodigio di 21 anni. L'Academy è un progetto formativo sostenuto da privati, dalla Fondazione Gardini a Barilla, e costituisce uno dei più generosi lasciti di Muti: pezzi di vita spesa fra podi di valore e studio severo sono la sostanza di lezioni quotidiane, da mattina a sera, pensate per «insegnare ai giovani direttori che la nostra musica non è seconda nessuna. Deve essere trattata con il rispetto che si dedica agli autori d'Oltralpe» ricorda quest'italiano di casa nel mondo, alla testa della Chicago Symphony dopo 20 anni alla Scala, dieci a Londra, 12 a Philadelphia e altrettanti a Firenze. Domina il mezzo secolo con i Wiener Philharmoniker. L'ultimo appuntamento italiano del 2019 sarà il concerto di Natale in Senato alla testa della Cherubini.
«D'ora in poi voglio vivere di sfumature e delicatezze» disse il Suo maestro allo scoccare dei 70 anni. Lei cosa si propone?
«A un certo punto della vita si ha solo bisogno di dolcezza, soprattutto in un mondo così tremendo, tragico, bellicoso dove tutti sono arrabbiati. Una dolcezza che forse si può trovare con gli amici e le persone giuste, immersi in un paesaggio meraviglioso e circondati da una cultura che riempie lo spirito. Durante la vita si combatte, si conquista, si cercano affermazione e gloria rendendosi poi conto che sono effimere. Ti accorgi che hai lavorato sempre di corsa. Così vuoi ritrovare te stesso, tornare alla prima giovinezza, a un cielo azzurro, senza nuvole».
Come si vede nei prossimi anni?
«Sento il bisogno di affondare i pensieri nelle mie radici di uomo del Sud, in quella Terra benedetta e maledetta allo stesso tempo. Il cerchio della vita si sta chiudendo, sono in una situazione in cui tutto scaturisce da questo stato d'animo, e così intendo compiere gli ultimi anni della mia vita».
A proposito di ritorni. Dominique Meyer, futuro sovrintendete della Scala, ha già espresso il desiderio di riaverla almeno per qualche appuntamento.
«Ho stima di Meyer, farà un ottimo lavoro. Il problema è che non conosco più l'orchestra della Scala, non so come suoni oggi. Tornando dovrei fare un certo tipo di lavoro per riportarla al mio concetto di suono, fraseggio, disciplina artistica e coesione. Ora non so più a che livello sia e non ho voglia di rimboccarmi le maniche. Le orchestre con cui lavoro sono poche».
Tra esse la Filarmonica di Vienna che ha voluto Lei per celebrare l'anniversario della morte di Karajan al Festival di Salisburgo.
«I Wiener mi vedono come una specie di padre musicale, depositario di un modo di concepire il suono, il fraseggio, il fare musica. Li dirigo da 49 anni senza mai saltare un anno, ho visto più di tre generazioni di Filarmonici».
Sabato, a Rimini incontrerà Sergio Mattarella. C'è qualcosa che Le preme dire al capo dello Stato?
«Vorrei che i proclami fatti da decenni venissero ascoltati. Nelle scuole deve essere ripristinato l'insegnamento della cultura musicale. L'Italia vanta la storia della musica più importante del mondo, abbiamo inventato l'opera, gli strumenti, il rigo musicale Dobbiamo essere degni del nostro passato. Con poche eccezioni, i ministri della Cultura sono incolti, sprovveduti di tutto questo. Mi sento una voce che grida nel deserto, ma continuo a far battaglie: non per me, io ho avuto la fortuna di formarmi alla severa scuola italiana, lo dico per generazioni a venire. Io parlo come musicista, ma è un discorso generale: dobbiamo far sentire che siamo Italiani, e questo non ha niente a che fare con nazionalismi e sovranismi, è la consapevolezza di appartenere a un grande Paese. Poi da anni sto cercando di portare la salma del compositore Cherubini a Firenze, ora è necessario l'intervento di una grande autorità italiana».
· Plácido Domingo: l'highlander dell'opera.
Da ansa.it il 13 novembre 2019. Il tenore Andrea Bocelli difende fermamente la leggenda dell'opera Placido Domingo, definendo "assurdo" che teatri abbiano annullato le esibizioni della star per accuse di molestie sessuali prima che siano completamente investigate. "Sono ancora sconvolto da quello che è successo a questo incredibile artista", ha detto Bocelli. "Non capisco: domani una signora può semplicemente venire e dire 'Bocelli mi ha molestato 10 anni fà e da quel giorno in poi nessuno vuole più cantare con me e i teatri d'opera non mi chiamano più; è assurdo". Secondo Bocelli inoltre, le persone dovrebbero distinguere tra "la moralità delle figure pubbliche e la loro arte e abilità".
Alberto Mattioli per “la Stampa” il 28 luglio 2019. È già nella storia. Anzi, nella leggenda. Come lui, nessuno mai. A 78 anni, è l' highlander dell' opera, l' uomo di tutti i record: prima tenore, poi baritono, direttore d' orchestra e artistico, talent scout, più di 4 mila recite cantate e 500 dirette, oltre 150 titoli in repertorio (nel Rigoletto, ha cantato tre parti: Borsa, il Duca e il protagonista, ennesimo record), più di cento incisioni di opere complete, 12 Grammy e un motto: «If I rest, I rust», se mi fermo arrugginisco. E infatti eccolo a Verona, Plácido Domingo, questo bulimico del palcoscenico, per celebrare i 50 anni del suo debutto all' Arena. Festeggiamento uno e trino: ieri sera ha diretto Aida, giovedì canterà papà Germont in Traviata e domenica in un gala spezzatino in cui sarà Nabucco, Simon Boccanegra e Macbeth.
Lei fa tutto. Ma cosa le piace di più fare?
«Io sono soprattutto felice di essere un musicista».
Le manca qualcosa?
«Soltanto dei personaggi nuovi. Sono curioso e per questo continuo ad allargare il repertorio. Nella prossima stagione, Sharpless della Butterfly al Met e Nottingham del Roberto Devereux a Los Angeles. Poi toccherà a Monforte nei Vespri siciliani e al Belisario di Donizetti».
Ma il tempo per studiare dove lo trova?
«Di notte. Vado a letto alle tre. Un' ottima cosa, a patto di potermi svegliare a mezzogiorno».
L'unico lavoro che non ha mai fatto è il regista. Perché?
«Perché in famiglia ce n' è già una, mia moglie Marta. E poi perché penso che di tutti i mestieri dell' opera sia il più difficile. Inizi a lavorare allo spettacolo un anno prima, devi studiare, documentarti, avere tutto chiaro prima ancora che iniziano le prove. Non penso di averne il talento. Anche perché una volta che ho visto una produzione mi vengono mille idee. Prima, è più difficile».
Quando si è reso conto di essere diventato Placido Domingo?
«Sono sempre stato fortunato. Nel 1962 mi sono sposato con Marta e subito dopo ho avuto un contratto in Israele. In due anni e mezzo ho cantato 280 recite. Potevo uscirne distrutto o artista completo. Beh, diventai un artista completo. Poi andai alla New York City Opera a cantare Don Rodrigo di Ginastera, una parte tremenda. Avevo 25 anni, fu un trionfo. È iniziato tutto lì».
La voce più impressionante che abbia mai sentito?
«Qui a Verona debuttai cantando Turandot con la Nilsson e Don Carlo con la Caballé, più di così... Ma ho duettato con tutte le grandi primedonne, la Price, la Sutherland, la Freni, la Tebaldi. Con un rimpianto solo».
La Callas?
«Esatto. Mai cantato con lei. Peccato».
Chi le manca, oggi, nel mondo dell' opera?
«Ho perso tanti colleghi... Però se devo citarne due, scelgo due grandi direttori: Carlos Kleiber e Giuseppe Sinopoli».
Come ricorda il suo debutto all' Arena, cinquant' anni fa?
«Come una grandissima emozione. Quegli spalti pieni di pubblico sono magici. Era il 1969 e facevamo Turandot. Il coro invocava la luna pallida (canta, ndr) proprio mentre Armstrong ci stava arrivando. La luna non era più vergine. Magia, appunto».
Com' è cambiato da allora il mondo dell' opera?
«Più che cambiato, è cresciuto. Oggi l' opera si fa in Paesi dove mai avremmo immaginato che arrivasse. In Cina, in Corea, in Giappone c' è un pubblico incredibile, appassionatissimo. Le opportunità sono maggiori per tutti».
E le voci?
«Non so se fossero migliori quando ho iniziato io, però sono sicuro che le grandi voci ci sono sempre state e ci saranno sempre. Il mio concorso Operalia l'ha appena vinto un giovane tenore che si chiama Xabier Anduaga e che ha tutto per diventare un fuoriclasse. E poi oggi i cantanti sono più preparati e stanno meglio in scena. Anche perché sono cambiati anche gli spettacoli, per la verità non sempre in meglio».
Ma un nuovo Domingo oggi c' è?
«Forse di tenori non ce ne sono tanti come prima, ma quattro o cinque di gran livello, sì. Vuole i nomi?»
Certo.
«Beczala, Sartori, Kaufmann, Meli».
Sono quattro.
«Aggiungiamo Michael Fabiano».
E della sua Aida, Tamara Wilson, che non vuole truccarsi da nera che dice?
«Che è un tema delicato. Otello è moro, Butterfly giapponese, Calaf tartaro, e da lì non si scappa. Mettiamola così: un soprano bianco deve truccarsi per fare Aida, mentre un tenore nero ha tutto il diritto di restare com' è se canta Manrico».
L' Italia è ancora il Paese dell' opera?
«L' opera oggi è un fenomeno globale. Ma il pubblico italiano è ancora il più esigente. Soprattutto alla Scala e soprattutto per Verdi. Esperto, competente, non sempre giusto».
Il famoso «Questa è una banda!» urlato a Kleiber al vostro «Otello»...
«Prima dell' attacco del terzo atto, un momento difficile (lo canta, poi ride, ndr). Non sa il seguito, però. Carlos alla fine mi disse: è stata una grande soddisfazione, grazie a quel grido il pubblico non si è accorto che lì le viole non erano tanto insieme...».
Quando parla della Scala le si illuminano gli occhi.
«È un teatro particolare. I grandi cantanti e prima ancora i compositori, i creatori, che sono passati di lì il senti, sono nell' aria, intorno a te».
Risponda d' impulso: dovesse scegliere la serata della vita, una sola, quale sarebbe?
«L' ho già citata: 7 dicembre 1976, prima della Scala con Otello, Kleiber, Zeffirelli, Freni, Cappuccilli. E la prima diretta televisiva di un' opera, Verdi che entra nelle case di tutti. Magnifico».
La domanda è sgradevole ma obbligata: non pensa mai di ritirarsi?
«Ogni tanto penso di lasciare il palcoscenico. Non per una fatica fisica, ma mentale. Le opere del mio nuovo repertorio baritonale devo ristudiarle ogni volta che le canto. E allora mi viene l' idea di fare meno recite e più concerti. Sicuramente voglio dirigere di più. Ma i miei genitori erano cantanti e io in teatro ci sono nato. È la mia casa, la mia vita».
Placido Domingo, la leggenda dell’opera accusato di molestie. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 da Corriere.it. Placido Domingo, la leggenda dell’opera, è stato accusato da numerose donne — che hanno riferito tutto all’agenzia di stampa americana Associated Press (Ap) — di averle forzate ad avere rapporti sessuali con lui promettendo in cambi ingaggi o anche, in alcuni casi, maltrattandole se rifiutavano le sue avance. Accuse pesantissime, supportate anche dalle dichiarazioni di circa 30 altre persone del mondo dell’opera hanno confermato di aver assistito a comportamenti inappropriati a sfondo sessuale da parte di Domingo. Il tenore spagnolo ha definito le accuse «profondamente preoccupanti e poste in modo inesatto», aggiungendo: «Ho sempre creduto che tutte le mie interazioni e relazioni siano state sempre ben accette e consensuali».
Placido Domingo accusato di molestie sessuali, cancellati due concerti. Il tenore spagnolo smentisce: solo relazioni consensuali. La Repubblica il 13 agosto 2019. Placido Domingo è stato accusato di molestie sessuali: l'Associated Press (Ap) riporta che diverse donne sostengono che il tenore ha cercato di costringerle ad avere rapporti sessuali con lui promettendo ingaggi e in alcuni casi maltrattandole se rifiutavano le sue avance. Circa 30 persone del mondo della lirica hanno affermato di aver assistito a comportamenti sessuali inappropriati da parte del tenore. Le presunte vittime hanno fornito la loro versione direttamente all'Ap, con rivelazioni che potrebbero causare un terremoto nel mondo dell'opera di proporzioni simili a quello causato a Hollywood dalle accuse al potente produttore Harvey Weinstein. E arrivano le prime conseguenze . A cancellare alcune prossime performance dell'artista sono state la San Francisco Opera, che aveva in programma un suo concerto il 6 ottobre, e la Philadelphia Orchestra che ha ritirato l'invito a Domingo che avrebbe dovuto dare il via alla stagione operistica il prossimo mese. Intanto la Los Angeles Opera, di cui Domingo è direttore generale dal 2003, ha fatto sapere che ingaggerà un consulente privato per indagare sulle accuse al tenore.
Il tenore: "Rapporti consensuali". Domingo, 78 anni, non ha risposto alle domande dell'agenzia americana, ma ha rilasciato una dichiarazione: "Le accuse di questi individui senza nome risalenti a trent'anni fa sono profondamente preoccupanti e, come presentate, inaccurate. Tuttavia, è doloroso sapere che potrei aver turbato qualcuno o averlo fatto sentire a disagio, non importa quanto tempo fa e nonostante le mie migliori intenzioni. Ho creduto che tutte le mie interazioni e relazioni fossero sempre state accolte e consensuali. Le persone che mi conoscono o che hanno lavorato con me sanno che non sono qualcuno che danneggi, offenda o imbarazzi intenzionalmente qualcun altro". Poi il tenore ha fatto una riflessione sulla campagna nata dopo le accuse a Weinstein: "Tuttavia, riconosco che le regole e gli standard in base ai quali siamo - e su cui dovremmo essere - misurati oggi sono molto diversi rispetto al passato. Ma sono benedetto e ho il privilegio di avere avuto più di 50 anni di carriera nell'opera, e resterò ai massimi livelli". Parole suffragate dal successo che continua ad avere il tenore che continua ad aggiungere nuovi ruoli ai 150 che ha interpretato in oltre 4mila spettacoli, più di qualsiasi cantante d'opera della storia.
Le accuse. Secondo quanto riportato dall'Ap, per decenni Domingo avrebbe cercato di spingere le donne a rapporti sessuali usando il suo potere nell'universo dell'opera, a volte anche ostacolando le loro carriere se veniva respinto. Le accuse arrivano da otto cantanti e una ballerina, che hanno detto all'Associated Press di essere state molestate sessualmente in incontri che si sono svolti a partire dalla fine degli anni '80. Un'accusatrice ha riferito che Domingo le ha infilato una mano lungo la gonna e altre tre hanno raccontato di aver ricevuto baci forzati sulle labbra. Oltre alle nove accusatrici, una mezza dozzina di altre donne hanno detto di essersi sentite a disagio a causa di pesanti avance del cantante. Sette delle nove accusatrici hanno dichiarato di ritenere che le loro carriere siano state influenzate negativamente dopo aver respinto Domingo. Solo una delle nove donne ha permesso di usare il suo nome: Patricia Wulf, mezzosoprano che cantava con Domingo alla Washington Opera. Le altre hanno chiesto l'anonimato, temendo rappresaglie.
Paolo Isotta per “il Fatto quotidiano” il 17 agosto 2019. L'ultimo a essere pizzicato è Placido Domingo. Ottimo tenore, decenni fa; i miei sparuti lettori ben sanno quanto lo disistimi da quando, non rassegnandosi a por fine a un'onorevole carriera, ha tentato ridicolmente di trasformarsi in baritono e direttore d'orchestra. Il mio giudizio ha aumentato, se possibile, l'acerrima avversione che verso di me nutrono quei cretini che, alla francese, vengono chiamati "melomani": errore giusto, perché i "musicofili" non sono "pazzi" (dalla radice "mane") e possono persino essere persone intelligenti. Ma Domingo - ecco il punto - è stato espulso dal mondo musicale perché accusato di "molestie sessuali": come sempre, risalenti a decenni fa. Ciò non rileva sul fatto artistico. Siamo nel 1984 di Orwell? Uno dei più grandi direttori d'orchestra viventi, James Levine, sebbene paralizzato e costretto alla sedia a rotelle per il morbo di Parkinson onde è affetto, è stato ignominiosamente considerato un mostro indegno esercitare l'arte perché un tale, trent'anni fa ragazzo, gli ha imputato una relazione sessuale nata dal metus reverentialis dal grande Maestro esercitata nei suoi confronti. Questa è stata la più infame di tutte, considerato lo stato in cui il sommo musicista versa: lui, che ha fatto grande il Metropolitan, temo addirittura non ne abbia per molto. E, più indegna di tutto, il suo successore, omosessuale dichiarato, s'è "indignato" accusando il predecessore e affermando che gli omosessuali debbono essere "perbene" e "sposati." Una caricatura dell'impiegatuccio. I rapporti sessuali sul luogo di lavoro m'ispirano disgusto. C'è sempre un potere, più o meno osteso, esercitato dalla parte agente o incitante (chiamiamola così perché a definirla attiva, riderebbero miliardi di persone). Ma c'è un sottile potere avvolgente, fatto d'ingenuità, di invocati debolezza, timidezza, stato di necessità, coniugi dichiarati brutali o indifferenti, dall' altro lato. L' insidia della "parte debole" non è meno pericolosa. Oggi il fatto vale per: uomo su donna, donna su uomo, uomo su uomo, donna su donna, transgender su transgender. Sono finiti i tempi della segretaria insidiata dal capufficio. Sono finiti sui media: nella vita, il primario sulla dottoressa, il professore sull' aspirante "associat(o)a", e così, sono sempre più frequenti e ripugnanti. E vale sempre più la "promessa lunga coll' attender corto" della "sistemazione" in carriera. Infine, c' è l' attrazione reciproca, nata dal desiderio di un mutuo piacere. A prescindere dall'età e da quel sentimento che chiamano amore - se c'è. Chi la condanna è un ipocrita. Il mondo rigurgita di situazioni alla Alberto Sordi. Tempo fa ho tentato invano di difendere la libertà erotica di un'insegnante che s'era innamorata di un ragazzo di quattordici anni e consumava. È l' altra faccia della mentalità calvinista oggi prevalente; laddove nei seminarî gli aspiranti sacerdoti, quasi tutti ricchioni, sono assai più accorti nelle loro relazioni pur se sempre più palesi. Ripeto: le vittime sono oggi gli uomini famosi: calciatori, cuochi, cantanti, sarti, attori, e persino direttori d'orchestra. Levine, Kuhn, Harnoncourt, Dutoit, Gatti, e tanti altri, quale che sia il loro valore e la fondatezza dell' imputazione, la pagano amaramente. Un grande direttore, affetto da moglie che per gelosia si spinse a simulato suicidio, nei lunghi anni nei quali fu a capo alcuni dei più imporranti teatri lirici del mondo, ebbe relazioni con segretarie, addette stampa, cantanti, donne delle pulizie, "maschere" (donne, intendo: si vocifera, ma è certo una fandonia, che da una di costoro abbia avuto una felice, o infelice, paternità). Tutti tacquero, tacevano, tacciono, taceranno. Eppure la posizione professionale del grande Maestro non è così prestigiosa come vent'anni fa: in altre parole, non fa paura a nessuno. Egli, peraltro, non essendo napoletano, di San Gennaro non è adepto, e il suo patrono è di serie C. Ormai toccherà a lui.
Molestie, altre nove donne accusano Placido Domingo. Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Maria Volpe su Corriere.it. Un’altra grande star sotto i riflettori. E non per motivi artistici. Questa volta è il turno del grande tenore Placido Domingo. Altre 11 donne lo accusano di molestie: le testimonianze sono state raccolte, anche in questo caso, dall’agenzia di stampa americana Associated Press (Ap). Le donne hanno raccontato come il cantante lirico e direttore d’orchestra le avrebbe insidiate e molestate con comportamenti inappropriati. Una donna ha riferito che nel 1999, l’attuale direttore generale dell’Opera di Los Angeles le avrebbe afferrato con forza il seno sotto la vestaglia in camerino, mentre altre hanno raccontato di contatti indesiderati o tentativi di baciarle. Diversi lavoratori del backstage del Teatro hanno riferito all’Ap come si siano sforzati di proteggere le giovani da Domingo mentre gli amministratori guardavano dall’altra parte, fino alla stagione 2016-2017 dell’Opera di Los Angeles. In un comunicato, il portavoce del cantante ha definito le accuse «piene di inconsistenze», ma non ha fornito dettagli. Il caso-Domingo è al secondo round. Lo scorso 14 agosto alcuni tra i principali teatri del mondo - Philadelphia Orchestra Association, San Francisco Opera , (Metropolitan Opera di New York ha annunciato che attenderà l’esito delle indagini) - hanno sospeso i concerti in cartellone con la presenza del noto cantante. Allora infatti nove donne, di cui solo una si è identificata, accusarono il 78enne di aver usato la sua posizione di potere per spingerle ad avere relazioni sessuali con lui. Otto cantanti e una ballerina hanno raccontato all’agenzia di stampa Associated Press di presunte molestie e incontri che si sono svolti nel corso di trent’anni, a partire dalla fine degli anni 80. Molte di loro hanno dichiarato che la loro carriera non è decollata proprio perchè hanno respinto Domingo. Queste testimonianze parlano di molestie, mentre altre donne hanno riferito all’Ap di essersi sentite a disagio per le pesanti avance del cantante. Solo una delle nove donne ha permesso di usare il suo nome: Patricia Wulf, mezzosoprano che cantava con Domingo alla Washington Opera. Le altre hanno chiesto l’anonimato. Anche in quel caso Domingo non rispose alle domande dell’agenzia americana, ma rilasciò una dichiarazione: «Le accuse di questi individui senza nome risalenti a trent’anni fa sono profondamente preoccupanti e, come presentate, inaccurate. Tuttavia, è doloroso sapere che potrei aver turbato qualcuno o averlo fatto sentire a disagio, non importa quanto tempo fa e nonostante le mie migliori intenzioni. Ho creduto che tutte le mie interazioni e relazioni fossero sempre state accolte e consensuali. Le persone che mi conoscono o che hanno lavorato con me sanno che non sono qualcuno che danneggi, offenda o imbarazzi intenzionalmente qualcun altro». Quel che è vero è che oggi la sensibilità sul tema molestie — per fortuna — sta cambiando e comportamenti considerati normali o “leggeri” 20/30 anni fa, oggi sono inammissibili. In particolare dopo la nascita del Movimento mee too. E forse per questo, Domingo ha fatto una riflessione in questo senso: «Riconosco che le regole e gli standard in base ai quali siamo - e su cui dovremmo essere - misurati oggi sono molto diversi rispetto al passato. Ma sono benedetto e ho il privilegio di avere avuto più di 50 anni di carriera nell’opera, e resterò ai massimi livelli». Nei giorni scorsi, Yuri Bashmet, tra i musicisti russi più famosi nel mondo, e amico di Domingo, in un’intervista a Il Giornale ha detto: «Il modo di considerare i rapporti oggi è molto diverso rispetto anche a soli 20 o 30 anni fa. Non so come si siano svolti i fatti, quando penso a Placido Domingo, che è un amico e un uomo di grande fascino e bellezza, oltre che uno dei più grandi artisti, mi viene da pensare che abbia subito un numero spropositato di avances più o meno lecite considerando gli standard attuali».
Molestie, Plácido Domingo rinuncia ad esibirsi a New York. Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 da Corriere.it. Plácido Domingo ha rinunciato ad esibirsi nuovamente al Metropolitan Opera di New York. Lo hanno annunciato sia il teatro che il tenore, accusato di molestie sessuali da parte di diverse donne. Il cantante 78enne, salito per la prima volta sul palco della Grande Mela più di mezzo secolo fa, era atteso da mercoledì sera al Met dove avrebbe dovuto portare in scena il Macbeth di Giuseppe Verdi. Il tenore ha deciso di ritirarsi anche da tutte le future perfomance alla Met Opera. Aveva partecipato alle prove per il Macbeth lunedì, ma poi il teatro ha annunciato che la star si è detta d’accordo sulla necessità di fare un passo indietro. Il ritiro di Domingo, si legge sul New York Times, è arrivato dopo che molti tra gli addetti avevano espresso perplessità sulla sua presenza. Altre istituzioni musicali, come la Philadelphia Orchestra e la San Francisco Opera, hanno già annullato date che prevedevamo la sua presenza in calendario. «Ho debuttato al Metropolitan Opera all’età di 27 anni e ho cantato in questo magnifico teatro per 51, gloriosi, anni di fila — ha detto Domingo — . Pur contestando fermamente le recenti accuse mosse su di me e aver manifestato preoccupazione per un clima in cui le persone sono condannate senza il dovuto processo, a seguito di riflessione, credo che la mia apparizione nel Macbeth distolga dal duro lavoro dei i miei colleghi sul palco e dietro le quinte. Perciò ho chiesto di ritirarmi e ringrazio la direzione del Met per aver accolto con gentilezza la mia richiesta. Sono felice che, all’età di 78 anni, sia stato in grado di cantare il meraviglioso ruolo del protagonista nella prova generale del Macbeth, che considero la mia ultima esibizione sul palco del Met». Nella sua dichiarazione, il Met ha affermato che Domingo aveva «accettato di ritirarsi da tutte le future esibizioni al Met, con effetto immediato». Zeljko Lucic sostituirà Domingo per le tre esibizioni del Macbeth.
Molestie, Placido Domingo si dimette dalla direzione della Los Angeles Opera. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 da Corriere.it. In seguito alle accuse di molestie sessuali, il tenore Placido Domingo ha rassegnato le dimissioni dalla direzione della Los Angeles Opera. «Le recenti accuse nei media hanno creato un’atmosfera che mi impedisce di essere utile a questa compagnia che amo così tanto», ha dichiarato il cantante 78enne in una nota diffusa oggi. «Anche se continuerò a cercare di ripristinare la mia reputazione, ho deciso che per la Los Angeles Opera era meglio lasciare la mia posizione di direttore generale e rinunciare per il momento agli spettacoli programmati». Placido Domingo, che respinge le accuse contro di lui, ha affermato di aver preso «con tutto il cuore» la decisione di abbandonare il vertice della rinomata istituzione musicale, che lui guida dal 2003. Il tenore aveva già rinunciato la scorsa settimana ad esibirsi alla Metropolitan Opera di New York, dove era atteso in una nuova produzione del «Macbeth» di Verdi. Ad agosto una prima inchiesta di Associated Press aveva portato alla luce le testimonianze di numerose donne che sostengono di avere subito — tra gli Anni 80 e il 2000 — molestie di diversa natura da parte del tenore. Un mese dopo, si sono aggiunte altre nove donne.
Dal “Corriere della sera” il 4 ottobre 2019. Andrea Bocelli difende Placido Domingo dalle accuse di molestie sessuali. Il quotidiano britannico Telegraph ricorda che Domingo è stato denunciato da diverse donne, mentre Bocelli, in un' intervista al Gazzettino rimbalzata all' estero, avrebbe definito le recenti accuse a cantanti e direttori d' orchestra «vergognose e paradossali», aggiungendo di non voler entrare nel merito della questione Domingo «ma da laureato in legge so che ci vogliono prove e una condanna definitiva. In questo caso ci sono solo pregiudizi che hanno portato a una situazione inqualificabile. Non sono un giudice ma conosco Domingo e non credo proprio abbia bisogno di molestare qualcuno». Lo scorso mese, il Metropolitan di New York aveva annunciato la rinuncia del tenore a una serie di appuntamenti programmati. L'improvviso forfait sarebbe stato causato proprio dalla vicenda delle molestie. Ad attendere Domingo c' era il ruolo da protagonista nel Macbeth ma lui stesso ha dichiarato di non essere in grado di lavorare, intendendo difendersi dalle pesanti accuse che respinge con forza. Le testimonianze delle presunte vittime sono state raccolte dall' agenzia di stampa americana Associated Press , a cui le donne hanno raccontato come il cantante lirico le avrebbe insidiate e molestate con comportamenti inappropriati. Il portavoce del cantante ha definito le accuse «piene di inconsistenze».
Plácido Domingo: «Le accuse di molestie? Non uscivo più di casa». Pubblicato lunedì, 02 dicembre 2019 da Corriere.it. La vita di Plácido Domingo è cambiata il 13 agosto. Leggenda vivente dell’opera — tenore, direttore d’orchestra, baritono —, l’artista spagnolo aveva da poco festeggiato le sue «nozze d’oro» con l’Arena di Verona. Era tornato a Caracalla per la «Noche Espanola». Un’altra estate di successi e folle adoranti. «Poi arriva questo fulmine — racconta Domingo —, esce il primo articolo nel quale mi si accusa pesantemente di molestie sessuali e di abuso di potere. In un attimo la notizia diventa mondiale, enorme, non mi dà tregua. È giusto che, in quanto personaggio pubblico, io sia sotto i riflettori dell’opinione pubblica. Ma sono state dette cose molto offensive per me come essere umano. In poche ore, senza essere stato interpellato, sono stati cancellati i miei impegni a Filadelfia e San Francisco. In pochi giorni mezzo secolo di carriera è stato spazzato via come da un soffio». È la prima intervista di Plácido Domingo da quando nove donne lo hanno accusato di essere state molestate sessualmente, in un arco di tempo iniziato alla fine Anni Ottanta. Accuse precise, alcune molto dettagliate di otto cantanti e una ballerina, tutte agli esordi all’epoca dei fatti. Una delle accusatrici sostiene che Domingo le infilò una mano sotto la gonna, tre che furono da lui forzate in un «wet kiss», un bacio con la lingua rispettivamente in uno spogliatoio, una stanza d’albergo e una colazione di lavoro. Due hanno ammesso di aver ceduto alle sue avances, per paura di dire no a un uomo così potente. Le altre sette hanno dichiarato che le loro carriere artistiche sono state influenzate negativamente dai loro rifiuti a Domingo, con il quale non sono mai più state invitate a esibirsi. Nessuna è stata in grado di fornire una documentazione, tipo messaggi telefonici, che provasse le accuse. Un’inchiesta interna è ancora in corso all’Opera di Los Angeles, da dove Domingo si è dimesso dal ruolo di direttore generale che ricopriva dal 2003. Finora l’unica dichiarazione ufficiale del cantante e direttore d’orchestra è quella rilasciata al momento della rivelazione dell’Associated Press e che riportiamo per intero: «Le accuse di queste persone, che risalgono anche a trent’anni fa, sono inquietanti e, nella loro formulazione, inaccurate. È doloroso sentire che io abbia sconvolto o abbia messo qualcuno a disagio, non ha importanza quanto tempo fa e a dispetto delle mie migliori intenzioni. Credo che tutte le mie interazioni e relazioni siano state sempre benvenute e consensuali. Le persone che mi conoscono sanno che non sono il tipo che intenzionalmente farebbe male, offenderebbe o metterebbe in imbarazzo alcuno. Comunque, riconosco che le regole e gli standard con cui siamo misurati oggi sono molto differenti da quelli del passato». Domingo mi riceve nella sua stanza d’albergo ad Amburgo, poche ore prima del gala a lui dedicato alla Elbphilharmonie. Ha 78 anni, la barba candida, il volto velato di malinconia, ma è in una forma quasi giovanile. Indossa un blazer blu sui jeans e una camicia a righe. Il 15 dicembre sarà alla Scala, per una serata verdiana in occasione dei 50 anni del suo esordio al teatro milanese. «Avevo 28 anni, debuttavo alla Scala con il maestro Antonino Votto nell’“Ernani”. Avevo esordito l’anno prima al Metropolitan. Non potevo crederci che tutto questo stesse succedendo a me prima ancora dei trent’anni. Mi ricordo la prima prova. Quando Ernani entra quasi all’inizio, canta un’aria e una cabaletta. Sentivo i tenori del coro, mi sentivo piccolo. Dopo che ebbi cantato, Votto mi disse. “Ragazzo la sento stanco”. Io gli risposi: “Maestro, deve capire che sono molto emozionato, con lei, con questa orchestra, in questo teatro”. Quella cosa ruppe il ghiaccio e poi fu un bellissimo debutto. Poi sono tornato molte volte, anche per la prima a Sant’Ambrogio. Vi ho anche diretto dei concerti e spero di continuare questa collaborazione».
Ma qual è stata per lei la serata più memorabile alla Scala?
«Penso l’inaugurazione della stagione 1976-77 con l’“Otello” diretto da Carlos Kleiber. Insieme a me c’erano Mirella Freni e Piero Cappuccilli. Credo sia stata la prima volta in cui la Rai ha trasmesso in diretta l’apertura della Scala. Ricordo un’atmosfera molto tesa, fuori c’era una manifestazione degli animalisti che protestavano contro le pellicce indossate dalle signore. Uno scandalo. La recita fu straordinaria. Ma ci sono state anche altre serate memorabili, come il centenario dell’“Aida” con Claudio Abbado».
Torniamo alle accuse di questa estate. Nella sua dichiarazione lei ha detto è che «le regole e gli standard con cui siamo misurati oggi sono molto diversi da quelli del passato». Non è una parziale ammissione di colpa?
«Io sono convinto che ogni forma di molestia sessuale e di comportamento offensivo nei confronti di chiunque sia da condannare in qualsiasi luogo e in qualsiasi epoca storica».
L’hanno anche accusata di abuso di potere...
«C’è un aspetto legato all’abuso di potere che vorrei chiarire con lei. Ci sono dei teatri dove il General Director ha un ruolo più forte e prende direttamente le decisioni sui cast da scritturare. Ma non era così a Washington e a Los Angeles quando io lavoravo là. Le decisioni per scegliere il cast di un’opera sempre le prendevamo in una équipe di quattro o cinque persone insieme. Questo lavoro di gruppo sempre è una cosa che ho creduto giusta perché ci si confronta. E poi era necessario, poiché io stavo tanto tempo in viaggio, lontano proprio fisicamente dai miei teatri. Infatti non ero io che firmavo i contratti per ingaggiare gli artisti. Nessuno poteva prendere decisioni arbitrarie».
Come ha vissuto personalmente questa situazione?
«È stato davvero brutto. Passavo tante ore chiuso in casa, io sempre abituato a essere in un teatro o in viaggio o a una cena, con tante persone attorno. Ora invece piano piano sono tornato alla mia quotidianità, al mio lavoro e in mezzo ad amici e colleghi mi sento sereno. La cosa più terribile in quei momenti era la mente: ti rendi conto che non puoi spegnerla la notte e di giorno diventa difficile governarla. Così mi aiutava tanto studiare, mi concentravo nella musica, che mi dà tanta energia. E poi chi mi ha dato la forza sempre è stato l’affetto inesauribile dei miei cari».
Le accuse contro di lei hanno spaccato il mondo della musica. In tanti l’hanno difesa, altri hanno preso le distanze. La divisione è stata quasi geografica: i teatri americani hanno troncato i rapporti, non solo San Francisco e Filadelfia, ma anche Dallas e soprattutto il Metropolitan di New York dove doveva fare «Macbeth» con Anna Netrebko, una delle artiste che hanno preso le sue parti. In Europa lei ha continuato a esibirsi, è stato acclamato a Salisburgo, Zurigo, Vienna e tutti i suoi impegni sono stati confermati. Perché questa differenza tra America ed Europa?
«Ho lavorato per decine di anni negli Stati Uniti e so quanto gravi siano accuse come queste. Purtroppo esse contengono già implicitamente la sentenza. L’Europa è differente, forse la presunzione di innocenza prevale sulla tentazione di condannare immediatamente. Ma in verità io non sono accusato di nessun delitto».
Fra chi l’ha difesa c’è stato Andrea Bocelli. Le ha fatto piacere?
«Tantissimo! Mi ha commosso e stupito la sua dichiarazione molto coraggiosa. Lui stava per partire per una tournée proprio negli Stati Uniti. L’ho chiamato personalmente per ringraziarlo».
Lei è stato tenore, direttore d’orchestra, baritono, un trittico quasi unico nella musica lirica. Come hanno interagito su di lei questi ruoli e in che modo l’essere stato cantante ha influito sul suo stile direttoriale?
«La musica è stata la costante. Ho studiato pianoforte e direzione d’orchestra. Ma i miei genitori erano cantanti e mi sono trovato immerso in quel mondo, scoprendo di avere la voce giusta. Quando cantavo pensavo che un giorno mi sarebbe piaciuto dirigere. Ho cominciato dirigendo i miei genitori nella zarzuela. La mia prima opera, “Il Trovatore”, l’ho diretta qui ad Amburgo. Certo essendo cantante ed essendomi esibito con i più grandi è stata una grande fonte di ispirazione».
E qual è stato il direttore d’orchestra con cui si è trovato meglio?
ccio tre nomi: Kleiber, Levine e Barenboim. Da loro ho imparato molto. Sono coloro con i quali, in modo diverso, penso di aver fatto le cose più interessanti. Però devo anche ricordare Muti, mio coetaneo, col quale incidemmo una grande “Aida” con Montserrat Caballé».
Ora che fa il baritono, si ritrova spesso nel ruolo del cattivo. Non le dà fastidio?
«Ci sono parti di baritono grandiose, che ho sempre sentito cantate dai miei “nemici”. Ora i miei “nemici” sono i tenori. Ma vince sempre la musica».
E qual è la parte di tenore che le manca di più?
«L’Otello è l’Otello. Per me è una cosa speciale. L’ho cantato 225 volte. È un personaggio completo sul piano vocale e drammatico. Ogni volta che l’ho fatto mi dicevo che ero fortunato, perché Verdi aveva creato per me un “Otello” migliore di quello di Shakespeare».
E da baritono qual è il ruolo che preferisce?
«Quello di Macbeth, come vede sempre Verdi e Shakespeare. Poi Germont nella “Traviata”, Nabucco e Boccanegra».
Quanto riesce a parlare l’Opera ai giovani oggi? E quanto vive di nostalgia?
«Ovunque vedo ogni sera un numero crescente di giovani fra il pubblico. Penso che mai come oggi l’opera affascini generazioni diverse. Anche perché l’opera non ha mai avuto un repertorio così vasto. Oggi si riscoprono cose che in passato conoscevano solo gli specialisti, pensi al repertorio russo che Valery Gergiev porta in giro. È anche molto utile l’uso della tecnologia, come la proiezione dei libretti, il pubblico apprezza molto più gli artisti, la gente segue e discute non solo della qualità della voce, ma approfondisce il dramma. E si addormenta di meno. Siamo in un momento molto positivo».
Lei è un uomo felice?
«Si. E devo dire grazie a mia moglie, ai miei genitori, una famiglia straordinaria. E grazie al mondo della musica lirica. Sono felice di aver fatto tanto per tanta gente, nelle molte iniziative cui ho partecipato. Con “Operalia” per esempio ho creato un grande trampolino di lancio per giovani cantanti d’opera. E sono felice che tutte le volte che torno in un teatro, in ogni angolo del mondo, vengo accolto con affetto e calore».
Ma guardando indietro a questi 50 anni c’è qualcosa che farebbe diversamente?
«No. Non farei nulla di diverso. Ho sempre cercato di fare il bene. Ora c’è questa situazione problematica e per me dolorosa. Mi accusano di cose non vere. Io non ho mai abusato di una persona, né approfittato della mia posizione. La mia coscienza e la mia mente sono tranquille. Si possono commettere errori nella vita ma non ho mai offeso nessuno».
QUALCOSA E’ CAMBIATO (E IL #METOO HA ROTTO IL MENGA). Valerio Cappelli per il “Corriere della sera” il 14 agosto 2019. In una rete di accuse di molestie è finito il pesce più grosso della scena musicale. Placido Domingo, il più celebre tenore al mondo, è accusato da 51 tra cantanti, ballerine, musiciste, impiegate dei teatri: alcune denunciano pressioni sessuali per avere ingaggi, e un diniego - riporta l' Associated Press , che ha condotto l' inchiesta - le danneggiava professionalmente. Negli Stati Uniti la risposta è stata immediata: Domingo è sovrintendente della Los Angeles Opera, che in un comunicato ha subito promesso di «assumere consiglieri esterni» per indagare. E l' Orchestra di Filadelfia ha già disdetto la sua partecipazione alla serata d' apertura a settembre. Il Festival di Salisburgo, invece, dove Domingo canterà il 25 agosto nella Luisa Miller , si è schierato con lui. La presidente Helga Rabl-Stadler: «Lo conosco da 25 anni e oltre che dalla sua competenza sono rimasta impressionata fin dall' inizio dal modo in cui si rivolge agli impiegati del Festival, che conosce per nome». Fa una citazione in latino, in dubio pro reo , «nel dubbio, a favore dell' imputato». E poi: «È irresponsabile arrivare ora a sentenze. Canterà da noi come previsto». Tutte le voci contro il tenore per ora sono anonime, tranne il mezzosoprano Patricia Wulf, che aveva cantato all' Opera di Washington con lui. «Mi addolora sentire di avere irritato o messo a disagio chiunque», ha detto Domingo. «Credo che le mie interazioni e amicizie siano sempre state consensuali. Chi mi conosce sa che non sono il tipo che intenzionalmente offende, fa del male o mette in imbarazzo. Ma mi rendo conto che i ruoli e gli standard, oggi, sono differenti dal passato». Le accuse vanno dalla fine degli anni 80 al 2000. Una donna ha detto che Domingo ha allungato la mano sotto la sua gonna, altre tre sarebbero state forzate a baciarlo in camerino, negli hotel o in altre occasioni. «Una mano sul ginocchio a un pranzo di lavoro è strana», ha detto una. Domingo si sarebbe fatto avanti con drink e cene. In molte erano state preavvertite da colleghe: «Non restate da sole con lui in ascensore». Secondo una voce, il cantante avrebbe messo 10 dollari sulla credenza dopo un rapporto in un hotel: «Non voglio che ti senta una prostituta, ma non voglio nemmeno che paghi tu il parcheggio dell' auto». Domingo, 78 anni, ha affermato che «accuse anonime così lontane nel tempo sono preoccupanti e imprecise». L' anonimato, secondo tante donne coinvolte, è «per paura di rappresaglie o umiliazioni pubbliche: lavoriamo ancora nel mondo della musica».
· Vittorio Grigolo: tenore rock.
Da Libero Quotidiano il 19 agosto 2019. È uno dei tenori più famosi d'Italia, Vittorio Grigolo, sicuramente il più famoso della tv. Deve ringraziare Maria De Filippi, che l'ha accolto ad Amici come professore creandogli un nuovo, giovanissimo pubblico. Ma soprattutto se stesso, la sua determinazione, e la voglia di andare sempre controtendenza. Ad esempio, i tatuaggi: l'artista 42enne ne ha 4, "molto più discreti di quelli di Belen. Se avessi saputo che sono indelebili non li avrei fatti". Intervistato dal Quotidiano nazionale, Grigolo si spoglia completamente, e non è una figura retorica. A cominciare dal sesso: "È corsa voce che fossi gay. Anche mia moglie lo credeva, prima che ci sposassimo. No, non sono gay. Ok, se un uomo mi bacia in bocca non ci sono problemi, ma non vado oltre". Non solo. Ha confessato che in amore è disposto a provare tutto: "Manette, frusta, maschera si può". Sesso estremo? "Una battuta. Se nel rapporto a due si sta ancora insieme ma manca qualcosa, si può avere il coraggio di tirar fuori certi tabù. Perché no". Si definisce un "tenore rock", quando il "tenore pop" era Luciano Pavarotti. Non tornerà ad Amici, "però con Ricky Martin ho mantenuto i contatti. Credo che faremo qualcosa insieme. Ho anche progetti con Sting, Al Bano, Morandi. Penso a concerti in tour".
"Io, tenore rock, per maestro ho avuto Freddie Mercury". L'ex enfant prodige spiega come avvicina la lirica ai giovani. Lo farà stasera a Verona con "La traviata". Luca Pavanel, Sabato 17/08/2019, su Il Giornale. «L'opera deve andare avanti, trovare altri modi per arrivare al pubblico, conquistare i giovani. Io sono il primo tenore rock e lavoro in questa direzione». Ex enfant prodige che a soli 13 anni debuttò in Tosca nel ruolo del pastorello al fianco di Pavarotti, a 23 era già alla Scala e da star - amatissima pure al Met di New York - ha fatto La traviata in una stazione mentre partivano i treni e l'Elisir d'amore in aeroporto durante i decolli: eh sì, Vittorio Grigolo non si risparmia anche per lanciare la lirica fuori dai teatri, per diffonderla nel mondo, in tutti i modi possibili, anche sui palchi della musica leggera. Già, proprio così. Ma il ritorno a casa è d'obbligo, per questo gladiatore della voce. Che oggi (e poi il 29 agosto) riapparirà all'Arena di Verona con La traviata di Verdi; al fianco della stella americana Lisette Oropesa e con il collega Leo Nucci. Un'emozione particolare dopo l'esperienza in tv ad Amici a fianco di Maria De Filippi; un'emozione pure dopo la scomparsa del compianto amico Zeffirelli: «Non potevo mancare, Franco mi aspettava. Un giorno sono andato a salutarlo, guardava il Gesù di Nazareth e mi ha detto: Io ti lascio a lui...». Silenzio, commozione al telefono.
Che ricordi maestro Grigolo. Ma ora c'è il ritorno alla scena lirica, che impressione dopo l'esperienza in tv?
«È vero, c'è da dire però che ad Amici abbiamo portato la comunicazione avanti di vent'anni. Aver presentato l'opera in prima serata è stato un grandissimo risultato. Esperienza utile a far capire che è un linguaggio attuale, un'esperienza che rifarei centomila volte».
Non solo talent, anche le sue esibizioni tra bel canto e pop sorprendono...
«In effetti ho cantato E lucean le stelle (aria de La Tosca di Puccini, ndr) attaccandola a brani dei Queen. Ho avuto l'opportunità col chitarrista dalla band inglese, il mio caro amico Brian May, di condividere il palcoscenico già diverse volte. L'ultima è stata a giugno (allo Starmus Festival di Zurigo, ndr)».
Il suo obiettivo?
«Portare l'opera oltre, per raggiungere anche i giovani che di questi tempi sono tornati a essere rock. Quindi se vuoi arrivare a loro anche tu, devi essere così».
Non faceva così anche Pavarotti, qual è la novità?
«Luciano, in questo senso, è stato un predecessore. C'è stato come un passaggio del testimone, ma lui non era un tenore rock perché non si muoveva e non c'era interazione. Cantava lirica mentre gli altri facevano pop».
C'è stata un'evoluzione dunque...
«Sì, poi è arrivato Bocelli che ha fatto un passo dopo Luciano, proponendo pop con il pop. Adesso bisogna spingersi in avanti per essere attuali, bisogna riuscire a muovere anche il corpo. Ora ci sono io, tenore rock appunto, una definizione che ha dato Tony Renis».
Come cantante lirico diventato rock, quali i suoi miti?
«Io sono cresciuto ascoltando i Queen, ho anche una foto con Freddie Mercury al museo delle cere di Madame Tussauds a Londra. Quando all'Arena ho sentito Brian che si esibiva, ho anche lasciato le prove per andare...».
Un parere come tenore su Mercury e la sua voce...
«La sua voce era particolare per estensione, poi lui ci sapeva fare. In tante cose era veramente carismatico, sul palcoscenico era uno showman».
Ritornando alle collaborazioni, ha cantato con diverse star: quali impressioni?
«Con Sting c'è una complicità incredibile, lui addirittura mi ha fatto dei bellissimi complimenti. Come per i Queen, da piccolo sono cresciuto con la sua musica. Springsteen è un grande sul palco, ci siamo divertiti. Poi ricordo Dalla, c'era una grandissima amicizia che non smetterà mai di esserci. Lucio per me è il mare, lo ricordo tutte le sere quando vado a letto».
Prossimo progetto?
«L'incontro con alcuni di questi amici e altri, anche Bono, con cui ho parlato, in generale con chi potrà venire, per creare uno spettacolo internazionale a cui sto lavorando adesso, dove l'opera incontrerà il rock. Mi piacerebbe venissero Eminem e Ricky Martin. Un progetto che verrà realizzato nel 2021. L'idea è quella portare lo spettacolo nelle grandi città, come Mosca, Parigi, Londra e New York».
Messaggio finale per i giovani: perché è così importante incontrare l'opera, conoscerla?
«L'opera è un linguaggio che muove, crea delle vibrazioni incredibili, che vanno sperimentate. Un linguaggio che viene dal profondo dell'anima».
MOLESTIE DI UN CERTO TENORE. Simona Antonucci per “il Messaggero”il 25 settembre 2019. In scena un Faust, disilluso dalla vita, che rinnega Dio in cambio di ricchezza, potere, gloria. Dietro le quinte, un Diavolo che palpeggia le colleghe. Sarebbe successo, il 18, in Giappone, durante il tour della Royal Opera House, tra Tokyo e Yokohama, dove il teatro inglese ha proposto, a settembre, il capolavoro di Gounod, con la regia di David McVicar's, e l'Otello di Verdi, del regista Keith Warner: entrambe le opere sono state dirette dal maestro Antonio Pappano, che è appena rientrato. Una tournée trionfale oscurata dalla notizia lanciata ieri da quotidiani e siti britannici: Vittorio Grigolo, tenore italiano, 42 anni, star contesa da teatri e tv, avrebbe avuto comportamenti inappropriati nei confronti di una cantante del coro, proprio sul palcoscenico, durante le chiamate degli applausi, al termine della replica di mercoledì scorso. Una notizia che ha scosso il mondo della lirica proprio nel giorno in cui Placido Domingo, coinvolto da agosto nella bufera del #MeeToo, ha fatto un passo indietro rinunciando a cantare nel Macbeth del Metropolitan. Si chiude un sipario e se ne apre un altro, quello giapponese dove, davanti al pubblico, ancora con i panni di Faust addosso, Grigolo, che si è autodefinito, anni fa, dipendente dal sesso, avrebbe comunque continuato a molestare la donna, nonostante i musicisti che assistevano alla scena lo implorassero di smettere. «Quello che è successo è orribile», avrebbero commentato i coristi-testimoni. La Royal Opera House lo ha immediatamente sospeso, sostituito per l'ultima data a Yokohama, tamponando lo scandalo con un comunicato che parlava di malore. E contemporaneamente avviato indagini interne su che cosa sia accaduto in quella serata diabolica. Sospeso anche dal Met. Il direttore Gelb con un solo colpo e in un'unica lettera ha accettato le dimissioni di Domingo e ha comunicato che al momento anche i contratti di Grigolo sono cancellati. Per il cantante sarà stato un colpo di gong: fino a qualche ora prima che scoppiasse il caso, il 22 settembre, aveva scritto sulle sue pagine social: «Grazie Giappone per tutto il tuo supporto, è stato speciale tornare». E rivolto al cast: «Grazie al bellissimo cast, a tutti i colleghi, al coro, ballerini e orchestra». Aggiungendo gli hashtags: love, passion, desire, happy, emozioni e neverforgetwhoyouare con un bel cuore a chiudere l'esternazione. Ma dopo i tag, il diluvio. E il silenzio. «Nessun commento, sono in corso accertamenti»: Grigolo che quest'estate ha conquistato l'Arena di Verona nella Traviata di Zeffirelli e che nei mesi scorsi ha partecipato alla trasmissione Amici come coach di una squadra di giovani talenti, è costretto, almeno per il momento, a cambiare tono. Soprannominato Il Pavarottino, per aver debuttato con Pavarotti, a 13 anni, nei panni del pastorello in una Tosca al Costanzi di Roma, ora deve vedersela con altri tipi di cori, quelli indignati di #MeeToo e del passaparola tra i sovrintendenti che lo hanno scritturato nei prossimi mesi. Al teatro La Scala confermano le sue date, mantenendo lo stesso comportamento avuto nei mesi scorsi con Placido Domingo che è comunque atteso a Milano il prossimo 15 dicembre. E Grigolo sarà invece il Nemorino dell'Elisir d'amore da primo ottobre. Nessuna variazione, fino a prova contraria. Fino a quando le indagini condotte dal board della prestigiosa istituzione non porteranno a un verdetto ufficiale: «Al momento non possiamo aggiungere altro su questa storia», avrebbe dichiarato il Teatro londinese, «ma confermiamo le indagini sull'incidente». In attesa che l'incidente diventi un qualcosa di più circostanziato, circolano online le battute che il cantante rilasciò durante varie interviste e in particolare una a Vanity Fair del 2013 dove si era descritto come «Un sexual addicted, attratto dalle donne mature, donne vere. Il sesso è un bisogno fisico». Con Grigolo si apre un nuovo caso nel mondo della lirica. A Ferragosto sono stati cancellati i concerti di Domingo a Philadelphia e a San Francisco dopo accuse riguardanti presunte molestie avvenute negli anni Ottanta; il maestro Gatti venne rimosso dalla direzione del Royal Concertgebouw di Amsterdam in seguito a dichiarazioni di cantanti, riportate da un giornale, che denunciavano molestie avvenute trent'anni prima; William Preucil è stato allontanato dall'Orchestra di Cleveland, Bernard Uzar dalla Florida Opera, James Levine licenziato dal Metropolitan e Charlse Dutoit dalla Royal Philarmonic.
Il tenore (ed ex coach di Amici) Grigolo sospeso dal tour con l’accusa di molestie sessuali. Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. Per ora sono solo accuse, tutte da dimostrare. Ma la Royal Opera House di Londra ha deciso di sospendere il noto tenore Vittorio Grigolo, 42 anni, detto «il Pavarottino» perché esordì a fianco di Luciano Pavarotti a soli 13 anni, nel ruolo del pastorello in Tosca al Teatro dell’Opera di Roma. A segnalare la notizia è il sito della BBC (oltre che diversi giornali inglesi). La motivazione del provvedimento sarebbe un «presunto incidente» avvenuto lo scorso 18 settembre, mentre Grigolo si trovava a Tokyo, in Giappone, per un tour della compagnia teatrale britannica. La Royal Opera House ha annunciato di aver aperto «an immediate investigation», ma intanto Grigolo è stato sospeso. Nessun dettaglio ulteriore è stato fornito dalla compagnia teatrale, anche se diverse fonti ipotizzano il palpeggiamento di una corista a sipario abbassato, durante le chiamate degli applausi, al termine di una replica del Faust di Charles-Francois Gounod, in cui Grigolo era il protagonista, andata in scena a Tokyo mercoledì scorso. Alla scena avrebbero assistito altre persone, alle cui osservazioni Grigolo avrebbe replicato in tono stizzito. A Yokohama, la tappa finale del tour asiatico della Royal Opera House di Londra, la scorsa domenica Grigolo è stato sostituito da un tenore russo, Georgy Vasiliev. Vittorio Grigolo è un artista conosciuto in tutto il mondo. Ha collaborato con diversi teatri e istituzioni. Nella passata stagione televisiva è stato per qualche tempo “coach” del programma Amici di Maria De Filippi in coppia con Ricky Martin. Nel 2015, in un’intervista a Vanity Fair, il tenore si era definito, sia pure scherzosamente, dipendente dal sesso, dichiarando: «Sono un drogato di sesso, amo le donne mature, quelle vere, il sesso è un bisogno fisico». Il caso di Vittorio Grigolo si affianca a quello, scoppiato ieri, di Placido Domingo, travolto dalle accuse di alcune donne (l’accusa è di aver chiest0 prestazioni sessuali in cambio di ingaggi negli anni ‘80) ha rinunciato a cantare nel Macbeth al Metropolitan Opera. Il direttore generale del Met Peter Gelb non solo ha accettato le dimissioni di Domingo, ma contemporaneamente ha anche cancellato i contratti di Grigolo. Al contrario il Teatro “Alla Scala” ha confermato le date di ottobre (1, 4, 7 e 10 ottobre) della rappresentazione Elisir d’amore di Gaetano Donizzetti: Grigolo sarà Nemorino.
Vittorio Grigolo sospeso dalla Royal Opera House e dal Met Opera. Il tenore impegnato in un tour in Giappone è stato sostituito nell'ultima data per un "presunto incidente": avrebbe molestato una corista. In attesa dell'esito delle indagini anche il Metropolitan Opera di New York cancella le sue esibizioni previste a febbraio. La Scala invece conferma gli spettacoli di ottobre. La Repubblica il 25 settembre 2019. La Royal Opera House di Londra ha sospeso il tenore Vittorio Grigolo per quello che viene definito un "presunto incidente". Secondo i media britannici il tenore italiano, impegnato in un tour in Giappone con la compagnia, lo scorso 18 settembre avrebbe molestato una corista. Grigolo aveva il ruolo principale nel Faust di Gounod e domenica 22 settembre a Yokohama, tappa finale del tournée, è stato sostituito dal tenore russo Georgy Vasiliev. La Royal Opera House ha motivato il cambio di protagonista dicendo che Grigolo era "indisponibile". In attesa che si chiarisca come siano andate le cose, anche il Metropolitan Opera di New York ha sospeso il tenore italiano, atteso a febbraio e marzo 2020 per sei esibizioni di Alfredo nella Traviata. La sospensione del Met arriva in contemporanea alla decisione di Plácido Domingo di annullare le sue esibizioni all'opera di New York in seguito alle accuse di molestie da parte di diverse donne. Il cantante, 78 anni, doveva andare in scena in una nuova produzione del Macbeth di Verdi. Il Teatro alla Scala invece annuncia che sono confermati gli spettacoli del tenore Vittorio Grigolo che salirà sul palco del teatro di Milano l'1, il 4, il 7 e il 10 ottobre per interpretare il ruolo di Nemorino nell'opera Elisir d'Amore.
Vittorio Grigolo, 42 anni, è un tenore conosciuto in tutto il mondo. Ha collaborato con diversi teatri e istituzioni internazionali. Nella passata stagione televisiva è stato anche coach del programma Amici di Maria De Filippi in coppia con Ricky Martin. E lo scorso 21 giugno ha affiancato Antonella Clerici nella conduzione in diretta su Rai 1 della Traviata all'Arena di Verona con la regia di Franco Zeffirelli in omaggio al maestro scomparso. Nell'ultimo anno il movimento #MeToo contro le molestie sessuali ha scosso anche il mondo della musica classica e dell'opera con gravi conseguenze per gli artisti coinvolti. L'estate scorsa è toccato a Daniele Gatti, licenziato dalla Concertgebouw Orchestra per "comportamento inappropriato". Nel marzo 2018 il Metropolitan Opera House di New York ha interrotto i rapporti con James Levine e pochi mesi prima tre cantanti d'opera hanno accusato di molestie il direttore svizzero Charles Dutoit.
Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 26 settembre 2019. Chissà quanto avrà goduto il tenore russo Georgy Vasiliev domenica scorsa a Yokoama, Giappone. Chissà cosa avrà provato lui, eternamente secondo, costretto a stare dietro le quinte, a sperare senza dare troppo nell' occhio che a Vittorio Grigolo, protagonista assoluto del Faust di Charles-Francois Gounod, succedesse qualcosa. Un imprevisto, per esempio, qualcosa che lo tenesse lontano dalle luci e dagli applausi che Vasiliev avrà di certo solo sognato vestito da Faust mentre si guadagna la scena sul palco e gli sguardi del pubblico. Invece il suo sogno si è avverato, mentre a Grigolo è successo qualcosa di molto più di una febbre. Il «pavarottino» - il nomignolo che lo perseguita da quando a 13 anni ha debuttato accanto a Luciano Pavarotti nella Tosca - è stato accusato di molestie sessuali. Mercoledì 18 settembre, mentre il pubblico giapponese di Tokyo lo applaudiva estasiato dalla sua interpretazione e dalla potenza della sua voce, lui, tra una chiamata e l' altra per ricevere battute di mani, a sipario chiuso avrebbe palpato una cantante del coro davanti agli occhi di tutta la compagnia. Senza vergogna. Almeno così hanno riferito al Sun quanti hanno testimoniato di aver assistito all' imbarazzante scena. Anzi, gli avrebbero pure detto di smettere. Pare, però, senza successo. Grigolo - entrato nel cuore del pubblico televisivo grazie a Maria De Filippi che nella passata edizione di Amici lo aveva scelto come coach - è stato così sospeso dalla Royal Opera House di Londra, che ha portato il Faust in giro per il mondo. Il teatro inglese non è sceso nei dettagli, ma ha parlato di «indisposizione» e di un «allontanamento temporaneo» dell' artista, che non ha ancora commentato, e quindi della sostituzione con Vasiliev in attesa di indagini per capire la veridicità delle palpate. Vero o no, il sesso al 42enne italiano piace da matti e non lo ha mai nascosto. «Sono un drogato di sesso», si era lasciato sfuggire nel corso di una intervista rilasciata quattro anni fa alla patinata rivista Vanity Fair, «amo le donne mature, quelle vere, il sesso è un bisogno fisico». L' allontanamento è avvenuto mentre dall' altra parte del mondo, al Met di New York, un altro grande tenore, Placido Domingo, 78 anni, pronto ad interpretare il Macbeth di Giuseppe Verdi, ha fatto un passo indietro. Pur «esprimendo preoccupazione per un clima in cui le persone sono condannate senza un giusto processo», ha deciso di lasciare il mitico teatro in cui è stato protagonista assoluto per più di 50 anni, dopo essere stato travolto dalle accuse denunciate da una ventina di donne che hanno riferito di essere state molestate dal tenore. «La Metropolitan Opera conferma che Placido Domingo ha accettato di ritirarsi da tutte le future esibizioni al Met, con effetto immediato», lo scarno comunicato. Ed è a New York che la storia di Domingo si incrocia con quella di Grigolo: il Met, infatti, ha deciso che il 42enne italiano nel suo teatro non dovrà metterci piede. Almeno per ora. «In seguito al presunto incidente riguardante Vittorio Grigolo denunciato dalla Royal Opera House, il Met lo sospenderà ad effetto immediato da tutte le recite in attesa degli esiti dell' indagine della Roh. Il Met non ha nessun commento da aggiungere», l' altro scarno comunicato del teatro americano, che così si è tolto dagli impicci nel nome di quel politically correct che fa fare sempre "bella figura". Una strada che invece ha scelto di non percorrere la Scala di Milano, che ha confermato le esibizioni del tenore nei panni di Nemorino nell'«Elisir d' Amore» in programma l' 1, il 4, il 7 e il 10 ottobre. Come dire, fuori i secondi, tenori. riproduzione riservata A sinistra, Placido Domingo. Dopo le accuse di molestie da parte di una ventina di donne, il tenore ha deciso di ritirarsi dal Met di New York. In alto, Vittorio Grigoli, il tenore italiano allontanato dalla Royal Opera House di Londra e dal Met newyorkese perché accusato di aver palpato una corista al termine del Faust a Tokyo.
Simona Antonucci per “il Messaggero” il 27 settembre 2019. Vittorio Grigolo, sul palcoscenico giapponese, il 18 settembre palpeggiò una ballerina o un trucco di scena in gommapiuma? Fu vera molestia? O vera commedia degli equivoci? L'ardua sentenza ai telefoni del pubblico che immortalavano il successo del tour in Giappone del Faust della Royal Opera House, con il maestro Pappano. E mentre gli Sherlock Holmes del lirico londinese setacciano l'online e provano a far cantare il cast, il tenore rompe il silenzio: «Io sono sereno». E dopo essere stato sospeso sia dalla prestigiosa istituzione inglese, sia dal Met dove era atteso a febbraio prossimo, Grigolo tira fuori la voce. Non soltanto nei panni di Nemorino, alla Scala dove proseguono le prove dell'Elisir d'amore, in scena dal primo ottobre. Ma anche come persona, un uomo di 42 anni accusato di aver allungato le mani durante le ovazioni degli spettatori e di aver risposto brutalmente (andate a ...) ai coristi che lo imploravano di smettere. «Con il mio team», aggiunge il cantante che tra Naomi Campbell e la Sozzani, ha un catalogo di fidanzate da far invidia a Don Giovanni, «stiamo collaborando con la Royal Opera House dando completa disponibilità per tutti i chiarimenti del caso». La scena da Teatro dell'Assurdo sarebbe accaduta a fine replica del capolavoro di Gounod, con la regia dell'estroso David McVicar, che prevedeva tra i vari colpi di scena, la presenza di una ballerina infagottata da una pancia finta a simulare una gravidanza. Ed è proprio la ballerina in gommapiuma ad aver fatto scoppiare il caso che dall'Oriente è rimbalzato in mezzo mondo. La donna si sarebbe risentita richiamando l'attenzione dei colleghi che a loro volta avrebbero richiamato il cantante, scatenando un parapiglia infernale degno di Mefistofele. Accuse pesanti, contrastate da una difesa fondata invece sul poliuretano espanso elastico, soffice come una spugna. Sembra che i legali del cantante, impegnati a salvare reputazione, carriera e contratti a più zeri (al momento non ci sono denunce penali) sostengano la tesi che si sarebbe trattato di uno scherzo, una boutade, non gradita, in risposta a una scena clou. Durante lo spettacolo, la ballerina incinta invita Faust (Grigolo) a toccarle la pancia, ma lui, come previsto da copione, si ritrae. A fine replica, proprio durante gli applausi avrebbe, invece, accettato l'invito. Ma se anche la mano fosse stata di piuma, e il ventre di gomma, le parole rimbalzate davanti e dietro il sipario sarebbero state comunque di piombo. Ed è sul fronte sonoro che si danno battaglia accusa e difesa. Tutto ancora da indagare, circostanziare, verificare. Ma nel mondo della lirica, dove i casi di molestia, o presunta molestia, sono sempre più frequenti, ancora non è ben chiaro se fino a prova contraria si è colpevoli o innocenti. Si assiste a degli assolo dei board teatrali che dinanzi allo stesso caso mostrano pollice verso o bandiera bianca. Grigolo che è stato sospeso dalla Royal Opera House e dal Met, andrà in scena alla Scala a giorni. Proprio come Placido Domingo. Il tenore spagnolo, accusato, a Ferragosto 2019, di aver molestato cantanti e ballerine negli Anni Ottanta, ha fatto un passo indietro, lasciando il tempio americano e il Macbeth a un giorno dal debutto. Ma è atteso alla Scala a dicembre e a Verona dove sono già in vendita i biglietti per il suo attesissimo ritorno. Destini alterni e doppio binario anche per il maestro Daniele Gatti che rimosso dal Royal Concertgebouw, in seguito a dichiarazioni di cantanti, riportate da un giornale, che denunciavano molestie avvenute trent'anni prima, è stato poi assunto alla guida dell'orchestra dell'Opera di Roma. Un'altalena che fa discutere avvocati e l'online dove si rincorrono le più disparate sentenze. L'ultima, sulla pagina social di Anne Midgette, la giornalista del Washington Post che ha denunciato molti casi (tra cui Gatti), dove ci s'interroga sul perché il Met abbia aspettato le dimissioni di Domingo, «prima di fare la cosa giusta». Grigolo, invece, ai suoi 52.400 social fan, manda serenità e cari saluti: «Ringrazio di cuore tutti gli amici che mi sono vicini con tanti messaggi e tante dimostrazioni di affetto e supporto».
Il tenore Grigolo sospeso da Met e Royal Opera House: "Sereno". Il caso nascerebbe da una pancia finta. Ancora in corso le indagini per capire cosa sia successo esattamente la sera del Faust a Tokyo. La Repubblica il 27 settembre 2019. "Cari amici, innanzitutto ringrazio dal cuore tutti i fan e gli amici che mi sono vicini con tanti messaggi, dimostrazioni di affetto e supporto. Io sono sereno, con il mio team stiamo collaborando con Royal Opera House dando la nostra completa disponibilità per tutti i chiarimenti del caso". Così il tenore Vittorio Grigolo (celebre anche per essere stato coach di Amici), da Tokyo, risponde alla notizia della sospensione dal Metropolitan Opera e dalla Royal Opera House. Il provvedimento nei confronti del tenore italiano, 42 anni, è stato preso a seguito di un'indagine della Royal Opera House di Londra che ha deciso di allontanarlo temporaneamente dal palcoscenico dopo un episodio avvenuto la settimana scorsa durante un tour del teatro londinese in Giappone. Secondo le prime ricostruzioni, ancora da verificare, l'incidente avrebbe più a che fare con l'equivoco e il diverbio che con la molestia. Alla fine dello spettacolo il tenore avrebbe toccato la "pancia finta" di una ballerina che nello spettacolo interpreta una donna incinta, personaggio che nel Faust offre la pancia al protagonista di Gounod. Durante lo spettacolo Faust - Grigolo rifiuta di toccarla, mentre alla fine della rappresentazione il tenore, nell'entusiasmo degli applausi, l'avrebbe palpata come scherzo. Il gesto goliardico però non sarebbe piaciuto alla ballerina che avrebbe richiamato l'attenzione dei collegh, da lì sarebbe nato un diverbio dai toni accesi con il tenore.
Marina Cappa per “il Messaggero” il 2 ottobre 2019. E poi è arrivato il bis di Una furtiva lagrima, aria cuore del secondo atto dell'Elisir d'amore di Gaetano Donizetti. A quel punto il tenore Vittorio Grigolo, 42 anni, ha capito che laddove i londinesi della Royal Opera House lo avevano condannato («Ma senza denunce, sia chiaro», ha detto ieri sera al Messaggero dietro il palco, «per loro la mia è stata una violazione del regolamento interno, tanto che mi sono offerto di chiedere scusa e me l'hanno negato»), la Scala di Milano e il pubblico che ieri sera è accorso a vederlo e sentirlo, lo assolvevano senza dubbi. Chiedendo anche un bis, concluso da Grigolo con una mano sul cuore. L'interprete che poche settimane fa era stato accusato di molestie sessuali per aver toccato la pancia (imbottita di gommapiuma) di una corista durante la rappresentazione del Faust a Tokyo, ieri sera alla Scala interpretava Nemorino. Alla fine dello spettacolo, ha abbracciato fra gli applausi tutti i suoi compagni di lavoro, «perché sono grato per come mi hanno accolto e appoggiato fin dal mio arrivo qui all Scala». È la prima volta che Grigolo parla di ciò che gli successo. A fine spettacolo, nel camerino, non si trattiene. «Il pubblico mi ha abbracciato con un calore tale da farmi capire quanto fuori di qui si sia davvero compreso il giusto valore da dare a questa brutta vicenda. Ecco, io qui a Milano mi sono sentito coccolato. Sensazione piacevolissima, tanto più che considero la Scala la mia seconda casa». Era preoccupato che non andasse così e qualcuno polemizzasse? «Avevo un po' d'ansia perché Elisir d'amore è difficilissimo da interpretare e arrivarci con queste pressioni di sicuro non aiuta. Ma quello che è successo stasera in teatro ha cancellato tutto il male e le cattiverie diffuse senza conoscere davvero quello che era successo». Si è sentito assolto? «No perché non dovevo essere assolto da nessuna accusa. Non si può considerare molestia sessuale aver toccato una pancia di gommapiuma. Almeno non in Italia. D'altra parte, credo fermamente che prendersela con un comportamento di questo tipo significa anche sminuire chi subisce davvero abusi. Adesso, grazie a questo pubblico e alla Scala, torno nuovamente a testa alta». Nel corso della serata iIl tenore che interpreta l'innamorato Nemorino è stato a lungo applaudito dal pubblico del Piermarini (in sala anche Mara Venier, Tony Renis e Roberto Cenci) e al grido di «bravo Vittorio, bis» e «sei bravissimo» ha concesso un secondo ascolto dell'aria di Donizetti (sul podio nella buca del teatro milanese c'era il direttore Michele Gamba). Vittorio Grigolo ha «debuttato» ieri sera nell'Elisir d'amore dopo il passaggio di testimone con l'americano René Barbera (che prima di lui ha vestito i panni di Nemorino). Per lui , un trionfo.
Il tenore Vittorio Grigolo sulle molestie: "Solo un malinteso, non c’è alcuna denuncia". Redazione Tvzap il 23 novembre 2019. Il tenore spiega cosa è successo a Tokyo da dove è partita la vicenda che ha portato la Royal Opera House di Londra a sospenderlo. “Non c’è nessuna denuncia. Un malinteso non può chiudere le porte a una carriera pulita, costruita con tanto sacrificio e sudore”. Vittorio Grigolo (CHI È) chiarisce per la prima volta a Verissimo la delicata vicenda che lo ha coinvolto lo scorso 18 settembre a Tokyo quando è stato accusato di molestie. “È stato solo un grandissimo malinteso. Ero a Tokyo, alla fine della rappresentazione dell’opera del Faust. Nel momento degli applausi io coinvolgo sempre tutti e lì ho portato davanti al palco anche il corpo di ballo. Sorridendo ho schiacciato la pancia di spugna di una ballerina (che prima era stata protagonista di una scena in cui cercava di fare toccare la pancia ad un Faust spaventato) e ho sentito un corista che mi diceva ‘Che cosa stai facendo? Non lo vedi che è imbarazzata?’ E io gli ho risposto ‘Ma cosa stai dicendo?’. Tutto questo di fronte a un pubblico!”. L’ex coach di ‘Amici’, considerato il nuovo Pavarotti, racconta: “Il giorno dopo vengo chiamato dalla Royal Opera House di Londra e mi dicono che per questa mia condotta devo lasciare. Sono dovuto andare via. Hanno avviato un’inchiesta comportamentale interna, di condotta. Le motivazioni sono state quelle di aver toccato la pancia di spugna. Loro l’hanno raccontato come volevano”. Nel corso dell’intervista interviene anche l’avvocato del tenore che precisa: “C’è un video, che per ragioni di copyright non possiamo mostravi, che non lascia spazio a dubbi. Dopo averlo visionato siamo sereni e confidiamo che questa cosa si concluda velocemente”. Infine, alla domanda sul suo stato d’animo attuale Vittorio Grigolo confessa: “È una cosa che non auguro a nessuno. È un dolore che ti porti dentro! Non voglio fare né l’eroe né la vittima. Voglio solo capire il perché di tutto questo. Nella sofferenza si cresce se ci si rialza”.
Paolo Isotta per ''il Fatto Quotidiano'' il 30 settembre 2019. Stanno cadendo come birilli, i direttori d' orchestra e i cantanti accusati di molestie nell' esercizio delle loro funzioni. Poi verrà il turno dei ballerini e dei coreografi. Se costoro hanno esercitato un metus reverentialis per portarsi a letto qualche cantante, ballerina/o o affini, certo si tratta di un atto non lodevole. Sarebbe bello si estendesse (mi ripeto) a chi ha praticato questi esercizi in molti teatri importanti, con una moglie che a volte si dava a scene isteriche, svenimenti e falsi suicidî. Io non vedo, in fondo, perché un artista, che è un libero professionista, debba essere escluso dal manifestare la sua arte perché i suoi costumi erotici sono volgari o censurabili. Allora facciamo roghi sulla pubblica piazza delle poesie di Verlaine e Rimbaud, delle opere di Palazzeschi e Pasolini. Non mi pare che il teatro sia stato - mai - un mondo di educande, e accorgersene oggi è solo ridicolo. Salvo, ripeto, quando si manifestino lati odiosi. E sarebbe ancora più bello se la stessa sorveglianza si estendesse al mondo della pubblica amministrazione e a quello dell' Università: ove comportamenti di molestie si configurano anche sotto il profilo penale. Vorrei venire all' ultimo caso del quale si sta parlando, di un tenore aretino che adesso è un idolo, a quel che sembra, al Metropolitan e al Covent Garden, tale Vittorio Grigòlo. Sono andato su Youtube a vedere delle manifestazioni della sua arte. Mi pare ben plausibile che uno con quel modo di muoversi quando sotto i riflettori si dirige verso i fan (canta anche musica leggera) abbia una stravolta idea del suo ego e dei rapporti col pubblico. E ho sentito qualcuno dire che canta come Claudio Villa! Ossia: uno dei più grandi vocalisti degli ultimi decennî. A volte alla ggente bisognerebbe consentire di parlare solo di football. Impedirgli di cantare perché avrebbe messo una mano in culo a una corista mi pare una superfetazione calvinista. Ma per ben altri motivi bisognerebbe vietargli l' attività del canto, o quanto meno far sì che lui paghi un cospicuo biglietto a tutti coloro che vanno ad ascoltarlo. Bela, singhiozza, piagnucola, non rispetta il ritmo. Diciamo che del pezzo musicale classico ha un' interpretazione, più che arbitraria, caricaturale. Se fossi un direttore d' orchestra il quale accetta di dirigere una recita operistica nella quale costui partecipa, mi vergognerei per mancanza di dignità. Mi vergognerei molto più di lui. Fa i suoi interessi; lo pagano; chi se ne frega della musica. Va bene che oggi direttori d' orchestra del suo livello abbondano. Ma il direttore d' orchestra è, o dovrebbe essere, il responsabile artistico dell' opera eseguita sotto la sua bacchetta. Uscirà sempre qualcuno a dire che esagero. Facciamola corta. Invito chi mi legge ad ascoltare (c' è su Youtube) la Romanza dell' Elisir d' amore Una furtiva lacrima. Prima nel massacro di Grigòlo. Poi, in ordine crescente di perfezione, cantata da tre angeli: Beniamino Gigli, Tito Schipa, Enrico Caruso. E mi voglio rovinare. Persino Pavarotti, a confronto dell' aretino, fa un figurone.
· Ezio Bosso ed “I Sani Cronici”.
“NIENTE PIETISMI, NON MI SONO RITIRATO”. Simona Antonucci per Il Messaggero il 17 settembre 2019. «Niente pietismi, non mi sono ritirato». Il musicista Ezio Bosso, dopo le voci di una sua imminente uscita di scena, scatenate da un intervento alla Fiera del Levante («Se mi volete bene, smettete di scrivermi che vorreste vedermi al pianoforte»), ora s’indigna su Facebook: «Chiariamoci bene: ho solo risposto che non faccio più concerti da solo al pianoforte perché lo farei peggio che mai e già prima ero scarso. Cosa che avevo già annunciato 2 anni fa. Ma sono molto felice perché faccio il mio mestiere di direttore. Mi addolora che per quanto combatta contro le strumentalizzazioni, si scade sempre in quel pietismo sensazionalistico. Queste cose, sì, che mi farebbero ritirare davvero». E così, Ezio Bosso, che ha sempre ripetuto «Ogni volta che suono il pianoforte, un pianista muore», facendo ironia sulla malattia neurodegenerativa, si è ritrovato in un carosello di voci che lo descrivono come al termine della carriera. E della vita: insieme con migliaia di post sono arrivati anche messaggi di condoglianze. «Purtroppo - aggiunge il musicista che quest’estate a debuttato a Verona conquistando l’Arena con i suoi Carmina Burana - è stato dato inutile risalto in maniera sciacalla, come sempre, al pregiudizio su di me». Bosso ha un calendario di appuntamenti che lo terranno impegnato fino ad agosto 2020, tra Auditorium, dove torna dopo il tutto esaurito in Cavea nel 2018, e Arena che lo aspetta per dirigere la Nona di Beethoven. «Continuo a fare musica e meglio di prima!». L’ultimo concerto al pianoforte, uno Steinway alleggerito da cui non si separa mai, Bosso lo ha sostenuto un anno e mezzo fa: un recital intitolato Bach, Beats, Bosso. E in quell’occasione ribadì che non l’avrebbe mai più potuto fare perché «faccio molta fatica e non ho abbastanza qualità. E soprattutto perché non si vede la bellezza di altro, quello per cui lotto. Il lavoro con le orchestre, che ho sognato tutta la vita». Del resto, Bosso ha sempre ripetuto: «Dirigere è la mia natura. Dimentico i miei problemi fisici anche se rischio di farmi male. C’è chi ha imparato a vedere l’uomo e chi no. E inventa. Vorrei diventare trasparente».
Ezio Bosso: «Ho due dita che non rispondono bene e non posso più suonare». Pubblicato domenica, 15 settembre 2019 da Corriere.it. «Se mi volete bene, smettete di chiedermi di mettermi al pianoforte e suonare. Non sapete la sofferenza che mi provoca questo, perché non posso, ho due dita che non rispondono più bene e non posso dare alla musica abbastanza. E quando saprò di non riuscire più a gestire un’orchestra, smetterò anche di dirigere». Così Ezio Bosso, pianista, compositore e direttore d’orchestra ha incontrato oggi il pubblico barese nella Fiera del Levante, accolto dal presidente Michele Emiliano nel padiglione della Regione Puglia. L’artista torinese, che due giorni fa ha compiuto 48 anni, dal 2011 soffre di una patologia degenerativa. Oggi si è raccontato, con accanto il suo cane Ragout, parlando di musica, arte e talento. «Il musicista non lo si diventa solo per talento, - ha detto - a un certo punto, soprattutto chi ce l’ha il talento, lo deve dimenticare e fare spazio al lavoro quotidiano, alla disciplina». Bosso ha definito la musica «come un focolare attorno al quale sedersi, un linguaggio universale che permette a tutti di parlarsi e fare comunità a prescindere dal luogo di provenienza». Ha chiesto un applauso per l’articolo 9 della Costituzione italiana, «una figata pazzesca perché mette insieme musica, arte E paesaggio. Ma se di quelle cose non ci prendiamo cura, spariscono e ce ne accorgiamo quando le perdiamo». «La musica - ha detto - ci ricorda anche questo: prendersi cura, avere rispetto, far star bene, non confondere la quotidianità con l’eternità, i nostri piccoli poteri con l’assoluto». Rispondendo alle domande del pubblico, ha detto che «la disabilità è negli occhi di chi guarda, perché il talento è talento e le persone sono persone, con le ruote o senza» e che «con la pazienza a tutte le età si può imparare, perché se uno dedica del tempo alle cose, vengono».
Bosso a Bari: "Non posso più suonare, smettete di chiedermelo". L'artista ospite della Fiera del Levante: "Quando non riuscirò più a dirigere un'orchestra smetterò". La Repubblica il 15 settembre 2019. "Se mi volete bene, smettete di chiedermi di mettermi al pianoforte e suonare. Non sapete la sofferenza che mi provoca questo, perché non posso, ho due dita che non rispondono più bene e non posso dare alla musica abbastanza. E quando saprò di non riuscire più a gestire un'orchestra, smetterò anche di dirigere". Così Ezio Bosso, pianista, compositore e direttore d'orchestra, che ha incontrato il pubblico barese nella Fiera del Levante, accolto dal governatore pugliese Michele Emiliano nel padiglione della Regione Puglia. L'artista torinese, che due giorni fa ha compiuto 48 anni, dal 2011 soffre di una patologia degenerativa. Oggi si è raccontato, con accanto il suo cane Ragout, parlando di musica, arte e talento. "Il musicista non lo si diventa solo per talento, - ha detto - a un certo punto, soprattutto chi ce l'ha il talento, lo deve dimenticare e fare spazio al lavoro quotidiano, alla disciplina". Bosso ha definito la musica "come un focolare attorno al quale sedersi, un linguaggio universale che permette a tutti di parlarsi e fare comunità a prescindere dal luogo di provenienza". Ha chiesto un applauso per l'articolo 9 della Costituzione italiana, "una figata pazzesca perché mette insieme musica, arte E paesaggio. Ma se di quelle cose non ci prendiamo cura, spariscono e ce ne accorgiamo quando le perdiamo". "La musica - ha detto - ci ricorda anche questo: prendersi cura, avere rispetto, far star bene, non confondere la quotidianità con l'eternità, i nostri piccoli poteri con l'assoluto". Rispondendo alle domande del pubblico, ha detto che "la disabilità è negli occhi di chi guarda, perché il talento è talento e le persone sono persone, con le ruote o senza" e che "con la pazienza a tutte le età si può imparare, perché se uno dedica del tempo alle cose, vengono".
Ezio Bosso, il pianista che ha commosso l'Ariston. Andrea Silenzi su La Repubblica il 10 febbraio 2016. Torinese, affetto da una malattia neurologica degenerativa, è uno dei musicisti italiani più conosciuti al mondo: "La musica si può fare solo insieme". Il Festival lo ha accolto con un lunghissimo applauso: Ezio Bosso da anni è considerato uno dei compositori e musicisti più influenti della sua generazione. Pianista, compositore e direttore d'orchestra di fama internazionale (ma anche ex bassista degli Statuto per tre anni), affetto da una malattia neurologica degenerativa, Bosso ha incantato e commosso il pubblico dell'Ariston eseguendo il brano Following a bird. "Ricordatevi che la musica come la vita si può fare in un modo solo: insieme", ha detto durante l'intervista con Carlo Conti. "La musica è una fortuna e, come diceva il grande maestro Claudio Abbado, è la nostra vera terapia". Parlando del brano eseguito durante la serata, Bosso ha spiegato: "Mi fa riflettere sul fatto di perdersi per imparare a seguire. Perdere i pregiudizi, le paure, perdere il dolore ci avvicina". "Noi uomini tendiamo a dare per scontate le cose belle - ha poi aggiunto - la vita è fatta di dodici stanze (il suo album si intitola The 12th room, ndr): nell'ultima, che non è l'ultima, perché è quella in cui si cambia, ricordiamo la prima. Quando nasciamo non la possiamo ricordare, perché non possiamo ancora ricordare, ma lì la ricordiamo, e siamo pronti a ricominciare e quindi siamo liberi". Torinese, 44 anni, Bosso ha cominciato lo studio della musica a quattro anni con una prozia pianista. Si è formato poi a Vienna, sotto la guida di Streicher e Österreicher e Schölckner. Sia come solista, che come direttore o in formazioni da camera si è esibito nelle più importanti stagioni concertistiche internazionali. Ha vinto importanti riconoscimenti, come il Green Room Award in Australia (unico non australiano a vincerlo) o il Syracuse NY Award in America, la sua musica viene richiesta nella danza dai più importanti coreografi come Christopher Wheeldon, Edwaard Lliang o Rafael Bonchela, nel teatro da registi come James Thierrèe e nel cinema ha collaborato con registi di fama internazionale tra cui Gabriele Salvatores. Per il regista premio Oscar ha composto la colonna sonora per quartetto d'archi del film Io non ho paura ed ha lavorato sulle musiche di altri suoi film tra cui Quo vadis, baby? e Il ragazzo invisibile. Attualmente vive a Londra, dove è stato direttore stabile e artistico dell’unica orchestra d’archi di grande numero inglese: The London Strings. Nel 2014 ha debuttato con la sua Fantasia per Violino e Orchestra alla testa di London Symphony Orchestra con Sergey Krylov al violino solista. Nel 2015, Bosso è stato scelto dall’Università Alma Mater di Bologna per comporre e dirigere una composizione dedicata alla Magna Charta dell’Università che contiene il primo inno ufficiale di questa importante istituzione mondiale.
Ezio Bosso: «Alcuni colleghi usano la mia condizione per denigrarmi. I “sani cronici” sono loro». Pubblicato venerdì, 02 agosto 2019 da Giuseppina Manin su Corriere.it. Siamo abituati a vederlo passare sopra a tutto, tranne che sulla qualità musicale e su una continua richiesta di riservatezza. Siamo abituati a vederlo stringere i denti e poi sorridere. Alla fine, ogni concerto di Ezio Bosso è un trionfo, tutto si ricompone nella gioia di fare musica, il gesto direttoriale preciso, il rapporto intimo con l’orchestra. Ma poi, finiti gli applausi, tutto quello che la musica aveva cancellato torna a presentarsi in modo crudo, talora sgradevole, talora violento.
Quanto conta lo sguardo degli altri in tutto questo?
«L’imbarazzo è più degli altri che mio. C’è chi ti guarda di sottecchi e chi fa finta di niente. Qualcun altro ti parla scandendo le parole forte, come si fa con un bambino o uno straniero. Non sono sordo, ho difficoltà a parlare, gli spiego. Sono diventato un simbolo controvoglia, mi chiedono consigli, ma io non ho ricette. Mi fa paura essere considerato un testimonial di qualunque cosa che non sia studio, dedizione, musica fatta bene. È una lotta durissima, sfiancante, che mi prova duramente. Tante volte ho voglia di smettere perché capisco che questa continua guerra mi fa male, anche fisicamente, la sofferenza psicologica si trasforma in dolore fisico. Spesso penso di ritirarmi perché non ce la faccio più, ma poi, parafrasando Manganelli, le note mi sfidano e io, che di fronte a loro sono debole come è debole chi ama, cedo e mi ributto a capofitto in un nuovo progetto, in una nuova pagina musicale. Perché mi dà gioia e perché lì sono davvero io: un musicista e basta».
Che torna in scena riaffrontando ogni volta anche tutto il resto.
«Questa cosa contro cui combatto, che la gente dice di aver capito, ma poi si torna sempre lì. Anzi a volte la battaglia più dura è proprio con gli amici. A volte è meglio il pubblico d’occasione, ad esempio quando ho diretto alla Società dei Concerti a Milano sono venuti tanti abbonati storici, gente che nei decenni ha ascoltato di tutto e alla fine i commenti e le lettere che abbiamo ricevuto erano finalmente solo sulla mia qualità musicale. Ma è una gioia effimera, anche se fa bene al cuore: la disabilità non la posso nascondere, ma tutto il resto, la sofferenza, le ansie, sono cose mie, fanno parte della mia intimità. E poi, il vero male è un altro».
Cosa c’è di peggio?
«Rendermi conto di come alcuni, purtroppo anche cosiddetti colleghi, usino la mia condizione fisica per denigrarmi. La patologia vera è questa. Le disabilità più gravi non si vedono, i veri malati, o i “sani cronici”, come li chiama il mio amico Bergonzoni, sono loro».
Forse pure un po’ invidiosi... Ben pochi possono vantare il suo successo senza compromessi né di contenuti né di forma, catturare oltre un milione di spettatori dirigendo due sinfonie di Beethoven, la Quinta e la Settima.
«Un vero azzardo, non succede neanche a un concerto in sala... Ma con la Rai si era deciso di osare, Che storia è la musica doveva essere uno “speciale” e speciale è stato davvero. Tre ore e mezzo di classica in prima serata! Nessuno aveva mai rischiato tanto, in Italia e neanche in Europa. E mentre su Raitre io dirigevo la mia Europe Philharmonic Orchestra in Beethoven, su Rai 5 il meraviglioso Chailly eseguiva Dvorak, la sinfonia Dal nuovo mondo. Due grandi offerte musicali in contemporanea. Quel che si dice servizio pubblico. Per una sera la Rai è stata la migliore tv del mondo e l’Italia il Paese che sogno».
Una scommessa vinta, per la Rai un ritorno d’immagine importante. Lo chiamano “effetto Bosso”.
«L’effetto vero è la risposta del pubblico. Non solo una platea inimmaginabile ha ascoltato, molti per la prima volta, due sinfonie integrali di tale spessore, ma il giorno dopo la prima ricerca su Google era Beethoven. E su Amazon la Quinta e la Settima erano in vetta alle classifiche. Prova che non è stata solo una curiosità effimera, che si è innescato un interesse reale. La classica suscita ancora disagio, chi non la conosce teme di non capirla e allo stesso tempo non osa chiedere: me la spieghi? E invece è proprio quello che va fatto se si vuole aprire una breccia. Il problema non sono loro, è la stupidità di chi pensa di sapere quel che la gente vuole. Bisogna avere il coraggio di andare oltre i cliché. La realtà è meglio di come la immaginiamo».
A non credere che la Classica sia “per tutti” non sono solo i media, anche molti addetti ai lavori la pensano così.
«I sacerdoti del tempio, i difensori della torre d’avorio per pochi eletti. Quelli che “la musica è solo nostra tanto voi non la capite”. Quelli che la vorrebbero riservata ai “laureati in ascolto”. Mentre i grandi della musica, da Bach a Beethoven, da Mozart a Schubert, hanno lottato perché fosse appannaggio di tutti. Non solo dei ricchi e colti».
L’ascolto è una virtù dimenticata.
«Oggi tutti parlano e nessuno sta a sentire. Bisogna fare silenzio per poter ascoltare. Un silenzio attivo, che ti aiuta a percepire non solo il suono ma anche te stesso, la tua anima. È la lezione di Claudio Abbado. Anche lui capace di trasformare la malattia in rinascita, il dolore in maggiore impegno, in urgenza del fare. Con grande pudore, ne abbiamo parlato alcune volte. In suo nome sostengo l’associazione Mozart14, presieduta da sua figlia Alessandra, che promuove laboratori musicali per i bimbi in ospedale, i detenuti in carcere. Musica spalancata, per loro soprattutto».
Una vocazione didattica che lei coltiva con sempre maggior convinzione. «I bambini sono la nostra speranza, più sono piccoli più sono aperti a ogni tipo di ascolto. Sta a noi cercare di fargli fare amicizia con la musica degna di questo nome. Che non solo apre le orecchie alla bellezza ma i cuori alla gioia di stare insieme. È il bello dell’orchestra. Che è una comunità di strumentisti e anche di ascoltatori, perché la musica si completa solo insieme».
Che rapporto ha stabilito con la sua Europe Philharmonic?
«È la mia orchestra, ci vivo in scena e anche fuori. Tutti amici, musicisti dai 20 ai 60 anni che arrivano dall’Europa e anche da fuori. Quando suonano così bene per me è un’iniezione di vita, faccio un pieno di endorfine che mi devono abbattere con il fucile per farmi smettere. Il direttore è solo un amplificatore delle qualità dei suoi musicisti. Il direttore-dittatore non esiste. Nemmeno Karajan lo era».
Se la musica rompe i muri, i politici in questo periodo sembrano alzarne di nuovi
«Abbado è stato il primo a scavalcare assurde divisioni. A Berlino c’era ancora il Muro ma lui già riuniva talenti dell’Est e dell’Ovest nella sua European Community Youth Orchestra. E lo stesso fece con la Mahler Jugendorchester. Il musicista sovranista è un ossimoro, la musica scavalca i confini. Ci aiuta a ragionare, a usare la testa invece della pancia».
L’11 agosto debutterà all’Arena di Verona .
«Con i Carmina Burana di Carl Orff. Composizioni tra le più trascinanti ed evocative, amate dal grande pubblico e quindi guardate con sospetto dai soliti soloni. Ventiquattro brani ispirati a testi poetici medievali. E poi Orff mi è caro perché è stato un grande didatta, inventore di un metodo per far arrivare la musica anche ai bambini sordi. Questo in epoca nazista, quando i portatori di handicap erano imperfezioni da eliminare».
Nei nuovi palinsesti Rai si annuncia una seconda puntata di Che storia è la musica. «Vero, anche se date e contenuti sono ancora da definire. Dopo Beethoven mi piacerebbe una incursione in Ciaikovskij, altro autore che amo moltissimo e vorrei far amare a tutti. O invece potrebbe essere un evento nel periodo natalizio, dedicato alla Festa in musica. A quel Natale che Beethoven detestava e Bach adorava, agli incanti fiabeschi evocati dallo Schiaccianoci di Ciaikovskij, dalle Ninne nanne che sanno di neve di Brahms». Un titolo c’è già: Che storia il Natale.
· Roberto Bolle ed i Ballerini.
"La vita dei ballerini è molto difficile". Roberto Bolle prende le difese del piccolo George. Criticato per la scelta di studiare danza, Roberto Bolle sui social prende posizione contro chi ha deriso il piccolo George, figlio di William e Kate. Carlo Lanna, Lunedì 26/08/2019 su Il Giornale. Terzo in linea di successione al trono d’Inghilterra, il figlio di William e Kate, sta per iniziare la sua formazione scolastica sorretto dai genitori che permettono al royal baby di avere un’istruzione a tutto tondo, che esuli anche dai libri di testo. Il piccolo George infatti studierà danza. Una volta che la notizia è trapelata in rete, l’erde è stato preso di mira da chi non vedrebbe di buon occhio la scelta. In sua difesa arriva persino Roberto Bolle, celebre ballerino e sostenitore di una danza aperta a tutti, sia a uomini che donne. La presa di posizione di Bolle è arrivata dopo la strana reazione avuta in tv da Lara Spencer, giornalista di Good Morning America, la quale ha raccontato in maniera scomposta dell’inclinazione del piccolo George. Molte sono state le reazioni suscitate di fronte al gesto della giornalista, e fra le tante spunta quella del ballerino italiano. In un post che ha pubblicato sul suo profilo instagram, scrive una dura stoccata alla giornalista americana sperando di mettere a tacere l’accesa polemica scoppiata nelle ultime ore. "Vorrei sapere se avete trovato questo video divertente o inappropriato – esordisce Bolle su i social -. La vita di noi ballerini è già molto difficile. Da ballerino di sesso maschile, ho trovato del tutto inappropriato l’intervento di Lara Spencer". Menzionata nel post di Roberto Bolle, la giornalista si scusa pubblicamente per la critica infelice. "Mi scuso per il comportamento insensibile che ho avuto. Il principino può fare tutto quello che desidera".
Bolle: "Tutto il mondo Danza con me. Dalle étoile a Benigni che mi sfiderà". Lo show ideato dal ballerino riparte su Raiuno con i botti di Capodanno. Ferruccio Gattuso, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. Il suo è il corpo di una statua, recita un luogo comune. Ma le statue trionfano nell'attimo supremo della fissità. Questo sontuoso alieno figlio dell'armonia trionfa invece in movimento. Si chiama Roberto Bolle, è un simbolo d'Italia, e fermo - questa è la verità - non sa stare nemmeno con i pensieri. Né con le ambizioni. «La mia sfida - spiega - è dare un segnale preciso: declinare la danza per tutti i tipi di pubblico, accorciando la distanza tra questo mondo e la gente». Danza con me ne è il perfetto esempio: lo show-evento prodotto da Ballandi e Artedanza, ideato e scritto da Bolle insieme a Pamela Maffioli, torna per la sua terza edizione su Raiuno nella prima serata del nuovo anno. Ai vertici di rete, offre il destro per intonare il peana di «una linea editoriale che offre contenuti e interpreti di alta qualità, cercando di alzare il livello culturale della proposta mantenendoci larghi e popolari, perché Raiuno non può escludere nessuno». La partenza dell'1 gennaio fa il suo effetto, non c'è che dire, perché Roberto Bolle porta nel suo Danza con me, e sono parole sue, «un cast di prima grandezza: ai numeri assoluti di danza dell'800 e '900 accanto a partner come Svetlana Zakharova, étoile della Scala e del Bolshoi, e Anna Tsygankova del Dutch National Ballet, affianco duetti all'insegna dell'ironia e della leggerezza con alcuni dei personaggi più amati dal pubblico italiano, come Alberto Angela, Roberto Benigni (che farà divertire in un tentativo di competizione con me), Andrea Bocelli, Stefano Bollani, Geppi Cucciari e Virginia Raffaele, Luca e Paolo, Nina Zilli, con cui rievocheremo gli anni della Rai in bianco nero dei tempi di Studio 1, Luca Zingaretti, Giampaolo Morelli e perfino i rapper Marracash e Cosmo, con i quali ho coinvolto i giovani dell'Accademia alla Scala». A tutto ciò si aggiunge una grande ambizione: «Affrontare temi importanti come l'ambiente, i migranti, la violenza sulle donne: senza fare politica, cercando piuttosto di suggerire l'importanza della compassione, dell'empatia e della lotta all'indifferenza». Un numero, particolarmente struggente, prende di petto alcune di queste tematiche: Roberto Bolle danza da solo davanti a uno specchio, nel quale entrerà per affrontare, in un duetto con un altro sé stesso, la visione di alcuni dei grandi drammi della nostra epoca. «Il linguaggio più importante - spiega il ballerino, primo al mondo a essere contemporaneamente Étoile del Teatro alla Scala di Milano e Principal Dancer dell'American Ballet Theatre di New York - resta però quello della leggerezza, che è poi quello che ha portato al programma il successo di pubblico di questi anni». L'ultimo commento è un ricordo di chi lo convinse a lanciarsi nel progetto di Danza con me: «Se non fosse per Bibi Ballandi non sarei qui - confida Bolle -. Fu lui il primo ad aver fermamente creduto che io potessi vincere la sfida televisiva. Ero pieno di dubbi e di timori per un mondo che mi era estraneo, e invece aveva ragione lui».
· L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona.
L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona ma sul tetto del mondo. Paolo Giordano, Mercoledì 04/09/2019, su Il Giornale. In fondo che cos'è un tormentone? È la foto più vera e crudele di una parte di noi. C'è qualcosa di più vero di Siamo una squadra fortissimi? Quello di Checco Zalone è un tormentone «prêt-à-porter», nel senso che è stato pubblicato nel 2006 ma sarebbe stato perfetto anche 30 anni prima o 30 anni dopo, tanto noi siamo (anche) quella roba lì, visionari e cialtroni, modaioli ma tradizionalisti e perfetti conoscitori dello sport più praticato del mondo, quello del quale ciascuno stabilisce le regole che vuole. Da quando sono nati, all'inizio degli anni Sessanta, i tormentoni hanno intercettato l'evoluzione degli italiani e dell'italianità, dal sapore di sale di chi iniziava a conoscere le vacanze al mare fino al Vespino dei Lùnapop sul quale sono salite due generazioni di liceali. Un processo graduale, inevitabile ma imprevedibile anno dopo anno, decennio dopo decennio. Invece Siamo una squadra fortissimi è implacabile. È la declinazione musicale dei film di Alberto Sordi mescolati con la commedia all'italiana, della furbizia di Amici miei con Il Processo del Lunedì e dei film di Totò con l'eterno neorealismo di Monicelli. «Siamo una squadra fortissimi, fatta di gente fantastici e nun potimm' perde e fa figur' e mmerd', perché noi siamo bravissimi e super quotatissimi e, se finiamo nel balatro, la colpa è solo dell'albitro». Checco Zalone, che non era ancora il salvatore del cinema italiano ma si capiva che lo sarebbe diventato, si è inventato questo brano che è partito come sigla radiofonica del programma «Deejay Football Club - Speciale Mondiali» che Ivan Zazzaroni conduceva su Radio Deejay. Pubblicato come singolo, è stato al primo posto della classifica dal 14 luglio fino al 17 agosto. D'accordo, l'Italia aveva vinto i Mondiali di calcio a Berlino battendo in finale la Francia ai rigori e, quindi, senza saperlo Siamo una squadra fortissimi è diventato un inno persino più del globale popopopo mutuato da un brano rock dei White Stripes che i Mondiali manco sapevano cosa fossero. Checco Zalone ha messo in note il dizionario di un'Italia fanfarona e irresistibile e ci ha regalato la possibilità di riconoscerla in ogni campo, mica solo quello del pallone. «Stoppi la palla al volo, come ti ha imparato tanto tempo fa quando giocavi invece di andare a scuola, quanti sgridi ti prendevi da papà» è una caporetto grammaticale che parodizza tanti aspetti della vita pubblica italiana. Una volta a parlare così erano soprattutto i calciatori al 90esimo Minuto di Paolo Valenti, magari dopo aver segnato il primo gol in A dopo una carriera nata in qualche paesino sperduto. Adesso, ahimè, questi strafalcioni sono anche ai piani alti, o altissimi, magari anche a Palazzo Chigi. Dopotutto, ci sono ministri o senatori, da Razzi a DiMaio, che parlano uno «zalonese» stretto nonostante debbano confrontarsi con problemi di gravità planetaria. Ed è difficile non trovare tracce dell'enfasi di Checco Zalone in quel «il 2019 sarà un anno bellissimo» che l'ex e quasi neo premier Giuseppe Conte ha pronunciato pochi mesi fa. E chissenefrega se il 2019 è stato finora tutt'altro che bellissimo e l'Italia stia affrontando la crisi di governo più pazza della propria storia repubblicana: conta il messaggio, lo slogan, «l'impatto» dell'annuncio. «Cornuti siamo vittimi dell'albitrarità a noi contraria, ecco che noi cerchiamo di difenderci da queste inequità così palese» canta Zalone ma al suo posto ci potrebbero essere tanti altri. Come conferma anche Cetto Laqualunque, ossia la feroce maschera del politico italiano creata da Antonio Albanese, l'importante è parlare, annunciare, rivendicare. Anche per questo, il pezzo di Checco Zalone è diventato il vero tormentone dell'estate 2006, nonostante tanti altri brani si fossero candidati al ruolo più ambito dal pop estivo. Siamo una squadra fortissimi parla alla parte inconfessabile dell'italianità eppure percepita da tutti, anche da chi non la pratica. D'altronde, il momento era quello giusto. C'era il tormento di un'epoca che non sapeva dove andare. Saddam Hussein ha appena detto di preferire la fucilazione all'impiccagione. Osama bin Laden continua a minacciare l'Occidente. Bush parla spesso con la Merkel, l'unico primo ministro sopravvissuto fino a oggi di quel tempo politico. Berlusconi fa un discorso al Congresso degli Stati Uniti riunito in seduta plenaria e, subito dopo le elezioni di aprile, viene arrestato Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza. A maggio inizia «Calciopoli» che costerà due scudetti alla Juventus e la credibilità a tutto il calcio italiano, esattamente come avvenne nel 1982, quando gli azzurri di Bearzot vinsero il Mundial pochi mesi dopo gli arresti (addirittura negli stadi a partite in corso) degli scommettitori più scatenati. Dire «Calciopoli» nell'immaginario collettivo significa dire Moggi. «Grande Luciano Moggi, dacci tanti orologgi agli albitri internazionali, si no co' 'O cazz' che vinciamo i Mondiali» canta Zalone con la libertà che soltanto un comico, in Italia, può permettersi. Si elegge Giorgio Napolitano al posto di Ciampi, e il muro di Berlino cade anche al Quirinale. Benedetto XVI fa arrabbiare molto i musulmani con il discorso di Ratisbona e L'urlo di Munch viene ritrovato dopo due anni dal furto. Insomma, il 2006 è un «anno incubatrice». Contiene i germi del populismo che stava fiorendo sottopelle, per lo più incompreso dalla classe politica. Non a caso, il «Vaffa Day» di Beppe Grillo del 2007 era ancora considerato un evento folcloristico destinato a non lasciare traccia nella vita politica italiana. E invece. Oggi, 12 anni dopo, gli urlatori più stentorei di quei «vaffa day» si stanno giocando il governo italiano per la seconda volta consecutiva a dimostrazione che molto spesso il pop e i commedianti arrivano prima dei migliori analisti politici o economici. In quel 2006 Checco Zalone, ossia il pugliese Luca Medici, era ancora uno dei talenti più cristallini di Zelig, quello più capace di mettere in pratica la lezione della grande comicità italiana: parlare di ciò che siamo e ridere di ciò che vorremmo essere. Siamo una squadra fortissimi è la conferma che si può cristallizzare un tipo italiano e scommettere che si riproporrà identico nel futuro. I versi di questo brano ce l'hanno fatta e, fateci caso, saranno attuali anche tra dieci o cento anni.
· Canzoni stralunate.
Canzoni stralunate, la luna nella musica italiana. Germana Consalvi il 4 luglio 2019 su Il Dubbio. Da Buscaglione a Mina, da Nilla Pizzi a Baglioni, Battiato, Caparezza e Jovanotti, la nostra sorella celeste è l’invitata d’onore della musica italiana.
Canzoni stralunate. Il countdown mondiale sta per iniziare e l’intero globo potrà accompagnarlo con un adeguato sostegno musicale. Proprio così, perché a 50 anni dalla storica missione Apollo 11 che segnò lo sbarco dell’uomo sulla Luna, la Nasa ha chiamato a raccolta via Twitter tutti i follower interessati a proporre la propria canzone preferita, nell’ambito di un maxi elenco fornito dalla Nasa, per creare una playlist “lunare” che potrebbe essere la colonna sonora della prossima missione sul suolo lunare, prevista nel 2024. Sarà l’emittente della Nasa, Third Rock Radio, a scegliere le canzoni della playlist che sarà trasmessa il 13 e il 14 luglio prossimi, a pochi giorni dall’anniversario della straordinaria impresa dell’Apollo 11 con gli astronauti Neil Armstrong, Edwin “Buzz” Aldrin e Michael Collins, che il 20 luglio del 1969 fu seguita sul piccolo schermo da circa un miliardo di telespettatori, rapiti da un evento che pareva fantascienza, all’epoca. Una selezione è d’obbligo perché forse neanche la Luna ce la farebbe a contenere l’infinito e inesauribile patrimonio musicale che da sempre ispira. Basti pensare alla ricca produzione italiana. Apollo 11 era ancora roba dell’altro mondo quando nel 1950 il Belpaese dei poveri ma belli e soprattutto pieni di voglia di fare, sfreccia in Vespa e in Lambretta e si innamora follemente della napoletanissima Luna Rossa.
La canzone piace a tutti eppure il messaggio è perdente, protagonista un uomo sconfitto in amore, abbandonato, che spera ancora che lei torni ma ci pensa la luna a dargli il definitivo colpo di grazia a suon di «Ccà nun ce sta nisciuna…». Le parole sono di Vincenzo De Crescenzo, la musica di Antonio Viscione in arte Vian, gli interpreti non si contano: il primo fu Giorgio Consolini, per Claudio Villa fu un gigantesco successo a 78 giri, ma a cantare Luna Rossa si sono cimentati anche, tanto per citare, Nilla Pizzi, Renato Carosone, Frank Sinatra, Tullio Pane, Sergio Bruni, Dean Martin, Peter Van Wood, Gabriella Ferri, Roberto Murolo, Peppino Di Capri, Massimo Ranieri, Caetano Veloso e Renzo Arbore che la rappresenta sui palcoscenici internazionali con l’Orchestra Italiana da oltre vent’anni.
Nel 1952 Un bacio a mezzanotte, musica di Gorni Kramer e parole di Garinei e Giovannini, in teoria esorterebbe alla virtù: ma il Quartetto Cetra la canta in modo così scanzonato e malandrino al ritmo di «Non ti fidar di un bacio a mezzanotte, se c’è la luna non ti fidar, perché perché la luna a mezzanotte riesce sempre a farti innamorar», e poi, con tutte quelle «stelle galeotte che invitano a volersi amar», secondo voi, come finirà?
Canta Napoli, e nel ’ 53 fa ancora centro con Luna caprese, tra panorami e pene d’amore il cui aedo per eccellenza è Peppino Di Capri. Sei anni più tardi, nel 1959, Fred Buscaglione spiazza tutti con Guarda che luna, meno swing e meno adrenalina rispetto alle sue creazioni: infatti non è opera sua, ma non per questo meno gradita e infatti fa furore. Il ritornello recita «guarda che luna, guarda che mare, in questa notte senza te vorrei morire, perché son solo a ricordare e vorrei poterti dire guarda che luna, guarda che mare». Parole tristemente profetiche: l’artista muore un anno dopo in un incidente stradale con la sua Thunderbird.
Ma la sua canzone rivive anche nelle versioni di Pavarotti e Irene Grandi nel 2000 e di Emma Marrone nel 2012. L’Italia del boom economico archivia la vocazione rurale per convertirsi all’industria del Nord, alle sue icone ( come Adriano Olivetti) e ai più comodi standard metropolitani, al bar e in casa la tv già da qualche anno è calamita nazionale, la Seicento e la Cinquecento si comprano a rate, nessuna famiglia fa a meno del frigorifero.
Con Mina nel 1960 la luna si prende una pausa rock in amore: in Tintarella di luna il satellite più vicino alla Terra fa “sentire” a suon di «tin tin tin» i raggi di luna sulla pelle, e intanto si festeggia l’oro di Berruti alle Olimpiadi romane e la Dolce Vita immortalata da Fellini. Mentre nel 1962 il travolgente Domenico Modugno con Selene conquista anche il pubblico russo al ritmo di «Selene- ene ah, come è facile ballar, Selene- ah, è un mistero non si sa, il peso sulla luna è la metà della metà». Nel 2010 la ripropongono anche Morgan e Simone Cristicchi.
Si è spento il sole è un successo del 1962 per Adriano Celentano, non così per il lato b del 45 giri, dal titolo La mezza luna. Nello stesso anno sempre lei gioca un ruolo speciale in Roma nun fa’ la stupida stasera, canzone scritta da Garinei, Giovannini e Trovajoli per il musical Rugantino in scena al teatro Sistina: la canta Nino Manfredi e chiunque avverte l’effervescenza complice di quel verso «e un friccico de luna tutta pe’ noi». Luna sacra nel 1972 per Fratello Sole Sorella Luna, canzone tratta dal Cantico delle creature di San Francesco e composta da Jean Marie Benjamin su musica di Riz Ortolani per l’omonimo film di Franco Zeffirelli. A cantarla è un giovanissimo Claudio Baglioni. Sono anni di rivolta, l’Italia giovane della contestazione studentesca iniziata nel ’ 68 indossa l’eskimo. Ma la luna si celebra in musica anche durante gli Anni di piombo. E se qualcuno avesse dei dubbi sulla natura femminile del satellite, nel 1977 ci pensa Alan Sorrenti a chiarire definitivamente la questione con Donna Luna, brano su una notte gaudente che fa parte dell’album Figli delle stelle.
Il 1979, musicalmente parlando, è l’anno della luna, e forse non è un caso a dieci anni dalla missione Apollo 11. E la luna bussò di Loredana Bertè fa ballare e cantare il reggae a tutta Italia, pur accendendo i riflettori sull’emarginazione di cui è protagonista la povera luna, rifiutata ovunque ( «e allora giù, quasi per caso, più vicino ai marciapiedi, dove è vero quel che vedi… e allora giù, fra stracci e amore, dove è lusso la fortuna, c’è bisogno della luna» ).
Ne ha cantati e contati sette di “prototipi” lunari tra poesia e affreschi di varia umanità, Lucio Dalla ne L’ultima luna ( «L’ultima luna la vide solo un bimbo appena nato, aveva occhi tondi e neri e fondi, e non piangeva, con grandi ali prese la luna tra le mani, e volò via e volò via era l’uomo di domani» ).
Mentre il dolce sound di Raggio di luna dei Matia Bazar ha fatto nascere amori a feste e in discoteca, la Luna Indiana di Franco Battiato punta molto sulla suggestione della musica, d’altro canto per lui è L’era del cinghiale bianco.
Fermi tutti, è il 1980 e gli italiani ascoltano la musica con le cuffiette e il walkman ma sotto sotto sognano un grande futuro da yuppie. «E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’», canta l’Italia in coro: è l’estate di Luna di Gianni Togni, e il verso dell’oblò non è ispirato goliardicamente a una lavatrice ma ad un clochard vero che passava le notti in stazione e osservava la vita metropolitana. Nello stesso anno torna Lucio Dalla con Il parco della luna: «Sono più di cent’anni che al parco della luna, arriva Sonni Boi coi cavalli di legno e la sua donna Fortuna» ( nel 2014, in omaggio al grande artista, Fiorella Mannoia ne ha proposto una versione intensa accompagnata da violini ).
La febbre del ritmo nel 1984 contagia gli italiani e supera pure i confini sulle note di Kalìmba de Luna, italianissima hit dal testo inglese con la quale trionfa il percussionista Tony Esposito ( voce di Gianluigi Di Franco), tra i fan più più entusiasti c’è Maradona che la usa come colonna Sonora dei suoi palleggi. Si canta e si esplora internet, perché inizia l’era del Macintosh, e si gioca con Tetris.
Mango propone Mi sembra Luna nel 1986 e il suo stile sembra far risaltare il mondo speziato mediterraneo, un anno dopo Non voglio mica la luna lancia Fiordaliso nel firmamento pop. Ritmo serrato e linguaggio senza filtri per Zucchero ne La tortura della Luna nel 1989 ( «il mare impetuoso al tramonto salì sulla luna e dietro una tendina di stelle…» ), mentre Edoardo Bennato in La luna, omaggia gli eroi dell’Apollo 11: «Il giorno che ( Neil) sbarcò sulla luna, tutti dissero che era un giorno speciale…».
Sempre nel 1989, si balla sulle note frizzanti di Eros Ramazzotti in Dammi la luna, si fantastica con Ha tanti cieli la luna di Renato Zero ( riproposta da Mina nel 2010), e si raccoglie l’invito a parlar chiaro del “Komandante” Vasco Rossi in Dillo alla Luna.
Nel 1990, tra notti magiche inseguendo gol mondiali, il Tamagotchi, le ragazze di Non è la Rai e il karaoke, Claudio Baglioni canta Acqua dalla luna: non è una canzone, è un incantesimo ( «se sapessi un dì innamorarmi di quelli che non ama nessuno, se potessi portarli lì dove il vento dorme se crescesse acqua dalla luna» ) che l’artista romano ha riproposto in modo spettacolare anche all’ultimo Festival di Sanremo.
Sullo stesso palco nel 1991 entusiasma Spunta la luna dal monte cantata da Pierangelo Bertoli e dai Tazenda: il brano è la versione italiana di Disamparados, cioè disadattati, e trasmette la forza della gente sarda e della luna aspra che appare dietro alle montagne. Sempre a Sanremo, nel 1997, Loredana Bertè presenta Luna: più che una canzone, di cui è anche autrice, un toccante diario con pensieri personali dolorosamente sinceri ( «Da quanto tempo luna, ho perso la misura? Ho seppellito pure il cuore. E che fine ho fatto anch’io? Mi sono detta: addio, addio» ).
Che ritmo poi Caparezza, in Vengo dalla luna, datata 2003 ma di impressionante attualità in tema di razzismo e con riferimenti allo storico allunaggio. La Terra vista dalla Luna è firmata Tiromancino nel 2004 ed evoca stelle e necessità di alleggerirsi , mentre Francesco Renga propone il rock avvincente di Meravigliosa ( la luna) che suggella l’amore.
Il passo successivo? E’ Il primo bacio sulla luna che Cesare Cremonini, ex frontman dei Lùnapop, canta nel 2008 spiegando che «la terra dalla luna è così bella è così tonda, sembra proprio un souvenir». Trattasi di “furto” ma non di reato la canzone dei Negramaro E ruberò per te la Luna.Una dedica d’amore coinvolge il satellite nella bellissima Il regalo più grande di Tiziano Ferro: «vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché di notte chi la guarda possa pensare a te». Il senso della sconfitta ai tempi del rap è protagonista di Luna di Fabri Fibra in collaborazione con Mahmood, nel 2017, altre sonorità e un viaggio ad Asmara portano a Chiaro di luna di Jovanotti. Il quale, lo scorso marzo, assieme a Tommaso Paradiso e Calcutta, ovvero il trio Barbooodos, lancia La luna e la gatta. Né trap, né rap: è un omaggio rock all’allunaggio quello di Achille Lauro nel ritmatissimo 1969, in cui assicura «sto sulla luna, yeah». Chi potrebbe mai smentirlo?
· Da Prince a Zucchero, le accuse di plagio più clamorose nella musica italiana.
Irama e Nera: una hit copiata da un ragazzo? Le Iene il 16 dicembre 2019. Domenico Di Puorto ci ha detto di aver inviato una sua canzone molto simile al management di Irama tre mesi prima dell’uscita di Nera. Nicolò De Devitiis ha deciso di far incontrare i due, ma il dubbio non è ancora stato sciolto. Può essere che la hit di Irama “Nera” sia frutto di un plagio? Abbiamo ricevuto una mail in redazione con un file audio, una canzone che si intitola “Fuori tutto brilla” di Domenico Di Puorto e a un primo ascolto sembra assomigliare molto a quella di Irama. Il ragazzo sostiene di aver inviato via email il suo brano alla Newco Management tre mesi prima dell’uscita di Nera. Lo facciamo allora incontrare con Irama per capire se si tratti di un equivoco o meno. “Volevo fare un tormentone”, dice Domenico, “allora ho mandato a loro un link dove poter sentire il mio album”. La risposta è che purtroppo non è possibile seguirlo, senza nessuna valutazione sulla musica. Guardando la tv il ragazzo, che ha solo 19 anni, scopre però la hit di Irama. Decide quindi di rivolgersi a un perito musicale, secondo cui nel ritornello la figurazione musicale sembra quasi identica, "tale da conferire ai brani una somiglianza insindacabile”. La Iena allora decide di far incontrare Domenico e Irama. Dopo un primo rifiuto i due riescono a incontrare Irama, che però davanti alla spiegazione su quanto sta accadendo pensa che si tratti di uno scherzo. A nulla valgono i tentativi di De Devitiis di convincerlo: “Vi dico una cosa importante, devi farti il mazzo e impegnarti tanto”, dice il cantante a Domenico: “Non pensare a fare cavolate, pensa a metterci amore nella musica”. I due si sono più o meno chiariti, ma il dubbio resta: di chi è la paternità di Nera?
Aldo Grasso per “il Corriere della sera” il 18 novembre 2019. Il bello di Fiorello (e dello streaming) è che puoi interrompere quando vuoi, fermarti un attimo, gustarti lo spettacolo come si gusta un gran vino. Hai anche il tempo di scorrazzare per la generalista e fare confronti casuali. In una di queste dissipazioni, su Rai3 c' era Raffaella Carrà che cucinava con Luciana Littizzetto e su Canale 5 c'era Celentano che cantava Pregherò, una canzone madeleine, per dirla alla Jannacci: «Cercavi un docümént de residénsa e mi, m' è vegnü in ment tutta l'infansia». Michele Bovi, in Ladri di canzoni (Hoepli, 2019) ha ricostruito la storia di questa celebre canzone che racconta di un ragazzo che lancia un accorato appello a una coetanea non vedente: se avrai fede nel Signore anche tu riuscirai a vedere. Era la canzone più cantata negli oratori, prima di Azzurro : «Dal castello del silenzio/ Egli vede anche te /E già sento /Che anche tu lo vedrai, lo vedrai». Il fatto è che Pregherò è la versione italiana di Stand by me , la straordinaria canzone di Ben E. King, un canto d' amore di un ragazzo che chiede alla sua ragazza di stargli vicino nella notte: «So darlin', darlin', stand by me, oh stand by me». Allora non sapevamo nulla. Non sapevano nulla, scrive Bovi, quelli del Clan che dissero che Stand by me era una canzone tradizionale di autore anonimo e accreditarono alla Siae solo le firme di Ricky Gianco, Detto Mariano e Don Backy, autore delle parole italiane. Naturalmente, quando gli americani se ne accorsero - è sempre Michele Bovi che ricostruisce queste curiose liti sui diritti d' autore, questi sapidi retroscena musical-giudiziari - pretesero la loro giusta parte di diritti e a rimetterci più di tutti fu Don Backy «unico italiano che aveva aggiunto all' opera il proprio ingegno». Poi si torna a Fiorello, basta schiacciare play. E ci si accorge quanto siano avanti le sue tecniche di mashup e crossover, di mescolare brani e attraversare generi e «rubare» emozioni.
UH LÀ LÀ, “PASSAPAROLA” ERA UN PLAGIO! Saverio Felici per Velvetgossip.it l'8 ottobre 2019. Si è conclusa nella maniera più pesante possibile la causa segreta che negli ultimi tempi ha tenuto impegnati i piani alti di Mediaset in difesa di un proprio programma storico: Passaparola. Il leggendario game show che l’emittente italo-spagnola lanciò negli anni ’90 sarebbe ufficialmente stato condannato per plagio. A reclamarne i diritti è stata l’emittente britannica ITV. Il programma storicamente condotto da Gerry Scotti avrebbe infatti mancato di saldare i diritti di copyright a The Alphabet Game, gioco britannico e “padre” della sua versione italiana. Passaparola in realtà non vai più in onda in Italia da diverso tempo; stessa cosa non può però dirsi della sua versione spagnola Pasapalabra, tutt’oggi show di punta nella programmazione della divisione iberica della rete. Il contenzioso si svolse in merito alla similitudine reale o presunta tra le recenti incarnazioni di Passaparola e lo storico Alphabet Game. Gli autori Mediaset, che i primi anni erano soliti pagare i diritti per l’utilizzo del format, avrebbero smesso di saldare le richieste inglesi a partire dal 2007. A quel punto, secondo il gruppo di proprietà di Silvio Berlusconi, Pasapalabra non avrebbe più avuto nulla in comune con lo show madre. Non è dello stesso avviso la corte che in questi anni ha curato la disputa sulla paternità di Passaparola. Nonostante i cambiamenti interni al programma, il tribunale ha recentemente ufficializzato come dal 2007 il programma sia di fatto sempre rimasto una variazione di Alphabet Game. E il mancato pagamento dei diritti ne ha fatto a tutti gli effetti un caso di plagio. Da qui la condanna, con cifre iperboliche; Mediaset verserà a ITV ben 15 milioni di euro, arretrati per gli ultimi dodici anni di diritti non pagati. A questo segue l’imposizione di eliminare dal palinsesto tutti i giochi in qualche modo ereditati dal vecchio show inglese.
Testo di Michele Bovi per Dagospia l'1 ottobre 2019. Nei prossimi giorni Piero e Paolo Minelli, entrambi generali dell’Aeronautica, citeranno in giudizio gli eredi del principe Antonio De Curtis, in arte Totò, per il plagio di Malafemmena, la popolare canzone scritta dall’artista napoletano. I due alti ufficiali onoreranno così la volontà espressa dalla loro madre, Maria Pia Donati Minelli, scomparsa nel dicembre del 2018, a 98 anni. La signora Maria Pia di plagi se ne intendeva. Insegnante di lettere in una scuola umbra, forte di una straordinaria passione per la musica, è stata una delle prime donne italiane a dedicarsi alla composizione. Medaglia d’oro della SIAE per i cinquant’anni d’iscrizione, partì da lei la vertenza giudiziaria che ha portato all’unica condanna definitiva per plagio nella storia del Festival di Sanremo. Era il 1970, il cantante francese Antoine e Anna Identici interpretarono Taxi, un valzerino allegro firmato da una coppia d’autori all’epoca di gran moda, Mario Panzeri e Daniele Pace. Tre gradi di giudizio, in quattordici anni di processi, hanno dato ragione alla denunciante: Taxi era il plagio della sua Valzer brillante, depositata nel 1948. La signora Donati Minelli fu risarcita nel 1984 con 110 milioni più il saldo delle spese sostenute in tutti quegli anni di cause. Ma Malafemmena restava il suo più profondo cruccio. “Totò l‘ha copiata dalla mia Autunno d’amore, depositata un anno prima e incisa da Claudio Villa con il titolo di Notturno” ha più volte protestato l’autrice senza mai però decidersi ad adire le vie legali. Lo ha fatto dettando ai figli le sue ultime volontà: Totò è scomparso nel 1967, stando alla legge i diritti di Malafemmena scadranno nel 2037, settant’anni dopo la morte. Insomma c’è tempo per stabilire la verità. È soltanto una delle innumerevoli liti che da duecento anni a questa parte scuotono il panorama musicale italiano, rivelate con dettagli inediti ed esclusivi nel libro Ladri di canzoni. 360 pagine di documenti e testimonianze a dimostrazione che il plagio non risparmia nessuno. Da Giuseppe Verdi a Lucio Dalla, da Giacomo Puccini a Claudio Baglioni, da Enrico Caruso a Luciano Pavarotti, da Domenico Modugno a Laura Pausini, da Adriano Celentano a Eros Ramazzotti, da Jovanotti ai Modà non c’è celebre artista nella storia della musica italiana che non abbia avuto noie con la giustizia a causa del proprio lavoro e di presunte somiglianze con realizzazioni preesistenti. Come dire che il più rinomato dei processi italiani per plagio, quello tra Al Bano e Michael Jackson è stato soltanto la punta di un iceberg di impressionanti dimensioni. Migliaia di citazioni in giudizio protette dal massimo riserbo e definitivamente tacitate da transazioni milionarie hanno bersagliato le 69 edizioni del Festival di Sanremo, senza esentare i cantanti e gli autori più famosi e i motivi più premiati dalla hit parade del pop nazionale. Ma in generale i più acclamati compositori, i più famosi parolieri, i maggiori editori e discografici hanno avuto a che fare con la carta bollata. Con casi limite strabilianti, come quello che coinvolse nel 1996 Giovanni Paolo II. Nel corso di una pubblica udienza papa Karol Wojtyla aveva modulato una frase con una soavità tale da farla somigliare a un motivo musicale. Così al disc-jockey e produttore discografico Joe T Vannelli, in quell’anno al vertice della hit parade mondiale con il brano Children (5 milioni di copie vendute) venne l’idea di creare un brano strumentale con la voce del pontefice in sottofondo. La proposta sembrò inizialmente piacere alla direzione di Radio Vaticana che detiene l’esclusivo diritto di esecuzione della voce del Santo Padre, tanto da indurre Vannelli a stampare cinquecento cd della canzone intitolata Forgive Us (Perdonaci). La trattativa però non andò a buon fine. Per recuperare le spese il disc-jckey si dette da fare per smerciare con discrezione le copie pubblicate, eludendo i canali ufficiali. Trattandosi di faccende riguardanti il leader della Chiesa, il diavolo non poté fare a meno di infilarvi la coda. E così la prima serata di metà luglio di Canale 5 dedicata a una fascinosa sfilata di moda in diretta su Piazza di Spagna si trasformò in un caso diplomatico e giudiziario con la Santa Sede. Un assistente musicale del programma tv usò come sottofondo della passerella delle indossatrici il brano di Vannelli con la voce di Giovanni Paolo II. Il Vaticano reagì con la richiesta di un provvedimento d'urgenza. Nell'udienza fissata il 4 agosto nel torrido palazzo di giustizia milanese a difendere l'immagine (e la voce) del papa si presentarono l'avvocato Eugenio Pacelli, omonimo e nipote di un altro pontefice, Pio XII, e l'avvocato Alberto Pojaghi, esperto di diritto d'autore. Ad assistere Vannelli era l’avvocato Fulvio Fiore, altro specialista in cause per plagio, subito stoppato dal giudice Paola Gandolfi con un perentorio: “Non esageriamo avvocato, il papa no!” . La contraffazione costò a Vannelli un risarcimento di venti milioni e il macero dei cd rimasti: per ogni copia eventualmente rintracciata in circolazione l'artista avrebbe dovuto indennizzare la controparte di un milione di lire. L’invocazione nel titolo Forgive Us (Perdonaci) non venne presa in considerazione: davanti a un soggetto di tale caratura non ci sono santi che tengano. Neanche San Remo.
Da tgcom24 mediaset il 23 settembre 2019. Il 23 settembre i Led Zeppelin tornano in tribunale per difendersi dall’ennesima accusa di plagio per “Stairway to Heaven”, il loro singolo più iconico. Secondo un giudice americano, tra la celebre canzone e “Taurus”, un pezzo strumentale della band Spirit, ci sarebbero somiglianze sufficienti per portare il caso di fronte alla Corte d’Appello di San Francisco. Nel 2016, Robert Plant e Jimmy Page, cantante e chitarrista dei Led Zeppelin, si erano già presentati in tribunale per lo stesso motivo, ma erano stati assolti. I precedenti - Tutto è partito, anni fa, dall’accusa di plagio presentata da Michael Skidmore, amministratore fiduciario di Randy Wolfe, ultimo chitarrista degli Spirit, che da sempre rivendicava i diritti d’autore della canzone. Secondo la versione di Skidmore, i Led Zeppelin avrebbero copiato il riff di chitarra di “Taurus”, dopo averla sentita suonare durante un tour nel 1968. Page e Plant hanno sempre negato questa versione della storia, affermando invece di aver scritto "Stairway to Heaven" in un cottage del Galles, interamente di loro pugno. Nel 2016, i giurati presenti in tribunale avevano deciso che il singolo non infrangeva nessun copyright, ma ora i Led Zeppelin si devono presentare di nuovo a processo, poiché sarebbero stati scoperti alcuni errori nella gestione della giuria precedente. Il verdetto potrebbe cambiare le leggi sul copyright negli Stati Uniti - Al di là della querelle tra le due band, il nuovo verdetto potrebbe avere implicazioni sulle attuali leggi sul copyright negli Stati Uniti. “Sarà necessario stabilire quanta creatività è necessaria per dare vita a qualcosa di tutelabile”, ha affermato Wesley Lewis, avvocato specializzato in copyright. “Nella musica, potrebbe essere una scala cromatica. Ma ci sono analogie di tutti i tipi. Per esempio, una linea di codice di un software è protetta dal copyright? In una coreografia, quali sono i passi tutelati? Questo procedimento è fondamentale per fare chiarezza”.
Da Prince a Zucchero, le accuse di plagio più clamorose nella musica italiana. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 da Arianna Ascione su Corriere.it.
Michael Jackson che copia Al Bano. «Eppure mi ricorda qualcosa»: capita spesso, ascoltando un brano, di riconoscere fonti di ispirazione, citazioni, sonorità già sentite. In alcuni casi però la somiglianza tra due canzoni, messe a confronto, è così marcata che si arriva a parlare di vero e proprio plagio e se l'artista coinvolto rigetta le accuse (oppure se non si riesce a trovare un accordo tra le parti) si finisce a dibattere la questione in un'aula di tribunale. Il caso di Biagio Antonacci, che secondo il musicista Lenny De Luca in «Mio fratello» si sarebbe un po' troppo ispirato ad un suo brano («Sogno d’amore»), è soltanto l'ultimo in ordine di tempo. La controversia più clamorosa è sicuramente quella che ha visto protagonisti Albano Carrisi e Michael Jackson: il re del pop, accusato di aver copiato «I Cigni di Bakala» (1987) in «Will You Be There» (1993) venne in prima battuta condannato a pagare una multa. Poi una sentenza successiva stabilì che i due (anche se Al Bano ha sempre smentito) avevano preso come fonte di ispirazione un brano senza diritti, «Bless You For Being An Angel» degli Ink Spots (1939), che a sua volta riprendeva una melodia tradizionale dei Nativi Americani. Nessun plagio quindi anzi, per così dire, una citazione della citazione (della citazione).
Francesco De Gregori - Luigi Albertelli ed Enrico Riccardi. A causa della frase iniziale del brano «Prendi questa mano zingara» (contenuto in «Prendere o lasciare» del 1996) Francesco De Gregori è stato trascinato in tribunale da Luigi Albertelli ed Enrico Riccardi ovvero gli autori di «Zingara», la canzone vincitrice del Festival di Sanremo 1969 portata al successo da Iva Zanicchi. Nel 2015 però, al termine di una causa durata anni, la Cassazione riconobbe l'incipit come semplice citazione e non plagio (in primo grado era stato impedito a De Gregori di cantare in pubblico il pezzo, sentenza poi ribaltata in appello), anche perché il resto del testo e la musica erano molto diversi dall'originale.
Prince - Bruno Bergonzi e Michele Vicino. Ci sono voluti quasi 20 anni per arrivare ad una sentenza definitiva, ma alla fine Bruno Bergonzi e Michele Vicino (autori di «Takin' Me To Paradise») ce l'hanno fatta: nel 2015 Prince è stato riconosciuto dalla Cassazione colpevole di plagio per la canzone «The Most Beautiful Girl in the World» pubblicata nel 1994 nell'album «The Gold Experience».
Luis Bacalov - Sergio Endrigo. Per aver scritto la colonna sonora de «Il postino» (il film del 1994 con Massimo Troisi e Philippe Noiret) il compositore argentino Luis Bacalov nel 1996 fu premiato con un Oscar. Peccato che il tema della pellicola fosse del tutto simile ad una canzone del 1974 di Sergio Endrigo e Riccardo Del Turco, «Nelle mie notti». Al termine di un lungo contenzioso Bacalov riconobbe solo nel 2013 la co-paternità del brano al cantautore di «Io che amo solo te», a Del Turco e al paroliere Paolo Margheri.
Zucchero - Michele Pecora - Albert One. Nella sua carriera Zucchero ha dovuto affrontare ben due accuse di plagio: in principio fu Michele Pecora, che nel 1998 notò alcune somiglianze tra la sua «Era lei» (1979) e «Blu» (1998). Della vicenda si occupò per lungo tempo anche «Striscia la notizia», ma nel 2006 Fornaciari fu prosciolto da ogni addebito. Nel 2014 invece il dj e produttore italiano Albert One sostenne che il ritornello del brano «Quale senso abbiamo noi» era molto simile a quello della sua «Sunshine». Anche in questo caso le accuse si dimostrarono infondate.
Nek - Gianni Bella. Non esiste Festival di Sanremo senza polemiche legate a presunti plagi: molto prima del caso Meta-Moro (vincitori nel 2018 con «Non mi avete fatto niente», canzone accusata di essere somigliante ad un'altra presentata a Sanremo Giovani nel 2016, «Silenzio», dello stesso autore della prima, Andrea Febo) c'era stato Nek, citato in giudizio da Gianni Bella. Quest'ultimo sosteneva che «Laura non c'è» (presentata in gara nel 1997) fosse un plagio di «Più ci penso» (1974). La questione si è chiusa con un nulla di fatto: a distanza di anni la sorella di Gianni, Marcella, ha rivelato nel 2015 a Chi che i due avevano fatto pace. Anche se non si è risparmiata una frecciatina: «Vogliamo parlare di Nek? Aveva un pezzo orecchiabile (Fatti avanti amore ndr), ma lui ama ascoltare cose fatte da altri e poi farle sue».
· Zucchero. Questa Italia non mi piace.
Questa Italia non mi piace. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. «Basta con i doppi sensi da bar e osteria. In questo disco c’è un ritorno all’impegno civile che rispecchia la mia vita privata e alla genuinità». Zucchero presenta così lo spirito del suo nuovo album «D.O.C.». «Vittime del cool» se la prende con la scarsa autenticità che vede, con il fatto che nessuno «sembri com’è».
Colpa dei social?
«Non solo... Vedo ovunque gente che si atteggia da star. Non ne vedo il bisogno. Sarà un pensiero romantico, ma vorrei che la gente si manifestasse per come è veramente. Questo mi intristisce. Vedo politici con bracciali, collane, anelli su tutte le dita, come se fossero delle rockstar. Mi viene voglia di mettermi la giacca...».
A proposito di politici, in «Badaboom (Bel Paese)» si rivolge a un disastro, un poco di buono che si mangia tutto... Conte? Salvini? Zingaretti? A chi è diretto il «non ti perdono»?
«Siamo il Bel Paese per quello che ha fatto chi è venuto prima di noi e ci ha dato cultura, arte, buon cibo... Ce l’ho con i governi ma non solo gli ultimi. Faccio ironia e sarcasmo su quello che vedo, le macchinazioni di palazzo, la corruzione, Mafia capitale, le coltellate alla schiena, i politici che si insultano in tv. Siamo una pentola in ebollizione e spero non scoppi veramente il badaboom del titolo».
I tempi sospettosi sono anche quelli della scorta a Liliana Segre e dei buu ai calciatori di colore?
«Ho sempre suonato con musicisti di colore. È impensabile e ingiustificabile offendere qualcuno per la razza. Come è assurdo che ci siano reminiscenze fasciste o naziste: è una storia da bruciare, seppellire e dimenticare».
Non le viene voglia di scrivere una canzone su questo?
«Il mio mestiere è trasmettere sentimenti e vibrazioni, non parlare di politica. Qualche volta l’ho fatto, ma ho la sensazione che non venga recepito. Live Aid, concerti per la cancellazione del debito dei Paesi emergenti... ho partecipato a molti di questi eventi ma poi non è successo nulla».
Pessimista?
«I tempi che stiamo attraversando non sono goliardici e sereni. Sono preoccupato. Però mi sono accorto che in ogni canzone c’era una luce, un inizio di redenzione».
«Tempo al tempo», scritta con De Gregori, recita «così in cielo come dai noi/ sai che ti sto cercando»... La conversione di Zucchero?
«Ho messo in dubbio qualcosa del mio essere un ateo incallito. Non parlo del Dio dei cristiani, ma di qualcosa di più grande, che potrebbe anche essere lo spirito di mia nonna. Non sono ancora al “pentiti peccatore” ma al “non si mai” sono arrivato».
Il disco si chiama «D.O.C.». Come lo ha scelto?
«La scelta del titolo mi ha fatto tribolare. Ho pensato di chiamarlo “Suspicious Times”, tempi sospettosi proprio per il momento che stiamo vivendo. Poi ho pensato di non dare nessun titolo. E il giorno prima di stampare il disco, con i contadini della mia fattoria si parlava di coltivazioni bio, di denominazione di origine controllata e mi è venuto Doc. È una parola che va bene in tutto il mondo. E poi vuole anche dire disturbo ossessivo compulsivo, che, ironicamente, mi rappresenta. E rappresenta il disco, genuino come mi sento io». Nei suoni, a partire dal singolo «Freedom» scritta Rag’n’Bone Man, ha cercato nuove strade. Che percorso ha fatto? «Non volevo che questo disco suonasse come un seguito del precedente. La musica è cambiata velocemente, ho cercato di capire perché facendo ricerche sui nuovi suoni. Con il produttore Don Was (Rolling Stones, Dylan e altri ndr) abbiamo fatto la parte organica del disco, quindi abbiamo invitato giovani produttori che hanno lavorato a successi internazionali per inserire dell’elettronica calda. Mi sono rinnovato rimanendo me stesso». Nell’aprile del 2020 parte il tour mondiale dall’Australia. In Italia arriverà a settembre con 12 date all’Arena di Verona, ormai la sua seconda casa...«Quando nel 1990 Clapton mi volle come supporter per 12 date alla royal Albert Hall di Londra mi chiesi perchè avesse deciso di suonare solo in quella location. la risposta è che se la tua musica si sposa bene alla bellezza del posto, se si sente bene il suono, ne discende un vantaggio per l’artista e per il pubblico. Per l’anno prossimo saranno le uniche date in Italia, ma nel 2011 suonerò in altre città».
Zucchero Fornaciari: «La campagna mi ha salvato dalla depressione». Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 su Corriere.it da Andrea Laffranchi. Il cantautore racconta la sua vita nella fattoria in Lunigiana: «Quando non ho idee vado in cortile a guardare le galline». Zucchero Fornaciari, 64 anni, nella sua casa-fattoria “Lunisiana Soul”, a Pontremoli, in provincia di Massa Carrara (foto Daniele Barraco)Dall’antipasto al dolce. Il menu di casa Fornaciari è tutto a chilometro zero. Giardiniera di barbabietole rosse, zucca piccante sott’olio, frittata al forno con verdure di stagione, uova di quaglia al burro di bufala, la torta d’erbi tipica della zona, penne con pomodorini secchi, formaggi di mucca e capra, prosciutto e salame, pane e focaccia, crostata con marmellata di fichi. E da bere un Chocabeck (omaggio al titolo di un suo album del 2011) rosato. Tutto quello che passa sulla tavola di Zucchero e della sua famiglia viene dalla casafattoria di Pontremoli. «Non rubo niente, prendo in prestito dalla natura». A “Lunisiana Soul” - un po’ Lunigiana, la regione di confine fra Toscana e Liguria, un po’ Louisiana che con la capitale New Orleans è stata la culla del jazz e del blues - si accede da un cancello su uno stradone anonimo. Passato l’ingresso si è immersi nella natura: viti a sinistra e ulivi a destra. Si scende in una vallata verde attraversando un arco sorretto dalle scenografie di un vecchio tour, e si arriva alla casa di famiglia: un mulino restaurato in stile fiabesco e circondato da prati e campi. Uno dei caselli ottagonali per la stagionatura del formaggio è diventato una dépendance, dentro a una serra c’è un autobus americano riadattato con bar e camera da letto. Fra i prati e i campi coltivati ci sono le stalle e i recinti per gli animali: mucche, cavalli, bufali, pecore, capre, maiali, conigli, galline, tacchini, persino i cerbiatti e un laghetto per i pesci d’acqua dolce. Cani e gatti girano per la casa. L’ultimo arrivato è Otis, in onore del soul man Redding, un pappagallo cinerino che svolazza in salotto mettendo a rischio le centinaia di fogliettini ritagliati su cui Zucchero appunta idee, pensieri e promemoria. In fondo alla proprietà, appoggiata a una piscina di acqua naturale portata dai canali che alimentavano il mulino, c’è la House of blues, lo studio di registrazione dove sono nate le canzoni di D.O.C., l’ultimo album di Zucchero.
Il vero chilometro zero, siamo al limite dell’autarchia...
«Non lavoro io nei campi, ma ogni settimana faccio una riunione con i contadini. Abbiamo tutto quello che serve. Frutta e verdura, carne, latte, uova, olio e burro, coltiviamo i cereali per le farine con cui fare pasta e pane, facciamo le conserve, per il vino conferiamo le uve a un produttore... L’unica cosa che compriamo è l’acqua frizzante. In bottiglia di vetro ovviamente. Praticamente non ho la pattumiera per la plastica».
Se Zucchero fosse un vino?
«Quello che mi piace bere. Non amo i vini barricati o quelli importanti. Preferisco quelli aciduli di queste zone. Vitigni autoctoni dei colli di Luni come il Vermentino nero che vinifico in purezza, il Ciliegiolo, la Pollera nera».
Meglio le sue bottiglie o il Chianti di Sting?
«Sono competitivo... Lui però non ha l’aceto balsamico: ho ereditato una batteria, le botticelle per l’invecchiamento e una madre che mi dicono risalire al Settecento».
Come è arrivato a “Lunisiana Soul”?
«All’inizio degli anni Novanta ho attraversato un periodo di depressione totale dopo la separazione dalla mia prima moglie. Stavo male ovunque fossi. Provai a tornare dai miei a Roncocesi, ma dopo una settimana fuggii. Mio padre non aveva capito che avevo successo. Non ero più quello che suonava nelle balere e mi svegliava alla mattina alle 6 per farmi andare a lavorare nei campi con lui. In una pizzeria incontrai Enrico Ferri, l’ex ministro, che mi offrì un aiuto per trovare casa a Pontremoli di cui era sindaco».
E come andò?
«Mi sembrava un posto fuori dal mondo. Lo conoscevo perché papà aveva un negozio di salumi a Carrara e due volte al mese andava da un fornitore a Correggio attraversando il passo della Cisa. Siccome non esisteva l’autostrada, si andava a Pontremoli e da lì si caricava il furgone sul treno per valicare l’Appennino».
Però alla fine ci è venuto a Pontremoli...
«Ferri mi affidò a un agente immobiliare, ma non trovavo quello che cercavo. Qualche mese dopo, mentre stavo facendo un giro in moto con la mia Harley, vidi dall’alto questa vallata verde, un mulino diroccato, le pecore al pascolo... mi sembrava l’Irlanda. Mi sdraiai sull’erba ed ebbi la sensazione di esserci sempre stato. Decisi di comprarlo e farlo rinascere. Nel 1993 iniziai i lavori che mi aiutarono a uscire dalla depressione: mi tenevano il cervello occupato. All’inizio ci venivo nei fine settimana e nelle vacanze con mio fratello e le mie figlie. Nel 1998 è nato Blue, il mio terzo figlio, e dal 2000 con la mia compagna Francesca ci siamo trasferiti qui per crescerlo a contatto con la natura».
Che rapporto ha con gli animali?
«Ottimo. Quando sono sotto pressione causa mancanza di idee vado nel cucuzzaro, così chiamiamo il cortile dei pennuti, e li osservo. Gli animali hanno gli stessi comportamenti di noi umani...».
È vicino alla causa ambientalista?
«Sting è impegnato con questo progetto da anni, mi invitò già nel 1997... ma è importante anche quello che fa una ragazza come Greta Thunberg. Meno male che c’è lei. Non mi interessa sapere se c’è qualcuno dietro di lei. Spero solo che i giovani continuino questa sua rivoluzione pacifica. Faccio lo zio che li spinge a fare casino: se si incavolassero anche un po’ e scendessero in piazza ne avrebbero tutte le ragioni».
Suo figlio ha qualche anno in più di Greta... È servito farlo crescere qui?
«Francesca e io facciamo il possibile. A volte la gente si stupisce e ci chiede perché non gli prendiamo la tal macchina o l’ultimo modello di telefono. Ci chiede l’Phone 11 perché i suoi amici ce l’hanno? Noi gli rispondiamo che il 6 funziona ancora benissimo... Dobbiamo fare resistenza davanti alla forza del branco. Certe auto io me le sono permesse a 35-40 anni. Blue ha una 500: non deve ostentare. Comunque parte tutto dalla famiglia: vedo famiglie, anche modeste, che dicono sì a qualsiasi richiesta dei figli. È diseducativo».
Insomma, come dice una canzone di D.O.C. , siamo Vittime del cool ?
«Nessuno sembra più voler essere quello che è veramente. È triste. Si punta all’apparenza e non alla sostanza. Vedo i politici pieni di braccialetti, collane, anelli alle 5 dita... Vogliono fare le rockstar...».
In quel testo dice anche di non amare più l’essere umano. Siamo messi così male?
«Non voglio generalizzare, però non capisco più se i miei parametri di vita siano ancora giusti. Amo le persone genuine, dirette e semplici. Pane al pane, vino al vino. Purtroppo ne vedo sempre meno anche nei paesini come questo. Siamo di fronte a un’epidemia che contamina tutti. Riesco ad avere quel tipo di rapporto con una ventina di persone: alcuni amici del posto, un professore universitario di Genova con cui passo nottate a parlare di letteratura e cultura del territorio...».
E le superstar amiche?
«Nella categoria dei genuini ci metto anche Bono, Eric Clapton, Brian May, Sting. Anche Pavarotti era così: una star planetaria che quando tornava a casa giocava a briscola con gli amici».
Nei testi del nuovo album c’è, più spesso che in passato, un elemento spirituale. Sta cambiando idea?
«È vero, è come se ci fosse sempre una luce, un inizio di redenzione. Da ateo convinto mi sono ritrovato a parlare di qualcosa di meno terreno. Forse ha a che fare con la maturazione degli anni...».
Ha paura di invecchiare?
«Nel 1999, per il video di Diamante mi truccarono da me stesso vecchio. Non mi spaventa il cambiamento nell’aspetto fisico. Mio padre era solido e nerboruto, ha avuto tutti i denti e i capelli sino alla fine: spero di avere lo stesso Dna della Bassa padana. Ho paura invece dell’apatia, del perdere gli stimoli, non avere più sfide, finire a guardare la tv sul divano o ammazzare il tempo al bar e sperare che arrivi sera in fretta».
La gioventù artistica passa?
«Quando mi sono trovato davanti al foglio bianco per la scrittura di questo album, ho sentito l’esigenza di un cambiamento repentino e veloce. Ascolto dischi di colleghi che stimo, ma quelle canzoni suonano sempre allo stesso modo: mi sembrano vecchi. Per quest’ultimo lavoro ho pensato che avrei dovuto rimanere me stesso dando però una rinfrescata al guardaroba. Ho cercato di capire perché certi brani e certi suoni hanno successo oggi. E ho invitato produttori e autori giovani che stanno dietro a hit mondiali a mettere dell’elettronica calda nei miei pezzi».
Zucchero prima di essere Zucchero?
«Cantavo nelle balere. Facevo il talent scout e provavo a produrre e scrivere anche per altri come Fred Bongusto, Fiordaliso o Stefano Sani perché pensavo che nessuno fosse interessato alla mia voce e al mio genere. Andavo a portare i miei pezzi alla Pdu di Mina perché allora si diceva “se ti prende un pezzo lei, hai svoltato”. Ma niente, non presero nemmeno Diamante, che ancora non aveva il testo di De Gregori».
Suo padre torna spesso nelle sue canzoni: come lo ricorda?
«Non ci siamo vissuti come avrei voluto... Era un uomo alla vecchia maniera, poche parole e tanto lavoro. La parte artistica della famiglia è la sua. Quando chiudeva il negozio per la pausa, andava sulla spiaggia a prendere i legni levigati dal mare per realizzare delle sculture. Era un uomo ipersensibile, un sognatore travestito da duro».
Che diceva della sua musica?
«Ai tempi del successo di Oro, incenso e birra lo intervistarono quelli di TeleReggio. Era nell’orto. Gli chiesero un giudizio sulle mie canzoni e in mezzo dialetto disse più o meno così: “Speriamo che duri. Comunque io preferisco il valzer e la mazurca”. Avrei voluto fosse orgoglioso del mio lavoro».
Non lo era?
«Non lo manifestava. È venuto a vedermi una volta sola, a Parma nel 1995. Camminava male, erano gli inizi di una malattia degenerativa. Gli chiesi cosa fosse successo e lui rispose: “Un mignolo che mi dà fastidio, al limite lo taglio...”. Ho pensato a quel momento scrivendo Sarebbe questo il mondo. Però mamma diceva che a volte gli vedeva gli occhi lucidi quando si parlava della mia carriera».
E la mamma?
«Lei era orgogliosa di me. Mi raccontava sempre di quando la fermavano per strada mentre faceva la spesa per dirle quanto bravo fosse suo figlio...».
Dove nasce la sua musica?
«In questo studio. Era una stalla per le pecore che ho trasformato con legno e metallo nello stile di una baracca sul Mississippi. Quando entro qui, vengo trasportato nel mondo musicale che amo. Lavoro con Max Marcolini, mio collaboratore storico. Si dice che più fai bottega più ti avvicini all’arte. Quindi si parte alle 11, pausa pranzo e poi si va avanti fino a sera. A volte dormiamo qui, c’è anche la camera da letto».
Questa, quindi, è la sua casa, per la vita e per la musica?
«A 10 anni sono stato sradicato da Roncocesi, la frazione di Reggio Emilia dove ero nato. Era il mondo di don Camillo e Peppone. Il prete era soprannominato don Tagliatella e litigava con mio zio Guerra, un maoista convinto. Papà non voleva mai far entrare il prete a benedire casa. Alla domenica però mi mandavano a portargli le uova. Dopo che ci siamo trasferiti non mi sono mai più sentito a casa. Pontremoli mi permette di stare a metà strada fra le mie radici emiliane, mio fratello vive ancora a Reggio, e le figlie che stanno a Carrara».
Mai pensato a una fuga all’estero?
«Sono a casa poco e non ho tempi morti lunghi in cui annoiarmi. Los Angeles è noiosa: un circolo chiuso, nei locali non si fuma, bevono birra analcolica e il mare è più bello in Italia. Francesca ha studiato a New York e ci vorrebbe tornare, ma non sento la tentazione».
Allora non le resta che stare con la valigia in mano. Cosa non può mancare nei suoi bagagli?
«Per l’ultimo tour ho avuto 160 concerti in giro per il mondo in un anno e mezzo. Nel 2020 suonerò in Australia ad aprile, poi da settembre a dicembre circa 30 show in Europa e 12 serate all’Arena di Verona. E l’anno dopo si riparte con Stati Uniti e Canada, Sudamerica, Giappone, Europa dell’Est. Porto sempre con me i fiori di Bach per calmare l’ansia pre-concerto. Shampoo e sapone vengono da casa: non amo quelli degli hotel. Una fan mi ha regalato un sacchetto di sale come talismano scaccia malanni: non che ci creda, ma è lì da 5-6 anni e non lo tolgo...».
La vita — Zucchero Fornaciari, pseudonimo di Adelmo Fornaciari, è nato a Roncocesi (frazione del comune di Reggio Emilia) il 25 settembre 1955. Diplomato perito elettronico, si iscrisse alla facoltà di Veterinaria, interrompendo poi gli studi per dedicarsi alla musica. Ha avuto due figlie dalla prima moglie: Irene, cantante, e Alice. Dalla nuova compagna, Francesca Mozer, ha avuto Adelmo Blue.
· Nel nome di Mariele Ventre: gli eterni bambini dello Zecchino d’Oro.
Nel nome di Mariele Ventre: gli eterni bambini dello Zecchino d’Oro. Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 su Corriere.it. È il 1968 e Barbara Ferigo, 4 anni e mezzo, di Gorizia, canta Quarantaquattro gatti: vince la 10° edizione dello Zecchino d’Oro. Con lei il Coro dell’Antoniano. Da circa tre anni esiste uno strano club composto da alcune decine di membri d’ambo i sessi, d’età compresa fra i 40 e i 70 anni. Cosa hanno in comune questi signori? L’aver fatto parte del coro dell’Antoniano di Bologna diretto da Mariele Ventre, e in alcuni casi, aver gareggiato allo Zecchino d’Oro (e averlo pure vinto). Il Piccolo Coro dell’Antoniano, creato da padre Berardo e Mariele Ventre, scomparsa prematuramente nel ‘95, è stato ed è qualcosa di più di un semplice coro: fucina di talenti, promotore di una cultura e una tv attenta all’infanzia, vetrina mediatica dell’Antoniano fondamentale per finanziare la mensa di Bologna e le imprese benefiche a favore dell’infanzia in Italia e nel mondo. Recentemente grazie al lavoro di Francesca Bernardi, ex corista, oggi commessa quarantottenne e madre di due figli, accanto al Piccolo Coro ne è sorto un altro, dal nome buffo: i Vecchioni di Mariele. Da chi è composto e perché si chiama così? Questa strana definizione, scherzosamente inventata dalla stessa Mariele Ventre — che definiva “vecchione” qualunque corista che, superati gli undici anni, doveva lasciare il Piccolo Coro —, era un evidente paradosso visto che comprendeva i ragazzini appena usciti dal Piccolo Coro e quelli ormai pensionati da decenni prima. In genere l’«uscita» avveniva fra gli 8 e gli 11 anni. La scelta era legata alla statura o alla timbrica o alle esigenze tecniche del coro. A decidere era insindacabilmente Mariele (vero nome Maria Rachele), la direttrice del coro dell’Antoniano, dolce e inflessibile, per la quale è in corso il processo di beatificazione. A fondare e tenere le fila dell’operazione «Vecchioni» è invece Francesca Bernardi, interprete del 18° Zecchino d’Oro del 1976 con La Teresina. «Sono stata corista fino al 1984 e ho avuto il privilegio di trascorrere l’infanzia guidata da Mariele», racconta. «Dal 2013 sono tornata come “mamma” di due coristi del Piccolo Coro ora diretto da Sabrina Simoni, mentre i Vecchioni sono diretti da Luciana Boriani. La svolta è arrivata nel 2017: partecipo al concorso Saverio Tutino dedicato ai diari con un racconto sulla storia della mia infanzia all’Antoniano intitolato Mi Mu Ma, (di mio, di musica, di Mariele), classificandomi nella lista d’onore. E proprio questo diario scatena in me la voglia di unire il passato col presente, raccogliendo storie, ricordi, notizie del mondo Antoniano, per una valorizzazione e condivisione reciproca. Nel frattempo prende forma il coro dei Vecchioni di Mariele, supportato dall’Antoniano e dalla Fondazione Mariele Ventre. Pur non avendo io una gran cultura musicale, supplisco con la mia passione per la scrittura e la creatività, che trova sfogo nel blog Zucca Zoe». Ora i Vecchioni si riuniscono periodicamente. Parecchi hanno superato i cinquant’anni, ma riescono a produrre le stesse armonie e timbriche di 20-30 anni fa. E mentre cantano scorrono, in perfetta sincronia, foto e video dell’epoca accostati a quelli attuali. La vita nel Piccolo Coro era impegnativa, ricorda Francesca: «Prima Mariele chiedeva ai coristi di imparare il testo a memoria. Poi spiegava il senso della canzone. Infine, noia mortale, lo studio della melodia. “Dovete averla marcia in testa!”continuava a ripetere. E noi l’avevamo tanto in testa che dopo cinquant’anni siamo perfetti come allora». Lezioni ogni pomeriggio: il Piccolo Coro era anche una scuola di vita e disciplina. Ricordate la canzone Fammi crescere i denti davanti? Nel 1962 in concorso la cantò Andrea Nicolai, giunto quarto, ma la incise anche Giacomo Calzolari, voce dell’Antoniano, che oggi ha 55 anni, due figli ed è dirigente di una multinazionale. Per lui il coro è stata una salvezza. Aveva 3 anni e mezzo e aspettava l’uscita della sorella maggiore che era a lezione di danza all’Antoniano. Ebbe uno scontro fisico con i ragazzi del coro. Era iperattivo e non riusciva a sopportare alcuna forma di immobilità o di disciplina. «Venni reclutato non perché sapessi cantare, ma per raddrizzarmi», ricorda Giacomo. «Ci riuscirono dopo vari anni». La sua marachella più famosa avvenne al Quirinale quando il Piccolo Coro dovette esibirsi davanti al capo dello Stato, allora Giovanni Leone. Che tardava. «Allora, ricorda Giacomo, «pensai bene di ammazzare la noia usando il tappo di una bibita per una partitina di mini-calcio sui marmi del Quirinale, che erano una pista perfetta». A un certo punto nella foga di una parata con tuffo una fila di sedie cascò rumorosamente proprio mentre arrivava il presidente. Fu l’unica sberla che Liliana, assistente di Mariele, dispensò in tutta la sua vita. «Quello schiaffo al Quirinale», confessa Giacomo, «ha cambiato il mio carattere e la mia vita. Sono diventato uno studente modello. Ho prestato servizio nei carabinieri e ho portato a termine con successo tutto quel che ho avviato. L’unica cosa che non ho appreso è il canto. Per registrare quel brano ci ho messo otto ore: non amavo fare la parte di quello senza i denti davanti». Nel giugno 2012 Francesca Bernardi crea il gruppo Facebook: Vecchioni Piccolo Coro dell’Antoniano. «Organizzo ritrovi che mi coinvolgono con grande entusiasmo tra racconti di vita e cantate a squarciagola attorno a un tavolo. Lo stesso gruppo formato da 20-25 persone, dal 2016 torna ad essere un coro vero e proprio che canta il repertorio storico dell’Antoniano». I Vecchioni di Mariele alla riscossa. Li rivederemo presto in tv. A Natale dovrebbe uscire la fiction Rai I ragazzi dello Zecchino d’Oro. Francesca Bernardi l’ha vista in anteprima: «Una scena del film ha un significato poetico meraviglioso: interpretiamo un coro di chiesa cui Mariele si ispira per costruire il suo Piccolo Coro». La parte di Mariele è interpretata in tutta la sua virginale bellezza e determinazione da Matilda De Angelis. La vicenda è ambientata nella Bologna degli Anni ‘60. Fra i protagonisti c’è Mimmo ha 9 anni ed è quello che oggi si direbbe un bambino difficile. Forse la musica potrà salvarlo.
· I Tiromancino ed i Zampaglione.
LE CANZONI DEI TIROMANCINO? MEGLIO LE RAPINE IN BANCA! Camilla Mozzetti per Il Messaggero.it il 30 agosto 2019. Prima la musica, le canzoni scritte con e per il fratello, poi la rottura con la band e la virata inattesa. Francesco Zampaglione, classe 1970, fratello del più noto Federico, leader dei Tiromancino, è stato arrestato ieri dagli agenti di polizia del Reparto Volanti e dagli uomini del commissariato di Monteverde dopo aver messo a segno una rapina in una banca sulla Circonvallazione Gianicolense. Erano da poco trascorse le 14 quando Zampaglione nessun precedente di rilievo a carico ha deciso di entrate nella filiale armato di una pistola priva di tappo rosso che si è poi rivelata finta. A volto scoperto, ha intimato agli impiegati di aprire le casse e di tirar fuori il denaro. I dipendenti della banca, spaventati, non sono riusciti ad allertare le autorità e per paura di quell'uomo con una pistola in mano hanno seguito i suoi ordini, svuotando in poco tempo le cassette. Dopo aver riempito un borsone, Zampaglione è uscito dalla filiale usando una delle porte automatiche e in strada, mentre camminava a passo svelto, si è cambiato la maglietta convinto di poter così eludere qualsiasi controllo. Ma un cittadino che si trovava dentro la banca ha deciso di seguirlo a distanza e mentre lo pedinava ha chiamato il 112 specificando nel dettaglio la situazione, la dinamica della rapina, la zona della città e dando delle indicazioni precise alle autorità su dove si stava dirigendo l'uomo, ignaro di essere seguito. Ed è così che gli agenti di polizia sono arrivati a Zampaglione, bloccandolo poi in via di Monte Verde. L'uomo alla vista dei poliziotti, non ha opposto resistenza e in serata è stato trasferito nel carcere di Regina Coeli. L'intera refurtiva è stata recuperata mentre gli agenti hanno rinvenuto in strada la maglietta che indossava Zampaglione durante la rapina e di cui si era poi disfatto una volta uscito dalla banca. Il cantautore solo qualche anno fa aveva detto addio ai Tiromancino. Fu proprio lui in un post a darne l'annuncio: «Purtroppo dopo l'ennesima lite furibonda tra me e mio fratello Federico mi trovo a dover rinunciare mio malgrado al proseguimento del Tour». Era il settembre del 2015.
Ida Di Grazia per Leggo.it il 31 agosto 2019. «Basta con la musica...Parto con le rapine», il post di Francesco Zampaglione pubblicato solo un anno fa sui social ora sa di beffa e sta facendo il giro del web. Il fratello minore di Federico Zampaglione leader dei Tiromancino. Francesco Zampaglione è stato arrestato giovedì dopo aver derubato a volto scoperto e con una finta pistola la filiale di una banca sulla Circonvallazione gianicolense al quartiere Monteverde di Roma. Il 49enne fratello più piccolo di Federico Zampaglione, frontman dei Tiromancino, solo un anno fa aveva postato sui social un post che letto oggi sa di beffa. Su Facebook Zampaglione jr aveva commentato la sentenza del processo sull'indagine "Mondo di mezzo" che riguardava Mafia Capitale e la riduzione di pena a Massimo Carminati (passata dai 20 anni del primo grado ai 14 anni e sei mesi dell'appello ndr.) così: «Mi sembra giusto... ridotta la pena, a Carminati...tanto c'aveva solo una decina di omicidi ... io me so rotto i cojoni, DA DOMANI BASTA MUSICA...PARTO CON LE RAPINE»... proprio le ultime parole famose.
Mattia Marzi e Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 31 agosto 2019. Le ultime canzoni le aveva incise soltanto qualche mese fa in un album che una piccola casa di distribuzione indipendente la Alpha records management è comunque intenzionata a pubblicare. Dentro ci sono parole e suoni che raccontano una storia tutt' altro che malinconica. «Canzoni solari, un po' come è Francesco o almeno racconta la presidente dell' Alpha records, Catia Giordano quel Francesco che io ho imparato a conoscere: un uomo del sud in piena regola, capace di una grande espansività e allegria». Nessuna «ombra» è emersa in quest' ultimo rapporto di lavoro nato nella terra di Zampaglione, la Calabria, che potesse lasciar captare un malessere «tale da giustificare un gesto simile». Quello che poi il fratello di Federico, frontman dei Tiromancino, ha compiuto giovedì scorso, provando a rapinare, armato di una Beretta ad aria compressa e con il volto coperto da occhiali, cappello e foulard, la filiale di Intesa San Paolo sulla Circonvallazione Gianicolense. Le sue ultime canzoni parlano «di sogni, di avventure e di speranze conclude la Giordano il testo principale dell' album è dedicato alla figura materna. Noi non l' abbandoniamo». In queste ore, mentre Zampaglione è rinchiuso nel carcere di Regina Coeli con l'accusa di tentata rapina aggravata, la famiglia resta in silenzio. Il fratello Federico, impegnato con il tour estivo dei Tiromancino, poche ore dopo aver appreso la notizia del suo arresto, ha risposto con un laconico «no comment». Eppure un perché dovrà essere motivato quantomeno di fronte al gip Clementina Forleo, che oggi lo ascolterà in carcere nell' interrogatorio di convalida, sempre che Francesco non si avvalga della facoltà di non rispondere. Per gli inquirenti gli agenti di polizia del commissariato Monteverde e il reparto Volanti della Questura di Roma alla base della tentata rapina potrebbero esserci problemi di natura economica. Pur di arraffare il denaro, Zampaglione aveva morso al braccio sinistro il cassiere della banca ma il colpo, alla fine, non è stato messo a segno: le casse, computerizzate, non si sono aperte e lui è fuggito. Nel suo entourage c'è chi sostiene l'ipotesi che il gesto sia stato dettato da un malessere più grande, intimo. Nella sua carriera, nonostante i successi degli esordi proprio con i Tiromancino, si erano addensate parecchie nubi che avevano profondamente minato il rapporto con il fratello. Tra i due e non è un mistero negli ultimi vent' anni non era corso buon sangue. Tra continue liti per gelosie o divergenze musicali e successive riappacificazioni. La prima rottura, nel 2001, fu resa pubblica e coinvolse anche Riccardo Sinigallia e Laura Arzilli, che decisero di abbandonare i Tiromancino insieme a Francesco mettendo in forse il futuro della band: «Il gruppo sono io», rivendicò il frontman in un' intervista, facendo sapere di essere intenzionato a continuare a portare avanti il progetto insieme ad alcuni turnisti. Suo fratello e Laura Arzilli minacciarono azioni legali: «Tiromancino non è un progetto che fa esclusivamente capo a Federico Zampaglione». Francesco tornò a suonare con la band all' inizio del 2007, registrando insieme l' album L'alba di domani, salvo poi abbandonare nuovamente il gruppo nel 2010 e dedicarsi alla sua carriera solista. Quattro anni più tardi un nuovo riavvicinamento per l' album Indagine su un sentimento, che vide Francesco impegnato oltre che come tastierista e chitarrista anche come produttore delle canzoni (tra queste Liberi, che riportò i Tiromancino in cima alle classifiche dopo un periodo poco fortunato). Dopo una nuova discussione, nel settembre del 2015 Francesco decise di lasciare il gruppo. Chi conosce bene i due fratelli praticamente i Gallagher in salsa romana descrive Francesco come una persona molto fragile, con seri problemi di natura comportamentale, con qualche piccolo precedente per droga, di cui Federico si è sempre fatto carico, cercando di aiutarlo e tutelarlo. Non coinvolto nei festeggiamenti legati ai 25 anni di carriera dei Tiromancino, lo scorso giugno Zampaglione era ricomparso al concerto al laghetto di Villa Ada dell' amico fraterno Riccardo Sinigallia. Il giorno prima dell' arresto aveva invece fatto sapere sui social di essere al lavoro su un nuovo album solista insieme alla sua compagna, l' autrice e fotografa Gioia Ragozzino.
Arrestato il fratello di Zampaglione: «Rapina per problemi di soldi». Pubblicato sabato, 31 agosto 2019 da Corriere.it. A più di 24 ore dall’arresto, sui social c’era ancora qualcuno che pensava fosse una via di mezzo fra una bufala e una trovata pubblicitaria. Poi, dopo la conferma ufficiale, sul profilo di Francesco Zampaglione hanno preso il sopravvento i post di incoraggiamento e vicinanza, perché quello in cui è incappatol’ex chitarrista dei Tiromancino, fratello di Federico, fondatore e frontman dello storico gruppo romano, per qualcuno può anche essere considerato «un (banale?) errore durante il suo percorso di vita». Errore che tuttavia porterà questa mattina il 49enne musicista e compositore davanti al gip Clementina Forleo per l’udienza di convalida a Regina Coeli: è accusato di tentata rapina aggravata e lesioni nei confronti del cassiere della Banca Intesa di circonvallazione Gianicolense, dove nel primo pomeriggio di giovedì Zampaglione è entrato armato di una pistola a gas (scarica), alla quale aveva tolto il tappo rosso. Voleva svaligiare le casse, ma le ha trovate vuote, in attesa che fossero riempite all’apertura della cassaforte a tempo. Tutto questo Zampaglione non lo sapeva e si è invece trovato davanti un cassiere che non si è spaventato per la pistola che impugnava, simile a una vera semi automatica, e ha anzi tentato di bloccarlo, prima all’interno della banca e poi sul marciapiede. «Ha agito per problemi economici», spiega ora chi indaga sulla tentata rapina, che si è conclusa qualche minuto più tardi con l’intervento della polizia avvertita dallo stesso dipendente, contuso e morso a un braccio dal musicista che voleva assicurarsi la fuga. Ma non è andato lontano: ha gettato la pistola sotto un’auto in sosta, si è cambiato la maglietta per confondere i poliziotti, senza accorgersi tuttavia che il cassiere non lo aveva perso di vista e per telefono comunicava tutto quello che faceva alla sala operativa della Questura. Insomma, un assalto in banca disperato e dal motivo per ora sconosciuto, che forse oggi Zampaglione — incensurato e solo con un vecchio precedente di polizia per stupefacenti — spiegherà al giudice. Intanto agli agenti del commissariato Monteverde, dove è stato portato dopo l’arresto, non ha detto nulla. Nei suoi confronti il pm Mario Dovinola ha già chiesto la convalida del provvedimento, poi forse gli saranno concessi i domiciliari. Solo mercoledì scorso, Zampaglione aveva postato su Facebook una foto di sette anni fa con Federico, Claudia Gerini (ex moglie del cantante) e Michele Placido, sul set del film Tulpa-Perdizioni mortali (diretto proprio dal fratello) per il quale aveva composto la colonna sonora. «Ne ho fatte molte — scriveva — finché il mio spirito anarchico mi ha costretto a evitare rapporti con registi e produzioni. Più o meno la stessa idiosincrasia che provo per i cantanti. Ringrazio Dio per avermi costretto a percorrere la strada che mi sta portando a uscire col mio secondo disco solista». Proprio i rapporti con il fratello sono stati più volte al centro delle cronache. A partire dal 2001 quando Federico annunciò in un’intervista su Rockol che Francesco e l’ex fidanzata Laura Arzilli, con il produttore Riccardo Senigallia, erano usciti dai Tiromancino per tensioni interne alla band al culmine del successo, dopo «Alone alieno», «Rosa spinto» e soprattutto «La descrizione di un attimo». «Tiromancino non è un progetto solo suo», aveva risposto il chitarrista che più tardi è tornato a collaborare con lui, fino alla definitiva rottura nel 2015: «Purtroppo dopo l’ennesima e furibonda lite —aveva scritto allora Francesco — mi trovo a dover rinunciare mio malgrado al proseguimento del tour».
“LA RAPINA? ERA UN ATTO DIMOSTRATIVO”. Michela Allegri Camilla Mozzetti per “il Messaggero” l'1 settembre 2019. Un po’ Robin Hood, un po’ il Professore de “La casa di carta”: ha tentato un colpo in banca per protestare contro il “sistema”. Davanti al gip, in sede di interrogatorio di convalida, Francesco Zampaglione non ha nemmeno tentato di respingere le contestazioni. Ha ammesso di avere cercato di rapinare una banca sulla Circonvallazione Gianicolense, nel quartiere Monteverde, a Roma. «Non l’ho fatto per soldi, ho una buona disponibilità economica», ha tenuto a specificare. Poi, ha giustificato quel gesto eclatante: «Era un atto dimostrativo, l’ho fatto per mostrare la disperazione di un comune cittadino nei confronti della politica economica di questo Paese», avrebbe detto. È questo il senso dell’interrogatorio di convalida di fronte al gip Clementina Forleo. Parole che non hanno alleggerito la posizione di Zampaglione, fratello minore di Federico, leader dei Tiromancino: il giudice ha convalidato l’arresto e ha disposto che il musicista resti nel carcere di Regina Coeli, accogliendo la richiesta del pm Mario Dovinola. Perché, secondo gli inquirenti, nonostante Zampaglione abbia utilizzato una pistola giocattolo e non un’arma vera, avrebbe dimostrato propensione a delinquere e potrebbe anche colpire di nuovo. L’atteggiamento mostrato nel corso della tentata rapina, a partire dal modo con cui è entrato in banca – con il volto coperto da un cappello, occhiali da sole e foulard – senza contare l’aggressione ai danni di un dipendente, che è stato morso al braccio sinistro quando si è opposto alle minacce spiegando che non avrebbe potuto aprire delle casse computerizzate, hanno spinto il gip a negare la scarcerazione. Negli ultimi tempi il cantautore, uscito definitivamente dai Tiromancino nel 2015 dopo una lite (l’ennesima) con il fratello, era molto critico sui social nei confronti della politica italiana. «Se costringete la gente a morire di fame, non accettando nessun tipo di soluzione di sopravvivenza, non capite che poi saranno costretti a trovare soluzioni molto più disoneste per vivere?», scriveva domenica scorsa su Facebook, commentando alcune operazioni sull’immigrazione. Mentre risale a un anno fa un post quasi profetico: «Basta con la musica... Parto con le rapine», scriveva parlando della sentenza del processo “Mondo di mezzo” e, in particolare, della riduzione di pena – dai 20 anni del primo grado a 14 anni e 6 mesi – per Massimo Carminati. E proprio sulla pagina Facebook di Zampaglione ieri è comparso un post scritto dalla compagna, Gioia Ragozzino. «Al momento Francesco rimane nell’istituto di pena di Regina Coeli. Sono molto preoccupata perché l’ho visto dilaniato nell’animo e si sentiva a pezzi, il suo sguardo mi rimandava profonda sofferenza e grande tristezza – ha scritto la donna – Ho nominato un avvocato di fiducia, con lui accanto mi si è finalmente accesa la speranza di poter cominciare a combattere e vincere questa battaglia e fare capire a tutti che Francesco è una bella persona ed è piena di cuore. Nella vita a volte si perde l’equilibrio e si cade dove non si dovrebbe cadere».La tentata rapina risale a giovedì scorso. Erano le 15.40 quando Zampaglione è entrato nella filiale di Intesa San Paolo. Stringeva in mano una pistola, che si è poi rivelata finta. Aveva il volto coperto. In pochi minuti ha seminato il panico. Ha puntato l’arma contro gli impiegati, intimando loro di aprire le casse e di tirar fuori il denaro. Ha anche morso il braccio di un commesso. Ma le cassette di sicurezza erano a tempo e non si sono aperte. Zampaglione è fuggito a mani vuote; in strada si è cambiato la maglietta, convinto di eludere i controlli. Ma è stato seguito: uno dei clienti dell’istituto di credito lo ha pedinato a distanza e ha chiamato il 112. In pochissimo tempo, il musicista è finito in manette. È stato fermato dagli agenti del reparto Volanti e condotto prima nel commissariato Monteverde, dove pur mostrando un atteggiamento strano non ha proferito parola: è rimasto seduto su una sedia fino a che non è stato trasferito in carcere.
· Queste vuote teste di "Rap".
I pezzi di alcuni cantanti rap sono agghiaccianti e la cosa peggiore è che fanno proseliti. Mario Giordano il 19 luglio 2019 su Panorama. Bisognerebbe fargli un monumento al prete anti-rap. E invece la sua battaglia, ancora una volta, sta pericolosamente scivolando nel silenzio. E dire che ce l’ha messa tutta don Pietro Cesena, 60 anni, parroco di Borgotrebbia, in provincia di Piacenza, per farsi notare. L’altro giorno, durante la predica, non ha esitato a rompere il tabù della parolaccia: «Stronzi» ha gridato dall’altare, lasciando di stucco le pie donne in attesa di fare la comunione. E poi l’ha ripetuto una seconda volta sempre a voce alta: «Stronzi». E infine ha spiegato il motivo di tanta indignazione in un’intervista al Quotidiano nazionale: «Era ora di fare qualcosa, non si poteva più stare a guardare. Non è possibile che i nostri ragazzi ascoltino da questi stronzi che ciò che vale sono solo la carriera, i soldi, il sesso e la droga» ha detto. E poi ha concluso con parole che avrebbero fatto la gioia di don Camillo: «I rapper? Se li incontro, li picchio». Nelle stesse ore a Jesolo, un gruppo di ragazzi multietnico, un po’ di italiani e qualche straniero, ha preso a botte due bagnini, mandandoli all’ospedale. La colpa dei bagnini? Hanno cacciato i ragazzi dai lettini, dove non potevano stare. Cioè, probabilmente, hanno fatto soltanto il loro mestiere. Ma al di là della ricostruzione della vicenda, e di chi si assume la responsabilità dell’origine della lite, ciò che colpisce è l’arroganza di questi ragazzi, la mancanza di pentimento, l’orgoglio con cui rivendicano la violenza («Era giusto farlo»), prima nei loro video, poi anche davanti ai giudici, la certezza di essere dalla parte della ragione e di avere, per questo, pure l’approvazione di mamma e papà («I genitori sono d’accordo con noi»). Tutti elementi di uno spaccato adolescenziale da paura. Che c’entrano, però, i baby violenti di Jesolo con il prete anti-rap di Borgotrebbia? Perché li ho messi in collegamento? Semplice: perché sul Corriere della sera ho trovato un articolo che tracciava il profilo dei violenti della battigia. E cominciava così: «Si muovono in gruppo, ascoltano musica trap e uno dei loro miti è il rapper Mostro». Mi è venuta la curiosità di andare a leggere i testi di questo cantante (si fa per dire) che fin dalla scelta del nome di battaglia appare piuttosto aggressivo. E ho letto espressioni di odio alla vita, inviti più o meno larvati a sballare, aggressività. «Mostro è tornato, simpatico come un conato» canta (si fa sempre per dire). E poi ancora: «Senza chiedere aiuto, continuo a fottermi la vita». E poi ancora: «Ho troppo odio in corpo... Brutta stronza fallo forza, se non vuoi un buco in faccia». Ho pensato che sarebbe bello se don Pietro incontrasse il Mostro (simpatico come un conato) in mezzo a una strada. Magari finirebbe tutto a tarallucci e vin santo, forse si troverebbero ad alzare il calice della messa per un brindisi a base di birra, forse si accorgerebbero che è tutto uno scherzo da prete. Ma se invece il Mostro si prendesse una sacrosanta lezione e due schiaffoni, non sarebbe meraviglioso? Perché è vero che, da che mondo è mondo, i più anziani non hanno mai capito le canzoni dei più giovani. Ma è anche vero che mai come ora dentro le canzoni dei più giovani c’è stato tanto odio, disprezzo, nichilismo. Vuoto cosmico riempito di violenza verbale. La polemica era già esplosa qualche mese fa, dopo la tragedia di Corinaldo, nella Marche. Sei morti, oltre 50 feriti al concerto di Sfera Ebbasta, frequentato da ragazzini tutti impazziti per le sue canzoni. Ma cosa dicono le sue canzoni? ci si chiese allora. Ed ebbero un po’ di risonanza i testi più famosi. Come: «Hey troia, vieni in camera con la tua amica porca, quella dell’altra volta». Oppure: «Pusher sul mio iPhone, pute (puttane) sul mio iPad, fanculo il Moet prendiamo tutto il bar». Emerse chiaro, già allora, che lo spazio riferimento, di quest’uomo è tutto compreso tra l’iPhone e l’iPad, arricchendosi ora di troie, ora di pute, ora di sostanze eccitanti («sciroppo cade basso, come l’Md») e ora di soldi («Solo facendo soldi senza più pensieri»). E la domanda che ci si fece allora è: può essere costui un modello, un campione, un esempio per l’esercito dei 14-15enni? Purtroppo la domanda di allora è la stessa che ci poniamo oggi. Non è cambiato molto, se non che alcuni di quei 14-15enne che a Corinaldo volevano solo divertirsi non ci sono più. Sfera Ebbasta, invece, ha ripreso i concerti, riempendosi le tasche di applausi e soldi. Buon tour, sia chiaro. Ma speriamo che almeno una delle tue tappe sia nel paese di don Pietro...
I rapper che amano la mamma: «Se non piaci a lei, non piaci a me». Pubblicato martedì, 26 novembre 2019 da Corriere.it. «Se non piaci a mamma, tu non piaci a me» intima il rapper Ghali, mentre il centravanti dell’Inter Lukaku stende il Milan nel derby con un gran gol, e fa il gesto del ciuccio a pochi millimetri dalla telecamera dedicando la prodezza in diretta HD alla mamma, ripetendo poi il concetto sui social media, «l’unica donna che conta nella mia vita». L’idolo Trap Sfera Ebbasta canta «Mamma sai che a parte te non amo nessun’altra» e appare sui social abbracciato alla mamma. Sfera e Ghali, milanesi (uno di Cinisello Balsamo, l’altro di Baggio) e il calciatore belga ora milanese d’adozione sono solo gli ultimi in ordine di tempo, a rivendicare con orgoglio il loro amore filiale, in una sorta di “mammone pride” intramontabile.
Adesso che ha compiuto settant’anni e la rabbia giovane del ragazzo magrolino sulla copertina di Born To Run ha lasciato il posto al sorriso saggio dell’artista che non può più nascondersi dal ruolo, inevitabile, di anziano maestro le cui canzoni di ieri e di oggi diventeranno la musica classica di domani, Bruce Springsteen può guardare indietro a un’opera omnia innegabilmente unica. Ha raccontato l’America del suo tempo attraverso il racconto della sua vita, come solo gli artisti più grandi riescono a fare. Ha cantato il dolore e l’umiliazione degli uomini marginali tagliati fuori da tutto — nel ricordo del padre disoccupato che beveva troppo — e ha cantato l’alienazione dei reduci e l’odio che subiscono i neri, e in tutto questo non ha mai perso di vista la grandezza, nonostante tutto, dell’America. Ha scritto tante canzoni d’amore, più o meno capite — al momento dell’uscita — dal pubblico al di fuori di quello amorevole e ossessivo dei fan più attenti. Canzoni sulle sue donne di un tempo (Rosalita) e sulla fine del suo primo matrimonio (Brilliant Disguise), sull’amore per l’amico e fratello Clarence Clemons che conobbe da ragazzino (è lui il «Big Man» di Tenth Avenue Freezeout) in una notte. E una canzone, Tougher Than the Rest, che pensava di aver scritto per la sua prima moglie e invece capì essere dedicata a quella che sarebbe diventata la sua seconda, e attuale, consorte — Patti Scialfa. Ma la canzone d’amore più commovente della sua vita, quella che lo emoziona al punto di aver invitato più d’una volta sul palco la sua musa, la donna alla quale è dedicata, è The Wish, dedicata a sua madre Adele. La donna che gli comprò la prima chitarra elettrica, contro il volere di suo padre: «È un mondo davvero strano mamma, se i desideri di un bambino si avverano / Ne ho ancora qualcuno in tasca, e uno speciale per te...». Springsteen ricorda la sua infanzia, sua madre «con i bigodini rosa e i pantaloni da torero», il piccolo Bruce che balla per gli zii e le zie, e poi Bruce adulto, famoso, la rockstar che canta per mamma Adele nella sua cucina, «oggi canto su richiesta, e questa è tutta per te». Oggi la signora Adele ha più di novant’anni, suo marito è scomparso da più di un ventennio, ma ogni tanto Springsteen la porta ai concerti, la presenta al pubblico, balla con lei. Dalla musica allo sport, le mamme hanno un posto speciale nel cuore di tanti figli famosi. Nel caso di Springsteen la mostra che in New Jersey rende omaggio ai suoi settant’anni — Springsteen: His Hometown, inaugurata al Monmouth County Historical Association Museum di Freehold — presenta un tesoro di memorabilia sulla carriera del Boss, ma soprattutto gli album di ritagli che la signora Adele, dalle prime menzioni sui giornaletti locali fino alle copertine delle riviste, ha raccolto religiosamente in tutti questi anni. Ellen Harper, che ha da poco pubblicato un album di musica folk colto e benissimo eseguito, e cantato con una voce bellissima, ha lo stesso cognome di Ben Harper la rockstar, perché Ellen, 72 anni, è sua madre: cantante folk la cui carriera era rimasta underground finché il figlio famoso, ogni tanto, non ha cominciato a invitarla sul palco: «Questa è la voce che mi ha fatto addormentare con una canzone, tutte le sere, quando ero bambino», spiegava regolarmente, e un boato accoglieva l’arrivo in scena di mamma Ellen con la quale faceva sempre lo stesso duetto, Tomorrow Is a Long Time di Bob Dylan.
Kanye West, sempre più eccentrico rapper e stilista, tra un’azzardata tesi di revisionismo storico sullo schiavismo, un endorsement di Donald Trump e l’ammissione di soffrire di disturbi psichici ma di essere contrario ai farmaci, nei purtroppo rari momenti di lucidità non dimentica di rendere omaggio alla madre scomparsa nel 2007, Donda West. A Donda ha dedicato una canzone, Only One, con un incipit che dice tutto, «quando sto per addormentarmi sento la sua voce». E Hey Mama, sempre dedicata a lei, rappresenta una delle performance dal vivo più famose della storia dell’hip-hop: quando Kanye, alla 50esima edizione dei Grammy, nel 2008, iniziò con le parole «ieri notte mi sei apparsa in sogno, non vedo l’ora di tornare a dormire» e finì la canzone in ginocchio, incapace di continuare. Da allora, gli capita spesso di non riuscire a eseguire questa canzone dal vivo — troppo doloroso. È la sua Sad Eyed Lady of the Lowlands, la canzone lunga 11 minuti che Bob Dylan scrisse nel 1966 per Sara, la sua ex-moglie, madre di Jakob, e che da allora non ha mai eseguito dal vivo.
Ma il rapporto tra i rapper e la mamma è una costante: Snoop Dogg ha scelto la linea della chiarezza, I Love My Momma il titolo, e un testo che tra l’altro spiega come «mi ha insegnato tutto senza chiedere niente» per poi chiudere in modo abbastanza macabro («per nove mesi mi hai portato con te, spero che sarai tu a seppellire me e non il contrario») ma perfettamente in linea con la filosofia “gangsta”. Jay-Z ha messo la voce della mamma in una sua canzone, I Made It, nella quale le promette che dopo tanti sacrifici per lei «ogni giorno sarà Natale» perché «ce l’ho fatta». Ma è 4:44 la canzone nella quale la signora Carter fa coming out: «La mamma ha avuto quattro figli ma è lesbica, ha dovuto fingere per tanto tempo». Parlando poi al talk show di David Letterman su Netflix, il rapper ha ammesso di aver pianto quando la madre ha ammesso, parlando con lui, la propria omosessualità: «Mi ha detto, credo di amare una persona... A quel punto ho capito che era libera, finalmente». Jay-Z dimostra sensibilità non comune nel mondo del rap americano spesso misogino e/o omofobo; Eminem, incapace di non fare scandalo, ci è riuscito anche con una canzone, My Mom, dedicata alla mamma Debbie, da lui accusata di aver usato droga quando era bambino, trasmettendogli la dipendenza: «Mia mamma amava Valium e tante altre droghe. Sono così perché sono come lei... mi faccio perché sono mia mamma».
Qualche anno più tardi però con Headlights, Eminem ha lanciato una sorta di dichiarazione, una tregua con sua madre: «E allora mamma per piacere accetta questa canzone come un omaggio... dovevo sfogarmi, credo... Ti amerò sempre da lontano perché sei la mia mamma». Altri livelli di poesia quelli di Tupac Shakur, che, con Dear Mama dedicata a mamma Afeni, firma una lettera d’amore che non fa sconti a un passato difficile ma trova la forza del perdono, in qualche modo. «Anche quando eri indemoniata di crack eri una regina nera mamma / Adesso finalmente capisco che per una donna non è facile allevare un uomo / Ti impegnavi sempre, una mamma single che viveva di sussidi, spiegami come hai fatto / Non potrò mai ripagarti ma ho un piano: mostrarti che ho capito, che sei apprezzata».
I tifosi italiani rimasti sorpresi dal gesto di Lukaku — il bacio e la dichiarazione d’amore alla mamma — non hanno letto, l’anno scorso, un’intervista rilasciata a un giornale inglese quando il centravanti era a Manchester. Lukaku ha raccontato la povertà provata da bambino, improvvisamente, dopo la fine della carriera di suo padre calciatore. Pranzi e cene a base di pane e latte, il pane comprato a credito dal fornaio e il latte sempre più allungato con l’acqua per farlo durare più a lungo, gas e luce tagliati per morosità, le docce fredde, la quieta decisione del piccolo Romelu — diventare professionista al più presto possibile per aiutare la mamma, e sottrarla a quella vita umiliante. «Chiesi a che età si poteva diventare professionisti, mi dissero a sedici anni, decisi che l’avrei fatto. E che avrei giocato nell’Anderlecht». Così è stato: il debutto a sedici anni, l’Anderlecht, la Nazionale, il Manchester United e l’Inter. Ecco così allora la dedica a mamma Adolphine.
Elodie, J-Ax, Thegiornalisti: il tormentone è "sovranista". Sempre meno stranieri in classifica. Il pop in italiano conferma che il pubblico premia le nostre canzoni. Paolo Giordano, Mercoledì 31/07/2019 su Il Giornale. Prima gli italiani. Per carità, qui non si parla di politica ma di musica, quella leggera. Basta dare un'occhiata alle classifiche per accorgersi che la gara al tormentone è praticamente solo italiana, vista l'assenza quasi totale di concorrenti stranieri. Dunque, per quanto riguarda le radio, che restano sempre il vero motore di diffusione popolare del pop, nella top ten ci sono nove italiani su dieci (gli unici stranieri sono Shawn Mendez e Camila Cabello con Senorita).In testa ritorna Ostia lido di J-Ax, che è presente anche in Senza pensieri di Fabio Rovazzi al fianco di Loredana Bertè al nono posto. E poi, in ordine di apparizione nella top ten di Earone, ci sono Jambo di Takagi&Ketra con Giusy Ferreri, Nuova era di Jovanotti, Mambo salentino di Boomdabash con Alessandra Amoroso, Maradona y Pelè dei Thegiornalisti, Senorita di Shawn Mendes con Camila Cabello, Calipso di Charlie Charles con Dardust e i feat. di Fabri Fibra, Mahmood e Sfera Ebbasta, Margarita di Elodie con Marracash e Piece of your heart del trio di produttori italiani Meduza. Idem per le classifiche della Fimi: nove su dieci. A parte Senorita di Mendes e Cabello che è in testa, tutti gli altri, da Dove e quando di Benji & Fede passando per Yoshi e Ho paura di uscire del potentissimo collettivo rap Machete fino ad Ancora una volta con Fred De Palma e Ana Mena sono italiani.
In poche parole, è uno strapotere. Se si pensa alle estati degli anni Ottanta o Novanta, la controtendenza è evidente. Giusto per fare un esempio a caso, nella top ten dei singoli più venduti del 1984, c'erano soltanto due canzoni italiane (Fotoromanza di Gianna Nannini e Self control di Raf), mentre tutte le altre, da I just called to say I love you di Stevie Wonder, a All night long di Lionel Richie o Careless whisper degli Wham! erano anglosassoni. Nell'era della globalizzazione, c'è una localizzazione diffusa dei gusti, frutto anche della omogeneità di suoni e mode musicali. In sostanza, a parità di struttura musicale, specialmente d'estate vince il «tormentone» del quale si può capire il testo, cantare le parole e farle diventare di uso comune. L'anno scorso, lo ricordate?, il «vocale di dieci minuti» dei Thegiornalisti era diventato un intercalare anche nei discorsi sulle spiagge. Quest'anno i versi «cult» sono quelli adottati dal testo neorealista di J-Ax in Ostia Lido: «Tra i maschi lo sport più diffuso sulla spiaggia/ È ancora trattenere il fiato, tenere dentro la pancia/ Lui si porta i libri di Kafka/ Ma poi studia solo ogni culo che passa». E, al di là del vintage dei Thegiornalisti con «Maradona è megl' 'e Pelé» che riporta alla curva del San Paolo ai tempi di Dieguito, c'è anche il «E quando io ti guardo mentre passi, fai vibrare pure i sassi» della Nuova era di Jovanotti impegnato in un tour che passerà alla storia come uno dei più coraggiosi e divertenti degli ultimi anni (nonostante le polemiche che spesso paiono strumentali). In più, nella corsa al trono del tormentone 2019 sembrano molto ridimensionate le sonorità tipicamente trap che, fino a poche settimane fa, sembravano destinate a conquistare il mondo. Seguendo una tendenza molto più evidente in altri mercati, ad esempio quello americano, la struttura musicale della trap, già timidamente riconoscibile, si è allargata al pop. E i «portavoce» radiofonici di questa tendenza sono sparpagliati in classifica dietro a Calipso del «boss» Charlie Charles con il bravo Ghali di Turbococco che è il più trasmesso di tutti al ventesimo posto. Alla fine, il tormentone che verrà «incoronato» il 9 settembre all'Arena di Verona ai Power Hits Estate di Rtl 102.5 sarà anche stavolta italiano. Un segno (importante) dei tempi.
· Chi decide cosa ascoltiamo?
CHI DECIDE COSA ASCOLTIAMO? Lorenzo Vendemiale per il “Fatto quotidiano” il 14 Giugno 2019. "Tu decidi il tempo, il senso e la durata, il talento è fuori dalla tua portata": era il 2005 quando Renato Zero cantava Radio o non radio, atto d' accusa ai grandi network, colpevoli di scegliere la musica in base all' interesse e non al merito, determinando il successo o l' insuccesso di un pezzo, addirittura di un artista. Sono passati anni, è cambiata la scena musicale italiana e il mondo radiofonico nell' era digitale, non la polemica, dalla battaglia per le "radio pulite" di Edoardo Vianello agli attacchi di Francesco Baccini e Tosca. L'ultimo, soltanto in ordine di tempo, è Francesco De Gregori: nel suo splendido concerto alle Terme di Caracalla il cantautore ha ricordato come le sue Pezzi di vetro e Sempre e per sempre non siano mai state hit perché le radio "trasmettono solo musica di merda". Di sicuro, trasmettono sempre la stessa musica.
Prendiamo la Top Ten italiana delle rotazioni radiofoniche, registrata ogni settimana dal portale EarOne. A inizio giugno troviamo Tiziano Ferro e Elisa, Ligabue e TheGiornalisti: tutti i big che non potrebbero mancare in una hit-parade. Ancora più interessante è guardare la classifica non per cantanti, ma per etichette: le case più famose si spartiscono le migliori posizioni. Quattro per Island Records, tre per Sony, due alla Warner, una alla Virgin: praticamente un manuale Cencelli della musica. I rapporti con le major sono fondamentali, bisogna stare attenti a non scontentare nessuno. Quando esce una canzone nuova di un artista top per una grande etichetta, entra direttamente al primo posto o giù di lì; la casa discografica produce un comunicato stampa trionfale e il gioco è fatto. Il successo, tale o presunto che sia, si autoalimenta. Con i primi posti monopolizzati, però, per le piccole firme non c' è spazio. "Quello che passa in radio lo decidono le radio", diceva Laura Pausini. Sembra un' ovvietà ma non lo è. Ci sono logiche complesse, regole ben definite, una sintassi da seguire: un brano musicale ogni 2-3 minuti di parlato, la sequenza di canzoni secondo un ordine preciso. Prima un successo consolidato per agganciare l' ascoltatore, poi un disco nuovo per conquistarlo. Funziona così. "La scelta delle canzoni da passare si basa essenzialmente su due criteri: il suono e l' interesse", spiega chi in radio ci lavora da una vita. Nelle rotazioni troviamo al 50 per cento brani che la gente si aspetta di sentire (gli ascolti sono tiranni, il pubblico va accontentato), al 50 per cento brani che il network vuole "spingere". Sono interessi di vario tipo, spesso intrecciati con quelli delle case discografiche. Il più smaccato è la promozione di un cantante della propria scuderia, visto che a volte un network possiede anche una sua etichetta. Ancora più frequenti sono le partnership: se una radio sponsorizza il concerto di un artista, oppure ha il suo nuovo singolo in anteprima, lo trasmetterà più e più volte al giorno (mentre sul principale competitor lo ascolterete il minimo indispensabile). E poi ci sono i rapporti personali, i suggerimenti informali, le richieste di favori. In tutto ciò non c' è nulla di illegale.
"Si tratta solo di un discorso commerciale", conclude l' esperto. "Però il mecenatismo musicale, se mai è esistito, è finito". In questo ingranaggio restano schiacciati gli autori più giovani, le etichette minori, i pezzi di nicchia: non li ascolterete mai, o solo raramente. Le eccezioni sono poche, ancor meno i casi di chi scommette su un autore per puro gusto artistico. Certo, negli ultimi anni si sono affermati anche nuovi canali, come Spotify o Youtube, dove la musica la sceglie l' utente: da questi ascolti però agli artisti viene in tasca solo una piccola percentuale, il business resta nei circuiti tradizionali dove la radio gioca un ruolo decisivo. La stessa ondata della cosiddetta musica "indie", che ha aperto le porte a una nuova generazione di cantanti, appena ha varcato le porte del mainstream si è un po' stereotipata, tra chi ha cambiato genere o proprio etichetta per adeguarsi alle logiche dell' industria radiofonica. "Radio o non radio, questa musica raggiunge la sua meta", cantava Renato Zero. Con un grande network alle spalle però è più semplice.
· Disco rotto. Meglio Live.
DISCO ROTTO! BASTA INCISIONI, MEGLIO I LIVE. Stefano Mannucci per “il Fatto Quotidiano” il 5 agosto 2019. Sul ponte della musica sventola bandiera bianca, o quasi. Ad agitare il vessillo della resa è stata, stavolta, Sheryl Crow. Il suo nuovo album Threads uscirà il 30 agosto, ma la cantautrice ha già deciso che sarà l' ultimo. A sentir lei, la gente non ha più voglia o tempo per ascoltare un' opera articolata come una raccolta di canzoni. Ne può bastare una. Il passaggio potrebbe essere epocale, ma non lusinghiero. Ci avventuriamo verso l' era tirannica dei 45 giri virtuali, sparsi lungo il cammino di un artista senza che il vecchio long-playing ne certifichi un' ambizione più corposa? E i musicisti italiani? Si stanno rassegnando al diktat tecno-antropologico o resistono in trincea?
Lo abbiamo chiesto ad alcuni di loro. Giuliano Sangiorgi si affida all' autocitazione: "3 minuti solo 3 minuti per poterti dire cantavo e finivo così, restando sospeso tra il detto e non detto, in una canzone che sotto il vestito accomodante dell' amore nascondeva una critica alla costrizione radiofonica di avere un tempo massimo per esprimere un concetto musicale. Era il 2005, non parliamo di un passato così lontano. Erano solo 3 minuti all' epoca: oggi sembrerebbero uno spazio/tempo lunghissimo per potersi esprimere", riflette il leader dei Negramaro. E ora? "Si ha poco tempo da dedicare alle persone, immaginiamoci alla musica. Per cui, in tutto questo ridursi all' osso del tempo a disposizione, soffre anche il concetto 'antico' di album. Non si ha tempo, sembra, per l' ascolto lento e lungo di un intero lp", spiega. "Così basta un singolo per conoscere o conoscersi, in maniera superficiale e casuale. Ogni artista ha solo quei tre minuti per far capire tutto di sé e della sua visione. Un tempo lunghissimo, addirittura, considerato oggi. Un singolo brano racchiude il suo cammino. Si gioca il tutto per tutto in quei pochi minuti, ma che sembrano una carriera intera". Qual è il rischio, in un simile scenario? "Da un lato", argomenta Sangiorgi "di non riuscire a dire o cantare nulla, dall' altro c' è la sfida continua di poter creare un' opera compiuta in un tempo così piccolo. Io sono in bilico, nel mezzo. Resto un nostalgico amante del lungo periodo di gestazione che serve a partorire un album che resti e un eterno sfidante che vuole misurarsi continuamente con l' evoluzione dei tempi". Per cui? "Continuerò a scrivere gli album finché avrò tanto da dire ma profitterò della possibilità che mi si darà di dire tutto di me in solo 3 minuti. Ci proverò, sempre, a parlare la lingua del mio tempo anche quando questo sarà piccolo, così piccolo da far scomparire anche la canzone stessa".
Anche Fabrizio Moro , mentre scalda i motori per il tour, si chiede in quale modo praticare una forma di resistenza: "Inutile la nostalgia. È evidente che fra le nuove generazioni l' approccio alla musica è totalmente cambiato", ammette l' autore di Figli di nessuno. "I ragazzi si sono abituati alle playlist, sono quelle i loro album. Capisco la provocazione della Crow e di tanti colleghi che pubblicano canzoni con cadenza periodica, raccogliendole magari in un album a chiusura di un percorso prestabilito. Ma è una strategia di marketing, non un' opzione creativa", sostiene Moro. "Quanto a me, nasco sul palco, mi emoziono e gratifico molto di più in concerto che non in studio. Realizzo dischi per poter suonare dal vivo le nuove canzoni. È un privilegio al quale non rinuncerò mai, qualunque sia il destino degli album". Diodato è più pragmatico. Confida di aver concluso il lavoro sulla prossima raccolta di inediti, e intanto ha saggiato il terreno con l' ironico singolo Non ti amo più. "Sì, lo step by step mi è servito per elaborare le lunghe fasi di lavorazione di un album. A volte ti trovi con dischi freschi di uscita ma composti anni prima. Nati già vecchi. La tecnologia virtuale offre nuove chance, tutto va in quella direzione". Ma Diodato non alza le mani: "L' album resta un feticcio decisivo, anche per regalare qualcosa al pubblico. È un elemento del merchandising, come la spilla o la maglietta, ma più sostanzioso. E se il prodotto fisico rischia di morire lo salveremo col vinile".
Sulla stessa linea c' è Renzo Rubino : "Il ritorno del vinile dimostra che l' album sia un elemento fondamentale del nostro lavoro. Racchiudere in un disco un certo numero di canzoni è l' approdo di un percorso fatto di idee, registrazioni, incontri, alchimie. Però", argomenta Rubino, "rivendico il diritto di viaggiare leggeri, offrendo frammenti di quotidianità con un brano che non farà parte di nessun album, come ho fatto giorni fa con Dolce Vita. Avevo voglia di raccontare un sentimento, e l' ho fatto senza attendere un progetto più complesso", conclude Rubino. Ma che ne sarà dei cantautori di nicchia, che non sentono la pressione del mercato? Ivan Talarico , apprezzato con il suo 'gaberiano' Un elefante nella stanza, la mette giù così: "Manca la disponibilità per sentire un disco: tutto è frantumato. Ormai basta una canzone, da tenere in testa per una stagione e dimenticare per il resto della vita. E forse, in assenza di concept album indispensabili, va bene così. Ma tra poco non avremo nemmeno più tempo per pensare, o per vivere", profetizza Talarico. "La colpa però è anche nostra. Io ho appena registrato un disco ma non ho avuto il tempo di sentirlo per intero".
· Ecco come funziona l'organizzazione dei concerti live in Italia.
Valeria Costantini per il “Corriere della Sera” il 6 luglio 2019. Dieci migranti clandestini al lavoro allo stadio Olimpico per smontare il palco del concerto di Ultimo: venivano pagati quattro euro l' ora e in nero. Oltre agli stranieri però i militari del Comando provinciale della Guardia di finanza hanno certificato la presenza di ulteriori venti operai irregolari. Il blitz è scattato al termine dell' evento musicale di grande richiamo, oltre sessantamila gli spettatori accorsi per il giovane cantante romano: il pubblico stava ormai in gran parte già abbandonando l' arena quando i baschi verdi sono entrati in azione. Nel frattempo gli addetti erano al lavoro sul piazzale per le pulizie o intenti a guidare i macchinari per dividere i blocchi, con cui vengono di solito allestiti i palchi. Come da prassi per i controlli nel mondo del lavoro, i finanzieri del 3° Nucleo operativo metropolitano Roma hanno eseguito quelle che vengono definite «interviste», dialoghi informativi, con ogni singolo operaio. Non hanno impiegato molto tempo per scoprire l' ennesimo «buco nero» del mondo del lavoro. Dal monitoraggio è emerso come su oltre sessanta addetti identificati, circa trenta fossero in realtà fuori norma, nel dettaglio dieci migranti clandestini e altri venti irregolari. La maggior parte degli stranieri era di provenienza africana, alcuni originari del Bangladesh: molti di loro hanno mostrato permessi di soggiorno non a norma o scaduti, altri ne erano totalmente sprovvisti. Gli operai hanno raccontato ai finanzieri di non avere contratti veri e propri e che sarebbero stati pagati in contanti alla fine della lunga giornata di lavoro, in fondo alla quale li attendeva una paga di quattro euro l' ora. La tariffa sindacale per il settore invece è di sei euro e mezzo lordi. I controlli allo stadio Olimpico sono stati effettuati con la collaborazione della Questura, in particolare degli agenti del commissariato Prati: la task-force ha così potuto scoprire che, tra i migranti, c' era anche un cittadino della Sierra Leone già colpito da un decreto di espulsione. L' extracomunitario era stato fermato e identificato in diverse occasioni sul territorio italiano dalle forze di polizia e sempre senza permessi di soggiorno in regola, tanto da far scattare il foglio definitivo di via dall' Italia, che però ovviamente non è stato rispettato. L' attività di indagine della Finanza è tutt'ora in corso per accertare le posizioni, la regolare assunzione e la situazione contributiva e assistenziale di tutti gli addetti identificati. C' è poi il filone collegato direttamente ai responsabili dei lavoratori irregolari individuati: si indaga infatti sulla posizione delle cinque società coinvolte nella gestione logistica e nell' organizzazione del concerto. Si tratta di grandi ditte, solitamente vincitrici degli appalti per i più noti eventi musicali della Capitale e non solo. Non certo la prima operazione del genere, nell' ambito del contrasto al lavoro nero, messa a segno dalla Guardia di finanza, attiva spesso anche nell' attività di prevenzione del complesso fenomeno.
GUERRA AI BAGARINI. Andrea Sparaciari per it.businessinsider.com il 9 luglio 2019. Una nuova legge (inattuabile) voluta dal Movimento Cinque Stelle per combattere il problema del bagarinaggio online, che invece colpisce i promotor dei concerti, i quali, a loro volta, negano che il secondary ticket sia un problema e che, comunque, non propongono soluzioni serie per combatterlo…È il circolo vizioso che sta avvelenando il mondo della musica live italiana. Con la conseguenza che i primi a essere danneggiati sono gli utenti della musica live, cioè noi che andiamo a sentire i concerti, che ci ritroveremo a breve con prezzi più alti per i tagliandi, meno concerti da sentire e l’impossibilità di rivendere i biglietti dei live ai quali non possiamo partecipare. Con il bonus track (è il caso di dirlo), che il secondary ticketing continuerà a prosperare. Insomma, una storia tipicamente italiana. Per raccontarla, conviene partire dalla fine, cioè dall’entrata in vigore, il 1° luglio 2019, del “biglietto nominale obbligatorio”, introdotto in extremis con l’ultima Legge Finanziaria dall’emendamento a firma Sergio Battelli, deputato M5S, una norma simile a quella dei biglietti del calcio, i quali però divennero nominali per motivi di ordine pubblico. Con la nuova legge, per acquistare un biglietto per un qualsiasi concerto che si svolga in un luogo con capienza superiore a 5000 persone, onde evitare che i robot acquistino centinaia di tagliandi (da rivendere poi sui siti a 10 volte il costo), è prevista “l’identificazione dell’acquirente sul sistema on line attraverso registrazione di nome, cognome, data di nascita, indirizzo di posta elettronica e numero di telefono cellulare, uno per ciascun utente che sarà riscontrato ai fini della conferma nella fase di registrazione. In alternativa, chi deve comprare il biglietto può essere identificato sul sistema on line tramite la propria identità Spid”, spiega Assomusica, l’associazione dei promoter di musica dal vivo. Una buona cosa, si potrebbe pensare di primo acchito. Ma, come ha sottolineato Assomusica durante un’inedita conferenza stampa l’8 luglio scorso a Milano, che per la prima volta ha visto tutti gli organizzatori seduti allo stesso tavolo – mancava solo Claudio Trotta di Barley Arts, il promoter che per primo aveva sollevato la questione secondary ticketing, favorevole alla legge – le cose non stanno propri così. Gli organizzatori prevedono infatti un aumento medio di 8-10 euro a tagliando per le spese di sicurezza, nonché un dilatamento dei tempi di attesa ai cancelli d’ingresso prima dei concerti a causa delle operazioni di identificazione del pubblico. Non solo, con le nuove regole, il privato che intende rivendere un biglietto nominale, si troverà davanti a un percorso tortuosissimo e costoso. Non sarà infatti possibile andare su facebook e postare: “Ho due biglietti per Vasco domani sera, chi li vuole…?”. Le procedure per il cambio del nominativo dovranno passare attraverso l’Agenzia delle Entrate: l’interessato dovrà restituire il tagliando cartaceo al circuito sul quale lo ha acquistato, che lo comunicherà all’Agenzia delle Entrate, la quale annullerà il primo nome, rispedendo il tagliando al venditore, che lo rimetterà in vendita e, solo quando arriverà un secondo acquirente, il compratore originario potrà ricevere i suoi soldi, decurtati però di una percentuale, che è il costo dell’operazione. Un meccanismo perverso destinato a fallire che, tra l’altro, comporterà un abbattimento degli acquisti: chi comprerà un biglietto per un concerto magari dell’anno successivo, sapendo che se non potesse andarci, non avrà modo di rientrare della spesa, rivendendo il tagliando…?
Altro punto critico – secondo Assomusica – è che la norma Battelli esclude dal biglietto nominale “le manifestazioni sportive e gli spettacoli di attività lirica, sinfonica e cameristica, prosa, jazz, balletto, danza e circo contemporaneo”, creando una disparità di trattamento. Un confine che lascerebbe spazio a molti fraintendimenti: tanti artisti, ad esempio, oltre alla musica pop, fanno anche jazz o lirica… Per questo gli operatori della musica si sono riuniti e hanno lanciato una campagna per far cambiare le regole. “Quest’emendamento approvato nell’ultima Legge di bilancio del governo come strumento di contrasto al fenomeno del secondary ticketing – spiega il presidente di Assomusica, Vincenzo Spera, – rischia di generare soltanto un grande caos”. Lo spiraglio potrebbe essere un emendamento alla Legge sulle Fondazioni liriche da oggi in discussione: il piano di Assomusica è fare pressione e sfruttare questa occasione per “congelare” il biglietto nominale e ridiscutere interamente la faccenda. Tuttavia, ciò che Spera non dice è che se si è arrivati a questa situazione allucinante, gran parte della responsabilità ricade proprio sui suoi associati, i quali non hanno mai seriamente pensato di combattere il bagarinaggio online né fatto una sana autocritica. Ufficialmente, “per limitare il fenomeno del “bagarinaggio online” Assomusica “ha presentato di recente un esposto denuncia all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) e all’Antitrust (AGCM) per chiedere di sanzionare i siti di secondary ticketing. Si possono chiudere tutti i siti di rivendita dei biglietti o si possono utilizzare delle app che consentono di tracciare l’eventuale passaggio di mano dei biglietti già emessi. Si possono anche legalizzare questi siti facendoli passare per l’Agenzia delle Entrate e stabilire un tetto percentuale massimo per la rivendita. In Germania, ad esempio, l’Alta Corte ha stabilito il 20% massimo rispetto al prezzo di vendita. L’Italia resta di fatto l’unico Paese europeo dove sopravvive ancora il bagarinaggio, perfino nel calcio dove pure è stato introdotto da tempo, per esigenze di sicurezza, il biglietto nominativo”. Tradotto, la soluzione proposta dai promoter per combattere la piaga del bagarinaggio è chiudere i siti dei bagarini online (cosa evidentemente infattibile), oppure legalizzarlo (“perché fisiologico”, è stato detto), ponendo dei limiti al rincaro praticato sul prezzo iniziale del biglietto. “Del resto, se vuoi una cosa, ma costa cara, è tua la scelta se comprarla o meno”, ha detto un promoter durante la conferenza stampa milanese. Altri, invece, hanno affermato che i biglietti sul circuito secondario sono solo poche centinaia per concerti da decine di migliaia di posti, e che quindi si tratta di un problema marginale “ingigantito dai media”. Altra posizione assai discutibile. La condizione odierna è da imputarsi in ugual maniera alla politica e ai promoter. La prima è colpevole di aver dato una risposta sbagliata e inapplicabile a un problema reale, tuttavia ha comunque il merito di aver tentato di evitare che gli utenti siano obbligati a rivolgersi al circuito secondario perché su quello primario è impossibile comprare i biglietti, anche se l’utente è online nel momento esatto in cui questi vengono messi sul mercato. Ai secondi, invece, va la colpa di non aver mai voluto rompere i rapporti con i bagarini, perché la domanda è sempre la stessa: chi dà i tagliandi al circuito secondario…? Inutili sono state le petizioni online, le prese di distanza di (pochissimi) artisti e la battaglia di Trotta, il primo a rompere il muro del silenzio e a puntare il dito sul rapporto incestuoso tra promoter e rivenditori secondari. Una denuncia che aveva portato anche a un processo per truffa e aggiotaggio: secondo la procura di Milano, infatti, esisteva un sistema consolidato che aveva gonfiato i prezzi dei live (Coldplay e Bruce Springsteen, per esempio) mettendo in vendita tagliandi su piattaforme di bagarinaggio secondarie per trarne profitti illeciti per oltre 1 milione di euro. Sul banco degli imputati erano finiti Roberto De Luca, Antonella Lodi e Corrado Rizzotto titolari delle società “Live Nation Italia” e “Live Nation 2”, Domenico d’Alessandro di Di & Gi, Charles Stephen Roest, amministratore del sito Viagogo e la società Vivo concerti. Secondo i pm, gli indagati, fra il 2011 e il 2016 avrebbero “divulgato false informazioni” sulla disponibilità di biglietti in vendita per concerti di grande richiamo, simulando una scarsità inesistente e costringendo il pubblico ad acquistare i ticket “a un prezzo ingiustificatamente maggiorato rispetto a quello stabilito dagli artisti”. A gennaio 2019 il verdetto ha assolto tutti perché il fatto non sussiste. Intanto, però, nonostante divieti, denunce e campagne stampa, il secondary ticketing di siti come viagogo.it (dove tra l’altro oggi si trovano in libera vendita biglietti che a norma della Battelli, dovrebbero essere nominali…) continua a prosperare. E la domanda resta sempre la stessa: i biglietti chi glieli dà…?
Biglietti nominali ai concerti: perché non piacciono a quasi tutti i promoter. Assomusica dice no, ma c'è anche chi approva il ticket con nome e cognome. Come Claudio Trotta della Barley Arts... Gianni Poglio l'11 luglio 2019 su Panorama. Non si raffredda la polemica sull'introduzione del biglietto nominale per gi spettacoli dal vivo in location con una capienza superiore ai cinquemila spettatori. Assomusica, l'associazione che riunisce gli organizzatori e produttori di spettacoli di musica dal vivo sostiene che "ci saranno rincari del prezzo medio dei biglietti di 8-10 euro e tempi di attesa in coda per entrare raddoppiati". Sempre secondo Assomusica, la legge appena approvata non risolve il problema del secondary ticketing, cioè del bagarinaggio online dove i biglietti dei concerti più ambiti si trovano a prezzi lievitati. Secondo Assomusica si dovranno aprire i cancelli molto tempo prima, impegnando più personale su più turni: "Da qui l'aumento dei costi per gli spettatori" che saranno anche "costretti a code molto più lunghe, specie in occasione di grandi manifestazioni". Inoltre, "i consumatori" sostiene sempre Assomusica, "non potranno più regalare un biglietto a un familiare, amico o parente; le aziende, i fan club e i grandi gruppi organizzati, in genere, non compreranno più biglietti. Non sarà semplice nemmeno emettere i biglietti omaggio". La previsione di Assomusica è che "in questo scenario si perderanno migliaia di biglietti. Questo emendamento approvato nell'ultima legge di bilancio del Governo come strumento di contrasto al fenomeno del secondary ticketing "rischia di generare soltanto un grande caos". Diverso l'approccio alla questione da parte di Claudio Trotta della Barley Arts, da sempre impegnato nella battaglia contro il Secondary Ticketing: "Credo sia più che legittimo avere opinioni diverse su una legge che peraltro è in vigore dal Primo luglio. Forse un po' presto per definirla inefficace, e poi sulla base di che cosa? In nessun concerto, finora, c'è stata applicazione di questa legge. La normativa sul biglietto nominale riguarda la messa in vendita dei biglietti dopo il Primo Luglio. La considero una modernizzazione indispensabile" spiega. "Noi come Barley Arts stiamo predisponendo un documento online dove informeremo il pubblico sulle modalità che consentono il cambio di denominazione o la rivendita senza lucro. Entrambe le cose saranno fattibili nell'ultimo mese prima dello spettacolo, fino a 24/48 ore prima del concerto stesso. Questo è un dovere del promoter" spiega Trotta. "Il biglietto nominale è anche l'anticamera della smaterializzazione, il che rappresenta la morte della consegna a casa del biglietto fisico. Che è un costo. Il biglietto nominale è anche un valido un supporto di garanzia di sicurezza per chi frequenta i concerti. Supporta la lotta al terrorismo e in caso di incidenti permette un più rapido accesso alle cartelle cliniche dei presenti. Ecco di che cosa stiamo parlando... Il biglietto nominale, poi, limiterà anche il secondary ticketing, a patto che tutti, dal pubblico agli adetti ai lavori, svolgano correttamente il loro compito". Su posizioni lontane da quelle di Assomusica si schiera l'Unione Nazionale Consumatori, che chiede invece di applicare la legge: "Considerato quanto già costano agli spettatori i biglietti, ben sopra i costi effettivi dei concerti, qualunque rialzo sarebbe ingiustificato".
Sold out gonfiati e biglietti omaggio: la scarsa trasparenza dei concerti. Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 su Corriere.it. Sold out gonfiati con biglietti omaggio. Tour che sono un trionfo soltanto nei post sui social. E un muro di omertà. Nessuno è disponibile a mostrare i numeri veri. Il modello C1 Siae, resoconto dettagliato dei tagliandi venduti e degli incassi di un concerto, viene sventolato solo in occasione di un record. Se a S. Siro si gioca Inter-Juve all’inizio viene comunicato il numero di paganti e abbonati. Se c’è un concerto non si davanti a quante persone l’artista abbia suonato. Quando le cose non vanno come il previsto, i più dignitosi tacciono, gli altri la sparano grossa. In un mondo allergico alla trasparenza, finisce per fare notizia il gesto di Ligabue: dopo un debutto di tour con il palco a metà campo per non far sembrare lo stadio vuoto e le proteste del pubblico per il ricollocamento di alcuni settori, con un post sui social ha ammesso che “l’affluenza di pubblico è inferiore alle previsioni dell’agenzia”. Unico precedente, nel 2000, la confessione di Jova su “Autobiografia di una festa”: “prende polvere nei magazzini”. La regola non detta è che al massimo e solo anni dopo i flop si trasformino in progetti non capiti dal pubblico. Vendite di album e ascolti in streaming sono certificati. I biglietti venduti no. Alla discografia ha fatto bene: dopo anni di bugie, dischi d’oro e di platino sono strumento di comunicazione e di sfida fra artisti. Negli Stati Uniti ci sono dati precisi al biglietto venduto e al dollaro incassato. I numeri italiani li custodisce Siae, ma non li diffonde senza il consenso degli interessati. E nessuno dei maggiori promoter (Live Nation, Friends & Partners, Di and Gi, Vivo…) è disponibile a fare un’operazione trasparenza.
Ecco come funziona l'organizzazione dei concerti live in Italia. Scrive il 16 aprile 2019 Striscia la Notizia. Striscia la Notizia mostra i retroscena del mondo della musica e un nome è quasi sempre presente: Ferdinando Salzano. Come funziona l’organizzazione di concerti live in Italia? Max Laudadio di Striscia la Notizia ci mostra quale sia il rapporto tra artisti, promoter e società di ticketing. In particolare i promoter (le aziende che si preoccupano di pubblicizzare l’evento) sono tutte riconducibili a Ferdinando Salzano, gestore di CTS Eventim, di cui si parlò molto anche a Sanremo. Ma la CTS Eventim e Ticketone, la società di vendita biglietti che gestisce la maggior parte degli eventi musicali live nel nostro Paese, sono finiti nell’occhio della AGCM, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, per abuso di posizione dominante, boicottaggio e ritorsione. E di queste ritorsioni – ed estorsioni – Max Laudadio ha raccolto anche una testimonianza shock. Ecco cos'ha detto un'imprenditrice all’inviato di Striscia la Notizia.
Vivo Concerti e TicketOne: sodalizio sospetto? Inchiesta di Max Laudadio (Striscia). Scrive il 18.04.2019 Davide Giancristofaro Alberti su Il Sussidiario. Si torna a parlare dei concerti live in Italia a “Striscia La Notizia”. Il noto programma satirico, nella puntata che andrà in onda questa sera attorno alle ore 20:35, tratterà nuovamente lo spinoso caso degli eventi dal vivo e delle principali società che li organizzano, leggasi Friends & Partners Group di Ferdinando Salzano, Vivo Concerti (dove lavora la moglie di Salzano, fa sapere lo stesso “Striscia”), Vertigo e Di and Gi, controllate da CTS Eventim. Tutte società che mettono in vendita i biglietti dei propri concerti tramite il famoso portale di ticketing, “TicketOne”. «Ma indovinate di chi è TicketOne?», si domanda l’inviato del tg satirico, Max Laudadio: «Principalmente di CTS Eventim, ma dentro c’è anche Salzano». Lo stesso poi precisa: «Questo non lo diciamo noi. È scritto nero su bianco sull’istruttoria dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm), che ipotizza l’abuso di posizione dominante da parte di TicketOne, CTS Eventim e tutte le società a loro collegate, accusate peraltro di aver attuato azioni di boicottaggio e ritorsione nell’organizzazione dei concerti a danno di alcune società concorrenti». Laudadio si è quindi recato da Jack Savoretti, 35enne cantante nato a Londra ma di origini italiane, informandolo del fatto che la proprietaria della struttura che ha ospitato il suo ultimo evento live, tenutosi ieri sera presso la discoteca di Milano “Fabrique”, ha denunciato un ricatto da parte della società Vivo Concerti. Perché questa denuncia? Semplicemente per il fatto che la stessa “Vivo”, avrebbe fatto pressione al Fabrique affinché tutti i biglietti venissero venduti tramite il portale TicketOne. «Non sapevo – la replica del cantante – grazie che ci hai informato, altrimenti non avrei saputo niente. Ne parlerò con la mia squadra». Insomma, sembra palesarsi all’orizzonte un “giro” un po’ strano, come del resto ipotizzato già dal Garante: questa sera Max Laudadio cercherà di fare più chiarezza.
L’ORGANIZZAZIONE DEI CONCERTI LIVE: POLEMICHE DOPO “STRISCIA LA NOTIZIA”. Scrive Sally il 22 aprile 2019 su melodicamente.com. Nei giorni scorsi nel “tg satirico” di Antonio Ricci, “Striscia la notizia”, è stato affrontato l’argomento della musica live. Max Laudadio nel servizio spiegava come funziona il mondo dei concerti e da chi viene gestito. Con una grafica ha spiegato che i promoter principali in Italia sono Friends & Partners, Vivo Concerti, Vertigo, Di & Gi, facendo notare che tutti fanno capo a Ferdinando Salzano (e CTS Eventim). Nel servizio si fa riferimento ad altre società come Zed e Live Nation e poi a TicketOne, in quanto principale servizio di ticketing. L’argomento attorno a cui ruota l’intero servizio è il modo in cui queste società hanno monopolizzato il mercato della musica live, arrivando a imporre TicketOne come unico servizio di ticketing. Tra le altre cose, la testimonianza di una promoter che avrebbe subito una vera e propria imposizione da parte di Salzano. Le accuse sono piuttosto gravi, perciò era inevitabile una risposta dai diretti interessati.
Il comunicato congiunto. Le realtà direttamente coinvolte nel servizio hanno rilasciato un comunicato congiunto per fare chiarezza sulla vicenda.
In relazione al servizio trasmesso nel corso della trasmissione “Striscia La Notizia” del 15 aprile u.s., dal titolo “L’organizzazione di concerti live”, TICKETONE e i promoter Di and Gi, FRIENDS&PARTNERS,VERTIGO, VIVO CONCERTI tengono a precisare quanto segue:
• Quanto affermato nel servizio tende a fornire una versione errata, fuorviante e diffamatoria delle attività̀ commerciali svolte da TicketOne e dai Promoter sopra citati.
• Quanto rappresentato è esclusivamente frutto di un confronto in ambito commerciale che in alcun modo coinvolge gli spettatori o gli Artisti;
• In particolare, il servizio omette di riportare, con riguardo al procedimento avviato dall’Autorità̀ Antitrust, come l’iniziativa promossa da due operatori del settore al fine di ottenere indebiti vantaggi competitivi in danno di TicketOne e dei Promoter sopra citati, abbia già visto rigettate le richieste di provvedimenti urgenti non sussistendone i presupposti.
Come sopra detto l’iniziativa verso le Società scriventi è stata avviata da due operatori del settore tra loro contrattualmente collegati, la Zed Entertainment e la società di ticketing Ticketmaster, quest’ultima controllata dalla multinazionale Live Nation (società concorrente degli scriventi Promoter), ciò che dimostra inconfutabilmente che quanto strumentalmente divulgato ha unicamente lo scopo di colpire le attività dei concorrenti;
• Si specifica inoltre che, pur facendo capo allo stesso gruppo, tutte e quattro le agenzie di live operano in maniera autonoma l’una dall’altra e, diversamente da quanto menzionato nel suddetto servizio, Ferdinando Salzano e Friends&Partners non hanno nessun interesse e/o quote societarie nelle società Di and Gi e Vertigo;
• Tutti gli artisti citati nel corso del servizio cosi come tutti quelli rappresentati dalle agenzie scriventi, sono estranei alle dinamiche commerciali che regolano la vendita dei biglietti.
Ad ogni modo le società scriventi hanno dato mandato ai propri legali di agire nelle sedi opportune a tutela della propria reputazione e della propria assoluta correttezza di comportamento in campo commerciale e di rapporto con il pubblico.
ORGANIZZAZIONE CONCERTI E COLPO DI SCENA. Scrive il 23 aprile 2019 Striscia la Notizia. Max Laudadio torna a parlare dell’organizzazione dei concerti live in Italia e delle principali società che li organizzano: Friends & Partners Group di Ferdinando Salzano, Vivo Concerti, Vertigo e Di and Gi, controllate da CTS Eventim. Inoltre, tutte mettono in vendita i biglietti dei concerti tramite TicketOne. Nel servizio vengono mostrate ulteriori dichiarazioni fatte da un’imprenditrice del settore che già aveva denunciato pressioni da parte della società di Salzano: «Si erano presi, senza nostra autorizzazione, un concerto di Alessandra Amoroso. Noi avevamo detto che non potevano confermare e ufficializzare questa data senza la nostra autorizzazione e loro invece, nonostante questo diniego scritto, si sono intestati la fiscalizzazione, cominciando anche ad incassare i soldi e mettendo in vendita i biglietti sempre e solo tramite TiketOne. Volevano anche annunciare il tour di Elisa: noi avevamo messo le mani avanti dicendo che non avrebbero potuto fare anche stavolta quello che volevano. Io – prosegue l’imprenditrice - avanzavo soldi dalla primavera 2018 su attività svolte (Biagio Antonacci, Nek-Renga-Pezzali, Laura Pausini, Claudio Baglioni, Elio e le storie tese, Gianna Nannini, Emma) e questi soldi non arrivavano mai». Fammi capire – chiede Laudadio – loro avevano bisogno delle tue strutture per fare i concerti e cosa ti hanno chiesto di preciso? «In questo incontro presso i loro uffici, a cui erano presenti anche i responsabili amministrativi di F&P e, in una parte della riunione anche Salzano, volevano le strutture e ci hanno obbligato attraverso il pagamento dei soldi dovuti». Quindi loro hanno detto o ci dai a queste condizioni i palazzetti o non ti paghiamo? Chiede l’inviato. «Si». Lo hai sentito come una forma di ricatto? «Sì. Non è la prima volta in cui vengono condizionati dei pagamenti fatturati ed esigibili del passato per trattare condizioni future». Laudadio, quindi, va a cercare Elisa per informare l’artista di questa vicenda. L’inviato di Striscia, però, viene bloccato e non gli viene data la possibilità di parlare con la cantante. Solo quando è certo che l’inviato non possa più raggiungerla, Elisa viene fatta entrare nel teatro.
Striscia la notizia, Laudadio indaga sullo scandalo dei concerti: il super big che vuole inchiodare. Scrive il 24 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Ieri 23 aprile a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Max Laudadio torna a parlare dell’organizzazione dei concerti live in Italia e delle principali società che li organizzano: Friends & Partners Group di Ferdinando Salzano, Vivo Concerti (dove lavora la moglie di Salzano, ndr), Vertigo e Di and Gi, controllate da CTS Eventim. Inoltre, tutte mettono in vendita i biglietti dei concerti tramite TicketOne. Salzano, manager di Claudio Baglioni, era stato messo sotto osservazione da Striscia già durante le giornate di Sanremo. Nel servizio vengono mostrate ulteriori dichiarazioni fatte da un’imprenditrice del settore che già aveva denunciato pressioni da parte della società di Salzano: «Si erano presi, senza nostra autorizzazione, un concerto di Alessandra Amoroso. Noi avevamo detto che non potevano confermare e ufficializzare questa data senza la nostra autorizzazione e loro invece, nonostante questo diniego scritto, si sono intestati la fiscalizzazione, cominciando anche ad incassare i soldi e mettendo in vendita i biglietti sempre e solo tramite TiketOne. Volevano anche annunciare il tour di Elisa: noi avevamo messo le mani avanti dicendo che non avrebbero potuto fare anche stavolta quello che volevano». "Io – prosegue l’imprenditrice - avanzavo soldi dalla primavera 2018 su attività svolte (Biagio Antonacci, Nek-Renga-Pezzali, Laura Pausini, Claudio Baglioni, Elio e le storie tese, Gianna Nannini, Emma) e questi soldi non arrivavano mai". Fammi capire – chiede Laudadio – loro avevano bisogno delle tue strutture per fare i concerti e cosa ti hanno chiesto di preciso? «In questo incontro presso i loro uffici, a cui erano presenti anche i responsabili amministrativi di F&P e, in una parte della riunione anche Salzano, volevano le strutture e ci hanno obbligato attraverso il pagamento dei soldi dovuti». Quindi loro hanno detto o ci dai a queste condizioni i palazzetti o non ti paghiamo? Chiede l’inviato. «Si». Lo hai sentito come una forma di ricatto? «Sì. Non è la prima volta in cui vengono condizionati dei pagamenti fatturati ed esigibili del passato per trattare condizioni future». Laudadio, quindi, va a cercare Elisa per informare l’artista di questa vicenda. L’inviato di Striscia, però, viene bloccato e non gli viene data la possibilità di parlare con la cantante. Solo quando è certo che l’inviato non possa più raggiungerla, Elisa viene fatta entrare nel teatro.
· Vercelli: sigilli a mille giostre in Italia autorizzate senza controlli in cambio di tangenti.
Vercelli: sigilli a mille giostre in Italia autorizzate senza controlli in cambio di tangenti. Si allarga l'inchiesta: le attrazioni nel mirino potrebbero essere 5mila, scrive Paolo Viotti su La Repubblica. Da 150 euro per tirapugni e giostrine a gettoni, fino a 250-300 euro per giostre più grandi come ruote panoramiche, piste di pattinaggio e attrazioni da luna park. Era un vero e proprio tariffario quello proposto da Mauro Ferraris, comandante della polizia municipale di Borgo d'Ale, arrestato dai carabinieri di Vercelli per corruzione e falso in atto pubblico. Il pubblico ufficiale era al centro di un imponente giro di rilascio di autorizzazioni per il funzionamento delle giostre, che avveniva senza la verifica sui requisiti di sicurezza. Al centro dell'inchiesta quasi 1.100 giostre distribuite su 88 province, ora tutte sotto sequestro. Il 'Metodo Borgo d'Alè, così è stato soprannominato dal procuratore Pier Luigi Pianta e dal sostituto Davide Pretti, era stato clonato in altri due Comuni: a La Cassa, nel Torinese, e a Montesilvano, in provincia di Pescara, dove gli intermediari arruolati dai giostrai trovavano amministratori compiacenti per il rilascio delle certificazioni. In tutto sono 36 le persone indagate, tra cui il comandante dei vigili urbani di La Cassa, e sei intermediari, ora con l'obbligo di dimora. L'inchiesta 'Luna Park' ha preso il via in seguito alla caduta di una 13enne da una giostra, nel novembre 2017 a Legnano (Milano). Il codice riportato sull'attrazione era stato rilasciato dal Comune di Borgo d'Ale; gli accertamenti avviati dall'Asl, insieme alle segnalazioni del sindaco del Comune vercellese, hanno fatto emergere uno scenario inquietante. Ferraris, a fronte di pagamenti che avvenivano a mano o con ricariche Postepay, avrebbe rilasciato quasi 1.100 codici identificativi per attrazioni collocate in tutta Italia. I giostrai che si rivolgevano al capo dei vigili trovavano in lui una scorciatoia per ottenere in poco tempo le autorizzazioni, senza dover montare o spostare le strutture. Al vaglio degli inquirenti ci sono altre 4.000-5.000 giostre con codici rilasciati in passato sempre dalla polizia municipale di Borgo d'Ale. A carico del comandante, oltre alla corruzione, sono emersi altri reati tra cui traffico di sostanze stupefacenti, detenzione illegale di armi, furto aggravato, spendita di banconote false. Dalle intercettazioni sono emerse anche minacce di ritorsione nei confronti del sindaco, che aveva notato alcune anomalie nel rilascio delle certificazioni per le giostre. E per questo si era rivolto alla stazione dei carabinieri. "Non c'è mai stato un momento - ha dichiarato il comandante dei carabinieri di Vercelli, Andrea Ronchey - in cui gli indagati si sono resi conto della gravità di quello che stavano facendo".
· La storia non detta del Carnevale di Rio.
La storia non detta del Carnevale di Rio, scrive il 25 febbraio 2019 Raphael Tsavkko Garcia su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. “Brasil chegou a vez de ouvir as Marias, Mahins, Marielles e Malês” (Brasile, è tempo di ascoltare tutte le Maria, Mahin, Marielle e dei Malê). Questa è una parte del testo che verrà cantato dalla Estação Primeira de Mangueira, una delle più importanti e tradizionali scuole di samba di Rio de Janeiro, durante la parata di carnevale di quest’anno, il 4 marzo. Il testo è un tributo alla lotta per la libertà, intesa sia come affrancamento dalla schiavitù (abolita nel 1888), sia come opposizione alla dittatura militare (1964-1985), sia come l’odierna lotta contro la violenza e per un Paese migliore, condotta da numerosi e coraggiosi uomini e donne brasiliani. Essa mette in luce la resistenza del popolo nero, soprattutto delle donne di colore come Marielle Franco e Luísa Mahins. Il carnevale è il più grande evento nel calendario di Rio de Janeiro. Per pochi giorni la popolazione ha l’opportunità di dimenticare i propri problemi e festeggiare nelle strade della città, indossando costumi e cantando al ritmo della samba delle proprie scuole preferite. Il carnevale è anche una fonte di reddito per migliaia di famiglie, che lavorano tutto l’anno per costruire le scenografie delle scuole di samba in un industria di vitale importanza per lo stato di Rio de Janeiro. Tuttavia, una società costantemente segnata dalla violenza, che sia delle gang della droga, delle milizie o della polizia del governo, non poteva non cantare anche i propri problemi al Sambodromo Marquês de Sapucaí. È una festa, ma profondamente radicata nelle problematiche della società di Rio de Janeiro. Merielle Franco, consigliera e attivista per i diritti umani uccisa in un’imboscata quasi un anno fa a Rio de Janeiro, e sul cui caso che ha commosso il mondo la polizia sta ancora indagando, è diventata un simbolo di resistenza, e il suo nome all’interno del Sambodromo quando la scuola Mangueira canterà del suo coraggio (e di quello di altri personaggi storici). La macchina in cui si trovava fu presa d’assalto il 14 marzo 2018 da alcuni criminali che le spararono quattro colpi alla testa e uccisero anche il suo autista, Anderson Gomes. Si sospetta che nel crimine fossero coinvolti anche membri delle milizie, gruppi protagonisti di varie attività criminali e composti soprattutto da membri delle forze di sicurezza in servizio o in pensione, che contestano la gestione delle comunità più povere di Rio de Janeiro, e che godono di grande supporto politico (lo stesso presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, è noto per aver già espresso dichiarazioni favorevoli nei confronti di questi gruppi in passato). “Il fatto che Marielle sia il simbolo più celebrato dalla parata della scuola Mangueira può indicare l’emergere di specifiche agende, come quella femminista e antirazzista, che presagiscono, ma ancora non rappresentano pienamente, l’espressione di una più vasta presa di posizione politica da parte della popolazione”, dice Antônio Spirito Santo, musicista ed esperto di storia della Samba. Fra i vari personaggi a cui verrà reso onore, c’è anche Luísa Mahins, una ex schiava di discendenza africana che avrebbe preso parte all’organizzazione di tutte le rivolte e delle proteste degli schiavi che hanno agitato la provincia di Bahia nei primi decenni del XIX secolo, come la rivolta dei Malê. La Samba ha una lunga storia di resistenza, tuttavia “non è mai stata radicale, perché la linea dei leader delle scuole è sempre stata conciliatoria. Forse la definizione più appropriata in questo caso sarebbe quella di resilienza” spiega Spirito Santo. Ritmo nato dal popolo nero, con varie influenze provenienti dalla musica e dalle usanze africane (ma anche dai ritmi europei), la samba è la vera anima del carnevale di Rio, e le scuole di samba, strettamente legate alle comunità e ai quartieri poveri, tradizionalmente cantano storie di esclusione e lotta, di dolore e amore, e quest’anno non farà eccezione. Gabriel Borges, dottorando in letteratura con un focus sulla musica brasiliana all’Università Federale di Rio de Janeiro, afferma che “da una parte, la natura marginale del genere ha nella schiavitù uno dei suoi fondamenti d’origine. Non sorprende che la samba urbana si sia inizialmente accostata alla figura del furfante [o del vagabondo], il cui rifiuto di lavorare è dovuto agli strascichi sociali dello sfruttamento della schiavitù. D’altra parte, il genere rappresenta abbondantemente anche le aspirazioni della popolazione nera di integrarsi nella società [dei bianchi], provando a superare questo stato di emarginazione. È significativo che i pionieri del genere nella città di Rio de Janeiro cercassero di stabilire un legame con la classe media urbana e tenessero le porte aperte anche ai bianchi e ai mestizos che lavoravano come funzionari pubblici, giornalisti e intellettuali, ed anche ad altri membri della cosiddetta “società carioca”, che abbracciava le novità provenienti dalle classi subalterne”. Ecco che le scuole di samba, quindi, gli spazi della resistenza nera nelle favelas di Rio de Janeiro – gli artisti della samba furono perseguitati e criminalizzati all’inizio del secolo scorso, ma con grande fatica riuscirono a trasformare la samba e il carnevale di Rio in veri e propri simboli del Brasile -, ma anche un punto di contatto tra le classi povere e la classe media della città, un modo per mantenere in vita una tradizione dei subalterni mentre la modernità e la crescita della città di Rio si intensificano. “È molto comune nei i samba enredos (la musica delle scuole di samba, NdR), attenersi alla versione ufficiale dei personaggi e dei momenti che vogliono rappresentare, poiché solitamente è lo stato a sponsorizzare le parate. Tuttavia, anche le narrative che cercano di rendere giustizia alla lotta delle classi subalterne, fino a poco tempo fa segnate dall’emarginazione, specialmente quella della popolazione nera contro l’oppressione schiavista, hanno un impatto sul genere”, aggiunge Borges. La scuola Mangueira sfilerà nelle prime ore del 4 marzo al Marquês de Sapucaí, a Rio de Janeiro, comunicando al mondo il messaggio di Marielle, Mahíns e di altri guerrieri della libertà e della giustizia.
· La Verità in tv è femmina. Roberta Petrelluzzi; Franca Leosini; Federica Sciarelli.
La controversia tra Sciarelli e Leosini: donne contro per l’audience. Pubblicato martedì, 02 luglio 2019 da Aldo Grasso su Corriere.it. Donne contro, per un uomo. A Rai3 è in atto una controversia fra Federica Sciarelli e Franca Leosini. Motivo? La Sciarelli ha commentato, con una punta di sarcasmo, l’intervista che Antonio Ciontoli, condannato per l’omicidio del giovane Marco Vannini di Ladispoli, morto a soli 20 anni, ha rilasciato alla Leosini e che è andata in onda domenica e lunedì sera. «A noi, Antonio Ciontoli, l’intervista non l’ha mai concessa. Come si dice, fatevi una domanda e datevi una risposta», aveva tuonato in trasmissione. Già erano sorte polemiche quando del caso se n’era occupata anche Roberta Petrelluzzi, pubblicando un post di sostegno alla famiglia Ciontoli che aveva fatto indignare molti. Marco è in casa della fidanzata e mentre sta facendo il bagno viene colpito da un proiettile, partito da una pistola con cui il futuro suocero si gingillava. Dal momento dello sparo, la famiglia Ciontoli racconta un sacco di bugie incredibili che forse impediscono al giovane di salvarsi. In primo grado Ciontoli era stato condannato a 14 anni; in Appello a 5 anni per omicidio colposo. La moglie Maria Pezzillo, e i figli Federico e Martina sono stati invece condannati a tre anni. A cosa servono queste interviste della Leosini, a legittimare il fatto che la Televisione vuole sostituirsi al Tribunale? Perché un mentitore reo confesso come Antonio Ciontoli accetta di sottoporsi all’interrogatorio delle telecamere? Ne esce a pezzi ma spera forse che qualche giudice della Cassazione segua il programma e ne colga il lato umano? La stessa Leosini, a un certo punto, gli dice: lei o è un pazzo o un imbecille. La strategia di Ciontoli è di passare per imbecille? Federica Sciarelli aveva raccolto il dolore della famiglia Vannini, sconcertata per lo spazio che la Leosini avrebbe concesso a Ciontoli per chiedere perdono via etere. Donne contro, per l’audience. Sulle spoglie di un ragazzo di vent’anni ucciso non si sa per cosa.
Roberta Petrelluzzi: età, altezza, peso, marito e figli. Scrive il 26 aprile 2019 Caffeina Magazine. Roberta Petrelluzzi non è sempre stata votata alla televisione. Il suo primo amore, infatti, è stato la scienza, che l’ha portata a laurearsi in Biologia e, successivamente, a accettare un contratto da ricercatrice nel dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università La Sapienza di Roma. L’esordio sul piccolo schermo è stato il frutto di un incontro propizio tra circostanze favorevoli e talento: una selezione fortunata l’ha incoraggiata ad abbandonare camice e microscopio e, da un giorno all’altro, si è trovata catapultata negli studi di una neonata Raitre. E dagli inizi come programmista regista nelle trasmissioni regionali del Lazio si è ritrovata a indossare i panni di autrice e a firmare programmi come La posta del cittadino, Roma città-anticittà e In pretura, precursore di quella che sarebbe diventata una delle colonne portanti del palinsesto del terzo canale. Aldo Grasso ha parlato di lei come uno dei «tre volti dolenti di Raitre», simpatica etichetta che il critico ha pensato di attribuire a quel triumvirato delle signore della cronaca nera in cui, oltre a lei, figurano le ormai altrettanto iconiche Franca Leosini e Federica Sciarelli. Nel 1987 Un giorno in pretura diventa una trasmissione di prima serata e il 18 gennaio del 1988 inizia il suo lungo percorso sulla terza rete nazionale. Da semplice funzione di controllo sull’andamento della giustizia, il programma si trasforma in un grande affresco della realtà italiana. Le aule giudiziarie vengono coperte a 360 gradi dalle telecamere del programma: si passa da quelle pretorili a quelle di tribunale fino alla Corte di assise. Sono moltissimi i processi ripresi e trasmessi dal programma nel corso degli anni. Tra i tanti quello a Erich Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, il processo nodale dell’era Tangentopoli, quello a Sergio Cusani, senza dimenticare le pagine più cupe della cronaca nera nazionale come i processi relativi alle vicende del Mostro di Firenze, ai sequestri Celadon e Soffiantini, all’omicidio di Marta Russo, al serial killer della Liguria Donato Bilancia, e i processi sulla Strage di Erba e sul Delitto di Avetrana. Negli anni di Un giorno in pretura, Roberta Petrelluzzi ha realizzato anche altri programmi che meritano di essere ricordati. Tra questi La valle del Torbido, un film inchiesta del 1993 sulle estorsioni nella Locride; Taxi Story, un mix di racconti dal vivo e ricostruzioni filmate di vicende realmente accadute a taxisti romani e napoletani; Ale`…oh…oh Roma – Inter con gli ultras tifosi ultrà della Roma e dell’Inter seguiti prima, durante e dopo la finale della Coppa UEFA 1990-1991. Sui social l’hanno innalzata a icona contemporanea ma lei, che ha un rapporto di amore e odio con la tecnologia, non si è sicuramente montata la testa. E ha incassato i numerosi complimenti ricevuti solo come riconoscimento della sua fatica professionale. In un’intervista a Tvblog, ha parlato di questa incoronazione a regina del web come di ‘’un segno dei tempi presenti, nei quali anche un’illustre, normale, banale signora può diventare icona’’. “Raccontiamo la realtà all’Italia. – ha detto la conduttrice parlando di Un giorno in pretura – Nei processi, quando ad esempio si narrano fatti di sangue, emergono le parti più profonde degli esseri umani. Ciò porta i telespettatori a discutere, perfino litigare in famiglia davanti alla televisione. La nostra formula è l’unica possibile per rendere un processo leggibile”. La conduttrice e regista Roberta Petrelluzzi è nata ad Adrara San Martino (Bergamo), il 1° gennaio 1944. È alta 160 centimetri per un peso di circa 65 chili. La vita privata della conduttrice è avvolta dal totale riserbo. Sul web non si trova alcuna notizia su mariti, compagni e figli.
Maledetta Avetrana. “Storie maledette” riparte da qui. Il caso di cronaca più mediatizzato d’Italia nelle mani di Franca Leosini diventa un genere a sé, scrive Andrea Minuz il 12 Marzo 2018 su "Il Foglio". “La lettura dell’Italia si può fare attraverso il delitto”, dice Franca Leosini che riparte da Avetrana e non ha mai scritto un romanzo, anche se molti editori glielo chiedono, anche se “per ogni storia che porto in video è come se ne avessi scritto uno”. Il romanzo c’è già. “Storie maledette” non è solo un programma fatto di interviste, ma il grande romanzo italiano a puntate che racconta pulsioni, trasformazioni e perennità di questo paese, delle sue strutture sociali, della sconfinata, profonda provincia che pensiamo di conoscere ma che non conosciamo mai davvero. Nella complessa geografia del delitto italiano (Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco, Perugia) Avetrana è anzitutto il punto di non ritorno del cortocircuito tra informazione, cronaca, spettacolo; perfetta sintesi di giustizialismo, voyeurismo e ferocia dei talk-show. Qui i media non arrivarono dopo ma costruirono un’indagine parallela culminata nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi in diretta su “Chi l’ha visto”. Il delitto a sfondo familiare si trasformava definitivamente in reality. Ci sprofondammo tutti con un orrore via via sempre più grottesco e i negozi del Rione Sanità che vendevano il “vestito di carnevale di Zio Michele”. Un’“epopea baraccona”, come l’ha definita Franca Leosini nella prima puntata di domenica. Pensavamo di averne avuto abbastanza di Sarah, del diario, del cellulare, di Sabrina, “Zio Michele”, Cosima, Ivano. Invece è stato come entrare ad Avetrana per la prima volta. Orchestrati dentro un doppio racconto, quello di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, Franca Leosini intreccia i fatti come in un confronto all’americana costruito sulla parola. Al delitto ci accompagna per gradi, anzi per grandi cerchi concentrici che delineano il quadro logico-passionale degli eventi, l’ambiente, i personaggi. Perché “la forza di ‘Storie maledette’ non è il delitto ma il percorso”, come dice Leosini. La cronaca ha fretta. Lei no. C’è il preludio, lo sguardo dall’alto sul teatro dell’azione come nel romanzo dell’Ottocento, poi l’affondo sui dettagli: i “devoti sms”, i capelli bianchi di Cosima che “non vuole essere schiava della tinta”, i “crateri di cellulite” delle signore di Avetrana massaggiate da Sabrina che ha un alibi a forma di “cordon bleu” divorato di corsa il giorno del delitto e rigorosamente pronunciato “Gordon blé”. Ogni puntata lascia dietro di sé una scia di “meme” e tormentoni rilanciati in rete dai “leosiners”. Ma alla fine appare riduttivo spiegare il suo successo coi tailleur colorati, il linguaggio desueto, il piglio contemporaneamente empatico e freddo della conduzione. Casomai, in una televisione fatta di format costruiti su casting, montaggio e ospitate gratis, “Storie Maledette” è uno dei pochi programmi che punta tutto sulla scrittura. C’è la tragedia con Sabrina che rievoca i compagni di scuola che la sfottevano per la peluria ed entravano in classe con le lamette, ma ci sono anche dialoghi che sembrano usciti dalle migliori pagine della nostra commedia, non a caso detta “all’italiana” perché quasi sempre moriva qualcuno: “Nei 4.500 sms a Ivano lei appare come una questuante dell’amore”, incalza Leosini; “sì, ma avevo anche la promozione coi messaggi gratis”. Siamo davvero dalle parti di Billy Wilder. “Se tornassi indietro non farei neanche un’intervista”, dice a un certo punto Sabrina, “però così avrebbero detto che di Sarah non me ne fregava niente”. Sintesi formidabile di come le dicerie di Avetrana siano solo la versione in scala ridotta di quelle nazionali. “Il delitto di Avetrana si è compiuto in una profonda campagna secondo un modo familiare cioè contadino”, scriveva Giorgio Bocca, “ma tutti gli italiani lo hanno sentito come proprio, a smentita che la società italiana moderna abbia perso i suoi fondamenti contadini”. Ce ne siamo ricordati anche il 5 marzo.
Franca Leosini, fredda analista dei delitti, ma icona dell’empatia. I leosiners (i fan della giornalista e conduttrice) amano l’enfasi retorica consacrata alla vittima, ma amano ancor più il personaggio, vagamente démodé eppure affascinante, scrive Aldo Grasso il 12 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". È tornata Franca Leosini con le sue «Storie Maledette» per dedicare due puntate all’omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Lei si definisce un’instancabile indagatrice di anime, narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza: «Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti». Anche in Dino Buzzati c’era sempre questa tensione al tragico attraverso il patetico (ogni delitto che raccontava era patetico, letteralmente un’esplosione di sofferenza), questo bisogno di tradurre l’angoscia più cupa dell’esistenza in un teatro del quotidiano. Per questo la sua scrittura cercava continuamente una mediazione estetica per non cedere al dolorismo, per non assecondare la nostra morbosità nei confronti dell’orrore. Qual è lo stile di Franca Leosini? Uno stile, per altro, ormai così riconosciuto che le ha meritato un invito al Festival di Sanremo di Claudio Baglioni (la gag è stata alquanto modesta, in verità). La Leosini è una sgobbona, bisogna ammetterlo: prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all’ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha studiato tutte le carte del processo. Poi scrive, scrive e in trasmissione legge tutto (più radio che tv): è il suo modo di fare letteratura, anche se ho molti dubbi sulla tenuta stilistica della sua prosa, piena di barocchismi («ardori lombari», «bipede sgualcito»), e sul suo marcato sociologismo (il vero colpevole è sempre il contesto). I leosiners (i suoi numerosi fans) amano l’enfasi retorica consacrata fatalmente alla vittima, ma amano ancora di più il personaggio, vagamente fuori moda eppur affascinante, fredda analista dei delitti eppur icona dell’empatia.
Classica eppure modernissima, la giornalista e conduttrice di «Storie maledette» è diventata un’icona sui social network, scrive Chiara Maffioletti l'11 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il suo programma, «Storie maledette», è in onda dal 1994: e questa sera torna in onda alle 21.25 su RaiTre. Ma solo negli ultimi anni, quelli dei social network, la giornalista e conduttrice è diventata un fenomeno cult. Tutti la amano, tutti la commentano. Il suo stile — impeccabile — è diventato, nel suo essere senza tempo, il segreto della sua modernità. Lontana dai social eppure mai così presente, protagonista, Leosini è oggi un’icona. Dopo essere stata anche guest star al cinema — nella commedia «Come un gatto in tangenziale» —, e al Festival di Sanremo (dove è stata protagonista di una gag con Claudio Baglioni — Franca Leosini è pronta a tornare in onda. «Lo ammetto: la tv, la fiction e il cinema mi corteggiano. Ma non partecipo mai ai talk show, con tutto il rispetto per i colleghi che fanno un lavoro meraviglioso, faticoso, spesso quotidiano. E sono così cari da accettare i miei no. Al cinema ho detto sì al film di Riccardo Milani perché, al di là della grande amicizia che mi lega a Paola Cortellesi, ero me stessa. Non ho mai voluto, invece, interpretare ruoli». E a proposito dell’affetto straordinario del pubblico, ha fatto sapere che «mi riempie il cuore e mi dà tanta forza di lavorare». Il suo programma riparte con due puntate dedicate al delitto di Avetrana, all’omicidio di Sarah Scazzi, a Sabrina Misseri e alla madre Cosima. «Ho letto 10 mila pagine di processo, dalla prima all’ultima parola. Sul piano personale e professionale, ogni storia che racconto è un percorso umano, giudiziario e ambientale faticosissimo: non cerco la verità, che è compito di inquirenti e magistrati, cerco di capire, a volte arrivando a una verità che non è sempre quella storica e processuale. Penso che la storia dell’Italia si possa leggere anche attraverso i delitti». A gratificarla è soprattutto «l’affetto dei ragazzi, che seguono la trasmissione con amore e con grande attenzione al linguaggio, una responsabilità enorme per chi fa questo mestiere».
Franca Leosini: ecco chi è la giornalista di Storie Maledette, star sui social, scrive "Popcorntv.it". Franca Leosini, giornalista e conduttrice di Storie Maledette, è seguitissima sui social e ha anche un gruppo di fan che si fa chiamare Leosiners. Fredda e distaccata ma precisa e pungente: ecco chi è Franca Leosini, giornalista e conduttrice tv, diventata un vero e proprio idolo sui social tanto da avere anche un suo esercito di fan che si è ribattezzato Leosiners. Sono tantissimi i personaggi che Franca Leosini, nel suo programma Storie Maledette, in onda dal 1994 tutte le domeniche in prima serata su Raitre, ha intervistato: tra questi anche Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'uccisione di Sarah Scazzi.
Chi è Franca Leosini. Una delle prime curiosità sul conto di Franca Leosini è legata alla sua data di nascita, eh sì perché secondo alcune biografie ufficiali la nota giornalista sarebbe nata nel 1949, anche se nell'annuario dei giornalisti è riportato 1934. Nonostante questo, la Leosini è nata a Napoli il 16 marzo e il suo cognome è Lando, Leosini è il suo cognome, invece, da coniugata.
Franca Leosini: carriera. Nel 1974 Franca Leosini ha conseguito il tesserino da giornalista pubblicista, regolarmente iscritta presso l'albo della Campania. Fin da piccola è sempre stata una grande studiosa e appassionata della lingua italiana e così dopo il diploma ha scelto di proseguire gli studi e di laurearsi in Lettere Moderne. Il suo primissimo lavoro è stato presso l'Espresso, collaborando per il settore della cultura, e subito ha cominciato ad occuparsi non solo di interviste ma di vere e proprie inchieste. Nel 1974, inoltre, la Leosini si è occupata dell'inchiesta denominata Le zie di Sicilia, in cui Leonardo Sciascia ha accusato le donne dello sviluppo della mafia. Non tutti lo sanno ma Franca Leosini, per un periodo, è stata anche direttrice di Cosmopolitan e ha curato la terza pagina de Il Tempo.
Franca Leosini: le frasi. Franca Leosini è considerata una vera e propria superstar sul web. In tantissimi, infatti, su twitter non perdono occasione non solo di farle i complimenti ma anche di esaltare il suo operato, le sue interviste e il suo modo di parlare, ciò che più incanta gli internauti. Basti pensare che su Facebook esiste una pagina intitolata Le perle Franca Leosini, che conta oltre 8mila like, in cui vengono riportati tutti i suoi tormentoni, come: «Questo lo dice lei».
Curiosità su Franca Leosini. Franca Leosini, nel 2013, è stata eletta come icona gay della serata romana Muccassassina. Franca Leosini a DM: «Ho studiato 10 mila pagine di processo per intervistare Sabrina e Cosima Misseri. Detesto la parola femminicidio», scrive mercoledì 7 marzo 2018 Mattia Buonocore su "Davide Maggio". “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”. Con queste parole Franca Leosini inizia il suo racconto del caso Scazzi, la triste vicenda di cronaca nera che ha toccato l’Italia intera. Le interviste a Sabrina e Cosima Misseri terranno banco nel nuovo ciclo di Storie Maledette, al via domenica 11 marzo in prima serata su Rai3. DavideMaggio.it ha incontrato Franca Leosini.
Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione di Storie Maledette?
«Di vederlo. Io non faccio mai anticipazioni, è una cosa che definirei anche di cattivo gusto. Nel senso che è una trasmissione che va vista, seguita. Per fortuna viene seguita con grande amore, il che mi gratifica molto. E mi gratifica moltissimo il fatto che sia seguita da fasce sociali completamente differenziate, difformi, e soprattutto sia seguita dai ragazzini. I leosiners sono dei ragazzini e questa è una cosa straordinaria perchè il mio non è un varietà, la mia è una trasmissione impegnativa. I ragazzi purtroppo stanno perdendo l’uso del linguaggio a furia di stare su twitter e di scrivere messaggini; mi dicono che seguono Storie Maledette perchè a loro piace il linguaggio. C’è sicuramente un linguaggio non povero, e noi siamo dei modelli, chi ci ascolta ci imita. Così come ci imitano come siamo vestiti, ci imitano anche con il linguaggio. Questa è una cosa che mi gratifica. E’ una trasmissione difficile la mia».
In questo ciclo di puntate si parlerà del caso Scazzi.
«Saranno due puntate, con due protagoniste che sono Sabrina e la madre. Diciamo che il Professore Coppi, che è l’avvocato principe, mi ha fatto studiare diecimila pagine di processo. Gli editori, che sono sempre così gentili con me, mi sollecitano a scrivere libri ma io scrivo un libro ogni volta che faccio una storia maledetta. E’ un lavoro anzitutto molto capillare di studio del processo, della psicologia dei personaggi, della cultura dell’ambiente e anche diciamo proprio del luogo; dico e ripeto, è molto importante la cultura del posto. Una lettura del paese si potrebbe fare anche attraverso i delitti, perchè tante cose si verificano in una parte di Italia e in un’altra no? Tornando al mio lavoro, io faccio poche puntate, con grande disperazione dei miei direttori proprio perchè è ogni puntata è una struttura narrativa, un grande romanzo – parliamoci chiaro – del quale io sono l’autore unico. E’ un lavoro molto complesso, d’altronde la cosa che mi gratifica è che l’apprezzamento c’è».
E’ un’anomalia il fatto anche di avere due ospiti conosciute.
«Ho avuto tanto riscontro – la parola successo la rifuggo, preferisco parlare di risultati, quando mi dicono: “sei una donna di successo”, dico: “ho avuto dei risultati mai successo” – con casi assolutamente sconosciuti. Un caso come quello Scazzi è quasi una vicenda del secolo, per il retrogusto di questa storia».
Va in onda nella prima serata della domenica.
«E’ una scelta del direttore. Io avrei preferito un’altra serata, logicamente è il direttore che sceglie e io sono un soldato di Rai3».
Tu sei anche molto legata alla seconda serata.
«Ho amato molto la seconda serata, ma ci sono dei casi talmente forti che sai… A suo tempo – Storie Maledette ha 20 anni – quando andai da Guglielmi a dire: “Vorrei fare Storie Maledette”. Lui mi disse: “Il titolo mi piace vediamo cosa ci metti dentro”. Ci ho messo dentro Storie Maledette. Lui voleva già da allora la prima serata e io mio sono battuta per la seconda serata. Ci sono dei casi che sono veramente molto forti, romanzati».
Tuo marito cosa ti ha detto quando gli hai detto: “Mi accompagni a Sanremo”?
«Lui è molto carino con me. E’ stata un’occasione per stare insieme perchè oltretutto lui vive a Napoli. A suo tempo, mi ricordo ci furono le targhe alterne. Una mia amica mi disse: “come va con tuo marito?”. Le risposi: “Ci vediamo a targhe alterne quindi è stata anche un’occasione per stare insieme”».
Il fatto di essere una donna ti aiuta nel tuo lavoro.
«Forse noi donne abbiamo quel sesto senso in più, quella capacità di capire anche le debolezze che gli uomini non individuano o non accettano».
Si parla molto di donne in questo periodo.
«Purtroppo ora è diventato un argomento di grande attualità, giustamente ora presente sul mercato delle idee, dei sentimenti e dei progetti. Logicamente la violenza sulle donne ha radici antiche ed è indubbiamente aumentata nel momento in cui le donne hanno cominciato a scegliere per la loro vita, per il loro destino. Le donne vivevano quello che era il ricatto economico, logicamente hanno raggiunto un’indipendenza che le consente di scegliere per il destino delle coppie. Purtroppo le liti nascono sempre dal rifiuto di una donna di accettare il progetto dell’uomo, bisognerebbe educare l’uomo prima di educare la donna. Ad esempio se c’è un termine che detesto è femminicidio perchè dico che la donna è anzitutto è persona, quindi non è femmina. Non si dice maschicidio».
"Al supermercato so quando entro ma non quando esco, faccio selfie tutto il giorno". Franca Leosini torna su Rai3 con una nuova stagione di Storie Maledette con un doppio appuntamento domenicale dedicato alle interviste di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive il 7 marzo 2018 Sebastiano Cascone su “Il Sussidiario”. Franca Leosini torna, su Rai3, al timone di Storie Maledette, dall’11 marzo con tre puntate, le prime due, dedicate all'omicidio di Avetrana e intitolate "Sarah Scazzi: quei venti minuti per morire", con le interviste esclusive a Sabrina Misseri e la mamma Cosima Serrano: "L’omicidio di Avetrana fa parte della cultura e della storia giudiziaria e umana di un Paese. Ma è stata anche una vicenda televisiva, che ha diviso nella passione del giudizio. Con i risvolti umani e le inquietudini che si è portata dietro" ha confessato la giornalista al settimanale Tv Sorrisi e Canzoni in edicola questa settimana. La conduttrice napoletana sceglie con scrupolosa attenzione le storie dei protagonisti che vuole intervistare per dare un occhio totale della realtà dei fatti: "La parola importante è “rispetto”. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta. Sono persone come noi, può succedere a tutti: ci sono momenti in cui la consapevolezza si smarrisce. Il limite tra giusto e sbagliato è gelatinoso… Queste persone accettano di scendere con me nell’inferno del loro passato".
LA SCELTA DELLE STORIE E DEI PROTAGONISTI. Franca Leosini ha rivelato, per la prima volta, l'iter, per la scelta delle storie dei vari protagonisti: "Scrivo a mano una lettera in carcere alla persona che vorrei incontrare. È importante che veda la mia calligrafia, per stabilire subito un rapporto umano. Poi sento l’avvocato, che ha sempre un breve ruolo nella puntata perché ci sono problemi tecnici che deve risolvere. Quanto a me, cerco di non far capire quello che penso: il mio ruolo è doverosamente super partes". Poi, inizia il complicato percorso dei permessi fino all'incontro con l'intervistato, della durata di un giorno, per creare il giusto feeling. Da lì, passano tre quattro mesi per "studiare gli atti del processo, scrivere dalla prima faccio anche un lavoro di solfeggio, proprio come su uno spartito musicale: intonazione della voce, pause, all’ultima parola, creare la struttura narrativa". Un lavoro che richiede, quindi, tempo e la giusta concentrazione per mettere a punto un prodotto qualitativamente alto che non delude le aspettative degli affezionati telespettatori. Il segreto? Non anticipare mai le puntate ai diretti interessati per rendere il tutto più fluido e naturale possibile.
L'AMORE DEI LEOSINERS. Franca Leosini, recentemente ospite del Festival di Sanremo per una gag molto divertente con Claudio Baglioni, ha un folto seguito di fedelissimi sulla rete che non perdono una puntata di Storie Maledette. La giornalista è orgogliosa di un consenso trasversale che abbraccia diverse generazioni: "Al supermercato so quando entro ma non quando esco. L’ultima volta non sono riuscita a comprare neanche un pomodoro, perché ho fatto selfie tutto il tempo. Ma lo faccio con gioia. Oltre che un piacere, è un dovere dare al pubblico tempo e attenzione". I Leosiners sono un gruppo molto numeroso che, compatto, scalpita per la messa in onda delle nuove attesissime puntate (eccezionalmente alla domenica sera): "Siamo dei modelli e siamo imitati per come ci comportiamo. Se abbiamo un linguaggio che non è povero, trasmettiamo quella ricchezza a chi ci ascolta. E la cosa che mi gratifica è che i “leosiners”, che sono giovani e di tutte le estrazioni, amano quel linguaggio".
Leosini, racconto luci e ombre dell'omicidio Scazzi. Torna Storie Maledette da domenica 11 marzo su Rai3, scrive Angela Majoli il 9 marzo 2018 su "Ansa". "Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti". Instancabile indagatrice di anime, scrupolosa narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza, Franca Leosini torna con la 16/a edizione di Storie maledette, domenica 11 marzo in prima serata su Rai3, e dedica due puntate all'omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all'ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha "studiato 10 mila pagine di processo: non faccio cronaca - spiega - svolgo un percorso che va in profondità nella storia dei protagonisti della vicenda e nell'ambiente in cui si è svolta. Ho disegnato un pannello che affonda le radici non solo nella realtà umana dei personaggi, ma anche nell'humus circostante. La cronaca non ha tempo, mentre io vado in verticale". Pur avendo incontrato Sabrina e Cosima separatamente, "perché altrimenti si sarebbero influenzate a vicenda", Leosini ha creato però "una sceneggiatura nella quale interagiscono", intrecciandone le testimonianze. "E' stato molto difficile non soltanto studiare gli atti, ma anche ricostruire la storia, vederne i risvolti, con luci e ombre, perché è una vicenda particolarmente complessa per la molteplicità e la poliedricità dei personaggi. C'è Sarah, questa creatura sottile come un gambo di sedano, con i capelli biondi come spighe di grano, che a un certo punto scompare. Ci sono Sabrina e Cosima, ma c'è anche Michele Misseri (marito di Cosima, ndr), una figura terza ma anche il motore mobile della vicenda, che parla un linguaggio tutto suo, il misserese. E poi c'è Ivano (che sarebbe stato il movente della gelosia di Sabrina nei confronti della cugina, ndr), trascinato in una storia in cui non ha responsabilità ma ha un ruolo da protagonista. E poi la madre di Sarah". Due puntate per raccontare "un delitto di cui si sa tanto e poco nello stesso tempo, perché ne esistono tante versioni", sottolinea Leosini, convinta che "il senso di una storia possa nascondersi nei dettagli. La verità storica e quella processuale non sempre coincidono: i miei interlocutori parlano liberamente, ma io devo sempre tener presente gli atti. Le sentenze in democrazia si discutono, ma bisogna rispettarle". Il nuovo ciclo di Storie maledette avrà una terza puntata, "mentre la quarta è caduta - spiega la giornalista - perché il protagonista, un uomo, mi ha chiesto le domande in anticipo. Ma io non patteggio mai nulla: tutto deve essere vero, spontaneo, anche se poi si interviene con il montaggio. E così ho preferito annullare l'incontro, pur avendo lavorato tantissimo". Un lavoro preparatorio che passa anche per il solfeggio dei testi, abitudine 'svelata' dagli stessi redattori del programma: "Per me la parola conta moltissimo, vivo la prosa come musica, ecco perché - spiega Leosini - solfeggio i testi", raccolti in un librone che è diventato una leggenda. Solfeggiato era anche il copione del suo intervento sul palco di Sanremo, accanto a Baglioni: "Quando Claudio lo ha visto, non riusciva a crederci. E' stata un'esperienza straordinaria, ho avuto commenti talmente lusinghieri che Sting, a confronto - dice ridendo - si è rivelato un dilettante". Quella 'maglietta fina' di Questo piccolo grande amore trasformata in 'storia maledetta' ha rafforzato l'affetto del pubblico per la giornalista, osannata dal web, adorata dai 'leosiners' che sono soprattutto giovani: "E' una responsabilità, uno stimolo, una motivazione in più. Il successo? E' una parola effimera. Forse la gente mi ama perché, al di là del mio impegno, sente che sono una persona semplice".
"Con Cosima e Sabrina vi racconto la verità sull'inferno di Avetrana". Stasera a «Storie Maledette» il colloquio in cella. «Ma i pedofili mai: non voglio mostri», scrive Paolo Scotti, Domenica 11/03/2018, su "Il Giornale". Si dice che prima d'indagare sui misteri altrui ci si debba interrogare sul proprio. E l'enigma che avvolge Franca Leosini inesorabile investigatrice delle anime nere di Storie maledette (da stasera alle 21,20 su Raitre) - è: come può una garbata signora provare interesse per i mostri che intervista? «Le mie non sono interviste ma incontri. E quelli che incontro non sono mostri ma uomini caduti nelle tenebre del male».
Signora Leosini: stasera lei avvicinerà Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, entrambe all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Cosa prova di fonte a persone simili? Curiosità? Rabbia? Pietà?
«Innanzitutto rispetto. E poi, spesso, compassione. I delitti non si giustificano mai. Però si devono interpretare. Capire è un dovere. Io non sono un pubblico ministero. Sono un'indagatrice dell'anima».
Insomma la pensa come Papa Francesco, che ai carcerati disse «Potrei essere al posto vostro».
«Esattamente. Un cuore di tenebra batte nel petto di ciascuno di noi. Non m'interessa il criminale in quanto tale: è l'uomo, che voglio indagare. Il mostro assoluto no: per questo non ho mai incontrato un pedofilo».
Ma loro perché l'incontrano? Un'estrema speranza di riabilitazione? Un insperato processo d'appello?
«Un po' tutte queste cose. Certo: loro sanno che ne avranno un restauro d'immagine. Chi accetta di scendere con me nell'inferno del passato, spera di gettare un ponte fra sé e la società nella quale, prima o poi, è destinato a ritornare».
E lei? Non prova alcuna inquietudine, neppure un po' di malessere, dopo essersi immersa in queste storie?
«Le vivo come psicodrammi. Dopo aver conosciuto la Misseri e la Serrano non ho chiuso occhio. La verità è che il callo non lo fai mai. Quando Mary Patrizio spiegò nei dettagli come uccise il figlio di cinque mesi, ricorsi a tutto il mio coraggio per non scoppiare a piangere».
Da Angelo Izzo a Patrizia Gucci a Pino Pelosi. Quanti di loro si dichiarano innocenti e quanti ammettono la colpa?
«Diciamo metà e metà. La verità vera non sempre coincide con quella processuale. Per ottenerla talvolta pongo domande durissime. I miei amici si stupiscono che io non riceva come risposta un cazzotto in faccia».
E le risposte sono davvero sincere? Mai dubitato d'essere ingannata, forse strumentalizzata?
«Una volta sola, con una donna molto celebre. Ma io sono ferratissima: studio per mesi tutti gli atti processuali, solo per Avetrana diecimila pagine di faldoni. Non gliela feci passare liscia».
E non teme di sottoporre i suoi spettatori al fascino del male? O di rendere i suoi ospiti degli eroi negativi?
«Quel fascino lo ha già abbondantemente esercitato la cronaca nera, che il male lo strumentalizza in innumerevoli programmi, da mattina a sera. Io cerco invece di capirlo. C'è una bella differenza».
I suoi incontri favoriscono in queste persone una presa di coscienza? Magari l'inizio di una redenzione?
«Ecco la mia soddisfazione più grande! Con molti di loro resto in contatto epistolare: Quante cose ho capito di me e di quel che ho fatto, mi scrivono. Fabio Savi, il capo della banda della Uno Bianca, mi scrisse d'essersi profondamente pentito. Ma mi chiese di non parlarne, e io mi astenni. Ho fatto cose troppo terribili perché possa permettermi di dire pubblicamente che ne sono pentito».
«Storie Maledette», Franca Leosini torna in tv e Twitter impazzisce per lei, scrive il 12 marzo 2018 “Il Corriere della Sera”. Ci sono “gli ardori lombari” dell’incauto giovanotto. E “l’immobile geografia del mistero”. E c’è soprattutto lei, Franca Leosini. Che a “Storie maledette” ripercorre uno dei delitti che più hanno sconvolto l’opinione pubblica degli ultimi anni, quello di Avetrana. Intervista in carcere Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ma a conquistare il web è il modo, in cui la conduttrice racconta la vicenda e interpella le due. Così Ivano Russo diventa “l’incauto giovanotto”, e Sabrina “sentimentalmente genuflessa”.
Animazioni, vignette, su Twitter Franca Leosini diventa subito una star. Franca Leosini e le sue metafore su Sarah Scazzi. Sul web è trionfo, scrive lunedì 12 marzo 2018 "Il Secoloditalia.it". E’ stato un ritorno in grande stile quello di Franca Leosini su Raitre con le sue Storie maledette. La puntata di esordio del programma ha avuto al centro il giallo di Avetrana con le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Il segreto del successo della Leosini sta nel suo modo sarcastico e arguto di porre le domande. “Mi accosto a questi personaggi – ha spiegato lei stessa – non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta”. Sui social i fan si sono scatenati nel commentare la puntata e soprattutto il linguaggio usato dalla giornalista, che già nell’introdurre il tema ha fatto ricorso alle sue celebri metafore: “Quando scompari misteriosamente in un giorno d’estate, subito hai diritto a una biografia. Anche se hai solo 15 anni, se sei sottile come un gambo di sedano e ti chiami Sarah”. E ancora: “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”.
Storie Maledette: dagli «ardori lombari» ai «crateri di cellulite». Ecco le frasi cult della Leosini sul caso Scazzi, scrive lunedì 12 marzo 2018 Giovanni Rossi su "Davide Maggio". Franca Leosini torna a parlare e far parlare. Nella prima puntata del 2018 di Storie Maledette la giornalista ha intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, in carcere per la morte di Sarah Scazzi. E nella lunga intervista in onda ieri sera su Rai 3 (di cui è stata trasmessa solo la prima parte) la Leosini ha sfoderato una serie di espressioni che conferma, ancora una volta, come il suo stile così arzigogolato sia un marchio di fabbrica in grado di catalizzare l’attenzione del pubblico. Ecco quindi una rassegna delle frasi “cult” pronunciate da Franca Leosini nel corso della prima puntata di Storie Maledette 2018.
La frase emblema della serata è quella in cui Franca chiede a Sabrina Misseri come ci si sente ad essere rifiutate durante un approccio sessuale: “L’incauto giovanotto, mentre - frenando i suoi ardori lombari – s’inforcava le mutande, come si giustificava con lei?”.
Poco prima la giornalista aveva stuzzicato Sabrina – secondo lei “sentimentalmente genuflessa” -, per farsi dire che tra lei e Ivano ci fosse qualcosa in più di una semplice amicizia: “Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei”.
E ancora, non riuscendosi a spiegare il successo riscosso da Ivano tra le ragazze di Avetrana, Franca dice che “Brad Pitt in confronto sembra un bipede sgualcito”. Il giovane viene definito anche: “A portata di cazzeggio”. Poi, rivolgendosi a Sabrina, parlando della sua presunta ingenuità, le confessa: “Lei è proprio una babbalona. Ma perché chiacchierava tanto?” .
Sul suo rapporto con il “Delon” di Avetrana, Franca chiede alla galeotta: «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?».
Altra perla della serata è quella relativa alla professione di estetista svolta dalla Misseri all’epoca dei fatti. Franca Leosini vuole sapere: “Al di là di spianare crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, lei che faceva?”.
E sempre su tale argomento si lascia andare a una considerazione: “Oggi anche per spremere una foruncolo ci vuole un master”.
La giornalista definisce l’intera vicenda una “epopea baraccona”, e parla delle voci di paese come di “becera chiacchierologia”. Arriva addirittura a rabbrividire per il congiuntivo sbagliato usato da Sarah Scazzi sulle pagine del suo diario: A proposito del diario della vittima, quando Sabrina Misseri sembra mentire sulle intenzioni che l’avrebbero spinta a leggerlo, Franca Leosini chiede elegantemente: “Mi permette di dubitarne?”. La giornalista ironizza su un colorito diverbio via sms tra Sabrina e Ivano e lo descrive come “uno scambio di opinioni di alto livello”, poi chiosa con un “Del senno di poi sono piene le fosse” davanti al pentimento della Misseri per aver rilasciato troppe dichiarazioni al tempo dei fatti. Non mancano nemmeno le similitudini religiose: “Dopo 40 giorni, 40 come una buia Quaresima, c’è un primo, clamoroso colpo di scena che scompagina l’immobile geografia di quel mistero”.
Franca Leosini intervista Sabrina Misseri e le sue citazioni conquistano il web. La prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata dedicata al delitto di Avetrana, scrive Giuseppe D'Alto, Esperto di Tv e Gossip, su "it.blastingnews.com" il 12 marzo 2018. Dopo il duetto canoro conClaudio Baglioni a Sanremo, #franca leosini è tornata protagonista della prima serata di Rai 3 con #storie maledette, con uno dei casi più dibattuti e controversi della cronaca italiana: il delitto di Avetrana. La giornalista ha riferito di aver studiato diecimila atti processuali prima di intervistare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per la morte di Sarah Scazzi. Dopo averle incontrate non ho chiuso occhio, ha riferito a Il Giornale. La Leosini ha riavvolto il nastro ed ha provato a ripercorrere passo dopo passo con la Misseri quella tragica estate di otto anni fa. ‘Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana.
Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina con i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scomparve‘. L’eleganza e la raffinatezza con la quale la conduttrice ha affrontato il delicato argomento hanno reso ancora più affascinante narrazione e intervista. La giornalista è passata con eleganza da un linguaggio forbito a quello più popolare per trattare argomenti più intimi e stimolare l’interlocutrice.
Frasi e citazioni sono diventate virali. Frasi e sottolineature che sono diventate subito virali sul web, con Storie Maledette che ha conquistato rapidamente la topic trend di Twitter. Facendo riferimento all’attività di estetista della Misseri, la Leosini ha sarcasticamente affermato: Oggi anche per un foruncolo sembra ci voglia il master. In riferimento al flirt della cugina di Sarah con Ivano la conduttrice ha citato Flaiano: I grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo? Sul rapporto con il ragazzo, la Leosini si è soffermata a lungo nel corso della prima parte dell’intervista con Sabrina: Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei.
Io e Sarah vittime di bullismo. La descrizione dell’incontro in auto della Leosini è stato definito un capolavoro dai numerosi seguaci di Storie Maledette: L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s'inforcava le mutande, come si giustifica con lei? Dall’altra parte Sabrina ha spiegato che Sarah era la sorella che non aveva mai avuto ed ha rivelato che entrambe sono state vittime di bullismo. ‘Lei si fidava di me e frequentando amici più grandi stava iniziando a credere di più in se stessa’. La Misseri ha ammesso di aver sbagliato a rilasciare tante interviste dopo la scomparsa della cugina.
Oggi non lo rifarei. Cosima Misseri si è soffermata sul rapporto con Sarah Scazzi ed ha spiegato che quando era piccola giocava con lei: Ho smesso di farlo quando mi ha detto che voleva essere adottata.
Franca Leosini e le sue “pillole”, Storie Maledette sul caso Avetrana è un grande evento tv La giornalista fa ritorno in tv trattando uno dei casi di cronaca più torbidi degli ultimi anni. Le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano diventano il teatro per le proverbiali perle della conduttrice, che come al solito trovano nei social un’immediata valvola di sfogo per innumerevoli citazioni, scrive il 12 marzo 2018 Andrea Parrella su "Fan page". Il ritorno di Storie Maledette in televisione era, probabilmente, uno degli appuntamenti più attesi di questa stagione televisiva. E si è confermato un evento. Franca Leosini, al netto della sua apparizione a Sanremo, era assente da diversi mesi dal piccolo schermo con nuove indagini sui casi di cronaca italiani più eclatanti degli ultimi anni. E l'attesa è stata soddisfatta con una puntata interamente dedicata al delitto di Avetrana, che vede condannate Sabrina Misseri e Cosima Serrano all'ergastolo per l'omicidio volontario di Sarah Scazzi e Michele Misseri ad 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento di prove. La prima puntata della nuova stagione di Storie Maledette, concentrata per buona parte sull'intervista a Sabrina Misseri, è andata in onda su Rai3 domenica 11 marzo, confermando l'amore eterno instauratosi tra Franca Leosini e il suo pubblico. "Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare", questo l'incipit che caratterizzava lo spot promozionale apparso sulle reti Rai nei giorni scorsi, una premessa che prometteva benissimo.
Il frasario della conduttrice del programma si è arricchito di altri aforismi precocemente citati su Twitter dai tantissimi utenti che seguono la trasmissione televisiva di Rai3 riproponendo, con fare devoto, le costruzioni sintattiche elaborate, forbite e ficcanti della giornalista napoletana. L'account ufficiale della trasmissione riprende quella che probabilmente è stata la frase più richiamata della serata, quella con cui la Leosini descriveva l'incontro sessuale tra Sabrina Misseri e Ivano: Non seconda è la smorfia inorridita della Leosini nel leggere alcuni passaggi del diario di Sarah Scazzi e soffermarsi, in particolare, su un congiuntivo sbagliato. Qualcuno tira in ballo un riferimento politico piuttosto telefonato ("severo ma giusto", direbbe qualcuno) di questi tempi. E tra le tante pillole di Leosini emerse in serata non possono mancare i messaggi di piena e completa ammirazione per la personalità e l'aplomb di una delle conduttrici più apprezzate del piccolo schermo. Con un piccolo colpo di scena, che non era stato preventivato da molti, la puntata non si chiude con la terminazione del racconto, visto che ci sarà una seconda puntata di Storie Maledette sul caso di Avetrana, in onda domenica 18 marzo 2018, come prontamente Rai3 pochi secondi dopo la sigla finale. Con qualche reazione scomposta…
Perché "Storie Maledette" è ormai un evento tv. Non c'è dubbio che Storie Maledette abbia assunto, negli ultimi anni, i caratteri di un programma in cui il personaggio alla conduzione rischia di essere prevaricante rispetto alle vicende e ai protagonisti stessi delle storie maledette raccontate. Si può spiegare forse con questo pericolo, oltre che con l'enorme mole di studio che richiede una trasmissione come Storie Maledette, la parsimonia nelle apparizioni tv di Franca Leosini e il numero esiguo di puntate per singola stagione del programma. Tutti elementi che contribuiscono a rendere una trasmissione televisiva un grande evento.
Franca Leosini e "Storie maledette". Le sue frasi cult fanno impazzire i Leosiners. La conduttrice torna sui Rai Tre con le sue interviste garbatamente sconvolgenti ed è subito leosiners-mania, scrive Adalgisa Marrocco il 12/03/2018 su "Huffingtonpost.it". Grande ritorno televisivo per Franca Leosini, che ha aperto la nuova stagione di Storie Maledette, nella prima serata domenicale di Rai Tre, tornando al 2010 e al delitto di Avetrana. La conduttrice televisiva ha infatti intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Un ritorno attesissimo, quello della Leosini, divenuta vera e propria star del web, oltre che del piccolo schermo, grazie al suo stile elegante ma incisivo, e alla capacità di affrontare personaggi e casi di cronaca sconvolgenti con una compostezza che le impedisce di scadere nel sensazionalismo e nella TV urlata. Un atteggiamento che non ha mancato di procurarle l'adorazione di Facebook, Twitter e degli altri social network, anche in chiave affettuosamente ironica (emblematica la pagina Uccidere il proprio partner solo per essere intervistati da Franca Leosini). Anche stavolta Franca non ha tradito le attese e la prima puntata di Storie Maledette si è rivelata una miniera: Cosima "dimostra una modernità insospettata" e sembra "una donna del 3000"; Ivano, talmente bello che "Brad Pitt al confronto sembra un bipede sgualcito", "frena i suoi ardori lombari" con Sabrina, una "babbalona" che racconta un po' troppo in giro le sue faccende più intime. E quando la ragazza ripercorre i pensieri che la attraversavano nelle drammatiche ore dell'omicidio di Sarah, arrivando ad ipotizzare un fantomatico rapimento, Franca la incalza: "Neanche Avetrana fosse la Locride dei sequestri degli anni '70...". Finezze linguistiche e argomentazioni simili a colpi di fioretto che hanno scatenato la reazione social dei cosiddetti leosiners.
Franca Leosini e le sue frasi di culto, oltre 1 milione 800 mila spettatori. Grande attesa e grande esordio per il programma condotto da Franca Leosini: «Storie maledette» è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share), scrive Renato Franco il 12 marzo 2018 su “Il Corriere della Sera”. Franca Leosini è tornata con la sua testa cotonata, gli occhi che guardano dritto per dritto, il suo lessico che mette in crisi gli accademici della Crusca, figurati un ergastolano, la sua capacità di raccontare il morboso in modo profondamente lieve. Domenica sono andate in scena le intervista a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano che hanno raccontato la loro verità sull’omicidio di Sarah Scazzi. Grande attesa e grande esordio: Storie maledette è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share, ampiamente sopra la media di Rai3 che è al 6,1%). Successo anche sui social, per quel che vale (il programma che genera maggiori discussioni non è detto che sia il più visto): la prima puntata è stata al primo posto dei programmi più commentati dell’intera giornata con oltre 132 mila interazioni.
Alla fine Sabrina si è pentita. Franca Leosini ha spiegato così il suo approccio ai casi che racconta: «La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta». Ma a rapire, come al solito, è il suo registro lessicale capace di pescare tra espressioni come «ardori lombari» ma non disdegnare di pronunciare parole come «cazzeggio». Le sue frasi sono già di culto: «Oggi non si prenderebbe a schiaffoni per aver scritto questi messaggi?»; «Oltre a spianare i crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, che vita faceva?»; «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?»; «Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei»; «L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s’inforcava le mutande, come si giustifica con lei?». Gioco, partita, incontro.
Storie Maledette, Sabrina Misseri e Cosima Serrano: ascolti record per la prima puntata. Franca Leosini, Storie Maledette: enorme successo per la prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le espressioni della giornalista rilanciate sui social, scrive il 13 marzo 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Storie Maledette, il programma di Franca Leosini, è tornato in onda, in prima serata su Rai 3, domenica 11 marzo 2018, con un'intervista esclusiva rilasciata da Sabrina Misseri e Cosimo Serrano, le due donne coinvolte in uno dei casi di cronaca nera più eclatanti degli ultimi anni, l'omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana. Come riporta Wikipedia, "il 21 febbraio 2017, la Corte suprema di cassazione ha definitivamente riconosciuto colpevoli e condannato all'ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione Sabrina Misseri e Cosima Serrano". L'intervista di Franca Leosini ha ottenuto i favori di pubblico e critica e l'entusiasmo dei cosiddetti "leosiners", la fascia di pubblico giovane che segue Storie Maledette e che riporta fedelmente le frasi cult della giornalista sui social network. E il ritorno di Franca Leosini sul piccolo schermo è stato premiato anche dagli ascolti: la prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata seguita da 1.855.000 telespettatori con uno share pari al 7.5%. (Aggiornamento di Fabio Morasca)
LE DICHIARAZIONI DI STEFANO COLETTA. Un «fenomeno televisivo», così viene definita Franca Leosini dal direttore di Raitre Stefano Coletta. Soddisfatto per i numeri registrati dal suo Storie Maledette, Coletta ha fatto i complimenti alla giornalista e conduttrice, diventata una superstar sul web. «La perizia d'indagine e la narrazione costruita su un appassionato linguaggio letterario fanno di Franca Leosini un fenomeno televisivo. Dietro l'ottimo dato di ascolto di Storie Maledette, si nasconde una platea istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva». Il programma ha fatto infatti registrare 132 mila interazioni sui tre principali social network, classificandosi al primo posto tra le trasmissioni televisive più commentate in rete. C'è grande soddisfazione a Raitre per i risultati complessivi raggiunti nel 2018, infatti è considerata «saldamente la terza rete generalista». (agg. di Silvana Palazzo)
PROFESSIONALITÀ INECCEPIBILE PER IL WEB. A Storie Maledette, Franca Leosini ha intervistato Sabrina Misseri, tornando quidi sul caso dell'omicidio di Sarah Scazzi. A colpire, oltre alle parole della Misseri, è stata la grande professionalità e il carattere fermo e deciso della Leosini. Tanti i commenti d'apprezzamento per la conduttrice: "Un racconto reso unico dalla professionalità ineccepibile della Leosini. - scrive una telespettatrice sui social dedicati alla nota trasmissione - Con le giuste parole e l'appropriato pathos si è materializzata la vita breve Della piccola Sarah. Il "babbalona" detto più volte a Sabrina è arrivato come un rimprovero fatto ad una figlia, che ha sbagliato e non può più tornare indietro. [...] In attesa di domenica io oggi guarderò nuovamente la puntata di ieri. Dalla tanta maestria si può solo imparare. Grazie" (Aggiornamento di Anna Montesano)
GRANDE SUCCESSO PER LA LEOSINI. Franca Leosini con il suo stile elegante e dissacrante insieme, è tornata ieri in occasione del nuovo ciclo di puntate di Storie Maledette, su RaiTre. Un appuntamento oltremodo atteso non solo per la sua collocazione nel prime time (scelta del direttore di rete, come specificato dalla stessa Leosini in una recente intervista al blog DavideMaggio) ma anche per il calibro delle protagoniste, ben due, intervistate: Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Saranno due le puntate dedicate al delitto di Avetrana nel corso delle quali la padrona di casa, dal carcere di Taranto, ha ripercorso le tappe che hanno portato alla morte di Sarah Scazzi, rispettivamente cugina e nipote delle due intervistate, entrambe condannate nei tre gradi di giudizio all'ergastolo. La doppia intervista ha visto Sabrina e la madre Cosima intervistate separatamente in due differenti sale. Una scelta anche questa voluta fortemente dalla Leosini per non farle influenzare nel corso dei loro racconti-ricordi. Protagonista assoluta è stata però Sabrina, alla quale è stata dedicata gran parte della prima puntata di Storie Maledette dedicata al delitto Scazzi. A farla da padrona non sono state tanto le lacrime che in più occasioni hanno rigato il viso della giovane Misseri, oggi trentenne, quanto piuttosto il linguaggio forbito, misto allo stile classico che la signora Leosini ha portato in tv e che in qualche modo contrastavano con il lessico semplice e a tratti insicuro di Sabrina e della madre. Messa in piega come sempre impeccabile, tailleur sartoriale scuro ed elegante e quasi una sorta di tenerezza che ha dimostrato in certi passaggi dell'intervista a Sabrina: la Leosini è andata avanti spedita, con frasi pungenti, altre capaci finanche di strappare un sorriso nonostante lo scempio di un delitto che ha spezzato la vita di una 15enne innocente che, come ricordato nell'esordio dalla stessa giornalista, fa ora parte della schiera degli angeli.
STORIE MALEDETTE DI FRANCA LEOSINI: SUCCESSO TV E SOCIAL. Un successo atteso e meritato, quello segnato ieri sera dalla prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano realizzata da una magistrale Franca Leosini nella sua trasmissione Storie Maledette. Il pubblico e i numerosi leosiners hanno premiato ancora una volta la signora del giornalismo italiano, che con la sua eleganza e le sue frasi diventate oggi già virali, ha segnato un ottimo risultato in termini di ascolto tenendo incollati al piccolo schermo 1.855.000 telespettatori con una share media del 7.5%. Un risultato senza dubbio migliore rispetto a quello che era stato registrato nell'esordio della passata stagione, quando l'intervista a Rudy Guede, condannato per il delitto di Perugia, aveva invece interessato 1.459.000 con share del 5.32% nonostante il clamore. Enorme anche l'interazione social che ha permesso di far volare la prima puntata di Storie Maledette direttamente in cima alle tendenze dei programmi più commentati dell'intera giornata, con oltre 132 mila interazioni. Ad appassionare saranno certamente state quelle domande così prive di pregiudizio, lo stesso che Sabrina ha invece più volte denunciato. Sua premura quello di fornire al telespettatore un ritratto visto da un'angolazione inedita rispetto a quello emerso dalle pagine di cronaca nera. Non è un caso se proprio a proposito della sua trasmissione la Leosini aveva commentato, come spiega TvZap: "La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta". Qual è il ritratto che la giornalista ha tracciato di Sabrina? Come da lei ribadito nel corso della puntata, certamente quello di una ragazza "insicura e fragile", ma anche "sentimentalmente genuflessa" a Ivano Russo, il tutto condito da frasi ironiche durante la lettura dei loro sms le cui espressioni non sono passate inosservate dagli spettatori, subito rilanciate sui principali social in attesa del secondo capitolo.
Leosini fa il record con Avetrana: “Affronto le storie con equidistanza”, scrive il 13/03/2018 Michela Tamburrino su "La Stampa". Un fenomeno televisivo quello di Franca Leosini, capace di catalizzare l’interesse del pubblico, di strappare audience alla concorrenza anche di casa e di tracciare una linea netta su come si fa televisione d’inchiesta. Storie maledette raccoglie il 7.53% di share, quasi 1,9 milioni di telespettatori (e punte dell’11% di share e 2 milioni) e segna il record di ascolto del programma dal 2014, domenica su Rai 3 in prima serata. Una platea, la sua, istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva. Il programma va fortissimo sui social network, è il commentato del giorno in Rete. Merito di Leosini che è un’icona e non solo nell’universo spinoso della giudiziaria. Conducesse Sanremo probabilmente il successo sarebbe lo stesso, tanto è entrata nell’affezione del telespettatore generalista. «Merito» anche delle protagoniste della prima puntata di domenica sera, al centro di una storia che prenderà due appuntamenti. Dall’altra parte del tavolo siede Sabrina Misseri, giudicata colpevole d’aver ucciso la cuginetta Sarah Scazzi. Per gelosia, per amore. Con lei, condannata anche la madre Cosima che per una felice intuizione di sceneggiatura è stata posta ad interagire con la figlia ma in lontananza.
Ma perché questa storia ha tanto catturato l’interesse della gente? Forse perché Leosini ha dato una lettura diversa della vicenda mettendo in luce le crepe dell’inchiesta e confrontando la verità processuale con la verità possibile?
«Io affronto sempre le storie che tratto con grande equidistanza, per rispetto del protagonista e per rispetto del pubblico. Un dovere morale per una professionista come me che sa valutare le conseguenze di un processo. Bisogna anche dire che esistono eventi di cronaca che diventano storia. Questo attiene alla realtà dei personaggi e all’ambiente in cui i fatti avvengono. Luoghi che si fanno paesaggi dell’anima».
Come Avetrana, un piccolo centro che rimanda un po’ Peyton Place, oppure?
«Se dovessimo fare un parallelo italiano, parlerei di Cogne, per l’intensità dei personaggi». Archetipi tragici che si muovono in un universo malato. «Nella prima puntata ho descritto l’ambiente, il paese che da luogo gentile si trasformerà in capitale del pettegolezzo. Nella seconda puntata la figura del padre di Sabrina, Michele Misseri, esploderà. Per la prima volta intervisterò una collega giornalista, la vostra Maria Corbi che per lavoro è stata molto addentro alla storia che narriamo».
Franca Leosini, soddisfatta degli ascolti?
«Sono molto contenta per la rete anche perché avevamo contro concorrenti di peso: Fazio, Giletti e la partita Napoli-Inter». Perchè i protagonisti delle Storie maledette si fidano di lei così tanto? «Perchè affronto con loro la fatica del ricordo».
DAGOREPORT il 27 giugno 2019. È guerra a Rai3 tra le due signore della cronaca nera. Federica Sciarelli e Franca Leosini. Pare che la conduttrice di “Chi l’ha visto” non abbia per niente gradito che Antonio Ciontoli, accusato di aver ferito a morte Marco Vannini abbia concesso un’intervista non a lei ma a Franca Leosini, verso la quale la Sciarelli durante la diretta di ieri ha lanciato una bordata piena di ironia e di sarcasmo: “Per dovere di chiarezza, dobbiamo dire che noi di "Chi l'ha visto" l'abbiamo sempre chiesta l'intervista a Antonio Ciontoli. A noi non ce l'ha mai concessa. Come si dice: "Fatevi una domanda, datevi una risposta". La Leosini sorpresa pare abbia interessato della vicenda i piani alti dell’azienda.
Intervista. Sciarelli a caccia della “verità” in Tv. Massimiliano Castellani venerdì 26 aprile 2019 su Avvenire. Il 30 aprile 1989, Rai 3 trasmetteva la prima puntata di “Chi l’ha visto?”, una delle trasmissioni più longeve e seguite del palinsesto, specie negli ultimi 15 anni con la conduzione della giornalista. Federica Sciarelli, dal 2004 conduttrice dello storico programma di Rai 3 “Chi l’ha visto?”. In un oceanico palinsesto, in cui si naviga un po’ tutti a vista come naufraghi diretti all’isola dei noiosi, c’è una sola trasmissione Rai (sul 3) che insiste e resiste: èChi l’ha visto?. Una resistenza civile (condivisa dal 93% degli utenti) che va avanti dai tempi di Angelo Guglielmi direttore di Rai3. La prima storica puntata di Chi l’ha visto? infatti andò in onda trent’anni fa: il 30 aprile 1989. In principio, alla conduzione c’era l’inedita coppia Donatella Raffai-Paolo Guzzanti, poi, tranne l’avvocato Luigi Di Majo, solo donne al comando: Giovanna Milella, Marcella De Palma, Daniela Poggi. E dal 13 settembre 2004, fu la prima volta sotto l’egida carismatica e pasionaria di Federica Sciarelli. Romana (classe 1958), ma di origini napoletane, che la rendono costantemente solare e combattiva. Giornalista d’assalto, «ero una “pierina” ai tempi del Tg3: unica donna della redazione politica, con la fortuna di avere Sandro Curzi direttore e grande maestro». Inviata di Samarcanda per Michele Santoro e poi da quindici anni a questa parte «non ha più mollato l’osso», come dicono i suoi più stretti collaboratori. L’osso è lo studio di via Teulada, quello delle ricerche a tappeto dei casi di persone scomparse, dei misteri insoluti in un Paese che si nutre di mistero.
Un «Romanzo popolare», cito Guglielmi, più che una trasmissione la sua. Ma come si spiega questo enorme successo che ha toccato l’apice nelle quindici stagioni “sciarelliane”?
«Me lo spiego nel fatto che non siamo un programma di sola cronaca ma che nel tempo è stato capace di raccontare l’Italia reale a un pubblico che spesso riconosce nella vicenda trattata qualcosa che potrebbe riguardarlo o che riguarda il suo vicino. E quello che si vede a casa tutti i mercoledì, in prima serata fino a mezzanotte, è solo una parte del lavoro che, sette giorni su sette, con turni anche massacranti, portiamo avanti con una redazione (una ventina di persone tra interni e inviati) composta da professionisti e persone sensibili ad ogni singolo caso, ad ogni storia umana che scoviamo o che ci viene segnalata».
Ha detto «raccontiamo l’Italia», ma in questi anni quanto è cambiato il Paese?
«Il nostro è un osservatorio molto attento. Quando sono arrivata a Chi l’ha visto? era un’Italia in piena crisi economica in cui scomparivano prevalentemente padri di famiglia, e nove volte su dieci si trattava di suicidi. Oggi abbiamo un caso di violenza quotidiana sulle donne, e a volte manca il tempo e il respiro in trasmissione che subito ne accade un altro... Siamo passati dalle scomparse a quelli che con il “caso Claps” abbiamo sdoganato come «omicidi con occultamento di cadavere». E io non mi stanco mai di ripetere ai telespettatori: guardate che le donne, le ragazze non se ne vanno mai via volontariamente di casa, che una mamma non lascia mai i suoi figli da soli per sparire nel nulla...»
Ha citato l’omicidio della 16enne di Potenza Elisa Claps, il caso che forse ha fatto cambiare direzione al programma.
«Vero. Ricordo Filomena Claps che si arrabbiò moltissimo quando la polizia mostrò l’identikit che simulava l’invecchiamento della figlia. “Elisa me l’ha uccisa Restivo!” gridava disperata. Io ho raccolto quel grido materno, mi sono letta tutti gli atti come faccio spesso anche alla domenica a casa da sola - e da madre e giornalista che si assume sempre le sue responsabilità ho attaccato duramente Danilo Restivo, avvertendo i miei dirigenti: se la trovano viva, allora io vado a casa e cambio mestiere... I resti della povera Elisa vennero ritrovati nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza. Fu uno strazio, mi consola la bellissima amicizia con la famiglia Claps, una delle tante famiglie delle vittime con cui si è stabilito un rapporto di reciproco affetto che va avanti ben oltre il video».
L’idea che si ha dal video del salotto di casa è che Chi l’ha visto? sia un po’ una “casafamiglia” alla quale rivolgersi per chiedere aiuto.
«Noi ci occupiamo di quei casi che per la mole di lavoro che hanno carabinieri e polizia a volte non ce la fanno a seguire più di una settimana e quindi simpaticamente le stesse forze dell’ordine dicono ai famigliari: “rivolgetevi alla Sciarelli”. Sul lungo periodo è normale che si crei un rapporto di tutela con chi ha bisogno di essere ascoltato. Non dimenticherò mai la lettera scritta a mano che mi inviò il papà del calciatore Denis Bergamini che si chiudeva con un tenero e disperato: “Chi può, se non voi, interessarsi alla morte di mio figlio?”».
Bergamini, passato per il “calciatore suicidato”, grazie anche a voi si è scoperto essere un omicidio ancora irrisolto, anche per colpa dei tanti depistaggi. E quelli, non mancano mai, a cominciare dall’assassinio di Ilaria Alpi, forse una delle maggiori “vittorie” della trasmissione.
«Per Ilaria Alpi abbiamo sperimentato con successo il “metodo Chi l’ha visto?” che parte dal mio principio cardine: meglio morire sparato che in ospedale... Perciò chiesi a Chiara Cazzaniga, giornalista che conosce perfettamente la lingua araba di prendersi tutto il tempo ma di trovare un somalo “buono” che parlasse e in grado di scagionare quel povero Hashi Hassan che si è fatto 17 anni di carcere da innocente. Quando a Londra Chiara scovò Gelle che confermò l’innocenza di Ashi è stato un momento liberatorio, come l’abbraccio con Adriana Alpi, la mamma di Ilaria, che per me è stata più di un’amica».
Una rivincita contro i depistatori di professione con i quali lei si scaglia coraggiosamente contro, anche in diretta.
«Beh - sorride - ho rimesso al suo posto anche l’attentatore di papa Wojtyla, Ali Agca, quando si intromise con le sue bugie sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Stando a stretto contatto con le famiglie come la Orlandi o quelle della piccola Denise Pipitone che da anni rivendicano il “corpo” delle loro figlie non posso tollerare che qualcuno, in maniera criminale, sparga menzogne riaccendendo le speranze di chi soffre già tanto per una verità che non arriva...»
«Verità», sembra la parola guida nell’esercizio della sua professione di giornalista.
«Sì, la verità prima di tutto. A volte mi rendo conto di essere particolarmente passionale ma come faccio a non scaldarmi quando mi trovo di fronte all’omicidio del bambino di Cardito. Ma come è possibile mamma... se tuo figlio viene picchiato come fai a non metterti in mezzo e a gettarti nel fuoco per lui? Parto da casa e arrivo alla scuola, perché non accada più che un insegnante non denunci se vede arrivare in classe un bambino pieno di lividi come accadeva al piccolo Giuseppe che è morto per le botte che gli dava il patrigno, e la sua sorellina è ancora viva per miracolo».
Avvertiamo forte la sua emozione quando si occupa di bambini, le è mai capitato di piangere in diretta?
«Cerco di tenere botta, ma non è facile trattenere le lacrime quando ripenso alla fine di Tommaso Onofri: il giorno prima del ritrovamento del suo corpicino ero stato a trovare la mamma a Parma... È dura quando affronti in diretta drammi come quello di Sarah Scazzi o dei fratellini di Gravina, Ciccio e Tore, che sono morti laggiù, in fondo a un pozzo. Per difendere i diritti dei più piccoli abbiamo subito anche l’assalto di quelli di Casa Pound che in una manifestazione picchiavano dei ragazzini».
In questi quindici anni, ha mai pensato di gettare la spugna?
«No, perché il seguito e il calore del pubblico mi dà energia e così mi riprendo dal prosciugamento settimanale. Poi scarico tutte le tensioni accumulate facendo sport, footing, palestra, pattinaggio artistico. Il poco tempo libero che ho dal lavoro, lo passo con mio figlio, Giovanni Maria. Farà il giornalista? È iscritto a Scienze Politiche, spesso mi sorprende con delle informazioni che gli arrivano molto prima... Ha un grande senso della notizia e poi è cresciuto a pane e tv, da piccolo quando mi vedeva leggere il Tg pensava parlassi a lui e diceva: “Oh, ma mamma ma non mi rispondi?”».
Quando ha capito che la Sciarelli è diventata un icona pop.
«Forse quando sono andata ospite a Sanremo. Dietro le quinte volevo farmi dei selfie con i miei cantanti preferiti e con grande sorpresa ho scoperto che invece erano loro che chiedevano di fotografarsi con me. Ron mi è venuto incontro e mi fa: “Sei il mio mito. Ma lo sai che tutti i mercoledì sera mi siedo sul divano e vedo Chi l’ha visto? con la mia mamma...»
· I 30 anni di “Un giorno in pretura”.
“Un giorno in pretura”, con Roberta Petrelluzzi, torna dal 28 aprile. In onda da più di trent’anni, è una delle trasmissioni più longeve di Raitre. Ritorna con quattro nuovi appuntamenti dedicati a grandi processi. Simona De Gregorio su Sorrisi.com il 28 Aprile 2019. In onda da più di trent’anni, "Un giorno in pretura" è una delle trasmissioni più longeve di Raitre. E da domenica 28 aprile ritorna in prima serata su Raitre con quattro nuovi appuntamenti dedicati a grandi processi. Alla conduzione ritroviamo Roberta Petrelluzzi, che ne è anche ideatrice e regista. E ad aprire il ciclo è il caso Ciontoli: il 17 maggio 2015 a Ladispoli (Roma) Marco Vannini, 20 anni, si ferma per la notte a casa della fidanzata, Martina Ciontoli. Nella notte il padre di Martina chiama il 118 per un piccolo incidente avvenuto a Marco. In realtà il ragazzo è stato colpito da un colpo d’arma da fuoco partito accidentalmente dalla pistola di Antonio e muore.
Perché avete scelto questa storia?
«Perché è un caso che ha avuto un grande rilievo mediatico. E noi ricostruiamo tutte le fasi del processo, in cui si è cercato di rispondere a tante domande: se i Ciontoli avessero chiamato tempestivamente i soccorsi Marco si sarebbe salvato? Si sono resi realmente conto della gravità della situazione?».
Quanto impiegate per realizzare una puntata?
«Tanto tempo perché dietro c’è un lungo e meticoloso lavoro. Partiamo dagli atti processuali che leggiamo dall’inizio alla fine con grande attenzione e poi mettiamo insieme tutto il materiale creando una sorta di sceneggiatura. È una ricostruzione fedelissima, non ci sono giudizi, interpretazioni, morbosità».
Non si lascia mai coinvolgere dalle vicende che trattate?
«Cerco di essere il più possibile distaccata. Ma non sempre ci riesco. Quando abbiamo affrontato il delitto di Avetrana ho sofferto tantissimo perché sono convinta che la zia e la cugina di Sarah Scazzi non siano colpevoli della sua morte».
Qual è il segreto della longevità di Un giorno in Pretura?
«Ogni processo è un teatro della vita reale, fatta di sentimenti, di errori, di debolezze, che noi mostriamo senza mediazioni. Il pubblico segue un caso e si fa un’opinione scevra da pregiudizi».
Chi l’ha visto?: 30 curiosità per i 30 anni della storica trasmissione di Rai3. Salvatore Cau lunedì 29 aprile 2019 su Davide Maggio. Buon compleanno Chi l’ha visto?! La trasmissione di Rai3 festeggia 30 anni di messa in onda. Erano le 20.30 di domenica 30 aprile 1989 quando sugli schermi della terza rete, allora diretta da Angelo Guglielmi, prese il via un programma destinato ad entrare nella storia della tv e del costume italiano. Per festeggiare l’importante traguardo ripercorriamo questi 30 anni di successi attraverso altrettante curiosità ed aneddoti legati alla trasmissione ideata da Lio Beghin.
1 - Dopo Un giorno in pretura (18 gennaio 1988) e Blob (17 aprile 1989), Chi l’ha visto? è il terzo programma più longevo di Rai 3.
2 – Chi l’ha Visto? ha raggiunto un totale di 31 edizioni e ben 1209 puntate (al 24 aprile 2019). Con 15 edizioni e 653 puntate (al 24 aprile 2019), Federica Sciarelli è la conduttrice più longeva del programma.
3 - L’attuale sigla del programma, intitolata Missing, è stata composta da Bruno Carioti e Lamberto Macchi ed è in uso dal gennaio 1993. Nel corso degli anni ha subito diversi restyling grafici ed è stata riarrangiata musicalmente nell’edizione 2016-2017. La puntata in onda il 6 febbraio 2019, in piena settimana sanremese, è stata eccezionalmente aperta con una versione orchestrale della sigla eseguita dall’orchestra sinfonica della Rai. Nelle prime quattro edizioni del programma venne invece utilizzata un’altra sigla, realizzata da Toni De Gregorio con le musiche di Massimiliano Orfei.
4 – Lo storico numero 06/8262, presente sin dalla prima edizione (sostituito soltanto nelle stagioni 1989/1990 e 1990/1991), era inizialmente utilizzato anche da altre trasmissioni di approfondimento giornalistico che facevano parte del ciclo “Chiama in diretta Rai3”. Tra queste Telefono Giallo, Linea Rovente, Camice Bianco, Parte Civile. Lo stesso numero venne usato anche per una striscia quotidiana intitolata per l’appunto 8262. La rubrica di cronaca ed attualità, nata nell’autunno del 1992 con l’obiettivo di fare da traino al Tg3 delle 19.00, non ebbe però il successo sperato e venne cancellata dopo poche settimane.
5 – La trasmissione riprende per certi versi la rubrica Dove sei? proposta anni prima nel programma Portobello da Enzo Tortora, ma nasce ufficialmente dopo il buon riscontro di pubblico ottenuto, nel 1988, da Posto pubblico nel verde, altro programma ideato da Lio Beghin. Durante la trasmissione, che utilizzava il già citato numero 06/8262, ci si occupò tra i vari argomenti anche della misteriosa scomparsa di un agente pugliese della Guardia di Finanza. Il caso, ancora oggi irrisolto, coinvolse notevolmente il pubblico da casa, che si attivò con decine di segnalazioni ed interventi.
6 - Il primo caso di scomparsa trattato da Chi l’ha visto? fu quello di Jennifer, una ragazza di ventuno anni di origini americane, ausiliaria della base Nato di Bagnoli, sparita nel nulla nell’estate del 1988. Per la cronaca la ragazza, della quale alcuni giornali italiani si erano già occupati, venne ritrovata il giorno dopo l’appello in trasmissione. Fu lei stessa a chiamare il padre, intervenuto all’interno del programma la sera precedente. Jennifer non fu rapita, come si pensava, ma si allontanò volontariamente dopo aver preso parte ad una festa a base di alcol e sesso con altri suoi colleghi militari. Trasferitasi a Reggio Calabria, aveva poi incontrato un marocchino pregiudicato con il quale per diversi mesi era andata a vivere insieme in un appartamento condiviso con altri uomini nordafricani.
7 - La trasmissione ha vinto ben 3 Telegatti (1990, 1991, 1999) nella categoria Tv utile, e 2 Premi Regia Televisiva (1990, 2011).
8 - Negli anni 90, grazie al successo di Chi l’ha visto?, Donatella Raffai, prima storica conduttrice del programma, divenne un volto popolarissimo del piccolo schermo. Tale successo le valse un Telegatto nel 1990 come personaggio femminile dell’anno. Sparita dalla tv italiana nel 1999, la Raffai, “emulando” i tanti scomparsi dei quali si era occupata, si è trasferita in Costa Azzurra, a pochi chilometri da Nizza, insieme al compagno Silvio Maestranzi, ex regista Rai. Qui si è ritirata a vita privata evitando di apparire in tv e di rilasciare interviste. A seguito della sua prolungata assenza dagli schermi televisivi, alcuni siti Internet avevano diffuso l’errata notizia della sua prematura morte a causa di un tumore.
9 – Riferendosi a Donatella Raffai, nei primi anni 90 Antonio Ricci dichiarò: “Gronda umanità da tutti gli artigli”.
10 - La Raffai viene citata in una canzone parodistica di Stefano Nosei sull’alcolismo che in una strofa recita: “Il fegato lo perderai…e lo cercherà la Raffai”, e in un brano di Enzo Iacchetti: “Non lo trovarono mai… alla faccia della Raffai”.
11 - Chi l’ha visto? compare all’interno del film di Riccardo Milani La guerra degli Antò. Nella pellicola Donatella Raffai interpreta un breve cameo nel ruolo di sé stessa, conduttrice di un’improbabile puntata del programma.
12 - Nella stagione 1990-1991 l’ideatore Lio Beghin, in rotta di collisione con la Rai, abbandonò il programma e passò alla Fininvest, dove propose un programma molto simile a Chi l’ha visto? dal titolo Linea Continua. La trasmissione, dedicata alla ricerca di persone scomparse e ai misteri insoluti, era condotta da Rita dalla Chiesa e Andrea Barberi ed andava in onda tutti i giorni con una striscia quotidiana e il martedì in prima serata su Rete4. Visto il basso riscontro di ascolti venne chiusa dopo appena due mesi.
13 – Nella stagione 1991-1992, dopo l’abbandono di Donatella Raffai, decisa a intraprendere nuove sfide lavorative, il programma venne affidato a Luigi Di Majo(già presente con la Raffai nelle stagioni 1989/1990 e 1990/1991) e alla sessuologa Alessandra Graziottin. In questa stagione si registrò un notevole calo degli ascolti che portò i dirigenti di Rai3 a chiudere la trasmissione. Dopo alcuni mesi di pausa, il 19 gennaio 1993, si decise di riproporre il programma con il ritorno alla conduzione della Raffai. La giornalista, reduce dal doppio flop dei programmi Parte Civile e 8262, riportò il programma al successo.
14 – Dalla stagione 1993/1994, dopo la soppressione della trasmissione Telefono Giallo di Corrado Augias, Chi l’ha visto? ha esteso il suo campo di indagine anche a casi di delitti irrisolti e ad inchieste di cronaca. Nella stagione venne addirittura realizzato uno spin-off intitolato Indagine, che si occupava esclusivamente dei casi di cronaca. Alla conduzione Giovanna Milella che nella primavera 1994 aveva sostituito la Raffai alla conduzione.
15 - Una parte integrante della trasmissione è sempre stata rappresentata dalle telefonate in diretta dei telespettatori, che riportano segnalazioni e avvistamenti. In alcuni casi in passato era lo stesso ricercato a telefonare, confessando un allontanamento volontario. Una delle telefonate storiche del programma è stata quella effettuata da una donna nella puntata del 19 novembre 1989. La signora fece ritrovare in diretta, grazie ad un successivo intervento delle forze dell’ordine, il camper della famiglia Carretta, scomparsa da mesi.
16 – Marcella De Palma, giornalista del Tg3 e conduttrice della trasmissione dal 1997, lasciò il programma il 21 dicembre 1999, a ridosso delle vacanze di Natale, dando ai telespettatori l’appuntamento a gennaio. Con il nuovo anno Chi l’ha visto?non venne però trasmesso e tornò in onda soltanto il 1° febbraio con la conduzione in studio di Fiore De Rienzo, Tiziana Panella, Pino Rinaldi e Filomena Rorro, principali inviati del programma. La De Palma, che da tempo si era ammalata di tumore, infatti, ebbe un aggravamento improvviso della malattia che le impedì di proseguire il suo lavoro e morì l’8 marzo dello stesso anno. I quattro inviati condussero il programma fino all’ultima puntata della stagione.
17 - Nell’autunno del 2000 la conduzione venne affidata a Daniela Poggi. Tale scelta fu oggetto di diverse critiche da parte di pubblico e addetti ai lavori, che ritenevano la trasmissione non adatta nei contenuti ad un’attrice ed ex-soubrette, ma più consona ad un giornalista professionista. Con il suo stile garbato e professionale la Poggi mise a ben presto a tacere le critiche e venne riconfermata alla guida del programma per 4 stagioni.
18 - Nel corso degli anni sono state realizzate diverse puntate speciali. Tra queste si ricordano: Speciale Chi l’ha visto? – Donne senza mimose, due appuntamenti, in onda il 1º e 8 marzo 1999, dedicati alle donne vittime di sé stesse e dei loro rapporti; Speciale Chi l’ha visto? – Alla ricerca del segreto, puntata speciale in onda il 25 marzo 2002, nel quale vennero documentate storie di persone che cercano le loro origini. Speciale Chi l’ha visto? – Labirinti, puntata speciale in onda il 10 gennaio 2003, dedicata alle sparizioni più singolari che, nonostante le indagini di magistrati e Polizia, non hanno mai trovato una soluzione.
19 - Il 4 novembre 2008, subito dopo la messa in onda di una puntata, lo studio di Chi l’ha visto? venne preso d’assalto da un gruppo di attivisti di estrema destra per via di un servizio andato in onda nel quale veniva mostrata un’aggressione a dei giovani in piazza Navona a Roma. I volti di quegli aggressori del Blocco Studentesco, mostrati durante la trasmissione, scatenarono gli estremisti che minacciarono i redattori del programma di pesanti ritorsioni: “Vi abbiamo identificato, a voi ed ai vostri familiari”.
20 - Dalla stagione 2009-2010 nel programma è prevista la presenza del pubblico in studio. A differenza delle altre trasmissioni il pubblico rimane per tutta la durata della puntata in completo silenzio, non intervenendo mai con applausi o con commenti.
21 – Nella puntata andata in onda il 6 ottobre 2010, il programma, che da tempo si occupava della scomparsa di Sarah Scazzi (una ragazza di 15 anni di Avetrana), diede in diretta alla madre di Sarah (in collegamento da casa dei Misseri, zii della ragazza) la notizia del ritrovamento del cadavere della figlia, in seguito alla confessione del suo presunto assassino, ovvero lo zio Michele. Tale episodio ottenne punte di oltre 5 milioni di telespettatori ed il 40% di share ma venne pesantemente criticato da parte del pubblico e degli addetti ai lavori.
22 – Chi l’ha visto? è stato spesso protagonista di vari sketch e parodie. Tra le tante, si ricordano: un’esilarante imitazione della Raffai da parte di Corrado Guzzanti in Scusate L’interruzione; lo spettacolo teatrale di Benito Urgu Chi l’ha visto, l’ha visto?; l’imitazione di Federica Sciarelli da parte di Lucia Ocone a Quelli che il calcio, e di Francesca Reggiani a teatro e in tv con l’improbabile ‘Ndo l’hai visto?; ed ancora gli sketch di Lillo e Greg in radio e tv al grido di Che l’hai visto?. Negli anni ‘90 all’interno di UnoMattina Estate venne inoltre realizzata la rubrica Chi l’ha VIPsto?, nella quale i telespettatori dovevano scovare dei vip in vacanza.
23 - Dalla trasmissione sono stati tratti tre libri: Chi l’ha visto? (Donatella Raffai, 1990), Scomparsi (Donatella Raffai, 1991) e Storie di Chi l’ha visto? (AA.VV.2011).
24 - A Chi l’ha visto? difficilmente trovano spazio ospiti legati al mondo dello spettacolo. Una delle poche eccezioni è avvenuta nella puntata del 9 aprile 2014, quando la trasmissione ha ospitato Alba Parietti. La showgirl, in collegamento da Milano, in quell’occasione si rivolse alla trasmissione per denunciare un possibile caso di malasanità che aveva visto per protagonista il marito di Sally, la sua storica colf filippina.
25 - Nella puntata del 25 febbraio 2015 è intervenuta telefonicamente Milly Carlucci. La conduttrice ha chiamato in diretta Federica Sciarelli per rinnovarle l’invito a partecipare come pattinatrice allo show di Rai 1 Notti sul ghiaccio.
26 - Nelle puntate in onda il 29 marzo 2017 e il 23 maggio 2018 la trasmissione è stata vittima del disturbatore Michele Caruso che, spacciandosi per testimone di alcuni episodi trattati in trasmissione, è intervenuto telefonicamente durante la diretta, salvo essere prontamente scoperto e zittito da Federica Sciarelli.
27 - Nella puntata in onda l’11 maggio del 2016, mentre la trasmissione si occupava della scomparsa di Emanuela Orlandi, intervenne al telefono Ali Agca. L’ex terrorista turco, che sparò a Giovanni Paolo II, chiamò per fare alcune rivelazioni sul caso della giovane scomparsa il 22 giugno del 1983. L’uomo sostenne che Emanuela Orlandi fosse stata rapita per ottenere la sua liberazione, in accordo con il Vaticano. Secondo l’ex terrorista, il Papa e Sandro Pertini avrebbero dovuto incontrarsi per decidere il suo rilascio. Di fronte a queste affermazioni – certamente forti, ma prive di alcun riscontro – Federica Sciarelli si rivolse all’uomo così: “Lei è un criminale pagato per sparare al Papa. Porti le prove di quello che dice altrimenti le sue sono solo buffonate”.
28 – Nella puntata del 9 novembre del 2016, Federica Sciarelli lanciò un appello legato alla sparizione di una ragazza di 17 anni di Rimini. Quest’ultima si fece subito viva con un messaggio sul proprio profilo Facebook: “Volevo avvisare tutte le persone che si sono preoccupate per me che sto benissimo, non voglio essere cercata e tornerò (…) La foto su ‘Chi l’ha visto’ fa veramente cagare…“. La Sciarelli dopo aver letto testualmente il contenuto del post si è rivolta alla ragazza: “I tuoi sono preoccupati, sei minorenne, i tuoi hanno la responsabilità finché non hai 18 anni… Se la fotografia non ti piace la cambiamo, daccene un’altra tu, però fatti viva con le persone che ti vogliono bene perché c’è tanta preoccupazione”.
29 - Nella puntata in onda il 27 aprile 2016, Federica Sciarelli replica a Matteo Salvini, che la settimana prima aveva criticato la trasmissione di Rai3. Il leader leghista, in particolare, aveva accusato il programma di processare i Carabinieri dopo la messa in onda di un filmato riguardante la vicenda di Cerro Maggiore: nel video in questione si vedeva un pubblico ufficiale dell’Arma che schiaffeggiava una donna. “Tutto questo con denaro pubblico… Una vergogna!” aveva tuonato Salvini. La giornalista, senza mai nominare Salvini, ha risposto: “Devo ringraziare tutti voi, che vi siete accorti prontamente di un tweet di un esponente politico contro Chi l’ha visto?… dobbiamo rispondere ad una cosa che non è proprio vera. Cosa ha scritto l’esponente politico: “Tutto questo con denaro pubblico, una vergogna!”. Non è vero. Siamo pagati interamente con la pubblicità, il rapporto è 4 a 6: noi costiamo 4 e la pubblicità è 6. Facciamo un servizio pubblico grazie agli imprenditori che investono e facciamo entrare addirittura soldi alla cassa della Rai. Questa cosa del denaro pubblico, quindi, a noi non ce la può dire. “Una vergogna”, se lo può tenere…”.
30 - In 30 anni Chi l’ha visto? è andato in onda in tutti i giorni della settimana ad eccezione del sabato. La trasmissione, partita alla domenica sera, è in seguito approdata al venerdì. Per alcuni anni ha occupato la serata del martedì, occasionalmente il giovedì, e poi il lunedì. Dal 2010 il programma va in onda al mercoledì.
· “Tutta la verità” sui casi controversi.
“Tutta la verità” sui casi controversi. Andrea Fagioli giovedì 9 maggio 2019 su Avvenire. I delitti di Erba, Avetrana e Garlasco, poi il Giallo Pantani e ora L'enigma del Mostro di Firenze. Continuano su Nove gli speciali di Tutta la verità dedicati ai più controversi fatti di cronaca. I primi due sono stati affrontati nella scorsa stagione televisiva. Il caso dell'omicidio di Chiara Poggi ha invece aperto il nuovo ciclo che per il momento ha offerto la puntata più interessante con la ricostruzione delle circostanze misteriose che avvolgono la morte di Marco Pantani, “Il Pirata”. Gli appassionati di ciclismo lo ricordano bene. I suoi scatti in salita erano micidiali. «Aveva la dinamite nelle gambe», ha detto qualcuno. A fermarlo non furono gli avversari, ma i giudici dell'antidoping mentre stava per vincere il suo secondo Giro d'Italia consecutivo. Il controllo rilevò alti valori di ematocrito che i più ritengono manomessi per favorire un colossale giro di scommesse organizzato dalla camorra. Da quel colpo Pantani non riuscì a risollevarsi. Fu trovato morto qualche anno dopo in un residence di Rimini. Il documentario segue così il doppio racconto dell'accusa di doping nel 1999 e della morte nel 2004, ricostruendo i fatti ed evidenziando i punti oscuri di entrambe le vicende, per ipotizzare verità diverse rispetto alle ricostruzioni ufficiali. Questa è infatti la linea editoriale che unisce le varie inchieste. Tutta la verità punta proprio sulle contraddizioni delle indagini e dei processi per sostenere ad esempio l'innocenza dei coniugi Romano a proposito della strage di Erba. In questo senso il rischio può essere quello di gettare discredito sulla giustizia, sia pure con parte di ragione documentata. Per il resto le inchieste sono fatte bene, sia per la ricostruzione dei fatti con la documentazione filmata, sia per le testimonianze raccolte, tanto che per alcune c'è addirittura bisogno di due puntate. È il caso del documentario di Cristiano Barbarossa, Fulvio Benelli e Antonio Plescia sugli otto duplici delitti (e nessun colpevole) attribuiti al fantomatico maniaco di Firenze di cui martedì è andata in onda la prima parte e stasera alle 21,25 è in programma la seconda. Almeno una dozzina le persone intervistate tra magistrati, giornalisti e persino testimoni diretti.
· Blob Job di Marco Giusti.
I 30 anni di Blob: ma ormai la tv è la parodia di se stessa. Angela Azzaro il 30 Aprile 2019 su Il Dubbio. Nell’aprile del 1989 nasceva il programma “satirico” inventato da Enrico Ghezzi. Grazie a un abile montaggio ci ha raccontato il paradosso della società liquida. Oggi va ancora in onda, ma il piccolo schermo, senza distinzione, sembra tutto un enorme “blob”. Da trent’anni e qualche giorno, “Blob” ci fa riflettere, ridere a volte anche piangere dalla disperazione su quella che l’intellettuale francese Guy Debord definiva “la società dello spettacolo”. Inventata di sana pianta da Enrico Ghezzi, Marco Giusti e Angelo Guglielmi per Rai3, la trasmissione fin da subito mostra l’intreccio, ancora oggi esplosivo, tra politica, spettacolo, società. L’idea è talmente geniale e profetica che “Blob’ è un programma che vive ancora oggi, grazie a un pubblico di fedelissimi che non lo molla mai. Il nome è tratto dall’omonimo film horror del 1956 che in Italia fu distribuito con il titolo Il fluido mortale. Ghezzi, insieme a Debord, capisce che la lotta si sposta sul piano dell’immaginario e si inventa un linguaggio nuovo, spiazzante, che nei suoi accostamenti ci mostra l’assurdità del mondo in cui viviamo a partire da quello televisivo. Il fluido mortale sono le immagini che ogni giorno ci assalgono, i “no sense” delle notizie che si avviluppano, come quando si passa dalla morte di qualcuno al bel tempo su tutta la penisola isole comprese: il fluido in fondo siamo noi. Dal punto di vista della creazione televisiva e dell’intreccio con la filosofia, sono anni incredibili. Dal 1987, e fino al 1994, Angelo Guglielmi è direttore di Rai3. E’ con la sua guida che nella Terza rete nascono, oltre a “Blob”, “Fuori orario”, “Samarcanda”, “Mi manda Lubrano” ( che poi diventerà “Mi manda Rai3”), “Chi l’ha visto?”, “Un giorno in pretura”, “La tv delle ragazze”. Nasce cioè una nuova televisione: da quella stagione, in Italia, non è più accaduto in tv niente di altrettanto rivoluzionario e innovativo. Le uniche innovazioni sono i format che arrivano dall’estero o la ripetizione di ciò che è già stato. Che cosa è accaduto? Le cause sono tante: la mancanza di coraggio, la dittatura dell’Auditel, ma forse oggi è proprio impossibile farsi venire nuove idee rispetto a una tv che appare ogni giorno più obsoleta e ripiegata su se stessa. La Rai di Guglielmi è anche quella di Sandro Curzi alla direzione del Tg3, la cosiddetta Tele Kabul. La tv della “gente”, la tv popolare che per la prima volta teorizza il rapporto diretto con gli spettatori, una tv di servizio che negli anni, purtroppo, è diventata, allo stesso tempo, sintomo e stimolo del populismo. Trent’anni fa la bilancia pende dalla parte dell’innovazione. Ghezzi, l’anno prima di “Blob”, inventa un’altra trasmissione culto “Fuori orario. Cose ( mai) viste”: una palestra di cinema e di sentimenti che ha formato intere generazioni alle filmografie meno gettonate e meno usuali. I film assumono un significato ancora più forte perché introdotti dalla voce di Ghezzi. Con il suo stile sincopato, privo apparentemente di logica, mima l’assurdo del montaggio, per poi farci vedere la realtà da un punto di vista del tutto inaspettato. Oggi l’avventura di Ghezzi continua con “Blob” e con le sue provocazioni. Ma la sensazione è che la longevità meritata strida con il panorama generale della televisione. E’ come se tutta la tv fosse diventata parodia di se stessa, una sorta di grande blob con accostamenti molto spesso incomprensibili a cui però ci siamo ormai abituati o meglio dire rassegnati. Il fluido mortale che all’inizio era circoscritto alla parodia che della tv faceva “Blob” è diventato la cifra principale dell’unico grande format che attraversa canali, programmi, di giorno e di notte. Forse per questa ragione sempre più spesso la tv si nutre di se stessa. Vanno molto di moda le trasmissioni che attingono al repertorio, come è il caso di “Techetecheté”, una sorta di “Blob’ buonista e didascalico ma realizzato bene. Sono anche molto di moda quei personaggi che vengono riproposti non perché abbiano qualcosa da dire o da fare, ma perché già protagonisti di altre trasmissioni tv. I concorrenti che partecipano a “L’isola dei famosi”, giusto per fare un esempio, sono famosi solo perché hanno fatto parte della precedente edizione del reality. E così all’infinito. Il quadro che emerge è quello di una sorta di parodia permanente che viene però confusa con il reale, di una nostalgia per il tempo che fu spacciato per presente se non per futuro. In fondo la nostalgia è anche uno dei sentimenti della nostra epoca: incapaci di progettare il futuro, di andare oltre al “qui e ora”, ci chiudiamo nel ricordo del passato. Che poi, se vogliamo, è anche il limite di questo articolo ma non di “Blob” che ha ancora tanto da dire.
BLOB JOB!. Davide Turrini per Il Fatto Quotidiano l 17 aprile 2019. Buon compleanno Blob. La trasmissione di Rai3 che ha rivoluzionato il linguaggio della tv italiana compie 30 anni. Cinefilia, controinformazione, devastante messaggio politico, Blob è stato davvero un programma che ha seguito il motto “di tutto, di più”. La celebriamo con Marco Giusti, oggi papa barbuto sul trono di Stracult, che quell’incredibile avventura l’ha ideata.
Trent’anni di Blob: nostalgia? Orgoglio? “Due palle”?
«Tutte e tre insieme, perché è chiaro nel 1989 eravamo più giovani e più liberi. Oggi Blob non potresti farlo più. E anche “due palle” perché già dopo sei anni non ne potevo più, figuratevi dopo 30 con Internet e Youtube…»
Il web ha ucciso Blob il fluido che uccide…
«Come tutti i programma innovativi che anticipano i tempi. Il linguaggio di Blob in qualche modo è diventato un po’ vecchio. All’epoca montavamo le puntate con l’Avid, in analogico, e allora ci sembrava cosa di nuovissimo rispetto a come si montava. Figuriamoci oggi con il digitale, il montaggio te lo fai a casa. Quello che forse è sempre attuale è come io mi sono visto nel fare Blob, ovvero mi sembrava sempre come una pagina bianca su cui tu scrivevi un articolo, un testo. Allora se Blob è questo, in realtà è sempre nuovo perché dipende dalla tua capacità di scrivere, dalla tua cultura».
Nell’elenco iniziale hai dimenticato “l’orgoglio”…
«Avevo 30 anni e si era ideata una cosa fortissima. Non capita sempre nella vita professionale di inventare qualcosa di così importante. Io ne ho inventate due: Blob e Stracult. Orgoglio assolutamente. Tra l’altro a noi autori sembrava una programma con pochissima vita, invece andò bene subito. E poi va calcolato che tutta la nostra generazione di cinephile aveva una presunzione, un’altissima considerazione di sé, che è stato poi il nostro grande peccato».
Una confessione a cuore aperto. La presunzione di certa critica cinematografica militante.
«Parliamo di una certa generazione di intelliggentoni che poi forse si è accorta che non era esattamente Godard e che forse non potevi fare Godard in Rai».
Fu Angelo Guglielmi che diede il via a Blob o si è troppo gonfiato il suo ruolo?
«Io parlo per me. Guglielmi l’ho visto dopo molto tempo che era iniziato Blob. Questo tipo di montaggio l’avevo già fatto sia in tv che sulla carta, o meglio sull’Europeo o sull’annuario del Patalogo. Era il gusto di mettere frammenti insieme. Da parte mia ricordo che fu Andrea Barbato a chiedermi di fare il meglio della settimana e io gli dissi facciamo il peggio della settimana. Lo dissi poi ad Enrico (Ghezzi ndr) che però, su idea di Guglielmi probabilmente, voleva fare il Mattinale, ma non sapeva come fare. Il Mattinale lo faceva il Manifesto, cioè era la proposizione del peggio del giorno prima. Anche Il Male faceva cose simili».
In Blob c’è invece molto cinema.
«La parte fortissima di rapporto tra cinema, tv e cronaca, non c’entra niente con il Mattinale. Entrava in ballo, invece, la nostra conoscenza cinematografica e quella particolare mia che univa cinema classico e cinema trash, Bombolo, Alvaro Vitali, e le scorregge. Così Blob è diventato una cosa ironica, alta, eccessiva e molto molto forte. L’idea che aveva Guglielmi almeno credo, perché ripeto io non l’ho mai visto, era di fare una cosa solo giornalistica. E sarebbe stata poco interessante».
Durante la sigla in uno spezzone del film Blob un tizio dice: “E’ la cosa più orribile vista in vita mia”.
«Il nostro programma era sugli orrori della tv e sullo disvelamento della pratica dello spettatore attento. Una cosa politica più forte creata usando il cinema un po’ come una grammatica. Di tagli di montaggio, modello cartoon classici, ne ho fatti una marea. Questo è tutto cinema, comico e animato. Trovo ridicolo sentire che fu un’invenzione di Guglielmi. Blob era una cosa che era nell’aria. Aggiungici il gusto tutto mio del trash. Miei furono il titolo del programma, il linguaggio del montaggio, la struttura produttiva. Poi, chiaro, era un programma Rai».
Blob ebbe un valore politico incredibile, ve lo aspettavate?
«All’inizio no, ma tutto si è sviluppato in pochissimo tempo, giorno dopo giorno. L’aspetto politico comunque c’era già subito. Venivo dal Manifesto, dall’Espresso, e avevo scritto moltissimo. Quando facemmo campagna acquisti prendemmo gente come Alberto Piccinini che faceva esattamente quella roba lì. Cercando di mettere dentro più intellettuali che umoristi. Quello che non mi interessava era l’umorismo, la cosa comica finta non l’abbiamo cercata mai. La cosa ironica tipo Il Male invece sì. Io e Ghezzi si veniva dalla militanza politica critica cinephile molto spinta. Ora è tutta un’altra cosa».
La critica cinematografica non esiste più…
«Non esistono più i critici militanti che ci credono. E non esiste quasi più il cinema. Difficile fare ancora quella roba. Io cerco di farla su Dagospia perché a me diverte. Usare il cinema per parlare della realtà. Quando fai cronaca politica oggi, fai qualcosa già molto modello commedia all’italiana. La contaminazione c’è già, non hai più bisogno del nostro passaggio tv, del passaggio intelligente. È la stessa ragione per la quale non esiste più la satira: è già dentro ai tweet di Salvini e Di Maio».
Non c’è un comico che ti fa ridere? Un Crozza, ad esempio?
«No, nessuno. Noi si veniva da un mondo che chi faceva satira era considerato di destra, come con Il Borghese. Poi con i fratelli Guzzanti, Sabina e Corrado, qualcosa è cambiato, ma è durato meno di 20 anni. Adesso fa più satira Marco Travaglio. Spesso negli editoriali, nei pezzi politici ci sono anche pezzi di satira. Siamo ritornati da capo, perché forse della satira non ce n’è più bisogno. E poi fatemi dire che oggi c’è la controinformazione. Blob andava contro il Tg1 come orario e faceva controinformazione politica. La nostra logica da questo punto di vista era molto seria. Oggi la controinformazione ce l’hai sui blog, su twitter. Fatta in tv non esiste».
Il momento difficile o complicato della vita di Blob.
«Ce ne sono diversi. Fu tremendo con Luigi Locatelli direttore di rete. Il nostro gruppo si è proprio scisso. Non sapevamo cosa fare, solo chi aveva un contratto giornalistico poteva continuare. Fu un momento duro. Forse abbiamo sbagliato a non mantenere tutto il gruppo intatto».
Anche con Berlusconi presidente del consiglio non andò bene?
«Fu una cosa drammatica. Quando scese in campo feci io un Blob molto pesante sul suo scendere in campo e mi dettero dieci giorni di punizione che poi mi vennero ridotti a due. Il tutto perché avevo montato una celebre scena de L’Intervista di Fellini. Ci sono due pittori di spalle nello studio 5 di Cinecittà che dipingono una parete. Uno dei due dice all’altro: “A Ce’?; e l’altro: “Che voi”; e il primo: “E vattela a pija in t’er culo”. Dopo avevo montato il discorso di Berlusconi. Era un gioco complesso, Fellini era appena morto quindi avevo unito tutto, ma loro sul “vattela a pijà” dissero che l’avevo fatto apposta per mandare Berlusconi a prenderselo nel culo. Quindi ci fu una specie di processo interno molto brutto».
Altri momenti complicati nella vita di Blob?
«Quando Ghezzi mi ha tolto il nome dai titoli del programma. Sarà stato 8 anni fa. L’ho trovato una cosa orrenda, stalinista. Non parlo più con lui dal ’96, da quando sono andato a Rai2. Non fu una cosa simpatica».
Qualcuno ha mai copiato Blob nel mondo?
«Non credo perché c’era il problema dei diritti dei film. Blob era un programma rubato, è quasi impossibile ri-farlo. Divenne un vanto andare su Blob quindi rimase in piedi, ma era completamente illegale. Sono passati comunque tanti anni. All’epoca aveva senso, oggi ognuno si fa il suo blob dal divano. Pensa a Osho: ruba una foto, mette una frase, somiglia a Blob».
· La Claque non è Bue.
LA CLAQUE NEI TALK SHOW. IL PUBBLICO NON E' BUE. Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” 16 aprile 2019. Una volta si ribellavano le masse, come ci ha spiegato agli inizi dello scorso secolo Ortega Y Gasset. Oggi, molto più prosaicamente, si ribellano le claque. E per claque intendiamo il pubblico in studio, quello che, nella tradizione catodica, era docile e alquanto mansueto. Sempre pronto a incoronare la battuta con una tempestiva risata e a scandire lo show con ritmati e scroscianti applausi. Tutto calcolato e tutto preciso. Una specie di coro gestito da un suo corifeo. Ma nell' ultimo periodo qualcosa è cambiato. Saranno i venti della democrazia diretta o la deformazione da social network ad esprimere sempre e comunque il proprio assenso e (soprattutto) il proprio dissenso. Ma il pubblico degli show non sembra più essere una massa condiscendente pronta a sdilinquirsi in gesta di approvazione. Il pubblico ha iniziato a ribellarsi. A lamentarsi. A rumoreggiare. A rompere le palle. È come se nelle sit com americane, nei momenti topici delle gag, invece che le risate registrate partissero dei buuuu. Salta il rapporto causa-effetto. È la commedia che fa piangere e la tragedia che fa ridere. Si rovescia tutto. Beh, ultimamente qualcosa di simile lo abbiamo visto nei nostri show. Facciamo qualche esempio a cavallo tra l' intrattenimento e l' informazione. Il Fogli-gate all' Isola dei famosi è noto a tutti e ha scatenato un lungo strascico di polemiche. Polemiche anticipate dal pubblico in studio, che si è mostrato subito sdegnato nei confronti dell' assalto di Fabrizio Corona. E, con un inusuale effetto domino, l' indignazione è rimbalzata sui social, poi sui media tradizionali fino a tornare all' interno dello stesso programma. Che ha immediatamente preso provvedimenti. Ma i casi più eclatanti di pubblico «disubbidiente» si sono visti altrove. La scorsa settimana a Di Martedì, il prestigioso salotto politico di Giovanni Floris, tra gli ospiti figuravano il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli e Concita De Gregorio. Immediato e prevedibile lo scontro tra la giornalista saputella e il ministro gaffeur. Lei lo infilza e Floris, con una punta di compiacimento, lo rosola per bene. D' altronde non è difficile cogliere in fallo il pentastellato. E il pubblico? Il pubblico, unito come un sol uomo, molla il padrone di casa e blinda in una pioggia di applausi lo sconsiderato grillino. Ma il meglio va in onda due sere dopo, sempre su La 7, a Piazza Pulita. In ospite c' è Simone, romano di Casal Bruciato, il quartiere nel quale è scoppiata una rivolta contro l' assegnazione di una casa popolare a una famiglia rom. Simone non ha dubbi e sentenzia: «I rom sono diversi, non sono uguali a noi. Insegnano ai figli a fare cose che noi non insegneremmo mai». Una frazione di secondo di silenzio. Simone ha detto a Piazza Pulita, che non è esattamente Pontida, una frase dal sapore deciso del politicamente scorretto. Giusto una frazione di secondo e in studio esplode l' applauso del pubblico. Formigli trasecola, tradito dai suoi stessi ospiti, e prende le distanze: «Mi dissocio dall' applauso. È un gesto che mi fa paura». Il pubblico si smarca dalla linea del conduttore e il conduttore sconfessa il pubblico. È il cortocircuito della tv per come la abbiamo conosciuta fino a oggi. La totale disintermediazione, con un conduttore che non conduce il pubblico ma anzi si scontra con esso. La democrazia diretta che irrompe nel piccolo schermo portandosi dietro la sua sindrome compulsiva da social. D' altronde il primo a litigare con il pubblico era stato proprio un grillino. Alessandro Di Battista, anch' egli ospite di Floris, si era messo ad elemosinare applausi dal pubblico, accusandolo di esserne avaro. È stata una delle sue ultime apparizioni televisive, poi è scomparso dai radar dei media e della politica. Vorrà dire qualcosa...
· Se nei programmi passa quello che il pubblico vuole vedere.
Se nei programmi passa quello che il pubblico vuole vedere. «Live. Non è la D’Urso» (Canale 5, mercoledì, ore 21.43), è il prolungamento serale di «Pomeriggio Cinque» e «Domenica Live»: manca la linea editoriale,,. scrive Aldo Grasso il 15 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Seguendo «Live. Non è la D’Urso» (Canale 5, mercoledì, ore 21.43), che poi è il prolungamento serale di «Pomeriggio Cinque» e «Domenica Live», mi è tornato in mente un famoso brano di Taras Bul’ba di Gogol: «Non era difficile trovare la piazza su cui il supplizio doveva aver luogo; da ogni parte la gente vi si rovesciava in massa. In quella rozza età questo era uno degli spettacoli più interessanti, non solo per la gente più umile, ma anche per le classi più elevate. Una quantità di vecchie, delle più religiose, una quantità di giovani ragazze e di donne delle più timide e paurose, che poi, tutta la notte appresso, vedevano in sogno cadaveri insanguinati e nel dormiveglia gridavano così forte, come può gridare un ussaro ubriaco, tuttavia non rinunciavano all’occasione di andare a curiosare... Alcuni discutevano con calore, altri facevano persino delle scommesse; ma la maggioranza era composta da quella gente che sta a guardare il mondo intero e quel che nel mondo accade, ficcandosi le dita su per il naso». La nostra epoca ai supplizi carnali ha sostituito i supplizi televisivi (meno cruenti ma più noiosi, non c’è dubbio), ma lo spirito è lo stesso: il pubblico televisivo è in buona parte composto da gente che sta a guardare il mondo intero e quel che nel mondo accade, ficcandosi le dita su per il naso. Solo così si spiega la presenza di Fabrizio Corona, Loredana Lecciso, Cristiano Malgioglio, Carla Fracci (ma cosa ci faceva, ha capito in quale contesto si trovava?), Alessandro Meluzzi, Carmen Russo, Antonella Boralevi, Alessandro Cecchi Paone, Enrica Bonaccorti e Alessandro Sallusti. E tanto repertorio. «Corona è invitato perché la gente lo vuole vedere», è stata la giustificazione. Non più linee editoriali, non più l’impronta dell’editore, non più la grazia insolente dei conduttori: al pubblico si dà quello che il pubblico vuole vedere. E non è un bel vedere.
Le tre sfide di Barbara. Pubblicato venerdì, 13 settembre 2019 da Chiara Maffioletti su Corriere.it. La conduttrice: «Sono fortunata ma mi sono costruita tutto quello che ho. Chi vorrei intervistare? Il premier Conte». In tv, del collarino non c’è traccia. Barbara d’Urso torna a indossarlo — e lo farà ancora per qualche tempo — appena finita la diretta di Pomeriggio 5. Nemmeno un incidente che le ha tolto per alcuni giorni la sensibilità a un braccio è riuscito a rallentare la conduttrice. O a toglierle il sorriso.
La caduta è solo di qualche settimana fa. Non ha avuto la tentazione di rimandare la messa in onda?
«No, non era proprio possibile. Devo gestire tre trasmissioni... ho cercato di vedere il lato positivo, e cioè che sono stata fortunata: mi è caduta una lastra di cristallo tra l’orecchio e la mandibola, potevo morirci. Guardo il bello: sono viva e felicissima».
Stacanovista della tv, quando non è davanti alla telecamera le manca?
«In realtà stavo benissimo: queste vacanze me le sono godute. Ero rilassata. Quando non sono in onda non provo senso di smarrimento o abbandono, probabilmente perché so che ci torno presto».
E infatti torna alla guida di tre programmi. «Pomeriggio 5» è già iniziato e la domenica sarà il suo grande giorno, con «Domenica Live» e, in serata, «Live - Non è la d’Urso»...
«Sì, hanno spostato la mia prima serata dal mercoledì alla domenica: l’editore sceglie sempre per me il giorno più difficile e infatti la Rai appena lo ha saputo ha immediatamente programmato la serie su Montalbano. Ripetere gli ascolti pazzeschi della prima stagione sarà impossibile, ma ci è stato chiesto un obiettivo di share del 12%, ottimo per una produzione a basso costo e in palinsesto per tanti mesi. Imparagonabile con le grandi produzioni da poche puntate».
E quindi si parte questa domenica...
«Con la prima serata sì, Domenica Live inizia quella successiva. Ognuno dei tre programmi ha una sua identità e io curo ogni dettaglio. Tra le idee del prime time, ci sarà uno spazio affidato a Paola Caruso e alla sua mamma biologica dopo che il loro ricongiungimento, la scorsa stagione, ha commosso tutta Italia. Da allora mi hanno scritto in moltissimi che vivono situazioni simili quindi abbiamo pensato a questo spazio chiamato Dna, in cui li aiuteremo. Partiremo con la storia di una comica che il pubblico di Canale5 conosce bene».
Tra gli altri temi che hanno fatto parlare, il Prati-gate.
«La nostra è stata un’inchiesta giornalistica: non era più gossip ma cronaca, un caso italiano multimediatico. Ci torneremo su. Nella prima puntata avremo nuove testimonianze: forse scopriremo chi c’era dietro Caltagirone».
Ci sono state critiche. Insomma, anche per questo...
«C’è un tasso d’infelicità molto alto. Hanno anche detto che in realtà porto il collarino perché ho fatto un lifting al collo: mi aspetto di tutto. Gli odiatori sono un fenomeno che non risparmia nessuno. Ma preferisco pensare e ringraziare la gente che mi ama e che mi segue da anni. In poche settimane Live è diventato un programma popolare e un vero cult per il web».
Ora nel quotidiano si confronta con «La vita in diretta» di Matano e Cuccarini...
«Sono due grandissimi professionisti, la sfida quest’anno per me è molto ma molto più complicata (ma per ora ha vinto lei il confronto)».
E poi c’è Mara Venier. Si è detto molto su di voi, anche che la sua domenica si sposta di orario per non sovrapporsi alla sua. È così?
«Mi fa piacere spiegarmi una volta per tutte. Io e Mara non abbiamo mai litigato, siamo due donne mature e intelligenti e quello che è uscito è tutto montato ad arte. Quanto al cambio di programmazione, andando in onda lo stesso giorno anche in prime time, ho chiesto che la domenica avesse la stessa fascia oraria di Pomeriggio 5, volendo evitare che la gente abbia la nausea nel vedermi sempre in tv. Se avessi chiesto o chiedessi anche adesso di iniziare prima, a Mediaset sarebbero ben felici visto che ci hanno provato».
È tra le donne più influenti della tv: quando ha iniziato era un mondo al maschile...
«Ci è voluto carattere, quello che ho me lo sono dovuto conquistare e oggi spero che tante giovani colleghe crescano e trovino il loro spazio. Io sono per fare in modo che in molte riescano ad emergere».
Capitolo sogni nel cassetto: chi vorrebbe intervistare?
«Il premier Conte. Lui ancora mi manca».
· La televisione si nutre del passato.
Lasciate in pace la signora Longari. La televisione si nutre del passato. Ma la situazione sta sfuggendo di mano. Archivio usato a dismisura e ossessione per gli anniversari. Non sarebbe ora di guardare avanti? Beatrice Dondi il 16 settembre 2019 su L'Espresso. La concorrente tv del quiz " Rischiatutto" Giuliana Longari con Mike BongiornoRepertorio e anniversari, immagini d’archivio e compleanni, memoria e passato, celebrazioni e bianco e nero. Come una sorta di virus misterioso che si diffonde senza tregua la televisione soccombe all’inno del passato. Fino a sfiorare l’insostenibile. Se in principio fu Rai Uno a presentare “Super Varietà”, col passare degli anni sono arrivati “Varietà”, “Da da dà”, “Techetechetè” (normale), “Techetechetè Superstar” e se dio vuole l’estate sta finendo e per il momento ci si ferma qui. Ma come ogni influenza che si rispetti basta uno starnuto e il contagio arriva a Mediaset, perché ogni occasione è buona per guardare indietro. Va fortissimo la torta con le candeline, anche un po’ a caso, tanto della cifra tonda non importa a nessuno: così dopo gli 83 anni di Pippo Baudo diventati un evento nazionale sono arrivati gli 81 di Maurizio Costanzo, con un’intera giornata di repliche e omaggi variegati che in confronto il ricordo dello sbarco sulla Luna è scivolato via neanche fosse opera di un terrapiattista qualsiasi. Poi ci sono i sempreverdi, i mali stagionali insomma, come Al Bano e Romina, divenuti ufficialmente il Barone Lamberto di Gianni Rodari. Il quale aveva scoperto che per vivere in eterno bastava che il suo nome venisse pronunciato senza tregua. Gli ex coniugi sono stati riproposti a ripetizione e dopo un’intera serata occupata dalla replica del concerto “Signore e signori” del 2015, è stata la volta dello speciale extralarge con tanto di musicarello al seguito. Ma l’apoteosi si è avuta con il decennale della morte di Mike Bongiorno che ha visto saltellare sui vari canali programmi dai titoli dalla fantasia estrema (“Allegria” per il Costanzo show, “Allegria allegria allegria” per Bruno Vespa, “Allegria” per Mollica con Fiorello...) con gli stessi identici ospiti capitanati da un’ormai esausta signora Longari, costretta a ripetere come una poesia di Natale la presunta gaffe dell’uccello. Rvm consumati per il troppo utilizzo, applausi e aggettivi da salotto tutti uguali sono rimbalzati da viale Mazzini a Cologno Monzese per la prima volta addirittura a reti unificate, per ricordare, a buon diritto per carità, l’indubbia caratura del re del quiz. Ma con una sorta di accanimento terapeutico che forse persino il gigantesco Everyman di Umberto Eco avrebbe trovato ridondante. Così, in questo clima di già visto, torna utile rispolverare il signor Nietzsche e il suo Eterno ritorno in chiave piccolo schermo: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo». Una buona profezia, una triste minaccia.
· Televendita dell’arte.
Nino Materi per “il Giornale” il 16 settembre 2019. Nacquero carneadi, moriranno celebri nel cimitero catodico dei vernissage. Parliamo della pittoresca categoria dei televenditori che dal piccolo schermo propone «grandi quadri»: una tavolozza umana degna di essere ritratta, un affresco antropologico-commerciale dal richiamo ipnotico che inchioda davanti al video un esercito di adepti che ormai non può più fare a meno dei propri beniamini tv. La novità dell' arte «videomostrata» prende il via nei primi anni '80 su Tele Elefante, intraprendente emittente dal logo in stile dada-animalista con proboscide verde. Il digitale, l' euro e una sufficiente consapevolezza da parte del pubblico erano ancora lontanissimi da venire. Erano tempi dove si potevano propinare croste spacciandole per capolavori, e la gente ci cascava non avendo strumenti per difendersi; chiunque poteva spararla grossa, senza il rischio di essere smascherato. Oggi invece per i vecchi «piazzisti» sarebbe arduo rifilare fandonie: la loro «abilità» nel raccontare bugie si schianterebbe infatti contro una verità facilmente accertabile su Internet, con un semplice clic. E così, nel corso di quasi 40 di evoluzione tecnologica e culturale, il personaggio del presentatore è passato dalle originarie forme di folcloristico dilettantismo a uno status di dignitosa professionalità. La metamorfosi dinastica è stata lenta e faticosa, ma alla fine i teleacquirenti ce l' hanno fatta a liberarsi di quei «simpaticoni» che offrivano a pochi spiccioli opere di «inestimabile valore». Oggi marginali residui di quelle scorie imbonitorie sono ancora rintracciabili in qualche televendita in onda su emittenti minori, ma il grosso dell'offerta dei maggiori network specializzati mette il potenziale compratore al sicuro da spiacevole sorprese. Con l'arte non si può più scherzare. I trucchetti del passato oggi sono improponibili. Chi segue le televendite non è più uno sprovveduto, sa cos'è il diritto di recesso e soprattutto ha compreso che se ti offrono un taglio di Fontana a pochi euro, in realtà, stanno tentando di rifilarti - più che un taglio - un pacco. Ma oggi in tv nessuno azzarda più simili giochetti. Il settore-quadri, negli ultimi cinque anni, ha raddoppiato le vendite, raggiungendo un giro di affari tale da insidiare il mercato delle gallerie tradizionali. Una realtà rappresentata da OrlerTv che trasmette 24 ore su 24. La storia della dinastia Orler assomiglia a un romanzo. A metà degli anni '50, poco più che ragazzo, Ermanno Orler decide di lasciare il suo paese natale (Mezzano di Primiero) per andare in Francia a fare il boscaiolo. Poi si sposta a Venezia, dove lavora come artista già suo fratello Davide, e dove avrà inizio la loro e la sua carriera. Corre l'anno 1958. Ermanno con il legno ci sa fare, e decide di aprire un piccolo laboratorio di cornici, che diviene da subito utile al fratello e ad altri artisti come Emilio Vedova, Virgilio Guidi, Tancredi. «Comincia lì - si legge nel sito aziendale -, nel piccolo laboratorio di Venezia, un' attività che si rivela subito un successo. L' esigenza di rendere più agevoli i contatti con il resto dell' Italia, verso la metà degli anni Sessanta, lo spinge a spostare la galleria da Venezia a Favaro Veneto, in quello che è poi diventato il centro nevralgico dell' azienda. Nel frattempo il giro dei loro artisti va ampliandosi sia sul fronte nazionale sia internazionale. Si inaugurano poi le gallerie di Madonna di Campiglio, Abano Terme e Mestre (sede di OrlerTv). All'inizio degli anni '70 il mercato funziona e gli Orler sono pronti a seguirlo, così dal 1978 ad oggi, l' azienda si dedica alle vendite televisive. A livello generale i prezzi dei quadri venduti in tv sono mediamente meno cari di quelli trattati in asta o nelle galleria. Inoltre le televendite assicurano permute e forme di pagamento improponibili altrove: basti pensare che nelle aste, dopo l' aggiudicazione del lotto, si deve saldare tutto e subito, con in più un ricarico di circa il 20 per cento per «diritti d' asta». In tv tutto è meno formale, meno patinato, e privo di quella puzza sotto il naso tipica del gallerista che si trova negli stand delle fiere e nei loro show room, dove se ti vendono un quadro sembra quasi che ti facciano un piacere; e in più tendono a compiacersi nel farti sentire un ignorante. Risultato: gli amanti dei quadri in tv sono diventati una community sempre più ampia. Perfino insospettabili vip (si vocifera di un ex premier assiduo fruitore di televendite d'arte) si sono appassionati a questo particolare canale di vendita. E così anche i presentatori sono diventati volti popolari, ognuno forte del proprio stile di conduzione, all'insegna di tic e tormentoni. Tutti, ad esempio, hanno il vezzo di ripetere fino alla noia la parola «qualità» e la tiritera secondo cui «la telefonata non obbliga all' acquisto, ma solo alla visione dell' opera». Inoltre tutti si vantano di aver consigliato in passato «quando costavano pochissimo», artisti che oggi «valgono milioni». I nomi portati dai telepredicatori per avvalorare le loro predizioni sono quasi sempre «Boetti, Fontana, Bonalumi e Castellani». Peccato che nessuno abbia il coraggio di dire che il mercato dell' arte segue dinamiche indipendenti dai presunti poteri divinatori di chicchessia. La maggior parte dei venditori più famosi si sono fatti le ossa su Telemarket con no-stop notturne che si prolungavano fino all' alba. Allora l'emittente fondata nel 1982 a Roncadelle (Brescia) dall' imprenditore Giorgio Corbelli aveva il monopolio del settore; oggi, al contrario, la concorrenza è varia, benché le facce che circolano in video sono spesso vecchie conoscenze. A cominciare da Franco Boni, indiscusso caposcuola, ora in forza all'azienda ArteInvestimenti. Non c'è giovane collega che Boni non riconosca come «figlio suo». Dagli anni 80 ha imperversato in video «proponendo a poche lire artisti che oggi costano milioni di euro». Almeno così dice lui. Noto per l'eleganza della sua «r» arrotata, ha vissuto con lodevole autoironia la parodia che un irresistibile Corrado Guzzanti gli dedicò in tv. Decisamente più sobrio lo stile di Willy Montini, tra i pochi che riesce farsi seguire per due ore di fila senza annoiare. Attento conoscitore dell' arte contemporanea, mette a suo agio lo spettatore con un dinamico approccio divulgativo. Gesticola in modo magnetico, invitando il cameraman «a seguirlo» e a «non tagliarlo a metà». In passato frontman dell' azienda ArteTv è ora tra i presentatori di punta della squadra ArteNetwork. Da un anno anima una trasmissione, Art Duel, col critico Luca Beatrice. Fiore all' occhiello di OrlerTv è Carlo Vanoni (punte di diamante sono anche i suoi colleghi di rete Dario Olivi e Giovanni Faccenda). Personalità versatile (è anche attore teatrale e musicista) Vanoni ha visitato tutti i maggiori musei del mondo e, per questo, tende ad adirarsi quando sente pronunciare, a sproposito, la fatidica frase: «Questo è un quadro museale». In casa ha migliaia di libri (non solo d' arte) e un elegante pianoforte a coda. Curatore di mostre e divulgatore, è particolarmente in sintonia con le nuove tendenze giovanili, aggiornatissimo su tutti i record d' asta. Ha scritto tre libri: l'ultimo, A piedi nudi nell' arte (Solferino) è stato un successone. Con Alessandro Orlando si entra invece nella categoria degli istrioni. Quando lavorava per Telemarket, era solito ripetere durante le televendite: «Sono ancora giovane, io andrò via di qui. Non mi brucio a 40 anni. E avrò una tv tutta mia». Ora c'è l' ha fatta, la sua azienda si chiama OrlandoArte e gli affari vanno bene. Dei suoi happening giovanili è ricco il web. Col tempo si è calmato, ora è più pacato e meno irruente. Toscano doc, ostenta l' accento regionale, ritenendolo probabilmente un valore aggiunto. Nella vita, come nell' arte, ognuno ha le proprie convinzioni. Guai a contraddirle.
· Gli addetti stampa dello spettacolo: Enrico Lucherini.
Emilia Costantini per il “Corriere della sera” il 7 ottobre 2019. E pensare che avrebbe dovuto fare il medico e poi l'attore. Invece Enrico Lucherini (classe 1932) si è inventato tutto un altro mestiere che, in Italia, non esisteva ancora: l'addetto stampa. «Mio padre era un medico piuttosto importante negli anni Cinquanta e, naturalmente, desiderava che suo figlio seguisse le sue orme. Per accontentarlo, mi iscrissi a Medicina e frequentai la facoltà per un paio d' anni e poi un giorno, passando per Piazza della Crocerossa, dove all' epoca c'era la sede dell'Accademia d' arte drammatica Silvio d' Amico, vedo un gruppo di ragazzi vestiti in maniera strana...una specie di tuta. Chiedo loro che cosa stessero facendo e mi rispondono che dovevano fare un provino per entrare in Accademia. Ho subito deciso che quella era la mia strada. Mi iscrissi per fare il provino anche io».
E lo superò...
«Certo! E mio padre, quando scoprì che non frequentavo più l' università, ma studiavo per fare l'attore, mi cacciò di casa. Mia madre, piangendo, preparò le mie cose e mi disse: vai, figlio mio, vai a fare la tua vita».
Un autentico dramma familiare.
«Altroché! Però io andavo dritto per la mia strada e dopo un paio d' anni, quando cominciavo a fare le mie prime apparizioni in scena, invitai i miei genitori a vedermi al Piccolo Eliseo. Non ricordo quale fosse lo spettacolo, ricordo invece molto bene la reazione di mio padre: voleva chiamare la polizia o i medici d' igiene mentale...».
Addirittura!
«Sì, perché trovava lo spettacolo orribile e ridicolo: considerava me, suo figlio, un matto da rinchiudere».
Il dramma che si aggiunge al dramma...
«A metà anni Cinquanta inizia il mio percorso importante con la Compagnia dei Giovani, con Rossella Falk, Giuseppe Patroni Griffi, Romolo Valli, Giorgio De Lullo... I più grandi attori del momento. Però io avevo piccoli ruoli e guadagnavo pochissimo, dalla famiglia non mi arrivavano soldi, se non un piccolo sussidio, e quando andavo a cena con i miei compagni di teatro, infilavo la mia forchetta nei loro piatti... Fame nera».
E proprio con la Compagnia dei Giovani comincia a fare esperienza da press agent, giusto?
«Io ero l' ultimo arrivato e, evidentemente, non avevo la stoffa per diventare un grande interprete, così i colleghi cominciarono, ogni tanto, ad affidarmi il compito di occuparmi dei rapporti con i giornali. Ma fu quando andammo a svolgere una lunga tournée in Sud America che scattò definitivamente la molla: in America già esistevano gli uffici stampa, capii come funzionava la cosa, cominciai a specializzarmi e i grandi Falk, Valli, De Lullo, rendendosi conto che ero più bravo a fare questo piuttosto che a recitare, mi chiesero definitivamente di diventare il loro addetto stampa».
Suo padre sarà stato contento...
«Assolutamente sì, dato che come attore gli apparivo ridicolo, mentre invece per questo mestiere mi riteneva più adatto. E addirittura mi regalò un appartamento che diventò non solo la mia casa, ma anche il mio ufficio: quello dove vivo e lavoro tuttora. Ma la mia attività non si svolgeva solo in casa, molto di più nei tavolini di via Veneto: era lì che avevo il rapporto con gli attori, i registi, i produttori e soprattutto con i paparazzi... e ancora non era nata la vera Dolce vita».
Perché proprio via Veneto?
«Non so perché sia diventata il centro di tutto il cinema di allora. Forse perché i famosi attori americani alloggiavano tutti da quelle parti, quindi frequentavano i bar, i ristoranti... Era diventata una passerella per tutti. La strada però accoglieva diverse fazioni».
In che senso?
«Da una parte c' era il gruppo di Luchino Visconti, Patroni Griffi, Raffaele La Capria... dall' altra c' erano gli Ennio Flaiano, i De Feo, i Fellini... e poi c' era la terza sponda, con gli intellettuali di sinistra, guidata da Michelangelo Antonioni, Monica Vitti... Per me iniziò la grande avventura».
E le grandi invenzioni: quelle che verranno definite «lucherinate».
«Ne racconto qualcuna?».
Assolutamente sì!
«Bè per esempio, per lanciare il film Sepolta viva , convinco Agostina Belli a far finta di annegare in una piscina: la trovata appariva talmente vera che qualcuno chiamò un' ambulanza. Oppure quando Rossellini stava girando Vanina Vanini con Sandra Milo: era un film in costume e l' attrice indossava una ingombrante parrucca bionda. Per movimentare il set e far interessare la stampa, d' accordo con il regista, la facciamo avvicinare a un candelabro: la parrucca prende fuoco, e subito le viene strappata via dalla testa in fiamme...E poi quando imbastisco una finta tresca amorosa tra Richard Burton e Florinda Bolkan che era ancora una sconosciuta e io dovevo lanciarla. Approfittando del fatto che la Taylor, in quel periodo, era in clinica per altri motivi, convinsi i giornalisti che l' attrice americana aveva tentato il suicidio per gelosia... Ma non solo... per pompare un altro progetto cinematografico, feci buttare Antonella Lualdi, Rosanna Schiaffino e Anna Maria Ferrero nella fontana delle Tartarughe al Ghetto: quando uscirono con i vestiti appiccicati sulla pelle, l' effetto fu più erotico che se fossero state nude».
La «lucherinata» di cui va più fiero?
«In Adulterio all' italiana di Pasquale Festa Campanile, Catherine Spaak indossava un tubino che era composto unicamente di perle: un filo che le girava intorno al corpo. Sul set vedo spuntare un chiodo e mi viene l' idea: dico all' attrice, bellissima, vai vicino a quel chiodo e cerca di impigliarci il filo. Lei ubbidì e le perle cominciarono a scorrere una dietro l' altra finendo a terra e lasciandola praticamente nuda. Venne fuori uno scatto indimenticabile».
L' incontro più importante, però, fu con Sophia Loren.
«Mi chiamò Carlo Ponti per La ciociara , dicendomi: ti raccomando mia moglie, devi costruire intorno a lei qualcosa di speciale. Sophia era giovanissima, bellissima, veniva dai successi negli Stati Uniti e dovevo inventarmi qualcosa di diverso per lei che, qui, era la mamma disperata di una ragazzina "marocchinata". Il set era a Sora, vicino a Roma, e io facevo in modo che venisse avvicinata dalle paesane locali con i loro bambini: lei li abbracciava, li baciava nelle foto di scena doveva apparire una madre, non una diva».
Un' altra diva era Monica Vitti...
«Non avevo mai lavorato con Antonioni, finché un giorno mi chiama proprio lui per seguirlo in Deserto rosso : voleva portare il film alla Mostra del cinema di Venezia e aveva bisogno di pubblicizzarlo. Vado nella casa dove abitavano, alla Collina Fleming. Mentre eravamo seduti in salotto a parlare del progetto, accade un fatto curioso: Monica si alza, va vicino al pianoforte, lo comincia a toccare e inizia a sussurrare "Michele sta parlando! Michele sta parlando...!". Antonioni balza in piedi, la raggiunge e anche lui esclama: è vero, parla! E io, come un cretino, chiedo: che sta dicendo?».
La risposta?
«La risposta? Un silenzio assordante. Si limitarono a fissarmi come fossi un deficiente».
Non solo «lucherinate», lei è diventato celebre anche per tante battute feroci.
«È vero, ma non posso dirle tutte...».
Solo qualcuna?
«Definivo Tinto Brass "il fascino discreto della porcheria", Adriano Celentano "il ragazzo della via Crucis", Luciano De Crescenzo "l' Arbore delle zoccole", Aurelio De Laurentiis "momenti di boria"... ».
L' attrice con cui non andava d' accordo?
«Catherine Deneuve: sul set di Bella di giorno litigammo furiosamente, era spocchiosa».
Il regista?
«Con Fellini non posso dire di averci litigato: era un uomo gentile, ma molto falso. Diceva continuamente a tutti "ciccino, ciccino...", tanto che una volta sbottai e gli dissi : "A Federi' non siamo tutti uguali!". E so per certo che non andava d' accordo con Visconti, con il quale io ho avuto il grande piacere e onore di lavorare nel mitico Gattopardo . Una volta ero in auto proprio con Luchino, ci fermiamo davanti al celebre bar Canova. Ci viene incontro Fellini e Luchino mi intima di chiudere il finestrino dell' auto. Gli chiedo il perché e lui ribatte: "Ho paura che ci sputi dentro la macchina"».
Un suo rammarico?
«Ho preso in giro tanta gente... forse qualche volta ho esagerato».
· Racconta Adriano Aragozzini.
Alessandro Ferrucci per "Il fatto Quotidiano" il 9 luglio 2019. Tutto nasce da un gesto intimo. Racconta Adriano Aragozzini: "Anni 60, Gino Paoli rilascia un' intervista: rarissimo. La giornalista domanda: 'Cosa fa prima di un concerto?'. E lui: 'Una sega'. Vengo a saperlo, e quando lo incontro gli pongo lo stesso quesito. Scoppia a ridere, diventiamo amici, e poco dopo mi chiede di seguirlo come manager. Accetto". Adriano Aragozzini è così. Visionario, arrembante, goliardico e spregiudicato; amato, temuto, detestato, per certi toni un Howard Hughes nostrano, anche lui appassionato di aerei ("ne ho posseduto uno"), di donne ("sono stato con Tina Turner, ma anche con Miss Mondo"), di imprese e fughe clamorose ("in Argentina con la Lollobrigida abbiamo rischiato di brutto"). Per molti lui è Sanremo, eppure ha guidato il Festival per cinque edizioni e dal 1989, ma lo ha rivoluzionato ("ho tolto il playback"). Quando racconta si diverte, e quando si diverte ride, con tutto il corpo, fino a sollevare i piedi da terra e raggiungere una posizione quasi fetale. Diventa serio solo al nominare Gianni Morandi: "Non ho alcuna stima di lui, è il peggio"».
Ma come, Gianni Morandi?
«La gente non sa, io gli sono stato vicino per molti anni: lo conosco bene. Però una volta in Giappone ci ha causato una risata da sentirsi male».
Dica
«Con Fidenco e altri eravamo in un posto con piscine di acqua bollente. Impossibile bagnarsi se non con moderazione. Arriva lui, inconsapevole, e con i suoi modi grossolani si tuffa. Silenzio generale squarciato dalle sue urla di dolore: ha impiegato minuti prima di riacquistare una respirazione normale (pensa). Mentre Dalla è stato un grandissimo, ma l' ho rifiutato».
Errorissimo.
«Purtroppo mi sono fidato dell' apparenza, e quando ho visto questo tipo basso, peloso, e un po' pelato, l' ho derubricato a flop. Stesso errore con Renato Zero».
E due.
«Mi venne a trovare in ufficio su indicazione di Patty Pravo. Mi trovai davanti un ragazzone vestito di nero, con i capelli lunghi: invece di accomodarsi come tutti, si sedette sulla spalliera di un divano meraviglioso, con i piedi sui cuscini. "Cocco mi vuoi?"».
Finì lì.
«Dopo pochi mesi aveva venduto un milione e mezzo di dischi (suonano al citofono, si alza, va in cucina, prende the freddo, torna e sposta gli oggetti dal tavolo. Casa è piena di ricordi, immagini, ninnoli: vita e carriera lo circondano. Prende una scatola d' argento)».
Cos' è?
«Me l' ha regalata Amir-Abbas Hoveyda, allora primo ministro iraniano, fucilato pochi giorni dopo averlo salutato.
Come mai era lì?
«Organizzavo i concerti, in quell' occasione di Patty Pravo; in Iran ho portato tutti, da Iva Zanicchi a Modugno».
Sempre tutto liscio.
«Mica tanto, con i The Four Kents qualche problemino c' è scappato».
Quanto "ino"?
«Erano quattro ragazzi di colore, enormi, muscolosi. Li mando, dopo una settimana chiamano: "Non ci pagano". "Tranquilli, ci penso io". "Vogliamo i soldi". "Domandateli con molta cortesia"».
Così non è stato...
«Macché, fino a quando l' organizzazione locale li mette in contatto con un piccoletto. Loro non capiscono e rispondono, male. Il piccoletto li ha stessi tutti. A schiaffoni. Mi hanno chiamato quando si sono ripresi: "Aiuto, è arrivato un diavolo!"».
Sembra una barzelletta.
«Un' altra volta sono a Cannes con Sergio Bernardini (proprietario de La Bussola) per il Festival dell' editoria. La sera andiamo al Casinò, con noi un italiano bassino. Arrivano sette inglesi, non ricordo il motivo ma iniziano a discutere con il piccoletto».
Altra rissa.
«Incredibile, da solo li ha distrutti; ma il punto è un altro: nella lotta si era stracciato una manica della giacca, l' avevo raccolta e portata in albergo».
Quindi?
«La mattina dopo scendo nella hall e trovo Bernardini: "Il piccoletto lo hanno ammazzato. Stanno cercando chi ha preso la sua manica". Torno in stanza, chiudo al volo la valigia e via verso l' aeroporto; lì incontro Fred Bongusto, gli spiego il problema, e lui: "Ma che dici? Questa mattina era a colazione con me!"».
Eh?
«Uno scherzo di Sergio.
Si è mai vendicato?
«Ovvio. Organizzo il concerto di Tina Turner a La Bussola, ma il giorno stesso fingiamo una lite e Tina se ne va».
La Turner sua fidanzata.
«Di una simpatia unica; comunque Bernardini viene da me: "Devi recuperarla". Corriamo da lei, mi vede, sta per ridere, io mi preoccupo, invece inizia a urlare e quasi mi picchia. Sergio distrutto se ne va. Alla fine siamo arrivati alla Bussola e mentre lui era sul palco per annunciare il forfait, Tina inizia il concerto».
Bruno Voglino sostiene.
«Chi?
Voglino, ex Rai Tre.
«Grande amico mio. Anche lui vittima di uno scherzo».
Eccoci.
«Partiamo in aereo con Nicola Di Bari. Il giorno prima mi ero messo d' accordo con un mio collaboratore: "Chiama in aeroporto, e fingi un grave problema per Voglino". Così è.Arriva la hostess, gli spiega, lui scende. Noi partiamo».
Insomma, Voglino parla della fragilità dell' artista.
«Penso a Modugno, famoso nel mondo, trent' anni di collaborazione e un' amicizia vera: prima di cantare impazziva, si emozionava, soffriva».
Avete mai discusso?
«Tutti i giorni, ma blandamente; comunque se il teatro era pieno, era merito suo, se era vuoto colpa mia».
Insomma, fragili.
«Tranquillizzarli è un lavoro, faticoso, e dopo un po' di anni non è possibile continuare: oggi non sarei in grado, non ho più quel sistema nervoso».
Basta.
«Tempo fa mi chiama Gino (Paoli) e mi chiede di seguire la Vanoni. Ho retto per poco».
Come mai?
«Un giorno si fa ricoverare dal professor Cassano (psichiatra). Da lì mi chiamava tutte le notti per dirmi: "Perché non mi vieni a trovare?". Ed ero pure sposato da poco».
Risposta?
«"Sono il tuo manager".
Duro ma giusto.
«Una volta uscita la raggiungo in una villa affittata per incidere un album, e trovo la dimora ricoperta di materassi. Con lei c' era Mario Lavezzi».
I materassi?
«Sì, per insonorizzare (ci ripensa). I materassi di casa!»
Con Paoli era legato.
«Insieme abbiamo passato anni veramente belli e intensi».
Condiviso tutto (inizia a ridere).
«Una sera mi dice: "Andiamo da Ornella, si è sposata da poco". Raggiungiamo la villa. "Aspetta, entro un minuto". Quel minuto diventa l' intera notte, ogni tanto citofonavo ma non rispondevano. Ero tra il disperato, il preoccupato e l' incazzato. Alle sei esce dal cancello. "Che scopata"».
Cosa serve nella vita?
«Il culo è fondamentale.
E poi?
«Carattere e simpatia. Anche se suscito pure antipatia. Quando mi hanno assegnato Sanremo scattò una campagna stampa micidiale, passavo da dilettante, mentre avevo otto uffici in Sudamerica, a Los Angeles e a New York».
Alto livello.
«A Los Angeles mi rappresentava Maddalena Mauro, agente di Gina Lollobrigida».
Con la Lollo siete amici?
«Sì, e con me ha guadagnato tanti soldi; quando arrivavamo in Argentina accadeva di tutto: i generali che impazzivano e volevano trombarla».
L' hanno mai fregata?
«In Sudamerica capitava spesso, lo mettevo nel conto, e a me è andata meglio che ad altri: ero l' unico a portare italiani».
Nessuna concorrenza.
«Se qualcuno ci provava, gli bloccavo il mercato».
Solo lei.
«In Sudamerica Nicola Di Bari era una star assoluta, quando atterravamo la televisione trasmetteva in diretta l' evento, al grido: "Arriva il cantante più brutto del mondo ma con la voce più bella del mondo"».
Proprio Nicola Di Bari?
«Quando l' ho preso era completamente finito, talmente finito che l' unica condizione pretesa da lui per firmare il contratto è stata quella di saldare l' affitto di casa».
Niente di che.
«Con me nel 1969 è arrivato secondo a Sanremo e primo nel 1970 e 1971. Poi Canzonissima davanti a Massimo Ranieri».
Tripletta.
«Mi accusarono di imbrogli».
Insomma, Di Bari.
«Prima dell' arrivo di Julio Iglesias veniva considerato un Dio; Billboard gli pubblicò una pagina intera: "È il fenomeno del Centro e Sudamerica". Eppure non scriveva canzoni, l' unica sua è di merda».
Sempre duro ma giusto.
«Ha mai ascoltato Zapponeta?»
No.
«È il nome del suo Paese natale. Prima in classifica in tutto il Sudamerica.
Così brutta?
«Orrenda».
Quindi?
«Non vincevamo più Sanremo, così inventai un escamotage che ci regalò altri sette trionfi: prima del Festival ascoltavo i brani, prendevo i diritti in spagnolo di quei quattro o cinque papabili per la vittoria, traducevo il pezzo e Nicola lo incideva. Il gioco era servito».
Felici gli interpreti originali.
«Una mattina mi chiama Peppino Di Capri, urla: "Cosa stai facendo?". "Non capisco". "Canto un grande pezzo e qui mi dicono che è di Nicola?" Anche Ranieri mi ha evitato per anni».
Hanno parlato di lei come finanziatore dei regimi del Sudamerica.
«Stupidaggine: a quelli i soldi li portavo via, anche infilando i contanti nelle mutande e nei reggiseni della Lollo».
I servizi segreti l' hanno contattata?
«Mai».
Massoneria?
«La odio. Sono il mio contrario mentale. E non avevo tempo da perdere. Tempo è denaro. A 21 anni andavo ogni mercoledì in Venezuela e a Roma avevo già una villa con piscina; un giorno venne mio padre in ufficio, allarmato: "Mi spieghi da dove arrivano i soldi?". Ho tirato fuori i registri».
La sua vera svolta?
«Proprio a 21 anni quando ho conosciuto per caso un agente che cercava star italiane da portare nello show di Renny Ottolina, il Mike Bongiorno del Venezuela. E Con Renny ho lavorato per anni, poi è morto in un misterioso incidente aereo quando ha deciso di candidarsi alla presidenza del suo Paese. Il Sudamerica è così».
Ha mai avuto paura?
«Solo una volta, per colpa di Mal: atterriamo in Venezuela e in aeroporto troviamo duemila persone. Una situazione folle, con le donne che lo aggredivano pur di dargli il numero di telefono; la sera, alla fine dello spettacolo, accade la medesima situazione, ma nel camerino. Mal si scoccia, le caccia, una signora insiste, ed entra di nuovo. Il segretario la solleva e la butta fuori. Errore clamoroso».
Chi era?
«La moglie del colonnello dei servizi segreti. Dopo dieci minuti il proprietario del locale viene da me, pallido, sudato: "Cosa è successo? Sta arrivando l' esercito, porti via Mal". Corro da lui e lo spedisco in albergo, in una stanza differente dalla sua; poco dopo si palesano i militari, in borghese, con il mitra in mano, mi interrogano. Bluffo».
Conclusione?
«Per giorni i servizi mi hanno seguito, Mal nascosto, fino a quando sono riuscito a farlo salire su un aereo».
Ha mai avuto una storia con una delle sue artiste?
«Quasi mai, giusto Tina Turner; però sono stato con Miss Mondo, nonostante fosse la donna di un grosso impresario, uno da aereo privato».
Come ci è riuscito?
«Lui era spesso ubriaco, e se uno beve così poi a letto funziona poco; poi giocava al Casinò: nel frattempo invitavo lei in Italia per dei provini».
Un classico.
«Con le donne ho sempre mantenuto la parola, a volte pagando perché non riuscivo nelle mie intenzioni».
In che senso?
«Fingevo ingaggi, in realtà ero io ad allungare i soldi».
Conta più il potere o i soldi.
«Con il potere arrivi ovunque.
Lei ha il potere?
«Un tempo, oggi con internet è impossibile, tutti possono ingegnarsi, basta un' email spedita da casa».
E Patty Pravo?
«La svolta è arrivata grazie alle foto nude apparse su Playboy, pagate una cifra pazzesca».
Era già molto famosa.
«In quella fase non andava più in televisione, e la casa discografica la obbligava a cantare canzoni francesi pallosissime. Non vendeva. Rovinata. E invece con me ha inciso Pazza idea, e neanche era convinta: "Troppo commerciale"».
Storia con la Pravo?
«C' è un proverbio: "Dove tiri fuori il pane non tirare fuori il pene"».
Mal.
«Potevo lanciarlo sul mercato statunitense, aveva inciso un pezzo entrato in classifica e aveva una serie di concerti a Las Vegas; ha rinunciato al momento di partire: "Non posso, ho paura". "Di cosa?". "Se vado via la mia fidanzatina mi mette le corna"».
Perfetto.
«Alla fine la fidanzatina lo ha tradito e mollato; oggi avrebbe potuto vivere a Beverly Hills. Sta a Pordenone».
Gli artisti e i soldi.
«Alcuni oculati, ma spesso sono una tragedia come Patty (ricca risata). Un giorno fisso un appuntamento con Andy Warhol per parlare di un film da girare. Lei è contenta di conoscerlo, ma quando lui varca la porta di casa, Patty si trincera in un mutismo assoluto. Dopo un'ora termina l'imbarazzo, Warhol va via. Appena esce, la Pravo accende una candela e inizia a correre come una matta per casa: doveva cacciare via gli spiriti cattivi».
L' artista è riconoscente?
«No».
Lei è mai triste?
«Spessissimo».
Le capita di stare solo?
«Molto spesso».
E come si trova?
«Preferisco la compagnia, ma non ci sto male (cambia tono); da pochi anni mi sono reso conto di ciò che ho combinato nella vita, quando ero al top non capivo».
Adrenalina.
«Ho corso proprio tanto, la prima vacanza me la sono concessa a 39 anni. Ora ho passato gli ottanta, è stato un attimo. (Canta Anna Oxa: "La mia vita è questa qua, che un' altra dentro non ci sta")».
· Marracash.
“Mi chiamo Marracash perché mi chiamavano marocchino”. Le Iene il 3 dicembre 2019. Bartolo Fabio Rizzo vi dice qualcosa? È Il King del rap! Perché ha scelto come nome Marracash? “Mi chiamavano marocchino per riconoscermi dagli altri Fabio e per i miei lineamenti del sud”. “Quando ero piccolo avevo la mentalità di rubare qualsiasi cosa”. Il King del rap Marracash si racconta a Le Iene e parla delle sue origini di periferia in un quartiere di case popolari. Risse? “Una rissa, alle medie: avevo tutti i miei amici intorno che mi facevano il tifo”. E gli è capitato anche di prenderle: “Un bello sberlone... e sono dovuto pure stare zitto!”. Ma è vero che è bipolare? “Sì, l'ho capito perché ho dei lunghi momenti di depressione alternati con momenti in cui sono troppo attivo e non riesco a dormire”.
Marracash, il king del rap: “Mi chiamo Fabio e facevo l'elettricista”. Le Iene il 4 dicembre 2019. Ha 40 anni ed è il re del rap italiano. Perché si chiama “Marracash”? “Mi chiamavano marocchino”. Noi gli abbiamo chiesto davvero di tutto e lui non ha saltato una risposta! Abbiamo chiesto davvero di tutto a Marracash, il King del rap. A partire dal suo nome: “Mi chiamavano marocchino per riconoscermi dagli altri Fabio e per i miei lineamenti del sud”. Il suo vero nome infatti è Bartolo Fabio Rizzo, sarà per questo che l’ha cambiato? Ha mai fatto qualche bravata? “Quando ero piccolo avevo la mentalità di rubare qualsiasi cosa, dai motorini ai giubbotti”. Risse? “Una, alle medie: avevo tutti i miei amici intorno che mi facevano il tifo”. Ma gli è capitato anche di prenderle: “Un bello sberlone... e sono dovuto pure stare zitto!”. Ma è vero che è bipolare? “Sì, l'ho capito perché ho dei lunghi momenti di depressione alternati con momenti in cui sono troppo attivo e non riesco a dormire. Ma è una cosa che gestisco”. Adesso tutto bene? “Sì”. Perché fra rapper si litiga tanto? “Perché si tende a dire esplicitamente cosa si pensa”. Come è messo lui a litigate? “Ho litigato con Fedez”, ci racconta. E quando gli chiediamo chi è un collega che gli sta sulla balle, pensa sempre a lui! “Secondo me dovrebbe farsi due domande. E comunque con me ha iniziato lui”. A proposito di litigate, mai ricevuto uno schiaffo da una donna? “Sì”. E dato? “Sì, una volta ho tirato uno schiaffo a una donna, ma in un contesto di parità se tu mi dai uno schiaffo…”. Prima di avere successo come rapper cosa faceva? “Ho fatto l’elettricista e il muratore”. Ora che ha successo, qual è la cosa più costosa che ha comprato? “Un montone da 6mila euro”. Mica male!
Marracash: "Ho avuto problemi mentali anche a causa di una ex". Marracash si racconta prima dell'uscita del nuovo album e parla dei problemi mentali, della depressione e degli attacchi di panico di cui ha sofferto a lungo. Luana Rosato, Mercoledì 30/10/2019, su Il Giornale. Il 31 ottobre prossimo esce il nuovo album di Marracash, “Persona”, a cui il cantante ha lavorato per tre mesi e che definisce un “disco personale” perché “racconto molto di me stesso nella forma e nel sound”. Attraverso questo nuovo lavoro discografico, Marracash, all’anagrafe Fabio Bartolo Rizzo, è riuscito a togliersi la maschera di personaggio e tornare al suo vero io, senza paura di raccontarsi e in grado di parlare dei problemi mentali, degli attacchi di panico e della depressione senza considerarli tabù. Intervistato da FqMagazine, Marracash ha avuto il coraggio di condividere ciò che gli è successo e che accomuna tante persone, note e non. “Nessuno parla del fatto che gli attacchi di panico, i problemi mentali, la depressione riguardino moltissime persone e non solo nel mondo dello spettacolo – ha spiegato - . Non ho problemi a condividere quello che ho passato, perché mi rendo conto che per molti sono una specie di fratello maggiore [...]Viviamo in un mondo pieno di fake news dalla politica ai social, dove ci mostriamo per quello che non siamo. Nel mio caso personale ci sono state tantissime cose che mi hanno portato alla malattia, compreso un rapporto con una mia ex che non era affatto sano. Quindi la mia missione è diventata scrivere di tutto questo”. La vita di Marracash, poi, è cambiata all’improvviso: è passato dall’uccidere “le giornate senza energia addosso”, allo scrivere “in modo febbrile” il nuovo album dopo un lungo percorso personale. “Mi sono riappropriato delle cose che avevo accantonato per far piacere agli altri – ha detto – [...]ho ritrovato per strada la mia autostima e la fiducia in me stesso”. Ma non solo. Nel periodo di rinascita di Marracash, è arrivato anche l’amore che ha il nome di Elodie. “È successo tutto per caso – ha detto l’artista, parlando del singolo Margarita che ha segnato l’incontro con la sua attuale compagna - . L’etichetta mi aveva proposto questo duetto, lo abbiamo inciso e ci siamo conosciuti sul set del video”. “Un incastro di pianeti meraviglioso che ci ha consentito di conoscerci e di non perderci di vista – ha aggiunto - . Ma tutto questo è successo come ultimo step di una serie di piccoli passi verso la rinascita. Era come se il destino mi avesse riservato tutte queste belle sorprese sul mio cammino”.
Rita Vecchio per leggo.it il 31 ottobre 2019. Marracash versus Fabio. O, molto più probabilmente, viceversa? Perché, ascoltando i nuovi brani del suo disco viene davvero il dubbio su chi stia parlando a chi. Quindici tracce dal titolo Persona in uscita il 31 ottobre a tre anni di distanza dal precedente album Santeria. «Una distanza - dice - che è un'era geologica per un rapper». Ogni canzone ha come sottotitolo parti del corpo umano: c'è il cuore, il sangue, lo scheletro, i polmoni, il cazzo, il cervello, i denti, i nervi, la pelle. «Proprio come fosse un avatar - racconta lo stesso Marracash, all'anagrafe Fabio Rizzo - E il disco inizialmente si doveva chiamare proprio così. Poi però il musicista Venerus mi ha suggerito di intitolarlo Persona come il film di Ingmar Bergman del 1966». «È un po' come se Fabio avesse ucciso Marracash, come se la mia identità avesse salutato l'artista che io ho creato, ma che gli altri hanno modellato. È più un disco di Fabio che di Marracash. Mi sono liberato del personaggio». Un concept album, «vero, istintivo, maturo e libero», che «ha preso vita a poco a poco come un Frankenstein». Nove featuring «nati per colmare il talento che non ho e per arricchire i brani», da Mahmood («che ha rivoluzionato la musica e Sanremo»), a Madame, da Cosmo a Coez, Guè Pequeno, Luchè, Massimo Pericolo, Sfera Ebbasta e tha Supreme. Un disco che arriva dopo tre mesi di isolamento da internet e social («chiuso a casa da luglio a settembre»). E sarà che il meglio viene sempre dopo un periodo difficile - come i suoi ultimi tre anni «cupi e tristi», con la fine di «una relazione tossica con una persona complicata» (a cui allude nel brano Crudelia),«ma ora sono sereno, dormo come un bambino» (merito di Elodie, la cantante cui è legato da qualche mese?) - ma è davvero un disco diverso. Del quartiere popolare della Barona, quello in cui è cresciuto dopo che con la famiglia si è trasferito dalla Sicilia a Milano, c'è ben poco. E nei testi scherza e accusa la politica, da Trump a Putin per arrivare all'ignoranza sventolata come bandiera, a Salvini, al sonno della ragione che vota Lega, «perché non posso pensare - spiega - che la gente dimentichi. Mi ricordo quando la Lega andò al potere, la retorica di Bossi con i suoi fallimenti. Di Berlusconi e delle promesse mai mantenute di milioni di posti di lavoro». Rappa di droga, gioca con un nice to meet you e il MeToo, da una parte si definisce come il Cristo morto di Mantegna e da un'altra chiama in causa lo chef stellato Cannavacciuolo. Fino a chiudere con Greta Thunberg (a quattro mani con Cosmo). Tracce ricche. Il brano campionato di Frankie Hi-nrg mc, Quelli che Benpensano per parlare «dell'ipocrisia italiana di nascondere la testa sotto la sabbia», di Un ragazzo di strada, nientemeno che il pezzo del primo 45 giri dei Corvi. Accenni a T'appartengo di Ambra Angiolini dei tempi di Non è la rai («Ambra ancora non l'ha ascoltata»), a Ti Amo di Tozzi. E nomi come Colapesce, Di Martino, Dardast e Charlie Charles. I live in primavera (e sta pensando all'idea della band, visto che nel disco non mancano bassi e sax suonati). E sempre in primavera uscirà il suo libro.
· Rino Barillari.
«Per vivere pescavo i soldi nella Fontana di Trevi». Pubblicato domenica, 25 agosto 2019 da Fabrizio Paladini su Corriere.it. Aveva 14 anni quando arrivò nella Capitale dalla Calabria. Un americano a Roma, ma nato in Calabria. Rino Barillari, 74 anni, due figli ormai grandi, tre nipoti, una moglie sposata da poco, ama nei suoi racconti pittoreschi inserire frasi in un inglese maccheronico proprio come Alberto Sordi alias Nando Meliconi alias Santi Bailor. Per tutti è «The king of paparazzi», ma Rino è anche molto di più e chi ci ha lavorato insieme in tanti anni di cronaca nera, bianca e rosa - prima al Tempo e poi al Messaggero - sa che con lui rischiavi sempre la rissa ma la simpatica canaglia portava sempre a casa la foto.
Chi te lo fa fare, a 74 anni suonati, di passare ancora 18 ore al giorno con la macchina a tracolla?
«Me lo fa fare la gente che ha fiducia in me. Se succede qualcosa in città, bella o brutta che sia, non chiamano i carabinieri o i vigili, chiamano me. Sono una specie di emergency. Loro sanno che io pubblicherò l’ultima schifezza che mi segnalano. E io lo faccio».
Com’è cominciato tutto?
«Avevo un dream. Sono partito dal paesello in Calabria a 14 anni e sono arrivato a Roma. Campavo rubando i soldi nella Fontana di Trevi che buttavano i turisti. Lì c’erano i fotografi che vendevano istantanee ricordo. Ho iniziato facendo lo scattino: un souvenir, datevi un kiss con la fontana alle spalle, e poi la sera gli portavo la foto in albergo».
E via Veneto?
«Quella era Hollywood. Ti dico solo che personaggi italiani come Maurizio Arena, Renato Salvatori o Rossano Brazzi valevano troppo poco rispetto a Mastroianni, Burt Lancaster, Liz Taylor, Onassis e li ignoravamo. Erano anni d’oro. Con la prima macchina comprata a Porta Portese, una Comet, ho fatto Sammy Davis jr e Lola Falana che si baciavano con la lingua. Io ero già un paracul boy e davo l’esclusiva in Italia ai quotidiani e l’esclusiva americana ai settimanali. Io sono smart, e avevo già capito tutto».
Spendevi tanto in macchine?
«Guadagnavo bene ma spendevo. Calcola che di macchine me ne hanno sfasciate 78, tumulti di piazza compresi. Poi ero sempre in giacca, cravatta e camicie stirate. La cravatta, dopo le prime pizze, l’ho sempre portata con l’elastico così non mi strozzavano durante le aggressioni».
Molte aggressioni?
«La prima fu di Romy Schneider, a Fiumicino. Poi Peter O’Toole che becco con Barbara Steele prima all’Harry’s bar e poi all’84. Mi picchia, mi sfascia la macchina e mi ferisce all’orecchio (4 punti di sutura). Per quello lui è stato fermato e mi ha dato un milione, che nel ’64 non era poca roba».
Ospedale?
«Oh yes, 163 volte fino ad oggi. Ma ora ti spiego la strategy, my friend: se uno ti dà una spinta e tu finisci per terra, è una cosa che sai solo tu. Se invece vai al pronto soccorso ci sarà un referto e il poliziotto ti chiede chi è stato. Diventa una notizia che il giorno dopo tutti i giornali hanno. Allora i direttori dei settimanali ti chiedono le foto dell’aggressione e tu fai i soldi e magari chiedi anche il risarcimento».
La foto più pagata?
«Oh, tante. Quelle di Lady D., del Papa, di Liz Taylor. Ma forse quella più absurd è la foto del “figlio segreto di Soraya”. Lei, prima di morire aveva espresso il desiderio di adottare il “figlio segreto”. E dove lo trovo questo? It’s a big problem. Prendo mio figlio bambino al mare, gli sfoco la faccia in modo che nessuno potesse riconoscerlo e mando la foto ai settimanali dicendo: “Secondo le mie fonti questo è il figlio segreto di Soraya”. Abboccano, pubblicano e pagano. Solo che mia suocera, mentre sta dal parrucchiere, sfoglia la rivista e riconosce mio figlio. Non puoi capire il bordello che è successo e io sono stato costretto a dire che c’era stato un errore e che la foto inviata era sbagliata. Ma ormai il danno era fatto».
Ma questa è una truffa…
«Truffa, dai don’t exagerate, è un peccato venial e a quei tempi era tutto different».
La foto più difficile?
«Quelle di cronaca nera. Quando ti travesti da infermiere per entrare negli ospedali o per flashare gli arrestati nei commissariati. O quando nascondevo la micromacchina nel polsino della camicia per fare i parenti del morto. Sembra una cosa brutta ma è lavoro, e la guera è guera».
Paparazzo è un insulto o un titolo di merito?
«The second che hai detto. Io sono fiero di essere un Paparazzo perché è una cosa solo italiana che ci copiano in tutto il mondo. La foto perfetta? È quella di notte col personaggio che cammina e tu gli spari una flashata. È uno shot. Lui rimane colpito, fulminato, accecato. Si nasconde perché non se lo aspetta e ha qualcosa da nascondere. Quella foto è scandal e tu hai fatto centro».
È l’ultimo giorno della tua vita: che foto vorresti fare?
«Papa Francesco in maglietta, pantaloncini e infradito. Devono essere foto rubate, in cui lui è naturale e ancora più bello e umano e quindi ancora più vicino a tutti noi di quando lo vedi vestito di bianco. Faccio questa foto e poi goodbye e see you soon. E poi me la vedo io con San Pietro».
· Marcellino Radogna
«La foto più pagata? Quella della contessa uccisa». Pubblicato domenica, 01 settembre 2019 da Corriere.it. Lo chiamano «Il colonnello» per via dei suoi inconfondibili baffi all’insù. Non come quelli di Salvador Dalì ma più grandi, più spessi. Come quelli di un alto ufficiale prussiano, un conte della Sassonia nato per sbaglio un secolo dopo. Marcellino Radogna lo riconosci da sempre perché da sempre bazzica le redazioni dei giornali. Se vuoi una foto di un evento frequentato da principi e politici, nobildonne e intellettuali, sangue blu e luci rosa, lui ce l’ha perché c’è sempre. E oggi, ogni sera, a 77 anni suonati, è lì con la macchina al collo, irriducibile fotografo di un mondo che va scomparendo.
Come iniziò questo gioco?
«Non avevo voglia di studiare. Avevo 15 anni e il pomeriggio andavo nello studio del fotografo Renato Altobelli a Casamassima, un paesino pugliese dove vivevo. Lo aiutavo e iniziai a capire qualcosa di fotografia, pellicole, ingrandimenti, stampe».
E Roma?
«Arrivai qui nel 1960, in piena Dolce Vita. All’epoca lavoravo allo Specchio e conobbi Olghina de Robilant che aveva una rubrica sul settimanale dedicata ai nobili. Mi chiese di fare le foto e tutto cominciò».
Chi glielo fa fare a 77 anni di scarpinare ancora dal pomeriggio fino a notte fonda?
«Primo la passione, secondo la necessità di mantenere aggiornato il mio archivio. Ho circa quattro milioni di foto tra negativi e stampe e vorrei lasciarlo in eredità a qualche fondazione, a un ente, insomma a qualcuno a cui possa interessare. E quindi cerco di mantenerlo vivo».
Lei è specializzato in nobiltà. Ma non è un po’ decaduta?
«Non è decaduta, è scomparsa, che è cosa differente. Era una bella vita, la mia. Andavo a Cortina, a Montecarlo, a Viareggio, a Venezia. Ero sempre alle feste della principessa Elvira Pallavicini. I nobili mi conoscevano e volevano farsi fotografare solo da me».
Le sarebbe piaciuto essere il conte Radogna.
«Ah, ah…Conte Marcellino Radogna di Torre di Santa Susanna, che era il paesino dove sono nato e dove mio padre carabiniere prestava servizio. Ma no, a parte gli scherzi sa cosa mi diceva il conte Giovanni Nuvoletti, la persona più elegante che abbia mai conosciuto? Marcellino, tu sei un nobile con l’hobby della fotografia».
Nobiltà è sinonimo di eleganza?
«Non sempre. Ho conosciuto tanti nobili che erano dei cialtroni. Però quel mondo lì mi ha sempre affascinato».
La volgarità le dà fastidio?
«Da morire. Oggi tutto è molto più volgare. Una volta, prima di andare a fare le serate ai night o nelle case di principi e duchesse, andavo a teatro. E trovavo sempre Sandro Pertini con l’amico Antonio Maccanico, o Aldo Moro o Enrico Berlinguer che andavano nei camerini a salutare Eduardo De Filippo, Mastroianni, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Renato Rascel. C’era eleganza nel seguire la cultura. La foto di un attore “durava” anni. Di Alberto Sordi anche 20 anni. Oggi uno fa un film e dopo tre mesi scompare, non lo chiede più nessuno».
I suoi baffi sono un vezzo?
«Sì, ci tengo molto. Li alliscio all’insù per farli stare belli tesi. Una volta ci mettevo addirittura la cera. Alberto Sordi voleva che facessi un duca inglese in Fumo di Londra ma io lavoravo nella redazione di Radio anch’io con Gianni Bislacche e non sono potuto andare…»
Lei ci tiene molto ad essere definito un fotografo e non un paparazzo.
«Sì, perché io non sono un paparazzo. Non ho mai fatto una foto di nascosto, rubata. Se uno sta con l’amante o è ubriaco a me non interessa. Io ho sempre fatto foto con il permesso del personaggio».
La foto più bella?
«Un bacio tra Renato Guttuso e Marta Marzotto a piazza Navona. Lui fu così contento che me ne chiese una copia. Passarono un po’ di giorni e gliela stavo preparando ma purtroppo non arrivai in tempo».
La foto con cui ha fatto più soldi?
«Quella della contessa Alberico Filo della Torre, assassinata all’Olgiata nel 1991. Nelle redazioni non c’erano foto sue. Le avevo fatte solo io, pochi giorni prima del delitto, a una festa. Il principe Carlo Giovannelli la convinse: “Guarda che Marcellino è bravo, ti farà bei ritratti”. Lei aveva quel bel vestito di velluto verde e dei bellissimi gioielli. Feci quattro o cinque scatti a colori e altrettanti in bianco e nero. E fu così che quelle foto diventarono preziose».
Un incontro che l’ha emozionata?
«Tanti: Gorbaciov, Lady D., la regina Elisabetta, il Re Umberto in esilio…»
Ma lei, è monarchico?
«Certo che sono monarchico, sono figlio di un carabiniere reale. Ma fotografo pure i repubblicani, senza pregiudizi».
Se ci fosse la monarchia le cose in Italia andrebbero meglio?
«Ma no. Re o Presidente, qui non c’è lavoro, non si fanno più figli e ci sono troppi immigrati».
Roma è cambiata?
«Roma è come i nobili, sta sparendo».
· Giorgio Lotti.
Giorgio Lotti. Il decano dei grandi fotoreporter che hanno fatto «Epoca». «Per ritrarre Paolo VI passai la notte sul pavimento del Santo Sepolcro». E il poeta Ungaretti urlò:«Giorgio, siamo sulla Luna». Pubblicato lunedì, 02 settembre 2019 da Stefano Lorenzetto su Corriere.it. È il decano dei fotoreporter che hanno fatto epoca, e non per modo di dire, perché Epoca, fondata nel 1950 da Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, sul modello di Life e con la consulenza del designer Bruno Munari, segnò davvero quasi mezzo secolo di storia italiana. Gli altri — Walter Bonatti, Sergio Del Grande, Walter Mori, Mario De Biasi — sono morti. Il milanese Giorgio Lotti, 82 anni, condivide il ruolo di superstite con Mauro Galligani, che alla chiusura del settimanale, nel 1997, fu rapito in Cecenia e restò prigioniero per 48 giorni. Da ragazzo si allenava al cinema Da Sesto: «Guardavo i film tre volte: una per la regia, una per la scenografia, una per l’interpretazione. Finché non vedevo in controluce mia madre che veniva a prendermi per un orecchio: “Disgraziato, torni a casa o no?”».
Deve proprio a mamma Maria se è diventato quello che è.
«Mio padre Lodovico se ne andò così giovane che manco mi ricordo più quale età avesse. Toccò a me mantenere la famiglia. “Giorgio, devi occuparti di fotografia”, insisteva mia madre. Alla cinquantesima volta, obbedii. Fu la mia fortuna. La prima Rolleiflex me la regalò lei». Lotti non ha mai smesso di fotografare. A Epoca ha avuto 16 direttori, fra i quali ricorda con nostalgia Nando Sampietro, che lo assunse nel 1964, Vittorio Buttafava e Sandro Mayer. Ma ha lavorato anche per Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Nino Nutrizio e Pietro Radius, perché da apprendista vendeva immagini aIl Mondo, L’Europeo, La Notte, Settimo Giorno, Le Ore («non la rivista porno, eh»). Adesso il suo cruccio sono le 240.000 diapositive conservate nella casa di Varese: «A chi andranno?».
Ricorda il suo primo scatto?
«Un raduno di cani nei giardini di via Palestro, dove oggi c’è la statua di Indro Montanelli. Non dovetti fare molta strada: lavoravo per l’agenzia Giancolombo, che aveva sede nel vicino Palazzo dei Giornali di piazza Cavour. Alla seconda foto ero già in carriera: l’arresto di una madre che aveva ucciso il figlio».
E l’ultimo?
«Doloroso capitolo. “Devi andare a fotografare il presidente”, mi ordinò uno dei boss di Epoca. Ok, prenoto per Roma, risposi. E lui: “Ma no, che hai capito? Il presidente Silvio Berlusconi, non il capo dello Stato”. Lì compresi che finiva l’era dei direttori giornalisti e cominciava quella dei direttori politici».
Che c’era di tanto scandaloso in un servizio posato sul Cavaliere?
«I ritratti di regime non li avevo mai fatti. Appena giunto ad Arcore, cercai di sottrarmi all’incarico con una scusa: presidente, prima che lo sappia da altri, devo dirle che sono comunista. “Chissenefrega, caro Lotti, lei è bravo”, fu la replica. Lo seguii per quattro mesi. Le mie immagini finirono non so come su Paris Match e Stern. Cominciai a ricevere minacce di morte. Il matrimonio andò a rotoli e si guastò il rapporto con le mie due figlie. Non le vedo da 25 anni».
Suvvia, per così poco?
«Passare per ritrattista ufficiale di Berlusconi mi attirò un mare di odio. Mi credevano prezzolato. Venivo da esperienze totalmente diverse: Brigitte Bardot a Cortina, Sophia Loren nel suo letto, i Beatles, re Umberto nell’esilio di Cascais, il terremoto in Friuli nel 1976».Il disastro del Vajont nel 1963.«Otto chilometri a piedi fra le macerie. Brandelli di cadaveri ovunque. A ogni passo mi dicevo: no, Giorgio, non li puoi fotografare. Finché in quella desolazione apparve un prete con la stola viola sulle spalle, che impartì la benedizione alle salme infagottate in coperte di lana. Ecco lo scatto che rispettava la pietà». Paolo VI in Terrasanta nel 1964.«Il primo papa a viaggiare in aereo e fuori dall’Italia. Epoca mandò De Biasi, Del Grande e me per uscire con 64 pagine di foto. Ci crede se le dico che laggiù non c’incrociammo mai? Passai la notte sul pavimento nella basilica del Santo Sepolcro per essere certo di non mancare l’inquadratura giusta l’indomani».
L’alluvione di Firenze nel 1966.
«Il direttore aveva inviato De Biasi e Del Grande. Presi due giorni di ferie e andai per conto mio. Giunto al Ponte Vecchio, scoprii che i colleghi non erano riusciti ad arrivare. Le uniche immagini del primo giorno furono le mie».
I funerali di padre Pio nel 1968.
«Fotografai la salma. Ma alla redazione consegnai solo scatti dei fedeli in lacrime. Anche qui, una forma di rispetto».
Giuseppe Ungaretti nel 1969.
«L’avevo conosciuto nella villa di Arnoldo Mondadori, a Meina, sul lago Maggiore. La notte della missione Apollo 11 lo invitai in un albergo di Roma, dove avevo allestito una camera buia con tre televisori. Nell’attesa, a cena, mi declamò le sue poesie. E quando Neil Armstrong posò il piede, immortalai il suo impeto di gioia mentre con i pugni chiusi esclamava: “Giorgio, siamo sulla Luna!”».
Zhou Enlai nel 1973.
«Una volta ammesso nel Palazzo del Popolo di Pechino, scoprii che lo potevo ritrarre solo su fondo nero, con il profilo rivolto a sinistra: doveva guardare verso il futuro. D’improvviso un collaboratore gli chiese qualcosa e il primo ministro cinese si girò per una frazione di secondo in quella direzione. È diventata la foto più stampata al mondo, oltre 100 milioni di copie».
Eugenio Montale in lacrime nel 1975.
«Ero nel suo studio quando squillò il telefono. Mi allontanai per discrezione, continuando a scattare. Il poeta cambiò espressione. Si coprì gli occhi con le mani. Pensai a una brutta notizia. Invece gli avevano annunciato che aveva vinto il premio Nobel per la letteratura».
Yasser Arafat con la pistola.
«Ancor oggi ignoro in quale località lo fotografai. A Tunisi fui caricato su un elicottero e bendato. Il viaggio proseguì in auto, con due pistole puntate alle tempie. Arrivammo in una villa. Il leader dell’Olp mi chiese: “È vero che mi farà una foto come quella di Zhou Enlai?”. Lo ripresi mentre si fasciava la crapa pelata con la kefiah. Una guardia del corpo, che teneva due bombe a mano nel cinturone, si complimentò perché le mie figlie erano state promosse a scuola. Sulla famiglia Lotti i servizi segreti palestinesi ne sapevano più di me».
Vittorio Gassman mentre si trucca da Otello al teatro Duse di Bologna.
«Mi confessò che a 67 anni avrebbe voluto essere candidato al premio Strega. E si lamentò perché il Padreterno ci concede una sola vita anziché due».
I Rolling Stones in concerto a Torino.
«Trentasette gradi. Mick Jagger tirò una secchiata d’acqua sugli spettatori accaldati. Per quella foto mi donò una giacca con le note musicali ricamate. Me la rubarono in albergo mentre seguivo un congresso del Pci a Rimini».
Ha mai sbagliato una foto?
«Dalle diapositive del sisma in Irpinia spedite a Epoca dimenticai di togliere la scena di una vittima sepolta dai detriti. Misero in pagina proprio quella. Non me lo sono mai perdonato».
L’art director fece il suo mestiere.
«Oggi pur di vincere il premio Pulitzer si pubblicano scatti ignobili. Una sera ero a casa di un grande poeta italiano, di cui per delicatezza taccio il nome. Lavorava al lume di otto candele appoggiate su un vassoio d’argento e scriveva con la stilografica su una carta speciale. Arrivarono due miei colleghi. Illuminarono la stanza con fari come quelli di Cinecittà e gli ordinarono: “Professore, deve sdraiarsi sul suo scrittoio, come se fosse un letto”. Lui obbedì. Avevo le lacrime agli occhi».
Il collega che ricorda con più affetto? «Walter Bonatti. Lo accompagnai in tutte le sue scalate, 40 chili in spalla: Grandes Jorasses, Eiger, Grand Capucin, Bianco. “Posa i piedi dove li metto io”, mi guidava. Era di un’onestà cristallina. Rifiutò di diventare testimonial. “Non voglio rendermi ridicolo”, diceva. Una volta fui spedito fra i cercatori d’oro dell’Alaska e lui mi diede l’indirizzo di un prete francese di Dawson City che mi portò da quelli con le pepite più grosse. I fotografi di Epoca erano fratelli, non rivali. Formavamo una famiglia».
Lei è l’unico ad avere riunito per un ritratto Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari.
«Un omaggio al grande giornalismo e a Biagi, che mi aprì le porte della rivista. Mi mandò da un radiologo di Alessandria malato di tumore per colpa dei raggi X. Viveva nella penombra. Per rispetto non usai il flash. Ho sempre pensato che una buona foto valga più di una bella foto».
Altri tempi.
«Allora con i direttori parlavi ogni giorno. I servizi da 16 pagine in parte me li finanziavo. Nel 1970 andai a Venezia per una settimana, a mie spese. Nacque così il reportage sulla morte della città lagunare, con il cartello “Pericolo caduta angeli” davanti alla basilica della Salute, che ispirò il titolo del libro di John Berendt. Non volevo essere bravo, ma sentirmi utile. Un piacere impagabile».
Ha coltivato altri interessi nella vita?
«Il teatro. Paolo Grassi nel 1974 mi consegnò una busta: “Aprila”. Era un permesso d’ingresso perenne alla Scala. Ho passato lì dentro 536 serate. Carla Fracci e Luciana Savignano mi facevano entrare in camerino, ho visto il loro seno. Sapevano di potersi fidare».
Chi ha ucciso «Life» ed «Epoca»?
«Life non so. Quella di Epoca fu un’eutanasia decisa in un vertice dalle parti di via Montenapoleone. Me lo confessò un presidente della Mondadori. Avevamo raggiunto una tale qualità che le altre testate, per inseguirci, dovevano spendere cifre folli. E infatti oggi i giornali rigurgitano di foto orribili pagate 5 euro».
· Giovanni Ciacci.
Anticipazione stampa da “Oggi” il 2 ottobre 2019. In un’intervista a OGGI, in edicola da domani, lo stylist e conduttore tv Giovanni Ciacci, ora è in onda ogni giorno con Vite da copertina su Tv8 di Sky, accanto a Elenoire Casalegno, respinge l’accusa di aver sottratto un abito di proprietà della Rai nel 2013 e spiega: «Se ho sbagliato a non richiedere la bolla d’accompagnamento alla Rai, sono disposto ad assumermi le mie colpe, ma accusarmi di ricettazione è folle». Ciacci ripercorre l’intera vicenda dell’abito cucino dalla sartoria della Rai di Napoli per Mariangela Melato come copia di un analogo modello fornito dalla Maison Gattinoni: «Dalla maison di moda romana qualche tempo dopo mi ricontattarono per dirmi che stavano facendo una mostra sugli abiti delle dive della tv e avrebbero voluto avere il vestito della Melato per esporlo, visto che comunque si trattava di un modello disegnato da loro. Una volta chiesto il permesso alla Rai (e considerato che comunque la mostra era patrocinata da Rai Com) chiesi il vestito alle persone che erano lì con me a Napoli. L’abito mi fu consegnato in presenza proprio della Melato e del suo autista, e insieme lo portammo a Roma per la mostra… Non ho mai badato alla bolla di accompagnamento. Non so se c’era o se non c’era. Non è il mio lavoro: io facevo il costumista, e mica avevo accesso alle pertinenze Rai, qualcuno deve avermelo pur dato, quel vestito. Fu esposto e finita la mostra l’abito venne mandato in custodia a mia sorella, che è in società con me». Ciacci nega di averci mai tratto un guadagno: «I miei soldi si possono controllare, sia come entrate che come uscite. Io credo nella giustizia, so che le autorità competenti dimostreranno la mia innocenza».
· Beppe Convertini.
Alberto Dandolo per Dagospia il 9 giugno 2019. "Venendo qui in moto ho rivolto una preghiera a Gesù", ha cinguettato Beppe Convertini alla conferenza stampa di presentazione del daytime estivo di Rai1. In realtà, la preghiera di ringraziamento avrebbe dovuto rivolgerla a Rocco Casalino. L'attore per mancanza di ciak sarà alla conduzione de ‘’La Vita in Diretta Estate’’: "Il mio garbo, il mio sorriso e la mia esperienza possano dare quel tocco in più. Oggi è un giorno bellissimo per me, forse il più bello della mia vita". Non abbiamo motivo di dubitare, visto il suo curriculum giornalistico. Le conduzioni estive Rai, quest’anno, hanno creato più scalpore della mancate nozze di Pamelona Prati. Perfino l'ad Salini – per la serie “senti chi parla!” - ha provato a far cadere la colpa degli "impresentabili" sulla direttrice di Rai1 Teresa De Santis invitando a valorizzare le risorse interne: ma non è stato proprio Salini a far assumere gli esterni Matassino (direttore generale) e Giannotti (direttore della comunicazione)? Ma soprattutto, senza troppi giri di parole, tutti si chiedono: come ha fatto il bel fusto Convertini a raggiungere il blasonato incarico? L'amministratore delegato conosce bene, essendo in quota 5 stelle, due nomi di peso: Vincenzo Spadafora e Rocco Casalino, amici del bell'attore. Ma chi è e soprattutto chi si crede di essere Beppone Convertini? Rewind. Giovane di belle speranza arriva nella città meneghina con pochi soldi e tanta ambizione. La sua bellezza non sfugge allo stilista Alviero Martini che lo introduce nei giri che contano all'ombra della Madonnina. E' qui che Lele Mora, pur non concupendolo, si accorge del suo potenziale mediatico e sforna un calendario a tinte soap con quella che veniva definita pubblicamente la sua fidanzata: Sara Ricci, sua collega di set nella telenovela ‘’Vivere’’. La sua carriera procede tra alti e bassi, fatta soprattutto di inaugurazioni e serate, avendo come punto di riferimento umano un giovane e prestante tenore, amico di Paolo Limiti, che gli aprirà poi le porte nei salotti della Rai che contavano. In questi anni il suo unico e vero cardine umano, oltre alla storica amicizia con il direttore di ‘’Nuovo’’ Riccardo Signoretti, è Rocco Casalino, ai tempi lontano dai riflettori della politica. Amicizia vera e profonda ma soprattutto pubblica. Memorabili le loro ospitate nelle cafonalissime serate delle dame milanesi e delle mejo discoteche di Milano Est. La loro complicità è rimasta intatta in tutti questi anni come la tinta del ciuffo di Cristiano Malgioglio. Qualche anno dopo incontra grazie a ‘’Terre des Hommes’’, fondazione internazionale che tutela i diritti dei minori nel mondo, Vincenzo Spadafora, ai tempi Garante per l'infanzia, con il quale intrattiene rapporti amichevoli ma formali. E' il tempo a fornire la svolta: esplodono le carriere politiche di Rocco, attuale portavoce della presidenza del Consiglio, e di Vincenzo, sottosegretario a Palazzo Chigi. Signori e signore la vita (in diretta o mano) è servita.
Beppe Convertini è gay? Spunta l’ex fidanzato, lui replica: “L’amore non discrimina”. Anna Montesano per Il Sussidiario.net l'1 settembre 2019. Beppe Convertini è tra gli attori più apprezzati del panorama italiano e, al momento, il pubblico lo ritrova anche nelle vesti di conduttore ne "La Vita in Diretta Estate". Tuttavia torna al centro del gossip per questioni di carattere diverso dal lavoro. Si parla della vita privata del conduttore e del fatto che possa essere gay. Gossip che nasce da una lettera, recentemente spolverata da Dagospia, che risale a qualche anno fa ed è stata scritta da un uomo che si definisce “ex fidanzato” di Convertini. Lui è Giovanni Cavaretta, cantante lirico che scrisse una lettera, poi pubblicata da Gay.it, in cui ammetteva: “Sono l’ex da qualche giorno di Beppe.” Poi continuava “Mi chiedevo chi ha dispensato il permesso o addirittura commissionato le foto con la sig. Vento su un presunto flirt tra i due.” Lo sfogo di Giovanni Cavaretta a Gay.it concludeva così: “Sia pure gossip ma un portale come il vostro non dovrebbe farsi “strumentalizzare”!!! Ritengo tali foto un’offesa alla mia persona e al pubblico raggirato inutilmente.” Una vicenda, questa del presunto ex fidanzato, che torna attuale oggi visto che Beppe Convertini ha rilasciato un’intervista al settimanale Diva e Donna, nella quale ha toccato anche questo delicato argomento. Di fronte alla domanda in merito al presunto ex fidanzato e ai loro 5 anni insieme, l’attore e conduttore ha risposto: “Di questo non voglio parlare. Posso solo dirti che l’amore non distingue, non discrimina, insegue le sue leggi”.
“BEPPE CONVERTINI È GAY. STA CON ME DA 5 ANNI”. Gay.it 25 luglio 2008. È sempre circondato da ragazze. Al mare sono in topless, in città mano nella mano. Si vede che c’è una qualche affinità tra Beppe Convertini (ch tra l’altro vinse il concorso "Il più bello d’Italia") e il sesso femminile. Tanto che il portale Excite ha pubblicato di recente alcune foto sue in compagnia di questa o quella. Le ultime due ragazze "pizzicate" in compagnia di Convertini e oggetto di un’ampia fotogallery pubblicata dal portale online sono, nello specifico, Rosy Dilettuso e la sorella di Flavia Vento, Sabina. Sarebbe stato il servizio fotografico che ritrae proprio quest’ultima in compagnia dell’attore romano a far andare su tutte le furie il compagno di Convertini. Sì, avete letto bene. Giovanni Cavaretta, che nella vita fa il cantante lirico, ha scritto una lettera di protesta recapitata direttamente al portale Excite nella quale afferma di essere fidanzato con il protagonista della soap "Vivere" da ben 5 anni. «Sono l’ex da qualche giorno di Beppe. Mi chiedevo chi ha dispensato il permesso o addirittura commissionato le foto con la sig. Vento su un presunto flirt tra i due. Sia pure gossip ma un portale come il vostro non dovrebbe farsi "strumentalizzare"!!! Ritengo tali foto un’offesa alla mia persona e al pubblico raggirato inutilmente.» Il tenore poi aggiunge: «Posseggo altrettanto materiale smentitore e che fino a questa sera il Convertini mi si dichiara "innamorato"! Pertanto chiederei ravvisi ed eventuali scuse nonchè di bannare le sopracitate foto. Per quanto riguarda Beppe Convertini e il sottoscritto, la nostra relazione dura da quasi cinque anni». Insieme alla lettera, nella busta, c’erano quindi anche alcune foto che dimostrerebbero la "profonda" amicizia tra Convertini e Cavaretta. Insomma, le prove fotografiche dimostrerebbero che è tutto vero, a patto di una smentita di Beppe Convertini che, ad oggi, non è ancora arrivata.
BIOGRAFIA – da Wikipedia. Inizia la propria carriera nello spettacolo nel 1987, partecipando per due edizioni al Festival della Valle D'Itria a Martina Franca, sua città natale, che lascia dopo la maturità per studiare all'Università di Torino, vincendo una borsa di studio, alla facoltà di Economia e Commercio.
Nel 1989 contemporaneamente agli studi universitari, intraprende la carriera di modello, calcando le passerelle dei più grandi stilisti, a Milano, Parigi, New York, diventando testimonial di vari marchi nazionali ed internazionali. Successivamente partecipa in alcune produzioni televisive, radiofoniche, teatrali e cinematografiche.
Nel 1994 debutta sul grande schermo con il film Belle al bar di Alessandro Benvenuti, con Eva Robin's, ed in TV con il Festivalbar su Italia 1, con Amadeus e Federica Panicucci.
L'anno successivo conduce lo spazio giovani della trasmissione Canzone d'autore di Rai Uno. Debutta a teatro nel, Il passerotto, con Leopoldo Mastelloni, al teatro antico di Taormina, palcoscenico che lo vedrà, negli anni a venire, protagonista come conduttore di festival.
Nella seconda metà degli anni novanta è inviato del programma, Chi c'è... c'è, su Rete 4 condotto da Silvana Giacobini. Ottiene una parte nel film, Il cielo in una stanza di Carlo Vanzina con Ricky Tognazzi ed Elio Germano.
Dal 22 ottobre 2000 interpreta il ruolo di Giulio Stocchi nella soap opera di Canale 5, Vivere, che lo terrà impegnato fino al 2003.
Nel 2004 è il protagonista del film Il fidanzato ideale, diretto da Claudio Bozzatello e distribuito dalla Eagle Pictures. Nell'estate 2004 conduce Estate sul 2 su Rai 2 con Maria Teresa Ruta.
Nel 2006 conduce, su Rai Radio 2, il programma radiofonico Gente della notte.
Successivamente, nel 2010. parteciperà alla Festival del Cinema di Venezia con il film fuori concorso, Secondo tempo, e, nel 2012, al Festival del cinema di Taormina con il film Baci salati. Sempre nel 2012, lavora nella fiction Fratelli detective, diretta da Rossella Izzo, con Enrico Brignano, in onda su Canale 5. In tournée teatrale per due stagioni con lo spettacolo, Sex in the City, di Luca Biglione, dove interpreta il ruolo di Mr Big. A teatro ritorna nel ruolo di Chuck nella piece teatrale Off per la regia di Enrico Maria Lamanna. Debutta alla regia nel 2012 con lo spettacolo teatrale Ars Amandi, musiche, parole ed immagini d'amore in tournée nei musei italiani. Quest'ultimo lavoro lo impegna come autore, attore, regista e produttore: il successo di Ars Amandi continua anche nel 2013 con un secondo anno di tournée, dove ai musei e lungo la penisola, si aggiungono svariati teatri. Dal 2012 al 2014 partecipa al programma Brave ragazze su Rai Radio 2, ed in seguito lo si vede impegnato nel programma radiofonico Che ci faccio qui, sempre su Rai Radio 2.
Nell'estate del 2014 partecipa al Festival di Todi con la pièce teatrale "Vico Sirene" per la regia di Enrico M. Lamanna con Massimiliano Gallo. ll 19 dicembre 2013 inaugura al Palazzo Ducale di Martina Franca la sua mostra Un girotondo di Pace...sulla via di Damasco, racconto video fotografico della sua missione umanitaria nel campo profughi Siriano ad Aarsal nell'autunno 2013.Nel Marzo 2014 la sua mostra video fotografica sarà al Mad Zone a Roma.
Nel 2015 interpreta, nel ruolo di Franco, la fiction in onda su Canale 5, "Le 3 rose di Eva 3", per la regia di Raffaele Mertes con Anna Safroncik, Luca Ward e Roberto Farnesi. Nel 2015, ricopre il ruolo di Antonino nel film, Io che amo solo te, regia di Marco Ponti, prodotto dalla IIF, con la collaborazione di Rai Cinema, con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti, Michele Placido, Luciana Littizzetto, Maria Pia Calzone.
Nel 2016, interpreta il ruolo di Lorenzo nella serie televisiva, "Non dirlo al mio capo", per la regia di Giulio Manfredonia, prodotta da Lux Vide per Rai 1, con Vanessa Incontrada.
Nel 2017 è sul set della commedia cinematografica "Un figlio a tutti costi", regia di Fabio Gravina con Maurizio Mattioli, Roberta Garzia, Ivano Marescotti nel ruolo di Nettuno Tritone e del thriller "Le grida del silenzio", per la regia di A.Sasha Carlesi nel quale interpreta Maurizio, con Alice Bellagamba e Manuela Zero. Conduce nello stesso anno il programma "L'Italia in vetrina", talk show trasmesso su Sky. Convertini è testimonial della campagna, Indifesa, di Terre Des Hommes, in difesa delle bambine schiave domestiche, contro lo sfruttamento e la violenza sulle minori in Italia e nel mondo. Nel Marzo 2014 la sua mostra video fotografica "Un girotondo di pace...sulla via di Damasco" che racconta la sua missione umanitaria in un campo profughi Siriano ad Aarsal è stata in mostra al Palazzo Ducale di Martina Franca e al Mad Zone a Roma.
Testimonial delle edizioni 2010- 2012-2014-2016-2018 del Convivio mostra mercato di beneficenza e del Convivio 2014 a favore di Anlaids, svoltosi a Milano nel giugno 2014. Nel luglio 2017 parte per una nuova missione umanitaria, come volontario di Terre Des Hommes, al centro profughi Siriano a Zarqa, in Giordania il cui racconto video fotografico diventa una mostra ' SI RIAccendono i colori della PACE' inaugurata al Palazzo Ducale di Martina Franca quindi a Roma al Palazzo Doria Pamphili dal 14 al 21 maggio 2018 alla Milano Art Gallery nel capoluogo Lombardo..
Nel giugno 2018 parte per una missione umanitaria per Terre Des Hommes nelle baraccopoli della Birmania che viene raccontata dalla mostra video fotografica ‘La loro vita non e’un gioco’ a Palazzo Lombardia a Milano e a seguire al Palazzo Ducale di Martina Franca!
Dal 17 giugno 2019 conduce La vita in diretta Estate su Rai 1 insieme a Lisa Marzoli.
· Vieni avanti, Savoia: Emanuele Filiberto.
Vieni avanti, Savoia: Emanuele Filiberto nella scuola di Amici Celebrities. Le gesta trascurabili del principe, che dopo un secondo posto a Sanremo torna a brandire il microfono come concorrente del talent. Pronto ad affidare le sue sorti al volere del popolo. Che mai come in questo caso sarà sovrano. Beattrice Dondi il 09 settembre 2019 su L'Espresso. Giusto per mettere le cose in chiaro, le colpe dei padri, e figuriamoci quelle dei nonni, non devono ricadere sui figli. Tanto Emanuele Filiberto Umberto Reza Ciro René Maria di Savoia detto principe basta abbastanza a se stesso. Dotato di naturale empatia verso i poveri e ostinato portatore di sangue blu, il discendente della casa reale riesce a infondere quel brio tipico della Svizzera, Paese che lo ha visto crescere. Dopo varie quanto trascurabili esperienze di studio, uno spot per le olive e un matrimonio, ha deciso di gettare le sue nobili membra nel mondo dello spettacolo, trovando un’accoglienza degna del suo rango. Quando ancora la Costituzione gli vietava l’ingresso nel suolo italico in quanto discendente maschio di Casa Savoia, pensò bene di buttare giù il testo di una canzone per decantare il suo amore patrio. Con la quale partecipò a Sanremo in compagnia di Pupo e del tenore Canonici. Microfono alla mano, il principino intonò, si fa per dire, gli immortali versi: “Io sento battere più forte, il cuore di un’Italia sola, che oggi più serenamente, si specchia in tutta la sua storia”. Il risultato fu travolgente. Grazie al televoto arrivò al secondo posto e il direttore d’orchestra per protesta gettò gli spartiti sul palco. Il successo non si arrestò al punto che, narrano le cronache, una volta terminato il festival, il brano venne letteralmente ignorato dalle radio. Ma senza perdersi d’animo, forte dello scettro di miglior danzatore conferitogli direttamente dalle mani laccate di Milly Carlucci ebbe l’ardire di saltellare qua e là dalla politica al piccolo schermo passando per la notte del poker. Il movimento da lui fondato “Valori e Futuro con Emanuele Filiberto” raggiunse il peggior risultato della circoscrizione estera “Europa”, diventando l’ultimo partito in assoluto per preferenze, ma quando si presentò alle Europee del 2009 nelle file dell’Unione di Centro riuscì di buon grado a non essere eletto. In tv invece ha regalato i volteggi delle stelle, con e senza ghiaccio, e una presenza nell’indimenticabile format “Il Principiante - Il lavoro nobilita” in cui, come la saga dei Puffi, indossava gli inusuali abiti dell’operaio per dimostrare che anche i reali hanno un cuore dedito all’abnegazione. Oggi è pronto per una nuova avventura nella versione Celebrities degli Amici di Queen (guarda un po’) De Filippi dove potrà gorgheggiare delle fughe in re. Ma ogni riferimento a persone e parenti è del tutto casuale. E pazienza se da anni insinua il dubbio che il referendum del ’46 sia stato manomesso: seguendo il modello Rousseau si affiderà corpo e voce al giudizio del popolo. Che mai come in questo caso sarà sovrano.
Gli influencer dello spettacolo & Company. Kim Kardashian, Chiara Biasi, Chiara Ferragni e Fedez, Giulia De Lellis, Greta Menchi, Valentina Pivati.
SOGNATE UNA CARRIERA DA INFLUENCER? Tiffany Hsu per Nytimes.com il 19 giugno 2019. Il bacio tra Bella Hadid e Miquela Sousa voluto in uno spot di Calvin Klein del mese scorso, ha colpito molti spettatori che lo hanno trovato offensivo. La top model si identifica come eterosessuale e lo spot ha suscitato le lagne di chi ha accusato Calvin Klein di ingannare i clienti con un finto bacio lesbo. Alla fine il marchio è stato costretto a scusarsi, ma quello che appare essere sfuggito ai tanti, non è scappato all’occhio attento di chi si occupa di pubblicità. Hadid, almeno, è umana. Tutto ciò che riguarda Sousa, meglio conosciuta come Lil Miquela, è un artificio: la frangia dritta, l’origine brasiliana-spagnola, lo stuolo di bellissimi amici. Lil Miquela, che ha 1,6 milioni di follower su Instagram, è un personaggio generato da un computer. Approdata sui social nel 2016 e costruita al pc da una compagnia di Los Angeles sostenuta dai soldi della Silicon Valley, appartiene a un gruppo crescente di social media marketer noti come influencer virtuali. Ogni mese, più di 80.000 persone ascoltano le canzoni di Lil Miquela su Spotify. Ha lavorato con il marchio di moda italiano Prada, ha rilasciato interviste a Coachella e ha sfoggiato un tatuaggio “realizzato” da un artista che ha tatuato Miley Cyrus. Fino all'anno scorso, quando i suoi creatori hanno orchestrato una trovata pubblicitaria per ri